È stata pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione la legge n. 30 sul “Piano Territoriale Regionale”, approvata alla fine di novembre dopo non pochi contrasti.
WWF e Italia Nostra ribadiscono il giudizio critico già espresso sul disegno di legge originario.
Si tratta infatti di una normativa priva di contenuti reali nella parte iniziale, laddove si prefigura un Piano Territoriale Regionale (PTR) che dovrebbe avere anche la valenza di piano paesaggistico. Aspetti fondamentali del PTR vengono però rinviati ad una futura legge di riforma urbanistica.
Di una legge-manifesto, che rinvia a future leggi le norme operative per la salvaguardia dell’ambiente e del territorio, non si sentiva proprio il bisogno. Occorreva piuttosto accelerare le procedure per dotare il Friuli Venezia Giulia di strumenti di pianificazione d’area vasta (stesi almeno alle aree più sensibili del territorio regionale), per evitare la totale arbitrarietà – dovuta all’assenza di un quadro di coordinamento – con cui i Comuni oggi operano le loro scelte di sviluppo territoriale.
L’ultimo strumento di pianificazione d’area vasta è il infatti il Piano Urbanistico Regionale che risale agli anni ’70 e da allora la Regione ha di fatto rinunciato alla pianificazione territoriale e paesaggistica, lasciando la gestione del territorio in mano ai Comuni. Inoltre, la Regione ha impedito alle Province di svolgere le funzioni di coordinamento in campo pianificatorio che la legislazione statale assegna loro.
Tra le varie dichiarazioni di principio - continuano WWF e Italia Nostra - che costellano questa legge-manifesto, spicca la “equiordinazione” tra il valore dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali (che è un valore di rilievo costituzionale) e le finalità di crescita economica : il che equivale a dire che l’ambiente si tutela fino a quando ciò non ostacola la crescita economica, invertendo quindi quell’ordine di priorità che, con saggezza e lungimiranza (era il 1947), l’Assemblea Costituente volle scolpire nell’art. 9 della Costituzione.
L’unica parte “operativa” della legge 30/2005 è quella che attribuisce alla Regione il potere di sospendere il rilascio di concessioni ed autorizzazioni edilizie, allo scopo dichiarato di favorire la realizzazione di progetti “di interesse regionale”. L’individuazione di questi non viene però affidata al PTR o ad altri strumenti di pianificazione ed è rimessa soltanto alla discrezionalità di organi politici (Giunta regionale, d’intesa con i sindaci).
Viene così stravolto uno dei principi base di una corretta gestione del territorio, che lega l’adozione di misure di “salvaguardia” alle previsioni di un piano.
I progetti di interesse regionale non vengono identificati, ma nel disegno di legge originario era citata espressamente la ferrovia ad alta velocità compresa nel “Corridoio 5”.
Non basta: la legge 30 prevede che la Regione possa istituire STUR (Società di Trasformazione Urbana), d’intesa con i Comuni, per svolgere tutte le operazioni (compresi l’acquisto e l’esproprio dei terreni ed edifici), necessarie per la realizzazione delle opere “di interesse regionale” e finora riservate agli enti pubblici, con tutte le garanzie di trasparenza previste dalla legislazione vigente.
Garanzie che verrebbero meno in una spa.
Alle STUR, previste nella forma delle società per azioni, potranno partecipare anche i privati e non è quindi impossibile che questi possano finire per controllarne la maggioranza delle azioni.
Nessuna garanzia vi è quindi – concludono WWF e Italia Nostra – che il piano paesaggistico (rispetto al quale il Friuli Venezia Giulia è in ritardo di oltre 20 anni) veda finalmente la luce, sia pure sotto le spoglie del PTR. È assai più verosimile, invece, che trovino una “corsia preferenziale” (in assenza di pianificazione) progetti di infrastrutture di ogni genere, dall’alta velocità ferroviaria, alla nuova autostrada tra Carnia e Cadore, ai nuovi elettrodotti, ecc.
Link al testo normativo della LR 30/2005 (DDL n. 154)
CAPO I - NORME IN MATERIA DI PIANO TERRITORIALE REGIONALE
Art. 1 - Finalità
1. La Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia svolge le proprie funzioni di pianificazione territoriale attraverso la formazione del nuovo piano territoriale regionale (PTR). Per tale scopo ripartisce le attribuzioni della pianificazione territoriale tra la Regione e i Comuni, stabilisce che la funzione della pianificazione intermedia è svolta dai Comuni, nonché determina le finalità strategiche e i contenuti del PTR, che includono anche la valenza paesaggistica.
2. La disciplina del presente capo esercita la sua efficacia nelle more del riordino organico della normativa regionale in materia di pianificazione territoriale e urbanistica, in attuazione dell’articolo 4, primo comma, n. 12), dello Statuto speciale adottato con la legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni, nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Art. 2 - Definizioni
1. Nella presente legge:
a) l’espressione “risorse essenziali di interesse regionale” indica:
1) aria, acqua, suolo ed ecosistemi
2) paesaggio;
3) edifici, monumenti e siti di interesse storico e culturale;
4) sistemi infrastrutturali e tecnologici;
5) sistemi degli insediamenti;
b) l’espressione “piano territoriale regionale” (PTR) indica l’insieme degli elaborati conoscitivi, programmatici, normativi e cartografici tramite i quali la Regione svolge le proprie funzioni di pianificazione territoriale regionale.
Art. 3 - Attribuzioni della Regione
1. La funzione della pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale è della Regione.
2. La legge regionale stabilisce i criteri per individuare le soglie oltre le quali la Regione svolge le funzioni di cui al comma 1 per mezzo del PTR.
3. La legge regionale stabilisce, altresì, le procedure attraverso le quali la Regione assicura che la tutela e l’impiego delle risorse essenziali siano garantiti dagli strumenti urbanistici di livello subordinato.
Art. 4 - Attribuzioni del Comune
1. La funzione della pianificazione territoriale è del Comune che la esercita nel rispetto dei principi di adeguatezza, interesse regionale e sussidiarietà, nonché nel rispetto delle attribuzioni riservate in via esclusiva alla Regione in materia di risorse essenziali di interesse regionale e in coerenza alle indicazioni del PTR.
2. Il Comune, in forza del principio di sussidiarietà e di adeguatezza, esercita anche con enti pubblici diversi dal Comune, la funzione della pianificazione territoriale a livello sovraccomunale quando gli obiettivi della medesima, in relazione alla portata o agli effetti dell’azione prevista, non possano essere adeguatamente raggiunti a livello comunale.
3. La legge regionale stabilisce i casi nei quali il Comune svolge la funzione della pianificazione territoriale a livello sovraccomunale e le forme di cooperazione istituzionale con cui la esercita, quali le associazioni intercomunali previste dall’ordinamento in materia di autonomie locali.
4. Nei territori di cui all’articolo 4 della legge 23 febbraio 2001, n. 38 (Norme a tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli-Venezia Giulia), la pianificazione territoriale deve tendere alla salvaguardia delle caratteristiche storico-culturali della collettività locale.
5. Il piano regolatore generale del Comune è assoggettato alle procedure di cui alla direttiva 2001/42/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, e alle successive norme di recepimento, nonché alle metodologie di Agenda 21.
Art. 5 - Finalità strategiche del PTR
1. Il PTR persegue le seguenti equi-ordinate finalità strategiche:
a) la conservazione e la valorizzazione del territorio regionale, anche valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico;
b) le migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitività del sistema regionale;
c) le pari opportunità di sviluppo economico per tutti i territori della regione;
d) la coesione sociale della comunità, nonché l’integrazione territoriale, economica e sociale del Friuli Venezia Giulia con i territori contermini;
e) il miglioramento della condizione di vita degli individui, della comunità, degli ecosistemi e in generale l’innalzamento della qualità ambientale;
f) le migliori condizioni per il contenimento del consumo del suolo e dell’energia, nonché per lo sviluppo delle fonti energetiche alternative;
g) la sicurezza rispetto ai rischi correlati all’utilizzo del territorio.
Art. 6 - Contenuti ed elementi del PTR
1. Il PTR è costituito da:
a) un documento che analizza lo stato del territorio della regione, ivi incluse le relazioni che lo legano agli ambiti circostanti, le principali dinamiche che esercitano un’influenza sull’assetto del territorio o da questo sono influenzate, nonché lo stato generale della pianificazione della Regione e dei Comuni;
b) un documento che stabilisce gli obiettivi del PTR, generali e di settore, sulla base delle finalità strategiche indicate dalla legge, descrive i programmi e i metodi di pianificazione stabiliti per conseguire gli obiettivi;
c) supporti grafici in numero adeguato e scala conveniente per rappresentare l’assetto territoriale stabilito dal PTR e assicurare la cogenza del medesimo;
d) norme di attuazione, integrate con i supporti grafici, con prescrizioni che disciplinano tutta l’attività di pianificazione e assicurano la cogenza del PTR.
e) Il PTR esprime altresì la valenza paesaggistica di cui all’articolo 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 37), e contiene prescrizioni finalizzate alla tutela delle aree di interesse naturalistico e paesaggistico di cui alle direttive comunitarie e relativi atti di recepimento, nonché alle norme di legge nazionale e regionale.
Art. 7 - Formazione del PTR
1. La formazione del PTR avviene in conformità alla direttiva n. 2001/42/CE e alle successive norme di recepimento, nonché con le metodologie di Agenda 21.
Art. 8 - Adozione e approvazione del PTR
1. La Giunta regionale predispone il progetto di PTR e lo sottopone al parere del Consiglio delle Autonomie locali.
2. La Giunta regionale, anche sulla base delle valutazioni e delle proposte raccolte in esito al parere del Consiglio delle Autonomie locali, elabora il progetto definitivo di PTR.
3. Il progetto definitivo di PTR è sottoposto al parere della competente Commissione consiliare che si esprime entro trenta giorni dalla data della richiesta ed è adottato con decreto del Presidente della Regione, previa deliberazione della Giunta regionale.
4. Il PTR adottato è pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione e depositato per la libera consultazione presso la Direzione centrale pianificazione territoriale, energia, mobilità e infrastrutture di trasporto. Entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione possono formulare osservazioni:
a) gli enti ed organismi pubblici;
b) le associazioni di categoria ed i soggetti portatori di interessi diffusi e collettivi riconosciuti in ambito regionale;
c) i soggetti nei confronti dei quali le previsioni di PTR adottato sono destinate a produrre effetti diretti.
5. Esperite le procedure di cui ai precedenti commi e tenuto conto delle osservazioni di cui al comma 4, il PTR è approvato, previa deliberazione della Giunta regionale, con decreto del Presidente della Regione e pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione. L’avviso dell’avvenuta approvazione è pubblicato contestualmente sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica e su due quotidiani a diffusione regionale.
CAPO II - NORME IN MATERIA DI LOCALIZZAZIONE DI INFRASTRUTTURE STRATEGICHE
Art. 9 - Finalità
1. Le norme del presente capo hanno lo scopo di preservare la possibilità di realizzare infrastrutture strategiche ovvero di dotare la Regione di strumenti che ne facilitino la realizzazione.
Art. 10 - Sospensione temporanea dell’edificabilità
1. La Giunta regionale è autorizzata a sospendere per un periodo massimo di tre anni ogni determinazione sulle domande di concessione o di autorizzazione edilizia in contrasto con progetti che siano stati dichiarati di interesse regionale.
2. La Giunta regionale delibera la dichiarazione di interesse regionale dei progetti d’intesa con i Comuni interessati previo espletamento delle procedure di Agenda 21; la deliberazione è pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione.
3. La deliberazione di cui al comma 2 include gli elaborati tecnici necessari alla localizzazione nello strumento urbanistico comunale degli interventi previsti dal progetto di interesse regionale e prevale sulle destinazioni d’uso previste dal piano regolatore generale comunale.
4. L’approvazione del progetto definitivo delle opere costituisce accertamento di conformità urbanistica e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei relativi lavori.
Art. 11 - Società di Trasformazione Urbana Regionale
1. La Regione, a seguito di intesa preventiva con i Comuni, è autorizzata a promuovere e costituire Società di Trasformazione Urbana Regionale (STUR) per attuare progetti di particolare rilievo. Gli enti locali territoriali, le società controllate dagli enti pubblici e gli enti pubblici economici possono partecipare alla STUR in relazione alle rispettive competenze istituzionali. L’adesione del Comune alla STUR è condizione affinché la stessa operi nel Comune medesimo.
2. La STUR provvede all’acquisizione degli immobili interessati dall’intervento, alla trasformazione e alla commercializzazione degli stessi. Le acquisizioni possono avvenire consensualmente o tramite procedure di esproprio. La partecipazione di azionisti privati è subordinata all’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica e i proprietari delle aree interessate dall’intervento rivestono la qualità di socio ove conferiscano i relativi beni.
3. Ulteriori nuovi soci diversi da Regione e enti locali territoriali possono essere individuati fra le società controllate da Regione ed enti locali territoriali medesimi.
4. La STUR è costituita in forma di società per azioni e per la valutazione dei beni conferiti si applicano le regole del codice civile; ai soci spetta il diritto di prelazione in caso di alienazione di partecipazione da parte di altri soci.
5. La Regione e gli enti locali territoriali indicano la maggioranza dei consiglieri di amministrazione della STUR.
6. Per quanto non previsto trovano applicazione le disposizioni dell’articolo 120 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), se e in quanto non in contrasto con la presente disciplina.
7. Le presenti disposizioni si applicano anche alla società di cui all’articolo 4, comma 121, della legge regionale 26 gennaio 2004, n. 1 (Legge finanziaria 2004), e successive modifiche.
8. La legge regionale individua le risorse finanziarie necessarie alla Regione per la costituzione della STUR.
CAPO III - NORME TRANSITORIE
Art. 12 - Norme transitorie
1. Le disposizioni contenute nell’articolo 4 sono efficaci dalla data di entrata in vigore della legge regionale di riordino del titolo IV della legge regionale 19 novembre 1991, n. 52 (Norme regionali in materia di pianificazione territoriale ed urbanistica).
2. Nelle more dell’entrata in vigore del PTR, e comunque non oltre novanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale definisce indirizzi per la salvaguardia delle aree assoggettate a vincolo paesaggistico, anche tenendo conto degli orientamenti di cui alla deliberazione della Giunta regionale 5 giugno 1998, n. 1921, previa acquisizione del parere della competente Commissione consiliare che si esprime entro trenta giorni dalla richiesta.
Caro Eddyburg, Ho letto con grande attenzione l’intervento di Luigi Scano, dal titolo “ non mitizziamo le misure di salvaguardia”, in cui sono evidenziati spunti interessanti, in merito ai quali ritengo utile contribuire con alcune riflessioni.
Nell’intervento relativo alle “misure di salvaguardia” così come strutturate dalla L.R. della Campania n. 16/2004, volevo porre l’attenzione su alcuni aspetti applicativi delle innovazioni introdotte, di cui forse non ho evidenziato con la giusta chiarezza le ricadute e gli aspetti più problematici.
La L.R. n. 16/2004, prevede che nelle procedure di formazione ed approvazione dei piani generali comunali, le “misure di salvaguardia” non sono efficaci, in un momento molto delicato, quale l’esame delle osservazioni inoltrate alla Pubblica Amministrazione e l’elaborazione delle controdeduzioni. Infatti, la legge campana, prevede che l’atto deliberativo della Giunta Comunale, da inizio alla fase di pubblicazione, mentre successivamente il Consiglio Comunale “adotta” il Piano con atto deliberativo, in cui esamina anche le osservazioni ed in relazione ad esse controdeduce. Quindi la delibera di Giunta Comunale non propone semplicemente al Consiglio l’adozione del “Piano”, ma da inizio alla fase di pubblicazione e recepimento delle osservazioni. In pratica nella fase della pubblicazione, ed esame delle osservazioni, e quindi approvazione dell’atto deliberativo, da parte del Consiglio Comunale con cui si “adotta” il Piano, non sono efficaci le “misure di salvaguardia”.
Non ho mai creduto che le norme abbiano virtù salvifiche, meno che mai nelle materie urbanistiche, ma anzi esse, oltre ad essere espressione di una “visione del mondo” da parte di una maggioranza che legifera, hanno valore temporaneo, proprio perché modificabili sulla base dell’esperienza diretta applicativa, ed in conseguenza del modificarsi degli obiettivi che una collettività si prefigge.
Credo, che i “Piani” debbano essere patrimonio di una maggioranza, la più ampia possibile; essi per loro natura sono atti pubblici, nel senso più profondo, e le Amministrazioni Comunali che li elaborano, hanno l’obbligo, non solo normativo, di cercare la massima condivisione e partecipazione alla collettività, sia nella fase di elaborazione che nelle procedure di formazione ed approvazione. In merito a questi ultimi aspetti, nessuna norma impedisce alle Amministrazioni Comunali di cercare di attuare le più efficaci forme di partecipazione, di scelte importanti, come quelle riguardanti il territorio in cui vive una comunità, e questo dovrebbe avvenire, ed avviene in molti casi, dopo aver deciso di elaborare un nuovo “Piano”, nelle fasi precedenti al momento in cui un’amministrazione decide formalmente di iniziare l’iter di approvazione di uno strumento urbanistico generale.
Nelle fasi di partecipazione e condivisione di uno strumento urbanistico generale, spesso con difficoltà e pazienza si forma una maggioranza, che condivide delle scelte di assetto territoriale, e penso, nelle esperienze migliori, cerca di porre un argine alle spinte più retrive della speculazione. Nei casi in cui, dopo aver ricercato la massima partecipazione, si decide di iniziare l’iter di approvazione del “Piano”, con l’adozione dell’atto deliberativo, da parte della Giunta Comunale, si da inizio alla fase di pubblicazione (L.R. n. 16/2004), ed a questo punto, l’impianto della Legge n. 1150/1942 prevedeva che con la delibera che dava inizio alla fase di pubblicazione, iniziasse anche l’efficacia delle “misure di salvaguardia”, mentre il legislatore campano, ha spostato in una fase ancora successiva le necessarie “salvaguardie”. Non si comprende la necessità dell’innovazione introdotta, anche perché non risponde ad un principio di semplificazione delle procedure, infatti il procedimento non avrebbe subito alcun “appesantimento” dall’efficacia delle misure di salvaguardia, nel momento in cui si inizia la fase di pubblicazione, in pratica sarebbe rimasto inalterato, sia nei tempi che negli adempimenti amministrativi.
In relazione alla possibilità di “secretare” le previsioni di uno strumento urbanistico, ritengo che oltre ad essere impossibile, sia anche esercizio inutile e dannoso; però non capisco quale utilità abbia, alla fine di un tortuoso percorso di partecipazione delle scelte di Piano, eliminare una semplice forma di garanzia, nella fase in cui l’amministrazione comunale recepisce e controdeduce rispetto alle osservazioni.
Prevedere che le misure di salvaguardia siano efficaci solo dopo che l’amministrazione ha pubblicato il Piano, recepito ed esaminato le osservazioni, provoca la possibilità che una minoranza portatrice di interessi “altri” e “minoritari” potrà far sentire, ancora, il proprio peso, con tutte le conseguenze immaginabili, a discapito di una maggioranza che si è formata nel dibattito e nella partecipazione delle scelte operate; anche perché il legislatore dovrebbe prevedere le forme più chiare e corrette di interventi da parte di soggetti interessati, mentre in questo caso , si provoca a mio parere una dannosa sinergia tra le motivazioni che potranno formare le osservazioni, ed istanze di Permessi di Costruire non conformi al Piano in corso di approvazione. Le norme, credo che devono tendere ad evitare “zone” di pressione al di fuori dei procedimenti formali, e probabilmente il legislatore del 1942, a questo tendeva “garantendo” la fase in cui l’amministrazione esamina le osservazioni al “Piano”.
L’aspetto che qui evidenzio penso che non sia trascurabile, soprattutto nella Regione Campania dove la presenza pervasiva della “criminalità organizzata”, si esplica anche incidendo sulle dinamiche territoriali. In merito a quest’ultimo punto, sono convinto, che in ampie zone della Regione Campania, la “forma” attuale del territorio è l’espressione, anche della “storia delle organizzazioni criminali”, e non sembri paradossale ma ritengo che si potrebbe scrivere una “storia dell’urbanistica della criminalità organizzata”, che riserverebbe molte sorprese interessanti.
Quindi, senza “mitizzare” le misure di salvaguardia, mi sembra poco proficuo che esse non siano efficaci, ripeto, in una fase delicata e cioè nel momento in cui si esaminano le osservazioni e si decide in merito ad
esse.
Sono auspicabili tutte le innovazioni normative che tendono a semplificare i procedimenti ed a ridurre i tempi di approvazione degli strumenti urbanistici, ma a volte sembra che alcune novità vadano solo nella direzione di ridurre le già scarse forme di garanzia di affermazione di un interesse generale, rispetto agli interessi di “pochi”, ma economicamente rilevanti, e trovano la massima giustificazione nel “liberare” gli operatori economici da “lacci e laccioli”, come il “Cavaliere” definisce le norme che prevedono qualche forma di garanzia per la maggioranza dei cittadini.
Le norme regionali, in tutte le materie, ma in particolare per quelle che riguardano la programmazione del territorio, credo che debbono avere nella giusta considerazione le condizioni della società nella quale saranno applicate, ed esplicheranno effetti; quindi in Campania il legislatore non può ignorare quello che ha permesso al legislatore nazionale, in alcuni momenti, di emanare norme per rendere più efficace la lotta alle “mafie”, e cioè una profonda consapevolezza delle reali forze che incidono sull’evoluzione degli assetti del territorio.
Nel ringraziarvi per aver letto questa nota, vi saluto con stima e ammirazione.
Risponde Luigi Scano
Ritengo inutile postillare cavillosamente il nuovo intervento di Salvatore Napolitano sul tema dell'applicazione delle misure di salvaguardia secondo i dettati della legge regionale campana 16/2004, anche perchè l’intervento nella sua sostanza è del tutto condivisibile. Nel mio scritto (Non mitizziamo la salvaguardia) volevo semplicemente, a partire dal precedente intervento di Salvatore Napolitano, indurre a riflettere sull'insanabile contraddizione tra l'obiettivo di realizzare anche il primo momento sub-procedimentale della formazione di uno strumento di pianificazione, cioé l'adozione, con la più ampia partecipazione democratica, istituzionale e magari non soltanto, e l'obiettivo di impedire che, nelle more delle discussioni e dei confronti sulle scelte più innovative proposte dal nuovo strumento, i soggetti interessati alle rendite e ai profitti ricavabili dall'attuazione delle trasformazioni ammesse dallo strumento tuttora vigente, e che si ritengano penalizzati dai nuovi precetti pianificatori proposti, chiedano e ottengano (come "atti dovuti") i provvedimenti abilitativi a operare quelle predette trasformazioni, vanificando di fatto, in tutto o in parte, l'applicabilità di questi nuovi precetti.
Avanzo una proposta provocatoria (peraltro adombrata in vecchie leggi sia del Friuli-Venezia Giulia che del Veneto) : non sarebbe il caso di sancire che alla deliberazione, di competenza dell'organo esecutivo dell'ente territoriale, della proposta dell'atto di avvio di un procedimento di formazione di uno strumento pianificatorio (lo si chiami così, o "atto di indirizzo", o "documento preliminare", o come accidenti si voglia), sia conferita la possibilità di stabilire delle speciali misure di salvaguardia, consistenti nella sospensione (rigorosamente a tempo determinato, ragionevolmente commisurato a quello di presumibile redazione materiale e adozione, da parte dell'organo democratico rappresentativo dello stesso ente territoriale, del nuovo strumento) dell'efficacia di talune previsioni trasformative, afferenti a taluni ambiti territoriali, dello strumento tuttora vigente.
Sia chiaro: questa ipotesi di disposto legislativo non porrebbe rimedio al rischio che qualche dipendente pubblico, o consulente o contrattista privato, addetto alla formulazione tecnica della proposta dell'atto di avvio del procedimento, e delle collegate speciali misure di salvaguardia, ovvero lo stesso assessore competente, ovvero qualche suo collega, ovvero ancora un usciere origliante dietro le porte, informi proprio i portatori degli interessi che sarebbero più incisi delle determinazioni in corso di elaborazione, o di decisione. Ma questa è questione che rimanda, ove si riesca a provare la natura di reato di siffatti comportamenti, alla legislazione penale e all'amministrazione della relativa giustizia, e, per il restante, alla tendenziale propensione al peccato dell'essere umano, derivante, almeno per le culture di radice giudaico-cristiana, al peccato originario, nell'Eden, dei progenitori dell'umanità: alla quale, fortunatamente, negli stati secolarizzati e più o meno soddisfacentemente liberali e laicizzati, non è più da un pezzo richiesto alla produzione legislativa di porre rimedio.
(Luigi Scano)"
La pianificazione della deregulation, viene teorizzata e utilizzata inizialmente a Milano per poi trovare a Roma il luogo di sistematica sperimentazione. Era prevedibile che alcune proposte di deroga urbanistica si sarebbero venute a trovare in aperta contraddizione con quanto previsto dalla pianificazione paesistica o dagli altri strumenti della tutela del territorio. In tre casi specifici dei “Programmi di recupero urbano” previsti dall’articolo 11 della legge 493/93, in aree localizzate all’interno di alcuni parchi urbani, le indicazioni della tutela paesistica rendevano impossibile la concretizzazione delle ipotesi di trasformazione urbanistica. Quando il rischio del blocco dei programmi di recupero urbano si è fatto più concreto, sono arrivate nuove norme legislative.
Nella legge 18 del 2004, la Regione Lazio ha variato la legge fondamentale della tutela del territorio regionale (n. 24/98) ed ha stabilito (art. 36 ter) che “…gli accordi di programma aventi ad oggetto programmi di recupero urbano di cui all’articolo 11 del dl 5 ottobre 93, n. 398 ed altri interventi di edilizia residenziale pubblica finanziati dalla Regione possano comportare variazioni ai Piani territoriali paesistici vigenti.”.
Nel 1985, con l’approvazione della legge 431 “Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale“ veniva, come noto, riconosciuto il principio che la tutela del paesaggio non riguarda singole bellezze naturali o culturali, ma attiene all’intero ambiente come segno e testimonianza della cultura. Veniva confermato il principio che la tutela dell’ambiente è elemento che dal punto di vista logico e procedurale precede la redazione degli strumenti di pianificazione urbanistica: questi sono dunque subordinati alle più generali ragioni della tutela, ne recepiscono i vincoli e le indicazioni di salvaguardia.
La regione Lazio capovolge questo ragionamento e afferma la prevalenza dei contenuti della pianificazione locale sugli strumenti di tutela, e cioè alla subordinazione degli interessi generali rispetto a quelli particolari. A differenza del trattamento riservato ad altre Regioni per fattispecie di ben minore rilevanza giuridica, il Governo non ha impugnato la legge.
Notizie dalla Lombardia.
Approvata la nuova legge regionale per il governo del territorio
Il giorno 16 febbraio il Consiglio della Regione Lombardia ha approvato, con una ristrettissima maggioranza di voti, la nuova legge urbanistica regionale dal titolo "Legge per il governo del territorio".
La legge vorrebbe configurarsi anche come "testo unico" di tutte le leggi e leggine vigenti sino ad oggi in materia che dall'art. 104 del nuovo testo vengono drasticamente - ma non proprio totalmente - abrogate, comprese anche quelle di recente e recentissima emanazione.
La nuova e definitiva versione uscita dal Consiglio non si differenzia nella sostanza dal testo presentato dall'Assessore Moneta che su questo sito è già stato ampiamente analizzato e criticato dallo scritto di Gianni Beltrame.
Si tratta in sostanza di una legge del tutto in linea con gli orientamenti "ultraliberisti" del progetto Lupi-Mantini che in certa misura vengono già anticipati.
Il disordinato ed affannato dibattito consiliare - moltissimi gli emendamenti richiesti anche dalla stessa maggioranza - ha comportato l'inserimento nel testo di alcune inaspettate norme e novità come, ad esempio, quella che reintroduce inaspettatamente i tanto esecrati "standard" minimi urbanistici, che nel testo dell'Assessore Moneta erano stati eliminati del tutto.
A sorpresa il testo dell'art. 9 che definisce i contenuti del Piano dei servizi afferma oggi che "In relazione alla popolazione stabilmente residente e a quella da insediare secondo le previsioni del documento di piano, è comunque assicurata una dotazione minima di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale pari a diciotto metri quadrati per abitante". (Si ricordi che lo standard minimo regionale stabilito dalla precedente legge regionale n. 51 del 1975, oggi naturalmente abrogata, assommava a mq 26,5 per gli insediamenti residenziali ai quali andavano aggiunti altri mq 17,5 per le attrezzature pubbliche di interesse generale ( nei comuni con capacità insediativa superiore ai 20 mila abitanti).
Un'altra sorpresa riguarda l'inaspettata abrogazione dell' art. 63 sul recupero a fini abitativi dei sottotetti, essendo stato ribadito che l'applicazione di questa pericolosa norma andava riferita solo ai sottotetti esistenti e non a quelli di nuova progettazione come, purtroppo, in atto.
Una sorprendente norma, introdotta all'ultimo momento, stabilisce che alcune prescrizioni urbanistiche non riguardano subito l'intero territorio regionale ma esentano i Comuni inferiori ai 15000 abitanti (ben 1454 su 1546) i quali dovranno aspettare "criteri, modi e tempi per l’adeguamento alla presente legge" forniti da una fantomatica "Autorità per la programmazione territoriale" di apposita invenzione (art. 5).
Le opposizioni sono riuscite ad ottenere ben poco se non il ribadimento della natura di Piano Territoriale di Coordinamento per il Piano provinciale che la versione portata in Consiglio aveva degradato - con l'obiettivo di ridurne ulteriormente la portata e l'efficacia - a semplice Piano territoriale provinciale (art. 15)
(Una amara nota finale che riconferma come la sinistra attraversi oggi, per quanto riguarda le scelte e le leggi urbanistiche, un periodo di totale obnubilamento: giunge notizia che due consiglieri della sinistra non abbiano votato. Con due voti contrari in più la legge non sarebbe mai passata!)
Qui l'articolo di Michele Sacerdoti e il testo della legge
Caro Eddyburg,
Salvatore Napolitano, nel suo scritto pubblicato da "eddyburg.it" con il titolo "Campania: innovazioni legislative pericolose", ricostruisce perfettamente i procedimenti di formazione degli strumenti di pianificazione generale comunale, e i relativi rapporti con l'inizio dell'applicazione delle ordinarie misure di salvaguardia delle previsione degli strumenti in corso di formazione, definiti dalla legge urbanistica della Campania 16/2004. Egli prefigura ineccepibilmente i rischi che tali previsioni siano più o meno largamente vanificate dall'ottenimento di permessi di costruire conformi alla disciplina precedente, e ancora vigente, ma contrastanti con la nuova disciplina proposta, e divenuta, nei suoi contenuti, di dominio conoscitivo pubblico, ma non ancora adottata, e quindi non ancora protetta dalle misure di salvaguardia.
Vorrei fare presente che, nella prassi applicativa della legge 1150/1942, e delle leggi regionali riproduttive dei suoi contenuti, nulla impediva che tra il momento della trasmissione degli elaborati dei nuovi strumenti di pianificazione proposti dalla Giunta al Consiglio e la loro adozione da parte del Consiglio (con conseguente attivazione delle misure di salvaguardia) intercorressero tempi assai lunghi, e che essi fossero ampiamente conosciuti dalla comunità locale. Per non dire che la nuova legislazione sull'accesso pubblico agli atti delle pubbliche amministrazioni ha reso praticamente impossibile "secretare" le previsioni innovative degli strumenti di pianificazione completati nei loro elaborati e deliberati da una Giunta (per la trasmissione al Consiglio). E molto spesso, in tutta Italia e non soltanto in Campania, proprio le più "ghiotte" informazioni circa gli strumenti di pianificazione in corso - addirittura - di redazione venivano infallibilmente risapute proprio dai soggetti più interessati alle stesse.
Un possibile rimedio (non all'ultima "distorsione" che ho prospettato) consisterebbe proprio in quella traslazione della competenza ad adottare gli strumenti di pianificazione dai Consigli alle Giunte che la legge regionale campana 16/2004 ha effettuato per gli strumenti di pianificazione generali regionali e provinciali, ma incomprensibilmente non per quelli comunali. Traslazione che è stata duramente criticata da alcuni amici, per motivazioni che mi guardo bene dal chiamare peregrine. Critiche che hanno trovato spazio anche in "eddyburg.it", pur se la predetta traslazione era stata proposta da me e da te in almeno due bozze di disegno di legge urbanistica regionale.
Quali conclusioni trarre? Per quel che mi riguarda, provvisoriamente: che quel che realmente conta è la diffusa (negli uffici tecnici, nei professionisti consulenti, nei pubblici amministratori membri degli esecutivi e dei consigli, di maggioranza e di minoranza) coscienza degli interessi generali, collettivi, pubblici, mentre quasi sempre le diverse soluzioni normative si configurano quali mezzi da temporaneamente sperimentare nei loro effetti, escludendone qualsiasi virtù salvifica definitiva.
Per uno come me, che di mestiere compila normative, non è una conclusione esaltante. Epperò amicus Plato, sed magis amica veritas.
Venezia, 25 novembre 2005
Non lo dico solo per salvare il tuo mestiere: a me sembra che, sebbene la “diffusa coscienza degli interessi generali, collettivi, pubblici” da parte degli operatori sia essenziale, finchè essa non sarà raggiunta ovunque in modo certo, la stampella della norma sia essenziale. Così come resto convinto che un atto rilevante come uno strumento urbanistico generale, valido a tempo indeterminato e avente un carattere “statutario”, debba essere formato con il più largo coinvolgimento.
PARTE I PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO
TITOLO IOGGETTO E CRITERI ISPIRATORI
Art. 1 (Oggetto e criteri ispiratori)
TITOLO IISTRUMENTI DI GOVERNO DEL TERRITORIO
CAPO I DISPOSIZIONI GENERALI
Art. 2 (Correlazione tra gli strumenti di pianificazione territoriale)
Art. 3 (Strumenti per il coordinamento e l’integrazione delle informazioni)
Art. 4 Valutazione ambientale dei piani)
Art. 5 (Osservatorio permanente della programmazione territoriale)
CAPO II PIANIFICAZIONE COMUNALE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO
Art. 6 (Pianificazione comunale)
Art. 7 (Piano di governo del territorio)
Art. 8 (Documento di piano)
Art. 9 (Piano dei servizi)
Art. 10 (Piano delle regole)
Art. 11 (Compensazione ed incentivazione urbanistica)
Art. 12 (Piani attuativi comunali)
Art. 13 (Approvazione degli atti costituenti il piano di governo del territorio)
Art. 14 (Approvazione dei piani attuativi e loro varianti – Interventi sostitutivi)
CAPO IIIPIANO TERRITORIALE PROVINCIALE
Art. 15 (Contenuti del piano territoriale provinciale)
Art. 16 (Conferenza dei comuni e delle comunità montane)
Art. 17 (Approvazione del piano territoriale provinciale)
Art. 18 (Effetti del piano territoriale provinciale)
CAPO IV PIANO TERRITORIALE REGIONALE
Art. 19 (Oggetto e contenuti del piano territoriale regionale)
Art. 20 (Effetti del piano territoriale regionale – piano territoriale regionale d’area)
Art. 21 (Approvazione del piano territoriale regionale. Approvazione dei piani territoriali regionali d’area)
Art. 22 (Aggiornamento del piano territoriale regionale)
CAPO V SUPPORTO AGLI ENTI LOCALI
Art. 23 (Supporto agli enti locali)
Art. 24 (Erogazione di contributi)
CAPO VI DISPOSIZIONI TRANSITORIE PER IL TITOLO II
Art. 25 (Norma transitoria)
Art. 26 (Adeguamento dei piani)
PARTE IIGESTIONE DEL TERRITORIO
TITOLO IDISCIPLINA DEGLI INTERVENTI SUL TERRITORIO
CAPO I DISPOSIZIONI GENERALI
Art. 27 (Definizioni degli interventi edilizi)
Art. 28 (Regolamento edilizio)
Art. 29 (Procedura di approvazione del regolamento edilizio)
Art. 30 (Commissione edilizia)
Art. 31 (Albo dei commissari ad acta)
Art. 32 (Sportello unico per l’edilizia)
CAPO II PERMESSO DI COSTRUIRE
Art. 33 (Trasformazioni soggette a permesso di costruire)
Art. 34 (Interventi su beni culturali e paesaggistici)
Art. 35 (Caratteristiche del permesso di costruire)
Art. 36 (Presupposti per il rilascio del permesso di costruire)
Art. 37 (Competenza al rilascio del permesso di costruire)
Art. 38 (Procedimento per il rilascio del permesso di costruire)
Art. 39 (Intervento sostitutivo)
Art. 40 (Permesso di costruire in deroga)
CAPO IIIDENUNCIA DI INIZIO ATTIVITA’
Art. 41 (Interventi realizzabili mediante denuncia di inizio attività)
Art. 42 (Disciplina della denuncia di inizio attività)
CAPO IV CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
Art. 43 (Contributo di costruzione)
Art. 44 (Oneri di urbanizzazione)
Art. 45 (Scomputo degli oneri di urbanizzazione)
Art. 46 (Convenzione dei piani attuativi)
Art. 47 (Cessioni di aree per opere di urbanizzazione primaria)
Art. 48 (Costo di costruzione)
CAPO V SANZIONI
Art. 49 (Sanzioni)
Art. 50 (Poteri regionali di annullamento e di inibizione)
CAPO VI DISCIPLINA DEI MUTAMENTI DELLE DESTINAZIONI D’USO DI IMMOBILI E DELLE VARIAZIONI ESSENZIALI
Art. 51 (Disciplina urbanistica)
Art. 52 (Mutamenti di destinazione d’uso con e senza opere edilizie)
Art. 53 (Sanzioni amministrative)
Art. 54 (Determinazione delle variazioni essenziali)
TITOLO IINORME IN MATERIA DI PREVENZIONE DEI RISCHI GEOLOGICI, IDROGEOLOGICI E SISMICI
Art. 55 (Attività regionali per la prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici)
Art. 56 (Componente geologica, idrogeologica e sismica del piano territoriale provinciale)
Art. 57 (Componente geologica, idrogeologica e sismica del piano di governo del territorio)
Art. 58 (Contributi ai comuni e alle province per gli studi geologici, idrogeologici e sismici)
TITOLO IIINORME IN MATERIA DI EDIFICAZIONE NELLE AREE DESTINATE ALL’AGRICOLTURA
Art. 59 (Interventi ammissibili)
Art. 60 (Presupposti soggettivi e oggettivi)
Art. 61 (Norma di prevalenza)
Art. 62 Interventi regolati dal piano di governo del territorio)
TITOLO IVATTIVITA’ EDILIZIE SPECIFICHE
CAPO I RECUPERO AI FINI ABITATIVI DEI SOTTOTETTI ESISTENTI
Art. 63 (Finalità e presupposti)
Art. 64 (Interventi ammissibili)
Art. 65 (Disciplina degli interventi)
Art. 66 (Ambiti di esclusione)
CAPO II NORME INERENTI ALLA REALIZZAZIONE DEI PARCHEGGI
Art. 67 (Localizzazione e rapporto di pertinenza)
Art. 68 (Disciplina degli interventi)
Art. 69 (Utilizzo del patrimonio comunale)
Art. 70 (Regime economico)
CAPO IIINORME PER LA REALIZZAZIONE DI EDIFICI DI CULTO E DI ATTREZZATURE DESTINATE A SERVIZI RELIGIOSI
Art. 71 (Finalità)
Art. 72 (Ambito di applicazione)
Art. 73 (Rapporti con la pianificazione comunale)
Art. 74 (Modalità e procedure di finanziamento)
TITOLO VBENI PAESAGGISTICI E AMBIENTALI
CAPO I ESERCIZIO DELLE FUNZIONI REGIONALI
Art. 75 (Elenchi dei beni soggetti a tutela)
Art. 76 (Modificazioni e integrazioni degli elenchi dei beni soggetti a tutela)
Art. 77 (Contenuti paesaggistici del piano territoriale regionale)
Art. 78 (Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione)
Art. 79 (Commissioni provinciali)
Art. 80 (Adempimenti della Giunta regionale)
CAPO II AUTORIZZAZIONI E SANZIONI
Art. 81 (Ripartizione delle funzioni amministrative)
Art. 82 (Istituzione delle commissioni per il paesaggio)
Art. 83 (Modalità per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica)
Art. 84 (Sanzioni amministrative a tutela del paesaggio)
Art. 85 (Criteri per l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di tutela dei beni ambientali)
Art. 86 (Supporto agli enti locali)
Art. 87 (Interventi sostitutivi in caso di inerzia o di ritardi)
TITOLO VIPROCEDIMENTI SPECIALI E DISCIPLINE DI SETTORE
CAPO I DISCIPLINA DEI PROGRAMMI INTEGRATI DI INTERVENTO
Art. 88 Programmi integrati di intervento)
Art. 89 (Ambiti e obiettivi)
Art. 90 (Interventi su aree destinate all’agricoltura)
Art. 91 (Aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale)
Art. 92 (Attivazione dei programmi integrati di intervento)
Art. 93 (Approvazione dei programmi integrati di intervento)
Art. 94 (Attuazione dei programmi integrati di intervento)
Art. 95 (Programmi di recupero urbano e programmi integrati di recupero)
CAPO II ALTRI PROCEDIMENTI SPECIALI
Art. 96 (Disposizioni generali di raccordo con leggi regionali di finanziamento)
Art. 97 (Modifiche alla legge regionale 12 aprile 1999, n. 10 “Piano territoriale d’area Malpensa. Norme speciali per l’aerostazione intercontinentale Malpensa 2000”)
Art. 98 (Sportello unico per le attività produttive)
Art. 99 (Disposizioni straordinarie per la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico)
Art. 100(Norma finanziaria)
TITOLO VIIDISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI
Art. 101(Norma generale di riferimento)
Art. 102(Programmi pluriennali di attuazione)
Art. 103(Piano territoriale paesistico regionale)
Art. 104(Disapplicazione di norme statali)
Art. 105(Abrogazioni)
Allegato A(Canali-Laghi)
Art. 1 - Pianificazione paesaggistica regionale.
1. La Giunta regionale, entro dodici mesi dall'entrata in vigore della presente legge, adotta il Piano Paesaggistico Regionale (PPR) principale strumento della pianificazione territoriale regionale ai sensi dell'articolo 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), al fine di assicurare un'adeguata tutela e valorizzazione del paesaggio.
2. Il PPR costituisce il quadro di riferimento e di coordinamento, per lo sviluppo sostenibile dell'intero territorio regionale, degli atti di programmazione e pianificazione regionale, provinciale e locale ed assume i contenuti di cui all'articolo 143 del decreto legislativo n. 42 del 2004.
3. In sede di prima applicazione della presente legge, il PPR può essere proposto, adottato e approvato per ambiti territoriali omogenei.
Art. 2 - Piano Paesaggistico Regionale - Procedure.
1. Per le procedure di redazione della proposta, adozione e approvazione del PPR si applicano le disposizioni di cui all'articolo 11 della legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45 (Norme per l'uso e la tutela del territorio regionale), così modificato:
"Art. 11 Piano Paesaggistico Regionale - Procedure.
1. La proposta di PPR è pubblicata, per un periodo di sessanta giorni, all'albo di tutti i comuni interessati. Al fine di assicurare la concertazione istituzionale e la partecipazione di tutti i soggetti interessati e delle associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi, individuate ai sensi dell'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, il Presidente della Regione, entro i sessanta giorni di pubblicazione presso i Comuni svolge l'istruttoria pubblica ai sensi dell'articolo 18 della legge regionale 22 agosto 1990, n. 40, nella quale illustra la proposta di Piano.
2. Entro trenta giorni, decorrenti dall'ultimo di deposito, chiunque può presentare osservazioni indirizzate al Presidente della Regione.
3. Trascorso tale termine la Giunta regionale esamina le osservazioni e, sentito il Comitato tecnico regionale per l'urbanistica, delibera l'adozione del PPR e lo trasmette al Consiglio regionale nonché ai Comuni interessati ai fini della pubblicazione all'albo pretorio per la durata di quindici giorni.
4. La Commissione consiliare competente in materia di urbanistica esprime, entro due mesi, sul piano stesso il proprio parere che viene trasmesso alla Giunta regionale.
5. Acquisito tale parere, la Giunta regionale approva in via definitiva il PPR entro i successivi trenta giorni".
2. Per la redazione della proposta di Piano possono essere utilizzati anche gli elaborati dei Piani urbanistici provinciali di cui all'articolo 16 della legge regionale n. 45 del 1989, già approvati o in corso di approvazione.
3. Dopo l'approvazione del PPR la Giunta provvede al coordinamento ed alla verifica di coerenza degli atti della programmazione e della pianificazione regionale con il Piano stesso.
4. Al fine di conseguire l'aggiornamento periodico del PPR la Giunta provvede al monitoraggio delle trasformazioni territoriali e della qualità del paesaggio.
5. Al fine di promuovere una più incisiva adeguatezza ed omogeneità della strumentazione urbanistica a tutti i livelli, l'Amministrazione regionale procede ad un sistematico monitoraggio e comparazione dell'attività di pianificazione urbanistica, generale ed attuativa, mediante l'attivazione di un Osservatorio della pianificazione urbanistica e qualità del paesaggio in collaborazione con le Università e con gli ordini ed i collegi professionali interessati.
6. I Comuni, in adeguamento alle disposizioni e previsioni del PPR, approvano, entro dodici mesi dalla sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione sarda e comunque a partire dall'effettiva erogazione delle risorse finanziarie, i propri Piani urbanistici comunali. A tal fine, in sede di specifica norma finanziaria, sono previste adeguate risorse per il sostegno delle fasi di approvazione ed adeguamento alla nuova pianificazione paesaggistica regionale da parte dei comuni.
7. Entro tre mesi dall'entrata in vigore della presente legge, il Presidente della Regione espone al Consiglio regionale, che si pronuncia nel merito, le linee-guida caratterizzanti il lavoro di predisposizione del PPR.
Art. 3 - Misure di salvaguardia.
1. Fermo quanto disposto dal comma 1 dell'articolo 10-bis della legge regionale n. 45 del 1989, fino all'approvazione del Piano paesaggistico regionale e comunque per un periodo non superiore a 18 mesi, i seguenti ambiti territoriali sono sottoposti a misure di salvaguardia comportanti il divieto di realizzare nuove opere soggette a concessione ed autorizzazione edilizia, nonché quello di approvare, sottoscrivere e rinnovare convenzioni di lottizzazione:
a) territori costieri compresi nella fascia entro i 2.000 metri dalla linea di battigia marina, anche per i terreni elevati sul mare;
b) territori costieri compresi nella fascia entro i 500 metri dalla linea di battigia marina, anche per i terreni elevati sul mare, per le isole minori;
c) compendi sabbiosi e dunali.
2. Da tali ambiti territoriali sono esclusi quelli ricadenti nei comuni dotati di Piani urbanistici comunali di cui ai commi 1 e 2 dell'articolo 8 ed in quelli ricadenti nei comuni ricompresi nel Piano Territoriale Paesistico del Sinis (PTP n. 7, approvato con Delib.G.R. 3 agosto 1993, n. 272).
Art. 4 - Interventi ammissibili.
1. Il divieto di cui all'articolo 3 della presente legge non si applica:
a) agli interventi edilizi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico, di restauro e di ristrutturazione che non alterino lo stato dei luoghi, il profilo esteriore, la volumetria degli edifici, la destinazione d'uso ed il numero delle unità immobiliari. È altresì consentita la realizzazione di eventuali volumi tecnici di modesta entità, strettamente funzionali alle opere e comunque tali da non alterare lo stato dei luoghi;
b) agli interventi direttamente funzionali alle attività agro-silvo-pastorali che non prevedano costruzioni edilizie residenziali;
c) alle opere di forestazione, di taglio e riconversione colturale e di bonifica;
d) alle opere di risanamento e consolidamento degli abitati e delle aree interessate da fenomeni franosi, nonché opere di sistemazione idrogeologica;
e) agli interventi di cui alle lettere b), d), f), g), l), m), e p) dell'articolo 13 della legge regionale n. 23 del 1985;
f) alle opere pubbliche previste all'interno di piani di risanamento urbanistico di cui all'articolo 32 della legge regionale n. 23 del 1985;
g) alle infrastrutture di servizio generale da realizzarsi nelle aree di sviluppo industriale in conformità ai piani territoriali adottati dai consorzi di sviluppo industriale ed approvati dall'Amministrazione regionale anteriormente all'entrata in vigore della presente legge.
2. Negli ambiti territoriali di cui all'articolo 3 è consentita l'attività edilizia e la realizzazione delle relative opere di urbanizzazione delle zone omogenee A e B dei centri abitati e delle frazioni individuate dai Comuni ai sensi dell'articolo 9 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, purché delimitate ed indicate come tali nella cartografia degli strumenti urbanistici comunali. Sono, altresì, attuabili gli interventi edilizi ricadenti nelle zone C immediatamente contigue alle zone B di completamento ed intercluse tra le stesse zone B ed altri piani attuativi in tutto o in parte già realizzati. Nelle restanti zone omogenee C, D, F e G possono essere realizzati gli interventi previsti negli strumenti urbanistici attuativi approvati e convenzionati alla data di pubblicazione della Delib.G.R. 10 agosto 2004, n. 33/1 purché alla stessa data le opere di urbanizzazione siano legittimamente avviate ovvero sia stato realizzato il reticolo stradale, si sia determinato un mutamento consistente ed irremovibile dello stato dei luoghi e, limitatamente alle zone F, siano inoltre rispettati i parametri di cui all'articolo 6. E' pertanto, sospesa l'applicazione delle esclusioni di cui al comma 1, lettera a), e comma 2 dell'articolo 10-bis della legge regionale n. 45 del 1989, fino all'approvazione del Piano Paesaggistico Regionale. Ai fini della realizzazione dei singoli interventi edilizi, l'acquisizione dei prescritti nulla osta ed il versamento dei relativi oneri concessori, alla data di pubblicazione della Delib.G.R. 10 agosto 2004, n. 33/1 dà titolo al rilascio della concessione edilizia.
3. Nelle aree boscate, individuate con Circ.Ass. 2 luglio 1986, n. 16210 dell'Assessorato della pubblica istruzione, l'edificazione è consentita soltanto nelle radure naturali purché gli interventi, oltre che previsti dagli strumenti urbanistici attuativi, consentano una zona di rispetto dal limite del bosco non inferiore a cento metri.
Art. 5 - Studio di compatibilità paesistico-ambientale.
1. I piani urbanistici dei comuni, i cui territori ricadono nella fascia costiera di duemila metri dalla linea di battigia marina, devono contenere lo studio di compatibilità paesistico-ambientale quale documento finalizzato a:
a) supportare le scelte di pianificazione del territorio comunale in relazione al complesso delle risorse paesistico-ambientali;
b) individuare, per gli ambiti trasformabili, le caratteristiche urbanistico-edilizie dei nuovi insediamenti in relazione ai livelli di compatibilità e sostenibilità delle trasformazioni rispetto allo stato dell'ambiente e dei caratteri paesaggistici;
c) definire i criteri guida per lo studio di compatibilità paesistico-ambientale da porre a base della elaborazione dei piani attuativi.
2. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale allegato al PUC deve prevedere:
a) il quadro conoscitivo del territorio comunale derivato dalla rappresentazione ed analisi dei principali tematismi di carattere geologico, geomorfologico, idrologico, vegetazionale, paesaggistico e storico-culturale;
b) il quadro conoscitivo relativo alle trasformazioni avvenute circa gli insediamenti e le infrastrutture;
c) l'individuazione delle risorse paesistico-ambientali di maggior pregio ed interesse ai fini delle esigenze di tutela e valorizzazione;
d) il quadro territoriale di sintesi delle risorse paesistico-ambientali rappresentato per areali, in cui riconoscere una graduazione di valore delle risorse ed i corrispondenti livelli di trasformazione territoriale possibili con individuazione dei livelli di sostenibilità delle ipotesi di sviluppo e di compatibilità delle localizzazioni;
e) la determinazione dei parametri qualitativi e quantitativi delle trasformazioni compatibili con lo stato dell'ambiente e della relativa normativa d'attuazione.
3. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale va allegato ai piani attuativi dei comuni di cui al comma 1 e deve prevedere:
a) l'indicazione degli insediamenti previsti con illustrazione delle possibili alternative di localizzazione e con definizione della soglia massima di accettabilità in termini volumetrici attraverso l'analisi comparata di accettabilità dei tematismi utilizzati;
b) la simulazione degli effetti sul paesaggio delle localizzazioni proposte e la documentazione fotografica su cui riportare dette simulazioni;
c) le concrete misure per l'eliminazione dei possibili effetti negativi ovvero per minimizzarne e compensarne l'impatto sull'ambiente e sul paesaggio.
4. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale è redatto nel rispetto degli obblighi e delle procedure di cui alla direttiva 2001/42/CE (V.A.S.) concernente la valutazione degli effetti dei piani e dei programmi sull'ambiente.
5. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale relativo agli strumenti urbanistici generali viene sottoposto all'esame ed approvazione della Giunta regionale previo favorevole parere del Comitato tecnico regionale dell'urbanistica.
6. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale allegato ai piani attuativi rappresenta il quadro di riferimento urbanistico-territoriale e di disciplina paesistica per la procedura della valutazione di impatto ambientale di cui all'articolo 31 della legge regionale 18 gennaio 1999, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Legge finanziaria 1999) e successive modifiche ed integrazioni.
7. Gli esiti della procedura di valutazione di impatto ambientale, di cui all'articolo 31 della legge regionale n. 1 del 1999, riguardanti i piani urbanistici attuativi, sono trasmessi alle Commissioni provinciali per la tutela del paesaggio, di cui all'articolo 33 della legge regionale n. 45 del 1989 e successive modifiche ed integrazioni ed all'articolo 137 del decreto legislativo n. 42 del 2004, per il definitivo parere. Per le restanti procedure di verifica e di valutazione dell'impatto ambientale, non concluse alla data di entrata in vigore della presente legge, si applicano i divieti e le prescrizioni in essa contenuti.
Art. 6 - Zone F turistiche.
1. Il dimensionamento delle volumetrie degli insediamenti turistici ammissibili nelle zone F non deve essere superiore al 50 per cento di quello consentito con l'applicazione dei parametri massimi stabiliti per la suddetta zona dal Dec.Ass. 20 dicembre 1983, n. 2266/U dell'Assessore degli enti locali, finanze ed urbanistica.
Art. 7 - Interventi pubblici.
1. La realizzazione degli interventi pubblici finanziati dall'Unione Europea, dallo Stato, dalla Regione, dalle Province, dai Comuni o dagli enti strumentali statali o regionali, può essere autorizzata dalla Giunta regionale, anche in deroga a quanto previsto dalla presente legge, sulla base di appositi criteri determinati dalla Giunta regionale in sede di definizione delle linee-guida di cui al comma 7 dell'articolo 2 e pubblicati sul Bollettino Ufficiale della Regione.
Art. 9 - Abrogazioni e sostituzioni.
1. Sono abrogati gli articoli 10, 12 e 13 della legge regionale n. 45 del 1989.
2. I riferimenti contenuti nella legge regionale n. 45 del 1989 ai Piani territoriali paesistici sono sostituiti dal riferimento al Piano paesaggistico regionale.
Art. 10 - Entrata in vigore.
1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione.
Caro Eddyburg, Sono un operatore della Pubblica Amministrazione, per le materie urbanistiche, in una zona “difficile”, come l’area metropolitana di Napoli; e non sembri eccessivo, ma eddyburg.it è ormai un punto di riferimento quotidiano, e nei momenti di massimo scoramento professionale, un rifugio. In conseguenza di un’esperienza professionale che sto vivendo in questo periodo, mi sembra opportuno e doveroso segnalare i danni che possono provocare innovazioni normative, in materia di governo del territorio, che non prevedono adeguate forme di garanzia nelle procedure di formazione di nuovi strumenti urbanistici.
Dirigo il settore urbanistica di un grosso comune dell’area a nord di Napoli, penso ancora per pochi giorni, dove le problematiche territoriali non sembrano interessare più nessuno, mentre ad esse dedicano anche troppa attenzione la più retriva “speculazione edilizia”, (qui sembra esistere solo quella) ed ovviamente il capitale frutto di attività illegali (criminalità organizzata).
Grazie, la sua lettera denuncia ciò che accade quando si abbandonano le garanzie di un impianto legislativo consolidato (nel caso specifico, la salvaguardia sulle proposte del piano in itinere) in un ambiente dominato dalla speculazione e dal potere degli immobiliaristi. Inserisco la parte sostanziale della sua lettera negli “Interventi”, precisamente qui.
La legge urbanistica regionale del Piemonte
La legge regionale n. 56/77 su "tutela e uso del suolo" costituisce uno degli elementi portanti del progetto politico e culturale che hanno animato la giunta di sinistra formatasi nella regione Piemonte a seguito delle elezioni del giugno 1975.
Lo slogan elettorale “un nuovo modo di governare” si concretizzava in Piemonte in definiti comportamenti politici: programmazione come metodo di governo, pianificazione come metodo di gestione delle risorse, partecipazione come metodo di formazione delle decisioni. [1]
Si tratta di una definizione sintetica, che ben rappresenta lo spirito e le intenzioni poste alla base della legge, approvata nel dicembre 1977, cui sono state apportate numerose modifiche (diciotto per l’esattezza dal gennaio ’78 al novembre ’99), tuttavia ancora operante.
Qui interessa richiamare in sintesi gli elementi più significativi, che hanno operato da stimolo e sfondo per la politica urbanistica del Comune di Torino. [2]
Programmazione e pianificazione
Elemento importante è certo rappresentato dalla volontà, espressa dalla legge, di instaurare un rapporto stretto e continuativo fra programmazione regionale e pianificazione urbanistica. Siamo poco oltre la metà degli anni ’70 ed è ancora viva la carica culturale assolutamente presente nelle forze politiche della sinistra, che intende recuperare attraverso il governo regionale almeno in parte i temi della programmazione economica ormai offuscati a livello dello Stato.
Programmazione e pianificazione nella legge urbanistica regionale sono pertanto i pilastri portanti, che, attraverso l’attività della regione (il piano di sviluppo regionale), dei comprensori (i piani territoriali comprensoriali) e dei comuni (i piani regolatori comunali e intercomunali), debbono incidere sulle componenti economiche dello sviluppo, sulle condizioni degli aggregati urbani, sul territorio agrario, al fine di garantire condizioni civili nei luoghi di lavoro come della residenza, tutelando nel contempo i valori storici, culturali e del paesaggio ovunque, sia negli insediamenti, che in generale all’esterno di essi.
La legge poneva in sostanza l’esigenza di mutare radicalmente il comportamento delle amministrazioni locali e dei tecnici impegnati nella formazione degli strumenti di piano: in primo luogo il piano regolatore non più formato sull’onda delle attese speculative, di norma sovradimensionato, rispetto alle reali potenzialità di sviluppo di ogni singolo comune, ma strumento in grado di ordinare gli insediamenti opportunamente misurati in relazione sia ad ipotesi credibili di incremento quantitativo, formulate con riferimento alla pianificazione territoriale, sia ad assetti qualitativamente caratterizzati, dotati delle necessarie opere di urbanizzazione, tecnica (strade, fognature, acquedotti, etc) e sociale (scuole, verde, attrezzature comuni, etc.).
Articolazione per fasi
Nella piena consapevolezza che la condizione a regime non si sarebbe ottenuta in breve tempo, la legge si articola per fasi (e quindi per strumenti) di breve e di medio periodo. [3]
Nella prima fase rientrano:
- la perimetrazione degli abitati e dei nuclei storici a valere per i comuni ancora sprovvisti di piano;
- tempi contenuti per la formazione del primo piano regolatore, di cui si debbono dotare tutti i comuni piemontesi (essendo eliminato dalla legge l’istituto del programma di fabbricazione), o per la revisione dei piani vigenti da operare in coerenza con la nuova legge;
- tempi contenuti, assegnati ai comitati comprensoriali per la formazione delle linee territoriali in tutta la regione.
Superata la fase di avvio la legge prevede un rapporto continuativo e dialettico fra programmazione regionale, pianificazione territoriale e pianificazione comunale, senza fissare un prima e un dopo nella formazione delle scelte, dando luogo in tal modo allo scambio e all’aggiustamento continuo fra i vari livelli della pianificazione.
Gli strumenti della pianificazione
La pianificazione si avvale dei due strumenti principali: il piano territoriale ed il piano regolatore.
La legge concepisce il piano territoriale come un piano urbanistico, con contenuti e procedure di formazione definiti, dotato di piena efficacia giuridica.
A sua volta il piano regolatore generale è destinato a regolare tutto il territorio comunale, ovvero quello di più comuni riuniti in consorzio, se formato come piano intercomunale.
Ambiente agricolo
L’azione pianificatoria è da esercitare, anche nei confronti dell’ambiente agricolo, oltre che dell’ambiente urbano, il cui assetto è da collegare con i provvedimenti territoriali di intervento economico (i piani zonali di sviluppo agricolo, compito dell’ESAP, come si è accennato). La legge si rende pienamente conto che al di là di poche e sfuggenti connotati fisici, il piano regolatore può ben poco sul sistema agricolo, condizionato da fattori (le colture, le dimensioni e le tipologie aziendali, lo sbocco dei mercati per i prodotti, etc.), non governabili in sede locale.
Lungo quella direzione la legge compie uno sforzo indubbio per interrompere la lunga tradizione dei piani regolatori, in base alla quale il territorio agricolo è il luogo dell’indistinto, l’area di riserva, regolata solo da pochi e secchi indici di densità, in attesa di essere trasformata in area di espansione, in forza del processo di formazione della rendita fondiaria.
La novità dei contenuti
Numerosi sono i temi, nei quali la legge si sforza di introdurre elementi nuovi, frutto delle riflessioni, che la migliore cultura urbanistica ha compiuto nel corso di esperienze ormai trentennali, svolte in applicazione della legge nazionale urbanistica del 1942.
Una delle più significative riguarda la negazione del concetto tradizionale di “zone omogenee” della legge 1150/42, operata mediante l’individuazione delle caratteristiche specifiche, che fanno dei luoghi urbani entità per nulla riconducibili alla “omogeneità”. La legge fa dei vari connotati fisici ed ambientali, quali le destinazioni, le densità, le modalità di intervento (il recupero, il rinnovo urbano, l’espansione), i valori storico artistici, gli elementi per riconoscere le virtualità intrinseche del territorio, in base alle quali motivare le scelte di piano.
Proprio l’obbligo assegnato al piano regolatore di procedere al riconoscimento ed alla tutela dei beni storici, artistici ed ambientali, a partire dai singoli manufatti, conduce non solo alla maggiore efficacia in sede di tutela dei beni, ma altresì alla apertura nella loro identificazione nella totalità del territorio (anche in quello agricolo), indipendentemente dalla loro collocazione, superando i limiti di steccato derivanti proprio dal tradizionale concetto di “centro storico”.
Sforzi analoghi di maggiore penetrazione nelle regole di governo della realtà urbana la legge regionale compie nel settore degli standard; oltre ad incrementare l’entità delle aree a servizi per ogni abitante (da 18 a 25 metri quadrati), rispetto alle norma nazionale, entra nel merito delle esigenze di spazio, in relazione alle varie destinazioni: residenza, industria, terziario.
In particolare nel settore delle trasformazioni industriali la legge, avvalendosi fino in fondo del principio di separazione fra proprietà dei suoli e diritto ad edificare, affermato dalla legge nazionale 10/77, introduce una disciplina assolutamente originale (l’articolo 53). Quella disciplina, tradotta immediatamente con delibera regionale nella “convenzione quadro”, applicabile dai comuni, tende a regolare i trasferimenti, le ristrutturazioni degli impianti produttivi, come il riuso delle aree relative, sottraendo alla rendita fondiaria in larga misura i fattori di localizzazione industriale.
Nuove procedure
Infine per completare il richiamo sintetico della legge urbanistica regionale un cenno va rivolto al
“ ..nuovo modo di fare piani, dunque, che la legge regionale propone non solo con la rifondazione dei contenuti, ma anche con nuove procedure di formazione che offrono un sistema di garanzie istituzionali per la partecipazione della collettività e delle forze economiche e sociali al processo di formazione del piano”. [4]
Conseguentemente la legge istituisce tre fasi per la formazione del piano regolatore:
- La formazione della “delibera programmatica”, con la quale sono definite scelte e criteri “sulla base dei contenuti del piano territoriale e di una prima indagine conoscitiva sulla situazione locale e sulle dinamiche in atto” [5]. A questa prima fase, di indubbia portata innovativa, il piano assegna un compito determinante (che purtroppo si è andato perdendo nel tempo), nel tentativo di suscitare nella realtà locale (politica, sociale, imprenditoriale, culturale) una discussione approfondita ed estesa, dalla quale, attraverso il metodo democratico, far emergere le scelte più importanti da porre alla base della formazione del piano regolatore.
- La formazione del “progetto preliminare”, definito in tutte le sue parti (grafiche, normative, illustrative), corredato degli elementi conoscitivi, quantitativi e qualitativi, nei vari settori della realtà urbana, maggiormente approfonditi rispetto a quanto già prodotto in sede di delibera programmatica. Esso è oggetto di consultazione da parte di chiunque abbia volontà ed interesse ad intervenire in modo formale.
- La formazione del progetto di piano, che, esaminate e discusse le osservazioni presentate nella fase precedente, compone le scelte originarie con quanto emerso nella seconda fase, in modo da presentare il piano compiuto all’approvazione regionale.
Il piano eventualmente approvato dalla amministrazione regionale diviene così la base per l’attuazione, attraverso il programma pluriennale e gli strumenti esecutivi, che il comune ed i privati operatori intendono formare.
Note
[1] Da “La pianificazione nella legge regionale” di G. Piazza, articolo contenuto nel n. 72 – 73 della rivista Urbanistica del dicembre 1981.
[2] Per una trattazione ampia ed approfondita sui presupposti, sulle finalità e sui contenuti della legge si rinvia al “Rapporto sulla pianificazione e gestione urbanistica in Piemonte; Volume I – La legislazione urbanistica”, a cura della Regione Piemonte, Assessorato alla Pianificazione e Gestione Urbanistica. Maggio 1980.
[3] Significativo per comprendere la gestazione della legge urbanistica regionale è quanto esposto nel documento (intitolato “Per una pianificazione operativa”, il cosiddetto “libretto rosso”) elaborato direttamente da G. Astengo in veste di Assessore regionale alla pianificazione e gestione urbanistica in data 22 settembre 1975.
[4] Da “La pianificazione nella legge regionale” di G. Piazza, articolo già citato, contenuto nel n. 72 – 73 della rivista Urbanistica del dicembre 1981.
[5] Quella virgolettata è la dizione contenuta nell’art. 14 della legge regionale urbanistica.
L’applicazione della legge 5/1995 alla pianificazione comunale (ci riferiamo in particolare a esperienze maturate a Lastra a Signa, Sesto Fiorentino, Pontassieve, Calenzano) conferma il giudizio che si era dato inizialmente sulla legge: una buona legge, con alcuni difetti.
Questo giudizio merita di essere articolato. L’impianto della legge è soddisfacente. Le novità introdotte vanno tutte in una direzione positiva. Tuttavia esistono alcune lacune che è opportuno riempire.
Più un generale, la fase di sperimentazione sollecita a risolvere alcune ambiguità della legge, su punti per i quali si sono date nell’applicazione risposte diverse in relazione non solo a situazioni oggettivamente diverse, ma anche a interpretazioni diverse (ma ugualmente legittime) della legge.
Tra le diverse interpretazioni è oggi è necessario scegliere. Non tanto per tentar d’imprimere omogeneità a impostazioni culturali e situazioni locali che possono legittimamente essere diverse, quanto per rendere confrontabili i risultati e le scelte, e possibile una politica unitaria del territorio ai livelli regionale e provinciale.
Le esperienze compiute riguardano soprattutto il Piano strutturale (PS). Nel lavoro concreto (con gli amministratori e gli altri attori) è stato in primo luogo necessario un forte e constante impegno per chiarire che il PS non è un PRG. Se la logica della nuova pianificazione è la distinzione tra i diversi strumenti della pianificazione comunale, e un’attenta calibratura di ciascuno di essi, è necessario insistere su questa linea sia nella diffusione della conoscenza sia nell’apportare alcune piccole modifiche legislative che rendano più chiara la diversità tra i differenti strumenti.
La redazione del PS ha consentito di individuare alcuni problemi che hanno una portata più generale. Essi riguardano soprattutto due rapporti:
- quello del PS con la pianificazione sovraordinata,
- e quello del PS con il Regolamento urbanistico (RU) e, più in generale, con gli altri strumenti della pianificazione comunale.
Appartengono al modo in cui si chiarisce il primo rapporto le risposte possibili a una domanda che emerge dal confronto tra le esperienze in corso. Il PS deve essere uno strumento “leggero”, che si limiti a fornire analisi e descrizioni, e su questa base a definire indirizzi e direttive e a delineare strategia (come fa un buon “documento preliminare”, oppure deve essere un atto “robusto” come parrebbe richiedere l’impegno a definire “invarianti strutturali”?
Il dilemma va risolto a partire dal risultato che si vuole raggiungere, e la sua soluzione non mette in gioco solo il PS. Se il risultato che si vuole è quello di definire una ragionevole sicurezza per quanto riguarda le localizzazioni d’interesse sovracomunale e le tutele dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio, allora la risposta può essere duplice:
- si può raggiungere questo risultato con un PS “robusto”, in cui lo statuto dei luoghi si traduca in una vera e propria normativa, resa immediatamente efficace dovunque ciò è necessario, che riguardi non solo la grandi localizzazioni, ma l’essenza delle regole del territorio;
- oppure si può raggiungere il medesimo risultato facendo discendere le scelte da una pianificazione sovraordinata ben più “robusta” di quella prevista dalla legge 5/1995.
Hanno una certa analogia i problemi che nascono dal dettato della legge circa il dimensionamento delle Unità territoriali organiche elementari (UTOE).
Da un punto di vista logico, il dimensionamento non è materia di scelta coerente con la natura del PS. Quest’ultimo dovrebbe definire soprattutto le “invarianti” ed essere rivolto al lungo periodo (sia pure con la possibilità di aggiornamenti). Il dimensionamento invece ha senso se è riferito al breve-medio periodo (l’arco di tempo ragionevole sarebbe il decennio, o meglio ancora il quinquennio se si tiene conto dell’influenza delle congiunture).
Sarebbe perciò ragionevole riferirsi, per le richieste dimensionali della legge, più al concetto di carico urbanistico che a quello di fabbisogno. In determinate situazioni ciò è ragionevole e sufficiente: dove ad esempio, come a Sesto Fiorentino, la forma compatta dell’abitato delimitata dalla collina e dalla piana delle quali si è confermata la tutela, e la definizione di precise condizioni per l’attivazione delle trasformazioni più pesanti, garantiscono da una rapida estensione delle urbanizzazioni ed edificazioni. In situazioni diversamente connotate la definizione, in sede di PS, di tutte le aree teoricamente urbanizzabili come riferimento al richiesto dimensionamento, senza introdurre altre limitazioni, potrebbe avere invece effetti devastanti.
Una soluzione possibile sarebbe quella si far discendere le soglie dimensionali dalla pianificazione sovraordinata. Ma ci si domanda se una simile soluzione ha senso un una realtà (come quella Toscana) dove tra la Regione e i Comuni non sembrano esserci autorità territoriali di riconosciuta autorevolezza, tale non sembrando oggi (piaccia o non piaccia) la Provincia.
Nel ragionare su questi argomenti, e tenendo conto della particolare realtà culturale, storica e istituzionale della Regione Toscana, è sembrato possibile configurare un’ipotesi basata più sul criterio della “copianificazione” che su quello della gerarchia delle competenze. L’ipotesi che si avanza è che il dimensionamento, come le altre scelte di carattere sovracomunale, venga definito in intese sovracomunali promosse e “governate” dalla Regione e dalla Provincia (o dalle province, dove gli ambiti interessino comuni di più province limitrofe), con il concorso delle autorità statali competenti (come ad esempio le Soprintendenze dell’amministrazione dei beni culturali).
Nell’ambito di tali intese, si dovrebbe partire da precise proposte provenienti dal livello sovraordinato, formulate in connessione con le linee di programmazione socio-economica (dalle politiche per la casa a quelle per il commercio, e così via) e riguardanti l’analisi del settore, o dei settori, coinvolti, le ipotesi di dimensionamento per ambiti intercomunali, le politiche attivabili e le risorse disponibili. Su questa base si potrebbero definire i dimensionamenti per ciascuno dei comuni coinvolti, tenendo conto delle specifiche strategie e delle possibili offerte di aree dei diversi comuni.
In generale la distinzione tra argomenti attribuibili alla competenza esclusiva dei comuni e argomenti la cui competenza appartiene a un livello diverso è abbastanza chiara nel testo della legge, e le attribuzioni di competenze e responsabilità ai diversi atti di pianificazione è condivisibile. Con una unica eccezione. Sembra infatti un evidente errore, o comunque una illogicità, aver attribuito alla competenza esclusiva del Regolamento urbanistico l’individuazione e la disciplina dei centri storici.
Si ritiene infatti che “la disciplina per il recupero del patrimonio urbanistico ed edilizio esistente” debba essere definita – nei suoi criteri di fondo, nei metodi di lettura da adottare, nella definizione delle invarianti – nelle medesime sedi e con gli stessi strumenti previsti dalla legge per l’individuazione e la tutela delle altre risorse territoriali, e in particolare quelle paesaggistiche e ambientali. E’ quindi alla pianificazione strutturale (e alle sovraordinati determinazioni della pianificazione regionale e provinciale) che dovranno far capo le regole relative alla tutela del patrimonio storico, per la quale non va del resto trascurato il ruolo degli interessi statali (Soprintendenze).
Le questioni sopra indicate appaiono quelle più rilevanti. Altre questioni sono peraltro emerse, che richiedono anch’esse chiarimenti e scelte conseguenti
1. Il quadro conoscitivo è esplicitamente previsto, a livello comunale, tra i contenuti del solo piano strutturale. Viceversa, è opportuno che ogni piano sia dotato di un solido apparato conoscitivo. In particolare, è opportuno che il regolamento urbanistico, dei programmi integrati d’intervento e dei piani attuativi contribuiscano all’aggiornamento del quadro conoscitivo inizialmente formato per il piano strutturale.
2. La valutazione degli effetti ambientali corre il rischio di essere un poco utile documento integrativo. Occorre che essa diventi una fase del procedimento. Per essere realmente efficace la valutazione dovrebbe essere affidata ad un soggetto diverso dal proponente.
3. Che cosa devono essere le UTOE? Occorre precisare se esse siano semplici ambiti di calcolo, oppure (come sembra più opportuno) elementi dell’organizzazione del territorio (qualcosa di apparentabile ai quartieri o alle unità di vicinato).
4. Sarebbe opportuno garantire il raccordo con la pianificazione di settore. Se si sceglie l’ipotesi del PS “robusto”, appare possibile che il recepimento delle disposizioni che discendono dalla pianificazione di settore sovraordinata avvenga nel piano strutturale (soggetto al controllo provinciale e regionale).
5.È opportuno dare efficacia immediata alle scelte di lungo periodo. Alcuni dei contenuti del piano strutturale, quali il confine tra urbano ed extraurbano oppure la determinazione dei grandi ambiti di trasformazione, dovrebbero essere rese immediatamente cogenti, anche nei confronti dei terzi.
6. L’articolazione di un unico piano in più strumenti può provocare problemi pratici. In fase di gestione, è lecito prevedere possibili contraddizioni fra i diversi tipi di piano. Occorrerebbe pensare alla formalizzazione di una sorta di “piano unico”, o di “carta del territorio”, che riassuma tutte le indicazioni e prescrizioni derivanti dall’insieme dei documenti.
7. Si suggerisce la possibilità di mantenere la procedura dell’attuale articolo 25 (sostanzialmente coincidente con una decisione di consiglio sottoposta a osservazioni) per le sole decisioni di mero dettaglio.
8. È necessario elaborare un glossario, nella forma di “istruzioni tecniche” definendo il significato dei termini nuovi o nodali: definizioni dalle quali i comuni si possano scostare solamente attraverso specifiche motivazioni. Ciò contribuirebbe non poco a fare chiarezza, senza comprimere la facoltà di introdurre innovazioni sperimentali.
9. Infine, si ritiene che debba a questo punto essere introdotto qualche stimolo alla partecipazione. Si tratta certamente di un tema complesso, in cui l’individuazione ope legis di istituti, soggetti e risorse non è di per sé sufficiente, ma può essere comunque un utile incoraggiamento allo sviluppo di tensioni positive.
Edoardo Salzano, sulla base di materiali di M. Baioni e di ragionamenti svolti con M. Baioni, V. De Lucia, G. Frisch, C. Mele e L. Scano
Venezia, 18 ottobre 2002
Letto il testo "Governo del Territorio" all'esame del Consiglio Regionale, inviamo alcune osservazioni parziali che ci auguriamo siano condivise e speriamo ancora utilizzabili.
Un punto rilevante riguarda la possibilità prevista all'art. 32 di monetizzare aree per servizi. Se non si vuole peggiorare le condizioni di vita nelle città, va assicurata in tutte le operazioni di trasformazione urbana la necessaria dotazione di servizi. Nei PUA vanno cedute gratuitamente le aree attreazzate. Le dimensioni minime obbligatorie devono essere stabilite per legge e va precisato cio che è monetizzabile (percentuale per scuole e opere di culto). Oltre i 18mq/ab previsti dal decreto ministeriale è la Regione che stabilisce gli standard aggiuntivi, quindi nei PUA i servizi civici possono essere ceduti gratuitamente non solo in metri quadri di superfici scoperte ma anche in metri cubi edificati o edificabili. La legge regionale dovrebbe anche sollecitare l'inserimento nei programmi e nelle convenzioni delle previsioni di gestione delle aree e dei servizi pubblici. Secondo comma art 32- la fantomatica impossibilità di reperire le aree per servizi nei piani attuattivi indica un "intasamento edificatorio" che con il nuovo costruito o ristrutturato aggiunge criticità ad una zona evidentemente già congestionata. Sono i luoghi urbani in cui devono essere recuperate le aree per servizi che all'intorno mancano e non sono reperibili. Terzo comma art 34 nei nuovi insediamentie e ristrutturazioni urbanistiche il mancato reperimento di aree e la monetizzazione persino dell'urbanizzazione primaria è più che mai ingiustificato. E' un grave arretramento rispetto alla situazione vigente e persino rispetto ai vecchi piani di lotizzazione.
Per quanto riguarda gli articoli 35, 36,37 si trattadi una grande pasticcio. Non si può usare il mercato" per raggiungere fini di equità, il mercato può raggiungere l’efficienza (forse) ma mai l'equità. La perequazione nella formanondescritta può costituire un vero pasticcio. i criteri e le modalità sono rinviati ai Pat, quindi criteri e modalità che possono essere del tutto differenti tra i diversi Pat con buona pace per l'equità. I crediti edilizi sono un altro pasticcio e mettono in discuissione la possibilità di painificare, infatti per le aree di trasformazione, o almeno per alcune, non possono essere definite le volumetrie perchè non si sa qunati e quali crediti edilizi si spendereanno. Inoltre si tratta di una mezza truffa vereso i privati che non si indennizzazo ma si tacitano con dei crediti edilizi, ma allora se non si vogliono truffare bisogn che ci pia piena libhertà per spenderli e allora ... morte della pianificazione ma soprattutto della regolare crescita della città. I servizi, gli spazi pubblici, ecc. non sono altro che un modo di valorizzazione del territorio chi trasforma deve cedere le aree e basta perchè da queste cessioni deriva la stessa valorizzazione delle aree.
Qui sotto il testo della legge in formato .pdf:
L’iniziativa del Parlamento per definire una legge quadro nazionale in sostituzione della Legge Urbanistica del 1942 coincide con Il nostro lavoro per rafforzare la riforma del governo del territorio
Nel dibattito politico italiano il territorio, inteso come luogo dove si esplicano e prendono forma le ragioni dell’ecologia e quelle del vivere, le forme del paesaggio e le molteplici espressioni delle strutture urbane, dove trovano posto e consistenza beni culturali e ambientali e la rete delle infrastrutture, quel territorio è assente.
Non c’è mai stato e, probabilmente, non ci sarà se non cominciamo a porci il problema politico di cos’è il territorio oggi e come dobbiamo attrezzarci per governarlo, cioè per fare, per l’appunto, governo del territorio. Come ci chiede la nuova formulazione dell’art. 117 della Carta Costituzionale.
Problema politico reso ancora più evidente dai circa 8.000 assessori comunali con delega sul territorio, dai 123 assessori provinciali e regionali attualmente in carica, e da qualche centinaia di posizioni politiche di rilievo negli enti territoriali sovracomunali di secondo livello.
oblema politico reso ancora evidente dalle migliaia di persone che, quotidianamente, hanno a che fare con gli uffici tecnici comunali per problemi di natura territoriale.
Cos’è il governo del territorio
In Toscana, fin dal 1995, con legge regionale e a Costituzione non modificata, lo abbiamo inteso come l’azione dei pubblici poteri che indirizza le attività pubbliche e private a favore dello sviluppo sostenibile, e che al contempo garantisce la trasparenza dei processi decisionali e la partecipazione dei cittadini alle scelte; considerando il territorio come risorsa e la collaborazione interistituzionale un obbligo per assicurare coerenza a tutti gli atti di governo del territorio.
Nella rivisitazione della legge regionale oggi cerchiamo di rafforzare il concetto affermando che il governo del territorio è inteso come l’insieme delle attività relative all’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti la tutela, la valorizzazione e le trasformazioni delle risorse che lo costituiscono. L’azione del governo del territorio assicura, inoltre, il coordinamento delle politiche e la sinergia delle azioni di tutti i settori capaci di incidere sulle risorse stesse al duplice fine dello sviluppo sostenibile e della massima efficacia delle azioni dei settori. [1]
Ragionare sul territorio, senza ridurlo alla sola componente ambientale, oppure ai soli temi dei beni culturali, del paesaggio, o peggio ancora identificarlo solo con l’urbanistica intesa come disciplina dell’edificare, cioè con i soli regolamenti di uso del suolo, contribuirà a migliorare notevolmente il significato del termine e soprattutto a posizionare possibili politiche di governo a tutti i livelli istituzionali.
Una delle cause non secondarie della dissipazione del patrimonio culturale e della devastazione dell’ambiente e dell’alterazione del paesaggio sta proprio nella cattiva gestione del territorio, della frammentazione del suo governo, cioè della separatezza nella quale è ridotto il suo controllo.
Il territorio è oggi l’elemento chiave per governare i tempi contraddittori dell’economia contemporanea, ma anche quello più sensibile, perché le istituzioni e le amministrazioni del territorio sono oggi, rispetto al passato, più sole in confronto alla forza del capitale finanziario.
Le nuove dimensioni globali del mercato innescano competizioni sempre più estese e sganciate da regolazioni nazionali o regionali forti, per forza di cosa fanno emergere i territori locali e le forme locali di sviluppo e di organizzazione che, per funzionare o meglio per competere nella grigia omologazione del mercato globale, hanno bisogno di valorizzare le proprie specificità socio-economiche, ma soprattutto territoriali.
Qui entra in gioco prepotentemente il governo del territorio e le strategie politiche che su di esso e con esso è possibile attivare. È chiaro che non si può affidare il governo di questa strategia alla sola strumentazione urbanistica, ma appunto al governo del territorio.
Governare non per dirigere quanto per rendere coesa e coerente l’intenzionalità dei programmi politici con le politiche del territorio e con quelle della programmazione e questa con i programmi di sviluppo e i soggetti locali. Un’azione collaborativa e interistituzionale che coinvolge, stabilmente, le Regioni, le Province e i Comuni e che si apra alla democrazia partecipativa e sostantiva dal basso dei cittadini, rimettendo al centro del governo ordinario delle città e dei territori il metodo della pianificazione e della programmazione, come attività connotanti il ruolo stesso delle pubbliche amministrazioni.
Con una sottolineatura, che forse a molti non è ancora del tutto nitida: da un lato non possiamo più confondere il ruolo della programmazione e quello della pianificazione (intesa come strumento del governo del territorio oltre la dimensione dell’urbanistica), dall’altro non possiamo più considerarela pianificazione come il braccio esecutivo della programmazione come purtroppo è accaduto nell’esperienza italiana di questo secondo dopoguerra né viceversa, come avrebbe voluto qualche teorico di un’urbanistica onnipotente.
L’idea politica, in breve, è quella di mantenere vivo un legame fecondo tra politiche del territorio e politiche di sviluppo, in un tessuto che è tradizionalmente alla base del riformismo e di molta parte del regionalismo italiano più recente.
Pensiamo ad un modello di governo del territorio che coniughi sostenibilità ed efficienza, nel quale al piano è affidata la prospettiva temporale lunga, sia verso il passato che verso il futuro, con la quale definire le certezze, gli elementi saldi e le connessioni profonde che condizionano inevitabilmente qualsiasi comportamento umano sul territorio, ed al programma il compiti di sviluppare in una prospettiva temporale breve e flessibile le potenzialità che il territorio stesso esprime.
In questo senso intendiamo accentuare la distinzione che la legge regionale n. 5 ha fatto tra i contenuti strutturali e gli aspetti gestionali ed operativi degli strumenti per il governo del territorio.
Riteniamo che la legislazione nazionale debba solo affermare il principio sostantivo della materia governo del territorio e nulla più:
1) ricostruire il quadro completo dei principi del governo del territorio in raccordo esplicito con le altre materie trasversali che in base al dettato costituzionale attengono alla competenza statale esclusiva, quali l’ordinamento civile e penale, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, o concorrente, quali la tutela della salute, i porti e aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, la finanza pubblica ed il sistema tributario, la valorizzazione dei beni culturali.
Occorre tuttavia tener presente che il concetto di competenza esclusiva dovrebbe avere un confine dinamico: una cosa è la competenza legislativa, che la costituzione affida inequivocabilmente allo Stato , una cosa è la competenza amministrativa che la legge ordinaria affida secondo il principio vincolante della sussidiarietà, dell’adeguatezza e della differenziazione [2].
La contrapposizione tra territorio e ambiente dovrebbe, quindi, essere stemperata, anche se attualmente, nella legislazione, esistono diverse contrapposizioni duali. Il termine Territorio, normalmente, ha un significato prevalentemente spaziale e come tale è il punto di riferimento delle logiche e delle pratiche della pianificazione fisica.
Il termine “ambiente” nei due significati: biologico (che fa riferimento alle condizioni di vita fisiche) e storico-culturale (che si riferisce alle attività umane) è il punto di riferimento dell’ecologia . Va abbandonato il sistema della pluralità di discipline, regole e piani che caratterizza l’attuale sistema normativo. Il territorio con le sue funzioni e potenzialità è infatti un valore unitario e come tale va pensato, disciplinato e gestito.
2) stabilire i riferimenti etici del governo del territorio, in rapporto con gli orientamenti europei e con l’evoluzione delle consapevolezze culturali che dal concetto di urbanistica affermato dalla legge 1150 attraverso il DPR 616, fino alle leggi regionali non solo recenti hanno portato a quello di governo del territorio nella prospettiva dello sviluppo sostenibile.
Tra i vari temi degni di interesse sul piano normativo, ma anche culturale e amministrativo, vanno indicati alla riflessione del legislatore nazionale:
a) il processo di riforma relativo alla strumentazione urbanistica e territoriale che è andato di pari passo con l’attenzione per i temi ambientali all’interno della pianificazione degli usi del suolo
b) il progressivo spostamento di interesse dall’espansione edilizia ai temi del recupero e della riqualificazione urbana;
c) il territorio: da riferimento fisico indipendente a luogo di autopromozione
d) La partecipazione dal basso come elemento portante dell’aiuto alle decisioni pubbliche.
3) In conseguenza, stabilire in modo chiaro il ruolo ordinatore della pubblica amministrazione a tutela degli interessi della collettività ed a promozione e sostegno dello sviluppo, appunto, durevole, chiarendo quindi le ambiguità del rapporto pubblico–privato. Il che significa estendere la pianificazione e della programmazione a metodo ordinario nella gestione della pubblica amministrazione e nell’organizzazione dell’iniziativa privata.
Le modalità di funzionamento della pubblica amministrazione e il suo intervento e le forme organizzative e l’iniziativa privata non sono due fini in sé contrapposti; ma due modi a disposizione della società di conseguire, caso per caso, circostanza per circostanza, gli obiettivi e i risultati che si sono espressi e programmati.
Questo significa lavorare in cooperazione, ma con distinzione di ruoli racchiudibili nello slogan “ piani pubblici, progetti pubblico-privati o privati”, ma significa anche reinventare totalmente il governo e le sue modalità introducendo nei comportamenti, nella organizzazione e nelle scelte tecniche la pianificazione e la valutazione strategica, dando attuazione innovativa alla Direttiva 2001/42/CEE concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente.
Il principio nodale che deve essere esplicitamente richiamato è che la pianificazione e la programmazione costituiscono il metodo ordinario per l’organizzazione della pubblica e per le modalità del governo del territorio.
Si deve richiamare a questo proposito l’esperienza Toscana, dove, sin dagli anni ’70, lo strumento principale del governo del territorio, il Piano, da strumento regolatore, di vincolo passivo – che talora era considerato ostacolo alle esigenze dell’economia – ha sempre teso a diventare progetto, rappresentazione di un possibile sviluppo sostenibile, capace di sollecitare in modo ordinato le azioni dei soggetti pubblici e privati, capace di proporre.
Prendendo atto della necessità di superare la inaccettabile rigidezza che caratterizza la precedente generazione dei Piani regolatori, tanto da renderli estranei alle dinamiche economiche e incapaci di concorrere alla definizione ed all’attuazione di politiche di sviluppo sostenibile, si è scelta la via di recuperare il metodo della programmazione – pianificazione territoriale come attività permanente della pubblica amministrazione, con decisi correttivi per riallineare i tempi ed i contenuti della pianificazione alle reali esigenza delle politiche di sviluppo.
La conclusione logica è evidente: l’affermazione di principi fondamentali verso la collettività quali il diritto di tutti a partecipare alle scelte ed il non delegabile dovere della pubblica amministrazione di governare le trasformazioni territoriali nel rispetto delle risorse territoriali.
A questo riformismo si contrappone un liberismo anarcoide che sostanzia purtroppo alcune convergenze a livello parlamentare che tendono a sostituire i piani con labili documenti, che mostrano di ignorare il principio della sostenibilità e che tendono invece a tutelare la posizione dei poteri forti privati in una contrattazione in assenza di qualsiasi regola salda e condivisa a tutela dei diritti collettivi e del patrimonio comune.
Siamo consapevoli che la riforma che si sta realizzando in base alla legge regionale n. 5 del 1995 ha sortito esiti positivi:
- tempi procedurali enormemente ridotti rispetto al vecchi regime [3];
- c’è stata un’adesione massiccia dei Comuni e delle Province al processo di rinnovamento del sistema della pianificazione [4];
- si è accresciuta la consapevolezza dei valori del territorio e si sta acquisendo il senso della necessità del principio della sostenibilità;
- si è avviato un dialogo tra i settori e tra le istituzioni;
- nonostante l’affermazione del principio della sussidiarietà (in anticipo rispetto alla riforma del titolo V della Costituzione) i conflitti tra livelli istituzionali sono stati quasi sempre risolti senza ricorsi in sede giurisdizionale, assumendo dimensioni patologiche in pochissimi casi che hanno richiesto tale rimedio.
Siamo anche consapevoli dei limiti dell’esperienza di questi anni:
- sono ancora scarse le sinergie nell’attività di definizione delle scelte di governo del territorio, dato il permanere di molti procedimenti paralleli (le pianificazioni separate) i cui tempi ed effetti non risultano coordinati;
- I costi della pianificazione per il governo del territorio sono gravosi per i soggetti più deboli;
- non è ancora soddisfacente il controllo che la legge opera sulle scelte di singoli soggetti pianificatori che producono effetti su altri soggetti istituzionali;
- spesso è risultato incompleto il controllo sugli strumenti della gestione da parte degli strumenti strategici e tendenza a riproporre i vecchi modelli della pianificazione urbanistica rendendo incoerente il rapporto tra quadri conoscitivi di buon valore e scelte pianificatorie talvolta non giustificate.
La nuova legge, come già anticipato dal PRS 2003-2005, intende riaffermare ed evolvere i principi affermati dalla 5/95 ed in particolare:
1. renderli del tutto coerenti con i nuovi principi costituzionali, comunque già in buona misura presenti nella legge attuale;
2. rafforzare le sinergie tra i soggetti e tra i settori, attraverso un procedimento unificato [5] che aumenti l’efficienza dei percorsi decisionali ed il riallineamento delle norme di riferimento in un Codice regionale per il governo del territorio;
3. di conseguenza, assumere i contenuti delle nuove disposizioni comunitarie [6] in ordine alla valutazione integrata degli atti strategici [7].
4. migliorare l’efficacia nel perseguimento degli obiettivi della riforma.
Quali in questa prospettiva gli obiettivi fondamentali del lavoro sulla nuova legge:
1. Pensare e realizzare gli strumenti per attuare davvero la sussidiarietà.
2. Disciplinare un procedimento unificato per la formazione degli atti di pianificazione.
3. Costruire riferimenti unificati per coniugare sviluppo e tutela, per garantire lo " sviluppo sostenibile"
4. Apportare i correttivi - chiarimenti che risultano opportuni in base all’esperienza di questi anni di gestione della 5/95
5. Fornire stabilità al quadro normativo nel lungo periodo.
Uno dei motivi principali che spingono a rivedere le norme per il governo del territori è rappresentato dalla riforma del titolo V della Costituzione.
I punti consolidati, alcuni già presenti nella legge attuale e gli altri costruiti assieme al sistema delle autonomie, sono di grande rilievo politico istituzionale: andiamo verso un’attuazione piena della riforma costituzionale
Si afferma la pari dignità dei soggetti istituzionali all'interno del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione.
Principio di pari dignità
· Nella proposta ogni soggetto assume le sue decisioni senza sottostare ai condizionamenti di altri soggetti
· Ogni soggetto ha a disposizione gli strumenti per tutelare le proprie competenze dalle ingerenze altrui
Principio di sussidiarietà
· Il cittadino ha rapporti con l’ente che assicura l’adeguatezza e che gli è più vicino: per la gran parte della disciplina delle trasformazioni del territorio questo ente è il Comune, storicamente titolare della competenza in urbanistica.
L’attribuzione delle funzioni amministrative è riservata alla fonte legislativa competente ai sensi dell'articolo 117 (stato, per le sole funzioni di esclusiva competenza statale, o regione), secondo i criteri:
· di adeguatezza
· di differenziazione
Criterio di adeguatezza:
· Solo la legge può definire qual è il livello adeguato per svolgere una determinata funzione: l’articolato propone i ruoli di Regione (strategie territoriali e regolamentazione generale), Provincia (definizione dei limiti di utilizzabilità delle risorse) e Comune (disciplina dell’uso del territorio, urbanistica)
Criterio di differenziazione
·Nessun soggetto fa le stesse cose degli altri per consentire la non sovrapposizione e, dunque, la non gerarchia
PENSARE E REALIZZARE GLI STRUMENTI PER ATTUARE DAVVERO LA SUSSIDIARIETÀ E LA DIFFERENZIAZIONE
Cosa serve dunque ai Comuni in questa prospettiva che impone di partire dal soggetto più vicino al cittadino? Servono riferimenti certi entro cui gestire una completa autonomia. Gli stessi Comuni chiedono un controllo degli effetti sovracomunali delle scelte (C’è una grande domanda di AREA VASTA).
Questi riferimenti sono:
· gli indirizzi di programmazione del territorio.
· condizioni di ammissibilità certe ed esplicite per sviluppare ognuno il proprio autonomo potere di governo del territorio.
Ciò deve corrispondere alle competenze che si vanno a proporre per ogni livello di pianificazione:
La Regione
La Regione deve essere il soggetto che definisce le strategie generali: il Piano di indirizzo territoriale in raccordo con il piano regionale di sviluppo (sono quindi da precisare le relazioni tra i due strumenti secondo la logica affermata con l’ultimo PRS)
Si stabilisce comunque un forte rapporto fra programmazione generale dello sviluppo e pianificazione territoriale. Il Piano regionale di sviluppo ed il Piano di indirizzo territoriale operano in forte sinergia.
Il PIT è nello stesso tempo lo strumento territoriale del PRS e momento di proposta per le politiche di sviluppo.
La Regione deve definire le regole invarianti in riferimento ai livelli prestazionali irrinunciabili (la Regione esercita il potere regolamentare generale)
La Provincia
Alla Provincia è affidato il compito di definire le condizioni di sostenibilità ("tutti livelli di piano inquadrano prioritariamente invarianti strutturali da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile". Articolo 5 della legge vigente – dove per invarianti s’intende i livelli prestazionali non negoziabili delle risorse del territorio per garantirne la riproducibilità nella qualità)
Al livello intermedio si definiscono i contenuti programmatici dello sviluppo sostenibile (obiettivi, azioni, progetti di sviluppo locale come cerniera tra top - down e bottom - up): al PTC è affidato il compito di raccordare con propri indirizzi le strategie regionali al governo del territorio comunale.
- Secondo il criterio della differenziazione il piano territoriale di coordinamento della Provincia (come afferma già la legge 5) deve differenziarsi dal piano strutturale comunale.
- Secondo il principio della sussidiarietà il piano territoriale di coordinamento della Provincia deve dire quelle cose che sono necessarie alla pianificazione comunale e che il comune non può governare in modo adeguato in quanto eccedono i suoi confini.
Il Comune
Al Comune è attribuita la competenza in ordine alla disciplina dell’utilizzazione e della trasformazione delle risorse del territorio nell’ambito comunale
in tal senso il Comune:
- riconosce le identità dei luoghi e tutela le risorse essenziali del territorio;
- definisce gli indirizzi per il governo del territorio comunale espressi dalla comunità locale, nel rispetto di quelli espressi dalla Regione e dalla Provincia, dei quali promuove ove occorra i necessari adeguamenti;
- stabilisce gli obiettivi delle proprie politiche di settore e ne definisce l’attuazione programmata.
I RAPPORTI TRA LE COMPETENZE DELLE ISTITUZIONI ED I RIMEDI PER LE EVENTUALI PATOLOGIE IN ORDINE ALLA LORO TUTELA
C’è chi ritiene che anche nell’attuale disciplina contenuta nella legge n. 5 l’autonomia comunale si eserciti in modo eccessivo e dunque vorrebbe tornare indietro e trasformare il processo di consolidamento della riforma in controriforma, chi ha nostalgia dell’autorità della Regione che approva e stralcia gli atti di pianificazione altrui, magari attraverso la CRTA
La legittimità costituzionale, la storia e la realtà presente dei rapporti tra le istituzioni toscane, l’affermazione stessa del ruolo del governo regionale vietano questo ritorno al passato: la logica delle gerarchie comprenderebbe anche una supremazia statale nei confronti di tutti gli altri soggetti.
Questa proposta si colloca invece sulla linea delle intese e della leale collaborazione definita dalla sentenza 303 del 2003 della Corte costituzionale.
Per evitare le patologie nei rapporti interistituzionali si propone un sistema di warning precoce (durante il procedimento unificato chi intende tutelare le proprie competenze viene interessato ordinariamente all’avvio del procedimento e prima dell’adozione dell’atto, e comunque ha facoltà di presentare osservazioni).
Se infine con ciò non si perviene ad una composizione delle divergenze, non essendo data ad alcun soggetto la potestà di intervenire autoritativamente, si deve ricorrere ad un soggetto terzo (che oggi è rappresentato dal giudice amministrativo) che sia rappresentativo di tutti i livelli istituzionali.
Nella proposta di legge si è prevista una commissione paritetica Regione, ANCI, URPT, alla quale, nel caso che lo warning preventivo non abbia funzionato, si potrà rivolgere il soggetto che riterrà violate dall’amministrazione procedente le proprie competenze, le prescrizioni del proprio strumento di pianificazione o la stessa legge.
Il ricorso produrrà l’automatica sospensione dell’atto fino alle determinazioni del comitato. Sono peraltro previste misure di salvaguardia e poteri sostitutivi a tutela delle competenze di ciascun soggetto istituzionale e infine si potrà comunque ipotizzare un eventuale ricorso al giudice amministrativo.
UN MODELLO EFFICIENTE E SOSTENIBILE: DISCIPLINARE UN PROCEDIMENTO UNIFICATO PER LA FORMAZIONE DEGLI ATTI DI PIANIFICAZIONE.
I principi del governo del territorio sono affermati anche per le azioni di settore attraverso la definizione di obiettivi valutati in relazione ad ambiti di sviluppo e ricercando sinergie intersettoriali. Punto fondamentale è la definizione di un procedimento unificato e di valutazioni integrate.
Spariscono dalla legge i procedimenti ora previsti per la formazione e l’approvazione dei diversi strumenti, sostituiti dalla definizione di uno schema di procedimento unificato a valere verso tutti gli atti incidenti sul territorio
Si prevede di ricondurre ai principi propri del “governo del territorio” una serie di procedimenti di settore, di origine regionale o statale, il cui esito operativo induce effetti e trasformazioni significativi sul territorio e sulle sue risorse e che, ad oggi, rispondono a criteri in varia misura separati, estranei, e talvolta conflittuali, rispetto ai procedimenti ed agli obiettivi della sostenibilità affermati dalla L.R.5/95.
Fra questi assumono evidente importanza i temi dei programmi complessi, degli sportelli unici, le tante procedure messe in campo dal settore ambientale, nazionale ed europeo, che generano ulteriori complessità e separatezze, rendendo sempre più complessi i rapporti fra le norme generali di governo del territorio e quelle di settore.
La nuova legge prevede un unico schema di procedimento per la formazione e l'approvazione di tutti gli atti aventi effetto sul territorio.
Si definiscono i capisaldi del procedimento (avvio, progressiva definizione del progetto, verifiche, formalizzazione, evidenza pubblica ecc.) definendo per ciascun caposaldo le funzioni da svolgere e le prestazioni qualitative da garantire . Il titolare del procedimento è l’unico responsabile della perfetta legittimità di esso, non essendoci alcun soggetto sovraordinato che approva. Tale assunto, già presente nella legge vigente, viene rafforzato eliminando tutte le residue ambiguità.
Particolare rilievo è dato all'avvio del procedimento che è il momento in cui il titolare del procedimento provoca l’incontro e la sinergia di tutti i soggetti dai quali si attende un sostanziale apporto in termini di qualità, di definizione del quadro delle conoscenze, delle regole e degli obiettivi, e di quelli che per competenza espressa sono tenuti ad esprimersi sul prodotto finale. Lo scopo evidente è quello di trasferire il massimo di conoscenze alla successiva fase di progettazione, dotandola così di quanto necessario per conseguire i dovuti livelli di qualità e rendendola consapevole da subito delle regole secondo le quali sarà valutata.
I soggetti interessati all'avvio non saranno, quindi, solo i livelli istituzionali, ma tutti quei soggetti, pubblici e privati che, per loro funzione e ruolo specifico, il titolare del procedimento ritenga essere effettivi portatori di conoscenza, ovvero gestori di regole formalmente espresse ed incidenti sul procedimento, oppure titolari di un potere decisionale concorrente loro assegnato dalla legge.
Nel corso dell'iter progettuale il titolare del procedimento può porre in essere momenti formali di verifica, da stabilire all'atto di avvio, per garantire progressivamente la correttezza dello sviluppo progettuale e per portare tempestivamente gli eventuali correttivi, evitando al massimo che essi intervengano nella fase terminale del procedimento.
Elaborato il progetto, la legittimità di questo e la compatibilità e coerenza con gli strumenti di riferimento viene certificata formalmente dalle strutture tecniche responsabili del procedimento (autocertificazione).
Tutto avviene prima che l’organo politico istituzionale del titolare del procedimento assuma le proprie determinazioni in modo autonomo e consapevole
Sono esclusi dall’obbligo di seguire tutti i passaggi del procedimento unificato (salvo che per l’autocertificazione) gli atti meramente gestionali che sviluppino i propri effetti nell’ambito esclusivo delle competenze di un unico soggetto (ad es. il Regolamento Urbanistico ed i piani attuativi del Comune per i quali sussiste solo l’obbligo della trasmissione alla Regione – per il R.U. - e alla Provincia)
Alla luce della riforma del titolo V della Costituzione e dei recenti orientamenti della relativa giurisprudenza, non sembra da escludere che la norma regionale possa incidere sui comportamenti degli organi statali nell’esercizio delle loro competenze amministrative in materia di governo del territorio. Sembra possibile che la legge individui nei suoi procedimenti forme e momenti di concertazione operativa per attivare processi di collaborazione secondo il principio della leale collaborazione.
La legge afferma inoltre la necessità di procedere a valutazioni integrate degli effetti ambientali/territoriali, economici, sanitari e sociali indotti dalle trasformazioni del territorio risorsa. La nuova legge prevede che tali valutazioni siano effettuate nella fase di predisposizione dei piani o programmi, comunque prima della loro adozione, così da permettere alle amministrazioni competenti di operare scelte coerenti (valutate) con i principi dello sviluppo sostenibile
La nuova legge stabilisce infatti che “ogni soggetto che intende adottare uno strumento della pianificazione territoriale o un atto del governo del territorio effettua la valutazione integrata degli effetti territoriali, ambientali, sociali, economici e sulla salute umana, anche in più momenti , a partire dalla prima fase utile delle elaborazioni, prima che vengano assunte determinazioni impegnative, anche per consentire la scelta motivata tra possibili alternative e per individuare aspetti che richiedano ulteriori integrazioni o approfondimenti.” Le valutazioni compiute in una fase di elaborazione non sono ripetute con lo stesso livello di approfondimento e con le stesse modalità nelle fasi successive.
La nuova legge conferma che le disposizioni di carattere territoriale degli atti delle politiche di settore sono preventivamente sottoposte ad una verifica tecnica di compatibilità relativamente all’uso delle risorse essenziali del territorio. Dell’esito delle verifiche è dato espressamente atto nel provvedimento di approvazione dell’atto di programmazione settoriale. Gli strumenti della pianificazione territoriale determinano quali atti del governo del territorio debbano essere sottoposti alle valutazioni
COSTRUIRE RIFERIMENTI UNIFICATI PER CONIUGARE SVILUPPO E TUTELA, PER GARANTIRE LO " SVILUPPO SOSTENIBILE": UN TESTO UNICO DELLE NORME PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO
L’ obiettivo è stato in primo luogo quello di sincronizzare e portare a coerenza le diverse norme, in primo luogo quelle regionali, in tutte quelle materie che direttamente e tradizionalmente attengono all'urbanistica ed al territorio e che, ancora oggi, risultano "esterne" alla 5/95, anche se in parte ne hanno assunto i principi.
L'elenco è consistente e riguarda aspetti che vanno dal recupero del patrimonio edilizio esistente agli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia nelle zone a prevalente funzione agricola, dalla normativa edilizia alla disciplina paesaggistica, dall'edilizia residenziale o produttiva di iniziativa pubblica al commercio, dalla mobilità alla gestione dei tempi, ai porti e approdi turistici.
Si tratta di argomenti di rilievo che, si ricorda, attengono, fra l’altro, ad alcune Leggi Regionali importanti quali:
· LR 59/80 "Norme per gli interventi per il recupero del patrimonio edilizio esistente";
· LR 21/84 "Norme per la formazione e l'adeguamento degli strumenti urbanistici ai fini della prevenzione del rischio sismico";
· LR 39/94 "Norme in materia di variazioni essenziali e di destinazione d'uso degli immobili"
· LR 64/95 e successive modificazioni "Disciplina degli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia nelle zone a prevalente funzione agricola";
· LR 68/97 "Norme sui porti e gli approdi turistici della Toscana";
· LR 52/99 “Norme sulle concessioni e le denunzie di attività edilizie”;
· LR 38/98 Governo del tempo e dello spazio urbano e pianificazione degli orari della città
· L.R. 78/98 Testo Unico in materia di cave, torbiere, miniere, recupero di aree escavate e riutilizzo di residui recuperabili.
· la normativa urbanistica relativa alle aree per l'edilizia residenziale o produttiva di iniziativa pubblica e privata (lottizzazioni, piani particolareggiati, aree "167", aree P.I.P. ecc.);
· la normativa urbanistica relativa ai parchi regionali.
· la normativa urbanistica relativa al commercio
In questa operazione si è affrontato il tema importante della disciplina paesaggistica. Per quanto ci riguarda intendiamo riaffermare la convinzione che da sempre ci ha caratterizzato, secondo la quale la presenza di un piano dotato di specifiche norme sulla qualità paesaggistica e architettonica degli interventi da trasporre nella disciplina urbanistica locale, possa e debba costituire condizione per una modalità di gestione della tutela del paesaggio diversa da quella attuale. Il riconoscimento della sussistenza nel piano di tali norme si porrebbe infatti come condizione di garanzia della correttezza e della qualità degli interventi più efficace ed efficiente dell’attuale procedimento autorizzativo. La compatibilità di questi ultimi con il piano, quindi, potrebbe essere adeguatamente verificata in ambito comunale, risultando non più necessario il puro vincolo passivo e la modalità autorizzativa della tutela.
APPORTARE I CORRETTIVI CHE RISULTANO OPPORTUNI IN BASE ALL’ESPERIENZA DI QUESTI ANNI DI GESTIONE DELLA 5/95
Occorre precisare la definizione dei contenuti degli strumenti del governo del territorio (PIT regionale, PTC provinciali, PS comunali) secondo i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, prevedendo per ognuno una parte “statutaria” strutturale ed una parte strategica più direttamente operativa;
E’ necessario rafforzare il controllo del Piano strutturale sulla gestione delle trasformazioni (regolamento urbanistico e piano complesso)
La nuova legge dovrà infine garantire la continuità, e la permanente adeguatezza e la certificabilità dei dati conoscitivi su cui si fonda e si valuta l’azione di governo del territorio, evitando vuoti di conoscenza, ridondanze, duplicazioni e costi economici fortemente crescenti a carico delle istituzioni e dei privati.
[1]Come emerge chiaramente, in Toscana, ci siamo orientati nel considerare la nozione “governo del territorio”, seguendo l’evoluzione delle elaborazioni disciplinari, amministrative e politiche di cinquant’anni intorno alla materia “urbanistica”,, dal concetto ridotto della legge del 1942, alla pan-urbanistica degli anni settanta, così estesa con il DPR 616 del 1977 da diventare un’altra cosa, così come, fin dalla nascita delle Regioni ordinarie, il regionalismo riformista auspicava e indicava.
In Toscana abbiamo dunque applicato il principio della continuità e al contempo il principio della continenza (nel più sta il meno), per cui nella nozione “governo del territorio” da una parte la consideriamo come la sintesi politica ed amministrativa più alta sul territorio, cioè quel complesso di istituti ed azioni che presiedono alla definizione, regolamentazione, controllo e gestione della principale risorsa in mano pubblica: il territorio, le sue regole, i suoi principi; dall’altra come inclusiva di tutti quegli aspetti tecnico-organizzativi che permettono di trasferire la sintesi nell’agire: l’urbanistica e l’edilizia in primis. Cioè il cuore normativo del governo del territorio è rappresentato anche dalla regolamentazione urbanistica e da quella edilizia, ma anche dalle regolamentazioni del paesaggio, dell’ambiente, ecc.
[2] Ad esempio, l’art. 9 della costituzione recita infatti che “la Repubblica…. tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico”; sottolineo la Repubblica, che come recita il successivo art. 114 “è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo stato”. E questo, operativamente, vuole pur dire qualcosa).
[3] Alla data del maggio 2003, dei 79 Piani strutturali giunti all’approvazione il più rapido è stato il caso di Bientina (PI) con soli 352 giorni effettivi; il più lento è stato quello di Terricciola (PI) con 2.419 giorni. La media tra tutti i piani strutturali approvati è di 1.245 giorni.
Alla stessa data, dei 39 Piani regolatori completi (Ps + Ru) il più veloce è stato quello di Bagno a Ripoli (FI), che ha chiuso l’intera procedura in 688 giorni effettivi; il più lungo quello di Scarlino (GR), che ha impiegato 2.450 giorni. La media è risultata pari a 1.506 giorni.
I dati si riferiscono al periodo che va dall’avvio delle elaborazioni all’entrata in vigore delle disposizioni. Entro cinque anni, l’arco del mandato amministrativo, nel 77% dei casi il piano giunge alla sua completa formalizzazione.
Prima della riforma i tempi di ratifica istituzionale non considera il periodo di elaborazione del progetto che nella maggior parte dei casi va attorno ai due anni: il 93% degli strumenti urbanistici necessita di altri tre anni per la sola fase di ratifica istituzionale, dall’adozione del piano all’esame regionale alla definitiva approvazione; addirittura il 37% supera la soglia dei cinque anni. Ciò significa che, sovente, una diversa Giunta comunale si trova a dover sostenere davanti agli organi tecnici regionali uno strumento urbanistico generale che non ha contribuito a definire.Infinitamente più breve è oggi il periodo di formazione delle varianti, che nei casi più semplici non supera i sei mesi dall’inizio delle elaborazioni all’efficacia.
[5] Vedi scheda n. 1 allegata
[6] Vedi scheda n. 2 allegata
[7] Vedi scheda n. 3 allegata
Il testo è scaricabile qui:
Il golpe di Capodanno si consuma dentro al consiglio dei ministri e prende la forma di un decreto legge che, di fatto, consegna al titolare delle Infrastrutture il potere di nominare o di rimuovere direttamente, senza nemmeno sentire gli enti locali, i presidenti delle autorità portuali. Un passo indietro clamoroso, che cancella gli ultimi vent’anni di battaglie sulle banchine italiane, combattute nel nome dell’autonomia, e riporta al centro il potere di nomina e di veto degli uomini e delle donne chiamati a guidare i porti. Un colpo a sensazione firmato dalla maggioranza che ci aveva già provato un paio di settimane fa, con un emendamento alla legge finanziaria. Allora il progetto era naufragato miseramente. Ma l’intenzione è rimasta e si è concretizzata ieri sera, nell’ultimo consiglio dei ministri dell’anno, al riparo da ogni possibile attacco. Ha atteso quasi la fine del suo mandato, il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, per sferrare l’attacco finale al cuore della portualità italiana. Non a caso, il provvedimento è diretto al controllo del potere di nomina dei presidenti di dodici porti considerati strategici per il Paese. Due di questi, Genova e La Spezia, sono in Liguria. Uno è appena più sotto, in Toscana, a Livorno. Con l’eccezione di Savona, quindi, l’intero sistema dell’Alto Tirreno è consegnato nelle mani del ministro. È lui a decidere il nome del presidente e a comunicarlo. Il provvedimento, spiega un portavoce del consiglio, è finalizzato a fermare questa stagione senza fine di ricorsi al Tar contro ai commissari nominati dal ministro. Di sicuro, con un provvedimento del genere, si cancellerà anche la possibilità di ricorrere al tribunale amministrativo, ma soltanto perché il ministro si arroga il diritto esclusivo di nomina. Inevitabili saranno le proteste del mondo del mare, già mortificato nei giorni scorsi dai tagli della Finanziaria e addirittura ridicolizzato da un altro esponente del governo, il ministro dell’economia Tremonti, che nel salotto di Porta a Porta ha dichiarato che la portualità italiana non va sostenuta perché alimenta il flusso crescente di merce in arrivo dall’Asia e dalla Cina in particolare. Se non ci fossero le registrazioni non ci sarebbe quasi da crederci. Invece è la verità. La verità di un governo che, a più riprese, non ha mai dimostrato di amare il suo mare e di considerarlo strategico.
1. Redigere la comunicazione richiesta implicava il rinvenire, e sommariamente valutare, l’insieme delle disposizioni presenti nell’insieme della produzione legislativa regionale riconducibili alla finalità di contenere al massimo l’utilizzazione del territorio non urbanizzato, sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale, per realizzarvi nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali, e comunque manufatti diversi da quelli strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale. Ho quindi verificato se la finalità dianzi enunciata è espressa come propria della legislazione regionale, ovvero dell’attività di governo del territorio dalla prima regolamentata, e se era stato previsto e approntato qualche strumento per assicurare il perseguimento della medesima predetta finalità. Ho inoltre esaminato se la legislazione delle diverse regioni avesse specificamente disciplinato le trasformazioni ammissibili nel territorio non urbanizzato e ho verificato se e in che misura le discipline dettate, ove lo fossero state, si allontanassero dal modello di disciplina che, compiendo la mia opzione certamente più soggettiva e quindi discutibile, ho qualificato (nei suoi elementi essenziali) come ottimale.
2. L’assunzione dell’ultimo criterio ora detto mi impone di provvedere, prima di procedere all’esposizione, secondo i suesposti criteri, di contenuti delle legislazioni regionali, a esplicitare quale sia, secondo il mio parere, quello che ho qualificato, per l’appunto, come ottimale modello di disciplina delle trasformazioni ammissibili nel territorio non urbanizzato. Ritengo che il principio che si deve assumere senza eccezione alcuna sia quello per cui nel territorio non urbanizzato possono definirsi ammissibili nuove costruzioni, demolizioni e ricostruzioni, consistenti ampliamenti, di edifici, solamente se strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi. Le predette trasformazioni devono essere assentite previa sottoscrizione di apposite convenzioni nelle quali sia prevista la costituzione di un vincolo di inedificabilità, da trascrivere sui registri della proprietà immobiliare, fino a concorrenza della superficie fondiaria per la quale viene assentita la trasformazione, nonché l'impegno a non operare mutamenti dell’uso degli edifici, o delle loro parti, attivando utilizzazioni non funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, e a non frazionare né alienare separatamente i fondi per la parte corrispondente all'estensione richiesta per la trasformazione ammessa. Devono essere disciplinate altresì le trasformazioni ammissibili dei manufatti edilizi già esistenti con utilizzazioni in atto non strettamente funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, limitandole a quelle di manutenzione, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia senza ampliamenti, ovvero con ampliamenti fortemente contenuti. Parimenti devono essere disciplinati i mutamenti dell’uso dei manufatti edilizi esistenti alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni di legge. Nei casi di attivazione di utilizzazioni funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale devono valere le disposizioni attinenti le omologhe trasformazioni fisiche. Deve essere prevista la demolizione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria e per la parte in cui abbiano entità dimensionale eccedente le determinazioni delle leggi o degli strumenti di pianificazione, e siano privi di interesse anche soltanto storico-testimoniale. In ogni caso deve essere previsto che siano disposte ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, relativamente al territorio non urbanizzato, o a sue definite articolazioni, per ragioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente.
3. Fatta questa indubbiamente lunga, ma non sopprimibile, premessa, vengo all’esame, sotto il profilo dei primi due caratteri assunti come significativi e dianzi enunciati, degli ordinamenti legislativi delle singole regioni, anzi delle leggi unitarie e organiche in materia di governo del territorio di cui si sono ormai dotate tutte le regioni italiane, tranne, tra quelle “a statuto speciale”, la Regione Sicilia, e, tra quelle “a statuto ordinario”, la Regione Molise, stante che è in questa tipologia di leggi che, constatamente, si rintracciano, laddove esistano, contenuti che, per l’appunto, si riferiscano ai suddetti primi due caratteri. Le Regioni Abruzzo, Basilicata, Lazio, Marche, Puglia, Sardegna e Umbria non enunciano, nelle rispettive leggi, finalità di contenimento dell’uso del territorio non urbanizzato. Alcune tra loro, peraltro, prevedono che la pianificazione comunale, nel calcolare i fabbisogni di spazi per le diverse funzioni, sia tenuta a rispettare disposizioni dettate dalla medesima regione (Regione Puglia, Regione Sardegna), oppure dalla medesima regione e, in via specificativa, dalla pianificazione provinciale (Regione Lazio), oppure ancora dalla sola pianificazione provinciale (Regione Abruzzo, Regione Marche). Analogamente, le Province autonome di Trento e di Bolzano, pur non affermando nello strumento legislativo finalità di contenimento dell’uso del territorio non urbanizzato, deferiscono la disciplina dei dimensionamenti delle trasformazioni edilizie e urbanistiche all’attività pianificatoria, fortemente gerarchizzata, sovraccomunale e comunale. Al contrario, finalità di contenimento dell’uso del territorio non urbanizzato, formulate variamente e con assai diversa perentorietà, sono espressamente proclamate nelle leggi in materia di governo del territorio delle Regioni Calabria, Campania, Emilia – Romagna, Friuli – Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto. Tra di esse, alcune prevedono anche che la pianificazione comunale, nel perseguire la prescritta finalità, debba adeguarsi a più puntuali disposizioni dettate dalla medesima regione (Regione Friuli – Venezia Giulia, Regione Valle d’Aosta, Regione Veneto), oppure dalla medesima regione e, in via specificativa, dalla pianificazione provinciale (Regione Calabria, Regione Emilia – Romagna, Regione Liguria), oppure ancora dalla sola pianificazione provinciale (Regione Campania). Altre invece affidano interamente il rispetto della proclamata finalità alla pianificazione comunale (Regione Lombardia, Regione Piemonte, Regione Toscana).
4. Per concludere, cioè per assolvere il compito prefissomi, procedo ora a esporre se e in quali termini la legislazione delle diverse regioni abbia specificamente disciplinato le trasformazioni (fisiche e/o funzionali) ammissibili nel territorio non urbanizzato, e se e in che misura le discipline dettate si approssimino o si allontanino dal modello di disciplina che ho all’inizio di questa comunicazione qualificato come ottimale. Delle regioni che si sono dotate, in tempi più o meno recenti, di una legge unitaria e organica in materia di governo del territorio, o almeno di pianificazione, la Regione Friuli – Venezia Giulia, la Regione Valle d’Aosta, la Regione Basilicata e la Regione Puglia non vi hanno affrontato lo specifico argomento del quale si sta trattando, il quale non è, da tali regioni, normato neppure da specifici provvedimenti legislativi di settore. Lo specifico argomento del quale si sta trattando è invece direttamente affrontato nella legge unitaria e organica in materia di governo del territorio, o almeno di pianificazione, delle Regioni Abruzzo, Calabria, Liguria, Lazio, Lombardia, Emilia – Romagna, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto, nonché delle Province autonome di Trento e di Bolzano. Gli elementi salienti del modello di disciplina che ho qualificato come ottimale sono peraltro presenti, in misura più o meno compiuta, ma accettabilmente soddisfacente, soltanto nelle leggi delle Regioni Calabria, Lazio, Piemonte, Umbria, e soprattutto in quelle delle Regioni Toscana e Veneto, nonché in quella della Provincia autonoma di Bolzano, mentre possono innestarsi quasi naturalmente (ma non vincolativamente) nelle disposizioni per il territorio rurale dettate dalla Regione Emilia – Romagna e, per contro, sono resi in termini parziali e quasi (verrebbe da dire) caricaturali, nella legge della Regione Lombardia. Due regioni non hanno affrontato lo specifico argomento del quale si sta trattando nelle rispettive leggi unitarie e organiche in materia di governo del territorio, ma ne hanno fatto oggetto di specifici provvedimenti normativi di settore: si tratta della della Regione Sardegna e della Regione Marche. In entrambi i casi sono presenti elementi del modello di disciplina che ho qualificato come ottimale, ma in termini assolutamente parziali e insufficienti. Costituisce un caso a sé la Regione Campania, che nella propria legge unitaria e organica in materia di governo del territorio, provvede, abrogando espressamente disposizioni di leggi previgenti, a far salvi, tra l’altro, alcuni elementi, presenti nella propria previgente legge più ricca di disposizioni sulla pianificazione comunale, che costituiscono, in sostanza, confusi lacerti del modello di disciplina che ho qualificato come ottimale.
C'è anche il silenzio-assenso per la concessione edilizia nel disegno di legge sul governo del territorio approvato dalla Camera martedì. L'ha introdotta, proprio all'ultimo comma, l'ultimo emendamento approvato su proposta di Forza Italia: quello che introduce l'articolo 13 con l'elenco delle norme da considerare abrogate in quanto incompatibili con la nuova disciplina. Il silenzio assenso sostituisce il silenzio rifiuto previsto oggi al comma 9 dell'articolo 20 del testo unico sull'edilizia ( Dpr 380/ 2001).
La modifica, qualora la legge fosse approvata anche dal Senato, comporterebbe un ulteriore spostamento delle domande dallo strumento della Super Dia, prevista nello stesso testo unico, verso la concessione. Un movimento già in atto, visto che non pochi sostengono già oggi che il procedimento della Super Dia tutela poco chi lo utilizza nel caso di pesanti operazioni di ristrutturazione.
A confermare il passo indietro sulla Superdia è lo stessa legge varata da Montecitorio.
Dopo il braccio di ferro con cui lo Stato aveva imposto alle Regioni l'allargamento della Dia, ora la " legge Lupi", attentissima a un rapporto equilibrato con i Governatori, fa una parziale marcia indietro: e lascia libere le Regioni, con il comma 1 dell'articolo 11, di individuare « le categorie di opere e i presupposti urbanistici in base ai quali l'interessato ha la facoltà di presentare la denuncia di inizio attività in luogo della domanda di permesso di costruire » .
Ma la legge sul governo del territorio è soprattutto riforma della legge urbanistica del 1942 ( è la n. 1150) e ammodernamento degli strumenti urbanistici.
Con l'obiettivo di sanare dieci anni di ritardo della legislazione statale rispetto alle legislazioni regionali e di consolidare le discipline regionali, andate avanti a forza di strappi. Formalmente, la legge approvata a Montecitorio è anche la prima legge di principi dello Stato sulle materie a competenza concorrente. Una legge leggera nella forma ( qualche detrattore la definisce " legge di slogan") ma pesante nella sostanza. Il salto rispetto alla disciplina statale vigente è enorme — una specie di crollo del muro di Berlino — con l'abbandono della vecchia urbanistica dirigista fondata sul Piano regolatore unico e sugli espropri e l'avvio di una nuova urbanistica cui non manca nessuno degli strumenti innovativi sperimentati dalle Regioni in questi anni: ! lo sdoppiamento del vecchio Piano regolatore generale, ora « piano urbanistico » comunale in « strutturale » per le invarianti di lungo periodo e « operativo » con le destinazioni di uso delle aree ( articolo 6); " l'utilizzo di strumenti di redistribuzione dei « diritti edificatori » all'interno di comparti omogenei, come la compensazione e la perequazione ( articolo 9); la priorità data agli interventi di rinnovo urbano rispetto alla nuova edificazione ( articolo 6, comma 4); il principio di sussidiarietà verticale che elimina le sovrapposizioni di competenza fra Regioni, Province e Comuni, assegnando al Comune le competenze di pianificazione urbanistica e di « soggetto primario titolare delle funzioni di governo del territorio » ( articolo 5); le premialità assegnate in termini di metri cubi aggiuntivi « al fine di favorire il rinnovo ubrano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici » ( articolo 9, comma 4); la legittimazione definitiva di strumenti di urbanistica negoziata che qui vengono individuati come prioritari ed elevati a sistema, per quanto debbano avvenire « nel rispetto dei principi di imparzialità amministrativa, di trasparenza, di concorernzialità, di pubblicità e di partecipazione al procedimento di tutti i soggetti interessati all'intervento » ( articolo 5, comma 4); la sostanziale riforma degli « standard » che abbandona il rigido rapporto quantitativo fra aree edificabili e aree da destinare agli interessi collettivi per prevedere, invece, in funzione della necessità delle singole aree, lo sviluppo di servizi adeguati ( si pensi a parcheggi o a centri sportivi) che potranno anche essere forniti direttamente da privati anziché attraverso il circuito esproprio opera pubblica ( articolo 7). Recepiti gli strumenti sperimentati in sede locale Dai privati le aree per parcheggi e centri sportivi
Una spinta all'innovazione
I provvedimenti regionali che hanno anticipato le nuove regole
Piano regolatore più flessibile, co pianificazione tra enti territoriali, perequazione di diritti edificatori, programmi pubblico privato, piano dei servizi.
Da dieci anni l'innovazione in materia di leggi urbanistiche arriva dalle Regioni, con lo Stato nel ruolo di vecchio padre tollerante, in ritardo nel seguire le novità ma quasi mai rigido nel dare via libera agli strappi rispetto alle leggi statali vigenti. Per la maggior parte delle Regioni, dunque, 13 su 21, molte delle novità della " legge Lupi" sono già in vigore.
Dalla fine del 2001, poi, con l'entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione, è scomparso anche il visto preventivo del Governo sulle leggi regionali, e la spinta all'innovazione ha accelerato ancora di più.
La prima riforma urbanistica è arrivata dalla Toscana, con la legge 5 del 16 gennaio 1995. Prima di allora le Regioni, pur titolari fin dal 1970 della potestà legislativa concorrente in materia urbanistica, si erano limitate a fare leggi fotocopia rispetto alla legislazione statale. Ma dal 1995 è partita un'ondata riformatrice che ha coinvolto 13 Regioni su 21. Il vecchio piano regolatore, dettagliato e rigido, è rimasto solo in Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Provincia di Trento, Marche, Abruzzo, Molise, Sardegna e Sicilia. E di fatto anche in Puglia, dove la legge del 2001 è ancora priva dell'indispensabile regolamento attuativo.
Tra leggi di centrosinistra ( le prime e più numerose) e leggi di centrodestra, sono più le analogie che le differenze. Il trend riformatore è stato in gran parte unitario, sulla base delle idee lanciate dall'Inu ( Istituto nazionale di urbanistica) a inizio anni 90.
Il concetto base che troviamo in tutte le leggi regionali è l'obiettivo di rendere il piano urbanistico comunale più flessibile dividendolo in due: da una parte il piano strutturale, con gli indirizzi di fondo e i vincoli ambientali, valido a tempo indeterminato e non conformativo della proprietà, con indicazioni non dettagliate su indici edificatori e destinazioni; e dall'altra il piano operativo, dove si prevedono le grandi trasformazioni da attuare in cinque anni. Gli indirizzi di fondo, flessibili, restano stabili, ma i dettagli e la scelta delle aree prioritarie si decidono in base al mercato e alle scelte del sindaco.
Importante anche la disciplina dettagliata delle aree già costruite, con la possibilità di fare interventi di recupero senza aspettare fantomatici piani particolareggiati che per decenni avevano ingessato i centri storici. Questa è contenuta di solito in regolamenti urbanistici da approvare insieme al piano strutturale, ma nelle leggi più recenti, con ulteriore semplificazione, è stata incorporata nello stesso piano strutturale: così in Campania ( legge regionale 22 dicembre 2004, n. 16), Umbria ( 22 febbraio 2005, n. 11) e Lombardia ( 11 marzo 2005, 12).
Sempre presente anche la copianificazione Regione Provincia Comune e i programmi complessi pubblico privato, e quasi sempre la perequazione urbanistica, cioè l'assegnazione di diritti edificatori che rende più equa ed efficace la trasformazione urbana.
In ordine sparso sono invece arrivate altre innovazioni. Toscana e Lombardia hanno lanciato per prime, nel 1999, la Superdia in alternativa alla concessione edilizia, poi recepita nel 2002 a livello nazionale. La stessa Lombardia, sempre nel 1999, ha introdotto il concetto di standard prestazionale ( non in metri quadrati) per i servizi pubblici, previsto poi anche dall'Emilia Romagna ( legge 20/ 2000) e dalla Calabria ( 19/ 2002).
Lo stesso accordo con soggetti privati ai fini della pianificazione, uno dei punti innovativi della legge Lupi, è stato inventato dalla legge Emilia Romagna del 2000, ed è presente anche nella legge Veneto 11/ 2004.
Lo strappo più forte è comunque arrivato dalla Lombardia, con una legge ( la 12/ 2005) diversa da tutte le altre. Alla parte strutturale del piano, infatti, non segue un piano operativo generale su tutta la città, ma direttamente i piani attuativi su singole aree. Peso decisivo è così dato alle proposte dei privati e alle scelte caso per caso che su di esse fa la Giunta comunale ( i piani non vanno in Consiglio). La Lombardia da quest'anno punta all'attuazione su singole aree
30 giugno 2005
I “principi” della nuova legislazione
Com’è noto, l’autonomia legislativa delle regioni in materia urbanistica deve esplicarsi nell’ambito dei principi della legislazione nazionale: principi derivanti da una legislazione nazionale d’inquadramento ad hoc, o principi desumibili dalla legislazione previgente. Non esiste una nuova definizione legislativa in materia. Esistono proposte, più o meno solide nel consenso ottenuto ma ancora prive di vigenza. Alcune di queste proposte (in particolare quelle che hanno ottenute, nelle due ultime legislature, il più vasto consenso) inseriscono tra i principi il meccanismo di pianificazione che ho prima illustrato. Ma oramai, per quanto riguarda il nuovo assetto interno del meccanismo di pianificazione, è difficile che il legislatore nazionale modifichi norme ormai consolidate a livello regionale. Conviene invece affrontare la questione dei principi a proposito di un tema nel quale l’intervento del Parlamento è senz’altro necessario: quello della ripartizione delle competenze, e dei raccordi istituzionali, nel rapporto tra i diversi livelli di governo: nazionale, regionale, provinciale, comunale.
A mio parere non c’è reale e sostanziale differenza tra pianificazione territoriale e pianificazione urbanistica. La pianificazione infatti è, a mio parere, il metodo generale che gli enti pubblici elettivi di primo grado (in Italia: comuni, regioni, province, stato) adottano quando effettuano scelte suscettibili di incidere sull’assetto fisico e funzionale del territorio.
Questo criterio può essere definito come “principio di pianificazione”, e può essere così espresso. ogni ente elettivo di primo grado, rappresentante di interessi generali della cittadinanza, esprime le proprie scelte sul territorio mediante atti di pianificazione: atti cioè nei quali le scelte siano esplicite, chiaramente definite nei confronti di tutti, trasparenti e - ovviamente - precisamente riferite al territorio, cioè rappresentate su di una base cartografica di scala adeguata alla maggiore o minore definizione e precettività delle scelte.
Qusto principio è stato espresso in modo molto chiaro fin dal 1988, nell’ambito della “Commissione incaricata di procedere al riordinamento delle disposizioni legislative nazionali in materia di procedure urbanistiche, uso e assetto del territorio”, istituita dal Ministro Enrico Ferri e presieduta dal Direttore generale Vezio De Lucia. Il documento pone, al primo posto tra i principi da definire nella legislazione nazionale,
L'assunzione del metodo della pianificazione come criterio fondamentale di guida delle azioni della Pubblica amministrazione suscettibili di incidere nell'assetto del territorio.
Il medesimo principio è praticamente assunto - in modo più o meno chiaro - da tutti i disegni di legge in materia di urbanistica presentati al Parlamento. Ad esempio, la proposta di legge presentata nel luglio 1997 dai deputati del Pds recita:
1. Al governo del territorio si provvede mediante la predisposizione di piani territoriali e urbanistici, nonché di eventuali piani specialistici e di settore, e mediante la programmazione dei relativi interventi.
2. La predisposizione e l’approvazione di piani territoriali e urbanistici, e di piani specialistici e di settore, competono allo Stato, alle regioni, alle province, sulla base di quanto prescritto dalla presente legge e dalle leggi vigenti in materia di difesa del suolo, di tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
3. Gli atti riguardanti trasformazioni fisiche e funzionali del territorio e degli immobili che lo compongono devono essere conformi agli strumenti di pianificazione e programmazione [i].
Se Stato, regioni, province e comuni hanno tutti poteri e competenze che comportano l’assunzione di decisioni suscettibili di modificare l’assetto del territorio, e se ciascuno di questi enti deve esercitare tali poteri mediante la pianificazione[ii], come fare per regolare, in modo corretto e compiuto, i rapporti tra tali livelli di governo (e i corrispondenti atti di pianificazione)? È un problema che è decisivo risolvere in modo convincente.
Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino ai decreti di trasferimento delle competenze alle regioni, nel 1977. Oggi il criterio prevalente è quello di riferire le competenze a oggetti [1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”. In che cosa consiste? Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992. L’articolo 3b afferma:
La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.
Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della Regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistemi di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?
Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.
E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se Il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si voglia rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.
Accanto al principio della sussidiarietà, gli stessi orientamenti legislativi nazionali suggeriscono l’introduzione di una pratica: quella della concertazione. Si tratta, per la verità, di una pratica presente da decenni nella tradizione delle amministrazioni centrali dello Stato.
Le leggi regionali nuove (o, almeno, la maggior parte di esse) definisce questa pratica inventando un nuovo istituto (prevalentemente denominato “Conferenza di pianificazione”), e attribuendogli un ruolo di consultazione obbligatoria del corso del procedimento formativo degli atti di pianificazione. È interessante osservare che le regioni tendono, giustamente, a distinguere il ruolo degli enti pubblici da quello dei privati, riservando le conferenze di pianificazione (o simili) ai rappresentanti dei primi. Alcune, poi, distinguono il ruolo di partecipazione consultiva dei privati privilegiando (o riservando la partecipazione) alle associazioni che esprimono interessi diffusi.
Altrettanto rilevante è che le leggi regionali tendano a chiudere i troppi varchi che la legislazione statale ha aperto, con i numerosissimi “strumenti urbanistici anomali”, alla deroga generalizzata al sistema di garanzie che le procedure della formazione dei piani vuole assicurare. Anche nel caso di “acordi di programma” o di altre intese potenzialmente derogatorie, la maggior parte delle leggi regionali ribadiscono la necessità dell’approvazione esplicita da parte degli organi collegiali delle amministrazioni elettive interessate, e quella della sostanziale conformità alle regole, oltre che alle finalità, degli strumenti urbanistici ordinari.
Assumere pienamente il principio di sussidiarietà, distinguere le competenze per oggetti e aspetti anziché per materie consente di definire in modo soddisfacente e innovativo il rapporto tra i livelli di governo nelle procedure di formazione. Queste, come ho affermati fin dai primi capitoli, costituiscono un problema essenziale di qualsiasi processo di pianificazione legato ai procedimenti e agli istituti della democrazia rappresentativa. Fino ad oggi, il procedimento di formazione garantiva che gli interessi espressi dal livello di governo sovraordinato fossero tenuti in debito conto mediante l’istituto della approvazione. L’altro ieri lo Stato, ieri le regioni, oggi sempre più frequentemente le province approvano i piani comunali; la regione approva i piani provinciali (lo Stato decide e incide, ma non lo dice). L’assunzione del principio di pianificazione consente finalmente di risolvere questo problema in modo diverso.
Si tratta, in definitiva, di stabilire che, poiché ogni livello di governo esprime i propri interessi sul territorio (nei limiti che il principio di sussidiarietà attribuisce alla sua responsabilità) mediante un atto di pianificazione, all’approvazione (cioè all’ingerenza tendenzialmente discrezionale del livello sovraordinato sulle decisioni del livello sottordinato) si sostituisce la mera “verifica di conformità”: ossia la verifica che l’atto di pianificazione del livello sottordinato non sia difforme rispetto alle prescrizioni del livello sovraordinato. Si tratta, evidentemente, di un atto molto più snello e meno “impiccione” dell’approvazione.
Entriamo adesso più direttamente nell’esame di alcuni contenuti delle leggi regionali. Come ho accennato, fino all’inizio degli anni Novanta le regioni hanno legiferato agendo, nella generalità dei casi, nell’ambito del sistema della legge 1150 del 1942. È solo dopo l’entrata in vigore delle nuove norme sull’ordinamento degli enti locali (legge 142 del 1990) che nelle regioni si apre una nuova fase, ricca di innovazioni anche sostanziali. Le leggi più rilevanti mi sembrano le seguenti: Toscana, legge 5 del1995; Umbria, legge 28 del 1995 e legge 31 del 1997; Liguria, legge 36 1997; Basilicata, legge 23 del 1999; Lazio, legge 38 del 1999; EmiliaRomagna, legge 217 del 2000. Ne illustrerò alcuni aspetti che mi sembrano più significativi in relazione a quanto ho finora esposto. D’ora in avanti mi riferirò alle leggi tralasciando il numero e l’anno, e indicando solo il nome della regione.
Tutte le regioni assumono come principio quello stabilito dalla 142 del 1990, in ordine alla individuazione, a livello substatuale, di tre livelli di pianificazione, corrispondenti ai tre livelli di governo elettivo di primo grado a rappresentanza generale: la Regione, la Provincia, il Comune. Le leggi regionali attribuiscono tutte il massimo valore precettivo e riassuntivo alla pianificazione comunale, attribuendo invece significati e perentorietà diverse alle pianificazioni regionale e provinciale.
Esse danno anche nomi diversi ai diversi documenti di pianificazione: la mancanza di un coordinamento nazionale sta provocando qualche problema dal punto di vista della comprensione da parte dei cittadini, italiani ed europei, i quali si trovano di fronte a oggetti spesso simili denominati in modo spesso molto diverso. Come si vede nella seguente tabella 1.
Tabella 1 – Denominazione degli strumenti di pianificazione generale, per livello
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Tutte le leggi regionali cui mi riferisco adottano, sia pure in maniera molto diversificata, la distinzione di due (o più) componenti, o parti, o disposizioni, nell’ambito degli atti di pianificazione generale, o, più ampiamente, di più piani con differenti denominazioni, contenuti, procedure.
Tutte le leggi attribuiscono alla pianificazione di livello comunale, e ai relativi documenti, un carattere complessivo e riassuntivo di tutte le scelte sull’assetto del territorio. Lo stabilisce in modo esplicito la legge dell’Emilia Romagna (articolo 19):
1. La pianificazione territoriale e urbanistica recepisce e coordina le prescrizioni relative alla regolazione dell’uso del suolo e delle sue risorse ed i vincoli territoriali, paesaggistici ed ambientali che derivano dai piani sovraordinati, da singoli provvedimenti amministrativi ovvero da previsioni legislative.
2. Quando la pianificazione urbanistica comunale abbia recepito e coordinato integralmente le prescrizioni ed i vincoli di cui al comma 1, essa costituisce la carta unica del territorio ed è l'unico riferimento per la pianificazione attuativa e per la verifica di conformità urbanistica ed edilizia, fatti salvi le prescrizioni ed i vincoli sopravvenuti, anche ai fini dell’autorizzazione per la realizzazione, ampliamento, ristrutturazione o riconversione degli impianti produttivi, ai sensi del D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447.
In relazione anche a questo suo carattere la pianificazione comunale è sempre articolata in più elementi. Così:
la Toscana articola la pianificazione comunale in “piano strutturale”, “regolamento urbanistico” e “Programma integrato d’intervento”: il primo con un carattere di individuazione e classificazione delle risorse territoriali, il secondo con efficacia di attribuzione di prescrizioni (e valori) agli immobili, il terzo con funzione programmatica e operativa:
la Basilicata e l’Emilia Romagna articola analogamente la pianificazione comunale in “piano strutturale comunale”, “piano operativo” e regolamento urbanistico”
l’Umbria articola il piano comunale in una “parte strutturale, che individua le specifiche vocazioni territoriali a livello di pianificazione generale in conformità con gli obbiettivi ed indirizzi urbanistici regionali e di pianificazione territoriale provinciale”, e una “parte operativa, che individua e disciplina le previsioni urbanistiche nelle modalità, forme e limiti stabiliti nella parte strutturale”;
la Liguria articola il “piano urbanistico comunale” in “descrizione fondativa”, “documento degli obiettivi”, “struttura del piano”, “norme di conformità e di congruenza”;
il Lazio articola il “piano urbanistico comunale” in “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche”.
Come si vede, alcune regioni prevedono più piani, tra loro connessi ma reciprocamente autonomi, per le componenti strategico-strutturali e pre quelle più direttamente operative; altri invece articolano in più componenti un’unica figura pianificatoria generale.
Alcune leggi regionali attribuiscono l’articolazione della pianificazione in più parti o componenti anche ai livelli sovraordinati. Così:
la Liguria prevede a ciascuno dei tre livelli un documento di analisi fondativa (“quadro descrittivo” a livello regionale, “descrizione fondativa” a livello provinciale e comunale), una trascrizione precettiva di tale analisi (“quadro strutturale” e “struttura del piano”).
il Lazio prevede la distinzione tra “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche” anche a livello regionale e provinciale. In particolare, la legge stabilisce che “la pianificazione territoriale ed urbanistica generale si articola in: previsioni strutturali, con validità a tempo indeterminato, relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio regionale, alla definizione delle linee fondamentali e preesistenti di organizzazione del territorio ed alla indicazione delle trasformazioni strategiche comportanti effetti di lunga durata; previsioni programmatiche, riferite ad archi temporali determinati, dirette alla definizione specifica delle azioni e delle trasformazioni fisiche e funzionali da realizzare e costituenti riferimento per la programmazione della spesa pubblica nei bilanci annuali e pluriennali” (articolo 4).
In tutte le leggi considerate la tutela e la riqualificazione dell’ambiente, la sostenibilità ambientale, le risorse naturali e storiche del territorio, la sua integrità fisica e identità culturale, l’ecologia – insomma, le diverse accezioni e definizioni e accentuazion delle risorse territoriali – acquistano un peso rilevante nella indicazione dei contenuti, degli obiettivi e anche (nei casi più interessanti) nei procedimenti della pianificazione.
Tra le asserzioni di carattere generale merita di essere segnalato il testo della legge della Toscana (articolo 5 - Norme generali per la tutela e l'uso del territorio, comma 3):
“Nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente. Le azioni di trasformazione del territorio sono soggette a procedure preventive di valutazione degli effetti ambientali previste dalla legge. Le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali del territorio”.
Al di là delle dichiarazioni di volontà e d’intenti (che possono essere fuorvianti o ipocrite) conviene verificare in che modo l’interesse per le risorse del territorio si esprime nei contenuti e nei meccanismi della pianificazione. Citando ancora la legge della Toscana, la conseguenza precettiva dell’asserzione ora citata è la seguente:
“Tutti i livelli di piano previsti dalla presente legge inquadrano prioritariamente invarianti strutturali del territorio da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile nei termini e nei modi descritti dall'articolo 1” (articolo 5, comma 6).
Alcune regioni attribuiscono già al livello regionale la “attenta considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Così:
La legge dell’Umbria assume come missione dell’unico strumento di pianificazione regionale, il Piano urbanistico regionale, i seguenti: “a) disciplina e configura l'assetto territoriale regionale tenuto conto della salvaguardia dell'ambiente naturale, delle strutture produttive e insediative, nonché delle reti infrastrutturali; b) stabilisce gli indirizzi generali di tutela e valorizzazione del patrimonio di interesse regionale e fissa le modalità per il loro perseguimento; c) coordina le scelte regionali con quelle di carattere sovraregionale”(articolo 5 lex 28/1995) .
La legge della Liguria attribuisce sostanziali contenuti di individuazione delle risorse paesaggistiche e ambientali sia al “quadro descrittivo” che al”quadro strutturale della pianificazione regionale (articoli 9 e 11), e prevede uno “studio di sostenibilità ambientale per le “previsioni di trasformazione territoriale prefigurate in termini di localizzazione” (articolo 11).
la legge della Basilicata dedica il più “solido” dei suoi atti di livello regionale (la “Carta dei suoli”), alla “la perimetrazione dei Sistemi (naturalistico-ambientale, insediativo, relazionale) che costituiscono il territorio regionale, individuandoli nelle loro relazioni e secondo la loro qualità ed il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità” (articolo 10); l’altro strumento di livello regionale, il “Quadro strutturale regionale”, che è definito “l'atto di programmazione territoriale con il quale la Regione definisce gli obiettivi strategici della propria politica territoriale, in coerenza con le politiche infrastrutturali nazionali e con le politiche settoriali e di bilancio regionali”, definisce tali obiettivi strategici solo dopo “averne verificato la compatibilità con i principi di tutela, conservazione e valorizzazione delle risorse e beni territoriali esplicitate nella Carta regionale dei suoli” (articolo 10).
La legge dell’Emilia Romagna assume che Il Piano territoriale paesistico regionale “costituisce parte tematica del PTR, avente specifica considerazione dei valori paesaggistici, ambientali e culturali del territorio regionale, anche ai fini dell'art. 149 del D. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490” e stabilisce che “Il PTPR provvede all'individuazione delle risorse storiche, culturali, paesaggistiche e ambientali del territorio regionale ed alla definizione della disciplina per la loro tutela e valorizzazione.
La legge della Toscana e quella del Lazio non attribuiscono invece particolare evidenza al contenuto ambientale della pianificazione di livello regionale.
Nella pianificazione di livello provinciale il contenuto ambientale, è sempre indicato con particolare incisività, con efficacia precettiva diretta o almeno indiretta. Così:
in Toscana il piano territoriale provinciale contiene: “a) il quadro conoscitivo delle risorse essenziali del territorio e il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità in riferimento ai sistemi ambientali locali indicando, con particolare riferimento ai bacini idrografici, le relative condizioni d'uso, anche ai fini delle valutazioni di cui all'articolo 32 ; b) prescrizioni sull'articolazione e le linee di evoluzione dei sistemi territoriali, urbani, rurali e montani” (articolo 16).
In Umbria il piano urbanistico provinciale, tra l’altro: “a) sulla base delle caratteristiche geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio stabilisce le linee di intervento nelle aree oggetto di difesa del suolo e delle acque e per le attività estrattive; individua altresì le aree che richiedono ulteriori studi ed indagini a carattere particolare, ai fini della pianificazione comunale; provvede alla tutela ecologica del territorio anche mediante la valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche ed alla prevenzione dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo; b) individua gli ambiti del territorio agricolo e boschivo che presentano caratteristiche omogenee e detta criteri per le relative discipline d'uso; detta altresì criteri per la localizzazione degli allevamenti agro-zootecnici con particolare riferimento a quelli che comportano particolare impatto ambientale; (…) e) individua le parti del territorio ed i beni di rilevante interesse paesaggistico, ambientale, naturalistico e storico-culturale, comprese le categorie di cui all'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, da sottoporre a specifica normativa d'uso per la loro tutela e valorizzazione; indica le aree da destinare a parco o a riserva naturale con particolare riferimento a quelle individuate dal Sistema parchi ambiente regionale; f) definisce le vocazioni prevalenti per ambiti del territorio provinciale con particolare riferimento a quelli nei quali sono necessari interventi di tutela, conservazione e ripristino ambientale, indicando le relative destinazioni di massima, i criteri e gli indirizzi, al fine di favorire l'uso integrato delle risorse territoriali;
In Liguria il piano provinciale, nella “struttura del piano”, tra l’altro: individua “le parti del territorio provinciale atte a conferire organicità e unitarietà, sotto il profilo della rigenerazione ecologica, al disegno di tutela e di conservazione ambientale delineato dalla pianificazione (…) c) integra e sviluppa gli elementi del PTR nella sua espressione paesistica, secondo le indicazioni contenute nel piano stesso, come stabilito dall’articolo 12, comma 3; d) definisce i criteri di identificazione delle risorse territoriali da destinare ad attività agricole e alla fruizione attiva, anche a fini di presidio ambientale e ricreativi; (…) f) definisce le azioni di tutela e di riqualificazione degli assetti idrogeologici del territorio, recepisce ed integra ove necessario, a norma della vigente legislazione in materia, le linee di intervento per la tutela della risorsa idrica, per la salvaguardia dell'intero ciclo delle acque, fermo restando il disposto di cui all’articolo 2, comma 5, e coordina gli effetti dei piani di bacino sulla pianificazione locale.
In Emilia Romagna il piano territoriale provinciale, tra l’altro: “c) definisce i criteri per la localizzazione e il dimensionamento di strutture e servizi di interesse provinciale e sovracomunale; d) definisce le caratteristiche di vulnerabilità, criticità e potenzialità delle singole parti e dei sistemi naturali ed antropici del territorio e le conseguenti tutele paesaggistico ambientali; e)definisce i bilanci delle risorse territoriali e ambientali, i criteri e le soglie del loro uso, stabilendo le condizioni e i limiti di sostenibilità territoriale e ambientale delle previsioni urbanistiche comunali che comportano rilevanti effetti che esulano dai confini amministrativi di ciascun ente” (articolo 26).
In Basilicata e nel Lazio i contenuti del piano di livello provinciale non forniscono indicazioni più precise rispetto a quelle generali.
Molte leggi regionali in termini espliciti, la maggioranza in termini almeno impliciti, fa piazza pulita con la congerie di strumenti urbanistici attuativi accresciutasi sul ceppo della legge 1150 del 1942. Saggiamente, si tende a individuare un solo strumento urbanistico attuativo (anche qui, le denominazioni sono le più svariate: Liguria: Progetto urbanistico operativo; Umbria, Toscana e Basilicata: Piani attuativi; Lazio: Piani urbanistici operativi comunali; Emilia Romagna: Piani urbanistici attuativi) al quale volta per volta vengono attribuiti, con la delibera d’approvazione, gli effetti di questa o quell’altra legge.
Così, ad esempio, la legge della Toscana (articolo 31) stabilisce che:
“I piani attuativi sono strumenti urbanistici di dettaglio approvati dal Comune, in attuazione del regolamento urbanistico o del programma integrato d'intervento, ai fini del coordinamento degli interventi sul territorio aventi i contenuti e l'efficacia:
a) dei piani particolareggiati, di cui all'articolo 13 della legge 17 agosto 1942, n. 1150
b) dei piani di zona per l'edilizia economica e popolare, di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167
c) dei piani per gli insediamenti produttivi, di cui all'articolo 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865
d) dei piani di recupero del patrimonio edilizio esistente, di cui all'articolo 28 della legge 5 agosto 1978, n. 457
e) dei piani di lottizzazione, di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150
f) dei programmi di recupero urbano, di cui all'articolo 11 del D.L. 5 ottobre 1993, n. 398, convertito con legge 4 dicembre 1993, n. 493.
e che “ciascun piano attuativo può avere, in rapporto agli interventi previsti, i contenuti e l'efficacia di uno o più dei piani o programmi di cui al primo comma”, mentre “l'atto di approvazione del piano attuativo individua le leggi di riferimento e gli immobili soggetti ad espropriazione ai sensi delle leggi stesse”.
Identica la formulazione della legge del Lazio (articolo 44), analoga quella della legge dell’Emilia Romagna (articolo 31) e della legge della Basilicata (articolo 17); analoga anche quella dell’Umbria la quale tuttavia distingue i piani attuativi d’iniziativa pubblica, quelli d’iniziativa privata e quelli d’iniziativa mista.
Quasi tutte le leggi esaminate attribuiscono importanza rilevante al sistema delle conoscenze: ne sottolineano la decisività nelle parti generali ed finalistiche della legge, spesso legano con intelligenza le scelte sul territorio alla valutazione del patrimonio conoscitivo, quasi sempre prevedono la formazione di un sistema informativo regionale, coordinato (o coincidente) con quelli delle province e dei comuni. Vale la pena di citare alcuni casi.
Nella legge della Liguria (articolo 7) si afferma che
“le conoscenze che costituiscono il presupposto dell'attività di pianificazione sono patrimonio comune degli Enti che condividono la responsabilità del governo del territorio, nonché di tutti gli altri soggetti (…) che, mediante la propria attività, partecipano alle scelte inerenti l'assetto e le trasformazioni del territorio”.
Essa prescrive che,
“Al fine di garantire la corrispondenza qualitativa e temporale fra le attività di pianificazione e l'acquisizione delle necessarie conoscenze, ciascun Ente, nell'ambito delle proprie responsabilità e competenze, formula un quadro delle esigenze e definisce conseguentemente programmi di acquisizione delle informazioni territoriali, costituenti parte integrante dell'attività di governo del territorio”.
Sulla base di questo quadro la Regione
“acquisisce, organizza e mantiene aggiornato, anche ai fini della consultazione da parte di chiunque vi abbia interesse, il complesso delle informazioni connesse ai diversi livelli di pianificazione e di disciplina del territorio, attraverso la formazione di un sistema informativo territoriale; b)garantisce l'omogeneità e la compatibilità fra le informazioni di varia natura e di vario livello pertinenti alla pianificazione territoriale, definendo le necessarie specifiche tecniche; c) assume le iniziative più opportune al fine di uniformare le metodologie di indagine e di assicurare la raccolta e la circolazione delle informazioni territoriali, anche attraverso intese e convenzioni con gli altri soggetti a ciò interessati, con particolare riguardo ai competenti organi del Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali”.
Il patrimonio di conoscenze è alla base del “quadro fondativo” e delle “descrizioni fondative”, componenti fondative della pianificazione ai vari livelli. Lo strumento previsto è il SIT regionale, elemento di una rete informativa degli enti locali (articolo 65).
Anche per la legge Emilia Romagna: “Il quadro delle conoscenze è elemento costitutivo degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica” (articolo 4).
Analogamente si era espressa la legge della Toscana, per la quale “il S.I.T. costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale per la definizione degli atti di governo del territorio e per la verifica dei loro effetti” (articolo 4). Del SIT vengono definit, nel medesimo articolo, i compiti:
a) l'organizzazione della conoscenza necessaria al governo del territorio, articolata nelle fasi della individuazione e raccolta dei dati riferiti alle risorse essenziali del territorio, della loro integrazione con i dati statistici, della georeferenziazione, della certificazione e finalizzazione, della diffusione, conservazione e aggiornamento; b) la definizione in modo univoco per tutti i livelli operativi della documentazione informativa a sostegno dell'elaborazione programmatica e progettuale dei diversi soggetti e nei diversi settori; c) la registrazione degli effetti indotti dall'applicazione delle normative e dalle azioni di trasformazione del territorio.
La legge della Emilia Romagna precisa infine che “il S.I.T. è accessibile a tutti i cittadini e vi possono confluire, previa certificazione nei modi previsti, informazioni provenienti da enti pubblici e dalla comunità scientifica”.
Per la legge della Basilicata
“il Sistema Informativo Territoriale (SIT) costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale nella definizione degli strumenti di pianificazione Territoriale e Urbanistica e di programmazione economico-territoriale. Esso promuove pertanto la raccolta ed il coordinamento integrato dei flussi informativi tra i soggetti titolari della PT e U di cui al Titolo II, Capo 1°, al fine di costituire una rete informativa unica, assicurare la circolarità delle informazioni, evitando duplicazioni e sovrapposizioni di raccolta e di analisi delle informazioni stesse” (articolo 41)
Il SIT della Basilicata è elemento di base (articolo 42) della “Carta regionale dei suoli”, a sua volta elemento cardine della pianificazione regionale.
Anche la legge del Lazio prevede la costituzione di un Sistema informativo territoriale regionale, il quale “contiene dati ed informazioni finalizzate alla conoscenza sistematica degli aspetti fisici e socio-economici del territorio, della pianificazione territoriale e della programmazione regionale e locale” (articolo 17).
La legge dell’Umbria, “ai fini di favorire la conoscenza e la diffusione delle informazioni attinenti al territorio” istituisce uno specifico “ Sistema informativo territoriale (S.I.TER.), nell'ambito del Sistema informativo regionale (S.I.R.)”, in relazione al quale “la Giunta regionale, per le finalità indicate al comma 1, realizza sistemi informativi geografici, supporti tematici unificati ed emana apposite direttive e regolamenti, favorendo la redazione di norme tecniche unificate”; essa inoltre, “di intesa con gli enti aventi competenze territoriali, coordina lo sviluppo dei sistemi informativi territoriali” (articolo 35 legge 23/1999).
Alcune leggi propongono, o prescrivono, una classificazione del territorio finalizzata alle scelte di pianificazione.
Così, ad esempio, la legge della Toscana:
- prescrive che il piano di livello provinciale individui gli ambiti “caratterizzati dalla ridotta complessità dei processi urbanistici ed insediativi, dalla omogeneità degli aspetti fisici e paesistici dei siti, dalla sostanziale identità dei processi storici di formazione delle organizzazioni territoriali ed insediative, dalla affinità dei processi socio-economici in atto e da un assetto delle reti e delle infrastrutture di urbanizzazione appoggiate su di un impianto principale di scala sovracomunale”, ai fini della semplificazione della pianificazione subprovinciale (per i comuni compresi in tali ambiti “la descrizione fondativa del PTC provinciale può essere assunta (…) come descrizione fondativa dei piani urbanistici dei Comuni compresi in ciascun ambito” (articolo 18);
- stabilisce che la pianificazione comunale individui: “1) gli ambiti di conservazione e riqualificazione, insediati e non insediati, nei quali il piano persegue finalità di sostanziale conservazione o di riqualificazione; 2) i distretti di trasformazione per i quali il piano configura scelte di rilevante trasformazione” (articolo 27);
- affida al piano comunale anche il compito, “sulla base dei criteri forniti dal PTC provinciale, individua, tra gli ambiti di conservazione e di riqualificazione, quale territorio di presidio ambientale: a) aree che presentino fenomeni di sottoutilizzo e/o di abbandono agro-silvo-pastorale e di marginalità e che non appaiano recuperabili all'uso agricolo produttivo o ad altre funzioni; b) aree che si trovino in precarie condizioni di equilibrio idrogeologico e vegetazionale, ivi comprese quelle attualmente adibite ad attività agro-silvo-pastorali diverse da quelle di effettiva produzione agricola; c) aree nelle quali siano in atto fenomeni di rinaturalizzazione spontanea e/o guidata; d) aree caratterizzate da insediamenti sparsi nelle quali si renda necessario subordinare gli interventi sul patrimonio edilizio esistente o di nuova costruzione al perseguimento delle finalità dipresidio ambientale” (articolo 36).
Più d’una legge regionale introduce la valutazione e il monitoraggio dei piani tra gli elementi essenziali del processo di pianificazione, sebbene i caratteri specifici vengano generalmente demandati a documenti regolamentari. Ad esempio la legge della Basilicata:
- dedica alla valutazione un intero Capo (3: Modalità della valutazione), distinguendo la “la verifica di coerenza (che) si applica alla pianificazione strutturale ed operativa dei diversi livelli”, la “verifica di compatibilità (che) si applica alla pianificazione strutturale ed operativa in relazione ai regimi di intervento definiti nella CRS”;
- stabilisce che, “al fine di rendere trasparenti ed oggettive le valutazioni di coerenza e compatibilità dei Piani, di cui agli artt. 29 e 30 precedenti, il Regolamento d'Attuazione della presente legge definirà i criteri ed i parametri da applicare alle previsioni dei Piani stessi”, che “detti parametri riguardano in particolare: a. gli indicatori di qualità attinenti la tutela e conservazione del Sistema Naturalistico-Ambientale; b. gli indicatori di efficienza e di funzionalità spazio - temporali dei sistemi infrastrutturali ed insediativo; c. gli indicatori di efficienza ambientale per i Regimi di Trasformazione e Nuovo Impianto” e che infine essi “troveranno riscontro nelle specifiche tecniche di definizione del Sistema Informativo Territoriale”;
- prevede l’istituzione di un Nucleo di valutazione urbanistica regionale.
E la legge dell’Emilia Romagna stabilisce:
- che la Regione, le Province e i Comuni provvedano, “nell’ambito del procedimento di elaborazione ed approvazione dei propri piani, alla valutazione preventiva della sostenibilità ambientale e territoriale degli effetti derivanti dalla loro attuazione;
- che nel documento preliminare siano “evidenziati i potenziali impatti negativi delle scelte operate e le misure idonee per impedirli, ridurli o compensarli”, che che “gli esiti della valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale costituiscono parte integrante del piano approvato e sono illustrati da un apposito documento”;
- che, infine, “la Regione, le Province e i Comuni provvedono inoltre al monitoraggio dell’attuazione dei propri piani e degli effetti sui sistemi ambientali e territoriali, anche al fine della revisione o aggiornamento degli stessi”.
Com’è noto, il tema della perequazione è stato proposto dall’INU come soluzione, alternativa rispetto a quelle proposte nel passato (esproprio generalizzato, attribuzione pubblica dello jus aedificandi), capace di risolvere la questione della legittimità dei vincoli. Questa velleità della proposta è stata più volte criticata, soprattutto perché non risolve la fondamentale sperequazione derivante dalla differenza di vantaggi tra proprietari i cui immobili sono inclusi tra quelli urbanizzabili e gli altri. Si tratta comunque, in questi termini, di questione che riguarda un argomento di riserva legislativa nazionale.
Alcune leggi regionali hanno tuttavia introdotto il termine “perequazione urbanistica”, e indicazioni tecniche a questa relative, tra quelli cui è dedicata particolare attenzione nel processo attuativo. Si tratta però, generalmente, di un’estensione all’urbanizzato e al costruito delle stesse regole di ripartizione degli oneri e dei vantaggi tra i proprietari già introdotto dalla legge 1150 del 1942 con il comparto edificatorio, e dalla legge 765 del 1967 con il piano di lottizzazione convenzionata.
Così, ad esempio:
- la legge della Basilicata afferma che “la perequazione urbanistica persegue l'equità distributiva dei valori immobiliari prodotti dalla pianificazione e la ripartizione equa tra proprietà private dei gravami derivanti dalla realizzazione della parte pubblica della città”, che “la pratica della perequazione urbanistica si basa su un accordo di tipo convenzionale che prevede la compensazione tra suolo ceduto o acquisito e diritti edificatori acquisiti o ceduti”, che “la valutazione dei valori da compensare viene effettuata assumendo come criterio l'indifferenza delle determinazioni del PO o del RU, rispetto al valore dei suoli che dipende esclusivamente dallo stato di fatto e di diritto in cui i suoli stessi si trovano al momento della formazione del piano”, e che infine “l'accordo fra e con i privati può essere determinato come esito di asta pubblica fra operatori, basata su condizioni di sostanziale equilibrio fra la domanda e l'offerta di suolo oggetto di trasferimento di diritti edificatori ” (articolo 33);
- la legge dell’Emilia Romagna asserisce che “la perequazione urbanistica persegue l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali”; a tal fine, il piano comunale “può riconoscere la medesima possibilità edificatoria ai diversi ambiti che presentino caratteristiche omogenee”, mentre “Il POC e i Piani Urbanistici Attuativi (PUA), nel disciplinare gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria, assicurano la ripartizione dei diritti edificatori e dei relativi oneri tra tutti i proprietari degli immobili interessati, indipendentemente dalle destinazioni specifiche assegnate alle singole aree”.
Il punto da discutere è il seguente.
Introdurre la “perequazione urbanistica” come criterio di effettiva equiparazione di soggetti diversi è palesemente velleitario. Infatti, oltre a non risolvere la sperequazione tra proprietari e non proprietari, non risolve neppure quella in relazione alla quale l’intera problematica nacque nei lontani anni Sessanta: cioè quella tra proprietari inclusi nel piano e proprietari non inclusi. Molto più interessante sembra invece utilizzare la distinzione tra “vincoli ricognitivi” e “vincoli funzionali”, che la Corte costituzionale ha già reiteratamente accolto stabilendo che nessun indennizzo è necessario per i primi.
Introdurre la “perequazione urbanistica” come metodo per ottenere consensualmente le aree per la formazione di spazi pubblici e d’uso pubblico porterebbe a un gigantesco sovradimensionamento dei piani, con buona pace delle intenzioni ambientalistiche che permeano, come abbiamo visto, intere parti delle nuove leggi.
Introdurla invece, molto semplicemente, per estendere ad ambiti di trasformazione comprendenti parti già urbanizzate la tecnica di ripartizione degli oneri per comparti investiti unitariamente da un processo di trasformazione urbanistica appare cosa sensata e pragmaticamente utile: nulla a che fare, peraltro, con la “riforma urbanistica” né con quella del regime degli immobili.
[1] Con il termine “oggetti” non si indica qui l’elemento materiale dell’assetto del territorio (la strada o il centro storico, il centro commerciale o il bosco ecc.): Il termine “oggetto” è adottato invece in una logica simile a quella in cui è usato normalmente il termine “beni”. L’uno e l’altro termine configurano entità immateriali che, quand’anche si riferiscano a “cose” materiali, non si identificano con esse. Talché su di un’unica “cosa” può fondarsi una pluralità di beni ogniqualvolta in essa siano separabili diverse utilità o valori autonomamente riconoscibili. Ed analogamente un’unica “cosa”, un unico elemento materiale, può costituire il riferimento materiale di una pluralità di “oggetti” ogniqualvolta in essa siano separabili diversi “aspetti” autonomamente riconoscibili e incidenti su interessi la cui titolarità (esclusiva o prevalente) appartenga a diversi soggetti.
[2] In neretto tondo i piani che esplicano, o possono esplicare, efficacia diretta. In neretto corsivo quelli che esplicano efficacia indiretta (attraverso la pianificazione sottordinata).
[3] “I contenuti del P.U.T. sono vincolanti per la pianificazione provinciale e comunale e, nei casi stabiliti dalle norme tecniche di attuazione, per qualsiasi soggetto pubblico e privato”, lex 28/1995, articolo 10.
[4] “le norme di attuazione del piano, contenenti i criteri, gli indirizzi, le direttive per la predisposizione e per l'adeguamento dei piani di livello comunale, nonché la specificazione delle disposizioni immediatamente prevalenti in materia paesistica e ambientale sulla disciplina di livello comunale vigente e vincolanti anche nei confronti degli interventi settoriali e dei privati”, lex 28/1995, articolo 14, lettera e).
Nello spazio dedicato alla dimensione della Megalopoli (con particolare attenzione a quella padana), entrano ovviamente temi storici interdisciplinari, banalmente ampi almeno quanto il territorio considerato. Così, con riferimento a questioni aperte nella cronaca, o a luoghi di cui ci occupiamo quotidianamente per questioni “spicciole” di piano o progetto o aspettative varie, propongo questo testo coevo al dibattito costituzionale. Non credo dica “niente di nuovo”, e comunque lascio al lettore il giudizio sulla condivisibilità o meno di questo o quel punto, o della tesi generale sostenuta. Solo, mi pareva indispensabile almeno indicare qui, in modo poco più che folkloristico, una sensazione epidermica: ad ogni passaggio del testo di Giorgio Braga, inevitabilmente tornano in mente problemi attuali, o la loro passata manifestazione. Si pensi solo, e qui chiudo per eccesso di banalità, ai villaggi della moda a cui sono dedicate su Eddyburg tante semiserie “cartoline”: si collocano proprio nei nodi geografico-sociali che già all’alba della ricostruzione (e con ogni probabilità anche prima) si indicano con chiarezza. Insomma non è proprio vero (come invece ci insegnano), che la Storia la fanno gli Stilisti.
F.B.
Estratto da: Tracciati - Rassegna tecnica mensile della ricostruzione, marzo-aprile 1946
I confini convenzionali e talvolta naturali delle nostre regioni, così come li conosciamo, sono superati dal volgere delle attività industriali e commerciali in una fatale espansione su zone periferiche di altre regioni limitrofe
La necessità di autonomie locali va affermandosi sempre più in seno all’opinione pubblica. Non pochi sono giunti al concetto federalista, che sott’intende un forte decentramento anche politico. Molti si vanno fermando su di una concezione regionalista, che vorrebbe essere un “quid medium” fra le semplici autonomie amministrative ed il vero e proprio federalismo.
La popolarità dell’argomento è dovuta ad un duplice ordine di fatti: da una parte la carenza del governo centrale e delle comunicazioni con la capitale, dall’altra la rottura della cintura economica che dal 1882 fondeva in un solo complesso ambienti economici distinti.
Si può dunque affermare che il problema del decentramento regionalista è alla base della ricostruzione. Non si potrà mai ricostruire l’Italia se prima non si sarà messa ogni regione in condizione di fare da sé, senza aspettare il verbo da un centro di mentalità troppo diversa e dove la corruzione fascista ha più intimamente avvelenato gli ambienti.
Forse si sarebbe dovuto, per ricostruire, cominciare subito con il decentrare mediante norme precise. Così facendo si sarebbero evitati quegli abusi fatti da non pochi Prefetti e Sindaci, i quali hanno spesso dettato norme economiche a carattere protezionistico. Cosa che è ben lontana da un sano regionalismo.
L’argomento però fondamentale, per cui il decentramento regionalista è oggi un imperativo categorico, è il fatto che in una Italia che si sta avviando - voglia o non voglia - verso un’economia quasi liberista, è indispensabile articolare maggiormente fra di loro le regioni italiane, orientate economicamente nei modi più disparati. Mentre il regionalismo del periodo 1918-1922 fu un fenomeno essenzialmente di preservazione di nobili tradizioni locali, il nuovo regionalismo ha un substrato essenzialmente economico. Questo spiega perchè in questo secondo dopoguerra sia risorto con tanto maggiore impulso.
Ciò però pone dei nuovi problemi tecnici e cioè la delimitazione delle nuove regioni. Nel complesso l’Italia è costituita da cinque distinti ambienti economici: alta Italia, Italia centrale, Mezzogiorno, Sicilia e Sardegna. La ripartizione però del nostro Paese in cinque complessi così robusti porterebbe ad un federalismo, il quale scivolerebbe quasi inevitabilmente in una lotta economica fra Nord e Sud (divieti di immigrazione nel Nord e protezionismo nel Sud) che finirebbe con lo spezzare l’unità politica italiana.
Non è quindi ammissibile un’unica regione economica “alta Italia”, comprendente ben 20 milioni di abitanti. Le regioni italiane dovrebbero essere contenute tutte in proporzioni tali da non potersi opporre politicamente all’autorità centrale. Solo allora si potrebbe includere nella Costituente un articolo fondamentale che proibisse protezionismi e razzismi regionalistici, senza timore di vederne elusa l’applicazione.
D’altra parte anche l’alta Italia è tutt’altro che un complesso omogeneo. In essa notiamo due grandi centri industriali: Torino e Milano, fra di loro rivali. In essa esistono due porti il cui significato trascende i limiti nazionali: Genova e Trieste.
In generale però le regioni economiche alto-italiane non hanno limiti fra di loro ben definiti, ad eccezione delle grandi valli alpine, dotate di un’economia deI tutto peculiare, di norma poco conosciuta e quindi trascurata dai poteri centrali. Queste “regioni alpine” sono: VaI d’Aosta, Valtellina, Alto Adige, Trentino e Cadore. In ognuna di queste vi sono tendenze autonomiste, specie quando il fattore etnico si viene a sommare Il quello economico.
La stessa modesta importanza economica di tali regioni alpine, pone però dei limiti molto gravi ad una loro forte autonomia. Si tratta di complessi poco popolosi: dai 100 ai 350 mila abitanti, provvisti di un centro urbano modesto. Sarebbe per tali regioni necessario studiare una forma minore d’autonomia, che potrebbe essere denominata “provincia autonoma”. Ogni provincia autonoma potrebbe, a seconda dei casi, dipendere direttamente da Roma, ovvero inserirsi nel quadro della regione in cui sbocca la Valle. La prima soluzione appare indicata per l’Alto Adige (motivi etnici); la seconda soluzione per le altre Valli. Non mancano però elementi trentini i quali vorrebbero unire in una sola regione: Alto Adige, Trentino e forse anche Cadore.
Di norma, come dicemmo, non esistono limiti ben definiti alle varie regioni economiche; o per essere più esatti i limiti fra le varie regioni si spostano col mutare della potenza economica del centro regionale propulsore.
Il centro urbano di Milano con ben un milione e duecentomila abitanti, a cui fan capo oltre le proprie industrie pure tutte quelle della zona dei laghi (un complesso di quasi 700.000 lavoratori dell’industria) tende a “lombardizzare” le provincie di Novara e Piacenza, il circondario di Tortona, la Valgiudicaria ed in parte la stessa provincia di Verona.
La forza di reazione all’espansione milanese dipende dalla consistenza economica del relativo centro, ma anche dalla distanza rispettiva.
Così Novara può considerarsi ormai lombarda, dal punto di vista economico, perchè se Torino con i Comuni industriali limitrofi raggiunge gli 800.000 abitanti (nella provincia i lavoratori dell’industria sorpassano i 200.000), tuttavia non può trattener nella propria orbita una zona da lei troppo lontana. Si noti - di sfuggita - che Novarese e Lomellina, ora assegnate a due distinte regioni storiche, formano fra Sesia e Ticino un tutto economico, che non può essere suddiviso senza grave danno, fra due diverse regioni economiche.
Analogo ragionamento può essere fatto per la zona piacentina sottratta alla sfera di influenza di Bologna (solo 320.000 abitanti e 60.000 lavoratori dell’industria).
Invece, la maggiore distanza da Milano, lascia pur sempre la zona di Verona nell’orbita del complesso: Padova – Mestre - Venezia (450.000 abitanti e 70.000 lavoratori dell’industria); mentre l’Oltrepò mantovano può considerarsi economicamente, addirittura, emiliano. Emiliane inoltre debbono considerarsi due piccole zone ora toscane e marchigiane: quella parte della provincia di Firenze che supera la displuviale appenninica e l’alta valle della Marecchia.
Caratteristiche completamente diverse hanno le regioni economiche createsi intorno ai grandi porti internazionali di Genova e di Trieste. Il carattere preminentemente commerciale di tali centri (anche le loro industrie hanno in gran parte carattere di transito), fanno sì che per esse abbia ben poco peso l’estensione territoriale. Fatto questo caratteristico a tutte le antiche “città libere”.
Genova (porto non solo della Lombardia e del Piemonte, ma anche della Svizzera) sente la necessità di oltrepassare quegli Appennini che la schiacciano contro il mare. Ovada e Serravalle Scrivia, ora in provincia di Alessandria, sono già genovesi; ma anche Novi Ligure è forse d’interesse più genovese, che piemontese. Si prospetta così la possibilità di uno spezzamento in tre diverse regioni dell’attuale triangolo: Alessandria - Novi - Tortona.
Il complesso Trieste - Monfalcone è poi senz’altro porto più centroeuropeo che non italiano. La probabile mortificazione del suo territorio verso oriente, legherà sempre di più tale centro con il Friuli udinese e veneziano (Porto Gruaro). Per il Friuli però le caratteristiche etniche potrebbero anche consigliare l’istituzione di particolari locali autonomie.
Molto interessante è infine osservare come la Liguria, che è la regione geograficamente meglio definita dell’Italia settentrionale, si spezzi invece in tre distinte regioni, non appena la si osservi sotto l’aspetto economico.
I porti di Savona ed Imperia a ponente e quelle di La Spezia a levante sono rivali del grande porto genovese.
La minore regione di “Savona e ponente”, a malgrado della barriera appenninica, si lega intimamente con il Piemonte.
La Spezia, fino ad ora mortificata dal suo carattere di porto militare, va riaffermando l’unità della minore regione “lunigianense”. La suddivisione fra Liguria e Toscana fu dovuta alla marcia d’incontro, rispettivamente verso sud e verso nord, delle repubbliche marinare di Genova e di Pisa. Tale fattore storico, oltre ad idee particolaristiche locali, spezzò l’unità lunigianense fra le attuali provincie della Spezia e di Massa. La ricostituita unità permetterà di dare un nuovo aspetto alle comunicazioni che per la Cisa portano all’Emilia.
La minore regione lunigianense tende economicamente ad aggregarsi alla regione emiliana, come Savona e ponente a quella piemontese.
Lo studio cosi condotto (vedasi anche grafico annesso), non può certo avere carattere se non indicativo.
Un accertamento in luogo comporterebbe dei referendum in tutte le zone di influenza mista. Tali referendum permetterebbero in un momento in cui si decentra per ricostruire più rapidamente a tutti gli interessati di optare fra la tradizione cristallizzatrice ed il futuro economico.
Nel caso che le previsioni dell’autore si adempiessero, l’Alta Italia verrebbe ad essere così suddivisa:
1) regione subalpina (con la provincia autonoma di Aosta): 3 e mezzo milioni di abitanti.
2) regione lombarda (con la provincia autonoma della Valtellina): 6 e mezzo milioni di abitanti.
3) regione genovese: 1 milione di abitanti.
4) regione veneta (con le provincie autonome del Trentino e del Cadore): 4 milioni di abitanti.
5) regione emiliana: 3 milioni e mezzo di abitanti.
6) regione giuliana: 1 milione e un quarto di abitanti.
7) provincia autonoma dell’Alto Adige: 250.000 abitanti.
Come si vede, si giungerebbe ad un assetto del tutto diverso da quello tradizionale!
Il testo votato dal Consiglio regionale contiene alcune modifiche, rispetto al disegno di legge iniziale, che però non ne mutano la sostanza. Si veda, in proposito, il giudizio formulato dal WWF sul disegno di legge (v. allegato – Memoria sul ddlr 154 per la IV Commissione del Consiglio regionale, dd. 22 settembre 2005).
L’indeterminatezza.
Permane, infatti, l’indeterminatezza di una normativa che in realtà si limita per lo più ad alcune enunciazioni di principio, rinviando le scelte di fondo ad una futura legge per il ”riordino organico della normativa regionale in materia di pianificazione territoriale e urbanistica” (art. 1, c. 2).
Sarà questa futura (futuribile ?) legge, infatti, a dover “stabilire i criteri per individuare le soglie oltre le quali la Regione svolge le funzioni“ (art. 3, c. 2) in materia di pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale.
Sarà ancora la futura legge a dover stabilire “le procedure attraverso le quali la Regione assicura che la tutela e l’impiego delle risorse essenziali siano garantiti dagli strumenti urbanistici di livello subordinato” (art. 3, c. 3).
Sarà sempre la futura legge a stabilire “i casi nei quali il Comune svolge la funzione della pianificazione territoriale al livello sovraccomunale e le forme di cooperazione istituzionale con cui la esercita, quali le associazioni intercomunali previste dall’ordinamento in materia di autonomie locali”(art. 4, c. 3).
Il tutto comunque nell’ambito di un’impostazione secondo cui “la funzione di pianificazione territoriale è del Comune” (art. 4, c. 1), laddove - come già accennato sopra - “la funzione della pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale è della Regione” (art. 3, c. 1).
Il che d’altronde corrisponde perfettamente a quanto l’assessore regionale alla pianificazione territoriale (nonché “energia, mobilità e infrastrutture di trasporto”…) 1, Sonego (DS), ha detto e scritto ripetutamente, vale a dire che “il territorio è dei Comuni” (anche quella sovraccomunale !) e che la Regione avrebbe rinunciato a mettere il naso nelle scelte urbanistiche locali.
Resta da vedere, naturalmente, come questo indirizzo politico sarà contemperato (e se sia contemperabile) con quanto stabilito dal già citato art. 3, c. 3, laddove si menzionano“le procedure attraverso le quali la Regione assicura che la tutela e l’impiego delle risorse essenziali siano garantiti dagli strumenti urbanistici di livello subordinato”.
L’economicismo.
Rispetto al testo originario del disegno di legge, il testo votato dal Consiglio attenua apparentemente l’economicismo esplicito specialmente nell’elencazione delle “finalità” del PTR.Nella nuova stesura (art. 5) finalità “ambientali” ed economico-sociali sono apparentemente più equilibrate, almeno a livello verbale. Rimangono tuttavia notevoli dubbi circa la lucidità di chi ha voluto inserire tra le finalità strategiche del PTR “le migliori condizioni per la crescita economica e lo sviluppo sostenibile della competitività del sistema regionale” (art. 5, c. 1, lett. b). Pare si tratti della prima volta in assoluto in cui viene menzionato (in un testo di legge !) “lo sviluppo sostenibile della competitività di un sistema (economico, evidentemente) regionale”.
Più in generale, comunque, la commistione – senza la benché minima gerarchia di valori - di obiettivi e finalità del PTR così diversi e contraddittori tra loro, lascia aperta la strada a innumerevoli fraintendimenti e contraddizioni.
Ciò soprattutto perché si è voluto attribuire al PTR “anche la valenza paesaggistica”(art. 1, c. 1 ed anche art. 6, c. 2), senza tener conto del fatto che – com’è stato ripetutamente ribadito dalla dottrina costituzionale – la materia “tutela del paesaggio” è gerarchicamente sovraordinata rispetto alla materia urbanistica ed agli interessi (prevalentemente economici) da questa disciplinati.
Non sorprende, in simile contesto, che nessuna menzione faccia la legge dei contenuti del piano paesaggistico, così come definiti nell’art. 143 del D. Lgs. 42/2001.
Non sorprende neppure il fatto che la legge non preveda alcuna salvaguardia reale per i valori paesaggistici che il PTR dovrebbe tutelare. L’art. 12 prevede infatti (cfr. c. 2) che “nelle more dell’entrata in vigore del PTR e comunque non oltre 90 giorni dall’entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale definisce indirizzi per la salvaguardia delle aree assoggettate a vincolo paesaggistico…previa acquisizione del parere della competente Commissione consiliare… ”.
Ogni commento pare superfluo.
I processi decisionali (apparentemente) partecipati.
Una novità rispetto al testo originario è rappresentata dall’insistente richiamo alle procedure e metodologie di Agenda 21, previste sia a livello di PRGC (art. 4, c. 5), sia a livello di PTR (art. 7, c. 1), sia ancora per quanto concerne l’individuazione dei “progetti di interesse regionale” (art. 10, c. 2). Nulla peraltro è dato sapere sul come queste procedure saranno applicate e con quali garanzie di effettiva incidenza sulle decisioni e le scelte.
Un problema di non facile risoluzione è però rappresentato dalla palese contraddittorietà tra l’art. 7 e l’art. 8 della legge, relativi rispettivamente alla “Formazione del PTR” ed all’ ”Adozione e approvazione del PTR”.
Il primo dichiara infatti (art. 7, c. 1) che “La formazione del PTR avviene in conformità alla direttiva n. 2001/42/CE e alle successive norme di recepimento, nonché con le metodologie di Agenda 21”.
Il secondo prevede invece un percorso del tutto tradizionale : la Giunta regionale predispone il progetto e lo sottopone al parere del Consiglio delle Autonomie locali (art. 8, c. 1), dopo di che elabora il progetto definitivo di PTR (art. 8, c. 2), indi il progetto definitivo è sottoposto al parere della competente commissione del Consiglio regionale che deve esprimersi entro 30 giorni (art. 8, c. 3) ed è quindi adottato con decreto del presidente della Regione.
Il PTR adottato è pubblicato sul BUR e “depositato per la libera consultazione presso la Direzione centrale pianificazione territoriale, energia, mobilità e infrastrutture di trasporto”. Seguono i canonici 60 giorni per la presentazione di osservazioni, che possono essere presentate da “a) gli enti ed organismi pubblici ; b) le associazioni di categoria ed i soggetti portatori di interessi diffusi e collettivi riconosciuti in ambito regionale ; c) i soggetti nei confronti dei quali le previsioni del PTR adottato sono destinate a produrre effetti diretti” (art. 8, c. 4).
Infine, esperite le procedure previste e “tenuto conto delle osservazioni”, il PTR è approvato dal Presidente e pubblicato sul BUR (art. 8, c. 5). E’ arduo immaginare come possa conciliarsi una procedura de genere con quanto stabilito dalla Direttiva 2001/42/CE, che prevede l’obbligo di valutazione “ex ante”, “in itinere” ed “ex post” degli strumenti di pianificazione, mediante procedure che garantiscano la partecipazione a tutti i cittadini interessati (e non soltanto a quelli elencati dall’art. 8, c. 4 della legge in questione).
Lo scopo vero della legge : le infrastrutture.
Il Capo II “Norme in materia di localizzazione di infrastrutture strategiche” è quanto mai esplicito nelle finalità, dichiarate all’art. 9, c. 1 : “Le norme del presente capo hanno lo scopo di preservare la possibilità di realizzare infrastrutture strategiche ovvero di dotare la Regione di strumenti che ne facilitino la realizzazione”.
Il primo strumento è la “sospensione temporanea dell’edificabilità” che la Giunta regionale è autorizzata a deliberare “per un periodo massimo di tre anni” (art. 10, c. 1) “sulle domande di concessione o di autorizzazione edilizia in contrasto con progetti che siano stati dichiarati di interesse regionale”.Nel testo originario del disegno di legge, venivano esplicitamente menzionate due infrastrutture “strategiche”, vale a dire le “opere ferroviarie di attuazione del Corridoio V e quelle ad esso complementari” “opere ferroviarie di attuazione del Corridoio V e quelle ad esso complementari”, nonché le “opere del nuovo collegamento stradale Cervignano-Manzano e quelle ad esso complementari”.La menzione è stata soppressa dal testo della legge, ma è del tutto chiaro che il “Corridoio 5”, insieme a molto altro, rimane l’obiettivo che si vuol raggiungere con la legge in questione.Lo comprovano, se mai ce ne fosse bisogno, da un lato l’insistenza con cui la Giunta regionale ha cercato in ogni modo di accelerare i tempi del voto sul disegno di legge n. 154 (giungendo al punto di “richiamare all’ordine” il presidente della IV Commissione consiliare, “reo” di aver indetto delle audizioni sul testo prima del voto in Commissione), dall’altro il continuo succedersi di iniziative ed esternazioni da parte del Presidente Illy e dell’assessore Sonego, volte a “promuovere” il progetto, occultarne i contenuti reali, forzarne comunque l’approvazione contro ogni equanime valutazione tecnica che ne metta in luce i limiti ed i rischi.Basti dire che nel settembre 2004 la Giunta regionale esprimeva uno scandaloso 2 parere favorevole sull’impatto ambientale del progetto, salvo poi scoprire l’anno dopo (ma soltanto grazie al WWF che aveva scovato i documenti) che sia il Ministro dei beni e attività culturali, sia la Commissione speciale VIA del ministero dell’ambiente avevano espresso pareri negativi sul progetto 3. Pareri che, sia detto per inciso, coincidono pressoché interamente con le obiezioni avanzate dal WWF, da altre associazioni ambientaliste e dai Comuni, relativamente all’impatto verosimilmente devastante dello era sul sottosuolo carsico e sulle enormi incertezze circa la stessa effettiva realizzabilità di un’opera simile in un contesto ambientale in gran parte sconosciuto. Il che tuttavia non ha impedito alla Giunta regionale di attivarsi invocando la Coordinatrice europea Loyola de Palacio, affinché intercedesse con il Governo sloveno, la cui impostazione strategica in materia di infrastrutture e ferrovie è molto lontana dalla frenesia italiana per l’alta velocità (come gli sloveni hanno ribadito anche alla de Palacio).
Si aggiunga la recentissima iniziativa congiunta Illy-Bresso, per la richiesta al Governo di nominare un Commissario governativo per l’intero tracciato del “Corridoio” (dalla Val di Susa a Trieste), incaricato di sbloccare la situazione di fronte alle resistenze dei cittadini, degli enti locali, ecc. Un Commissario governativo per le opere della “Legge Obiettivo” nel nord est esiste, invero, già da tempo – si tratta dell’arch. Bortolo Mainardi, molto apprezzato e incensato dalla Giunta del Friuli Venezia Giulia – ma evidentemente si ritiene che non basti.
Va da sé che, “Corridoio 5” a parte, nella dizione di “progetti dichiarati di interesse regionale” può rientrare di tutto e di più, così come possono rientrare tanto i progetti di opere pubbliche, quanto progetti privati (strade di ogni genere, elettrodotti, impianti produttivi, ecc.). Se è vero, d’altra parte, che la dichiarazione di interesse regionale dei progetti dev’essere assunta “d’intesa con i Comuni interessati”(art. 10, c. 2), è anche vero che nulla si dice in merito a come l’intesa potrà essere esplicitata a livello comunale (delibera del Consiglio comunale, della Giunta, lettera del sindaco ?). Il disegno di legge originario prevedeva a tale proposito una “conferenza dei soggetti interessati” non meglio identificata, ma la menzione è stata soppressa nella legge.
Un precedente allarmante, sempre riferito al “Corridoio 5” giustifica i timori sui questo punto : due giorni prima di esprimere parere favorevole sull’impatto ambientale del progetto della Ronchi sud-Trieste, l’assessore Sonego stipulava un “accordo” – mai formalizzato in alcun modo - con i sindaci dei Comuni dell’area monfalconese (all’insaputa dei Consigli comunali che avevano ripetutamente votato delibere contrarie al progetto), nel quale si “concordava” l’assenso su un’alternativa di tracciato (tutta da studiare peraltro, si trattava soltanto di un tracciolino su una carta topografica…) teoricamente – ma solo teoricamente ! - meno impattante. Sconcerta il fatto che, di fronte a tale evidente forzatura, nessun Consiglio comunale si sia attivato ed abbia protestato in difesa delle proprie prerogative. Sconcerta ancor di più, comunque, che norme di “salvaguardia” rispetto alla realizzazione di infrastrutture e opere “di interesse regionale” non meglio precisate, vengano previste in assenza di un piano e senza alcun legame esplicito neppure con il PTR che la legge teoricamente dovrebbe avviare !
La privatizzazione dell’urbanistica.
Quanto al secondo strumento finalizzato alla realizzazione di “progetti di particolare rilievo”, cioè la STUR – Società di Trasformazione Urbana Regionale (art. 11), non vi sono modifiche di rilievo rispetto al testo del disegno di legge originario. Si aggiunge soltanto che la costituzione della STUR dev’essere preceduta (art. 11, c. 1) da un’intesa con i Comuni (vedasi a tale proposito quanto detto sopra in merito alla dichiarazione di interesse regionale dei progetti). Si aggiunge poi che “ulteriori nuovi soci diversi da Regione e enti locali territoriali possono essere individuati fra società controllate da Regione e enti locali” (art. 11, c. 3). Infine si stabilisce che “la Regione e gli enti locali territoriali indicano la maggioranza dei consiglieri di amministrazione della STUR” (art. 11, c. 5). Resta da vedere come possa essere compatibile una norma come quella sul CdA con la natura privatistica della STUR (una spa). Quel che è certo è che la STUR consentirà, tra l’altro, di operare bypassando “lacci e lacciuoli” come quelli rappresentati ad esempio dalle leggi sulla trasparenza (L. 241/1990, ecc.), che si applicano soltanto agli enti pubblici. Rimane invariata l’anomalia di una STUR che potrà procedere anche ad espropri (art. 11, c. 2).
Conclusione.
E’ difficile comprendere come un simile pasticcio abbia potuto essere approvato da un Consiglio regionale a maggioranza di centro-sinistra (voto negativo da un solo consigliere – indipendente - di centro-sinistra, più due astensioni dei consiglieri di Verdi e PDCI, tutti gli altri – Margherita, DC, PRC, “Cittadini per il presidente”, pensionati - favorevoli). Al di là del giudizio sui contenuti della legge, hanno verosimilmente pesato considerazioni di opportunità politica (opportunismo ?), trattandosi si un atto fortemente voluto dal Presidente della Regione, ancorchè non previsto nel programma della Giunta. Nel frattempo risulta sia già all’opera un gruppo di lavoro (coordinato da un’ex assessore all’urbanistica di quando Illy era sindaco di Trieste 4), che sta predisponendo gli indirizzi del PTR : ne vedremo delle belle.
Si vedano: Un commento di Paola Barban,
Il precedente commento al disegno di legge, di Dario Predonzan
Un romanzo noir uscito recentemente - “Nord Est” di Massimo Carlotto e Marco Videtta - nell’introduzione ben descrive il nostro paesaggio:
Era stato un mercoledì come tanti. Un mercoledì d'inverno del Nordest. Nel corso della giornata le strade si erano riempite di pendolari e Tir. Lunghe file avevano intasato autostrade, statali e provinciali.
A Padova e Vicenza, per l'ennesima volta, l'inquinamento aveva superato i limiti di legge. Il cavalcavia di Mestre, in piena notte, era ancora un serpentone di mezzi pesanti che avanzavano lentamente nei due sensi di marcia. Merci legali e illegali che andavano e venivano dai paesi dell' Est.
Quel giorno avevano chiuso i battenti altre quattro aziende, la più grossa aveva cinquantuno dipendenti. Altri quattro capannoni vuoti con la scritta affittasi, tradotta anche in cinese. Di capannoni aveva parlato nella mattina un docente di urbanistica della Facoltà di architettura di Venezia.
Ai suoi studenti aveva spiegato che, a forza di costruire 2.500 capannoni l'anno, erano stati sottratti al paesaggio agrario ben 3.500 chilometri quadrati e che nella sola provincia di Treviso c'erano 279 aree industriali, una media di quattro per comune. Il docente era preoccupato, aveva affermato che la devastazione del territorio era ampia e profonda. Forse irreparabile.
Ormai nel Nordest i capannoni avevano cancellato: memoria alla terra e identità agli abitanti.
Questo breve testo traccia un’efficace foto istantanea dei nostri territori, con capannoni, centri commerciali, uno sviluppo che in pianura assume il carattere della città e della fabbrica diffusa. Si parla della Regione Veneto ma il Friuli Venezia Giulia, almeno per quanto riguarda la pianura e le cinture delle grandi città, sembra seguire lo stesso modello. Moltiplicazione di centri commerciali, che nascono già senza mercato, a fronte di una società caratterizzata dall’invecchiamento della popolazione, da un trend demografico negativo e da una contrazione dei consumi e che comportano un’incentivazione del traffico privato, il depauperamento delle attività commerciali in centro e dei negozi di vicinato nelle periferie.
Lo stesso impoverimento della città è riscontrabile nel settore culturale: nel centro di Udine sopravvive una sola sala cinematografica (un cineclub), nel centro di Monfalcone una sola sala part-time, che ospita anche teatro e concerti, mentre i Cinema multisala sono ospitati nei centri commerciali, posti ai margini delle città, lungo i grandi assi di ingresso urbano, dove si concentrano le grandi polarità commerciali, produttive e terziarie della periferia.
Il sistema insediativo segue le stesse regole: le rendite eccessive e la scarsa qualità della vita spingono a preferire le abitazioni fuori città, le villette a schiera con posto macchina, spesso carenti nelle urbanizzazioni secondarie, ovvero farmacie, giornalai, scuole, strutture sportive.
Il risultato di questo modello edilizio è un notevole consumo del suolo ed ancora un incremento del traffico privato. Il pendolarismo con la città di Trieste, riguarda tutto il Monfalconese ed arriva fino a Fiumicello, mentre recentemente la fuga dalla città si sta trasferendo anche oltre confine: sono diversi i casi di cittadini di Trieste che acquistano case sul Carso sloveno, nella zona di Sesana. Nel contempo i centri storici cadono a pezzi, come ad esempio Borgo Teresiano a Trieste.
Gli interessi legati alla rendita immobiliare sono ancora quelli che Rosi aveva descritto nel suo film “Le mani sulla città” del 1962, in cui aree agricole o di pregio paesaggistico, come quelle costiere, grazie a piani regolatori compiacenti vengono rese edificabili, con un conseguente aumento spropositato del valore delle aree stesse.
Si amplia così il conflitto tra la proprietà immobiliare, che spinge per ottenere edificabilità e quantità edilizie più elevate per incrementare la reddittività dei propri immobili, e le categorie di soggetti - le famiglie ma anche le aziende - interessate ad ottenere alloggi e altri edifici a prezzi moderati.
La politica del "lasciar fare" adottata dalla Regione Friuli Venezia Giulia nei confronti dei Comuni è all’origine del disordine urbanistico che interessa i settori insediativo, commerciale ma anche industriale-artigianale. Alla base di queste carenze forse c’è un malinteso concetto di sussidiarietà. La sussidiarietà richiede che le competenze, in relazione alla loro natura, siano collocate al livello territoriale dove possano essere esercitate nel modo migliore, cioè più efficace ed adeguato alle finalità perseguite. Quindi non necessariamente al livello territoriale di governo più basso, ma al livello che garantisce la migliore efficienza.
L’asse Regione-Comuni - che di fatto ha governato fino ad oggi il territorio del Friuli Venezia Giulia e viene confermato appieno dalla leggina urbanistica appena approvata - trae origine dall’incompleta applicazione del Piano Urbanistico Regionale Generale del 1978. Nel PURG la redazione dei piani era concepita su tre livelli amministrativi, costituiti dalla Regione (a cui spettava la redazione del Piano Urbanistico Regionale Generale e dei Piani Urbanistici Regionali Zonali), dai Comprensori e dai Comuni, con il Piano Regolatore Generale Comprensoriale inteso come soglia minima della pianificazione urbanistica regionale.
Ma i Piani Zonali e Comprensoriali - rispetto ai quali la pianificazione comunale avrebbe dovuto assumere un carattere solo attuativo - erano stati di fatto abbandonati già nel 1975, prima ancora dell’approvazione del PURG, lasciando un vuoto che è stato di fatto colmato dai Comuni stessi.
La struttura gerarchica proposta dal PURG del ’78 è stata superata dalla legge nazionale di “Orientamento delle Autonome locali” del 1990 (ma anche dal successivo Decreto Legislativo n. 267/2000) che attribuisce alla Provincia il compito di redigere il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, per perseguire i fini della programmazione economica territoriale ed ambientale della Regione, oltre a compiti di coordinamento dei Comuni. La legge nazionale è stata recepita nella Regione FVG nel 1991 (con la legge 52), con cui viene conferito alle Province il ruolo di coordinamento territoriale sovra-comunale, subordinato però ad un Piano Territoriale Regionale Generale.
Alcune Province del Friuli Venezia Giulia - Gorizia e Pordenone - pur in assenza di un PTRG hanno sentito l’esigenza di confrontarsi con dei veri strumenti di pianificazione d’area vasta ed hanno quindi avviato la formazione delle Linee Guida per dei Piani Territoriali Provinciali di Coordinamento.
Questa fase di pianificazione di livello provinciale risultava prima bloccata dall’assenza di un Piano Territoriale Regionale ed oggi stralciata dalla nuova legge di riforma urbanistica.
Uno dei problemi centrali che oggi si trova ad affrontare la pianificazione territoriale riguarda il consumo del suolo e altre Regioni, quali ad esempio la Toscana ed il Veneto, ma anche la Sardegna e la Sicilia, hanno inserito precisi indirizzi e obiettivi nei loro strumenti normativi.
La Regione Friuli Venezia Giulia – con la legge di riforma urbanistica approvata il 23 novembre scorso - ripropone l’asse Regione-Comuni, mantenendo in capo alla prima gli interventi coinvolgenti le risorse essenziali del territorio (rete ambientale, sistema idrico, rete energetica, rete delle telecomunicazioni, rete infrastrutturale dei trasporti) e rafforzando il ruolo dei Comuni, ai quali viene lasciato - di fatto - il governo del territorio.
Molti dubbi solleva la previsione di una Società di Trasformazione Urbana Regionale (STUR), istituita con la forma giuridica della società per azioni, alla quale viene assegnato il compito di “ attuare progetti di particolare rilievo”, come l’acquisizione, trasformazione e commercializzazione degli immobili interessati dagli interventi. Se la finalità è di ideare una via breve per garantirsi una sorta di libertà di agire come una qualsiasi azienda privata, bisogna considerare che il territorio - che è un bene fondamentale, primario e non riproducibile - non può essere trattato al pari di una qualsiasi merce.
Nonostante un emendamento dell’ultimo minuto abbia cancellato i riferimenti al Corridoio Cinque ed al collegamento stradale Cervignano-Manzano, salvando almeno formalmente il carattere di generalità della norma, queste forme di gestione del territorio lasciano avanzare il sospetto che - a questo punto - il Piano Territoriale Regionale e la sua formazione diventino residuali rispetto alla volontà di realizzare - con una conduzione privatistica - alcune specifiche opere di particolare interesse per alcuni settori regionali, quali l’Alta velocità ferroviaria, vari collegamenti stradali, nuovi elettrodotti proposti da alcuni soggetti economici regionali per importare energia dall’estero e commercializzarla in Italia attraversando le aree alpine e prealpine, le Casse di espansione del Tagliamento e quant’altro.
I problemi legati alla rendita fondiaria, ed in generale alle rendite conseguenti alle dinamiche territoriali, non hanno mai trovato una soluzione efficace nella legislazione nazionale, provocando una serie di effetti perversi su tutto il territorio italiano, mentre nelle aree dove è più presente e pervasiva la criminalità organizzata i danni sono stati e continuano ad essere devastanti.
Basti pensare che la criminalità organizzata riesce a beneficiare della rendita fondiaria anche nelle zone che non ne dovrebbero sviluppare, come quelle “agricole” o quelle a “destinazione pubblica”, e ciò avviene attraverso l’abusivismo edilizio, infatti si lottizza in modo abusivo, aree acquistate al valore di agricole, per poi rivenderle a prezzi molto vicini a quelle edificabili, per la realizzazione di edifici abusivi.
Molti comuni dell’area metropolitana di Napoli, hanno ormai raggiunto le dimensioni di “città medie”, senza averne però i servizi e le funzioni, ma riassumendo in sè tutti i danni dovuti ad una crescita incontrollata, sia della popolazione che delle aree edificate. Solo a titolo esemplificativo si segnala che questi centri urbani hanno le aree a destinazione agricola o pubblica piene di edifici abusivi, sanati e non. Le problematiche territoriali di queste aree, che in pratica rappresentano la testa della mostruosa conurbazione Napoli-Caserta, sono controverse, difficili e complesse, anche perché i danni arrecati sono, per alcuni versi, drammaticamente irreversibili.
Negli ultimi anni si è potuto verificare che non meno grave e quello che può realizzarsi in conformità alle leggi vigenti, infatti sarebbe interessante analizzare cosa ha provocato l’urbanistica contrattata negli ultimi 15 anni nell’area metropolitana di Napoli, i cui comuni sono dotati di Piani “antichi” mediamente dai 25 ai 35 anni; anche perché alle procedure semplificate di variante ai Piani, accedono solo operatori con capacità di affermare i propri obiettivi, (come la Grande Distribuzione di Vendita), mentre in Campania è quasi impossibile approvare un Programma di Riqualificazione Urbana per un quartiere di residenze pubbliche in variante al Piano vigente, anche se lo stesso quartiere molto spesso è stato realizzato in variante a strumenti urbanistici vigenti.
Le norme emanate dalla Regione Campania, seguono, assecondano e favoriscono la costante “demolizione” delle poche forme di garanzia nella gestione pubblica del territorio.
La L.R. n. 16/2004 (Norme sul Governo del Territorio) modifica profondamente quanto previsto dalla Legge n. 1150/1942 e della Legge n. 1902/1952 ed anche dalla L.R.C. n. 14/1982, abrogata dalla citata L.R. n. 16/2004, in materia di applicazione delle misure di salvaguardia. Infatti le norme richiamate, hanno sempre previsto che le misure di salvaguardia avessero efficacia dal momento in cui si approvava l’atto deliberativo che prevedeva la fase di pubblicazione di un nuovo strumento urbanistico e conservavano efficacia per tre o cinque anni. La ratio della norma era di evitare che, dal momento in cui si verificava la pubblicizzazione delle previsioni di un nuovo strumento urbanistico, non fossero rilasciati titoli abilitativi per la realizzazione di interventi edilizi in contrasto con le previsioni urbanistiche non ancora vigenti, in modo da non rendere vano o più oneroso l’attuazione di nuovi programmi territoriali.
Invece la L.R. n. 16/2004 prevede che la Giunta Comunale con atto deliberativo “predispone” la “proposta” di Piano, quindi inizia la fase di divulgazione, con pubblicazione sul Bollettino Regionale e su due quotidiani a diffusione provinciale, dell’avviso di deposito presso la segreteria comunale della “proposta” di Piano.
Successivamente il Consiglio Comunale esamina le osservazioni ed “adotta” il Piano e finalmente hanno efficacia le misure di salvaguardia. Quindi nella fase di pubblicazione a chiunque avanza una istanza per Permesso di Costruire conforme allo Strumento vigente, ma in contrasto con il Piano in corso di pubblicazione, deve essere rilasciato il titolo abilitativo. Per esperienza diretta, posso affermare, che ovviamente ciò accade, e cioè non appena si ha conoscenza che con l’approvazione di un nuovo strumento non sarà più possibile edificare, con gli stessi indici o non sarà affatto possibile realizzare nuovi edifici, si assiste alla corsa ad ottenere il rilascio di Permessi di Costruire ancora conformi al PRG vigente, ma in contrasto con il Piano, in corso di approvazione.
In aree dove è forte la presenza di criminalità organizzata e di un ceto politico (di entrambi gli schieramenti) supino alle tendenze fameliche di chi vuole spolpare l’esangue osso del territorio, una norma come quella illustrata provoca il dilatarsi del tempo tra “predisposizione” della “proposta” di Piano e la sua “adozione”, in modo che si potranno sfruttare tutte le residue possibilità di un PRG, che con un nuovo Piano, forse, si cerca di correggere.
Il risultato sarà che si approveranno Piani, che regolano un territorio già modificato rispetto a quanto è stato programmato, quindi strumenti inutili al momento dell’approvazione. A fare il resto ci penseranno i vari “accordi di programma”, Programmi Integrati di Intervento, e tutti i figli dell’urbanistica contrattata
23 novembre 2005