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«Un saggio Einaudi. ¨L’esperienza dell’architettura" si pone, per Henry Plummer, come un discrimine di libertà, al di là dei meri dati funzionali». il manifesto, 8 gennaio 2017 (c.m.c.)

Se pensiamo al concetto di «paesaggio», a tutta prima non troviamo niente di inaspettato. Un orizzonte scolpito da colline e cipressi, un’area urbana segnata da strade e grattacieli, la cima di una montagna che svetta su un cielo terso e rarefatto: ognuno di questi panorami può essere goduto senza troppi sforzi, quasi fosse un bel quadro che aspetta solo di essere contemplato. Qualcosa, dunque, d’indipendente dalle nostre volontà ed esperienza.

A ben vedere, però, le cose non stanno esattamente così. A dircelo era già stato Simmel con il suo Filosofia del paesaggio del 1913. Per il pensatore tedesco, il paesaggio è un’invenzione prettamente moderna. Non un elemento fattuale legato all’oggettività della natura, bensì un prodotto storico-culturale della nostra società. Infatti, «la creazione del paesaggio richiedeva una lacerazione rispetto al sentimento unitario della natura universale». Quel sentimento unitario era rappresentato dalla nozione greca di kosmos, in cui l’individuo non poteva concepirsi se non come parte di un tutto organico e onnicompresivo, in cui natura e cultura rappresentavano due facce della stessa medaglia.

Con l’inizio dell’età moderna, quest’unità venne a mancare e l’uomo cominciò a percepirsi come un soggetto posto di fronte a un oggetto, in una relazione oppositiva e problematica. Da questa lacerazione, ecco nascere i primi paesaggi della storia: piccoli spiragli di senso in cui l’antica unità viene ripristinata, in cui l’uomo coglie attivamente l’origine comune di soggetto e oggetto, il nesso vitale che tiene insieme io e non-io. Per Simmel, dunque, il paesaggio non è solo questione «geografica», ma anche, e soprattutto, dinamica interna al sentire umano, costruzione dello spirito e della sensibilità umani.

In alternativa a Hegel

Utilizzando la medesima chiave di lettura, ci si può interrogare anche sul significato dell’architettura. Come già faceva notare Hegel, all’elemento spirituale dell’arte, l’architettura potrebbe tutt’al più solo «accennare». Infatti, la sua peculiarità sarebbe quella di rispondere a esigenze materiali di tipo funzionale e utilitaristico: se comparata alla pittura o alla poesia, essa risulta più distante dall’uomo, quasi facesse parte di quella natura che la modernità ha posto in opposizione alla coscienza individuale del soggetto.

Il corposo saggio di Henry Plummer L’esperienza dell’architettura (Einaudi, pp. 290, euro 42,00) tende a ribaltare questa linea interpretativa. Come il paesaggio non è solo una questione geografico-naturalistica, così l’architettura non è unicamente un esercizio di virtuosismo ingegneristico, bensì un ponte gettato fra il mondo e i più intimi desideri dell’uomo.

Come premessa generale, bisogna subito dire che per Plummer, riprendendo un’affermazione del teologo Tillich, «l’uomo diventa pienamente umano nel momento della decisione». In primo luogo, ciò significa che l’azione viene prima del pensiero: solo agendo l’individuo può formarsi una coscienza e realizzarsi in quanto tale. Già nell’introduzione, Plummer si rifà a Sartre e Arendt quando afferma che «la libertà non è qualcosa che ereditiamo o possediamo, ma emerge solo nel momento in cui è agita e sperimentata».

Dunque, l’architettura ha, o dovrebbe avere, il compito di offrire soluzioni motorie sempre nuove e differenti, per dare la possibilità all’uomo di autodeterminarsi liberamente. Al contrario, troppo spesso le scelte architettoniche contemporanee sono figlie di una logica piatta e a senso unico: quella fondata sull’efficienza. Il loro obiettivo è eliminare il rischio e l’incertezza, permettendo a ogni individuo di sapere fin da subito quale sarà l’esito delle proprie azioni.

Plummer rivendica invece l’apertura a possibilità plurime, l’ebbrezza collegata a una scelta rischiosa non garantita da alcuna autorità che non sia la propria coscienza personale, il ruolo pedagogico di un’architettura che invita all’azzardo e alla sperimentazione. Così, in un viaggio che tocca esperienze molto diverse fra loro, Plummer colleziona le opere di quegli architetti che incoraggiano «le attitudini degli esseri umani ad agire nello spazio».

L’esperienza dell’architettura presenta «quattro tipi base di azione spaziale», a cui fanno riferimento altrettanti capitoli. Il primo, intitolato «Piani di agilità», ha a che fare con il suolo e, nel testo, è rappresentato iconicamente dall’opera Il funambolo di Klee. Quella tratteggiata da Plummer, infatti, potrebbe essere definita «un’acrobatica dell’architettura»: il suolo è la «fonte primaria di opportunità» per esercitare «le facoltà di equilibrio e di agilità». Scale, balaustre, soppalchi: ognuno di questi elementi può stimolare una risposta motoria creativa, dove l’uomo si destreggia per superare gli ostacoli e incrementare la fiducia in se stesso.

Fra le molte opere analizzate dall’autore, spicca quella di Carlo Scarpa. In alcuni suoi lavori, come per esempio la Fondazione Querini Stampalia a Venezia, Plummer identifica lo sforzo di incentivare il senso di responsabilità, proponendo piani di mobilità non routinaria, dove scale, anfratti e pavimenti possono essere percorsi ogni volta in modo diverso.

Nel secondo capitolo, «Meccanismi di trasformazione», risuona potentemente una citazione di Schiller: «L’uomo gioca solo quando è uomo nel pieno senso della parola ed è completamente uomo solo quando gioca». Questo vale anche per l’architettura e in particolare per gli elementi cinetici degli edifici, come porte, maniglie, finestre o cancelli. Laddove l’uomo si trovi a manipolare questi dispositivi gli si deve concedere un margine di improvvisazione e incertezza. Egli deve poter giocare, cercare soluzioni inaspettate e riscoprirsi come forza energetica che è in grado di cambiare il mondo. Se l’oggetto non possiede alcuna componente ludica, l’azione umana si sminuisce e regredisce al ruolo di automazione volta a garantire un risultato meramente efficiente.

Il caso di Lloyd Wright

Con «Spazi di versatilità», Plummer introduce uno dei concetti base dell’architettura: il principio di indeterminatezza. Per salvaguardare la libertà d’azione, bisogna assicurarsi che il possibile non sia contratto in modo troppo rigido sul reale; per lasciare un margine decisionale alle persone bisogna progettare spazi polivalenti che permettano «diverse opzioni piacevoli nello stesso volume». Qui i riferimenti principali sono le piazze di città italiane come Roma e Siena e le opere di Wright. Per Plummer, le strutture di ampia grandezza devono poter essere interpretate in modi sempre diversi, così che ogni individuo si senta parte di una collettività e, allo stesso tempo, autonomo per quel che riguarda le sue scelte personali.

Infine, gli ultimi due capitoli «Profondità della scoperta» e «Campi di azione» ripropongono la tesi generale che sta alla base dell’intero volume. L’architettura può essere il ponte fra la libertà dell’uomo e il mondo, può accrescere o restringere quella libertà, può offrire la possibilità dell’esperienza o soffocarla sul nascere. Perché secondo Plummer di questo si tratta, di una questione che in fondo è anche politica. Infatti, se le azioni dell’uomo vengono costrette in binari sempre uguali e ripetitivi, in mosse automatiche e poco personalizzate, il risultato sarà che di quelle stesse azioni l’individuo si sentirà meno responsabile.

Al contrario, se uno spazio polivalente garantisce diverse possibilità di azione tutte ugualmente gratificanti, ognuno sarà incentivato a esplorare e scegliere in modo autonomo il proprio destino e sarà messo nella condizione più favorevole per riconoscere la piena responsabilità dei propri atti.

«La spesa nel sociale, è appesa al filo del ciclo edilizio, e questo è un dato preoccupante -dice Paolo Pileri, nel libro “Che cosa c’è sotto”,che affronta le problematiche legate al suolo». Altreconomia online, 30 dicembre 2016 (c.m.c.)

Gli “oneri di urbanizzazione” rappresentano per molti enti locali una cifra consistente delle entrate, fino al 20 per cento. Ma così -spiega il professor Paolo Pileri- è difficile immaginare di fermare il consumo di suolo favorendo il recupero del patrimonio o di aree dismesse. Il record ad Arese, con il 20,9%.

Nel 2014, oltre un quinto delle entrate messe a bilancio del Comune di Arrese, nell’hinterland di Milano, è arrivato dai “permessi a costruire”. Ciò significa che il 20,9% di tutta la spesa pubblica, compresa quella per garantire servizi ai cittadini (dagli asili alla mensa) è dipesa, cioè, dal contributo corrisposto all’ente dai soggetti che hanno realizzato interventi sul territorio.

Sono cinque, tutti medio-piccoli, i Comuni italiani che -nello stesso anno- hanno visto dipendere oltre il 15% del proprio bilancio dal “ciclo dell’edilizia”: secondo i dati di OpenBilanci, progetto di OpenPolis, oltre ad Arrese anche Locate di Triulzi (MI, 20,8%), Lainate (MI, 17,9%), Ozzano nell’Emilia (BO, 16,8%) e Corte Franca (BS, 15,6%). Poco più sotto stanno Noventa di Piave (VE, 14,3%), Segrate (MI, 13,5%), Trezzo sull’Adda (MI, 13,4%), Santorso (VI, 13,4%) e Cermenate (CO, 12,2%).

«Questi dati evidenziano che in alcuni casi un settimo o addirittura un quinto della ‘vita dei Comuni’, compresa la spesa nel sociale, è appesa al filo del ciclo edilizio, e questo è un dato preoccupante -dice Paolo Pileri, che insegna al Politecnico di Milano e per Altreconomia ha scritto “Che cosa c’è sotto”, il libro che affronta le problematiche legate al suolo-. Se anche volessimo suggerire a Regioni e Stato di spingere l’acceleratore sul ‘recupero’ del patrimonio edilizio già esistente e delle aree dismesse, attraverso sconti e incentivi (ovvero riducendo a zero le entrate pubbliche relative alle imposte che si potrebbero richiedere per quelle attività edilizie), i Comuni avrebbero davanti a loro scenari di mancati incassi preoccupanti a fronte dei quali non ricevono nulla in cambio».

Secondo Pileri, da un’analisi dei dati -il Comune che ha incassato di più in termini assoluti nel 2014 è quello di Roma, con oltre 120 milioni di euro, mentre se si guarda al dato pro-capite il primo Comune italiano è Forte dei Marmi, in Versilia, con introiti pari a 375 euro per ognuno dei 7.679 abitanti- emerge «un quadro ‘sbandato’, dove non si rintracciano relazioni tra popolosità e raccolta di denari attraverso i permessi a costruire». Un tema che Pileri segnala già nel suo libro, spiegando che tra il 1999 e il 2007 un Comune tra i 500 e i 1.000 abitanti ha consumato -in media- quasi 5.000 m2 per dare casa ad un nuovo abitante, mentre lo stesso abitante consumava 660 m2 se veniva insediato in un Comune tra i 10mila e 20mila abitanti.

Guardando ai bilanci dei Comuni, inoltre, appare evidente una carenza per quanto riguarda la raccolta della base di dati: «I numeri divulgati da OpenBilanci andrebbero approfonditi cercando di capire alcuni elementi chiave, come ad esempio l’origine delle entrate da permessi a costruire e la destinazione delle risorse e la consapevolezza che hanno i cittadini del comportamento dei loro governanti». Secondo Pileri, in particolare, gli enti locali dovrebbero essere invitati a suddividere i proventi tra permessi a costruire che arrivano da consumi di suolo libero o da ristrutturazioni/recuperi/cambi di destinazione d’uso; sarebbe inoltre importante che i bilanci comunali rendessero esplicito come gli enti hanno speso i soldi, se in investimenti strutturali o in spesa corrente.

Nel caso di Arese e Lainate, due dei tre Comuni sul podio nel 2014, è facile immaginare che i grandi introiti siano legati agli interventi di “riqualificazione” realizzati nell’area ex Alfa Romeo, dov’è stato costruito -e inaugurato nell’aprile del 2016- il centro commerciale più grande d’Europa, con una superficie di circa 120mila m2. Anche se si tratta di un recupero, chi si occupa di urbanistica considera anche la problematicità di altri elementi, come quelli legati al traffico indotto (“Arese, in troppi al centro commerciale dei record: chiude lo svincolo A8, autostrada in tilt, con 10 chilometri di coda”, milano.repubblica.it).

«Questi elementi fanno la differenza -sottolinea Pileri-, mentre oggi Regioni e Stato si trovano in mano una base di dati poverissima, e mi chiedo come possano prendere decisioni tali da modificare il corso delle cose», come ad esempio quella contenuta nella legge di Stabilità del 2017, che prevede che dal 1° gennaio 2018 i Comuni non potranno più coprire le propri spese correnti con gli incassi dei permessi a costruire, i cosiddetti “oneri di urbanizzazione”. Sempre che il governo che sarà in carica il prossimo autunno non posticipi o cancelli questa misura.

Il libro Fuori raccordo. Abitare l’altra Roma è il frutto di un gruppo di lavoro interdisciplinare e prova a mettere al centro il punto di vista dell’abitare, inteso come casa e abitazione e come organizzazione spaziale e temporale nella vita di ogni giorno, come forma di appropriazione dei territori. comune-info, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

1. Quale Roma?

Roma ha attraversato profonde trasformazioni, che in questi anni stanno emergendo con forza. Non è più, ormai da molto tempo, una città focalizzata sul suo centro storico circondato da una periferia più o meno consolidata.

È una città-territorio che si estende per un’area molto vasta e molto articolata al suo interno, dove le persone vivono senza riferirsi (soltanto) al suo centro consolidato, più o meno ampio […]. I fattori nuovi sono diversi: il carattere integrato di tutti questi territori pur diversi tra loro; la vastità e la progressiva estensione (ormai ampiamente a carattere sovraregionale); il carattere di «territorio abitato», anche in quelli che possono sembrare «interstizi» o in quelli che una volta erano ambiti agricoli o inutilizzati (a tutto discapito peraltro dell’agro romano); una moltiplicazione e un’articolazione delle disuguaglianze; una diversa organizzazione spaziale che comporta anche una diversa organizzazione di vita degli abitanti (e quindi una trasformazione di ciò che intendiamo per «urbano»); di conseguenza, un cambiamento antropologico nei modi di abitare. E questo già a partire dalla fascia del Gra. Quando parliamo di territori circostanti, infatti, ci riferiamo non solo a quelli esterni al comune di Roma, ma anche a quelli «extra Gra».

L’obiettivo della ricerca è stato proprio quello di raccontare l’abitare e i suoi cambiamenti. L’idea forte di partenza del libro è l’assunzione di un altro punto di vista, quello degli abitanti, attraverso lo studio e la narrazione delle pratiche dell’abitare e dei fenomeni urbani connessi, per dare una restituzione complessa dei processi e dei fenomeni, e da lì ripensare le politiche e un progetto di convivenza. […]

2. Una ricerca sull’abitare.

Il libro intende documentare queste profonde trasformazioni, e intende farlo attraverso il punto di vista dell’abitare, inteso non solo come casa e abitazione, ma anche come organizzazione spaziale e temporale nella vita quotidiana, come forma di appropriazione dei luoghi, come interpretazione del mondo di significati che caratterizzano i territori. Attraverso questa lettura più vitale e più vissuta, si vuole fornire un’immagine più complessa della città. […]. Il libro è quindi l’esito del lavoro di tre anni di ricerca di un gruppo di lavoro interdisciplinare, composto da urbanisti, sociologi e antropologi […]

3. I territori romani nei grandi processi globali.

I territori romani sono inseriti in grandi processi globali di trasformazione dell’economia, della società e dell’urbano, che a Roma vengono poi declinati con proprie specificità.

Roma città globale?

[…] Non si può negare che Roma sia, a modo suo, una città globale, inserita in una rete di flussi di beni e servizi, economici e finanziari, di migrazioni, energetici ecc. di carattere fortemente internazionale. […] Roma, come noto, è più capitali insieme, che caratterizzano il suo diverso modo di essere «città globale». Oltre a essere capitale politica d’Italia, con tutti i pro e i contro di questo ruolo, è anche la capitale di un altro Stato, il Vaticano, e più in generale è la capitale della cristianità, nonché luogo di riferimento per molte fedi, destinazione di imponenti flussi religiosi e di eventi spesso fortemente caratterizzati dal punto di vista mediatico. È poi una capitale culturale, nella misura in cui detiene un patrimonio archeologico e storico-artistico unico al mondo, capace di attrarre notevoli flussi turistici (che si sommano a quelli del turismo religioso), imponenti rispetto alla popolazione residente (38 milioni di visitatori l’anno).

A fronte di questo suo carattere internazionale, si deve registrare una carenza se non una mancanza sia di politiche internazionali sia di politiche mirate all’internazionalizzazione (D’albergo – Lefèvre 2007) che rivelano una forte debolezza «strutturale» in questo campo. Infine, è un crocevia internazionale di importanti flussi migratori. Roma non è mai stata considerata una città industriale e alcune politiche dello Stato centrale storicamente hanno teso a evitare un eventuale sviluppo in questo senso. Nonostante ciò, quasi come una contraddizione, Roma è diventata la seconda città industriale d’Italia (dopo Milano) per numero di occupati. Si tratta, soprattutto, di piccola e media impresa; di un tessuto debole e diffuso, spesso dipendente dal mercato locale piuttosto che destinato all’esportazione.

Urbanizzazione globale e trasformazioni dell’urbano

Anche le trasformazioni che caratterizzano Roma, come vedremo successivamente nel dettaglio, si collocano dentro un processo globale di trasformazione dell’urbano, così come evidenziato da molti ricercatori (Brenner 2014; Schmid 2014) riprendendo peraltro le riflessioni sviluppate da Lefebvre ne La rivoluzione urbana già molti anni fa (1974).

Oggi rientrano nel processo di «urbanizzazione globale» (extendend urbanization), ovvero in quel processo complessivo di estensione dell’urbano sull’intero globo terrestre, attraverso le sue diverse forme: le reti infrastrutturali e di trasporto e i flussi di merci e persone; l’estrazione di risorse (e quindi di ricchezza) da tutti i territori, compresi quelli apparentemente più naturali (trasformando il pianeta in una grande miniera); la diffusione degli inquinanti e dei rifiuti (trasformando, d’altra parte, il pianeta in una estesa discarica); la diffusione dei sistemi insediativi urbani (e non solo delle città, per come le abbiamo conosciute storicamente) in maniera estensiva; ma soprattutto la diffusione planetaria dei modelli di vita e delle forme organizzative urbane (anche al di là della diffusione della «società dell’informazione» e delle reti immateriali). il cambiamento è quindi più forte nella dimensione sociale e culturale, più ancora che in quella dello stesso assetto insediativo. Ed è questo che caratterizza anche il vasto territorio abitato della città-regione romana.

Non si tratta solo di una regionalizzazione dello sviluppo insediativo (che è già di per sé rilevante), ma di una trasformazione dell’urbano, del modo stesso cioè di vivere la città. Ne è un caso emblematico la recente notizia che Amazon, la grande multinazionale dell’e-commerce, collocherà la sua nuova sede per il centro-sud italia nell’area industriale di Passo Corese, a ridosso di un grande snodo autostradale. […]

La periferizzazione del mondo
Lo sviluppo urbano di Roma è stato fortemente caratterizzato, dal dopoguerra a oggi, dalla crescita delle sue periferie, sia quelle pianificate che quelle abusive che quelle prodotte dalla speculazione. Sebbene la dicotomia centro-periferia non sia più valida in senso stretto, permane una condizione di «perifericità» (e quindi di «marginalità») di molti territori della città di Roma. La periferia è la parte prevalente della città; si potrebbe dire che «Roma è la sua periferia». […] Più che diminuire, la disuguaglianza sociale è invece cresciuta a Roma, come in altre città. […]

Tra Nord e Sud del mondo
Roma si colloca a cavallo tra Nord globale e Sud globale, un mix particolare che determina alcuni fattori fortemente caratterizzanti, dalla debolezza istituzionale e dell’interesse «pubblico» alla precarietà e difficoltà del sistema economico locale e alla rilevante informalità, che spesso ne fa una «città fai-da-te». […]. In particolare, intorno al tema dell’auto-organizzazione e dell’informalità si è concentrata molta attenzione, anche a livello internazionale. Roma e il suo territorio, infatti, offrono da questo punto di vista parecchi esempi, anche molto diffusi sul territorio (sebbene spesso non particolarmente visibili).

L’interesse internazionale è legato alla possibilità di ripensare le stesse forme di governo urbano o di gestione di alcune situazioni urbane (e persino di azioni realizzative), dalla gestione delle aree verdi al cohousing e al coworking, dal recupero di aree e immobili dismessi o abbandonati alla gestione degli spazi pubblici e dei servizi collettivi, dal problema della casa agli orti urbani, attraverso un maggiore coinvolgimento dei cittadini/abitanti, attraverso le loro forme organizzative e associative, siano esse formali o informali. Roma e il suo territorio sono sicuramente un laboratorio di esperienze e iniziative molto interessanti da questo punto di vista, sebbene non vi sia sempre un’intenzionalità e non vi siano politiche pubbliche realmente indirizzate in questo senso.

Anzi, molto spesso le iniziative di auto-organizzazione sono sollecitate dall’assenza dell’amministrazione pubblica o dalla mancanza di politiche pubbliche. Siamo quindi di fronte a esperienze molto diverse tra loro, alcune molto discutibili e che pongono diversi problemi (pensiamo alla rischiosa deriva dei consorzi di autorecupero nelle aree ex abusive), altre di grande interesse, che costituiscono una punta avanzata e potenzialmente un’opportunità, dove pratiche e processi di auto-organizzazione sono anche pratiche e processi di riappropriazione e di risignificazione dei luoghi, dove sono messe in gioco le capacità creative e progettuali degli abitanti, le dinamiche della cura e della responsabilizzazione, una gestione non economicista dei beni comuni.

4. Le specificità del territorio metropolitano.

Una polarità sovraregionale e gli effetti sulla vita quotidiana

Oltre a essere una città di riferimento a livello nazionale e internazionale, Roma continua a rappresentare una polarità estremamente forte a livello locale e regionale, costruendo un vasto territorio circostante di dipendenza. In particolare, costituisce un polo attrattore per tutta l’Italia centrale (e, in parte, anche rispetto all’Italia meridionale), per quanto riguarda l’occupazione, il sistema di opportunità, i servizi, in particolare quelli sanitari (…); le polarità commerciali (parchi commerciali, centri commerciali di grandi dimensioni, outlet ecc.); le polarità del tempo libero e del loisir; le università […]

Il territorio investito dallo sviluppo e la «periferizzazione»

L’area investita dallo sviluppo insediativo si accresce enormemente. Il vasto territorio «metropolitano» romano è prima di tutto un’estensione di Roma ed è il modo con cui Roma si è proiettata verso l’esterno, è la città che deborda oltre i confini tradizionali e storicamente costituiti della città consolidata. Questo è dovuto essenzialmente a due fattori. In primo luogo, la vastità del comune di Roma. Si tratta, come noto, del comune più esteso d’Italia, la cui superficie (pari a 1287,36 kmq) è paragonabile alla superficie della provincia di Milano. I grandi fenomeni insediativi si sviluppano e si sono storicamente sviluppati al suo interno. In secondo luogo, l’espansione insediativa e il grado di attrazione della città non hanno paragoni nei territori circostanti e determinano una fortissima preminenza e dominanza della capitale. […]

Vi è poi, come anticipato, una stretta correlazione con l’andamento spaziale del mercato immobiliare e del reddito. Il costo della casa a Roma è stato elevatissimo in passato (prima della crisi del 2008), ma è rimasto a livelli molto alti anche dopo la crisi […]

Il processo di «periferizzazione» dei territori, cui si accennava precedentemente, connesso al processo di diffusione urbana in corso, non fa quindi distinzioni sociali: si spostano all’esterno del territorio comunale di Roma tutte le categorie sociali, anche se con motivazioni diverse. Piuttosto si generano «confini interni» tra i diversi territori; sono questi a marcare le disuguaglianze sociali, piuttosto che una stretta gerarchia centro-periferica (che pure, in parte, sussiste ancora).

Si determinano quindi spesso situazioni di mescolanza urbana e sociale, come quelle che caratterizzano l’area di Roma est e i comuni limitrofi, Guidonia, fonte Nuova, Tivoli (si veda il contributo di Elena Maranghi, infra, pp. 95-109). In questi contesti sembra generarsi un fenomeno di mixité sociale, ma in realtà si tratta di una giustapposizione di situazioni che non dialogano tra loro: complessi residenziali esclusivi all’interno di campi da golf, aree residenziali abusive, poli tecnologici, aree industriali, aree agricole intercluse, quartieri residenziali ordinari, attrezzature di servizio anche di livello sovralocale, la «città del gioco» (poli del gioco d’azzardo di livello metropolitano), campi rom.

Conflitti e disuguaglianze

Allo stesso tempo si generano notevoli conflitti soprattutto di carattere ambientale (d’albergo – Moini 2011). […] Le diseguaglianze territoriali determinano forti e nuove conflittualità, sia tra il centro e la periferia (ovvero tra il comune di Roma e alcuni territori contermini), sia all’interno dei territori stessi: 1) conflitti intorno ai temi ambientali (ad esempio, la localizzazione delle nuove discariche o degli inceneritori); 2) conflitti intorno all’inadeguatezza dei servizi (ad esempio, il grande problema dei pendolari, o i conflitti connessi alla chiusura degli ospedali e dei servizi sanitari delocalizzati sui territori, in forza di una politica incentrata sul taglio del welfare e sull’accentramento e la specializzazione dei poli della sanità); 3) conflitti tra residenti più storici e nuove popolazioni, ovvero intorno a questioni di identità.

Allo stesso tempo, nascono forme nuove di auto-organizzazione o di collaborazione tra istituzioni e cittadini (in alcuni casi, grazie anche alla cooperazione con le amministrazioni comunali locali; ad esempio, nella gestione degli spazi verdi o dei problemi sociali), come risposta delle popolazioni investite dallo sviluppo alle nuove situazioni che si sono create. Particolarmente rilevante il fenomeno dei Gas (Gruppi di acquisto solidale) e delle «economie a chilometro zero», che esprimono lo sforzo di ricostruire una più stretta relazione tra produttori e consumatori e tra aree urbane e territori contermini, favorendo il recupero o la riattivazione (se non addirittura il nuovo impianto) di attività produttive soprattutto nel settore primario, così caratterizzante nel passato il contesto romano.

5. Processi di urbanizzazione: una stratificazione insediativa e un policentrismo problematico.

[…] All’interno del solo comune di Roma circa un terzo del tessuto urbano residenziale è di origine abusiva e una percentuale analoga della popolazione vive in aree nate come abusive (cellamare 2013e). Si tratta di valori particolarmente eclatanti per una capitale di un paese occidentale (compreso tra i G8). […] Sono processi non più legati all’emergenza abitativa; si tratta piuttosto di abusivismo di convenienza se non di carattere speculativo, che mira a realizzare residenze di qualità al di fuori del mercato formale, creandone di fatto uno parallelo.

Altri fenomeni hanno invece carattere innovativo: – il grande sviluppo di alcune polarità, connesse anche alla politica delle «centralità» sostenuta con il nuovo Prg di Roma del 2008 […]; – Lo sviluppo di alcune «città nuove», spesso senza alcuna connessione con la città consolidata. […]; – Lo sviluppo, anche nei territori contermini, di agglomerati insediativi senza alcuna relazione coi centri storici o consolidati e connessi piuttosto alle grandi infrastrutture autostradali e ferroviarie, spesso a ridosso dei caselli autostradali o delle stazioni ferroviarie […]; – Ancora più emblematico è lo sviluppo della cosiddetta «città del Gra» (…), l’evoluzione del Grande raccordo anulare da confine tra città (consolidata) e campagna a grande boulevard urbano, asse strutturante (e attrattore) dello sviluppo insediativo (…). […], – Una riorganizzazione delle gerarchie urbane, in relazione in particolare ai servizi, nei territori contermini, con situazioni diversificate [….]; – Una rinnovata attenzione ai territori agricoli periurbani e alle aree naturali e, in particolare, ai parchi che sono progressivamente attorniati dallo sviluppo insediativo […]

6. Una mutazione antropologica, un modo diverso di abitare.
Insieme all’assetto spaziale dei territori, cambiano anche i fenomeni socio-spaziali stessi. Questo cambiamento è riscontrabile in relazione, ad esempio, ad alcuni aspetti principali:

– i comportamenti sociali causati dai nuovi assetti territoriali o i cambiamenti nell’organizzazione di vita degli abitanti: pensiamo al ruolo che il loisir e il tempo libero hanno assunto nell’organizzazione di vita degli abitanti; o ai tempi di spostamento che si è disposti a sostenere […];

– le relazioni che evolvono nei confronti della città di Roma: molte ragioni alla base degli spostamenti hanno come riferimenti luoghi e attività distribuiti sul territorio esteso romano e non collocati all’interno della città consolidata; molti poli attrattivi collocati all’esterno della città tradizionale e consolidata – e non solo del centro storico – determinano un cambiamento dell’orientamento dei flussi

– ovvero dall’interno verso l’esterno; cambia il riconoscimento dei valori e della significatività dei luoghi; si invertono i flussi – anche se limitatamente – anche da Roma verso l’esterno non solo per funzioni e attività particolari come avviene per la costa (e le relative attività turistiche e del tempo libero), ma anche per le attività ordinarie e quotidiane;

– le relazioni che gli abitanti hanno con i propri contesti di vita. Ad esempio, la residenza (come attività sociale complessa) è sempre più avulsa dal territorio (in termini spaziali e localizzativi) in cui si colloca. Molte attività (compresa la scuola) si svolgono altrove, ovvero in territori che non appartengono allo spazio di azione quotidiana. […]

7. Il locale come risorsa.

Nel gioco tra distanze, allontanamenti e ricerca di autonomia da parte dei territori locali, e vicinanze e inglobamenti, spesso anche soffocanti, da parte dell’area urbana centrale, si creano nei territori, oltre che conflitti, anche dinamiche di nuovo radicamento. Quest’ultimo, sebbene in molti casi di non grande portata, si affianca a un radicamento «primario», in cui le popolazioni locali residenti da lungo tempo continuano a difendere la propria identità locale. Questi processi possono avere un carattere «subalterno», ovvero di minore portata rispetto alla fondamentale dipendenza nella quotidianità da Roma, e di «seconda generazione», ovvero interessare la nuova popolazione arrivata.

I nuovi abitanti possono recuperare, in alcuni casi, identità locali preesistenti e ormai superate, ma di cui rimangono gli immaginari, facendo propri comportamenti della popolazione autoctona (le sagre, una finta popolanità, le feste tradizionali e/o in costume ecc.). In altri casi, invece, il nuovo radicamento della popolazione che si sposta nei territori esterni può costituire l’esito di una scelta intenzionale e di valore per una differente qualità della vita o semplicemente l’effetto di una quotidianità, che per esempio le famiglie giovani costruiscono attraverso la scuola dei figli o i servizi locali.

Tutti questi sembrano sintomi dell’attivazione (o riattivazione) di un processo di ricostruzione di relazioni con il contesto locale, pur se i processi generali hanno un carattere di prevalente estraniazione e gli abitanti vivono una molteplicità di relazioni anche extraterritoriali. Si possono quindi riconoscere nei territori locali forme di riappropriazione e di autogestione e anche un protagonismo sociale che è forse anche una risposta alla generale mancanza di governo e di progettualità.

8. L’assenza della politica.

Il dibattito sull’«area metropolitana» romana degli anni ottanta e novanta era stato in gran parte inconcludente, pervaso com’era di retoriche e privo di rapporti con i processi reali che avvenivano sui territori. La ripresa del dibattito negli ultimi anni sulla «città metropolitana» e su «Roma capitale», che sta portando a una profonda riorganizzazione – più amministrativa che istituzionale –, ha il medesimo carattere inconcludente e retorico. […]

9. Roma «fuori Raccordo».

La ricerca di cui si dà conto in questo libro si è sviluppata, come detto, a diversi livelli. Per comprendere le dinamiche reali in atto si è ritenuto opportuno e necessario «andare sul campo», sviluppare cioè attività di ricerca che interessassero direttamente i territori, attraverso sia studi indiretti che studi diretti sul campo, utilizzando un approccio interdisciplinare […] Il presente volume non avrebbe senso se non avesse l’obiettivo di sollecitare un dibattito sulla città, sull’area metropolitana e sulle sue prospettive. Un dibattito che si prefigura in maniera più esplicita nell’ultima parte del libro […].

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Fuori raccordo. Abitare l’altra Roma (edito da Donzelli) raccoglie saggi di: Giovanni Attili, Alessandro Balducci, Antonella Carrano, Giovanni Caudo, Carlo Cellamare, Pierluigi Cervelli, Alessandro Coppola, Ernesto d’Albergo, Alessandro Lanzetta, Maria Immacolata Macioti, Elena Maranghi, Giulio Moini, Francesco Montillo, Valerio Muscella, Dorotea Papa, Lidia Piccioni, Barbara Pizzo, Monica Postiglione, Irene Ranaldi, Enzo Scandurra, Federico Scarpelli, Nicola Vazzoler.

«La storia straordinaria di Italo Ferraro, che da trent’anni, armato di matita, lavora a un atlante completo della città. Atlante della città storica che ora si arricchisce del decimo tomo, dedicato a Posillipo». La Repubblica, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

La scoperta di un chiostrino quattrocentesco provocò in Italo Ferraro una sensazione di euforia. Euforia che non sembra abituale in lui, almeno da come sommessamente è arredato il suo studio d’architetto, tre stanze ricavate in cima a una scala un po’ arruffate, con il soffitto basso e dove ci si muove a stento.

Tutti davano il chiostrino per distrutto durante i lavori del Risanamento che a fine Ottocento sventrarono il centro antico di Napoli. Lui non si fidava di un’accreditata letteratura e calandosi in un locale caldaia da una finestra dell’ospedaledell’Annunziata, se lo trovò davanti agli occhi. Poi ne seguì il tracciato in un negozio lì a fianco dove i proprietari ne avevano incorniciato i reperti. Ed ecco che, un pezzo per volta, il chiostrino riprese forma nel rilievo che Ferraro tracciò su un quaderno. Un disegno minuto, millimetrico.

È così che Italo Ferraro, professore in pensione di progettazione architettonica, procedendo edificio per edificio, isolato per isolato, quartiere per quartiere, va componendo un mastodontico atlante di Napoli, una mappa che aspira alla totalità di quel che si è costruito nei secoli, antico e moderno, bello e brutto, sontuoso e sberciato, frutto d’ingegno progettuale e di sfacciata speculazione.

«Senza pregiudizi », aggiunge, «perché la città respinge i pregiudizi e Napoli più di ogni altra non è responsabile di quel che le hanno fatto. Nessuna città è un oggetto perfetto e la bellezza la scopro ovunque, non è mai del tutto sopraffatta».

Ferraro, settantacinque anni, quaranta passati a insegnare, un paio di baffi ben pettinati, volge lo sguardo allo scaffale di fronte dove si allineano i nove volumi fin qui pubblicati di Napoli. Atlante della città storica che ora si arricchisce del decimo tomo, dedicato a Posillipo. Li osserva, li avvolge con il fumo di una sigaretta e li accarezza con la sua molle e colta parlata napoletana. Ogni volume è intitolato a una zona della città — i Quartieri Spagnoli, dallo Spirito Santo a Materdei, Stella, Vergini e Sanità, Chiaia, il Vomero… -, conta settecento pagine, misura 30 centimetri per 24, pesa quattro chili e costa 200 euro.

Lo schema si ripete. I tomi sono composti di saggi storici (non solo suoi, anche di illustri colleghi: Gaetana Cantone, Attilio Belli, Benedetto Gravagnuolo…) seguiti dalle mappe dei piani terra e dai prospetti delle facciate di tutti, ma proprio tutti, i palazzi, i monumenti, le chiese, i monasteri, gli edifici pubblici, gli stabilimenti, ai quali sono dedicate corpose schede, arredate di foto, antiche vedute e cartografie.

Il rilievo e la mappatura vanno avanti da trent’anni e sono frutto anche del lavoro dei tanti studenti dei corsi di Ferraro. La parte sul centro storico è stata utilissima quando, negli anni Novanta, si è avviato il piano regolatore della città che ha introdotto una stringente tutela. Dal 2003 è iniziata la pubblicazione dei libri, che hanno avuto cadenza regolare, grazie al finanziamento della Società Metropolitana di Napoli e al sostegno del Premio Napoli quando a dirigerlo erano Ermanno Rea e poi Silvio Perrella.

Questi dieci volumi sono un unicum. Ferraro assicura che non c’è nulla di simile per nessun’altra città, ma «Napoli è Napoli, conserva strato su strato i tempi delle sue trasformazioni e ognuno può sperimentare le vie del centro antico come alcune migliaia di anni fa. Nulla si perde della cultura materiale delle prime epoche». All’inizio dell’impresa, Ferraro voleva limitarsi al centro storico. Poi, con i suoi collaboratori (i cui nomi ricorrono in ognuno dei volumi), ha verificato che molta storia figura nelle zone dell’espansione novecentesca, per cui «a Posillipo non c’è grande edificio che non sia costruito su un altro edificio: Napoli è cresciuta su sé stessa, persino quando sembrava spingersi oltre i confini». E così quando uscirà l’undicesimo volume su Fuorigrotta, quasi tutto il territorio comunale sarà coperto da questa imponente, minuziosa cartografia, che nella cura del dettaglio conserva qualcosa di giocoso.

Ferraro disegna e scrive a mano. I fogli che custodiscono la sua ordinata calligrafia sono sul bordo della scrivania, impilati a blocchetto. Ha già uno schema di quel che farà. Vuol mappare i quartieri periferici di Secondigliano, Barra e Ponticelli, quelli dell’edilizia popolare, delle Vele (che nel frattempo saranno abbattute). «Il secondo Novecento non è solo la cronaca di un massacro, basta guardare le opere di un architetto come Luigi Cosenza, dallo stabilimento Olivetti a Pozzuoli fino a villa Savarese a Posillipo ». Dopo essersi spinto a Scampia, deciso a sottrarre lo stigma famigerato che l’opprime, Ferraro rimetterà mano ai primi volumi. Ha scovato all’Archivio di Stato le carte di contenziosi giudiziari che permettono di meglio dettagliare i particolari di diversi edifici. I proprietari sono evocati maniacalmente, sfilano signori e poveracci, prelati e badesse, geografia e storia s’incrociano perché non sfugga neanche un’inezia topografica.

Ferraro è nato al rione Sanità, il quartiere che mescola i mattoni e il tufo del suolo, gli sfarzosi palazzi Sanfelice e dello Spagnuolo, le catacombe paleocristiane e le cittadelle conventuali. Nel romanzo postumo di Rea, Nostalgia, Ferraro compare con uno dei volumi come guida del narratore nei percorsi dentro il rione dove «il ricordo dei morti si trasformava in una sorta di ossessione collettiva, in una forma di religiosità venata di pagana follia».

La storia della città non finisce mai di condizionare il presente. Ferraro aveva svolto lo stesso ruolo in un precedente romanzo di Rea, Napoli Ferrovia. Ma alla Sanità il presente parla della violenza camorrista fronteggiata dai ragazzi delle cooperative riunite intorno alla Basilica di Santa Maria della Sanità e al suo parroco, don Antonio Loffredo. «Non me la sento di dire che l’Atlante contribuisca al riscatto di quello come di altri quartieri di Napoli», confessa Ferraro, «m’interessa però mettere le cose in chiaro. Io giro per la Sanità e attuo tutti i mezzi per stanarne la bellezza. Purtroppo gli stereotipi sono troppo forti, a partire da quello che ci descrive come un paradiso abitato da diavoli, il più falso di tutti».

«La città devastata dal consumismo e dal costruire dissennato è un'immagine che si è sovrapposta all'insieme costruito. Assistiamo così alla perdita della polis, alla perdita dello spazio pubblico come segno dell'armonia».casa della cultura milano, 16 dicembre 2016 (c.m.c.)

Con Urbanità e bellezza (Edizioni Solfanelli, 2016) Giancarlo Consonni ha scritto un libro sulla crisi della civiltà e una testimonianza sull'idea di bellezza civile, ovvero quel territorio magico dove l'etica e l'estetica si sovrappongono divenendo un'unica cosa. Questo territorio era, o poteva essere, la città urbanizzata, ma oggi non è così.

L'idea di bellezza civile come unione di etica ed estetica è presente sin da Leon Battista Alberti che, nel De re aedificatoria (1452), ricorda come la bellezza di una città la preservi dalla mano dei nemici. Si ritrova in Giambattista Vico, che ha coniato il termine stesso, passa per il dibattito estetico romantico, transita per la Scuola di Francoforte dove l'esteticità diventa azione e palestra di battaglia civile, e giunge a Norbert Elias - caro a Consonni - che la riscopre nell'urbanità come sede delle buone maniere.

L'approccio di Consonni riecheggia il celebre scritto heideggeriano Costruire, abitare, pensare in cui la terra è luogo dell'abitare dei viventi sotto il cielo e in cui il "prendersi cura" è l'azione cardinale. È quella terra in cui abitare e costruire si uniscono e dove l'agri-coltura è cultura così come l'urbis cultura è la città come territorio della felicità attraverso il miglioramento delle condizioni che si ottiene con la generosità reciproca.

È una tesi, questa, che si ritrova anche nel programma degli anni Sessanta del XIX secolo di William Morris raccolto in L'arte e la bellezza della terra (1881), dove si afferma che l'uomo potrà riscoprire la propria dignità solo riappropriandosi del proprio lavoro nel quadro di una riforma della civiltà che assegna all'architettura il ruolo di custode della bellezza del mondo, di cui tutti gli uomini sono responsabili. Ogni distruzione di questo patrimonio è dunque una perdita senza contropartita.

Nella sua storia, l'Italia è stata capace di costruire con teatralità spazi aperti che hanno rappresentato la capacità di saper realizzare e trasmettere queste forme di urbanità. Ma oggi - è il rilievo che emerge in Consonni - questo aspetto sembra perduto. È in atto un arretramento del significato della città, una sua perdita di legame con il territorio e di relazione con il suolo. La città è diventata luogo di esibizionismi globalisti, luogo dell'ansia e della paura anziché dell'azione collettiva, con annientamento della memoria e con forme di anestesia collettiva. La città, che era il sedimentarsi di azioni collettive fino alla metà Ottocento e prodotto d'arte collettivo, si va trasformando nel luogo della finanza indifferente alla stratificazione e della memoria.

C'è una perdita del disegno della città - sia del controllo urbano che dell'idealità utopica - ridotta a merchandising: nei villaggi vacanze, nei non-luoghi e nelle altre nelle sedi della consumer society. La contemporaneità ha bloccato questa idea di sviluppo dove etica ed estetica si incontravano lasciando spazio a una metropoli ibrida, al sovrapporsi e contrapporsi di dimensioni e strategie diverse, senza dimensione di riconoscimento. Non esiste più uno "stile" di città, una identità.

La città devastata dal consumismo e dal costruire dissennato è un'immagine che si è sovrapposta all'insieme costruito. Assistiamo così alla perdita della polis, alla perdita dello spazio pubblico come segno dell'armonia. Le città è colpita nel suo divenire espanso sino ad essere finta perché è finita una "teoria della città" e un perimetro. E ciò proprio nel momento in cui più della metà dei cittadini del mondo vive in città.

La città storica non è più concepita come tale ma solo nel consumismo dell'immagine, non nella consapevolezza dell'eredità. Smart city, App city, città telematica sono declinazioni della perdita di esperienza della città vissuta. La città non è una app che segnala ristoranti o che l'autobus è in ritardo! Si sovrappongono immagini sofisticate della città a desolanti immagini reali, la città digitale che non c'è alla città problematica che c'è.

La città postmoderna ha finito i suoi entusiasmi proprio perché urbanità e bellezza non si incontrano. Il modello di New York, nato distruggendo il volto di Nuova Amsterdam, è stato assunto - come già descritto in Delirious New York di Rem Koolhaas - come emblema di sviluppo della società metropolitana del XX secolo e oltre. New York è diventata modello di appropriazione e sfruttamento del territorio capace di rispondere ai bisogni elementari di una società che produce e consuma.

Un consumo nel quale è previsto lo svago, al quale l'estetica è asservita. Non è una estetica della bellezza quella di Manhattan, ma dello stupefacente e del popolare; disciplinata e massificata. Il cinema e il luna-park erano i luoghi simbolo che esemplificavano questa tendenza pop ed ora lo sono gli shopping mall e gli App-store. I marchi sono il biglietto da visita di società e città globalizzate dove etica ed estetica non si incontrano più. Tanto che oggi Milano sta regalando a una mela morsicata una sua piazza liberty.

Un esauriente esame degli aspetti ambientali inerenti alle produzioni industriali connessi alle città, in occasione della riedizione del libro di Daniele Biacchessi "La fabbrica dei profumi. Seveso 40 anni fa". Casa della cultura, Milano, online, 25 novembre 2016 (c.m.c.)

La riedizione, in occasione del quarantesimo anniversario dello storico disastro di Seveso, del libro di Daniele Biacchessi - La fabbrica dei profumi. Seveso 40 anni fa (Jaca Book, 2016) - riporta alla mente le immagini spettrali del comune brianzolo dove, tra strade deserte e abitazioni evacuate, si aggiravano fantasmi bianchi muniti di tute e maschere integrali (1).

Evoca cioè nella memoria collettiva il trauma dell'incidente all'Icmesa del 10 luglio 1976: un evento cruciale per chi si occupa di storia del rapporto tra industria e ambiente per due ragioni fondamentali. Per la prima volta, l'opinione pubblica prese diffusamente coscienza del potenziale distruttivo degli apparati industriali e da quel momento non fu più possibile sottovalutare il problema della convivenza dei luoghi dell'abitare con le industrie, specie quelle pericolose.

Industria e artificializzazione dell'ambiente urbano -

Storicamente la formazione delle città non ha mai comportato una drastica frattura con la campagna. Anzi, per millenni sono state la ricchezza e la fertilità dell'ambiente naturale a determinarne la localizzazione. Con la civiltà termoindustriale - ovvero con il diffondersi delle tecnologie basate sulle combustioni dei fossili - questa relazione vitale con la campagna e l'ambiente naturale si è via via allentata fino alla rottura. La città si è cioè sempre più trasformata in un ambiente artificiale. Questo, sia perché funzionale alla diffusione delle industrie - di cui i cittadini tendevano a diventare semplici protesi come rappresentarono profeticamente film quali Metropolis (1927) di Fritz Lang o Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin - sia perché la meccanizzazione e la standardizzazione della produzione agricola ha allontanato sempre più la campagna dalla città.

Da questo punto di vista appare esemplare la vicenda, vera, dell'allucinante illusione di poter trarre bistecche dai cascami del petrolio, per cui vennero costruiti due grandi impianti per la produzione di bioproteine a Saline Joniche in Calabria e a Sarroch in Sardegna, fortunatamente mai entrati in funzione (2), o quella, fantascientifica, narrata dal suggestivo film Soylent green (1973) di Richard Fleischer che racconta di una città che riesce a vivere del tutto artificialmente alimentandosi e riproducendosi con la sostanza dei cadaveri riciclata con processi chimici industriali.

Probabilmente discende da questa sorta di perversione subita dalla città moderna, dal suo trasformarsi in tecnosfera, altra dalla biosfera, l'accumularsi e l'aggrovigliarsi di criticità in una sostanziale disattenzione e indifferenza generale, fino alla traumatica esplosione del reattore del triclorofenolo dell'Icmesa di Meda e la pioggia di diossina sugli abitanti di Seveso. Lo shock fu violento, ma l'elaborazione da parte di politici, amministratori e urbanisti della necessità di un cambiamento radicale nel rapporto industria, città e ambiente, almeno in Italia, fu assai lenta.

"Autocolonizzazione" e "autosfruttamento" distruttivi del territorio -

Uno sguardo a volo d'uccello sui principali siti inquinati che l'industrializzazione novecentesca ci ha lasciato in eredità fa emergere un processo apparentemente dissennato di distruzione di territori e di centri urbani di altissima qualità ambientale, paesaggistica e storico-architettonica. Ne citiamo alcuni: Laghi di Mantova-Mantova, Mestre-Laguna di Venezia, Laguna di Grado, Trieste, Ravenna, Pitelli-La Spezia, Livorno, Piombino, Orbetello, Napoli-Bagnoli, Falconara, Manfredonia, Bari, Brindisi, Taranto, Crotone, Porto Torres, Sulcis Iglesiente, Milazzo, Augusta-Priolo, Gela.

Pur essendo praticamente prive di petrolio e di ferro nel sottosuolo, l'Italia è riuscita a ridurre alcune delle sue zone più belle a piattaforme per mega impianti siderurgici, petrolchimici e raffinerie con capacità produttiva di gran lunga superiore al fabbisogno (e infatti in buona parte oggi o in crisi o dismessi). Sembrerebbe un accanimento mirato a colpire proprio quelle magnificenze naturali, paesaggistiche e culturali incantevoli che, prima dell'industrializzazione, il territorio dell'allora Belpaese offriva quanto mai generoso, tanto che, tra Settecento e Ottocento, il viaggio in Italia era meta d'obbligo per le élite europee che riempivano i loro carnet di disegni, incisioni, resoconti di viaggio.

Ebbene, su quell'ecosistema - unico per varietà ma anche fragilità - si è abbattuta, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, un'industrializzazione scriteriata, che ha fatto del territorio e delle matrici ambientali - acqua, aria e suolo - risorse offerte a titolo gratuito e senza alcuna limitazione a quello che venne con enfasi celebrato come "miracolo economico". Questa sorta di "colonizzazione" pervasiva del territorio sembra essere avvenuta in Italia ad opera di iniziative industriali prevalentemente autoctone, per cui, potremmo forse parlare di "autocolonizzazione" e di "autosfruttamento" del proprio ambiente di vita. In sostanza, i meccanismi sono simili a quelli classicamente coloniali (sfruttamento selvaggio delle risorse umane, naturali ed economiche di un territorio da parte di una potenza straniera dominatrice), ma nel caso italiano sono messi in opera da forze interne che appartengono allo stesso Paese che - se così si può dire - si "autosfrutta" in un contesto democratico e con il consenso pressoché unanime delle forze sociali e delle rappresentanze politiche.

Intendiamoci, di quella modernizzazione industriale violenta non si sono avvantaggiati tutti nella stessa misura: quegli anni sono stati anche il teatro del più duro conflitto di classe tra il profitto capitalista e la spinta emancipatrice dei lavoratori. Ma non sembra esservi dubbio che oltre quel conflitto, ambedue i contendenti calpestavano senza alcun riguardo lo stesso ambiente. Forse un unico soggetto, il mondo contadino, aveva avuto fin da subito percezione del danno arrecato, ma non aveva voce, considerato ormai un fardello di una storia proiettata verso la produzione industriale. Infatti, la legittimazione di quell'immane scempio avvenne in forza della necessità dell'Italia di superare d'un balzo il ritardo nei confronti dei Paesi industrialmente avanzati, sfruttando il vantaggio competitivo delle risorse ambientali a costo zero (3).

Questo "peccato originale" rappresenta una pesantissima eredità che si rivela oggi nella vastità e profondità della devastazione ambientale che, all'esaurirsi del secolo termoindustriale, finalmente siamo in grado di "vedere" proprio in alcune delle aree più incantevoli della penisola e delle isole ma che, seppur con intensità differenti, investe pressoché l'intero Paese.

Un'ingombrante eredità: i siti industriali inquinati -

A questo proposito, i numeri sono davvero impressionanti. Com'è noto, i Sin, ovvero i Siti di interesse nazionale ai fini della bonifica, erano in un primo censimento 57, per un territorio di circa 9.000 kmq che coinvolge circa 10 milioni di abitanti esposti ad agenti inquinanti. Nel 2013 sono stati ridotti a 39 con il declassamento di 18 a Sir, Siti di interesse regionale (4).

Un'operazione compiuta da Corrado Clini, allora Ministro dell'Ambiente, che appare più un maldestro tentativo di ridimensionare il problema e di attenuare le responsabilità della classe politica data la pressoché totale e ultradecennale inazione governativa. Per una valutazione complessiva di quanto è stato, o meglio, non è stato fatto per le bonifiche dei Sin in 13 anni, a partire dal Dm 471/1999, rimane ancora valido quanto ha sancito la Relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, del 12 dicembre 2012:

«Il settore bonifiche, almeno fino ad oggi, è stato fallimentare [...]. All'interno dei 57 siti di interesse nazionale (Sin) (mega-siti contaminati) ricadono le più importanti aree industriali della penisola, tra cui: i petrolchimici di Porto Marghera, Brindisi, Priolo, Gela; le aree urbane ed industriali di Napoli Orientale, Trieste, Piombino, Taranto, La Spezia, Brescia, Mantova. […] All'esito dell'inchiesta della Commissione, il quadro risulta desolante non solo perché non sono state concluse le attività di bonifica, ma anche perché, in diversi casi, non è nota neanche la quantità e la qualità dell'inquinamento e questo non può che ritorcersi contro le popolazioni locali, sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista economico. Come già evidenziato, nel nostro territorio i siti di interesse nazionale sono 57, coprono una superficie corrispondente a circa il 3 per cento del territorio italiano e, sebbene il riconoscimento quali Sin per taluni di essi sia avvenuto diversi anni fa (talvolta anche oltre dieci anni fa), i procedimenti finalizzati alla bonifica sono ben lontani dall'essere completati (5)».

Se si escludono alcune Regioni come la Lombardia, il Trentino Alto Adige e l'Emilia Romagna, anche per i Sir la situazione non è confortante. Pur tenendo conto che le anagrafi sono lacunose e realizzate con criteri disomogenei che ne rendono difficile la lettura comparata risulta che i Siti di interesse regionale potenzialmente contaminati inseriti/inseribili risulterebbero infatti 15.122; 6.132 i Sir potenzialmente contaminati accertati; 4.314 i Sir contaminati; 4.879 i Sir con interventi avviati; 3.011 i Sir bonificati. Per concludere: le bonifiche in realtà non si fanno a causa dello stesso perverso meccanismo che è stato all'origine delle distorsioni del passato (6).

Leggi di tutela ambientale ignorate o inesistenti -

Occorre ricordare che ai primordi dell'industrializzazione il tema della tutela dei centri urbani e dei luoghi dell'abitare dai possibili inquinamenti prodotti dalle manifatture era già presente nell'ordinamento legislativo. La prima fondamentale legge sanitaria dell'Italia unita del 22 dicembre 1888 n. 5849 all'art. 38 intendeva disciplinare proprio le attività delle industrie insalubri dettando norme omogenee su tutto il territorio nazionale e superando la difformità di criteri preesistenti, quando ogni determinazione era demandata al giudizio pressoché esclusivo delle autorità locali.

La stessa legge del 1888 prevedeva l'istituzione di un elenco delle industrie insalubri che però doveva essere compilato dal Consiglio Superiore della sanità per tentare unificarne l'applicazione a livello nazionale. In questo elenco "le manifatture e le fabbriche [...] che possono riuscire [...] pericolose alla salute degli abitanti" erano distinte in due classi. E per quelle di prima classe - le più inquinanti - la norma di primo acchito appariva perentoria - "debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni" -, mentre immediatamente dopo apriva il campo alle eccezioni:«Una industria o manifattura la quale sia inscritta nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato».

La legge dunque non determinava con esattezza quale dovesse essere la distanza minima di queste industrie dall'aggregato urbano e dalle abitazioni sparse nelle campagne, evidentemente per non creare vincoli maggiori alle iniziative imprenditoriali. Ogni considerazione al riguardo - come pure quelle sull'efficacia delle "speciali cautele" che eccezionalmente consentivano la convivenza con l'abitato - erano demandati all'autorità locale, al sindaco e all'ufficiale sanitario. Per sollecitare gli adempimenti di questi ultimi venne emanato nel 1901 - con Regio Decreto n. 45 del 3 febbraio - il regolamento generale sanitario che esplicitava le competenze del potere locale:

«La Giunta comunale, sopra proposta dell'ufficiale sanitario, determinerà con apposito regolamento le speciali cautele da osservare negli stabilimenti di manifatture, fabbriche e depositi insalubri o in altro modo pericolosi alla salute degli abitanti (7). […] Spetta alla Giunta comunale, sovra proposta dell'ufficiale sanitario, di ordinare la chiusura dei predetti stabilimenti e l'allontanamento dei depositi insalubri o pericolosi, salve nei casi di urgenza le facoltà attribuite al sindaco (8). […] In base all'elenco compilato dal Consiglio Superiore di Sanità, giusta l'art. 38 della legge, delle manifatture o fabbriche che spandano esalazioni insalubri o possano riuscire in altro modo dannose alla salute degli abitanti, la giunta municipale dovrà, a richiesta dell'ufficiale sanitario, procedere alla classificazione dei predetti stabilimenti in attività nel territorio comunale e determinare se quelli compresi nella prima classe siano sufficientemente isolati nelle campagne, e lontani dalle abitazioni (salva l'eccezione fatta dall'art. 38 della legge, 5° capoverso), e se per gli altri siano adottate cautele speciali necessarie ad evitare nocumento al vicinato(9)» .

Ora, è facilmente comprensibile quale fosse il "tallone d'Achille" di quella normativa soprattutto alla luce di quel processo che abbiamo definito di "autocolonizzazione" del territorio. Le città e le amministrazioni che le rappresentavano hanno fatto a gara per attirare insediamenti industriali, non solo recando in dono il proprio territorio, ma in una certa fase - con la Cassa del Mezzogiorno e le politiche per le aree depresse - concedendo anche contributi e agevolazioni. Ovviamente, in questa competizione, non potevano trovare spazio preoccupazioni o vincoli di tutela dell'ambiente o della salute dei cittadini. È altresì noto che il rapporto perverso tra industria e urbanizzazione si è scaricato in particolare sulle periferie, sui quartieri popolari normalmente adiacenti alle fabbriche stesse, mentre gli ambiti urbani abitati dai ceti più abbienti sono stati tenuti il più possibile al riparo da «esalazioni insalubri o che [potessero] riuscire in altro modo dannose alla salute degli abitanti».

Questa situazione è stata favorita dagli incredibili ritardi con cui il nostro Paese ha adottato normative efficaci per tutelare le matrici ambientali e quindi la salute dei cittadini: la legge sugli scarichi industriali, la cosiddetta Merli, è del 1976; la prima normativa sui rifiuti industriali è del 1982; la direttiva Ue del 1982 sui rischi di incidenti rilevanti, detta "Seveso", venne recepita in Italia solo nel 1988; la prima normativa sistematica sull'inquinamento delle acque e dei suoli è del 1999. Non è stato un caso. La mancanza di tutele ambientali rappresentava infatti uno dei pochi vantaggi competitivi del nostro sistema industriale (insieme ai bassi salari, al petrolio allora a basso costo, alla capacità di imitazione creativa delle altrui innovazioni).

La cementificazione del territorio -

Dovremmo avere la capacità di voltar pagina: ma ne abbiamo la volontà? Ci sono buoni motivi per nutrire qualche dubbio. Una serie di segnali sembrano poco confortanti: dalla recente vicenda delle trivellazioni marine per la ricerca di idrocarburi, al decreto cosiddetto "Sblocca Italia" che ha meritato una critica serrata da parte di numerosi studiosi (10) proprio perché intenderebbe confermare quello sciagurato modello produttivo il cui rilancio richiederebbe ancora una volta l'allentarsi dei vincoli di tutela ambientale e territoriale.

Ma altrettanto si può dire della difficoltà a varare una legge nazionale davvero vincolante, come lo fu quella per la tutela dei centri storici, tesa a salvaguardare quel poco di terreno naturalizzato e fertile che rimane dopo le varie ondate cementificatorie che hanno investito il nostro territorio soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Gli allarmi ricorrenti dell'Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale - passano nei mass media senza lasciare traccia. Eppure l'impermeabilizzazione del suolo e dunque il suo consumo, in particolare in alcune aree del Paese come la Pianura Padana e la megalopoli Milano-Venezia, è ormai giunta oltre i limiti di guardia. Che cosa comporti ce lo ricorda l'Ispra anche nel suo ultimo Rapporto:

«L'impermeabilizzazione rappresenta la principale causa di degrado del suolo in Europa, in quanto comporta un rischio accresciuto di inondazioni, contribuisce ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità, suscita particolare preoccupazione allorché vengono ad essere ricoperti terreni agricoli fertili e aree naturali e seminaturali, contribuisce insieme alla diffusione urbana alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale (Antrop, 2004; Commissione Europea, 2012). È probabilmente l'uso più impattante che si può fare della risorsa suolo poiché ne determina la perdita totale o una compromissione della sua funzionalità tale da limitare/inibire il suo insostituibile ruolo nel ciclo degli elementi nutritivi (APAT, 2008; Gardi et al., 2013). Le funzioni produttive dei suoli sono, pertanto, inevitabilmente perse, così come la loro possibilità di assorbire CO2, di fornire supporto e sostentamento per la componente biotica dell'ecosistema, di garantire la biodiversità e, spesso, la fruizione sociale. L'impermeabilizzazione deve essere, per tali ragioni, intesa come un costo ambientale, risultato di una diffusione indiscriminata delle tipologie artificiali di uso del suolo che porta al degrado delle funzioni ecosistemiche e all'alterazione dell'equilibrio ecologico (Commissione Europea, 2013). La risorsa suolo deve essere, quindi, protetta e utilizzata nel modo idoneo, in relazione alle sue intrinseche proprietà, affinché possa continuare a svolgere la propria insostituibile ed efficiente funzione sul pianeta e perché elemento fondamentale dell'ambiente, dell'ecosistema e del paesaggio, tutelati dalla nostra Costituzione (ISPRA, 2015; Leone et al., 2013) (11)».

Ciò che impressiona è l'ostinata inerzia della lobby dei cementificatori che hanno perseverato nel costruire anche dopo la crisi edilizia del 2008 e l'insostenibile accumulo dell'edificato invenduto che rischia di trascinare con sé nell'inevitabile collasso anche parte del sistema bancario. Il caso della Lombardia è emblematico al riguardo: il Centro di Ricerca sui Consumi del Suolo (Crcs) - fondato dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano (Dastu), dall'Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu) e da Legambiente - ha dimostrato che l'87% dei Pgt recentemente approvati prevede ancora un ulteriore consumo di suolo (12).

Ora, in questa situazione procedere ostinatamente sulla strada dissennata dell'autosfruttamento del territorio è oggettivamente arduo e controproducente - anche il limone a un certo punto non si può più spremere -, sia per la penuria di spazi fisici da sfruttare, sia per l'emergere di nuove forme, accanite e radicali, di resistenza da parte delle popolazioni locali (13).

La resistenza delle popolazioni locali - L'attuale ceto dirigente vive ancora con il mito e la nostalgia del "miracolo economico", del fantastico boom, preso nella trappola di un'economia neoliberista che per funzionare ha la necessità di crescere di continuo e a dismisura. Emblematiche le motivazioni dell'attuale premier a sostegno delle Olimpiadi a Roma nel 2024: «Le Olimpiadi del 1960 - ha affermato Renzi - ci hanno trasformato nel Paese più simpatico del mondo: boom economico e Dolce Vita. Perché non si fanno le Olimpiadi?(14)».

Sta di fatto che, per questo ceto politico, sviluppo, crescita, modernizzazione e infrastrutture sono ormai dei mantra, assiomi assoluti e indiscutibili da perseguire "a prescindere". Si comprende quindi l'irritazione che si manifesta laddove a livello locale comitati di cittadini comuni, donne, uomini, ragazzi hanno l'ardire di ostacolare queste poco lungimiranti strategie. Negli ultimi anni l'attivismo delle popolazioni locali sembra incontenibile: non vi è ipotesi di nuovo impianto per trattare i rifiuti, di nuova centrale, di nuova autostrada, che non produca subito, in opposizione, un comitato di cittadini, spesso svincolato dai partiti e dalle associazioni ambientaliste istituzionali, e quindi difficilmente controllabile, ricco di creatività e inusitata radicalità, capace di acquisire rapidamente competenze tecniche e robuste argomentazioni.

È questa la grande novità dell'oggi che, giustamente, preoccupa più di ogni cosa l'attuale ceto dirigente. Per contrastare il fenomeno la strategia messa in campo è quella a cui, da che mondo è mondo, ricorrono i potenti: "il bastone e la carota". Il "bastone" - che a volte si materializza anche come strumento della "forza pubblica", come nel caso della Tav Torino-Lione - viene agitato con furore contro la "miopia campanilistica" di chi per salvaguardare "egoisticamente" il proprio "cortile" ostacola gli interessi generali del Paese, la sua modernizzazione, l'aggancio all'Europa, la crescita che beneficerà tutti. Della "carota" diremo nel prossimo paragrafo.

Il ruolo del Nimby Forum - A partire dal 2004 il Ministero delle Attività produttive in accordo con il Ministero dell'Ambiente sponsorizza la promozione di Nimby Forum, promosso da un'associazione no profit, Aris (Agenzia di Ricerca Informazione e Società): si tratta del "primo Tavolo di lavoro pubblico-privato e primo Osservatorio Media italiano per studiare il fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali", una struttura di ricerca per il monitoraggio costante che organizza convegni scientifici per studiare questa nuova e pericolosa "malattia sociale", la "sindrome Nimby" (dall'inglese "Not In My Back Yard").

Nimby Forum si propone, quindi, di elaborare «una politica del consenso intrinseca ai progetti impiantistici, che ne faciliti l'iter burocratico di approvazione e ne renda possibile la successiva fase costruttiva» con "l'obiettivo di individuare le più efficaci metodologie di interazione tra le diverse parti in causa per ridurre il fenomeno dei conflitti territoriali ambientali". Insomma il compito che si è assunto Nimby Forum non è dei più semplici, anche se fin troppo eloquente nella sua ingenua (?) formulazione: «Che cosa si può fare per mettere sullo stesso piano progresso e tutela del territorio, interessi pubblici e privati, impresa e governo, sviluppo e sostenibilità?»

A questa impresa titanica hanno dato direttamente il loro sostegno le più importanti aziende energetiche, dei rifiuti e delle infrastrutture, tra cui Actelios SpA/Gruppo Falck, AEM Milano SpA, Amsa Milano SpA (ora A2A), Assoelettrica-Confindustria, Atel Energia SpA, Autostrade SpA, Edison SpA, Enel SpA, Endesa Italia SpA, Fondazione Fiera Milano, Gruppo Enia SpA, Gruppo Impregilo, Gruppo Italgest, Gruppo Teseco, Hera, Siemens Italia, Stretto di Messina SpA, TAV SpA-Ferrovie dello Stato, Terna Spa, Waste [Rifiuti] Italia Spa, Trans Adriatic Pipleine. In diverse occasioni, hanno poi assicurato la loro partecipazione anche alcune blasonate associazioni: Amici della Terra, ACU Associazione Consumatori Utenti, Cittadinanzattiva, CMC Coop.

Dunque, tutto lascia intendere che la mission di Nimby Forum sia quella di offrire un supporto agli operatori pubblici e privati alle prese con le resistenze delle comunità sul territorio. Questo agendo su due fronti. Da un lato si tiene alto l'allarme rosso per i troppi progetti strategici bloccati che aumenterebbero ogni anno in modo preoccupante: i 140 impianti contestati nel 2004 in un decennio si sono più che raddoppiati e anche l'ultimo rapporto rinnova l'allarme evidenziando che "è nuovamente in crescita il numero degli impianti contestati: 355 i casi censiti nel 2014 contro i 336 del 2013 (+5%)" (15). Dall'altro si suggeriscono le misure opportune per addolcire quelle "resistenze" - la "carota", per l'appunto - come componente essenziale della strategia di "persuasione partecipata", come si usa dire.

Da Nimby a Pimby -

Non possiamo fare a meno di ricordare qui, per inciso, una singolare iniziativa, inventata da incalliti promotori dello sviluppo, di quel tipo di sviluppo, incuranti del ridicolo, come degno corollario di Nimby Forum: il premio Pimby, acronimo di "Please In My Back Yard"! L'idea era sbocciata nel "pensatoio" di veDrò [l'Italia del futuro] fondato da Enrico Letta con Anna Maria Artoni - presidente della Confidustria dell'Emilia Romagna - e altri (manager, accademici, ecc.), nell'agosto 2006, con l'autorevole partecipazione di Giulia Buongiorno - illustre avvocato e all'epoca deputato An - nel corso di un seminario con 300 partecipanti, «deliziati col dibattito, Da Nimby a Pimby. Lui [Letta] vuole l'Alta Velocità, le infrastrutture, le centrali elettriche, la modernizzazione. Non a caso il 'totem' lettiano è la centrale elettrica parzialmente dismessa di Dro, in Trentino, da cui il nome del think thank veDrò e il progetto politico: Far ripartire la scintilla per dare energia all'Italia» (16).

Per il Comitato scientifico di Pimby si è trovato anche un degno presidente: Chicco Testa - già presidente di Legambiente, poi di Enel, quindi membro consultivo di Carlyle Europa, la finanziaria della famiglia Bush, managing director di Rothschild Italia, presidente di Assoelettrica e altre cose ancora - con il solito corredo di esperti "trasversali" provenienti dal mondo accademico, imprenditoriale, mediatico ed associativo. Il tutto con il patrocinio del Ministero dello sviluppo economico, della Provincia di Milano e con il contributo di importanti aziende energetiche, tra cui Enel, Cofathec (gruppo di servizi energetici europeo) e Gaz de France. Il primo premio Pimby venne consegnato il 29 novembre 2007 a realtà locali esemplari per la benevola accoglienza di impiantistica impattante. Dopo qualche anno, di Pimby si è persa traccia.

Nonostante questa controffensiva mediatica - oggettivamente un po' sgangherata - è piuttosto semplice per i comitati locali in un Paese come l'Italia - che supera ampiamente ogni sostenibile livello di guardia della "saturazione" impiantistica, infrastrutturale e cementizia - dimostrare che certi impianti propagandati come strategici non s'hanno da fare "né qui né altrove".

Ed è probabilmente superfluo ricordare che i vari Nimby non sempre si limitano al "no", ma sempre più frequentemente elaborano alternative "dolci", ragionevoli e facilmente praticabili sui singoli problemi che si trovano ad affrontare: per esempio, riduzione e riciclaggio spinto dei rifiuti invece di inceneritori e discariche; risparmio energetico e fonti rinnovabili efficienti invece di centrali e rigassificatori; prevenzione e riduzione del traffico e del bisogno trasportistico invece di nuove autostrade e aeroporti; rinnovamento e potenziamento dello sgangherato sistema ferroviario ordinario invece della Tav.

Alternative meno costose, anche in termini economici, che forse proprio per questo non soddisfano i soloni dell'ambientalismo del sì perché escludono quel sì che per loro conta davvero: quello alla crescita del business che ne consegue.

La "carota" della monetizzazione dell'ambiente -

Di fronte all'irriducibile opposizione delle comunità locali a un certo tipo di progetti scatta spesso la monetizzazione dell'ambiente, ovvero: la "carota", il varco individuato per piegare, corrompere, comprare la loro resistenza. Ormai abitualmente, manager e imprenditori presentano agli enti locali un "pacchetto" già confezionato con le opportune dotazioni "ambientali e sociali": una discarica con l'asilo nido per i residenti; un inceneritore con parchi pubblici alberati, piste ciclabili, piscina; una lottizzazione con oneri di urbanizzazione sovrabbondanti che promettono opere pubbliche fantastiche.

Le procedure di Via (Valutazione di impatto ambientale) - spesso ridotte nel nostro Paese a pedissequa applicazione di programmi informatici dagli esiti prevedibili - di sovente minimizzano gli effetti sulla salute di certe opere e, al tempo stesso, enfatizzano oltre misura le cosiddette "opere di mitigazione e compensazione ambientale". Anche nel processo di cementificazione selvaggia in corso negli ultimi anni nel Paese la pratica della "monetizzazione dell'ambiente" si è istituzionalizzata in due meccanismi perversi che si alimentano reciprocamente: da un lato, c'è la sostanziale deregolazione urbanistica che ha messo i Comuni nella condizione di disporre a piacimento del loro territorio; dall'altro ci sono gli oneri di urbanizzazione che vanno spesso a surrogare le strette di bilancio imposte dal processo di risanamento finanziario dello Stato.

Una situazione che ha fatto sì che le Amministrazioni comunali si dimostrassero particolarmente sensibili alle pressioni della speculazione immobiliare ed edilizia, attratte dai fondi prodotti dagli oneri per le nuove edificazioni, ma incuranti del lascito in termini di compromissione del paesaggio e del territorio che erediteranno le future generazioni.

L'ambiente non si vende: una questione etica - Il punto inaccettabile di queste pratiche è che la "vendita" di un ulteriore pezzo del proprio territorio, in un contesto di generale grave compromissione, viene compiuta da chi nell'immediato ne gode solo i vantaggi economici, scaricando i costi ambientali, ormai elevatissimi, sulla popolazione e le future generazioni. Insomma, vi è qui un comportamento profondamente immorale che fa il paio con la storia dell'autosfruttamento della salute dei lavoratori prima del Sessantanove operaio. In breve: negli anni Cinquanta il lavoratore che decideva di percepire un'indennità di rischio nello svolgere lavori pericolosi metteva a repentaglio, sbagliando, non solo la propria salute ma anche la sua integrità morale perché di certo non favoriva la ricerca di soluzioni atte a proteggere la sua salute e quella di quanti sarebbero venuti dopo di lui.

Sullo stesso piano possiamo mettere oggi quell'imprenditore che ricava enormi vantaggi economici da una discarica, da un inceneritore o da una lottizzazione pagando il misero prezzo di qualche opera pubblica e lasciando per il futuro problemi spesso enormi dal punto di vista ambientale, potenzialmente irreversibili e comunque costosissimi da risolvere. Problemi che il più delle volte vanno ben oltre i confini dei comuni che beneficiano delle "elargizioni", in termini di opere pubbliche, dell'imprenditore.

Una discarica o un inceneritore, com'è noto, stanno fisicamente dentro i confini di un comune ma i loro impatti a breve e a lungo termine si fanno sentire in aree ben più grandi, per la semplice ragione che l'aria e l'acqua non sono imbrigliate nei confini amministrativi. Lo stesso vale per le lottizzazioni, se consideriamo, ad esempio, l'aumento di traffico veicolare indotto o il fabbisogno di servizi e infrastrutture collettive. Va quindi condotta innanzitutto una battaglia culturale. Va rispolverata una parola poco di moda, ma pregnante in questo caso, l'etica. Va stigmatizzata l'immoralità di quegli amministratori che per qualche soldo in più di entrate straordinarie nei comuni di cui si trovano temporaneamente a reggere le redini, prendono decisioni che andranno a incidere sulla vita delle popolazioni di quei contesti attuali e future. In un Paese come l'Italia, già stremato da un dissennato assalto all'ambiente e al paesaggio, la parola d'ordine urgente da adottare a tutti i livelli è che l'"ambiente non si vende".

Dalle parole ai fatti -

A questa affermazione di principio devono però seguire provvedimenti innovativi e coerenti sui processi decisionali circa l'uso dell'ambiente e del territorio. L'assunto è che la "sindrome Nimby" non è una malattia, bensì l'estrema salutare reazione di "difesa immunitaria" dell'ambiente aggredito. Piuttosto che combattuta, va dunque favorita ed estesa proprio per la sua capacità di combattere quella che appare come una vera e propria "metastasi sviluppista".

Ma come? Innanzitutto depotenziando il sistema degli incentivi alla monetizzazione dell'ambiente agendo in due direzioni. In primo luogo, occorre introdurre un vincolo per cui vi sia un limite quantitativo molto rigido, rapportato al numero degli abitanti, per le entrate straordinarie (oneri di urbanizzazione, Ici, contributi e compensazioni economiche varie, ecc.) dovute a opere che sottraggono territorio all'uso agricolo e naturale, distruggono il paesaggio e impattano sull'ambiente.

In secondo luogo, va obbligatoriamente prolungata almeno a un decennio dalla conclusione dei lavori la durata delle fideiussioni che i costruttori sono obbligati a depositare per far fronte a eventuali imprevisti o conseguenze indesiderate che si manifestassero a medio termine. Le spese sostenute per rimediare ai danni da inquinamento prodotti dalle industrie devono essere pagati dalle industrie stesse, non dalle comunità locali o dalla collettività nazionale. Infine, ed è questo un punto decisivo, è assolutamente indispensabile che si corregga l'attuale deregolazione pianificatoria per cui al singolo Comune è di fatto concesso un uso del tutto discrezionale del proprio territorio.

Da un lato i vincoli paesaggistici devono cioè diventare davvero stringenti e non aggirabili da parte di nessuno, con un potere e una capacità di controllo delle Sovrintendenze decisamente potenziati. Dall'altro, oltre a rafforzare il potere di pianificazione territoriale delle Regioni (o Province, qualora si decidesse che questi livelli di governo locale debbano sopravvivere ed essere rilanciati), occorre introdurre una norma per cui le decisioni che concernono opere che consumano territorio, alterano il paesaggio e impattano in modo significativo sull'ambiente devono essere assunte congiuntamente e con pari poteri non solo dal Comune ospitante, ma anche da tutti i comuni limitrofi coinvolti e potenzialmente toccati dagli effetti a breve, medio e lungo periodo delle opere stesse. Alle obiezioni di quanti ritengono che in questo modo si bloccherebbe la "crescita" o la "modernizzazione" del Paese, rispondiamo che invece così si salvaguarderebbe quel poco di paesaggio e di ambiente naturale che ancora non abbiamo deturpato. Bloccheremmo cioè la dilapidazione della maggiore risorsa "non-rinnovabile" del Paese, un patrimonio fondamentale per la vita di tutti noi.

Fuoriuscire dalla trappola della crescita - Dopo oltre un trentennio di globalizzazione senza regole e dopo che il nuovo millennio ci ha regalato una crisi finanziaria da cui non si intravede una via di uscita, forse sarebbe il caso di tirare le somme e fare il punto della situazione. La cura che ci è stata somministrata dai depositari del verbo neoliberista a dosi sempre più massicce non sembra abbia prodotto gli effetti auspicati. In realtà, la crescita appare sempre più un miraggio che continua inesorabile a sfuggire all'Italia, nonostante gli innumerevoli tentativi di "agganciarla" messi in atto dai tanti governi che si sono susseguiti.

Forse dovremmo oggi essere sufficientemente lucidi per vedere che la globalizzazione senza regole non ha come obiettivo quello della "crescita" e di un diffuso benessere, ma soprattutto quello di permettere alle multinazionali di realizzare il massimo profitto, traendo spregiudicatamente vantaggio da un mercato del lavoro globale che in troppi Paesi si presenta con forme di vera e propria schiavitù. Purtroppo, sempre più frequentemente anche qui in Europa dove i grandi manager globali hanno potuto spesso aggirare le conquiste civili, i diritti dei lavoratori, le tutele dell'ambiente che si sono realizzate in decenni di cultura democratica e di lotte sociali (17).

Dunque, se consideriamo il bisogno di giustizia dei popoli di tutto il mondo e quello della salvaguardia dell'ambiente naturale, comprendiamo facilmente che la globalizzazione senza regole non funziona. Sono più d'uno gli economisti che auspicano una graduale de-globalizzazione rivalutando, contro l'idolo del mercato, il ruolo indispensabile dello Stato nell'economia, perché questa torni ad essere al servizio del bene comune. Una prospettiva che va nella direzione di garantire a tutti gli uomini e le donne del pianeta condizioni dignitose di vita (cibo, casa, salute, istruzione, lavoro, energia, internet…) assicurando alle generazioni future un ambiente vivibile e dunque pulito e non del tutto dilapidato.

Favorire la cura del territorio -

In Italia, in modo sempre più compulsivo nell'ultimo decennio, si è cercato di far leva esclusivamente sulla competitività manifatturiera nei mercati globali per perseguire la mitica "crescita". Più recentemente nel nostro Paese - ed è una singolarità nel contesto europeo - i diversi schieramenti della politica istituzionale (salvo rare eccezioni) si sono dimostrati in apparente competizione, ma di fatto sembrano mirare agli stessi obiettivi: determinare le condizioni per una "nuova crescita" dell'economia e per quella che chiamano "modernizzazione" del Paese attraverso la realizzazione di infrastrutture: autostrade (anche quelle inutili come la Bre-Be-Mi) Tav, rigassificatori, ecc. ecc.

Insomma l'attuale ceto dirigente italiano (politico, imprenditoriale, manageriale, accademico e culturale) sembra essere fondamentalmente unito (ripeto, fatte salve lodevoli e minoritarie eccezioni) nel prospettare al Paese una direzione di marcia che ha già dimostrato tutti i suoi limiti.Nel contempo è stata del tutto trascurata la più preziosa risorsa per il benessere del Paese, il territorio. Sono enormi i costi che dobbiamo pagare come collettività per i danni prodotti ciclicamente dal dissesto idrogeologico, dalla mancata prevenzione antisismica, dalle mancate bonifiche e dall'evidente impatto sui costi sociali e sanitari.

La cura e la bonifica del territorio per secoli hanno permesso a tante generazioni di vivere dignitosamente attraverso il prosciugamento delle zone paludose, l'innervamento di una capillare rete idrica per l'irrigazione delle zone aride, la sistemazione dei versanti montuosi per la coltivazione, la cura dei boschi per prevenire le frane. Ora, invece, sembra che il territorio non abbia più alcun valore, che possa essere del tutto trascurato e lasciato deperire. Eppure è solo dal territorio che può venire per la nostra economia e la nostra società un riscatto duraturo e su basi solide, perché non esposto all'aleatorietà della globalizzazione: è una battaglia culturale e politica durissima che non possiamo permetterci di perdere.

Verso una "decrescita serena" - Sembra non si voglia accettare la realtà di condizioni storiche mutate che rendono oggi improponibile e irrealistica la prospettiva di un nuovo "boom economico". Quella crescita a due cifre fu possibile grazie a un'illimitata (in apparenza) disponibilità di combustibili fossili a basso costo, grazie a materie prime ottenute a prezzi di rapina dai rapporti neocoloniali imposti dal primo al terzo mondo, grazie a un patto sociale che permetteva di redistribuire una parte del benessere ai lavoratori.

Queste condizioni non ci sono più e non si ricostituiranno facilmente. Anzi, il contesto della globalizzazione ci prospetta un drammatico peggioramento: non solo la produzione di beni tende inesorabilmente a un continuo decremento, ma quel che è peggio è che ciò si associa a una crescita esponenziale dell'ingiustizia sociale, a una redistribuzione alla rovescia del reddito prodotto da chi ne possiede meno a chi ne gode di più, nonché a un progressivo degrado ambientale. Diversi economisti concordano sulla prospettiva di una Stagnazione secolare in Occidente prefigurata da Larry Summers (18) che inevitabilmente sarebbe seguita ai Trenta anni gloriosi, ovvero all'età dell'oro - per citare la definizione dello storico inglese Eric Hobsbawm - collocabile tra il 1945 ed il 1974, data del primo oil shock (19). E del resto non è pensabile una crescita quantitativa della produzione di merci e dei consumi illimitata in un pianeta che illimitato non è (20). Secondo Serge Latouche si tratterebbe di una superstizione che stride con il buon senso e la ragionevolezza (21). Crescita è una parola presa in prestito dalla biologia, dagli organismi viventi: questi, però, nel loro flusso vitale, si sviluppano fino alla maturità, dopo di che declinano per essere riassorbiti e rigenerati nei grandi cicli naturali della biosfera. Negli organismi viventi la crescita smisurata e incontrollata è letale, frutto avvelenato delle neoformazioni tumorali. Ebbene, l'economia moderna ha avuto la presunzione di far meglio della natura, di dar vita a una macchina della crescita senza limiti, che non raggiungerebbe mai la maturità, che dovrebbe procedere all'infinito secondo una linea continua ascendente. Smascherare l'inganno è il compito che si è proposto Latouche, assumendo il punto di vista delle popolazioni che necessariamente da questo sviluppo sono escluse e incrociando la migliore cultura ecologista, in particolare la straordinaria intuizione dell'"impronta ecologica" con cui si dimostra come questo tipo sviluppo per alimentarsi ri-chiederebbe le risorse non di uno, ma di due, tre, cinque o più pianeti, soprattutto se volessimo estenderlo a tutti i popoli. Insomma, su questa strada l'umanità prima o poi va a sbattere, come fa intravedere l'odierno caotico scenario internazionale, sconvolto dall'incontrollabile deflagrazione di conflitti cruenti e da migrazioni bibliche ingovernabili, alimentate da diseguaglianze abissali ed insopportabili. L'erranza di Latouche lo porterà a coniare espressioni fulminanti come "decrescita serena" e "abbondanza frugale", apparentemente contraddittorie se si rimane ancorati alla logica di uno sviluppo senza limiti, ma in realtà anticipatrici di una nuova e feconda prospettiva per l'umanità. "Decrescita serena", infatti, non ha nulla a che vedere con l'attuale recessione, ovvero con il disastro di una società programmata per la crescita, ma condannata a non raggiungerla mai: disoccupazione, debito pubblico, disuguaglianze e degrado ambientale aumentano, mentre peggiora la qualità della vita.

La "decrescita serena" richiede ben altre politiche generali e comportamenti individuali e collettivi che Latouche riassume nelle 8 R: rivalutare, ovvero liberare l'immaginario dal giogo della logica di uno sviluppo illimitato; riconcettualizzare, nel senso di ridefinire i valori fondanti di una società "frugale" ed equa; ristrutturare, emancipandosi dalla crescita quantitativa, per un riordinamento qualitativo; ridistribuire le risorse e le ricchezze nel segno dell'equità; rilocalizzare le produzioni e le attività umane invertendo il processo dì globalizzazione; ridurre i consumi superflui a partire dagli sprechi, sia energetici che di merci; riutilizzare i beni contrastando l'attuale obsolescenza programmata dei prodotti; riciclare e rigenerare i materiali per ridurre il fabbisogno di risorse e la pro-duzione di rifiuti.

Quindi, se i dogmi dello sviluppo a ogni costo hanno spalancato l'abisso di una crisi senza fine, l'alternativa radicale, secondo Latouche, è uscire dall'economia, nelle pratiche e nell'immaginario. L'unica strada percorribile per lui, e per tutti gli obiettori della crescita, è quella di recuperare una prosperità non mercantile, ma relazionale. Peccato che, in generale, l'attuale classe dirigente non possa o non voglia permettersi il lusso di una visione di lungo periodo, non riesca a sporgere il proprio sguardo sulle condizioni tra cinquanta o cento anni, in termini di quantità e qualità delle risorse naturali disponibili, per un'esistenza dignitosa e salubre dell'umanità sulla terra.

La pesante eredità per le future generazioni -

Chi avesse a cuore i giovani e le generazioni future dovrebbe preoccuparsi della pesante eredità che lasceremo loro: non solo un enorme debito pubblico ma, per esempio, oltre 10 milioni di ettari di superficie agraria e forestale distrutta dalla cementificazione selvaggia. Mentre 50 anni fa un italiano aveva a disposizione mediamente una superficie produttiva pari ad un campo di calcio, oggi questa si è ridotta a un terzo. Un territorio, dunque, a tal punto devastato dal disordine urbanistico che, in molte aree del Paese, basta un acquazzone troppo intenso per provocare frane e inondazioni con danni incalcolabili alle cose e alle popolazioni. Un patrimonio edilizio che in generale fa acqua da tutte le parti, sia in termini di dispersione energetica che per assenza di strutture antisismiche. Soprattutto dal secondo dopoguerra, Italia si è infatti costruito troppo e male, senza tener conto che ci troviamo su una delle faglie più attive e che terremoti si verificano con regolare periodicità.

Nel Paese del sole, i nostri sistemi di approvvigionamento energetico dipendono ancora in gran parte da combustibili fossili importati e comunque destinati all'esaurimento. Lasciamo in eredità alle future generazioni innumerevoli siti industriali inquinati e migliaia di discariche abusive o incontrollate, con importanti e diffuse contaminazioni dei suoli, delle acque superficiali e di falda, e con prevedibili impatti negativi sulla salute di centinaia di migliaia di abitanti attuali e futuri di quelle aree. Lasciamo una Pianura Padana con livelli di PM10 che normalmente superano di due o tre o volte il limite che l'Ue prescrive come insuperabile per la tutela della salute umana, smog che gli esperti stimano accorci di 3 anni la vita media delle persone, con diverse migliaia di morti all'anno.

Sono solo alcuni esempi del pesante fardello che carichiamo sulle spalle delle future generazioni, di cui nessuno si occupa davvero, salvo nelle dichiarazioni rilasciate in occasione di eventi catastrofici, frettolosamente archiviati quando si spengono i riflettori dei mass media. Eppure sono debiti che hanno a che fare, non con la volatilità della finanza e con la stabilità dello spread, ma con questioni essenziali per la sopravvivenza umana: la sicurezza alimentare; la salubrità dell'acqua, dei suoli e dell'aria; l'energia indispensabile per la riproduzione della vita e per l'organizzazione della società; la garanzia di un'abitazione sicura per la propria famiglia e di scuole non pericolanti per i nostri figli, al riparo dagli effetti distruttivi, ma prevenibili, delle cosiddette "calamità naturali".

Una necessaria "conversione ecologica" - È di questi debiti che la nostra società deve farsi carico, oggi, attraverso una necessaria "conversione ecologica". Un concetto elaborato tanti anni fa da quel profeta tragico che fu Alex Langer, che richiede un'imprescindibile coerenza etica nello stile di vita per cui ognuno, qui ed ora, deve costruire innanzitutto nel suo piccolo il futuro che propugna. In questa prospettiva gli stili di vita, l'etica del quotidiano, la sobrietà sono qualcosa di indispensabile verso cui effettivamente negli ultimi anni si sono compiuti passi importanti tanto che non si contano le pratiche virtuose che vanno in questa direzione: dal consumo critico ai bilanci partecipati, dai gruppi di acquisto al commercio equo e solidale).

Passi che, tuttavia, non sono sufficienti se slittano verso un atteggiamento di rinuncia quasi pregiudiziale al terreno della politica e del governo istituzionale. Senza di ciò, questo processo molecolare dal basso probabilmente non riuscirà ad aggredire quei "debiti di sistema" a cui si faceva riferimento. Per questo è indispensabile che la "conversione ecologica" sia sostenuta da una parallela "conversione politica", cioè da una nuova buona politica, intesa come servizio disinteressato al bene comune dei cittadini e dell'ambiente, capace di valorizzare la partecipazione dal basso e anche di traguardare gli autentici bisogni di delle generazioni future.

Risanare le città -

Prima di rimodellare le città, dobbiamo liberarle dal fardello dell'inquinamento ereditato dal passato. L'obiezione più comune è che bonificare comporta ingenti investimenti in larga parte "a perdere". Invece, come ci spiega l'economista Andrea Di Stefano, sarebbero straordinariamente redditizi sul lungo periodo:

«Sarebbe interessante un'analisi reale sui costi che la collettività ha sopportato nell'ultimo secolo a causa di "innovazioni" che hanno lasciato, e lasciano, pesanti eredità, dirette e indirette, per la salute umana. Temiamo che nessun istituto di ricerca pubblico riceverà mai le risorse necessarie per effettuare questo studio. Proprio per questo crediamo che debba essere acceso un riflettore sui siti da bonificare. Decine di milioni di persone in tutta Europa stanno pagando e pagheranno costi umani e sociali altissimi per l'inquinamento di attività produttive che creano un danno ingentissimo.

Sappiamo che le attività di bonifica sono il primo passo per tentare di mettere un argine alla voragine economica che il mancato intervento sta già producendo. Investendo 100 euro in attività di risanamento è possibile risparmiare da 15 a 40 volte i costi connessi all'insorgenza delle patologie più o meno gravi connesse ai fattori di inquinamento e da 10 a 14 volte i danni fondiari riconducibili al deprezzamento del valore di aree e immobili presenti nelle aree confinanti con quelle da risanare.

Che le bonifiche siano convenineti sul lungo periodo anche sul piano economico lo dimostrano, infatti due studi recenti. Il primo, Policies to clean up toxic industriai contaminateti sites of Gela and Priolo: a cost-benefit analysis, è stato pubblicato nel 2011 su una prestigiosa rivista internazionale, "Environmental Health", da un'equipe internazionale, ma molto italiana (Carla Guerriero e John Cairns della London School of Hygiene and Tropical Medicine, Fabrizio Bianchi e Liliana Cori del Cnr di Pisa) e prende in considerazione due tra i grandi Sin in Sicilia, Gela, 10 mila ettari di terra su cui incombe il Polo petrolchimico Eni, e Priolo, 100 mila ettari sui comuni di Melilli, Priolo Gargallo e Augusta, dove si trova il Polo petrolchimico siracusano.

Per bonificare l'area di Gela servirebbero 127,4 milioni di euro e 774,5 milioni per Priolo di contro ad un beneficio economico, sui 50 anni, che ammonterebbe rispettivamente a 6 miliardi e 639 milioni ed a 3 miliardi e 592 milioni di euro per costi socio-sanitari non sostenuti (prestazioni pubbliche, carichi di paure e sofferenza, spese private, mancata produttività ecc.), senza contare le 47 morti premature, i 281 ricoveri ospedalieri per tumore e i 2.702 ricoveri ospedalieri non tumorali, che si eviterebbero ogni anno. Il secondo prende spunto dal progetto di legge approvato in Israele nel 2011 per regolare tutti gli aspetti relativi alla contaminazione del suolo e disciplinare le bonifiche. Uno studio condotto da Lavee et al., finalizzato a valutare il rapporto costi/benefici economici delle bonifiche, che considera due tipi di benefici: quelli diretti (aumento del valore della terra bonificata) e quelli indiretti (aumento del valore delle proprietà circostanti).

A fronte di un costo stimato di 670 milioni di dollari i benefici totali sarebbero di circa 9.6 miliardi, cosicché le operazioni di bonifica porterebbero a vantaggi economici considerevoli, risultanti in particolare in un rapporto costi/benefici di 1:14. Le bonifiche, che non sono quindi un costo, rappresentano il punto di partenza per testimoniare il valore del limite economico e sociale e, per questo, è indispensabile concretizzare al più presto le attività operative, utilizzando le risorse disponibili, a cominciare dai fondi strutturali comunitari. È venuto il tempo di rompere gli indugi per una rivoluzione economica che può avere importanti ricadute sui sistemi locali, non solo sul fronte prettamente del risanamento ambientale (22)».

Perché "Casa Italia" non sia solo un annuncio -

Mettere mano a una grande, immensa, opera di riqualificazione del territorio non è più procrastinabile. Questa è evocata anche dal Piano "Casa Italia" ma perché non si riduca a essere uno dei soliti annunci che cadono nel vuoto, vanno preliminarmente chiariti alcuni punti essenziali. Il primo è che bisognerebbe finalmente decidere con vincoli stringenti lo stop a nuovo consumo di suolo e a nuova cementificazione: una legge chiara e coerente in tal senso sarebbe fondamentale. Il secondo è che occorrerebbe compiere una severa revisione delle altre presunte "vere priorità" legate alle cosiddette "grandi opere infrastrutturali".

Le risorse sono scarse e vanno necessariamente impiegate con oculatezza. È necessaria una direzione chiara verso indirizzare gli investimenti. Non si può fare tutto e il contrario di tutto: ad esempio, rilanciare la ricerca dei combustibili fossili o l'idea di fare del Sud Italia un grande hub del metano con il gasdotto Tap e nel contempo investire per sviluppare le energie rinnovabili. Politiche errate producono errori che si potrebbero evitare con grande risparmio di risorse pubbliche. Si pensi, per fare un esempio, a quelle infrastrutture recentemente realizzate che si stanno rilevando pressoché inutili come l'autostrada Bre-Be-Mi: in questo caso non si tratta solo di spreco di denaro che poteva essere meglio impiegato, ma di distruzione irrimediabile di una vasta estensione di suolo fertile. I progetti per le "grandi opere" andrebbero dunque rivisti tenendo conto della nuova prospettiva in cui ci troviamo, che non può essere quella di un nuovo "miracolo economico". Insomma, non possiamo permetterci di buttare soldi in "grandi opere infrastrutturali" dall'utilità controversa, mentre preme l'urgenza e la priorità assoluta dell'unica vera grande opera buona, ovvero la riqualificazione delle città e dell'insieme del territorio: quello che potremmo chiamare Progetto Belpaese (23).

Qui le azioni possibili sono molte e ci sarebbe spazio per la ricerca scientifica, l'innovazione tecnologica, l'economia e l'occupazione. Facciamo cenno solo ad alcune. Di attualità (ma ancora per quanto tempo?) è la ristrutturazione antisimica dell'edificato, con l'avvertenza che in quest'opera, come ricorda Vittorio Emiliani, vengano coinvolte le Sovrintendenze, onde garantire che la messa in sicurezza degli edifici storici sia coerente con la loro tutela. Questa linea di intervento potrebbe cioè essere l'occasione per la programmazione di interventi di manutenzione del patrimonio architettonico e culturale, onde evitare che al prossimo "inaspettato" crollo si gridi alla scandalo. Al contempo, si dovrebbe operare per una ristrutturazione energetica degli edifici, sia nella direzione del risparmio (nelle città lombarde, oltre il 60% degli edifici si trovano ancora delle ultime due classi energetiche) che dell'uso dell'energia solare.

Occorrerebbe poi liberare le città dai rifiuti che come ricorda l'Ue, con la nuova direttiva sull'economia circolare, dovrebbero essere trattati non come residui da "smaltire" in discariche o inceneritori (la Lombardia ne ha 13, un'enormità!) ma come materiali post consumo da rigenerare, recuperare, riciclare: dunque bisognerebbe a tal fine riprogettare i processi industriali e i prodotti incorporandone la possibilità tecnica di un completo riciclo; bandire gli "usa e getta" e i prodotti ad obsolescenza incorporata, premiando la durabilità degli stessi; e infine sviluppare tutta la filiera della raccolta intelligente di questi materiali e della loro riutilizzazione: solo così potremo evitare alle nostre città il destino di Leonia delle Città invisibili di Italo Calvino che a forza di produrre e smaltire rifiuti attorno a sé si ritrovò sommersa rovinosamente dalla "monnezza".

Avremmo poi bisogno di sistemi di trasporto "dolci" che rendano sempre meno conveniente l'uso dei mezzi a motore privati nelle città, come già avviene spesso nel centro e nord Europa (per esempio, a Monaco, Amsterdam, Berlino, Budapest). Infine bisognerebbe reintegrare la città con il territorio naturale circostante. Innanzitutto rendendo quest'ultimo di nuovo amico dell'abitare, con quell'altra grande opera buona e urgente di un riassetto idrogeologico capace di prevenire gli effetti boomerang indesiderati sulle residenze causati da un suo uso dissennato e da decenni di incuria. In secondo luogo diffondendo la pratica degli orti urbani e scolastici e sviluppando il consumo di alimenti di prossimità e di qualità con i gruppi di acquisto solidale. Infine, la "conversione ecologica" dovrebbe investire anche l'agricoltura (24) emancipandola dalla chimica tossica e dai combustibili fossili.

Città: né camere a gas, né isole di calore -

Il degrado della città contemporanea è stato recentemente descritto con grande efficacia dall'urbanista Paolo Berdini (25). Mi limito a segnalare qui un aspetto che sta rendendo i nostri ambiti urbani difficilmente vivibili, soprattutto per i soggetti più fragili, anziani e bambini: in inverno diventano "camere a gas" e in estate "isole di calore". Nel caso di quelle della Pianura Padana incide anche la conformazione orografica a "catino" che impedisce la ventilazione e determina una stagnazione dell'aria, anche con fenomeni di inversione termica nei periodi freddi che comprimono l'aria (e le emissioni) al suolo.

A ciò si aggiunga la consistente soppressione della copertura arborea dei suoli urbani e l'estesa cementificazione che hanno determinato una riduzione delle correnti d'aria endogene, le cosiddette "brezze". In questo quadro le emissioni prodotte dalle combustioni industriali e dai motori dei veicoli trasformano la Pianura Padana in una delle 4-5 zone del mondo con l'aria maggiormente inquinata, in particolare di ossidi di azoto che in inverno danno origine alle PM10 e PM2,5 e in estate all'ozono.

La letteratura scientifica sui danni per la salute dell'inquinamento atmosferico è sterminata, ma basti qui ricordare che il 17 ottobre 2013 l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell'Oms ha dichiarato che lo smog è cancerogeno certo per l'uomo. Il Decreto Ministeriale n. 60/2002 di recepimento della Direttiva 1999/30/CE del Consiglio del 22 aprile 1999, stabilisce che, per ciò che concerne le PM10 il valore limite di 50 ?g/m3 non si può superare "per più di 35 volte per anno civile". L'art. 17 del citato D.M. stabilisce che tale valore è il limite massimo volto alla "tutela della salute umana". Tale limite è entrato in vigore il 1 gennaio 2005 e da quella data l'Italia, come tutti i Paesi Ue, avrebbe dovuto rispettarlo. Ovviamente, com'è noto, nelle città della Pianura Padana (ma non solo), dal 2005 a oggi, i giorni in cui invece è stato superato sono stati mediamente da 2 a 3 volte quelli indicati. Cosicché, il 19 dicembre 2012, accompagnata dall'assordante silenzio dei media, è giunta anche la prima condanna della Corte di giustizia della Ue per inadempimenti del diritto comunitario in relazione al limite per le PM10 (26).

In estate, oltre all'inquinamento da ozono tossico per l'uomo, si verifica il meno noto fenomeno delle "isole di calore". Il tema fu studiato in un lontano passato da Laura Conti (27), poi ripreso, a partire dal 2007, da Legambiente (28). L'espressione "isole di calore" è stata coniata per descrivere l'ambiente e il clima delle aree urbane durante i periodi caldi. Il fenomeno si verifica un po' ovunque nel mondo, in particolar modo nelle grandi metropoli divenute veri e propri deserti di cemento e asfalto.

Nelle città, infatti, il surriscaldamento del pianeta si esaspera e diventa più percepibile che altrove a causa della concentrazione di combustioni civili, energetiche, trasportistiche e industriali in condizioni di sostanziale assenza di verde. Un fenomeno che rischia di tradursi in emergenza sanitaria oltre che in un significativo peggioramento della qualità delle vita nelle aree cittadine. L'eccesso di caldo è responsabile dell'aumento di decessi: nel 2003, in Italia, dove le temperature furono per settimane intorno ai 40 °C in molte città, le morti durante l'estate sono state 18.000 in più rispetto all'anno precedente (29). E il fenomeno si è ripetuto nel 2015 alla cui calda estate vanno in parte addebitati i 68.000 morti in più rispetto al 2014 (30).

Nel 2015 ricercatori dell'Istituto di biometeorologia (Ibimet) del Cnr hanno sviluppato, per le più popolose città italiane, mappe relative alla distribuzione spaziale del rischio diurno e notturno da caldo urbano per la popolazione anziana (soggetti di età superiore a 65 anni). I risultati di questo studio sono stati recentemente pubblicati sulla rivista "Plos One" (31). Ma al di là della mortalità, la vita in città d'estate è diventata spesso estremamente disagevole: una questione la cui rilevanza è dimostrata dal fatto che l'Unione europea ha recentemente elaborato il Progetto Uhi con cui intende fronteggiare proprio il fenomeno delle isole di calore (urban heat island - Uhi) attraverso la pianificazione territoriale (32).

La "città intelligente" è prima di tutto salubre -

Per tutte le ragioni sopra esposte, l'obbiettivo delle città italiane dovrebbe essere quello dell'abbandono dell'attuale modello termoindustriale, incompatibile con il proposito di ottenere una buona qualità dell'aria e con la necessità di liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili (green economy). Ciò sarebbe, in sostanza, quanto viene indicato dall'Europa per realizzare le cosiddette "città intelligenti" che dovrebbero essere prima di tutto salubri. Una significativa riduzione delle combustioni (70-80%) può essere ottenuta agendo su tre fronti: le combustioni industriali, le combustioni domestiche, le combustioni dei veicoli

Per le combustioni industriali: a) andrebbero gradualmente smantellate quelle facilmente evitabili, come quelle necessarie per l'incenerimento dei rifiuti urbani e speciali: questi andrebbero recuperati come materia, con benefici economici, occupazionali, ambientali; a tal fine andrebbe generalizzata una raccolta differenziata di qualità, sia domestica sia presso le singole unità commerciali e produttive; b) andrebbero drasticamente ridimensionati i cementifici, in relazione all'obiettivo di perseguire la "crescita zero" del suolo edificato e delle infrastrutture viabilistiche, assolutamente inderogabile in un territorio congestionato in cui la copertura verde e i terreni agricoli sono già sotto i limiti di soglia per conservare un accettabile equilibrio ecologico; c) andrebbero tendenzialmente chiuse tutte le centrali termoelettriche, alimentate con i più diversi combustibili (carbone, gas, "biomasse", rifiuti, olio di colza o di palma, reflui zootecnici): questo processo andrebbe accompagnato da una drastica riduzione delle domanda energetica conseguita con interventi di risparmio sia nel settore industriale (ridimensionamento dei settori ad alto consumo energetico come l'elettrosiderurgia), sia nei consumi domestici; andrebbe inoltre sviluppato un processo di diffusione capillare della piccola produzione decentrata con fonti rinnovabili (piccolo eolico, microidroelettrico, fotovoltaico); il fotovoltaico è l'opzione strategica, purché non venga implementato su terreni agricoli o comunque verdi; si può infatti calcolare che coprendo i tetti civili, commerciali, industriali della pianura lombarda con pannelli fotovoltaici (nell'ordine di un 2% del territorio di pianura, dimensione facilmente inseribile sull'attuale edificato e cementificato), si potrebbero installare circa 20.000 MW elettrici, molto vicini alla produzione fornita dal termoelettrico da combustibili fossili); d) andrebbe ridimensionato, anche in relazione alla crisi strutturale in corso, tutto il settore della metallurgia secondaria, fortemente energivoro e inquinante: è sempre più illogico e antieconomico rastrellare rottami a migliaia di chilometri di distanza, laddove potrebbero essere facilmente rifusi in loco; in sostanza, al massimo, la dimensione potrebbe essere commisurata alla disponibilità di rottame prodotto sul territorio stesso della Pianura Padana.

Per le combustioni domestiche: a) le abitazioni, gli uffici, i luoghi di lavoro, dovrebbero essere riscaldati a precise condizioni: innanzitutto con una coibentazione ad alta efficienza; in secondo luogo bisognerebbe rendere accettabile una temperatura ambiente anche in inverno inferiore ai 20° con apposite campagne tese a spiegare come una maglia di lana in più e calze pesanti permettano condizioni di comfort accettabili e un considerevole risparmio energetico; così pure, bisognerebbe prevedere interventi di aerazione, di diffusa piantumazione di alberi in città e di coperture arboree degli edifici tesi a garantire anche in estate temperature accettabili così da non rendere necessario il condizionamento dell'aria; tali interventi dovrebbero essere sostenuti sviluppando al massimo l'impiego del solare termico (che sottrae calore agli edifici in estate e che può trovare parziale impiego anche nelle stagioni fredde) e della geotermia locale, con effetti benefici, quest'ultima, di raffrescamento in estate e di riscaldamento in inverno; in questo quadro, bisognerebbe procedere alla progressiva dismissione dei grandi sistemi di teleriscaldamento che provocano un enorme spreco di energia termica prodotta con combustioni e in estate contribuiscono al surriscaldando delle città.

Per le combustioni dei veicoli: la bussola, in questo caso, non può che essere quella della drastica riduzione dei veicoli a combustione interna, a partire da quelli diesel, molto più inquinanti di quelli a benzina. In particolare: a) le risorse disponibili per le infrastrutture viabilistiche, inutili e controproducenti, dovrebbero essere dirottate verso il potenziamento del trasporto su rotaia, delle merci e delle persone, sviluppando attorno alle città efficienti reti di metropolitane di superficie, sia tranviarie che ferroviarie, utilizzando al meglio la rete esistente; il modello potrebbe essere la città di Monaco dove la mobilità è garantita da un simile sistema, per cui l'automobile risulta perfino non necessaria; b) per le merci, si tratta anche di prevenire il bisogno di trasporti, incentivando la cosiddetta filiera corta, il "chilometro zero", mentre andrebbero ridotti i settori ad alta intensità trasportistica (come, ancora una volta, la metallurgia); nei trasporti urbani, andrebbero del tutto sostituiti gli autobus, molto inquinanti, con i filobus, tenendo conto che quelli più moderni dotati di accumulatori al litio, non richiedono l'installazione della rete elettrica nei centri storici, che possono attraversare in totale autonomia; c) l'uso dell'automobile andrebbe quindi drasticamente ridimensionato: l'obiettivo a breve potrebbe essere quello di ridurre il traffico automobilistico, da record mondiale, presente ad esempio in Lombardia, allineandoci a Paesi più all'avanguardia come l'Olanda: si tratterebbe di abbassare le attuali 65 automobili circa ogni 100 cittadini lombardi, alle 45 auto ogni 100 cittadini olandesi: una riduzione del 30%, possibile mantenendo una qualità della vita elevata; ciò sarebbe realizzabile offrendo valide alternative: un sistema di trasporto pubblico, possibilmente a trazione elettrica, capillarmente diffuso ed efficiente; un sistema di piste ciclabili, anch'esso capillarmente diffuso e tutelato rispetto al traffico veicolare (da questo punto di vista la città di Ferrara insegna che la bicicletta può essere padrona della mobilità urbana); d) per scoraggiare l'uso dell'automobile andrebbero poi adottati provvedimenti quali: la chiusura dei centri storici alle auto; targhe alterne per tutti i periodi critici; ecopass; forte tassazione, progressiva in ragione della cilindrata e del tipo di motore; incentivi per le auto ibride (benzina-elettriche) e le auto elettriche.

Dunque, riprogettare le città a 40 anni da Seveso appare un compito di eccezionale portata perché si tratterebbe di attuare in primo luogo una sorta di rivoluzione antropologica e culturale. Da questa però non possiamo prescindere per la nostra stessa sopravvivenza e per quella di chi verrà dopo di noi: l'intelligenza delle città e delle collettività che le abitano si coglierà soprattutto dalla loro capacità di dimostrare di aver appreso la lezione del passato e di aver agito di conseguenza.

Note

(1) Oltre a questo libro (la cui prima edizione risale al 1995 per i tipi di Baldini & Castoldi), sul disastroso incedente di Seveso v. anche: AA. VV., Icmesa. Una rapina di salute, di lavoro e di territorio, Mazzotta, Milano 1976; B. Leonci, G. Nebbia, L. Notarnicola, Industria e ambiente. Il caso Seveso, "Quaderni di merceologia", 16, 2, maggio 1977, pp. 177-209; M. Galimberti, G. Citterio, L. Losa, Seveso. La tragedia della diossina, Edizioni GR, Befana Brianza 1977; L. Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, Roma 1978; M. Ramondetta, A. Repossi, (a cura di) Seveso vent'anni dopo. Dall'incidente al Bosco della Querce, Fondazione Lombardia per l'ambiente, Milano 1998; L. Centenari, Ritorno a Seveso. Il danno ambientale, il suo riconoscimento, la sua riparazione, Bruno Mondadori, Milano 2006.
(2) P. Bellucci, Le bioproteine. Esperienze e ricerche per una fonte alimentare alternativa, Feltrinelli, Milano 1980.
(3) P. P. Poggio, M. Ruzzenenti (a cura di), Il caso italiano: industria, chimica e ambiente, Fondazione Micheletti-Jaca Book, Milano 2012, pp. 1-35.
(4) DM 11 gennaio 2013.
(5) Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, Relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia, Roma 12 dicembre 2012, pp. 658-660.
(6) M. Ruzzenenti, Le bonifiche in Italia, in "Lo straniero. Arte, cultura, scienza, società", a. XVIII, n. 170/171, agosto-settembre 2014, pp. 81-89.
(7) Regio Decreto n. 45 del 3 febbraio 1901, art. 93.
(8) Ibidem, art. 94.
(9) Ibidem, art. 102.
(10) T. Montanari (a cura di) - con scritti di P. Maddalena, G. Losavio, M. Bray, E. Salzano, P. Berdini, V. De Lucia, S. Settis, A. Donati, M. P. Guermandi, P. Dommarco, D. Finiguerra, A. M. Bianchi, A. Caporale, C. Petrini, Wu Ming, L. Martinelli, P. Raitano -, Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia per la democrazia ed il nostro futuro, Altraeconomia, Milano 2014.
(11) Ispra, Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi eco sistemici. Edizione 2016, Roma 2016, p. 2. http://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/rapporti/Rapporto_consumo_suolo_20162.pdf
(12) Ivi, p. 80.
(13) M. Ruzzenenti, L'ambiente non si vende, in Maurizio Pallante (a cura di), Un programma politico per la decrescita, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2008, pp. 53-73.
(14) Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, intervistato da Gianni Riotta alla festa dell'Unità di Firenze, l8 settembre 2016, in T. Rodano, Uno scomodo Riotta: "Matteo come va?", "Il Fatto quotidiano", 10 settembre 2016, p. 6.
(15) http://www.nimbyforum.it/area-stampa/comunicati
(16) "Affari e Finanza - La Repubblica", 11 settembre 2006.
(17) M. Revelli, "La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi". Vero, Laterza, Bari-Roma 2014.
(18) L. Summers, The Age of Secular Stagnation: What It Is and What to Do About It, http://larrysummers.com/2016/02/17/the-age-of-secular-stagnation/
(19) E. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991. L'era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995.
(20) Club di Roma, I limiti dello sviluppo, Napoli 1972.
(21) La bibliografia di Serge Latouche è molto ampia. Segnaliamo solo: Decolonizzare l'immaginario. Il pensiero creativo contro l'economia dell'assurdo, EMI, Bologna 2004; Per un'abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino 2011; La scommessa delle decrescita, Feltrinelli, Milano 2014.
(22) A. Di Stefano, Bonificare è meglio che curare, "Missioneoggi", n. 1, gennaio 2014, pp. 25-26.
(23) M. Ruzzenenti (a cura di), Progetto Belpaese. Una grande opera per l'Italia, dossier di "MissioneOggi", n. 1, gennaio 2014, http://www.ambientebrescia.it/ProgettoBelpaeseMO_gennaio_2014.pdf.
(24) P. P. Poggio, Le tre agricolture, Fondazione Micheletti - Jaca Book, Milano 2015.
(25) P. Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, Donzelli, Roma 2015.
(26) http://curia.europa.eu/juris/document/document_print.jsf?doclang=IT&text=&pageIndex=0&part=1&mode=lst&docid=131974&occ=first&dir=&cid=169804#Footnote
(27) L. Conti, Che cos'è l'ecologia, Mazzotta, Milano 1977, p. 57.
(28) Legambiente, Città, il clima è già cambiato. Rapporto, settembre 2007; Il clima cambia le città, Conferenza a Venezia, 23-24 maggio 2013, http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/climacitta_atticonferenza.pdf ; le città italiane alla sfida del clima, Roma 2016, http://www.qualenergia.it/sites/default/files/articolo-doc/le_citta_italiane_alla_sfida_del_clima_2016.pdf.
(29) Plan B Updates - 56, Setting the Record Straight - More than 52,000 Europeans Died from Heat in Summer 2003.
(30) C. Tromba, Caldo, grande guerra e influenza. I segreti del boom dei decessi, "Il Fatto quotidiano" 9 febbraio 2016.
(31) http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0127277 (32) http://eu-uhi.eu/it/

N.d.C. - Marino Ruzzenenti - storico, docente e attivista ambientale - si è a lungo occupato di tematiche ambientali e sociali. Ha svolto attività sindacale, organizzato convegni, tenuto conferenze e promosso iniziative volte alla diffusione di una cultura sensibile ai temi dell'ambiente, della tutela dalla salute, del rispetto della dignità dei lavoratori. Nel 1994 è stato tra i soci fondatori di "Cittadini per il riciclaggio" (associazione che si è battuta contro il megainceneritore Asm di Brescia); ha partecipato fin dalla fondazione, nel 2014, al Forum delle associazioni per un ciclo dei rifiuti sostenibile di Brescia e al tavolo Basta veleni; ha collaborato, fino al 2015, con il Coordinamento dei comitati ambientalisti della Lombardia. Dal 2007 gestisce il sito web di informazione e documentazione ambientale sul Bresciano (www.ambientebrescia.it) e, dal 2013, per la Fondazione Luigi Micheletti, cura il sito www.industriaeambiente.it. È membro del comitato di redazione della rivista on line, diretta da Giorgio Nebbia, "altroNovecento. Ambiente, tecnica e societa" e collabora - come membro del comitato scientifico - con "Medicina democratica". Nel 2010 ha promosso, con altri, la fondazione dell'Associazione culturale "Ripensare il mondo" (www.ripensareilmondo.it).

Tra i suoi libri: Il movimento operaio bresciano nella Resistenza (Roma: Editori riuniti, 1975); La 122^ Brigata Garibaldi e la resistenza nella Valle Trompia (Brescia: Nuova ricerca, 1977); Libro e moschetto... : storie di ragazzi nella Brescia fascista: invito al mestiere dello storico (S. l.: Studio Ikon, 1995); Operai contro: la resistenza al fascismo dei lavoratori della OM di Brescia e di Gardone Valtrompia 1940-1945 (Brescia, 1995); con P. Costa e G. Nebbia, A come ambiente: corso di educazione ambientale (Firenze: La Nuova Italia, 1998); (a cura di) con M. Soana, Il pericolo non è il mio mestiere: la cultura della prevenzione per un lavoro sicuro (Brescia: Azienda sanitaria locale - Provveditorato agli studi, 1999); con R. Cucchini, Gastone Sclavi e la stagione dei Consigli (Brescia: Micheletti, 2000); Un secolo di cloro e... PCB: storia delle industrie Caffaro di Brescia (Milano: Jaca Book, 2001); L'Italia sotto i rifiuti: Brescia: un monito per la penisola (Milano: Jaca Book, 2004); La capitale della RSI e la Shoah: la persecuzione degli ebrei nel Bresciano, 1938-1945 (Rudiano: GAM Editrice, 2006); Bruno, ragazzo partigiano: Giuseppe Gheda 1925-1945 (Rudiano: GAM Editrice, 2008); L'autarchia verde: un involontario laboratorio della green economy (Milano: Jaca Book, 2011); Shoah: le colpe degli italiani (Roma: Manifestolibri, 2011); (a cura di) con P. P. Poggio, Il caso italiano: industria, chimica e ambiente (Brescia: Fondazione Luigi Micheletti; Milano: Jaca Book, 2012); Le donne della Caselo (Castiglione delle Stiviere: Associazione culturale presenARTsi, 2013).

Distruggere il bello che ci ha regalato la storia delle nostre città non è un vizio recente degli abitanti della penisola. Ce lo ricorda un libro ricco di storie e d'immagini. La Repubblica, 12 novembre 2016



Attilio Brilli, Il grande racconto delle città italiane (Il Mulino, pagg. 624, euro 50).

E il viaggiatore d’oggi può predisporsi a esplorare gli angoli paesaggistici più riposti e intatti che ci siano in Italia, risalendo la Valnerina verso i mitici monti della Sibilla». A leggerle oggi queste parole di Antonio Brilli mettono i brividi: ci voleva un terremoto devastante per svelarci, e contemporaneamente rubarci, l’altra faccia del nostro Paese. Restituire l’Italia agli italiani attraverso lo sguardo dei più celebri visitatori è esattamente il progetto de Il grande racconto delle città italiane (il Mulino), un libro sontuosamente illustrato e magnificamente scritto da uno dei più profondi conoscitori della letteratura di viaggio europea dell’età moderna.

Era il 1858 quando Carlo Cattaneo scrisse che «la città è l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua»: i resoconti dei viaggiatori che Brilli seleziona, antologizza e monta in una narrazione avvincente rendono visibile questa intuizione, almeno per il tratto che va dal Settecento fino quasi all’oggi. E, anche grazie al sostegno dello sceltissimo apparato iconografico, questi testi rari e preziosi vengono offerti in nutrimento a nuovi, moderni visitatori decisi a non arrestarsi alla superficie dei “grandi attrattori turistici”.

Tra i moltissimi itinerari impliciti che innervano il libro, quello forse meno prevedibile ci guida a leggere, attraverso lo sguardo fieramente critico degli stranieri, le violente trasformazioni di Firenze e Roma all’indomani dell’unificazione. Evidentemente tradizionale è la difficoltà dei fiorentini di comprendere che il cambiamento può essere anche in peggio: «Tutto cominciò un mattino di primavera del 1865 - racconta Brilli - allorché si svegliarono di soprassalto alle deflagrazioni delle prime mine che segnavano l’avvio dell’abbattimento delle mura medievali. Boati sordi e spasimi del terreno segnavano l’agonia del portentoso anello che per secoli aveva protetto la città come un talismano». Negli anni che vanno dal 1865 al 1870 - scrive un testimone contemporaneo - «si può dire senza esagerazione, che ogni ventiquattro ore spariva qualche cosa di vecchio e appariva qualche cosa di nuovo». Alla fine di tutto questo non valeva più l’ironia con cui, ed era il 1850, Théophile Gautier aveva annotato che «Firenze ha il corsetto annodato da una cerchia di fortificazioni, e fa la difficile quando si bussa di sera alla sua porta»: iniziava così una stagione di “apertura” che - per rimanere nella metafora - ha progressivamente fatto di Firenze una città fin troppo disponibile, approdando a una prostituzione esplicita che è stata ritratta davvero forse solo dalla penna di Antonio Tabucchi.

Devastata Firenze, la febbre della “capitalizzazione” aggredisce Roma. E sembrano uscite dalle cronache di oggi le pagine in cui Brilli ritesse le voci che si levarono a difendere le meravigliose ville cardinalizie destinate a trasformarsi in enormi agglomerati di cemento e mattoni. Tra tutte, quella di Hermann Grimm, storico dell’arte innamorato dell’Italia - figlio di uno dei due grandi filologi tedeschi che tutti conosciamo come favolisti, i fratelli Grimm - che nel 1886 scrive: «Potrei qui forse concludere che questa distruzione della villa Ludovisi debba essere riguardata come un esempio di ciò che incontrastabilmente è vandalico. Ma non vorrei alfine essere ingiusto verso i Vandali, i quali con una certa ingenuità rovinavano in fin dei conti le sole proprietà degli stranieri. Essi non le distruggevano per guadagnare denaro, né imperversavano in questo modo contro se stessi». Nulla bastò a salvare «il più bel giardino del mondo», e nella conclusione di Grimm si avverte una forza che dopo avrebbe sorretto solo le pagine di Antonio Cederna: «È proprio dei nostri nuovi tempi che quando ci sia realmente da guadagnare milioni, in un batter d’occhio le condizioni mutino, e si passi ogni misura: senza che - e anche questo è un segno del tempo - nessuno ci veda niente di straordinario, o che apparisca anche possibile il porvi riparo».

Accanto alle altre grandi capitali - la Torino “decapitalizzata”, la Milano che ruota intorno alla “gran macchina” del Duomo, una Venezia morente già nelle pagine di John Ruskin, Napoli «nelle cui strade non compare mai uno spazzino» (Maupassant), Palermo («non mi sarei immaginato di vedere cose così belle dopo quello che avevo visto in Oriente», scrive Ernest Renan) - ecco i nessi meno ovvi: il sogno di Camus su Siena (vista sorgere «nel tramonto con i suoi minareti, come una Costantinopoli di perfezione, arrivarci di notte, senza denaro e solo, dormire presso una fontana ed essere il primo sulla Piazza del Campo in forma di palma, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande»), l’amore viscerale di Mario Luzi per Pienza («mi mancherebbe fieramente se mi fosse impedito di venirci di tanto in tanto»), la commozione del tedesco Johann Gottfried Seume, che nel 1802 guarda Siracusa dall’alto del Castello Eurialo: «Considero questa mezzoretta una delle più belle di cui abbia mai goduto, sol che potessi cancellare la malinconia che la permeava, una tristezza di noi tutti esseri umani».

Insomma: «Qui in Italia le città sono tutte capitali», come annotava Lord Byron. Meravigliosi, infine, gli ammonimenti d’autore verso i conformismi del turismo seriale. E tra tutti indimenticabile questa tirata contro coloro che fingevano di andare in deliquio di fronte alla larva del Cenacolo di Leonardo, a Milano: «Che pensereste di un individuo il quale, guardando una vecchia baldracca, cieca, sdentata, sfigurata dal vaiolo, dicesse: “Che bellezza! Che anima candida! Che espressione mirabile!”. Costui avrebbe il talento di vedere cose che non esistono. Ecco quello che pensai sostando dinanzi all’Ultima Cena, ascoltando persone che esaltavano qualità scomparse cento anni prima che costoro fossero nate». Correva il 1869, a scrivere era Mark Twain.

«Nel testo di Ilaria Agostini Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana la proposta ecologista mira alla costruzione di società nelle quali il valore di scambio cede il passo al valore d'uso, la competizione alla convivialità, la carenza al dono».casadellacultura-cittàbenecomune, 14 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il testo di Ilaria Agostini, Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana (Ediesse, Roma, 2015) è un esempio assai significativo di una critica ecologica svolta contro-tempo, nel senso che intende compiere un'operazione ai limiti dell'impossibile, vale a dire tenere assieme più analisi dei nostri variegati modi di percepire, di vivere il presente, puntando ancora sulla centralità della dimensione della spazialità, del nostro habitat complessivo, quello che contiene storie molteplici, alcune ormai consumate, altre ricche di potenzialità di ulteriore e differente articolazione.

Il presupposto del testo è costituito dal resoconto di un'esperienza culturale fiorentina, quella della "Fierucola del pane" (primo mercato biologico in Italia e vero e proprio «ambiente ecologista radicale») che a partire dal 1984 rappresenta la conferma di come sia possibile un'alleanza "felice" tra una singolare pratica di agricoltura "contadina" e il territorio urbano.

Questo anche in vista di una riscoperta, da parte della città, del suo legame essenziale con la dimensione agroalimentare, con una ciclicità naturale tradotta in termini virtuosamente "verdi" sotto veste di "ruralizzazione ecologica", non dissipatrice di territorio, che riabbraccia così proficuamente le esperienze di vita dei cittadini sintonizzate di nuovo con i cicli naturali.

Agostini volge il suo sguardo di ricercatrice attenta proprio a quell'esercizio di un "diritto alla campagna" che articolandosi in forme di esperienze rurali microterritoriali e nella coalizione dei "neorurali" può favorire un processo di rifondazione dell'urbano, un ripensamento approfondito di ciò che risulta essenziale nella delineazione di progetti e pianificazioni riferiti all'ambito socio-territoriale.

Certamente tale "diritto alla campagna" è stato fin dall'inizio, dagli anni '80, pensato come "diritto di cittadinanza", quindi con risvolti nettamente etico-politici, laddove in esso si sono condensate esigenze/urgenze di nuove modalità di vita, soprattutto contraddistinte da una critica di fondo all'idea di una produzione "illimitata", di una qualificazione delle attività soltanto nella forma del lavoro-merce.

Ciò è rilevato nella "premessa" al testo di Vandana Shiva, nella quale si sottolinea l'importanza di cambiare quel paradigma economico, quello dell'economia "lineare", che di fatto ha svuotato la campagna anche e soprattutto attraverso le dinamiche specifiche dell'agricoltura industriale.

Al suo posto va tentata la concretizzazione di un'economia "circolare", non "estrattiva" e capace anche di decisiva "restituzione", a partire dalla consapevolezza che "il suolo è vivo" e che la sua cura (per la salute complessiva del pianeta e quindi anche "nostra") individua il lavoro più essenziale che sia possibile svolgere dai contadini.

Da qui deriva appunto l'invito, raccolto precocemente dall'esperienza della "Fierucola del pane" (descritta anche nell'appendice - "Voci della Fierucola" - di Laura Montanari), dal suo "collettivo" di contadini e cittadini, a "liberare" l'agricoltura dalla presa asfissiante della industrializzazione "data" e della "urbanizzazione" che si vuole senza storia, cioè senza memoria, favorendo così una fertilità dei suoli collegata con la cura della salute umana, reale risposta progressiva e non-violenta «ai soprusi della globalizzazione, dell'omogeneizzazione e delle monoculture» (p.13).

Agostini delinea tale "utopia concreta" impiegando una batteria di studiosi che fanno da referenti preziosi per la costruzione di un simile ambiente "culturale": le lezioni di Ivan Illich, Gandhi, Lanza del Vasto, William Morris, Lewis Mumford, tra gli altri, sono finemente recepite e messe in proficua relazione con altri percorsi di ricerca, che vedono molti protagonisti, alcuni dei quali ancora oggi attivi e impegnati sulle strade di un tentativo quanto mai necessario di rinascita complessiva della sensibilità critica di ordine pratico e teorico, si potrebbe quasi dire: "filosofico-operativo".

Nella "Introduzione" al suo testo, l'autrice scrive in maniera assai efficace, presentando il suo punto di vista, raffinato da una esperienza di ricerca che a me ricorda quella - messa a fuoco alcuni decenni fa in un altro ambito di osservazione - della "co-ricerca": «L'ipotesi ecologista radicale, fondata su una critica serrata al mito industriale della crescita senza limiti, aspira al trapasso dall'economia di mercato alla sussistenza, e individua nella comunità locale l'occasione di autopoiesi, di autogoverno, di rigenerazione. Cura e manutenzione capillare del territorio diventano 'alternative possibili' alla politica delle opere pubbliche affette da gigantismo ed eterodirette. La microterritorialità, il villaggio e il modello insediativo policentrico costituiranno l'antidoto alla megalopoli, parassita ecologico divoratore di risorse e inibitore di socialità. La policoltura contadina, all'avanzata della monocoltura industriale. Parafrasando Illich, la proposta ecologista mira alla costruzione di società nelle quali il valore di scambio cede il passo al valore d'uso, la competizione alla convivialità, la carenza al dono» (pp.18-19).

Il rinvio a Illich è dunque esplicito, ma altri rimandi sono presenti nel testo: ricordo quelli a Gorz, Guattari, Langer, Viale, Scandurra (ma molti atri dovrei aggiungerne...), che mi permettono di evidenziare un'altra dominante teorica, per me importante, del testo di Agostini e che riassumerei nei seguenti termini: l'indicazione di un compito fondamentalmente etico-ecologico che vuole svilupparsi nel senso di non lasciare/consegnare il motivo della "produzione" alla sua abituale declinazione sotto veste di sfruttamento economico di ciò che è "naturale" (a livello umano e non-umano).

Proponendo cioè - di tale motivo - una sua "spesa" sul terreno di un riconoscimento della possibilità concreta di cogliere e ri-disegnare luoghi, spazi, costitutivamente "naturalculturali", all'interno dei quali imparare a coltivare pratiche d'azione, di manovra, altri rispetto a quella modalità di storicizzazione dello spazio risultante dalla coniugazione nefasta della valorizzazione capitalista con la predazione/devastazione dell'ambiente.

Abbiamo bisogno di altre storie, rispetto a quella della crescita infinita e del conseguente culto di un invisibile posto come valore proprio di un regime trascendente di verità, e quindi di un'altra geografia, legata alla indispensabile rivalutazione di ciò che si vede, che è presente, che basta a se stesso e che ci stimola così a modulare su di esso i tempi di una esistenza - la nostra - consapevole del proprio essere "minore" ma non per questo meno importante (per riprendere - fuori contesto, ma non troppo... - la riflessione complessiva dei Deleuze-Guattari).

«A Mantova il progettista, storico e critico François Burkhardt “Dobbiamo lavorare non per narcisismo ma per i bisogni della gente”». La Repubblica, 10 settembre 2016 (c.m.c.)

Dalle certezze del mondo moderno, alle incertezze di quello postmoderno, François Burkhardt racconta quarant’anni di esperienze di architetto, di storico e critico, di direttore di grandi istituzioni culturali (dalla Kunsthaus di Amburgo al Centre Pompidou di Parigi) e di riviste ( Domus), di professore (a Lione, a Vienna, a Siena), e poi di curatore.

Ottant’anni, nascosti sotto un vistoso ciuffo (è nato a Winterthur, in Svizzera), questa mattina presenta al Festivaletteratura un volume che s’intitola proprio Dalla certezza alle incertezze e che la Corraini Edizioni ha affidato alle geniali cure grafiche di Italo Lupi (pagg. 270, euro 32).

È un bilancio, ma soprattutto una riflessione accorata sullo stato dell’architettura, su quanto la disciplina abbia smarrito la sua funzione sociale, a prescindere da modernità e postmodernità. Pur ispirandosi al pensiero di Jean-François Lyotard, Burkhardt lamenta la dissipazione dei precetti che, da Alvar Aalto in poi, hanno disposto l’architettura al servizio dei bisogni psicologici e materiali degli esseri umani.

«Nel 1960 andai in Finlandia per vedere gli edifici di Aalto», racconta Burkhardt, «e due anni dopo avrei potuto lavorare nel suo studio, ma dovetti rinunciare perché avevo già un impegno preso. Rimasi folgorato dal suo Sanatorio di Paimio, dai lavabi non rumorosi ai pannelli radianti a soffitto che riscaldavano solo i piedi del letto. Ecco cosa intendo per architettura che soddisfa bisogni».

È un’attitudine che non esiste più?
«Vedo prevalere nell’architettura di cui più si parla un concetto libertino del costruire, come se fosse un gioco o uno spettacolo. Un fare per sé e non per chi userà gli edifici. Godiamo di una grande libertà compositiva rispetto ai rigidi precetti del razionalismo, ma la libertà è usata male».

Nomi?
«Daniel Libeskind. È intelligentissimo, ma le sue architetture mi fanno tremare. Nel progettare musei, per esempio, manca il più elementare rispetto per la percezione delle opere. Lo stesso vale per i musei di Zaha Hadid. Non sono così i musei di Frank Gehry. E prenda poi gli allestimenti di Carlo Scarpa: la funzione a cui assolvono è quella di mostrare».

Da che cosa dipende questo atteggiamento?
«Da scelte culturali. Su tanta architettura, poi, pesa la preponderanza che hanno assunto i trust immobiliari. Esercitano un controllo completo e l’architettura reagisce poco, sembra non avere rispetto di sé e della propria moralità. Fino a qualche tempo fa ero convinto che il livello culturale non sarebbe stato toccato dall’invadenza del mercato. Mi devo ricredere».

Eccezioni?
«Renzo Piano o Alvaro Siza. L’architetto portoghese lo conosco dalla metà degli anni Settanta. Ho dedicato diverse mostre al suo lavoro. Persino nei tratti personali è l’opposto dell’archistar, silenzioso, paziente, persino lento. Si è misurato con l’edilizia sociale e ha messo al centro del progetto la partecipazione dei cittadini».

Un antidoto, secondo lei, al linguaggio internazionale, globalizzato, è il recupero di tradizioni costruttive locali.
«È un ragionamento che va fatto con cautela, altrimenti si sposano ideologie regressive. Quello che si definisce regionalismo in architettura è un serbatoio linguistico al quale attingere, ma senza idealizzazioni. Siza l’ha interpretato bene. E anche l’esperienza italiana è istruttiva. Sono tornato da poco al quartiere Tiburtino, a Roma, dove Ludovico Quaroni alla fine degli anni Quaranta ha realizzato un quartiere di edilizia popolare. È un insediamento che regge bene al tempo. Meno il borgo rurale della Martella, a Matera, sempre di Quaroni».
Nel sottotitolo del libro, i suoi 40 anni di attività sono legati all’artigianato. Per il quale lei auspica una rinascita.
«La mia prima formazione è di disegnatore edile. La teoria è arrivata dopo. Ora sto lavorando a Volterra a un progetto per rilanciare l’artigianato dell’alabastro. Purtroppo il design si è allontanato dalla manualità e dalla materia. È diventato un’operazione virtuale e attenta alle quantità. Nella simulazione digitale manca il controllo corporeo, che invece è essenziale per lo sviluppo della personalità».

«"La battaglia ambientale e la crisi dei rifugiati: l’ondata silenziosa oltre la fortezza Europa". Un libro elettronico scaricabile costituito da una raccolta di saggi e articoli pubblicata dall’associazione A Sud. Nel testo vi sono i riferimenti per raggiungere decine o centinaia di testi e di studi che si possono quasi sempre consultare e scaricare». Sbilanciamoci info, 12 agosto 2016 (c.m.c.)

Nel vecchio secolo la Fiat era considerata il peggio del peggio. Cattiva, ignorante, prepotente, paurosa. Tutti volevano trasformarla, molti abbatterla. Non che non sia cambiata abbastanza da allora, sotto l’urto dei tempi; ma negli anni è rimasta sempre la peggiore di tutte. I quotidiani della nuova sinistra che erano allora tre, si prodigavano offrendo soluzioni, talvolta impraticabili, spesso molto generose.

Ho in mente un’immagine che mostrava una gigantesca Fiat, una imprendibile fortezza di cemento e mattoni che però aveva sopra al tetto un certo numero di minuscoli operai dotati di picconi che dall’alto e di lato, cercando di distruggerla cominciavano a farla a piccoli pezzi. Come sia andata a finire, qualcuno lo sa. Zamarin, il vignettista che disegnava per “Lotta Continua” e quando aveva finito in redazione, a notte, partiva in macchina per distribuire il giornale, morì nella notte in un incidente stradale. Quanto alla Fiat, bastava aspettare e – come si è visto – si sarebbe cancellata da sé.

Gli ometti di Zamarin che assaltavano con metodo, tranquillamente, la Fiat mi sono tornati in mente leggendo il libro elettronico Crisi ambientali e migrazioni forzate (L’ondata silenziosa oltre la Fortezza Europa), una raccolta di saggi e articoli pubblicata da A Sud. Si corre troppo sovrapponendo la vecchia Fiat alla Fortezza Europa? Anche quest’ultima appare a certi ricercatori cattiva, ignorante, prepotente, paurosa.

I ricercatori, con i loro piccoli, acuti picconi si danno da fare, cercano di fare chiarezza, di smuovere qualcosa, forse soltanto le coscienze. Cercano di convincere chi li ascolta che se si accetta che ogni strada sia sbarrata, la battaglia ambientale perduta. Comunque, se vincere non si può, si può continuare nella ricerca di altre vie per capire meglio, studiando per conto di tutti, il nostro pianeta e il suo domani, lasciando finalmente da parte i pregiudizi sullo Sviluppo, questo fratello gemello del Profitto.

Nelle quattro parti del testo (discussione delle teorie affermate, posizioni delle riforme suggerite dai tempi nuovi, esame di quello che avviene, resoconto di qualche caso speciale) sono molti gli argomenti in discussione. Ne trattano, in vario modo, decine di giovani specialisti per lo più poco conosciuti. La caratteristica generale è un’estrema lealtà scientifica. Si direbbe che nessuno evita di scrivere quello che pensa solo per dare ragione a qualche docente superiore e favorire così la propria carriera.

Da profano, vorrei suggerire di leggere tutto (trecento pagine) a partire da due aspetti generali. Uno di essi è la quantità di suggerimenti. Nel testo internet sono i riferimenti per raggiungere decine o centinaia di testi e di studi che si possono quasi sempre consultare e scaricare. La scienza ambientale diventa un po’ più aperta a tutti, discutibile in ogni campo.

Molte persone possono così studiare e capire il mondo in cui vivono e darsi da fare per cercare di migliorarlo. Dentro e fuori quel movimento, qualcuno si ricorderà mai che la prima delle Cinque Stelle è l’acqua? L’acqua di tutti, l’acqua a tutti nota. L’acqua di cui molti studi danno finalmente una misura attuale. Un secondo aspetto è costituito da proposte e suggerimenti, a volte inaspettati, che sono frequenti nei testi e che servono a volte come punto di partenza di passi avanti inaspettati e altre volte a spiazzare il ragionamento consueto. Ma entriamo nel vivo del discorso.

Per meglio dire entriamo per un momento nella pentola della Rana Bollita. (Le migrazioni ambientali dell’antropocene e la sindrome della rana bollita, di Salvatore Altiero e Maria Marano che sono anche i curatori dell’opera è il testo di avvio di tutto il libro). La sindrome della rana nella pentola è un ragionamento crudele che serve per fare giustizia tra i sostenitori dell’adattamento e quelli della mitigazione.

Non c’è storia: una rana in pentola – rappresenta una popolazione messa in condizioni critiche da una modifica ambientale, quale che ne sia l’origine – può un po’ adattarsi al nuovo clima, anche accettare il proprio benessere provvisorio, ma in breve tempo si troverà in una condizione diversa e dolorosa; spostandosi ai bordi della pentola, saltando nell’acqua, non potrà che brevemente mitigare il calore insopportabile. Non c’è scampo per la rana nella pentola. Si può solo scappare prima, prima che sia troppo tardi. Altrimenti si può solo spegnere il fuoco, sempre che non sia comunque tardi.

C’è un’altra osservazione di cui fare tesoro: in un testo di carattere giuridico, scritto da Antonello Ciervo I rifugiati invisibili. Brevi note sul riconoscimento giuridico di una nuova categoria di richiedenti asilo in cui si discutono gli atteggiamenti del diritto comunitario nei confronti degli immigrati, vi è il ricordo di quando il pericolo ambientale che sovrastava il nostro futuro era il grande freddo, il global cooling che faceva appunto parte della Guerra fredda, in voga a quei tempi.

Il pensiero degli studiosi era che nel 2015 si sarebbe arrivati a un temperatura media globale di 0 gradi centigradi. Solo pochi anni dopo il pensiero degli studiosi si è capovolto in un global warming in cui tutt’ora viviamo. Questo suggerisce molta cautela, sempre. Sempre lo studioso Ciervo che si occupa dell’assetto giuridico dei rapporti tra migranti e istituzioni, si lancia in un altro fuori tema quando ci consiglia di fare attenzione alla storia.

Ricorda l’avvenimento dell’eruzione del vulcano islandese Laki che avvenne nel 1783, ricoperse le pianura dell’Europa continentale di polveri sottili, causò piogge acide in Francia con la conseguenza della assai ridotta produzione di derrate e il loro potente aumento di prezzo negli anni seguenti del decennio, ivi compreso il fatidico 1789. La scarsità di grano e gli insopportabili prezzi agricoli, assicurano gli storici accreditati (Lefebvre), furono tra le cause non ultime della rivoluzione francese, come più di recente sembra sia avvenuto per le primavere arabe.

Se la prima parte discute dei temi generali – di rane in pentola, come si è detto cioè di Crisi climatica e conflitti ambientali – spetta alla seconda che titola sul Cambiamento del clima e conflitti ambientali: emigrazioni forzate – il compito di parlare della rana che fugge, in qualche modo, come può, dalla pentola bollente.

I temi generali sono superati; la discussione tra i famosi professori Norman Myers e Richard Black, con il primo che prevede 200 milioni di rifugiati ambientali per il 2050 e il secondo che scrive, per confutarne le cifre, un saggio dal titolo Environamental Refugees: Mith or Reality non è più indispensabile; per capire le cose, più che classificare casi e sottocasi, conta conoscere i fatti (e gli antefatti). A furia di fatti, i diversi casi emergono con grande evidenza. Fondamentale nell’economia del lavoro collettivo è la Siria ed è l’acqua.

Acqua crisi climatica e migrazioni di Anna Brusarosco con il contributo di Salvatore Altiero propone molte riflessioni sui rapporti tra calamità naturali e vere e proprie guerre per l’acqua, tra comunità sotto stress o paesi rivali. Un lungo elenco di casi recenti, tutti conosciuti e spesso trascurati da chi legge lasciano intendere la vera natura dell’acqua e dell’obbligo di partire dal luogo in cui una comunità ha potuto trascorrere secoli della vita precedente. La crisi idrica, attuale o temuta, non si può affrontare altrimenti.

Si è costretti a partire, o rimanendo all’interno della regione, dei confini nazionali, oppure cercando di saltarli via, alla ricerca di un nuovo mondo, almeno di un po’ di acqua da bere. Non si vive senza bere e senza lavare i panni, la casa arida si trasforma in una sala di tortura; una famiglia contadina non ce la fa se non ha acqua per coltivare gli ortaggi, per allevare gli animali.

Sopra tutto questo, l’acqua e la scarsità di cibo si presenta in assoluta drammaticità il caso siriano, studiato attentamente da Desirée A. Quagliarotti Siria: cambiamento climatico, migrazioni e conflitti. Qui è difficile stabilire in modo autoritario un prima e un dopo, le cause e le conseguenze. Certo l’occupazione delle alture del Golan avvenuta nella guerra del 1973 costituisce un antefatto idrico ai danni della popolazione e dello stato siriano.

In seguito, più di trent’anni dopo, la gestione dell’acqua dal lato dei turchi, l’erezione di altre dighe a monte del territorio siriano, la terribile siccità durata oltre due anni, i dissidi crescenti tra il bath siriano guidato da alauiti, in urto religioso con i numerosi sunniti delle regioni e stati dei confini, l’instancabile lotta dei curdi, tutto questo insieme e altri disturbi ancora hanno provocato la fame, la moria degli animali, la necessità dei contadini abitanti vaste zone della Siria di cambiare territorio per tentare di sopravvivere.

Gli spazi vuoti sono stati facilmente occupati da altri siriani, altri disperati venuti dall’estero con l’aiuto economico, politico, logistico e militare di forti gruppi religiosi o politici contrari agli Assad al potere a Damasco. Le popolazioni fuggite per l’acqua e la terra si sono riversate in città siriane, le storiche capitali, come Damasco o Aleppo che non erano in grado e non volevano accoglierle.

Non è troppo difficile immaginare lo sconquasso, gli scontri armati e la guerra aperta che i siriani di governo, gli oppositori, i predoni sempre presenti, benvisti dallo Stato Islamico, forze, partiti o gruppi organizzati e paesi interi dell’area mediorientale non hanno perso l’occasione di gettarsi nella mischia, subito imitati dalle grandi potenze che hanno armato, bombardato, avvelenato, tradito tutti, da un lato e dall’altro lato; tutti e tutti gli altri, da par loro. Come resistere, come cercare di non morire, se non buttandosi oltre i confini?

http://asud.net/wp-content/uploads/2016/07/Crisi-ambientali-e-migrazioni-forzate-def.pdf

«Percorsi di lettura. "Cronaca di un delitto politico" di Nicola Lofoco e "I nemici della Repubblica" di Vladimiro Satta si interrogano sui documenti relativi a due episodi precisi: il sequestro Moro e la strage di Piazza Fontana». Il manifesto, 4 agosto 2016 (c.m.c.)

Chi ha ordito la strage di piazza Fontana? Chi ha voluto la morte di Aldo Moro? Non sono i soli «misteri» intorno ai quali si esercita da decenni un esercito di investigatori dilettanti. L’intera storia repubblicana nel secolo scorso è portata quasi ogni giorno alla sbarra, con l’accusa di aver nascosto la sua fangosa trama reale. Ma nella fittissima rete di trame vere e molto più spesso presunte, quelle due vicende rappresentano gli snodi centrali, le colonne che reggono la costruzione torreggiante della «dietrologia».

Tra tutti i «misteri» della Repubblica nessuno eguaglia il sequestro Moro per quantità di supposizioni spacciate per verità palmari, di illazioni, fantasie sbrigliate e assoluto disinteresse per la verifica concreta. Seguire puntualmente una valanga di rivelazioni e sedicenti scoperte che prosegue ormai da decenni è letteralmente impossibile. Un esempio recente e autorevole, trattandosi della nuova commissione bicamerale d’inchiesta che re-indaga sul fattaccio, illustra alla perfezione il metodo seguito da decine di cacciatori d’intrighi.

La commissione chiede al Ris di verificare se una persona fotografata in via Fani dopo la strage sia Antonio Nirta, uomo della ’ndrangheta la cui partecipazione all’agguato era stata denunciata una ventina d’anni fa dal boss Morabito senza che però gli inquirenti trovassero alcun riscontro. Il Ris risponde che mancano «elementi di netta dissomiglianza». Il presidente della commissione Beppe Fioroni traduce con «c’è la ragionevole certezza che Nirta fosse in via Fani».

I titoloni cancellano anche quel «ragionevole» per evidenziare la certezza. Su Facebook qualcuno riconosce nella foto un compagno di Movimento accorso come tanti in via Fani dopo la strage, ma nessuno ci fa caso. La presenza di Nirta nel commando diventa così, per migliaia di lettori, un fatto acclarato.

Conviene quindi concentrarsi sul manipolo di autori che hanno provato a seguire i fatti invece che le convinzioni a priori o le suggestioni. L’ultimo in ordine di tempo è un giovane ricercatore, Nicola Lofoco, che si è concetrato su un’analisi dettagliata delle testimonianze e ha registrato i risultati in Cronaca di un delitto politico (Les Flaneurs, pp. 215, euro 14.00). Lofoco, testi e fotografie alla mano, fa piazza pulita di alcuni dei residui enigmi del sequestro.

La presenza di una Honda rossa con due brigatisti sfuggiti alla giustizia, per esempio, è una convinzione comune anche a molti che non flirtano con i romanzi di spionaggio. Si basa sulla testimonianza del «supertestimone» Alessandro Marini, secondo cui dalla moto era partita una sventagliata di mitra che aveva forato il parabrezza del suo motorino. Riletta da Lofoco la supertestimonianza appare dettata da un evidente stato confusionale, che gli aveva fatto vedere 22 persone armate in via Fani più una macchina inesistente. Le foto, in compenso,mostrano il famoso parabrezza. Intatto.

Allo stesso modo, l’autore smantella la leggenda secondo cui «metà del lavoro» in via Fani sarebbe stato portato a termine da un solo super killer, evidentemente molto più addestrato degli altri. Perizie alla mano dimostra che se in effetti metà dei bossoli ritrovati provengono da una sola arma, è anche vero che quei colpi raggiunsero solo uno degli agenti di scorta, Raffaele Iozzino, il che basta a smontare la leggenda di Rambo in via Mario Fani.

Lofoco si muove nel solco aperto dai due libri sul caso Moro di Vladimiro Satta che hanno smontato una per una quasi tutte le fandonie che circondano i 55 giorni. Di recente Satta si è cimentato con un’opera più ambiziosa. In I nemici della Repubblica (Rizzoli, pp. 272, euro 28.00) affronta l’intera fase storica del terrorismo, quella più densa di misteri, partendo da piazza Fontana per arrivare alla strage di Bologna. L’intento è dimostrare che il coinvolgimento dello Stato in quelle vicende fu o inesistente o comunque infinitamente minore di quanto dato ovunque per certo da quasi mezzo secolo.

Satta applica la sua interpretazione «contro-dietrologica» anche a piazza Fontana, forse l’unico episodio considerato universalmente davvero denso di intrecci torbidi tra Stato e terrorismo. Le reticenze e le clamorose coperture offerte dal Sid a Giannettini, che Satta stesso segnala come agente di notevole importanza, rispondevano, nella sua lettura, essenzialmente alla necessità di proteggere il servizio in particolare dalle accuse di aver arruolato una figura come Guido Giannettini, non a quella di fare da scudo agli stragisti.

Da un’analisi dei testi di Freda il bombarolo, Satta evince poi che obiettivo della strage non era, come si pensa di solito e come sarebbe inevitabile se dietro le bombe ci fosse lo Stato, un’operazione di stabilizzazione nel cuore dell’ «autunno caldo» del 1969 ma, al contrario, il progetto nichilista di portare la tensione all’estremo per provocare quella Disintegrazione del sistema che Freda aveva profetizzato nel suo testo più famoso.

Satta critica severamente l’arruolamento di neofascisti dichiarati come Giannettini nei servizi segreti e a maggior ragione la copertura offerta a quegli stessi agenti, facendoli fuggire all’estero, una volta coinvolti nell’inchiesta. È difficile però evitare la sensazione che un po’ sottovaluti le conseguenze di quelle commistioni. Riconosce che i gruppi fascisti si erano forse fatti l’idea di poter godere della complicità dei servizi, ma senza poi chiedersi quanto quell’illusione potesse essere stata coltivata ad arte e se, pur senza arrivare alla strage, non esistesse una strategia di infiltrazione e provocazione sfuggita poi di mano.

Quando però Vladimiro Satta prende di mira le teorie che indicavano in alti esponenti della Dc, come Mariano Rumor, i registi o almeno i referenti degli stragisti, o quando demolisce le più moderne fantasticherie su una «doppia bomba» è inevitabile concludere che l’impianto venefico della dietrologia è nato allora. In quel pasoliniano «io so ma non ho le prove» che ne costituisce a tutt’oggi il manifesto programmatico.

«Diario di viaggio"Il sentiero luminoso"di Wu Ming 2, per Ediciclo. Da Bologna a Milano, un percorso zaino in spalla per conoscere i territori del Tav, fra libri, aneddoti e senso critico dei luoghi». Il manifesto, 20 luglio 2016 (c.m.c.)

Qualche giorno fa, Mike Carter ha raccontato sul Guardian il contesto sociale che ha condotto alla Brexit a partire dal viaggio a piedi che per 340 miglia lo ha condotto da Liverpool a Londra, sulle tracce del cammino segnato da suo padre.

Si chiamava Pete e 35 anni prima si era unito alla marcia di 300 disoccupati contro Margaret Thatcher. Dopo aver viaggiato a piedi per giorni e toccato con mano il crollo del valore delle case e il campo libero alla speculazione edilizia, il deserto lasciato dalla fine dell’industria e il sentimento xenofobo diffuso, Mike Carter scrive: «Il voto contro l’Unione europea non mi ha stupito affatto».

Si è messo in cammino anche Wu Ming 2, da Bologna a Milano, lungo la linea del Tav fino alla città di Expo. Da Piazza Maggiore a piazza Duomo. Anche lui ha tastato il polso del paese della sua geografia sociale.

Il racconto del viaggio è Il Sentiero Luminoso (Ediciclo, pp. 288, euro 18,50), «oggetto narrativo non identificato», ibrido letterario che osserva la realtà da punti di vista insoliti. Il libro disegna una mappa che rimescola le carte, è un invito a costruirsi il proprio cammino più che a seguire quello tracciato.

Se uno degli elementi ricorrenti nella poetica dei Wu Ming è che non esiste un unico modo di raccontare una storia, in questo caso non c’è solo una strada che collega un luogo ad un altro. Il viaggio a piedi che viene raccontato mescolando i tempi e gli spazi. C’è un prima, che è il tempo della preparazione al cammino.

C’è un durante diviso in otto tappe e una prima tappa ricorrente. E c’è un dopo, fatto di approfondimenti ed elaborazioni di quello che si è visto lungo il tragitto.
La prima tappa è ricorrente e spalmata lungo tutto il volume. Da Bologna conduce fino a Riolo di Castelfranco, a 33 chilometri di distanza dalle Due Torri.

È un itinerario che dalla città incrocia la periferia e poi riporta indietro alla campagna. Così, a Wu Ming 2 ci ricorda di quando Luciano Bianciardi elogiava il cemento che si mangiava il mondo rurale i suoi rapporti gretti e familistici, per notare come la cementificazione e l’estensione della città infinita non abbiano costituito un fattore di emancipazione.

L’Italia vista da qui è una specie di terra di mezzo tra città e campagna, tra modernizzazione selvaggia (la centrale di Caorso, la stazione ferroviaria di Reggio Emilia disegnata da Calatrava) e memoria (i cippi dei partigiani e le storie del cosiddetto Triangolo rosso).

In un altro «sentiero luminoso», quello delle luci al quarzo che traccia Mike Davis in Città di Quarzo che racconta l’immaginario distopico delle metropoli contemporanea di Los Angeles partendo dalla storia antica della comune di Llano del Rio, fondata da anarchici e socialisti alle porte della futura città. Quell’esperimento venne strangolato dall’assedio dei suoi nemici.

Anche la cartografia di Wu Ming 2 passa dall’utopia alla distopia. A Massenzatico, in provincia di Reggio Emilia, Camillo Prampolini cedette un suo terreno ad una cooperativa operaia che pietra su pietra, mattone su mattone costruì se non la prima una delle prime case del popolo. Oggi quell’edificio ospita un esperimento utopico che riguarda la gastronomia, proprio in un territorio segnato dalla retorica delle eccellenze gastronomiche, dal parmigiano reggiano e dal prosciutto di Parma.

Nella stessa tappa, nello stesso giorno di cammino, il viandante incontra la sede Coopservice, gigante cooperativo trasformatosi in controparte padronale. Si arriva fino alla Milano di Expo, lungo un percorso che è anche un ipertesto, un’indagine alla radice delle parole, della perversione di concetti come «partecipazione» e «bene comune».

Come ha notato anche l’Economisti, con la mangiatoia globale dell’Esposizione universale, il supermercato italiano mette in vendita i gioielli di famiglia, raschia il fondo del barile in nome della distopica utopia che si nasconde nel luogo comune «potremmo campare di turismo». Ecco perché il bene comune, il paesaggi, la retorica del territorio, le ricette delle nonne e le spiagge nascoste, vengono oramai tirate in ballo a destra e a manca.

O perché si confonde l’ecologia con la paranoia del decoro. Annota Wu Ming 2 lungo il cammino: «Le battaglie per il paesaggio, per rendere migliore il luogo dove si vive, rischiano di colpire il popolo dei margini, se alla lista degli inquinanti da combattere non si aggiungono l’oppressione e il pregiudizio. Rivendicare un diritto impone l’interrogarsi su quanti ne sono esclusi. Altrimenti le prossime ruspe arriveranno in difesa dei beni comuni».

«L’urbanistica nel saggio di Pier Vittorio Aureli "Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo"» per Quodlibet». Il manifesto, 15 luglio 2016 (c.m.c.)

Benché già alla fine degli anni Cinquanta, Giulio Carlo Argan avesse qualificato il Movimento Moderno e le sue strategie urbanistiche come «un capitolo della storia del riformismo europeo» è raro, nella pubblicistica architettonica, che ci si decida ad afferrare la crisi della progettazione razionale direttamente sul lato politico. In effetti, è su questo piano che andrebbero svolte le analisi del dibattito che, nell’architettura italiana, si è aperto nella finestra compresa tra le ricerche compositive e tipologiche, le ironie delle neoavanguardie degli anni Settanta e l’esplosione del postmodernismo.

Perciò il volume che finalmente Pier Vittorio Aureli consegna al lettore italiano, Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo (Quodlibet, pp. 192, euro 17), è prezioso. Tanto più che l’architetto e docente presso l’«Architectural Association» di Londra vi riconosce la centralità di una stagione politica e culturale intensa, raccolta attorno all’eresia operaista e ai suoi esiti. Il testo nasce da un seminario tenuto dall’autore presso la Columbia University che la Princeton Architectural Press ha poi dato alle stampe nel 2008, a testimonianza dell’ormai noto interesse che su scala globale si tributa a quel capitolo del lungo Sessantotto italiano.

Il nodo della pianificazione

Si tratta del tentativo di rileggere in parallelo «testi di Panzieri, Tronti, Cacciari, Tafuri, Rossi e Archizoom come se questi testi appartenessero a un unico – seppur composito e perfino contraddittorio – progetto dell’autonomia». Certo, Aureli menziona puntualmente le significative differenze che esistono tra questi autori, ma le mette in ordine in una ipotesi di ricerca per molti versi affine a quella che si è tentata sul piano filosofico con l’Italian Theory. La chiave teorica la troviamo nel secondo termine del titolo – autonomia – concetto recuperato per la pratica di progetto come premessa di una ricerca personale che Aureli ha esposto in un secondo volume del 2011, dal titolo significativo: The possibility of an absolute architecture pubblicato da Mit Press.

Questione complessa e spinosa, questa della possibilità di una autonomia del progetto – s’intenda: dalle forme dello sviluppo capitalistico attuale – che possa restituirci una architettura assoluta. Nel chiasma che tiene insieme le ricerche del primo operaismo – fino a Contropiano – con la triade Manfredo Tafuri, Aldo Rossi, Archizoom, Aureli trova tre elementi condivisi: la «critica alla professionalizzazione dell’architettura e al suo ruolo politicamente e culturalmente passivo nei confronti delle dinamiche urbane»; la polemica antiriformista; e la decostruzione dei «miti tecnocratici della «programmazione economica» e della città-territorio».

Tracce che l’autore ripercorre quando introduce l’ipotesi sperimentale di una progettazione urbanistica «per parti»: oggetti assoluti e polemici rispetto al generico della metropoli. Una traiettoria dedotta attraverso l’analogia tra la «forma discretizzante» dei luoghi urbani di Aldo Rossi, la libertà teorica di Archizoom e l’autonomia del politico di Mario Tronti, prospettiva unica attraverso la quale, secondo l’autore, si deve leggere l’eredità dell’operaismo classico.

Le differenze che contano

Insomma pur riconoscendo un certo interesse per le tesi dell’intera costellazione di autori che, a differenza di Tronti, hanno partecipato ai nuovi movimenti dagli anni Settanta in poi, secondo Aureli «non si può non esser d’accordo con le critiche che Tronti – padre dell’operaismo – ha mosso verso le tesi del post-operaismo, soprattutto nei confronti del rifiuto, troppo disinvolto ed entusiasta della tradizione del movimento operaio», riducendo tutta intera quella ricerca ad «accademia stanca del girare su se stesso del post-strutturalismo». Mentre si propone, tanto sul piano politico che su quello architettonico, di riprendere «un progetto che affonda le sue radici proprio agli inizi della storia occidentale moderna».

Una domanda: regge questa ipotesi di ricerca? Sul piano strettamente filosofico-politico, direi di no: e del resto anche all’interno del recente dibattito sull’Italian Theory si è riconosciuto ampiamente che l’autonomia del politico non coincide con l’esito destinale del primo operaismo ma ne configura piuttosto una corruzione e un rovesciamento (cosa peraltro che lo stesso Tronti non avrebbe difficoltà ad ammettere).

Insomma più che continuità qui si dovrebbero far giocare delle rotture e delle differenze, delle aperture e delle divaricazioni tra dimensioni del progetto politico del tutto inconciliabili. E per quanto riguarda il progetto di architettura? Anche qui, a ben vedere, la triade Rossi, Tafuri, Archizoom può stare insieme solo nell’ordinato casellario dello storico disciplinare, ma traballa paurosamente se guardata più da vicino.

La fuga nel design

Certo: le neoavanguardie italiane avevano letto gli articoli di Tafuri su Contropiano, come è noto il loro interesse per le ricerche portate avanti da Aldo Rossi. Ed è vero che il rapporto tra Tafuri e Rossi resta affettuosamente testimoniato dalla celebre tavola del ’74, L’architettura assassinata, che l’architetto dedicò allo storico. Tuttavia è proprio l’autonomia del progetto, l’ipotesi di un’architettura assoluta che qui fa problema. Perché tutta l’impresa teorica di Tafuri è volta a dimostrarne l’impossibilità, mentre il «novecentismo» elementare di Rossi e le fughe nel design delle neoavanguardie, seppure per via distopica si perdevano nell’impossibile impresa di ribadirla.

Non è forse la critica del lavoro intellettuale, uno dei caratteri centrali di quella stagione? In che direzione viene svolta quella critica dalle diverse figure chiamate in causa?

Scavare queste differenze potrebbe forse consegnarci un’ipotesi di lavoro nuova, capace di tenere insieme una propedeutica critica del razionalismo, la decostruzione del formalismo architettonico, con la necessaria sperimentazione di un progetto all’altezza del capitalismo cognitivo e delle sue faglie. Aureli ha il merito di offrirci l’occasione di questa discussione.

«Esiste una scienza o una tecnica per gestire l’amministrazione della polis ed evitare la guerra civile? Un saggio sulla "politica" greca di Giuseppe Cambiano, "Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele" ». Il manifesto, 10 luglio 2016 (c.m.c.)

La città è una nave che, per affrontare le insidie del mare, ha bisogno di piloti esperti: è la metafora sottesa al titolo del bel libro di Giuseppe Cambiano sul governo della città in Platone e Aristotele Come nave in tempesta, (Laterza, Storia e Società, pp. 270, euro 24,00). Una metafora tradizionale nella cultura greca e ancora oggi silenziosamente depositata nei nostri termini «governo» e «governare» che, nel greco antico (kybernein), appartenevano al lessico marinaro.

Come accade alle buone metafore, è un’immagine che costruisce un quadro concettuale entro cui pensare e farsi domande: che qualità deve possedere il pilota/governante «esperto»? Esiste una «scienza» o una «tecnica» del pilotare/governare? Come gestire i conflitti, esterni e interni, alla nave/città?

Emergono intorno a queste domande questioni cruciali della riflessione politica antica e moderna, che Cambiano mette a fuoco attraverso l’analisi delle posizioni di Platone e Aristotele senza appiattirle sull’attualità ma sempre inserendole nel loro specifico contesto.

La questione centrale – tornata prepotentemente alla ribalta in questi giorni del dopo Brexit – riguarda il rapporto tra competenza ed esercizio del potere. Una questione difficile che Cambiano affronta a partire da un aspetto apparentemente secondario, quello della rotazione delle cariche, tipico della «democrazia» ateniese (nella quale, non va dimenticato, la partecipazione effettiva era riservata ai cittadini, liberi, maschi, adulti).

Il meccanismo della rotazione, intrecciato con quello del sorteggio, mirava a impedire la concentrazione del potere nelle mani di singoli o gruppi ostacolando così la riduzione della politica ad attività specializzata. Sia Platone sia Aristotele accettano nella sostanza questo principio declinandolo però in forme diverse, coerenti con la loro prospettiva generale.

Nella città ideale di Platone, la rotazione riguarderà soltanto la classe dei governanti/filosofi e servirà, più che a impedire concentrazioni di potere, a «mitigare la costrizione a governare» cui sono soggetti i filosofi, consentendo loro di tornare a svolgere l’attività di ricerca del sapere. La celebre tesi platonica dei filosofi al potere, infatti, non va intesa in senso tecnocratico: i filosofi non sono (e non devono essere) politici di professione e anzi saranno governanti migliori proprio perché non desiderano governare. È invece nel Politico che Platone delinea il concetto di scienza (episteme) specificamente politica il cui possesso (che nella linea socratico-platonica implica anche possesso di virtù) legittima un esercizio del potere anche indipendentemente dal consenso dei governati.

Proprio questo è il punto di massima divergenza tra Platone e Aristotele. La posizione platonica, secondo Aristotele, sarebbe accettabile solo a patto di annullare la differenza tra la sfera dell’oikos (casa) – dove resta ammissibile il dominio permanente di uno solo su figli, donne e schiavi (equiparati a possessi materiali) – e la sfera della polis composta invece da individui in linea di principio simili tra loro (homoioi) e liberi.

La rotazione delle cariche consente allora di mantenere l’equilibrio tra governare ed essere governati, ruoli che un buon cittadino deve sapere alternativamente ricoprire, perché entrambi necessari al buon funzionamento della polis. È anche vero, però, che Aristotele stesso prevede l’opportunità di correttivi (per lo più su base censitaria) che regolino il meccanismo della rotazione e limitino (o evitino del tutto) il ricorso al sorteggio. Riemerge così, anche nell’orizzonte di una comunità di simili, la questione del rapporto tra competenza, virtù ed esercizio del potere.

Per Aristotele, la qualità specifica del buon governante non è il possesso di una presunta scienza (episteme) politica ma la difficile virtù della phronesis, consistente essenzialmente nella capacità di valutare (e deliberare) caso per caso con una particolare sensibilità per le circostanze. Il discrimine tra Platone e Aristotele sta dunque – Cambiano non lo esplicita ma è utile farlo – nel fatto che per Aristotele il dominio delle scelte politiche rientra a pieno a titolo nell’ambito di ciò che può essere diversamente da com’è rispetto al quale non può darsi una scienza in senso stretto. È il dominio di ciò che è intrinsecamente discutibile nel quale divergenze e conflitti sono inevitabili e non risolvibili con il semplice ricorso alle «competenze».

A ben guardare, la vera posta in gioco è proprio la questione del conflitto o, meglio, il bisogno di evitare il conflitto interno alla città (la «guerra civile») che i greci chiamavano stasis, qualcosa di molto diverso dal polemos, che era invece la guerra contro i nemici «esterni», i «barbari» innanzitutto. Mentre la stasis era percepita come il pericolo peggiore per una polis (per Platone una vera e propria malattia che sovverte l’ordine naturale) da evitare a tutti i costi, il polemos, per quanto deprecabile, era invece in generale ritenuto come un male inevitabile e per certi aspetti addirittura «naturale», il che però non significa automaticamente «giusto».

Il compito principale del bravo pilota di questa nave in tempesta è dunque quello di impedire (o almeno ridurre al minimo) la stasis – questa terribile malattia della polis – garantendo homonoia (concordia) e philia (amicizia) tra i cittadini. Di nuovo su questo punto però le posizioni di Platone e Aristotele divergono: mentre per il primo l’unico antidoto ai conflitti interni è la piena condivisione delle emozioni e l’eliminazione della sfera del privato (fonte primaria del conflitto stesso), per Aristotele, invece, la comunanza di affetti e di beni rappresenta anzi un ostacolo alla realizzazione dei legami di amicizia. Ai suoi occhi, il Socrate della Repubblica commette l’errore di voler «trasformare una symphonia in una homophonia, un insieme coordinato e armonico di suoni in un solo identico suono».

Vera homonoia per Aristotele non è, infatti, l’identità delle opinioni ma una convergenza di interessi e desideri che può essere solo in parte raggiunta grazie all’educazione (paideia) ma mai pienamente realizzabile perché «infinita è la natura del desiderio».

In questo quadro, Cambiano affronta anche un altro aspetto spinoso del pensiero politico antico, quello della schiavitù, ricostruendo con equilibrio e acutezza argomentativa il dibattito tra Aristotele e gli «oppositori anonimi» della schiavitù, un dibattito che si intreccia con quello, non meno complesso, del rapporto tra nomos (legge), physis (natura) e giustizia. La principale difficoltà che Aristotele incontra nella sua giustificazione della schiavitù riguarda il corpo dello schiavo, in tutto e per tutto identico a quello del libero. Questa identità mette in crisi l’idea di una differenza naturale tra liberi e schiavi e fa venire alla luce tutta la difficoltà della stessa nozione di legge naturale.

Al di là delle singole interpretazioni (che riguardano anche altri temi, come il rapporto tra catastrofi naturali e storia umana o il ruolo dell’alimentazione) il libro è interessante innanzitutto perché non ci consegna una visione idilliaca o romantica del pensiero politico greco ma ne fa emergere difficoltà e contraddizioni, che non sono poi così lontane dalle nostre stesse difficoltà e contraddizioni.

A completare questo quadro avrebbe forse potuto contribuire anche una maggiore attenzione al ruolo della retorica nella conduzione di questa nave in tempesta, non fosse altro perché è proprio la retorica, agli occhi di un greco di quell’epoca, l’arte più vicina a quella del governare le navi.

«Il vincitore del premio Strega, compagno di scuola degli autori del massacro, parla del suo romanzo dominato dal tema della sopraffazione sessuale. "È importante non trincerarsi dietro lo sdegno preventivo perché siamo tutti contaminati dalla violenza"». La Repubblica, 10 luglio 2016 (c.m.c.)

Edoardo Albinati ha appena vinto il Premio Strega con un libro non solo importante per mole (quasi 1300 pagine), ma crudo nella tematica, un romanzo che gira intorno al buco nero della violenza contro le donne.

La scuola cattolica (Rizzoli) trae spunto da un episodio di cronaca nera, il delitto del Circeo, e da lì s’irradia per cerchi concentrici per cercare di capire quale possa essere la radice culturale dell’aggressività. Albinati è stato compagno di scuola, all’istituto San Leone Magno a Roma, dei tre protagonisti del massacro del 29 settembre del 1975, Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira.

Come mai ha voluto affrontare un argomento tanto scomodo?
«Perché la letteratura ha anche il compito del disvelamento. Non volevo ammantare il delitto di alcun aspetto seduttivo, ma raccontarlo nella sua crudezza. Il mio obiettivo non era informare, ma interrogarsi ».

Mostrare la violenza, esporla, renderla pubblica, far vedere un volto ferito o le fotografie di un’aggressione, può essere utile?
«Non lo so, penso che la cosa importante sia non trincerarsi nello sdegno preventivo. L’ho detto, lo ripeto: ho il 99% delle cose in comune con chi compie azioni violente ».

Potrebbe spiegarsi meglio?
«È importante accettare l’idea della contaminazione con la violenza. Forse può non entusiasmarci, ma siamo tutti coinvolti, tutti contaminati. Certo, è più facile allontanare da sé il male, pensare che non ci riguardi, che noi siamo diversi. La ferita del delitto del Circeo fu in qualche modo suturata additandone i responsabili come mostri. Così da una parte mettevamo i “perversi” e dall’altra c’eravamo noi. È ciò che in altri tempi si sarebbe definito “falsa coscienza”».

Nel suo libro imputa a una certa idea di mascolinità la responsabilità dell’aggressività. Addirittura scrive: «Nascere maschi è una malattia incurabile».
«Purtroppo – lo dicono tutti gli studi sulle teorie di genere – la mascolinità è una costruzione fatta di modelli da imitare che creano frustrazione, perché nessuno riesce a stare alla loro altezza. Insomma, il maschio è colui che manca il bersaglio di essere maschio».

È da qui che può nascere la voglia di rifarsi?
«Mi viene in mente una frase di Kafka: “C’è un punto di non ritorno, quel punto va toccato”. Il mio punto di non ritorno, ciò di cui volevo parlare, è la malattia incurabile dei maschi».

Perché incurabile?
«Mi sembra che il modello maschile sia oggi in crisi più che mai. Se è infatti vero che abbiamo superato il prototipo di virilità del passato, è anche vero che non è stato sostituito da nulla. Mentre il modello femminile si è aggiornato».

Quali sono gli stereotipi culturali da cui dovremmo cercare di liberarci?
«Gli uomini hanno un bisogno di tenerezza profondissimo, ma non possono esprimerlo liberamente. Hanno paura che venga scambiato per omosessualità. Ma proprio quel desiderio frustrato alla fine si rivolge in modo brutale contro le donne ».

Nel suo libro la violenza abita in un quartiere borghese, tra le cosiddette persone perbene. È anche questo un modo per dire che riguarda tutti, non solo chi vive nel degrado?
«Thomas Mann diceva che il borghese è l’individuo che ha più punti di contatto con l’intera umanità. All’interno del suo mondo osserviamo tutti gli atteggiamenti possibili. Nel caso del delitto del Circeo si pensò subito che non potesse avere per protagonisti ragazzi di buona famiglia. Ma pensare in questo modo è un’altra forma di difesa. Chiunque può fare qualsiasi cosa a chiunque».

Lei insegna nel carcere di Rebibbia. La scuola può cambiare la società?
«A patto che non diventi una routine. In galera la situazione è di emergenza, posso sperimentare subito se le mie parole hanno effetto».

Quanti anni ha lavorato al libro?
«Più di nove anni. Nove anni per chiedermi: come faccio a venire a capo di un male che mi appartiene?».

Il volume di Paola Bonora, Fermiamo il consumo di suolo, Il Mulino, 2015, costituisce una delle più articolate e aggiornate analisi di un fenomeno cruciale non solo per il nostro territorio, ma per il nostro futuro.
Fra i vari rituali che cadenzano la cronaca delle vicende del nostro territorio, ormai da alcuni anni si sono inseriti i report di ISPRA, con la collaborazione dell'ISTAT, sul consumo di suolo in Italia. Titoli a piena pagina di tutti i principali quotidiani sul disastro incombente denunciato da cifre terrificanti (8mq del suolo patrio consumati ogni secondo), mappe da incubo ed articoli allarmistici. Pronti ad essere riproposti, quasi anastaticamente, al successivo rapporto.
Del resto, come ci aveva insegnato Cederna, anticipatore di questi temi, quarant'anni fa, ai giornali piace solo "la notizia, maledetta notizia".

E invece, come sanno i lettori di eddyburg (in Città e territorio, sezione "Consumo di suolo"), il fenomeno del consumo di suolo in Italia ha ormai assunto un carattere di tale ampiezza e continuità (dall'inizio degli anni 80 abbiamo ricoperto di cemento e asfalto un quinto della superficie agricola) da essere ormai equiparabile, per pericolosità, al rischio sismico e idrogeologico, a quest'ultimo in particolare, strettamente collegato. Proprio per questo necessita di una divulgazione articolata ed adeguata che superi, ad esempio, le ambiguità e i fraintendimenti presenti in una percentuale ancora troppo alta dei materiali attualmente in circolazione: si confonde ancora fra suolo agricolo e suolo non edificato e i vari monitoraggi sul consumo di suolo prodotti in questi anni sono caratterizzati da metodologie differenti che rendono acrobatici i confronti e difficilissime le sintesi.

Fra i tanti meriti del volume di Paola Bonora, Fermiamo il consumo di suolo, vi è quello di definire con chiarezza i termini della questione e le aporie che lo caratterizzano in ambito italiano (compresa l'ambiguità, non solo lessicale, che sovrappone e confonde paesaggio - ambiente - natura).
Ma l'analisi dell'autrice si spinge ben oltre l'illustrazione del fenomeno e della sua gravità, peraltro inserita in un ampio quadro storico (dal secondo dopoguerra, e soprattutto dagli anni ottanta del secolo scorso ad oggi) e geografico (non solo l'Italia, ma l'Europa, contesto imprescindibile e quasi sempre impietoso rispetto al Bel Paese e l'intero globo, in quanto globalizzate sono le caratteristiche dell'urbanizzazione odierna). Le cause del consumo di suolo sono identificate - in estrema sintesi - fin dal sottotitolo: speculazione, incuria e degrado.

Ma è soprattutto nei capitoli I e VII che l'autrice affonda il bisturi al cuore del problema: sprawl e sperpero di suolo sono conseguenza diretta del neoliberismo immobiliare che ha caratterizzato l'ultimo trentennio di vita delle nostre città, non solo in Italia, ma nel nostro paese favorito dalla storica agevolazione della politica nei confronti della rendita fondiaria. La delegittimazione progressiva della pianificazione pubblica con l'avvento dell' "urbanistica contrattata" prima e la "finanziarizzazione" della città, poi, hanno provocato una deregolazione progressiva dell'uso del territorio: degrado del paesaggio e perdita degli spazi pubblici sono fra le conseguenze più evidenti. Come, ovviamente, il sempre più incontrollabile aumento del consumo di suolo.

Chiarissima, nell'analisi di Paola Bonora, la connessione fra l'evoluzione delle politiche economico -sociali - dal welfare state al neoliberismo - e quella del governo del territorio, ma anche fra queste e la mutazione, che verrebbe la tentazione di definire antropologica, che caratterizza in questi ultimi decenni le pratiche di vita collettiva e di uso degli spazi urbani. L'atomizzazione sociale si riverbera sul territorio e la città, dove è rappresentata dai fenomeni dello sprawl e della perdita degli spazi pubblici. La crisi economica, infine, ha intaccato in fasce sempre più ampie di popolazione, il diritto all'abitare.

L'autrice denuncia amaramente da un lato, il paradosso della compresenza di un'emergenza abitativa, sempre più drammatica in questi ultimi anni, e di una sovrapproduzione immobiliare (11 milioni di abitazioni vuote in Europa secondo il Guardian, p. 102) e dall'altro la mancanza di una coerente proposta politica a livello di governo del territorio. In questa latitanza non solo politica, ma anche culturale, appare ormai inattingibile l’obiettivo del consumo di suolo zero nell’anno 2050, fissato a livello europeo nella Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse (COM (2011) 571).

Pubblicato nel 2015, il volume di Paola Bonora rappresenta uno strumento di conoscenza ancor più importante e attuale oggi. Da circa un mese la Camera ha approvato in prima lettura il ddl sul consumo di suolo: si tratta del l'esito a dir poco deludente del testo di legge presentato dal ministro Catania dell'allora governo Monti, salutato all'epoca, con molte aspettative, come il tentativo di riallineare il nostro paese alle più aggiornate legislazioni europee in tema di controllo del consumo di suolo. Dopo alcuni anni e molte modifiche, il testo evaso dalla Camera appare del tutto insufficiente per tale obiettivo: privo di chiari meccanismi regalatorî, quasi mai prescrittivi, contorto nella suddivisione dei compiti istituzionali, improntato ad una logica derogatoria e addirittura pericoloso in taluni articoli, che potrebbero addirittura favorire il consumo di suolo agricolo e la costruzione di nuove infrastrutturazioni.
In buona sostanza, un esempio clamoroso di quella "discrasia fra il dire e il fare" di cui si parla nel nostro testo (p. 105).

Insomma, il cammino verso un'efficace regolamentazione del consumo di suolo nel nostro paese appare ancora accidentato e addirittura contraddetto, negli obiettivi, da provvedimenti invece già operativi quali lo "sbloccaItalia" o le semplificazioni delle autorizzazioni paesaggistiche (decreto del presidente della Repubblica del 25/05/2016 o la radicale riforma della conferenza dei servizi (decreto attuativo della così detta "legge Madia"). Strumenti come Fermiamo il consumo di suolo diventano pertanto preziosi per illustrare, con chiarezza e finezza di analisi, ad una platea ancora troppo poco consapevole dell'importanza della posta in gioco, temi cruciali: come ci ricordava Lucio Gambi, occorre "conoscere per agire politicamente".

Ripubblicazione della "Lunga guerra per l’ambiente", l'opera di una donna che ha svolto un ruolo riulevante nells culturs italiana del secolo scorso. La Repubblica, 12 giugno 2016 (c.m.c.)

«Salerno, che dall’alto gode ancora della linea armoniosa del suo golfo, e di una luce dolcissima che quasi non penetra nel nodo intricato e ingegnoso delle strette vie del suo centro storico, ha difensori accaniti ed esperti»: come riscriverebbe, oggi, questo brano Elena Croce (1915-1994)? Certo, ritroverebbe i difensori di Salerno (l’esemplare sezione di Italia Nostra), ma non più la linea del Golfo, sfregiata (per sempre?) dal Crescent pervicacemente voluto da Vincenzo De Luca.

La ripubblicazione della Lunga guerra per l’ambiente (a cura di A. Caputi e A. Fava, con una introduzione di S. Settis, La scuola di Pitagora editrice) della primogenita di Benedetto Croce è un fortissimo richiamo «al dovere di impegnarsi nelle battaglie civili anche contro chi resta in disparte perché calcola che non si vince» (così Mario De Cunzo).

È amaro il disincanto con cui Elena Croce constata che «non sono mancati i casi in cui, pure reclamando la rimozione di gravi fonti di inquinamento come l’Italsider di Bagnoli, si doveva tremare al pensiero di ciò che l’avrebbe sostituita».

E non abbiamo smesso di tremare, anche se le pressioni di un’intera cittadinanza sembrano finalmente aver indotto il governo a rinunciare alla speculazione: saranno i prossimi mesi, e la qualità della bonifica, a dirci se stavolta riavremo Bagnoli.

Ambientalismo, per la Croce, non era sinonimo di immobilismo: «Una politica civile del territorio non significa del resto fare di ogni cosa museo, come sogghigna costantemente gran parte dei politici stimolando la protesta: “non vogliamo essere un museo, vogliamo vivere”.

È uno degli slogan più grotteschi che abbiano infestato il nostro paese in questi scorsi anni». La soluzione è, invece, la «formazione di quadri culturali adeguati alla tutela» dell’ambiente. Ripeterlo oggi sembra ingenuo. «Ma a chi da molti anni si occupa di difesa dell’ambiente, e conosce quindi abbastanza a fondo la gamma delle puerili, irresponsabili astuzie del potere, l’accusa di ingenuità non dà più alcun complesso». La lunga guerra per l’ambiente è appena cominciata.

"Da questa parte del mare" di Gianmaria Testa per Einaudi. Prefazione di Erri De Luca. Un viaggio struggente, per storie e canzoni, sulle migrazioniumane. Il manifesto, 6 giugno 2016 (c.m.c.)

Sembra un luogo comune: il dono inaspettato. Non lo è, non lo sarà in futuro. Soprattutto quando un amico se ne va e la notizia circola improvvisa e secca, inappellabile. Eppure è come se funzionasse una sorta di trasmittente nascosta nelle pieghe delle cose, nei viluppi del tempo che svanisce attimo dopo attimo, e quell’amico ha lasciato un regalo prezioso, appena dopo aver fatto un segno di saluto con una mano che oscillava, piano, piano, a dire «ci rivediamo, prima o poi».

Gianmaria Testa è stato amico di molte persone. Di una prima ristretta schiera, quelli che avevano a che far quotidianamente o quasi con i suoi occhi curiosi e indagatori, con le sue spalle larghe che sembravano caricare un peso contadino sul dorso sinuoso della chitarra, incombendo sul calice di vino bianco posato sul tavolo accanto. Di una cerchia più allargata, ma forse non meno intima. Quelli che avevano imparato a fidarsi di un uomo, prima che di un autore di canzoni, di uno vero che quando scriveva qualcosa lo faceva perché aveva da dire qualcosa, non una pendenza col mercato.

Gianmaria Testa se n’è andato in punta di piedi (il 30 marzo scorso, ndr) e ha lasciato una cosa che non ci aspettavamo, e della quale parleremo. Un libro. Prima ha lasciato qualche disco che ci conserverà per sempre l’impronta, il calco sonoro di una voce che tra pieghe aspre e vibrati impercettibili continuerà a parlarci all’infinito. Racconta Pietro Leveratto, contrabbassista del più nobile jazz italiano contemporaneo, uno che ha accompagnato i più grandi, e dunque anche Testa: «Gianmaria scriveva cose semplici di una difficoltà estrema. Faceva sembrare leggere cose pesantissime, volava dove altri avrebbero arrancato col fiato corto. Io ho sempre avuto rispetto per chi ha quel dono».

Quel dono di arrivare alla sintesi non per chissà quale dono innato di facilità di scrittura, ma per aver semplicemente ragionato sulle cose scegliendo la via meno ovvia, la meno gratificante, quando urgono invece ragioni della pancia e delle viscere che aprono la strada all’affermazione roboante e beota.

Gianmaria Testa aveva pensiero affilato e radente, a scoperchiare e rimuovere in un trancio di lama l’epitelio duro del luogo comune. L’aveva fatto in un disco che si intitola Da questa parte del mare, diversi anni fa. Bellissimo e struggente, ma di una durezza commisurabile a quella della vita vera. Affrontato come un lavoro da fare: spiegare (a se stesso, in prima battuta: poi a chi avrebbe ascoltato in seconda) cosa voleva dire trovarsi all’alba livida del terzo millennio, e dove, ancora una volta, scappare, forzare confini, buttarsi in una terra incognita per scampare a una terra matrigna di sentimenti, e madre invece di fame e torture, umiliazioni e assenza di fortuna.

All’epoca, era il 2007, nei telegiornali li definivano «clandestini», oggi il politically correct li chiama «migranti» o «rifugiati», ma la sostanza davvero non cambia. Oggi sono, perlopiù, i respinti e gli annegati. Sempre di più, e con le mani sempre più scorticate dai fili spinati della fortezza Schengen.

Gianmaria lo sapeva che non era cambiato nulla, da quando fece uscire quelle canzoni, che la scorza dura delle pance piene non avrebbe trovato pietà per quelle vuote.

E Da questa parte del mare è diventato, pensiero dopo pensiero, un libro. Con la prefazione dell’amico di sempre Erri De Luca. Pubblicato da Einaudi. Bello, duro e struggente come le canzoni che ne rappresentarono l’epitome. Come se Gianmaria avesse preso i testi delle sue undici canzoni, avesse scrollato i fogli che contenevano le righe, e dalla carta si fosse liberato per aria il molto di pensiero e di fatti che c’era nascosto dietro ogni singola storia di migrante immaginata, ascoltata, ricostruita.

Poi quel «molto» è diventato, ancora una volta, parola scabra, asciugata: perché Gianmaria Testa è narratore semplice e petroso, di disarmante e asciutta chiarezza, non fumisteria di polvere estetizzante. Diceva «ho l’impressione che nei confronti delle migrazioni abbiamo avuto un sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti».
Il regalo nel regalo di questo libro piccolo e ad altissimo peso specifico è in coda, poesie di Testa ritrovate e raccolte, spesso brevi e delicatamente tese come un haiku: «Quanto meno/ un’ombra/ racconta/ di una luce».
«E adesso riprendiamoci l’Appia antica . Dal libro “Appia” di Paolo Rumiz la mostra “L’Appia Ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi”». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)

Scenderete dai colli Albani calpestando terra negra punteggiata di borragine, poi sarete nella piana delle acque vive ai piedi dei Lepini con le fortezze preromane sugli strapiombi, quindi verranno i boscosi Ausoni che hanno dato all’Italia il nome antico e, subito dopo, i cavernosi Aurunci dalle spettacolari fioriture a picco sul mare. Vi perderete nei labirinti di Gomorra che un tempo fu Campania Felix, poi la vista spazierà sui monti del Lupo e del Picchio e gli altri della costellazione sannitica, avanti nell’Italia dimenticata degli Osci, degli Enotri e degli Japigi, fino al finis terrae di Brindisi e all’Apulia della grande sete.

Volevo che il mio ultimo viaggio per Repubblica, quello sui selciati e i sentieri dell’Appia antica, avesse un sigillo speciale. Qualcosa che, anziché chiudere una storia, ne aprisse una nuova, meglio se raccontata da altri. L’avevo promesso ai lettori. Ed ora eccolo qui, il libro sulla Gran Via restituita agli italiani dopo la traversata a piedi del 2015. Sentivo di doverlo fare, più per senso civico che per letteratura. Per qualcosa che va oltre il diritto individuale allo spazio e diventa dovere verso la propria Terra.

È per questo che nel racconto, in uscita il 9 giugno, c’è la descrizione e la mappatura (anche in versione online) dell’itinerario offerta ai camminatori. Ed è per questo che lo stesso giorno succederanno altre due cose: l’apertura al Parco della Musica di Roma, nell’ambito della “Repubblica delle idee”, di una mostra sulla Regina Viarum, costruita in gran parte con nostri materiali, e l’uscita di un nuovo dvd con sottotitoli in inglese, utile anche ai viandanti stranieri. Sarà il regalo finale dei quattro dell’Appia antica: Riccardo Carnovalini, Alessandro Scillitani, Irene Zambon e chi scrive.

Ora davvero l’Appia potrà essere il nostro Cammino di Santiago. Ma con importanti differenze. Il tracciato italico non si apparta per valli solitarie. Non è costellato di ostelli e di confortevoli punti di sosta. Non ha alle spalle una letteratura recente. È una strada ancora tutta da attrezzare. Una strada che chiede la riconquista di uno spazio selvaggio o dilapidato dall’incuria degli Italiani e ci ordina di resistere all’oblio, a costo di combattere con l’asfalto, i guard-rail e le recinzioni abusive. Sì, per accedere alle meraviglie nascoste dell’Italia si deve fare talvolta del lavoro sporco, perché l’ambiente non è solo bosco e idillio di brughiere, ma anche città, periferia, fabbrica, banlieue.

Il cammino vero si fa nel mondo, non fuori dal mondo. Non è arroccamento in riserve indiane. E così come sopporta vesciche, graffi e punture di tafani, il vero esploratore accetta anche zaffate di tubi di scarico, insulti e diffidenza. La viandanza è immersione, non decollo verso altezze rarefatte; è contaminazione, metamorfosi. Può essere paracarro, campo di frumento, cava di pietra, metanodotto, muretto a secco, greto, tratturo, passaggio a livello, uliveto, pelle di serpente.

E poi, non è vero niente che “tutte le strade portano a Roma”. Semmai “tutte le strade partono da Roma”, perché è Roma lo straordinario punto zero di un conteggio delle miglia che innerva come una ragnatela l’Europa e lo spazio mediterraneo. Chi taglia a piedi un territorio come l’Italia del centro-sud vede molte cose che altri non vedono, specialmente i politici di scarpa lustra. Credere che siano le periferie a dover accorgersi del centro è qualcosa che con l’antica Roma aveva poco o nulla a che fare.

Ma forse tutto questo nostro Paese, nato troppo in fretta, andrebbe riletto a rovescia. A noi è bastato poco per capire che la Linea Magica che aveva portato a sudest il segno di Roma nel cuore del Mare Nostrum ora portava verso l’Urbe il segno della camorra. In pochi mesi, dopo il nostro passaggio, Roma e Brindisi perdevano i loro sindaci, decapitate dalla politica o dalla magistratura, e la terra dei Casalesi era investita da inchieste pesanti. A tutt’oggi tra Roma e il Casertano, undici su trentanove Comuni attraversati dalla Gran Via sono commissariati, con la provincia di Latina che — con una concentrazione anomala di appalti sospetti — si fa anello di congiunzione fra Gomorra e la Capitale.

Tutto questo non lo capisci con i droni e gli smartphone, ma usando i piedi. Sono loro il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante. I piedi non sono arti, ma organi di senso che mandano alla testa una strepitosa quantità di segnali.

Nello stesso tempo la strada ribalta schemi e pregiudizi. Proprio nelle terre più malfamate è facile trovare i segni di un’ospitalità da Grecia antica. Quanto più, verso il magnifico capolinea, i segni dell’archeologia si rarefanno, tanto più la temperatura umana aumenta. E poi, quanta varietà e bellezza in più rispetto a Santiago. La via italiana non è solo campagna, pietre miliari e basolato. È donne ai balconi, pasta alle melanzane, rospi schiacciati, vento nei canneti, la mamma e Padre Pio. Pane cafone, fiori su un guard-rail, caffè alla nocciola e cani perduti. È argine, solco di carri sulla roccia viva, tiglio solitario, cantoniera abbandonata, cancello con la scritta ATTENTI AL CANE.

L’Appia è fatamorgana, fantasma meridiano che galoppa nei campi di colza inondati di sole. Proprio dove ti schianta con le sue devastazioni, l’Italia del Sud si fa perdonare con una fritturina di paranza o col pane cotto con patate, aglio, peperoncino ed erbe di campo. Se passerete a piedi in questo mondo appartato, sismico e fertile, dai sapori ancora pieni, sappiatelo: sopporterete tentazioni peggio di Sant’Antonio. Tutto cospirerà per farvi desistere. Ma almeno inghiottirete il Paese a forchettate. Ruminerete insieme cibo, storia, flora, fauna e paesaggio. Melanzane fritte e Federico di Svevia, Aglianico e canti ebraici di Oria, carciofi alla giudia e Satire di Orazio Flacco.

L’Appia non è solo i suoi celeberrimi chilometri iniziali. È molto di più. Per cominciare, essa è il solo cammino europeo leggibile nei due sensi. Mentre Santiago ha un significato one- way, la via romana racconta due grandiose storie parallele.

La strada verso Brindisi appartiene alle legioni, quella verso Roma agli apostoli Pietro e Paolo, al Cristianesimo che sbarca in Occidente. Essa è continuità di storia, un asse che riassume la storia d’Italia ben oltre l’epoca romana, parla dei popoli del mare, dei Greci, dei Saraceni e degli Ebrei. Narra di Svevi e Longobardi. Evoca la Resistenza e le repressioni borboniche, l’epopea garibaldina e la devastazione degli anni Sessanta. C’è molto di più che sul Camino spagnolo.

L’Appia è il portale d’accesso a un arcipelago unico al mondo di mausolei, anfiteatri, ville, opere di difesa, stazioni di sosta, locande. Camminandoci sopra, potrete sentire il passo delle legioni e il flusso delle mercanzie, il raglio degli asini e le grida dei traghettatori, e questo vi aiuterà a scrivere una rapsodia italiana persino più autentica del rinomato Grand Tour. Essa sarà per voi un modello insuperato di brevitas rispetto alla viabilità contemporanea tormentata da svincoli, rotonde e sottopassi. Un esempio unico di lavori pubblici ben fatti e buona manutenzione. L’Appia è unica. Un marchio di formidabile richiamo internazionale.

Ai camminatori dico: ora tocca a voi scrivere la storia. Basteranno i vostri piedi, un buon tagliaerba e qualche cartello. L’Appia non è il Colosseo. È una scommessa leggera, a fronte di un investimento pesante. Ve ne accorgerete: ci vuole poco per riprendersi l’Italia.

«"La democrazia del merito", l'ultimo libro di Giuseppe Tognon, contrappone al mito della libertà meritocratica, il mito della libertà democratica incarnato nella figura di don Milani». Il manifesto, 3 giugno 2016 (c.m.c.)

Beatificata dalla stragrande maggioranza e respinta dai nostalgici egalitari, la meritocrazia subisce un rimprovero pedagogico nell’ultima fatica di Giuseppe Tognon, La democrazia del merito (Salerno Editrice, pp. 112, euro 8,90). Qui si prendono le distanze dal mercato e dalla retorica delle «pari opportunità» in nome di una nuova antropologia del merito fondata sull’ideale democratico. L’obiettivo è denunciare quella «tentazione meritocratica» che cancella le fragilità e perde di vista i segni specifici di ogni essere umano.

Non tutto può diventare merce. La ricerca di senso sfugge alle «curve sul profitto» e secondo l’autore riattiva quei luoghi della condivisione illuminati dal dono e dal ruolo trascendentale dell’incontro.

Il merito, nel suo autentico significato, rinnega l’utilitarismo spregiudicato e difende i talenti dell’umanità. La meritocrazia liberale si occupa al contrario di alcuni talenti e introduce una gara senza sosta dove invidiosi protagonisti rinforzano il carattere poco nobile dell’apartheid. Si tratta di uno schiaffo agli ultimi, ai «falliti», a chi consegue nella vita di tutti i giorni il «premio» della sobrietà.

Rinunziare a questa ideologia, continua il pedagogista, significherebbe non soltanto annullare la triste equazione merito/successo, ma più in generale ricostruire le fondamenta dell’umanità a scapito del vuoto, di un estrinseco sempre più legato ai processi di mercificazione.

Le «fabbriche di eccellenza» ospitano rigidi criteri di valutazione che si rivolgono ad un automa assuefatto alle mode consumistiche. Egli non sa più quel che vuole e rincorre l’eccesso. Vive l’istante come unico orizzonte temporale e si dimentica della speranza, del futuro, dei fini di lungo periodo. Il cittadino sui iuris si traduce in imprenditore o in cliente, uomo-massa o manager. Ironizza sull’emotività, sui gesti creativi dell’arte e adopera ad oltranza il linguaggio operativo dell’informatica. L’università di Harvard e le scuole economiche trionfano sul sapere umanistico e feriscono le molteplici attese rifiutate da un sistema non immune dal pericolo totalitario.

In questo libro si ammonisce quel riformismo di sinistra, rilanciato dalla Third Way di Tony Blair, che non si discosta dal terreno delle discriminazioni e garantisce il primato dell’efficienza attraverso regole quasi identiche al modello reazionario delle destre.

Al mito della libertà meritocratica, lo studioso contrappone giustamente il mito della libertà democratica incarnato nella figura di don Milani: Lettera a una professoressa è il simbolo di una verità sofferta. La «sufficienza» al disagio, voluta dal sacerdote fiorentino e offesa dai fanatici della competizione, non preannuncia un gretto livellamento, ma la riscoperta di un’alternativa, di un sentimento profondo che suggerisce la vittoria di chi adesso non può, di chi balbetta la sua vocazione e rivendica a pieno titolo uno spazio.

Il merito deve attingere al registro democratico e riflettere con un nuovo approccio relazionale le sfumature di chiunque. La scuola della vita espelle così i toni arroganti dell’arrivismo e promuove le vie infinite che alimentano la giustizia.

Un nuovo volume a cura di I. Agostini e P. Bevilacqua edito da manifestolibri. 11 maggio 2016. La raccolta degli articoli pubblicati sul "quotidiano comunista" nella seri"Viaggio in Italia, promossa da Piero Bevilacqua, e successivamente ampliata (p.d.)

A partire dalla metà degli anni Ottanta le città italiane subiscono profonde trasformazioni fisiche, sociali e politiche. La deindustrializzazione, la privatizzazione dei servizi, la mercificazione dei centri storici preda del turismo globale, sono alcune delle forme con cui il neoliberismo aggredisce il tessuto urbano e mette in crisi le regole della convivenza civile.

La gestione delle città si adegua al modello liberista e fa proprie le regole dell’economia finanziaria. Nei comuni impoveriti dai tagli statali, l’urbanistica contrattata e la cultura della deroga creano le condizioni per la bolla edilizia; nelle aree centrali delle città, i grattacieli soddisfano gli appetiti della rendita; nei territori, il consumo dei suoli agricoli altera gli equilibri ecosistemici.

Nel trentennio, un universo di comitati autorganizzati in difesa della città pubblica si oppone all’erosione degli spazi e dei beni comuni, al processo di indebolimento della democrazia rappresentativa e alla crescita del potere nelle mani dei sindaci. E restituisce all’intero paese la speranza di un cambiamento radicale.

Il quadro della fase storica neoliberista è ricostruito da architetti, urbanisti, territorialisti, geografi, poeti, narratori, storici, politologi, giornalisti, medici, agronomi, economisti, che raccontano le città secondo competenze disciplinari e prospettive diverse. Al primo nucleo di città apparso su “il manifesto” nella rubrica Viaggio in Italia – Avellino, Bologna, Cagliari, Catanzaro, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Parma, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Sassari, Taranto, Torino, Venezia – si aggiungono in questo libro Bolzano, Catania, Cosenza, Genova, L’Aquila, Modena, Pisa, Ravenna e Siena.

Scritti di I. Agostini, F. Arminio, G. Barbera, P. Berdini, P. Bevilacqua, S. Brenna, D. Cersosimo, C. Ciampa, A. Costabile, A. Dal Piaz, V. De Lucia, F. Farinelli, G.J. Frisch, C. Greppi, F. Leder, A. Magnaghi, T. Perna, A. Perrotti, M. Preve, R. Radicioni, E. Righi, C. Rizzica, S. Roggio, E. Salzano, F. Sansa, A. Savini, E. Scandurra, P. Scarpa, M.A. Teti, G. Todde.

«"Che cosa c’è sotto? Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo" di Paolo Pileri per AltrEconomia. Ripensare il recupero, l’azione popolare e un’ecologia degli spazi». Il manifesto, 28aprile 2016 (c.m.c.)

Il consumo di suolo – 8 mq al secondo in Italia – costituisce una delle maggiori componenti del degrado ambientale e della crisi climatica che segnano il nostro quotidiano, ed esaspera spesso le tragedie sociali, esistenziali e civili che connotano l’attualità.

Nel volume Che cosa c’è sotto? Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo (AltrEconomia, 2015, pp.160) Paolo Pileri, urbanista del Politecnico di Milano, ne fornisce una lettura sistemica; utile a interpretare le relazioni tra gli errori che caratterizzano le politiche, e i crescenti disagi che segnano le condizioni del vivere. Che diventano catastrofi epocali nelle aree «dei Sud», in cui le varie forme di rendita, dapprima economica quindi finanziaria, hanno preteso di estrarre gran parte del valore dei vari territori, accaparrandosene le migliori risorse. Spesso al prezzo della distruzione di fattori essenziali dell’assetto sociale, ambientale e di vita dei contesti investiti.

La perdita di suolo – e di quello che c’è sotto – costituisce quindi un «disastro di fase» nella attuale epoca di finanziarizzazione globalizzata. La perdita di suolo – quasi sempre per urbanizzazione/cementificazione – colpisce la varietà multidimensionale della «ricchezza» racchiusa nel patrimonio territoriale, ben oltre i problemi strutturali e funzionali di organizzazione dello spazio.
Pileri spiega bene che distruggere quello strato di crosta terrestre che sta sotto i nostri piedi, «fino a una profondità variabile tra i 70 e i 200 centimetri», ci priva di funzioni e beni bioecologici, economici, agricoli, nutrizionali, decisivi per la nostra vita.

L’urbanista infatti – prima di soffermarsi sull’elaborazione concernente il problema del consumo di suolo – spiega la funzione portante di quest’ultimo rispetto all’intero assetto territoriale, e si sofferma sulla «ricca complessità» ecologica contenuta nel suolo-bene comune. Ques’ultimo ha infatti «impiegato decine di milioni di anni per presentarsi a noi nello stato in cui oggi lo conosciamo. Tra le tante cose che ha messo a punto, la più geniale riguarda forse il modo di relazionarsi con il carbonio.

Proviamo allora a capire chi porta il carbonio nel suolo: i protagonisti sono tanti, ad esempio una semplice foglia che cade silenziosa da un albero, gli aghi di un abete che piovono ogni 5 anni, una graminacea (ovvero un filo d’erba) che appassisce stendendosi sulla terra: un calabrone che vi finisce i suoi giorni, come pure un cervo un uccello; e poi lo sterco di mucca, cinghiale, lepre, passerotto, orso, topo, lucertola, lumaca e vipera, sono fonte preziosa di carbonio. Quasi nulla in natura muore quando cade a terra, e quasi tutto ritorna cibo. Quel che era rifiuto, nel suolo diviene energia vitale e vera e propria vita, di nuovo».

La perdita della componente organismica comporta effetti micro e macro, dovuti alla cancellazione degli appartai paesistici cui consegue spesso il dissesto idrogeologico. Che dunque – sottolinea Paolo Pileri – è dovuto «a bombe di cemento, altro che bombe d’acqua». Paradossalmente il cemento, icona della «sicurezza moderna del costruito novecentesco» è diventato il primo fattore di indebolimento del territorio di fronte alle ricadute dei cambiamenti climatici.

Non meno gravi sono le conseguenze in termini agroalimentari. L’autore ricorda come «tra il 1990 ed il 2006, i diciannove paesi membri UE hanno cementificato terreni agricoli contraendo la loro produzione interna annua per un equivalente di oltre 6,1 milioni di tonnellate di cemento, pari all’1% della produttività annua europea». Un dato che sembra poco rilevante ma che ha comportato la conversione forzata a produzione agricola, destinata al consumo europeo, di milioni di ettari naturali e seminaturali in paesi africani e sudamericani.

Paolo Pileri sostiene quindi la necessità di una svolta drastica nelle politiche ambientali, che innovi i modi che hanno portato alla situazione attuale di ipercementificazione, in Italia e non solo. Affrontare i nodi critici di politiche e strategie programmatiche, dall’abbattimento della rendita urbana e finanziaria, alla formulazione corretta degli strumenti di politica urbanistica, al riconoscimento di suolo e territorio quali beni comuni, significa concentrarsi su ciò che è importante. Bisogna infatti sancire la fine dell’epoca della crescita urbana e l’avvento della cosiddetta «urbanistica del recupero»: una svolta che necessita forse di qualcosa di simile a quella che Salvatore Settis ha chiamato «azione popolare».

Come dovrebbe suggerire il buon senso, oltre che l'esperienza, a realtà complesse devono corrispondere approcci complessi. Ci si pensa troppo poco e troppo occasionalmente. La Repubblica, 31 gennaio 2016

Se n’era già accorto, un paio di anni fa, Luca Doninelli: gli scrittori raccontano sempre più spesso la realtà urbana, e quello che per un determinato periodo era rimasto un semplice fondale della narrazione diventa con frequenza crescente protagonista della storia (qualunque sia il genere e la declinazione della medesima). Nasce dunque a proposito, proprio domani, una nuova rivista on line, The Towner Italia, tutta dedicata alle città (italiane e no), da narrare in forma saggistica o di pura fiction. L’avventura si deve a Tim Small e a un drappello di giornalisti e scrittori (Francesco Pacifico, Valerio Mattioli, Pietro Minto, Cesare Alemanni, Giulia Cavaliere, Laura Spini): nel numero di esordio Valeria Parrella spiega come trasporta Napoli nella scrittura, Flavio Santi descrive poeticamente Udine e la campagna che la circonda, Vanni Santoni illustra cosa significa per uno scrittore vivere a Firenze e come fare i conti con la storia e con il turismo.

Ad affiancare gli interventi e le interviste d’autore, notizie su mostre e attività culturali delle città visitate: fra non molto, inoltre, nascerà una rivista gemella in lingua inglese con la collaborazione di scrittori internazionali. In nota, a proposito di debutti: è online da pochi giorni biancamano2. einaudi.it: non un sito canonico, ma un blog della Narrativa Straniera (e delle Frontiere) di Einaudi con notizie, recensioni ed extra. Per cominciare, Paolo Giordano su Marylinne Robinson (Lila), Vincenzo Latronico su Io e Mabel di Helen MacDonald, Antoine Laurain su Modiano, Lorenzo Ceccotti su Haruki Murakami. Buona lettura.

«Gentrification», chi era costui? Su un termine di importazione, ma che di fatto ripercorre temi che dovrebbero essere ben noti all'urbanistica, una doppia recensione a due recenti lavori di sociologia urbana. La Repubblica, 8 dicembre 2015, postilla (f.b.)

È solo da poco che a Roma può accadere di sentire una conversazione come questa: «Vado a vivere a Tor Pignattara». «Figo!». Tor Pignattara, periferia est della capitale, tanti residenti provenienti dal Bangladesh, è investita da un fenomeno che chiamano con un termine inglese, “gentrification”. Non c’è un corrispettivo italiano. Più o meno vuol dire che la composizione sociale di un quartiere si è elevata. Vanno via molti abitanti di ceto basso, sostituiti da abitanti di ceto non altissimo, ma più alto di quelli di prima. L’espressione nasce in Inghilterra, metà anni Sessanta. Fu coniata dalla sociologa Ruth Glass. In Italia è approdata di recente, ma, racconta Irene Ranaldi, allieva di Franco Ferrarotti, «quando due anni fa la proposi per intitolare la mia ricerca, un editore sgranò gli occhi: “Nessuno sa che cosa vuol dire”». Ora forse molti sanno cosa significhi gentrification, ma la sua propagazione mescola le acque, le rende più torbide. Comprende cose diverse.

Ranaldi è l’autrice di uno dei libri che da qualche tempo affrontano la questione, Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York (Aracne). Più recente è Gentrification. Tutte le città come Disneyland? di Giovanni Semi (il Mulino). Ranaldi e Semi sono sociologi. Ma anche gli urbanisti si occupano dei pezzi di città che da degradati diventano attraenti, ospitano cineclub e boutique, gallerie d’arte e book caffè, richiamano giovani professionisti, creativi e artisti, e poi attori, scrittori, giornalisti, parlamentari, sono molto animati, ma esplodono la sera e nei week-end, e, soprattutto, vedono schizzare i valori di case ristrutturate e tirate a lucido, di magazzini che diventano loft.

Sui quartieri investiti da gentrification fioccano le ricerche nelle università. Si recupera il tempo rispetto a una nutrita letteratura anglosassone. «Fino ad alcuni anni fa per gentrifications’intendeva la sparizione di un vecchio ceto da un quartiere e l’arrivo di un altro», precisa Semi, «negli Stati Uniti e in Inghilterra si sono verificati molti casi negli anni Sessanta e Settanta, che hanno provocato duri conflitti sociali». E adesso? «Adesso la parola è usata quasi come sinonimo di quella che chiamano riqualificazione urbana con una connotazione neoliberista: trasformare un’area dismessa in un misto residenziale e commerciale. Abitazioni private per il ceto medio, gli stessi marchi dell’abbigliamento e della gastronomia, un po’ di verde, ma ad uso di chi risiede, magari un teatro e persino un piccolo museo. È un tipo di conversione disneyana della città». Città che invece avrebbero bisogno di altro, aggiunge Semi: di case a basso costo, di spazio pubblico vero, di servizi che non ci sono – dalle biblioteche ai trasporti – e poi di locali da affittare per attività associative, culturali, d’impresa… Semi ricorda molte vicende di trasformazioni urbane: la Parigi ridisegnata dai boulevard del barone Haussmann, fra il 1853 e il 1870, o l’invenzione del Greenwich Village nella New York anni Trenta del Novecento. Altri esempi: gli sventramenti italiani di fine Ottocento, culminati a Roma con il piccone fascista che demoliva la Spina di Borgo, davanti a San Pietro, o il quartiere Alessandrino, da dove fu espulso chi vi abitava per far posto ai fasti di regime e alla speculazione.

In realtà uno dei presupposti moderni della gentrification è la deindustrializzazione di porzioni semicentrali delle città, e dunque la presenza di stabilimenti dismessi e di abitazioni in parte occupate da chi in quei luoghi lavorava. Secondo Neil Smith, studioso inglese citato da Semi, alla base della gentrification c’è un reinvestimento di capitali all’interno di una città successivo a un disinvestimento. Capitali industriali fuoriescono e rientrano capitali immobiliari. Ormai persino molti costruttori, dopo che la città s’è sparpagliata ovunque e i centri storici si sono svuotati di residenti, aderiscono alla sacrosanta richiesta di uno stop al consumo di altro suolo e spingono per l’edificazione sul già edificato (ovviamente alle loro condizioni).

Ed è qui uno dei punti cruciali. Lo segnala Carlo Cellamare, urbanista della Sapienza di Roma: «In questi processi, come pure in quelli più appariscenti, tipo la movida notturna, si manifesta qualcosa di profondo: non solo una mercificazione della città, ma una mercificazione della vita urbana. Il desiderio di socialità, di intrattenimento, di luoghi che favoriscano questo, viene, si dice, “messo al lavoro” per produrre reddito, proprio tramite processi come la gentrification ».

A Roma Tor Pignattara, appunto, o il Pigneto. O Testaccio, il quartiere che ha studiato Ranaldi, mettendolo a confronto con il newyorchese Astoria. A Testaccio non ci sono sostituzioni edilizie (al posto del mattatoio sono approdate la facoltà di architettura di Roma 3, una sezione del Macro, il museo d’arte contemporanea, e la Città dell’Altra economia), «la popolazione è divisa fra abitanti delle storiche case popolari e i nuovi arrivati, compreso l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, ma sono cambiati tanti negozi e si vanno imponendo i nuovi marchi globali», racconta Ranaldi. «Nel mondo anglosassone la gentrification è stata determinata da grandi operatori economici, da noi è partita da processi spontanei, ai quali poi si sovrappongono le valorizzazioni immobiliari e commerciali», spiega Cellamare. Al Pigneto si sono trasferiti molti giovani, poi si sono imposti simboli diversi, dall’isola pedonale alle memorie pasoliniane (quando di pasoliniano non restava nulla). I prezzi sono cresciuti e si è innescata la gentrification.

La gentrification italiana ha dunque tratti diversi. A Genova a ridosso del porto sono tornati molti figli della borghesia che aveva abbandonato quelle zone nel dopoguerra. Qui, spiega Semi, il fenomeno è bivalente: oltre alle ristrutturazioni e alla vitalità culturale i valori immobiliari sono cresciuti fino al 210 per cento e gli immigrati che abitavano le case lasciate vuote sono stati allontanati. A Milano, fra i quartieri Isola e Garibaldi, quartieri operai e artigiani, la gentrification ha invece mostrato i denti aguzzi dei fondi immobiliari, di Ligresti e dell’emiro del Qatar, impegnando grandi nomi dell’architettura che hanno disseminato l’area di grattacieli.

Conclusioni? È difficile trarne. Intanto prosegue la ricerca di modelli diversi da quelli che si sono affermati, variamente ispirati a una città dove si perdono dimensione pubblica e inclusione sociale. Semi ricorda la Bologna dei primi anni Settanta, dove Pier Luigi Cervellati avviò la riqualificazione di aree del centro storico destinandole, però, agli stessi abitanti di prima. Esperimento ripetuto a Brescia da Leonardo Benevolo e a Roma da Vittoria Calzolari. Altri tempi? Forse.

postilla
Una volta si chiamava tecnicamente sventramento, la pratica della riqualificazione urbana, con trasformazioni radicali del tessuto edilizio e infrastrutturale, a cui si accompagnavano quasi ovvie sostituzioni sociali per «ripagare i costi» della medesima trasformazione, scaricando chissà dove i sottoprodotti collaterali in termini di deportazione di famiglie, attività, aspirazioni. Ed era relativamente semplice leggere l'odioso meccanismo di rapina: c'erano dei pionieri che di fatto avevano costruito sulla propria pelle un valore, la città, nelle generazioni, e che ora venivano fatti sloggiare perché qualcuno potesse goderne adeguatamente i frutti. Poi la citata sociologa Ruth Glass a metà '900 evidenziò un nuovo strumento a bassa intensità di sventramento virtuale, che nascondeva meccanismi egualmente odiosi sotto il profilo sociale, sotto la patina della trasformazione edilizia minima o quasi inesistente: era nata la parola gentrification. Da allora in poi, pare che obiettivo centrale della cultura liberale sia spiegarci che la gentrification è buona, che è riqualificazione urbana tout court. Certo se la consideriamo solo dal punto di vista edilizio – come fa la propaganda immobiliarista - è facile confonderci, e quindi ben vengano gli studi sociologici a ricordarci, se non altro, che sempre del vecchio sventramento si tratta, sotto mentite spoglie (f.b.)

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