La riforma urbanistica in chiave liberista è stata approvata dalla Camera dei Deputati in un clima di rassegnazione. Ha ragione Roberta Carlini nel suo editoriale di alcuni giorni fa a sottolineare l’incredibile silenzio del mondo politico progressista: se non fosse stato per il Manifesto, Aprile, Unità, Carta e dell’efficace rete internet a partire dallo straordinario sito Eddyburg, nessuno l’avrebbe saputo. Come se la cosa non avesse riflessi sulla vita di milioni di persone. Come se assistere al trionfo della rendita speculativa fosse un destino ineluttabile. Senza interrogarsi sul fatto che questa legge è solo l’ultimo tassello di un mosaico che il governo ha lucidamente perseguito in questi anni e che ha portato al più spettacolare spostamento di ricchezza verso la rendita speculativa che la recente storia italiana ricordi.
Vediamo nell’ordine. Nel settembre 2001 il nuovo governo appena insediato licenzia il primo provvedimento noto come “scudo fiscale” successivamente perfezionato nel decreto legislativo n. 350 finalizzato al rientro dei capitali illegalmente esportati all’estero. Quello stesso mese di settembre crollano le torri gemelle di New York e, conseguentemente, il mercato borsistico. Gran parte dei 70.000 miliardi di euro rientrati sulla base di quel provvedimento sono andati in investimenti immobiliari: da quell’anno i prezzi delle abitazioni hanno avuto un’impennata impressionante. E’ appena il caso di rammentare che un articolo di quel provvedimento prevedeva addirittura il rientro di capitali liquidi senza l’obbligo della dimostrazione della provenienza: che la legge sia servita per il riciclaggio di denaro illecito è opinione purtroppo unanime.
Con lo scudo fiscale si sostiene la domanda: occorre dunque alimentare l’offerta. Sempre nel mese di settembre nasce il primo provvedimento che generalizza e rende sistematica la vendita del patrimonio pubblico. La legge sarà convertita nel novembre 2001 (n. 410) e immette sul mercato uno straordinario affare a prezzi inferiori a quelli reali.
Quello stesso provvedimento presenta anche una piccola perla che a distanza di qualche anno può essere ben compresa: dice che questi immobili possono essere “valorizzati” d’intesa con i comuni. In altre parole, magazzini possono diventare case, abitazioni zone commerciali, a seconda delle convenienze di mercato eliminando tutte le regole urbanistiche. E mentre la finanza locale viene strozzata con quell’articolo si invogliano i comuni a derogare i piani regolatori: il 5% della valorizzazione viene infatti intascata dalle amministrazioni locali.
Ma c’era un altro ostacolo da superare. La fondamentale legge sugli standard urbanistici prevede che sia garantita una quantità di servizi per ciascun cittadino. Molti comuni hanno resistito a ignobili speculazioni invocando l’impossibilità di soddisfare l’aumento di standard connesso con i nuovi usi proposti, si pensi ai parcheggi pubblici. La legge Lupi, e cioè la recentissima riforma liberista dell’urbanistica approvata alla Camera, abolisce questa storica conquista democratica e rende gli standard facoltativi. Un altro regalo alla speculazione, come si vede.
E infine l’ultima perla contenuta nel disegno di legge sulla competitività attualmente in discussione alla Camera. L’articolo 9, “Legge obiettivo sulle città” si afferma (comma 5) che nelle città si può prevedere “l’incremento premiale dei diritti edificatori” e cioè un ulteriore aumento delle densità urbane. Servirebbero ulteriori standard pubblici, ma sono stati aboliti dalla legge Lupi!
Come si vede dall’azione del governo Berlusconi emerge un quadro impressionante. Questi anni sono serviti per spianare la strada alla peggiore rendita speculativa. Se il sistema produttivo nazionale versa in una crisi profonda senza che una sola idea di rilancio sia stata concretizzata, per il comparto immobiliare sono stati costruiti provvedimenti su provvedimenti di rara efficacia. Non si può far finta di vedere questo disegno perverso e combatterlo aspramente per le conseguenze economiche e di potere che provoca. E’ noto infatti che un gruppo di giovani immobiliaristi (Coppola, Ricucci e Statuto) insieme al più blasonato Francesco Gaetano Caltagirone stanno dando la scalata al cielo: Banca nazionale del lavoro, Corriere della Sera e Mediobanca. Il fatto che non siano finora riesciti nei loro intenti nulla toglie alla inaudita gravità della situazione, del fatto cioè che essi godano di impressionanti liquidità.
E deve esser sottolineato che questo gruppo di immobiliaristi si afferma a Roma dove il nuovo piano regolatore prevede la costruzione di oltre 60 milioni di metri cubi di cemento a fronte di una città che ha perduto nella sua fascia più centrale oltre 200.000 abitanti nel decennio 1991-2001. Si prevede una valanga di abitazioni rigorosamente private in una città in cui l’emergenza abitativa scandisce la vita di molti che –come quei 200.000- non sono stati ancora espulsi in una periferia sempre più lontana. L’urbanistica liberista produce un generale impoverimento di masse di persone e un arricchimento devastante di ristrettissimi gruppi speculativi. Il fatto che una parte dello schieramento progressista abbia appoggiato apertamente la legge Lupi, primi tra tutti l’Istituto nazionale di urbanistica e lo stesso autore del piano regolatore di Roma, Giuseppe Campos Venuti, dimostra di quanto arduo sia il cammino dell’Unione per ricostruire una reale alternativa al liberismo.
Fermiamo al Senato la legge Lupi.
È una brutta legge, sbagliata e pericolosa, che sembra far parte di una strategia ben precisa. I tagli continui da parte del governo di centro-destra agli Enti Locali negli ultimi anni e adesso il via libera agli interessi privati nel consumo e distruzione del territorio.
Una inutile legge di riforma urbanistica che non tiene conto della complessità del governo del territorio, del degrado delle periferie, della qualità urbana e dell’abitare, delle politiche ordinarie per la casa.
La Legge Lupi, sostanzialmente, nel processo di pianificazione provoca una riduzione della regia pubblica a favore dei soggetti privati.
Gli ultimi eventi francesi non ci hanno insegnato niente?
Le nostre città hanno bisogno di una grande opera di risanamento! Il territorio, un bene di tutti, prezioso e scarso, deve essere il luogo della vita, sottratto alle convenienze della rendita e della speculazione.
Alla Camera l’UNIONE ha votato all’unanimità contro questa legge ed ora si prepara a contrastarla con fermezza al Senato.
Mirko Lombardi a conclusione del suo intervento del 15 novembre scorso ha posto un interrogativo chiaro e dirimente. Rifiutare di ratificare la stagione della “programmazione negoziata” come metodo normale di gestione “precaria” dell’uso dei suoli e rilanciare una prospettiva di regolazione pubblica dell’uso sostenibile della città e del territorio è un atto di estremismo inaccettabile per il programma dell’Unione ?
Apertasi nel 1992 con l’estemporanea invenzione dei Programmi integrati di Intervento come strumenti di deroga eccezionale, proliferata negli anni successivi con le diversificate denominazioni di Programmi di riqualificazione urbana variamente aggettivati, la “negoziazione”sulle proposte dei privati contrattate caso per caso è via via divenuta una modalità di gestione ordinaria delle trasformazioni più consistenti della città e del territorio che lascia agli strumenti di indirizzo pubblico complessivo (variamente denominati nelle eterogenee legislazioni regionali accumulatesi dalla riforma del Titolo V della Costituzione in poi) il ruolo di foglia di fico per la regolamentazione delle trasformazioni minute, e ci ha riportato in una situazione non dissimile da quella antecedente la Legge Ponte del 1967, in cui le “convenzioni” senza Piano regolatore, al di là della maggior o minor capacità e volontà di contrattazione delle Amministrazioni pubbliche, si rivelarono un gioco truccato in cui a vincere era sempre il “banco” dei promotori immobiliari.
La frana di Agrigento del 1966 fu l’elemento di rottura simbolica che mise in luce la caoticità di quel modello di utilizzo del territorio e indusse anche le forze politiche più moderate del centrosinistra a cambiar registro, subordinando le contrattazioni coi privati ad un quadro di indirizzo pubblico, costituito dal Piano regolatore, con le sue dotazioni di aree pubbliche minime obbligatorie, e all’attribuzione degli oneri urbanizzativi che ne derivavano a carico attuatori di quelle trasformazioni.
Ne scaturì una stagione riformista che si aprì nel 1967 con la Legge Ponte e si chiuse nel 1977 con la Legge Bucalossi, cui nei decenni successivi fece seguito una ridda di leggi e leggine di progressiva deregolazione programmatoria coronata nel 1992 dall’avvìo di quella “negoziazione” senza programma complessivo dell’uso dei suoli che oggi la Legge Lupi in discussione al Senato vorrebbe sancire come metodo generalizzato e permanente.
Certo il Piano regolatore, concepito dalla Legge urbanistica del 1942, era uno strumento per un verso molto settoriale, tutto indirizzato alla regolamentazione edificatoria con scarsi elementi di valutazione della sua sostenibilità ambientale e, quindi, per altro verso sin troppo rigido e “disegnato” nella individuazione dei vincoli di uso pubblico, rigidamente localizzati sulle proprietà fondiarie, la cui attuazione ha avuto una sanzione di durata temporale (5 anni) troppo breve rispetto all’ampiezza della programmazione complessiva del territorio comunale.
Nel 1995, infatti, l’Istituto Nazionale di Urbanistica propose un suo sdoppiamento in una fase strutturale, che doveva programmare i limiti complessivi di sostenibilità delle quantità urbanizzative e delle dotazioni ambientali e di pubblici servizi senza vincolare le proprietà ed una fase operativa quinquennale che avrebbe articolato quelle previsioni localizzandole in proporzione alla attuabilità nel periodo di validità dei vincoli apposti alle proprietà.
Si può ripartire da lì per rilanciare una nuova stagione riformista con una legge quadro di governo del territorio che affermi la priorità dell’indirizzo pubblico nell’uso di un bene comune che non può essere abbandonato alle prevalenti convenienze dei privati e del mercato. Un programma simile in tutta Europa verrebbe ritenuto blandamente riformista e solo il liberismo selvaggio del centro-destra italiano (ognuno padrone a casa propria) può farlo apparire massimalista. I disegni di legge presentati dai vari esponenti del centrosinistra (Lorenzetti, Sandri, Turroni, Vendola/Russo Spena) presentati nel corso della scorsa e di questa legislatura sono una buona base di partenza per la discussione; il disegno di Legge Lupi (a dispetto della trentina di deputati del centrosinistra che l’hanno votata alla Camera) no.
Perché il centrosinistra è unanime nel denunciare i rischi di privatizzazione e disparità insiti in decentramento regionale senza legge quadro in materia di tutela della salute e non lo è altrettanto in materia di uso del territorio ? Margherita e Ds sono in grado di segnare un punto di differenza rispetto a quella visione di dilagante liberismo o anche il riformismo è eccessivo quando si tratta di uso dei suoli e di regime immobiliare?
Riparte al Senato la cosiddetta legge Lupi sul governo del territorio. Già approvata alla Camera nello scorso luglio, essa rappresenta la “summa” delle pratiche deregolatrici che da almeno un quindicennio abbiamo visto all’opera e che sono state gentilmente chiamate “urbanistica contrattata”.
Attraverso quelle pratiche si è potuto verificare, un vero e proprio boom edilizio ed un consumo del territorio che forse non ha eguali nella storia della urbanizzazione italiana. Quelle pratiche hanno via via traslato il valore ed il significato del territorio da bene comune a merce. Una operazione di massiccio spostamento di poteri e valori dall’ambito collettivo e democratico a quello privato. E poiché il territorio è materia visibile e misurabile, basterebbe fare un tour per le città e i comuni, dal nord al sud, per fotografare il livello di consumo, scempio e cementificazione che la rendita ha compiuto in questi anni, man mano che la si liberava dei “lacci e lacciuoli”.
E’ mutato anche il tradizionale significato di abuso edilizio: prima era l’edificato senza autorizzazione che insultava il territorio e l’ambiente e che, per l'appunto, era vietato in forza dell’interesse pubblico; ora che la edificazione ed i permessi sono “negoziabili”con gli interessi privati ciò che prima era vietato può diventare realizzabile.
Sarebbe interessante indagare quanto di quegli investimenti immobiliari sia venuto dalle attività di malavita organizzata. Quegli enormi profitti non si possono nascondere sotto il materasso di Bernardo Provenzano, ma devono essere riciclati, ripuliti e resi presentabili al salotto buono della finanza: il mattone è tradizionalmente un buon riciclatore! Ma questo è un altro problema, anche se mai come oggi sono stretti i nessi fra la rendita immobiliare - speculativamente lucrata tramite la deregulation - e la rendita finanziaria dei mercati, delle borse e delle scalate dei “furbetti der quartierino”.
Battersi contro la legge Lupi è un po’ di tutto questo. Dunque non un problema di tecnicismo urbanistico o di emendabilità, ma uno squisito problema di ordine politico più generale, di quelli tosti, che rimandano, non solo a questioni di salvaguardia ambientale, ma alla definizione delle gerarchie, dei poteri e degli interessi del bene comune – si potrebbe dire della “res publica”- rispetto all’interesse privato e di mercato. Urge rileggeresi il discorso di Capriolo Zoppo – un classico della critica alla mercificazione ed alla corruzione perequativa - per rialimentarsi della buona idea che il territorio non è una merce.
Il cedimento di molta intellettualità verso la vulgata liberista ha certamente contribuito a favorire la mutazione privatistica, ma fortunatamente contro questo andazzo si batte, e con vigore, un numeroso gruppo di urbanisti, architetti e ambientalisti come quelli firmatari dell’appello redatto da Italia Nostra contro la legge Lupi. Le forze politiche dell’UNIONE ne devono fare tesoro perché sconfiggere la Lupi, o impedire che arrivi in aula prima della fine della legislatura, è già un qualificante punto programmatico. Un buon inizio per ricostruire la strumentazione del governo del territorio incardinata su atti democratici pubblici autoritativi, giustificati da fabbisogni reali e severamente commisurati ad un uso parsimonioso ed alla salvaguardia dell’ambiente.
Ora serve ri-regulation. Con buona pace di Berlusconi e della lobby del cemento si deve dire che la stagione dell’urbanistica contrattata e negoziale è finita.
Questo è l’incipit programmatico che piacerebbe a noi di Rifondazione.
MIRKO LOMBARDI è responsabile nazionale urbanistica, Rifondazione
(DIRE) - FERRARA- Il consiglio comunale di Ferrara ha approvato, nella seduta di lunedi' 7 novembre, un ordine del giorno contro la legge Lupi sul governo del territorio. Il documento, presentato dai gruppi consiliari dei Verdi per la pace, Ds, Prc, Pdci, Sdi e Dl-La Margherita, ha ottenuto il favore della maggioranza ed il voto contrario di An, Fi e Io amo Ferrara. Con l'ordine del giorno si chiede il ritiro del progetto di legge promosso dal deputato di Forza Italia Maurizio Lupi, attualmente in via d'approvazione alla Camera. Il progetto di legge e' ritenuto "estremamente pericoloso- si legge nel testo- ed in contrasto con la stessa Costituzione" poiche' "sopprime il principio stesso di Governo Pubblico del Territorio". La legge elimina gli "Atti Autoritativi" (il normale strumento di pianificazione territoriale degli Enti pubblici) e li sostituisce con gli "Atti Negoziali", ovvero strumenti di concertazione tra le amministrazioni e "soggetti interessati- recita il documento- che non si identificano con la pluralita' dei cittadini, ma con la ristretta cerchia degli 'Operatori Economici'". "Se la pianificazione- argomenta Romeo Savini per lo Sdi- richiede una contrattazione preliminare con i privati 'che contano', allora le scelte urbanistiche rischiano di essere pre-condizionate dagli interessi particolari di alcuni operatori economici. La contrattazione sulla pianificazione urbanistica- continua Savini- deve invece avvenire dopo che siano state definite le linee d'interesse pubblico". Agli standard urbanistici (che impongono di destinare quote di territorio al verde e ai servizi pubblici) viene poi sostituita "una generica raccomandazione- si legge nell'ordine del giorno- di riservare comunque un livello minimo di attrezzature e servizi 'anche con il concorso di soggetti privati'
Alla legge viene poi contestato di escludere "la tutela del paesaggio e dei beni culturali- si legge ancora nel documento- dalla pianificazione ordinaria delle citta' e del territorio". Contro la legge Lupi, il documento cita gli articoli 9, 117 e 118 della Costituzione, sulla tutela del paesaggio e sull'attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni. Il consigliere Alex De Anna (Io amo Ferrara) difende la legge Lupi che "introduce nel governo del territorio- argomenta De Anna- il principio di sussidiarieta', che deve regolare il rapporto non solo tra lo Stato e le Regioni ma anche tra le Regioni, le amministrazioni locali ed i cittadini". De Anna propone anzi che venga richiesto di abrogare la normativa residua facente capo alla vecchia legge urbanistica (1150/42), per evitare l'accumularsi di una enorme mole di documenti legislativi. "Enti ed associazioni temono che questa legge permetta il proliferare dei 'mostri architettonici'- continua De Anna- ma ricordo che chi propone oggi questo ordine del giorno ha permesso in passato la costruzione di scempi urbanistici sul territorio ferrarese".
Principi in materia di governo del territorio (Esame e rinvio)
Il relatore, senatore SPECCHIA (AN) , sottolinea in primo luogo come, con il disegno di legge in titolo, si intendano dettare norme quadro in materia di governo del territorio, colmando così una lacuna particolarmente significativa, anche perché, negli ultimi dieci anni, ben tredici regioni hanno adottato leggi regionali in materia. Vista l'importanza del provvedimento, ben si comprende l'auspicio da molti condiviso affinché esso venga definitivamente approvato dal Senato senza ulteriori modifiche; trattandosi peraltro di una materia così delicata e complessa, si avverte l'esigenza di apportare all'articolato pervenuto dalla Camera dei deputati alcuni miglioramenti, con il contributo del Governo.
Il primo dei tredici articoli di cui si compone il testo in esame offre la definizione dell'espressione governo del territorio, intervenendo quindi per la prima volta dopo la modifica del titolo V della Carta costituzionale su una materia che, ai sensi del nuovo testo dell'articolo 117 della Costituzione, rientra tra quelle di legislazione concorrente. L'articolo 2 è relativo alle definizioni, mentre l'articolo 3 elenca i compiti e le funzioni dello Stato specificando, in particolare, al comma 4, che lo Stato esercita le funzioni amministrative connesse al governo del territorio relative alla difesa e alle Forze armate, all'ordine pubblico e alla sicurezza, alle competenze del Corpo dei vigili del fuoco, alla Protezione civile, nonché alla valorizzazione dei beni culturali e alla gestione dei vincoli paesaggistici. L'articolo 5 tratta degli interventi speciali dello Stato volti, in particolare, a rimuovere condizioni di squilibrio territoriale, economico e sociale in determinati ambiti territoriali, mentre l'articolo 5 affronta il tema della sussidiarietà. L'articolo 6 affronta la questione della pianificazione del territorio, attribuendo ai comuni il ruolo di enti preposti alla pianificazione urbanistica e alle regioni il compito di individuare gli ambiti territoriali e i contenuti della pianificazione del territorio. Il piano territoriale di coordinamento è invece di competenza delle province. In particolare, al comma 2, si afferma il principio in base al quale occorre privilegiare il recupero e la riqualificazione dei territori già urbanizzati, assicurando la difesa dei caratteri tradizionali. Si tratta di un tema assai importante, costantemente al centro del dibattito in materia urbanistica svoltosi negli ultimi anni, ma su cui ben poco si è fatto finora. La grande attualità di tale tematica è facilmente intuibile se si pensa al rischio di abbandono di molti piccoli centri urbani e di interi quartieri facenti parte anche di città di grandi dimensioni a beneficio di quartieri di nuova edificazione, quando invece sarebbe necessario invertire tale tendenza e puntare alla riqualificazione degli agglomerati urbani già esistenti, piuttosto che alla costruzione di nuovi. L'articolo 7 tratta delle dotazioni territoriali, sottolineando l'esigenza di stimolare anche il concorso dei soggetti privati, mentre l'articolo 8, affrontando il tema dell'iter di approvazione del piano urbanistico, stabilisce che sono assicurate forme adeguate di partecipazione dei cittadini e delle associazioni nel procedimento di formazione degli atti di pianificazione. L'articolo 9 è relativo all'attuazione del piano urbanistico, mirando a sostituire alle attuali regole contraddistinte da una certa rigidità, modalità ben più flessibili, affrontando anche l'importante tema della perequazione. L'articolo 10 reca le misure di salvaguardia e l'articolo 11, in materia di attività edilizia, espone il fianco a qualche lieve critica nella misura in cui sembra proporre un piccolo passo indietro rispetto a quanto era stato stabilito con la cosiddetta legge obiettivo in materia di denuncia di inizio attività (DIA); difatti, sarebbe preferibile favorire il ricorso alla DIA evitando di demandare alle regioni il compito di disciplinare autonomamente la materia, introducendo contestualmente però forme più efficaci e pregnanti di controllo. L'articolo 12 tratta il tema della fiscalità urbanistica, mirando ad istituire un apposito Fondo e a delegare il Governo ad adottare decreti legislativi volti a definire un regime fiscale speciale per gli interventi in materia urbanistica e per il recupero dei centri urbani. L'articolo 13, infine, assai opportunamente provvede ad abrogare espressamente le disposizioni di legge superate grazie al testo normativo in esame; l'ultimo comma di tale articolo dispone, quindi, che al posto del silenzio-rifiuto, si applichi il principio del silenzio-assenso in caso di inutile decorso del termine relativo alla domanda di permesso di costruire. In sostanza, quindi, il disegno di legge mira a dettare norme in materia di governo del territorio non più basate su una impostazione meramente ragionieristica, ma improntate piuttosto sull'adozione di strumenti più flessibili, così come previsto dagli articoli 6 e 9. Particolarmente condivisibile appare quanto previsto dal comma 4 dell'articolo 6, laddove si afferma espressamente che il piano urbanistico privilegia il rinnovo urbano, la ristrutturazione e l'adeguamento del patrimonio immobiliare esistente. Un giudizio positivo va espresso poi su quanto previsto dall'articolo 5 in tema di principio di sussidiarietà verticale, nonché di adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, come pure per ciò che concerne le disposizioni in materia di dotazioni territoriali e fiscalità urbanistica. In particolare, è importante puntare a favorire il rinnovo urbano introducendo meccanismi premiali in termini di metri cubi aggiuntivi.
Il testo in esame appare invece suscettibile di qualche miglioramento per quanto riguarda, innanzitutto, il concetto di governo del territorio di cui all'articolo 1, comma 2, che dovrebbe essere meglio articolato, come pure per ciò che concerne la previsione della concertazione con i soggetti privati già nella fase della pianificazione, sembrando preferibile prevedere forme negoziali piuttosto nella fase dell'attuazione. Anche il concetto di fiscalità, di cui all'articolo 12, dovrebbe essere meglio precisato e finalizzato ai diversi interventi. Le competenze demandate alle province, poi, potrebbero essere meglio definite, mentre appare opportuno approfondire la questione della possibilità di ricorrere alla denuncia attività (DIA), favorendo tale strumento e perfezionando nel contempo le procedure di controllo esistenti. Una riflessione potrebbe essere opportuna anche sul tema del silenzio-assenso in materia di permesso di costruire, così da verificare se siano o meno fondate le preoccupazioni da molti espresse. Sottolinea infine l'esigenza di acquisire l'ampia documentazione raccolta dalla competente Commissione dell'altro ramo del Parlamento, effettuando, prima della discussione generale, l'audizione di un numero limitato di soggetti, fra cui i rappresentanti delle regioni, delle province, dei comuni e dell'Istituto nazionale urbanistica (INU), nonché - accogliendo un suggerimento del senatore ZAPPACOSTA - degli ordini degli ingegneri, degli architetti, dei geologi, dei geometri e degli agronomi e forestali. Il seguito dell'esame viene quindi rinviato.
La proposta di legge sul governo del territorio voluta da Forza Italia aveva subito un colpo decisivo dalla recente sconfitta dell'attuale maggioranza alle elezioni regionali. Nella legge si diceva tra l'altro che anche i privati possono - al pari di un'amministrazione comunale - svolgere attività di pianificazione e si cancellava il diritto di tutti i cittadini ad avere aree per il verde e servizi pubblici. Della famigerata legge Lupi, il delirio di uno speculatore, come la definì Vezio De Lucia, sembrava davvero che non si dovesse parlare più. Ma con una determinazione degna della miglior causa, all'interno del disegno di legge sulla competitività che inizia questa settimana il proprio iter in Parlamento, è stato inserito un articolo che riguarda la città e l'urbanistica in cui sono contenute le parti peggiori del precedente provvedimento di riforma urbanistica. L'articolo si chiama minacciosamente Legge obiettivo per la città, ma potrebbe ribattezzarsi più opportunamente «le mani sulla città». Vi è scritto (comma 3) che il Ministero delle infrastrutture elabora le linee guida degli interventi sulle città, in aperta contraddizione con la riforma della Costituzione che assegna i poteri di pianificazione ai comuni. Il motivo di questa inammissibile espropriazione di prerogative istituzionali è presto svelato: al comma cinque si prevede l'incremento premiale dei diritti edificatori per i progetti individuati. E' una prassi collaudata da tempo che permette alla proprietà immobiliare di imporre i propri voleri alle amministrazioni pubbliche aumentando a piacimento le cubature da realizzare. L'incremento premiale significa nuovi affari per la rendita e altro cemento per le nostre città.
La grave crisi del sistema produttivo del nostro paese è questione molto complessa, ma non riguarda il comparto edilizio che - come noto - vive momenti d'oro da più di un decennio. Talmente dorati che in questi giorni alcuni economisti liberali hanno iniziato a porre l'esigenza del controllo fiscale sulle rendite immobiliari e finanziarie. E' infatti evidente che se si continuano a favorire guadagni incomparabilmente più alti di qualsiasi altro investimento produttivo, non solo un numero crescente di operatori economici sarà tentato dal colpo della fortuna immobiliare, ma anche il sistema del credito preferirà finanziare comode speculazioni piuttosto che attività a rischio d'impresa.
Per comprendere gli effetti delle dottrine liberiste applicate al territorio, basta ragionare sul fatto che un terreno agricolo ha un valore di mercato che può variare da 10 a 25 euro al metro quadrato. Una volta diventato edificabile attraverso gli innumerevoli strumenti di deroga elaborati dal Ministero delle infrastrutture, quello stesso terreno raggiunge valori pari a 100-300 euro. Quale altra impresa produttiva permette incrementi del 1.000 %? La sostituzione della pianificazione con l'urbanistica contrattata, la deroga e «gli incrementi premiali di cubatura», ha portato ovunque al trionfo della rendita e a conseguenti astronomici guadagni. Non è un caso che alcuni immobiliaristi, dal più noto Caltagirone ad altri meno famosi personaggi, competano ad esempio per il possesso della Banca Nazionale del Lavoro e tentino acquisti di azioni del Corriere della Sera.
Ma ancora più amaro è il frutto dell'urbanistica liberista per l'intera popolazione. Qualche giorno fa su queste colonne Roberta Carlini ha svelato che in un quartiere di Roma si è arrivati a valutazioni di mercato di 12.000 euro a metro quadrato! La rendita immobiliare gode dunque di splendida salute, mentre una parte crescente di cittadini non può permettersi acquisti immobiliari o affitti nelle grandi città che perdono conseguentemente decine di migliaia di abitanti ogni anno. Inserire all'interno del provvedimento per la competitività un ulteriore regalo alla speculazione fondiaria è dunque una scelta scellerata poiché privilegia la parte più arretrata e improduttiva del sistema economico.
E' ormai matura l'esigenza che si lavori alla costruzione di un provvedimento che impedisca il formarsi di rendite parassitarie alla radice e riporti il futuro urbano all'interno di regole certe e trasparenti. Compete al centro sinistra inserire come priorità del programma di governo il ripristino degli strumenti di controllo pubblico sulla città: non sono poche infatti le città amministrate dal centrosinistra che hanno utilizzato sistematicamente gli istituti di deroga contemplati dall'urbanistica contrattata. La cancellazione dell'articolo 9 del disegno di legge sulla competitività rappresenta dunque solo il primo indispensabile atto per chiudere la stagione dell'urbanistica liberista.
Il disegno di legge recentemente approvato dalla Camera dei Deputati sul governo del territorio solleva perplessità di diversa natura: si pensi, per limitarsi a pochi esempi, al ruolo dello Stato, al quale addirittura sono riconosciute dall’art. 3, comma 1, funzioni amministrative in materia di “rinnovo urbano”, in palese violazione degli artt. 117 e 118, Cost.; alle modalità di svolgimento delle funzioni amministrative preferibilmente attraverso atti negoziali (art. 5, comma 4); alla sostanziale svalutazione della pianificazione provinciale (art. 6, comma 2, in violazione degli artt. 114, 117 e 118, Cost.). Più in generale, lo schema normativo appare privo di utilità, se si considera che, dall'entrata in vigore del nuovo titolo quinto della Costituzione, ben sei regioni hanno approvato nuove leggi sul governo del territorio (Calabria, Campania, Lombardia, Toscana, Umbria e Veneto). E rispetto a tali normative regionali il disegno di legge non dice alcunché di nuovo (piuttosto sembra limitarsi a recepirne, confusamente e approssimativamente, alcuni contenuti).
Un cenno a parte merita la disciplina della perequazione e della compensazione (art. 9), la quale, lungi dall'essere inutile, pone, se non altro in ragione della sua portata ideologica, rilevanti questioni di democrazia nella gestione del territorio e introduce il “debito edificatorio”, quale nuovo istituto della materia.
1. La perequazione e la compensazione nel disegno di legge
Conviene riassumere il regime giuridico della perequazione e della compensazione, contenuto nell'art. 9 del disegno di legge.
In generale, le disposizioni di cui all'art. 9 – al pari di molte altre contenute nel disegno di legge – si presentano in buona parte misteriose, anche a causa di una formulazione del testo sciatta e priva di rigore. E peraltro si ha l'impressione che sul punto i Deputati abbiano avuto in mente specifiche esperienze di pianificazione perequativa e compensativa, dalle quali hanno voluto estrapolare alcuni principi normativi, da imporre alla legislazione regionale (utile compendio per la lettura del disegno di legge può essere la l.r. Lombardia n. 12 del 2005).
In base al comma 1, il piano urbanistico (il piano strutturale) è attuato con piano operativo o con intervento diretto, sulla base di progetti compatibili con gli obiettivi stabiliti nel piano strutturale.
Il comma 2 dispone che “il piano urbanistico può essere attuato anche con sistemi perequativi e compensativi secondo criteri e modalità stabiliti dalla regioni”. Non è ben chiaro il senso della disposizione e segnatamente in che modo i “sistemi perequativi e compensativi” possano rappresentare uno strumento di attuazione del piano strutturale. Probabilmente, la maldestra formulazione si riferisce a forme di attuazione del piano urbanistico ad opera di coloro che sono titolari dei "diritti edificatori".
La perequazione è intimamente connessa ai “diritti edificatori” che rappresentano, in questa ipotesi normativa, figure assai inquietanti per motivi culturali, oltre che politici. Tali diritti, in base al comma 3, sono attribuiti alle proprietà immobiliari ricadenti in determinati ambiti territoriali, “in percentuale dell’estensione [sic] e o del valore di esse e indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”. E sul punto non si riscontrano particolari novità rispetto alle norme regionali che si occupano del tema; norme che - in modo non molto diverso dai comparti di cui alla legge del '42 - in genere, ma non sempre, ancorano i meccanismi perequativi ad ambiti territorialmente definiti.
La novità sostanziale è data dalla precisazione posta alla fine del comma 3: detti diritti “sono trasferibili e liberamente commerciabili negli e tra gli ambiti territoriali” (art. 9, comma 3).
La proclamazione della libertà di commercio (cfr. l'art. 11, comma 4, l.r. Lombardia n. 12/05 cit.) vuol dire che la circolazione dei "diritti edificatori" può avvenire senza il consenso della pubblica amministrazione, al contrario di quanto attualmente avviene per i contratti di cessione di volumetrie. Il senso della trasferibilità dei diritti non risulta chiaro, non essendo specificato se la scelta circa la delocalizzazione spetti al titolare ovvero all’amministrazione. Probabilmente, si vuol dire che, attraverso trattative tra il comune e i titolari, si dovrà comunque trovare un accordo per la realizzazione dei diritti anche su area diversa da quella in relazione alla quale sono attribuiti i diritti stessi (ecco una delle implicazioni della preferenza accordata dal disegno di legge alla negoziazione rispetto all'urbanistica imperativa: art. 5, comma 4).
Lo schema di norma non specifica con quale atto (piano strutturale, regolamento urbanistico o piano operativo) si debba procedere alla distribuzione dei "diritti edificatori", rimettendo la decisione alle regioni (e, come noto, le regioni hanno ad oggi adottato discipline assai diversificate per quanto attiene ai compiti e ai contenuti del piano strutturale e di quello operativo).
Sono contemplate anche altre forme di attribuzione di questi diritti. Il comma 4 dell’art. 9, prevede che “anche allo scopo di favorire il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, le regioni possono prevedere incentivi consistenti nella incrementabilità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici vigenti” (cfr. l'art. 11, comma 5 della l.r. Lombardia n. 12/05 cit.). A prescindere dalle ulteriori implicazioni che la norma può avere (ad esempio sulla natura non più ricognitiva delle prescrizioni territoriali a tutela del suolo o della incolumità pubblica), essa vuol dire che il comune può attribuire, per le finalità più varie (stabilite dalla legge regionale), una quantità maggiore di "diritti edificatori" rispetto a quanto stabilito in sede di pianificazione (con tutto quanto ne segue in termini di mancanza di valutazioni complessive).
Previsione sostanzialmente analoga, da questo punto di vista, è contenuta nel comma 5: il comune invece che indennizzare in forma monetaria un vincolo preordinato all’esproprio, può riconoscere al proprietario il diritto a una certa volumetria d realizzare altrove, anche su aree comunali. Questa è la cosiddetta compensazione.
2. I "diritti edificatori"
Effettuata questa sintesi della disciplina della perequazione e della compensazione, si può passare al punto centrale della materia: cosa sono, dal punto di vista giuridico, i "diritti edificatori"?
In via di prima approssimazione, si può affermare che essi si riferiscono a una certa volumetria, come detto, determinata in sede di pianificazione (strutturale od operativa), che il titolare ha il diritto di realizzare. Questa descrizione non esaurisce però l'argomento.
Come anticipato, è previsto che questi diritti (e dunque la volumetria cui essi si riferiscono) siano trasferibili e liberamente commerciabili "negli e tra gli ambiti territoriali": costituiscono dunque autonomi beni giuridici, in quanto tali, idonei a essere oggetto di contratti; beni giuridici che, attribuiti dal comune in ragione del diritto di proprietà su un immobile e delle sue caratteristiche (estensione e valore), possono però vivere e circolare separatamente dal bene in relazione al quale sono stati attribuiti.
Ma se il "diritto edificatorio" può esistere a prescindere dalla relazione del titolare con un bene immobile, non può essere qualificato come diritto reale (es. il diritto di proprietà, di enfiteusi su un bene immobile), né come facoltà di un diritto reale (quale era secondo alcuni lo jus aedificandi o come talvolta ha ritenuto la giurisprudenza con riguardo ai contratti di cessione di cubatura), né come potere attribuito dalla pubblica amministrazione in relazione a un diritto reale e alle relative modalità di esercizio. In altri termini, secondo la norma in commento, il "diritto edificatorio" perde potenzialmente le caratteristiche proprie della realità (ossia di relazione giuridicamente qualificata di un soggetto con una res). Esso sembra avere una diversa natura giuridica e segnatamente quella di diritto personale imputato al titolare: a fronte di un "diritto edificatorio", vi è un soggetto obbligato, un debitore.
Per comprendere il punto occorre ricordare che la distribuzione dei "diritti edificatori" ai proprietari di immobili inclusi in un determinato ambito di trasformazione (come accade, ad esempio, nel regime del comparto edificatorio), avviene ricorrendo a formule organizzatorie (variamente configurata in dottrina e in giurisprudenza: associazione senza personalità giuridica, comunioni tra proprietari, ecc.), intese comunque ad assicurare la realizzazione unitaria della trasformazione prevista. Queste forme di coordinamento tra i proprietari producono un effetto perequativo, ossia quello di ripartire tra tutti i partecipanti all'organizzazione i diritti e gli oneri connessi alla trasformazione nell'ambito del perimetro, in proporzione alla quota di partecipazione. Il che in sintesi vuol dire che gli aspetti organizzativi e reali della vicenda risultano assolutamente inscindibili.
Al contrario, la previsione della trasferibilità e della commerciabilità tra gli ambiti territoriali comporta la potenziale trasformazione della natura giuridica del "diritto edificatorio" che, perse le caratteristiche della realità, assume quelle del diritto di credito (e non è un caso che la giurisprudenza amministrativa, con riferimento a "diritti edificatori" relativi ad ambiti diversi da quelli in cui ricade il bene immobile del titolare, ha ripetutamente parlato di "credito volumetrico": cfr. Tar Campania, sez. di Salerno, sez. I, 6 dicembre 2001, n. 845 e 20 febbraio 2003, n. 845).
In questa logica, il debitore è il comune, il quale, a fronte di ogni "diritto edificatorio", deve consentire al titolare di realizzare la volumetria oggetto del diritto stesso e di acquisire su essa il diritto di proprietà: prima o poi, si dovranno soddisfare tutti i "diritti edificatori" distribuiti. Si può dunque affermare che al "diritto edificatorio" in capo a un privato, corrisponde senz’altro un "debito edificatorio" per il comune.
Vale la pena di precisare che, a dispetto della terminologia adoperata, il titolare del diritto in discorso, nei confronti del comune, è da considerare, da un punto di vista strettamente tecnico, come portatore di un interesse legittimo alla soddisfazione del suo diritto (precisazione questa rilevante da diversi punti di vista). Ma questa constatazione non cambia la natura sostanziale delle cose, ossia che il comune sia comunque obbligato ad assicurare la realizzazione della volumetria riconosciuta nell'atto di pianificazione; e ciò preferibilmente attraverso accordi con il relativo titolare (tanto è vero che il giudice amministrativo, con riferimento al c.d. "piano delle certezze" del Comune di Roma, ha già avuto modo di affermare, sia pure incidentalmente, che all'attribuzione dei "diritti edificatori" corrisponde per l'amministrazione un vincolo per quanto attiene alla decisione circa l'an della volumetria da realizzare, anche in assenza della determinazione delle concrete modalità di attuazione di tali diritti: cfr. Tar Lazio, sez. I, 19 luglio 1999, n. 1652, § 8.1.).
Come anticipato, i commi 4 e 5 dell'art. 9 si occupano parimenti dei "diritti edificatori", tuttavia nella diversa ottica di promuovere il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, nonché di sostituire indennità monetarie. Nonostante la diversa funzione, anche in questa ipotesi mantengono la natura di diritti di credito nei confronti del comune.
Da un punto di vista teleologico, il "diritto edificatorio" assolve dunque a due distinte funzioni. Innanzitutto dovrebbe svolgere una funzione perequativa: a ogni immobile inserito in un ambito di trasformazione, come individuato dal piano strutturale, viene riconosciuto un certo numero di "diritti edificatori" in relazione alla sua estensione e al suo valore, come risultante prima del piano (“indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”: cfr. art. 9 comma 4). Si dovrebbe così realizzare una condivisione di vantaggi e oneri per tutti i soggetti coinvolti dalla trasformazione (si usa il condizionale, dal momento che è pura illusione pensare che, attraverso l'astrattezza del "diritto edificatorio", si possa ottenere la piena indifferenza dei proprietari rispetto alle previsioni di piano: cfr., ad esempio, la sentenza del Tar Lazio, n. 1652/99 cit., § 8, lett. a e § 8.1.).
Inoltre, il "diritto edificatorio" può sostituire le indennità che il comune deve pagare a fronte di vincoli anche, ma non solo, espropriativi (art. 9, commi 4 e 5). Qui la perequazione non c’entra nulla, avvenendo l'attribuzione dei diritti in sostituzione di indennità monetarie dovute a vario titolo (chi sa se i Deputati avevano in mente gli assegnati, escogitati in Francia nel dicembre 1789?).
E' evidente che il meccanismo sinteticamente descritto, ove implementato, produrrà un incremento potenzialmente incontrollato del "debito edificatorio" dei comuni, in modo potenzialmente svincolato da ogni valutazione di sostenibilità (estetica, sociale, ambientale, ecc.), che dovrebbe essere effettuata nel piano strutturale, nonché da ogni correlazione con l’interesse pubblico (che, detto per inciso, al di là di proclamazioni formali, non sembra svolgere alcun ruolo nella struttura del disegno di legge).
3. Osservazioni critiche
Guardando alla sostanza del fenomeno, ci si accorge che i "diritti edificatori", come disciplinati nello schema normativo, in effetti rappresentano una potenziale distorsione delle dinamiche democratiche che dovrebbero presiedere alla funzione di governo e di gestione del territorio. Il tema, ovviamente, si potrebbe prestare ad ampie ed approfondite riflessioni, ma appaiono sufficienti le seguenti considerazioni.
Non si deve essere profondi conoscitori della teoria della "cattura del regolatore" o di quella comunemente denominata "Public Choice" (che, come noto, valse il premio Nobel per l'economia a J. Buchanan nel 1986) - teorie i cui presupposti peraltro non sono condivisibili -, per comprendere che i processi regolativi e di elaborazione delle politiche pubbliche, specie allorquando intercettano interessi economici forti (quali sono indubbiamente quelli connessi alla rendita immobiliare), necessitano di strumenti giuridici e istituzionali che mantengano l'amministrazione pubblica esente, per quanto possibile, da interferenze e condizionamenti indebiti, consentendole di assumere decisioni e di eseguirle autonomamente dal consenso dei privati interessati.
Tutto al contrario, il disegno di legge sembra fatto apposta per generare fenomeni di "cattura" dell'amministrazione pubblica da parte dei portatori di interessi forti ovvero per produrre indebiti vantaggi a favore di alcuni gruppi (es. i beneficiari della rendita) a scapito di altri (es. i cittadini). Infatti, da un lato, non contiene principi forti cui gli enti di pianificazione si devono ispirare nell'elaborare le politiche territoriali; e, dall'altro, anche attraverso la sintetizzata disciplina dei "diritti edificatori", depotenzia la potestà decisionale dell'apparato pubblico, rafforzando nel contempo la posizione dei titolari della rendita.
Ricorrendo ad altri concetti, si può osservare che la circostanza per cui i "diritti edificatori" possano circolare liberamente ed essere trasferiti nei diversi ambiti, a prescindere, come detto, da un retrostante diritto di proprietà su un bene immobile, consente a pochi soggetti di farne incetta, per poi magari concentrarli su determinate aree in loro disponibilità. Il disegno appare più chiaro se si considera che, a mente dell’art. 8, comma 8, i piani attuativi possono, nella sostanza, essere anche a iniziativa di soggetti privati (ossia dei titolari dei diritti edificatori) e che, a mente dell’art. 5, comma 4, “le funzioni amministrative sono esercitate (…) prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi (…)”.
Una volta che si permetta ad alcuni soggetti di acquistare dagli altri proprietari il diritto di realizzare una certa volumetria e successivamente di proporre l’adozione di strumenti attuativi (compibili con il piano strutturale solo per quanto riguarda gli obiettivi, ma non le volumetrie: cfr. art. 9, comma 1), ovvero di contrattare con il comune forme, tempi e modi di realizzazione, le amministrazioni comunali si troveranno, nella migliore delle ipotesi, nella condizione di non essere più titolari esclusivi della funzione di pianificazione operativa, ma, nella sostanza, di doverla condividere con i detentori dei "diritti edificatori", dalle stesse riconosciuti.
Il rischio vero che si corre è allora che, attraverso questa disciplina, si privatizzi il territorio (inteso come l’insieme di beni immobili, pubblici e privati, su cui è insediata e vive la collettività locale), attribuendo poteri incisivi a soggetti privati, i titolari dei "diritti edificatori", e deprivando le amministrazioni locali e i cittadini di adeguati strumenti per la tutela dell’interesse pubblico. E vale la pena di ricordare che, per quel che qui interessa, la natura pubblica della pianificazione territoriale risponde all’esigenza di garantire che siano effettivamente goduti i diritti e le liberà fondamentali dei cittadini: la potestà pubblica deve costituire, tra l’altro, un valido baluardo contro i poteri privati.
Queste considerazioni non devono però indurre a ritenere che si sia in presenza di uno schema normativo di tipo liberista, orientato cioè a far emergere le forze del mercato, sinora compresse e mortificate dall'invadenza dell'apparato pubblico e dalle sue regole. Infatti, qui il mercato e il gioco della concorrenza c'entrano poco o nulla.
La logica sottesa al disegno di legge è piuttosto quella del "debito edificatorio": rivive qui la stessa incultura che ha portato l’Italia ad accumulare un immenso debito pubblico, riversandone gli effetti devastanti sulle generazioni più giovani. Da questo punto di vista, la proposta risulta generazionalmente connotata e non contiene purtroppo nulla di nuovo, dal momento che si limita ad affermare che i comuni, attraverso l’attribuzione di "diritti edificatori", possono impegnare il loro territorio, per le finalità più varie. E questa operazione viene giustificata con riferimento alle esigenze di uguaglianza tra i proprietari (e, come noto, anche sull’incremento del debito pubblico hanno influito non poco esigenze di uguaglianze tra diverse categorie produttive); come se fosse questo il problema del territorio italiano. Il territorio è un bene limitato e pertanto un meccanismo come quello descritto, che fisiologicamente porta all’aumento incontrollato della quantità di "debiti edificatori" a carico dei comuni, è contrario al principio di solidarietà tra le generazioni.
La (in)cultura del debito pubblico (e dunque la ideologia dell’egoismo generazionale) consente forse di comprendere le ragioni per le quali la proposta, a quanto si legge, è stata condivisa anche da esponenti dell’opposizione.
4 settembre 2005
La nuova legge sul governo del territorio, approvata dalla Camera il 28 giugno scorso, meriterebbe un’attenzione ben maggiore di quella che vi hanno dedicato sia la stampa generalista (quasi nulla) che il milieu politico e tecnico del Paese. La riscrittura dopo sessant’anni dei principi generali della pianificazione territoriale e urbanistica; l’attesa per una ridefinizione di temi di grande rilevanza economico-distributiva come il regime dei suoli e i nuovi stili di una pianificazione che si vuole flessibile e aperta al privato (oltre che alla società civile); le nuove esigenze che emergono in tutti i Paesi avanzati per una rinnovata attenzione alle risorse territoriali, nei loro aspetti fisici, paesistici, culturali-simbolici ed economici; tutto questo giustifica ampiamente la necessità di una lettura attenta della legge, e di un dibattito quanto più possibile allargato e a più voci.
A queste aspettative rilevanti la legge fornisce una risposta modesta e anzi, per molti aspetti, inadeguata. La legge prende le mosse da esigenze di modernizzazione condivise, affrontate anche da leggi regionali, e accoglie molti suggerimenti e strumentazioni tecniche emerse dal dibattito urbanistico negli ultimi anni, cui io stesso ho cercato di apportare qualche contributo: la necessità di integrare la progettualità privata nei piani di sviluppo urbani e territoriali; il ruolo cruciale della concorrenza fra soggetti privati e fra progetti; la possibilità (ad avviso di chi scrive, la necessità) che il piano strutturale sia intercomunale; l’utilità degli strumenti perequativi nel limitare gli effetti della discrezionalità pubblica al livello micro-territoriale, generando tendenziale indifferenza della proprietà, a patto che si operi entro ambiti territoriali relativamente omogenei; le potenzialità degli strumenti di compensazione urbanistica nella flessibilizzazione delle decisioni; la repressione degli abusi edilizi; l’uso di strumenti di redistribuzione intercomunale di una parte delle imposte comunali sulle nuove urbanizzazioni, al fine di disinnescare la propensione sviluppista dei Comuni (generata dalla crescente scarsità di risorse), e altro.
Tuttavia queste innovazioni rilevanti sono inserite in un quadro complessivo che, in alcuni casi, ne rende la pratica altamente rischiosa per l’interesse collettivo, e in altri ne vanifica totalmente l’utilizzazione. Alcuni basilari principi sono totalmente assenti e su tematiche rilevanti, anche se complesse, come il regime dei suoli, si propone una soluzione non chiara e sotto alcuni aspetti non accettabile. Affronterò in questa sede tre tematiche maggiori: l’assenza di veri principi, la pianificazione per atti negoziali e il primato del Comune nelle funzioni di governo del territorio.
Assenza di princìpi
Una legge di governo del territorio – pur accettando una interpretazione estensiva del termine, che lo avvicina alla governance territoriale, includendovi dunque non solo attività regolative e amministrative ma anche attività negoziali col privato e di programmazione negoziata fra enti pubblici – deve innanzitutto chiarire perché oggi si ritiene necessario procedere per leggi al governo del territorio stesso. La risposta dovrebbe essere contenuta in un principio generale che, in termini economici, potrebbe suonare così: il territorio è bene pubblico e collettivo, che fornisce benefici alle comunità locali sotto forma di benessere degli abitanti ed efficienza dei settori produttivi, e che non viene adeguatamente garantito dal puro operare di rapporti di mercato a causa della presenza di effetti di rete, di esternalità e di beni pubblici (ben noti casi di fallimento del mercato), nonché dalla presenza di elementi di incertezza; esso richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa. Si potrebbe ribattere: una legge non è un trattato di economia territoriale; sta dunque ai giuristi trovare l’abito giusto per questo principio. Si potrebbe dire: è un principio pleonastico, già condiviso; ma sottolinearlo in un contesto culturale come quello italiano di crisi se non di delegittimazione della pianificazione può giovare alla pianificazione stessa.
Questo principio generale dovrebbe poi essere coniugato in modo più fine, individuando i processi, attuali e prospettici, che maggiormente rischiano di condurre a riduzione di benessere e i principi attraverso i quali si intende affrontarli. Se vogliamo, questi processi individuano, per contrapposizione, gli obiettivi del governo del territorio, che nella legge sono totalmente assenti (salvo qualche indicazione casuale e sparsa), mentre erano presenti nella bozza di legge ancora nel dicembre 2004, anche se in forma laconica e incompleta. Essi devono al contrario essere chiariti ed esplicitati, perché proprio sul loro perseguimento si basa la giustificazione di una legge di principi. I più rilevanti obiettivi, meritevoli di interesse dello Stato – visto che sono stati fatti propri anche dall’Unione europea e inseriti nel progetto di Convenzione europea col titolo di «coesione territoriale» come ambito di sua competenza concorrente (shared competence: articolo I-14.2) – dovrebbero essere i seguenti:
1) limitare i consumi di suolo per nuove urbanizzazioni. Sembra oggi indispensabile che una legge nazionale imponga alle Regioni almeno di considerare il fenomeno, di monitorarlo e misurarlo, e di limitarlo. Il relativo principio regolatore dovrebbe essere un principio di efficienza nell’uso delle risorse, da cui seguirebbe, per la risorsa suolo, l’onere di giustificare interventi su territori non urbanizzati, il possibile utilizzo di sistemi di tassazione di urbanizzazioni greenfield e di connessi sussidi al riuso di brownfield (aree industriali dismesse o degradate) o greyfield (aree commerciali dismesse, sull’esempio americano e canadese). Dal principio seguirebbe un elemento ancor più importante: la necessaria introduzione di una quarta categoria di aree (al di là delle tre indicate nella legge: aree di pregio ambientale, aree agricole e aree urbanizzabili), che potremmo chiamare «aree di riserva per funzioni ecologiche e paesistiche», da normare a cura delle Regioni, a evitare il messaggio rischioso, presente nell’attuale testo, che la maggior parte del territorio cada nella categoria residuale dell’urbanizzabile (o che i Comuni virtuosi siano costretti ad allargare i vincoli sulle aree di pregio o ad assegnare alle attività agricole aree che dall’agricoltura sono abbandonate o che non vi sono adatte). Per la risorsa energetica, il principio spingerebbe nella direzione di un addensamento dell’urbanizzato lungo le linee di forza del trasporto pubblico;
2) frenare la frammentazione e la banalizzazione del territorio. Il relativo principio sarebbe un principio di rispetto di massa critica, che significa un deciso contrasto alla dispersione insediativa, i cui ingenti costi collettivi sono sotto gli occhi di tutti, alla frammentazione delle reti ecologiche e alla messa a rischio dell’assetto idro-geologico;
3) affrontare la crescente dualizzazione e polarizzazione della società, effetto dell’aumentata competizione globale, della perdurante crisi europea e dell’emergere di una città multietnica con forti squilibri nelle opportunità e nelle capacità reddituali. Principio ispiratore deve essere un principio di solidarietà, che implica una crescente attenzione alla coesione sociale e territoriale, alle condizioni di segregazione e di povertà urbana, nonché la definizione di quote minime di edilizia sociale nei nuovi progetti urbani (come nelle più recenti leggi urbanistiche e nelle direttive di molti Paesi avanzati);
4) limitare gli effetti ambientali negativi generati dall’urbanizzazione e dalla localizzazione di grandi funzioni urbane, commerciali o industriali (ad esempio sulla mobilità), attraverso un principio di internalizzazione delle esternalità e di correzione del mercato. Tale principio giustificherebbe la possibile differenziazione territoriale degli oneri connessi al permesso di costruire, secondo la tradizione americana degli «impact fee», nonché una loro elevazione rispetto ai modestissimi parametri attuali. Soprattutto tale principio si applicherebbe al livello intercomunale, favorendo i Comuni contermini in presenza di esternalità negative generate nel Comune vicino; solo così il giusto dettato della legge sulla formazione di consorzi fra Comuni e la possibile redistribuzione dell’Ici (articolo 12, comma 2b)e degli oneri connessi al permesso di costruire avrebbe qualche possibilità di dare risultati concreti.
Inutile dire che di tali principi, che costituiscono le grandi direttrici su cui ci si sta muovendo in tutta Europa, non vi è traccia nella legge e anzi, come detto, vi si possono trovare abbastanza esplicitamente indicazioni esattamente contrarie.
Negoziazione senza rete
Il secondo ambito di profonda insoddisfazione nei riguardi del dettato di legge concerne l’indicazione (articolo 5, comma 4) che «le funzioni amministrative sono esercitate… prioritariamente mediante atti negoziali in luogo di atti autoritativi». Da tempo – anche quando, fino a pochi anni or sono, l’«urbanistica contrattata» era da molti vituperata – si è ripetuto che associare il privato alle scelte di pianificazione avrebbe consentito di raggiungere tre risultati fondamentali: di superare i limiti di informazione, di progettualità e di interpretazione dei bisogni collettivi della pubblica amministrazione; di rendere le decisioni di piano più aderenti alle possibilità congiunturali di realizzabilità e di profittabilità per gli operatori; di realizzare un coordinamento ex-ante fra decisioni pubbliche e decisioni private, così da superare l’intrinseca incertezza connessa alle innovazioni territoriali e conseguentemente migliorare l’economicità delle opere, sia pubbliche che private. In questo senso, la negoziazione sarebbe finalizzata al miglioramento della qualità della pianificazione, non certo alla sua sostituzione con una serie di contratti.
In realtà, i cosiddetti «atti autoritativi» avversati dalla legge sono in genere, in tutti i Paesi avanzati, non certo il frutto di un’autorità assoluta autoreferenziale, ma derivano da processi sia politici che tecnocratici che anche partecipativi e negoziali sottoposti a vaste garanzie e a obbligo di giustificazione tecnico-politica, mentre è proprio la negoziazione che ha bisogno di una giustificazione plurima preliminare: va giustificato l’interesse pubblico per la trasformazione (o nella trasformazione) del singolo sito, per il progetto e la funzione proposti, nonché la verifica delle condizioni di coerenza urbanistico-trasportistica, a evitare casualità nella scelta delle aree, banalità delle funzioni, eccessivo carico urbanistico e impatto insostenibile sulla mobilità. Purtroppo, proprio questi sembrano gli esiti di molta «urbanistica per progetti» in Italia.
Ma il problema di fondo è ancora un altro, e riguarda il modello di negoziazione senza rete e senza regole che si propone nella legge. Quali dovrebbero essere infatti gli obiettivi della pubblica amministrazione nella negoziazione? Chiaramente, coerenza del progetto urbano complessivo, di cui si è detto, e massimizzazione del vantaggio pubblico in termini di aree, verde e servizi. Come si affermava nei documenti dell’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) alcuni anni or sono – ma pare un secolo – si dovrebbe «creare la città pubblica attraverso i plusvalori della trasformazione della città privata». Orbene, quale forza contrattuale potrà avere una pubblica amministrazione che, come auspica la legge, rinuncia a operare in base ad «atti autoritativi» e soprattutto che viene privata del supporto normativo nazionale consistente nell’indicazione di quote minime di cessione di aree (poiché «perde efficacia» il Dm 1444/1968 sugli standard urbanistici)?
Nella legge si trascurano alcuni elementi importanti in proposito:
- l’esistenza di un’asimmetria informativa fra il settore privato e il settore pubblico sulle condizioni di costo e di profittabilità nella produzione edilizia,
- l’esistenza di una seconda asimmetria fra singoli Comuni, spesso piccoli e potenzialmente in concorrenza fra loro, e operatori immobiliari che operano su un ampio scacchiere territoriale;
- la circostanza che, come la storia recente ci ricorda, i grandi operatori immobiliari agiscono spesso in forma di oligopolio collusivo, limitando la concorrenza reciproca su singoli siti o progetti;
- e, infine, il fatto che nel nostro Paese vige una situazione di scarsissima trasparenza
sulle condizioni delle negoziazioni realizzate e soprattutto che nel settore pubblico sono assai scarse le professionalità necessarie per gestire al meglio questo tipo di processi negoziali.
Da tutto questo consegue che un modello contrattuale puro non garantisce affatto il perseguimento dell’interesse pubblico. In altri Paesi avanzati, allorché la negoziazione viene consentita per il raggiungimento di finalità particolari o per la rilevanza del progetto di trasformazione, al settore pubblico è assegnato comunque il vantaggio di un livello predefinito di cessioni di aree (per legge statale o federale), come punto di partenza per la vera contrattazione.
Uno strumento importante esiste per aumentare la forza contrattuale del Comune, la messa in concorrenza di progetti e di attori privati, ed esso è effettivamente citato dalla legge (articolo 8 comma 7). Purtroppo gli strumenti per realizzare «concorrenzialità» sul territorio – un obiettivo assai complicato per la presenza di un ineliminabile vantaggio del proprietario – non sono indicati neanche per sommi capi, e ciò costituirebbe un problema perché sull’intera materia della negoziazione e del partenariato col privato vi sono gli occhi puntati della Commissione europea e della Corte di giustizia, preoccupate giustamente per le possibilità di pratiche neo-corporative, elusive della concorrenza.
In sintesi, non sembra che quello della costruzione della città pubblica sia un obiettivo della legge: una città che continui (o torni) a essere un grande luogo di socialità e una fonte di efficienza e di benessere collettivo. Si afferma che «l’entità dell’offerta di servizi» deve «garantirne comunque un livello minimo», ma ci si astiene dall’indicare quale esso sia o debba essere, nonostante la pretesa di essere legge di principi generali per tutto il territorio italiano; si indica la possibilità in tale materia di «un concorso dei soggetti privati» (un’affermazione accettabile), ma si apre la strada all’utilizzo di un concetto rischiosissimo, che ha già dato luogo a interpretazioni e pratiche ai limiti dell’aberrante: quello della commisurazione degli standard sulla base di «criteri prestazionali » (articolo 7, comma 1). In Lombardia l’introduzione concetto di standard qualitativi o prestazionali ha portato alla scomparsa di qualunque riferimento legislativo alla nozione di servizi pubblici, e al rinvio alle decisioni (negoziate) dei Comuni, con la conseguenza che in taluni casi si è inclusa fra gli standard la categoria degli alberghi. Come si è sottolineato precedentemente, si aprono vasti spazi per proposte dissennate, oltre alla possibilità di malversazioni o contenziosi senza fine.
Quanto alle indicazioni in merito al regime dei suoli, la legge non appare chiara come avrebbe potuto essere e a mio avviso – ma è materia da giuristi – utilizza un lessico non sempre appropriato. Da una parte, non si giustifica in alcun modo l’onerosità del «permesso di costruire» (articolo 11, comma 2) né le modalità di una sua commisurazione. Dall’altra, il compito di «disciplinare il regime dei suoli» è assegnato, anziché alla legge nazionale, agli strumenti operativi comunali (che a mio avviso possono al più avere effetti conformativi della proprietà dei singoli suoli, ma non del regime complessivo).
La lettura, in particolare su questi argomenti, è forse fuorviata dall’osservazione del recente «laboratorio ambrosiano», campo di sperimentazione anticipata della legge nazionale, in cui si è azzerata la necessità di ricorrere al piano e si è avviata un’urbanistica negoziata per singoli progetti. In tale laboratorio si è affermato che «gli investitori hanno la massima libertà di proposta» e «se la proposta è accolta, le regole specifiche del progetto di trasformazione vengono definite contestualmente alla proposta di cambiamento e non preesistono ad essa» (Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, Comune di Milano, 2001). Si resta nel novero di coloro i quali vorrebbero vedere le regole preesistere, e non seguire, alle pratiche caso per caso.
In passato si è contestata la pretesa degli urbanisti di «combattere» o «ridurre» la rendita fondiaria, affermando che essa è ineliminabile, non essendo che la controfaccia in termini di valore del vantaggio localizzativo e della relativa domanda da parte di famiglie e imprese; paradossalmente, il buon pianificatore genera e anzi massimizza la rendita, creando accessibilità, qualità urbana e qualità ambientale. Ma ho anche affermato, con gli economisti classici, che essa può e deve essere tassata in quanto reddito, e anzi «reddito non guadagnato»; in termini moderni, possiamo dire che le leggi e le pratiche urbanistiche non sono altro che un «gioco» di distribuzione della rendita fra pubblico e privato, in cui la quota del pubblico dipende da fattori politici e di etica collettiva.
Comune, soggetto primario
Un ultimo aspetto rilevante della legge mi preme qui sottolineare. Vi si afferma infatti che «il Comune è… il soggetto primario titolare delle funzioni di governo del territorio» (articolo 6, comma 1) e si corrobora l’affermazione con una serie di indicazioni che suffragano abbondantemente tale primazia. Il piano urbanistico comunale «ricomprende e coordina » le disposizioni dei piani di settore e del piano territoriale; può «proporre espressamente modificazioni ai piani territoriali»; recepisce solo «le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici». Ebbene si ritiene che, se il concetto di governo del territorio abbraccia anche la «pianificazione territoriale», «di area vasta» (articolo 2, comma 1), non vi è alcuna ragione di pensare che il Comune sia, per questa funzione, il soggetto primario. Purtroppo la Provincia e il piano territoriale di coordinamento sono stati inseriti nella legge grazie a un emendamento dell’ultima ora, e non ottengono alcuno spazio effettivo nella sua logica complessiva. Al contrario, pur nella necessità di una co-pianificazione e di un accordo interistituzionale, alla Provincia, o comunque a un ente con competenza sovracomunale, dovrebbe essere attribuito il compito specifico e di ultima istanza del governo del territorio sull’area vasta. Il principio di sussidiarietà, se correttamente inteso, porta proprio a questa conclusione: esso attribuisce competenze al livello istituzionale più basso adeguato (un aggettivo che spesso si dimentica), e dunque non certo ai Comuni per quegli interventi in cui intrinsecamente si manifestano effetti di rete, le economie di scala ed esternalità transborder. Per tutto quanto precede, non si ritiene che alla legge bastino alcune correzioni da apportare al Senato per farne uno strumento accettabile e adeguato alle esigenze di un Paese moderno.
“Una prima analisi della riforma quadro approvata da un primo ramo del Parlamento evidenzia il grande spazio dato alla negoziazione con i privati. Questo diventa il principio guida che sostituisce quello della pianificazione imposta dall’alto. Ma vanno meglio definite le procedure.”
La riforma urbanistica approvata il 28 giugno 2005 dalla Camera in prima lettura è, a distanza di più di sessanta anni dalla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, e dopo numerosi tentativi di riforma rimasti privi di esito nelle passate legislature, del primo testo di una nuova disciplina generale del governo del territorio, evidentemente ancora subordinata all’esame del secondo ramo del Parlamento ma già oggetto di acceso dibattito. Prima di esaminarne i contenuti, sembra opportuno ricordare che, essendo il «governo del territorio» materia di legislazione concorrente ai sensi dell’articolo 117, comma 3, della Costituzione, lo Stato è legittimato unicamente a porre una normativa quadro cui le Regioni devono conformarsi nell’esercizio della propria potestà: questa è la ragione per la quale la proposta di legge si compone di appena tredici articoli, che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero codificare quei «principi » della disciplina degli usi del suolo a lungo ricercati dagli studiosi della materia.
La nozione di governo del territorio
La legge costituzionale 3/2001, nel modificare, tra l’altro, l’articolo 117 della Costituzione, ha sostituito il termine urbanistica con la locuzione governo del territorio, senza tuttavia darne una definizione. Il comma 2 dell’articolo 1 della proposta (A.C. 153 pubblicata sul n. 27/2005 di «Edilizia e Territorio ») tenta, quindi, di individuarne i contenuti includendovi: l’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio; la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso; la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo; l’urbanistica; l’edilizia; l’insieme dei programmi infrastrutturali; la difesa del suolo; la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali; la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie (disposizione di chiusura, che rievoca le teorie dei poteri impliciti). La lunga elencazione corrisponde a una concezione aggiornata della materia urbanistica, ormai divenuta funzione consistente nel mettere a sistema i diversi possibili usi e interessi incidenti sul territorio (Amorosino, Stella Richter), con particolare riguardo anche ai fattori economici e sociali. Di certo non sfugge la rilevanza dei riferimenti alla mobilità o alle infrastrutture, né la portata della scelta di comprendere nel governo del territorio «la tutela del paesaggio ». Al riguardo, tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che il successivo comma 3 tradisce una certa approssimazione del legisla- tore: infatti, è palesemente contraddittorio riservare allo Stato la tutela del paesaggio (si noti, mai menzionato dall’articolo 117) se essa è da includere nella nozione di governo del territorio, oggetto di competenza regionale concorrente. Infine, ci si potrebbe chiedere quale significato debba ora essere attribuito al termine urbanistica, che potrebbe riguardare sia la pianificazione degli usi del suolo sia, in senso più ristretto ed etimologico, la disciplina dell’urbs, dei centri abitati (Breganze). Noi propendiamo per la sostituzione tout court dell’espressione urbanistica con quella, presente nella Costituzione, di governo del territorio. Non per demonizzare l’uso della prima quanto piuttosto per evidenziare la natura polisensa e, dunque, scientificamente poco rilevante della nozione, che si presta a usi promiscui o convenzionali.
Le altre definizioni e le abrogazioni
Secondo una tecnica di redazione legislativa ormai diffusa, l’articolo 2 della Pdl 153 contiene una lista di definizioni e l’articolo 13 l’indicazione delle leggi abrogate. Per quanto riguarda le definizioni, l’elenco è per certi aspetti incompleto (non vengono menzionati, tra l’altro, i programmi di intervento di cui all’articolo 3, gli strumenti di programmazione negoziata di cui all’articolo 4, la perequazione, la compensazione) e non privo di inesattezze. La lettera a), ad esempio, identifica la «pianificazione territoriale» con la pianificazione di area vasta «che ne definisce l’assetto per quanto riguarda le componenti territoriali fondamentali» (rievocazione dell’antica dizione «linee fondamentali di assetto del territorio» ma meno elegante), mentre la successiva lettera d) precisa, tautologicamente, che il «piano territoriale » è appunto l’esito documentale del processo di pianificazione territoriale. Le lettere e) e f) distinguono il piano strutturale («piano urbanistico con il quale vengono operate le scelte fondamentali di programmazione dell’assetto del territorio») dal piano operativo («piano urbanistico con il quale vengono attuate le previsioni del piano strutturale, con effetti conformativi del regime dei suoli»). In realtà, il piano strutturale dovrebbe rappresentare il documento strategico di governo del territorio (e la strategia non coincide con la programmazione, che presuppone già una fase operativa, di gestione della realizzazione concreta delle scelte compiute), rispetto al quale il piano operativo non ha alcun vincolo di attuazione ma solo di compatibilità. Piano strutturale, piano operativo e regolamentazione urbanistica ed edilizia costituiscono la pianificazione urbanistica (lettera b), vale a dire la pianificazione funzionale e morfologica del territorio che disciplina le modalità d’uso e di trasformazione: la confusione tra gli istituti è macroscopica, poiché altro è un regolamento (vera e propria fonte del diritto di rango secondario), altro un piano urbanistico. Infine, vengono introdotti i concetti di «dotazioni territoriali» (lettera g) e di «rinnovo urbano » (lettera h): quest’ultimo è definito come l’insieme coordinato degli interventi di conservazione, ristrutturazione, demolizione e ricostruzione di singoli edifici o di intere parti di insediamenti urbani, finalizzato alla rigenerazione, riqualificazione, riabilitazione (concetto di per sé estraneo al settore), nonché all’adeguamento dell’estetica urbana. Vi è da rilevare che la nuova nozione rischia di confliggere, con effetti asistematici, sulle tipologie di interventi sull’edificato che il Dpr 380/2001 (testo unico dell’edilizia) ha mutuato dalla tradizionale disciplina dell’articolo 31 della legge 457/1978 (non abrogata). Con riferimento alle abrogazioni (articolo 13), si deve rilevare, in primis, che il tentativo, frutto di emendamenti bipartisan accolti in Aula, è assolutamente coraggioso e opportuno. Nel merito, talune disposizioni di legge vengono immediatamente abrogate dall’entrata in vigore della riforma, altre «perdono efficacia» – e la differente terminologia non è senza rilievo – in quelle Regioni che approvino normative sul medesimo oggetto. Vengono, inoltre, modificati i testi unici dell’edilizia e delle espropriazioni: per l’esattezza, viene disciplinata la decadenza e la reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio (articolo 9, commi 3 e 4, del Dpr 327/2001) ( vedi box a lato) e viene stabilita – la regola del silenzio-assenso per i procedimenti di rilascio del permesso di costruire (articolo 20, comma 9, del Dpr 380/2001), con gli inevitabili effetti negativi che essa potrà comportare nel caso di interventi di trasformazione del territorio dannosi e irreversibili.
Le competenze dello Stato
La Pdl 153 stabilisce che le funzioni statali sono esercitate attraverso politiche generali e di settore (da attuare tramite programmi di intervento), aventi a oggetto la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico- sociale, il rinnovo urbano. Non sfugga che, mentre l’ambiente e lo sviluppo economico- sociale costituiscono macroaree di intervento, l’assetto del territorio e il rinnovo urbano possono anche riguardare interventi localizzati, puntuali, rispetto ai quali risulta più arduo sostenere l’esigenza di intervento del potere centrale. Quanto alle funzioni amministrative, preme ricordare che l’articolo 118 della Costituzione attribuisce le funzioni amministrative ai Comuni, salvo conferimento ai livelli superiori di governo «per assicurarne l’esercizio unitario», secondo criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. In base alla Pdl 153, sono quindi riservate alla competenza statale le funzioni (articolo 3, comma 4) riguardanti:
- l’identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale;
- la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e la difesa del suolo;
- l’articolazione delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché (comma 5) quelle, connesse al governo del territorio, relative alla difesa e alle Forze armate, all’ordine pubblico e alla sicurezza,
alle componenti istituzionali del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, alla Protezione civile con riguardo alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (riferimento pleonastico, invero, alla luce di quanto già previsto dal comma 3).
Merita evidenziare che il comma 4 dell’articolo 3, a seguito dell’approvazione di un emendamento, riserva allo Stato anche le funzioni amministrative previste dal Dlgs 42/2004 (codice Urbani) relative alla tutela dei beni culturali, alla valorizzazione dei beni culturali di appartenenza statale nel rispetto del principio di leale collaborazione, all’individuazione in via concorrente dei beni paesaggistici, alla partecipazione alla gestione dei vincoli paesaggistici. L’articolo 4 del progetto in esame prevede, poi, «interventi speciali» dello Stato, il quale può predisporre programmi di intervento in determinati ambiti territoriali, da attuare «prioritariamente» con strumenti di programmazione negoziata, al fine di rimuovere condizioni di squilibrio territoriale, economico e sociale, promuovere la rilocalizzazione di insediamenti esposti al rischio di calamità naturali o dissesto idrogeologico e la riqualificazione di quelli danneggiati, superare situazioni di degrado ambientale o urbano.
Gli accordi con i privati
L’articolo 5 riguarda sia i rapporti tra soggetti pubblici sia i rapporti tra questi e i privati. Da un lato, esso prevede che il riparto di competenze tra i diversi soggetti pubblici, ma anche i rapporti con i cittadini, debba essere ispirato ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (già enunciati dall’articolo 118 della Costituzione), secondo criteri di responsabilità e tutela dell’affidamento (comma 1), invocandosi più in generale quel principio di cooperazione e leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni, più volte enunciato dalla Corte costituzionale e ora ribadito ai commi 2 e 7. Dall’altro, esso applica anche al governo del territorio il principio, per certi aspetti dirompente ma già codificato dalla legge 15/2005 di riforma del procedimento amministrativo, in virtù del quale «le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi» (comma 4). Tale disposizione deve essere coordinata con quella contenuta nell’articolo 8, comma 7, che ripete lo stesso principio per la pianificazione urbanistica. Per l’esattezza, si prevede che l’ente competente a pianificare «può concludere accordi con i soggetti privati […] per la formazione degli atti di pianificazione anche attraverso procedure di confronto concorrenziale, al fine di recepire proposte di interventi coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione». In tale ipotesi, pertanto, l’accordo con il privato non riguarda la fase di attuazione del piano (come accade, ad esempio, per una convenzione di lottizzazione) ma propriamente quella della sua formazione: in altri termini, la fase di assunzione della decisione pubblica. In definitiva, se la pianificazione dall’alto era in passato considerata strumento privilegiato di governo del territorio, oggi un ruolo centrale viene assunto dai mezzi contrattuali: è bene ripetere che tale mutamento non nasce con la Pdl 153 ma è l’esito di un più profondo cambiamento impresso alla funzione pubblica ormai dall’inizio degli anni Novanta e già codificato nella legge generale sul procedimento. Peraltro, il tema della negoziazione pubblico-privato pone talune questioni fondamentali a tutt’oggi irrisolte: dalla individuazione di eventuali interessi non negoziabili alla garanzia della trasparenza e della pari opportunità di accesso alla negoziazione stessa all’individuazione dei soggetti responsabili della decisione pubblica e della sua implementazione. Salve le osservazioni che ci apprestiamo a effettuare in sede di conclusioni, un elemento positivo della Pdl 153 può essere ravvisato nel tentativo di delineare taluni principi, sebbene ancora allo stato grezzo, di tale nuova modalità funzionale con l’espresso richiamo del comma 1 al criterio della responsabilità e della tutela dell’affidamento, nonché con la successiva previsione (articolo 5, comma 6) per la quale le Regioni «assicurano l’attribuzione in capo alla sola amministrazione procedente della responsabilità delle determinazioni conclusive del procedimento», con ciò attribuendo anche un rilievo più pregnante al momento dell’iniziativa procedimentale. Analogamente l’articolo 5, comma 2, prevede che «nella definizione degli accordi di programma e degli atti equiparabili comunque denominati, sono stabilite le responsabilità e le modalità di attuazione, nonché le conseguenze in caso di inadempimento degli impegni assunti dai soggetti pubblici» e quanto mai opportuno appare il riferimento dell’articolo 8, comma 7, ai principi di imparzialità amministrativa, trasparenza, concorrenzialità (rectius, concorrenza), pubblicità e partecipazione al procedimento.
Pianificazione del territorio
La Pdl 153 abbandona il sistema di pianificazione a cascata che era stato introdotto dalla legge 1150/1942 e mutua dall’esperienza anglosassone la bipartizione tra strategic plan e structural plan (piano strategico e piano operativo), peraltro già presente in numerose leggi regionali. Il nuovo piano urbanistico, quindi, è lo strumento di disciplina complessiva del territorio comunale e si attua attraverso modalità strutturali e operative. Il piano strutturale – come definito dall’articolo 2 – non ha efficacia conformativa della proprietà, mentre gli atti di contenuto operativo, comunque denominati, disciplinano il regime dei suoli (articolo 6, commi 3 e 7). Merita, inoltre, segnalare la sopravvivenza di due strumenti sovracomunali: il piano territoriale di coordinamento (in passato tanto criticato), di regola di competenza delle Province e il piano urbanistico intercomunale, che è facoltà delle Regioni disciplinare e incentivare. Quanto ai contenuti del piano urbanistico, secondo l’articolo 8, comma 3, il piano urbanistico deve recepire i vincoli paesaggistici e culturali: invero, non si comprende perché restino escluse altre categorie di vincoli, pure rilevanti, come ad esempio i vincoli idrogeologici. Inoltre, nell’affermare che «il piano urbanistico privilegia il rinnovo urbano, la ristrutturazione, l’adeguamento del patrimonio immobiliare esistente» (articolo 8, comma 3), la Pdl 153 distingue tra aree destinate all’agricoltura (ed è lecito chiedersi se esse coincidano con le aree agricole), aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili (articolo 8, comma 5). La nuova edificazione sulle prime due è limitata alle sole opere e infrastrutture pubbliche e ai servizi per l’agricoltura, l’agriturismo e l’ambiente; sulle aree urbanizzabili (dizione di per sé ambigua, che non permette di comprendere se esistano anche aree non urbanizzabili, riserve territoriali per così dire); gli interventi di «trasformazione » – e, ancora una volta, non è dato sapere se la trasformazione escluda la nuova edificazione – sono finalizzati, con formula di scarsa sostanza, «ad assicurare lo sviluppo sostenibile sul piano sociale, economico e ambientale». Insomma, un principio di risparmio del bene-territorio, da tempo maturato in ambito disciplinare, avrebbe potuto essere tradotto in una disposizione ben più vigorosa. Da ultimo, con riguardo alla disciplina dei rapporti tra livelli di piano, la logica del testo in esame appare quanto meno discutibile. Da un lato (articolo 6, comma 3), si prevede che il piano urbanistico «deve» ricomprendere e coordinare ogni disposizione o piano settoriale o territoriale incidente sul medesimo ambito. Dall’altro (articolo 8, comma 6), si afferma che il primo può modifica- re i piani territoriali o di settore, per garantire la coerenza del sistema e che la variante è automatica qualora sussista il consenso dell’ente titolare del piano modificato.
Formazione del piano urbanistico
Sebbene la Pdl 153 individui nel Comune l’ente preposto alla pianificazione urbanistica e titolare delle funzioni di governo del territorio, le competenze attribuite alla Regione sono sorprendentemente pervasive. A quest’ultima spetta, tra l’altro, definire le misure di salvaguardia (articolo 10) e stabilire forme di compensazione intercomunale, con riferimento ai «costi sociali generati dalla realizzazione di infrastrutture pubbliche che potrebbero causare squilibri economici o ambientali sul territorio» (articolo 6, comma 2): tale previsione è senza dubbio da salutare positivamente, pur nella sua genericità, e tuttavia resta incerto il coordinamento della stessa con la perequazione intercomunale di cui all’articolo 9, comma 7. Viene da chiedersi, cioè, se si tratti dell’ennesima svista redazionale (magari dovuta alla circostanza che l’articolo 6 è l’esito dell’approvazione di un emendamento), o se la riforma abbia effettivamente inteso configurare due istituti diversi come sembrerebbe suggerire l’oggetto dell’articolo 9 («compensazione e riequilibrio delle differenti opportunità riconosciute alle diverse realtà locali e degli oneri ambientali su quelle gravanti», quasi a riecheggiare un ideale di giustizia distributiva). Compete, inoltre, alla Regione la disciplina del procedimento di formazione e approvazione dei piani urbanistici e territoriali (articolo 8, comma 1). Non ci soffermeremo in questa sede su principi già acquisiti, dalla pubblicità alla partecipazione all’esame motivato delle osservazioni. Sembra, invece, più utile tentare di individuare le novità che la Pdl 153 intenderebbe apportare alla disciplina tradizionale e che possono essere raggruppate in tre categorie:
1) l’obbligo di motivazione delle scelte di piano in capo ai soggetti responsabili delle stesse (articolo 8, comma 3): è noto, infatti, che su tale obbligo è insorto un contrasto giurisprudenziale, con prevalenza dell’orientamento negativo fondato sulla natura discrezionale delle decisioni assunte in materia dall’amministrazione e sull’articolo 2, comma 2, della legge 241/1990;
2) la verifica di coerenza con gli strumenti di programmazione economica e con ogni disposizione o piano concernente il territorio (articolo 8, comma 4), che è la conseguenza della nozione ampia di «governo del territorio» che si è tentato di evidenziare in apertura;
3) la necessità che le Regioni prevedano termini perentori per la sostituzione delle previsioni urbanistiche decadute, annullate anche giudizialmente o revocate (articolo 8, comma 5), così impedendo vuoti di disciplina eccessivamente prolungati.
L’attuazione del piano: la perequazione e la compensazione
Poiché, evidentemente, la principale critica mossa al sistema di pianificazione del 1942 ha da sempre riguardato la sua scarsa efficacia in termini di attuazione delle previsioni di piano, il legislatore della riforma offre sul punto un ampio spettro di strumenti. In pratica, il piano urbanistico può essere attuato:
- con piano operativo;
- con intervento diretto, sulla base di progetti compatibili con gli obiettivi del piano strutturale;
- con sistemi perequativi e compensativi (articolo 9, commi 1 e 2).
Si noti che attuare le previsioni di piano sulla base di tali ultimi criteri è una mera facoltà («possono»). La perequazione, che si afferma nella pratica locale prima ancora che come istituto giuridico, consiste nell’attribuire diritti edificatori alle proprietà immobiliari, in percentuale dell’estensione o del valore di esse e indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso. I diritti edificatori sono poi trasferibili e liberamente commerciabili, all’interno di un ambito territoriale (non definito dal legislatore) o tra diversi ambiti territoriali. L’obiezione mossa alla predetta formulazione dell’istituto è che, andando ad incidere sul diritto di proprietà, costituzionalmente riconosciuto e garantito, il legislatore statale non può non disciplinarne in dettaglio criteri e presupposti, anche al fine di determinarne i meccanismi di opponibilità ai terzi ovvero la tutela di questi ultimi (P. Urbani). L’articolo 9, comma 2, prevede, invece, che siano le Regioni a stabilire criteri e modalità perequativi e compensativi. Allo stesso modo, è arduo valutare positivamente la previsione del successivo comma 4, che autorizza una sorta di bonus in termini di incrementabilità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani vigenti, anch’esso rimesso alle scelte della Regione. Alla compensazione, invece, quale alternativa sia alla perequazione («su terreni non ricompresi negli ambiti oggetto di attuazione perequativa») sia all’indennità di esproprio, si riferisce, sebbene non sia detto espressamente, il comma 5. Essa può consistere:
- nel trasferimento dei diritti edificatori di pertinenza dell’area su altra area di disponibilità dello stesso proprietario;
- nella permuta dell’area con altra di proprietà dell’ente preposto alla pianificazione;
- nella realizzazione diretta degli interventi di interesse pubblico o generale, previa stipula di convenzione con l’amministrazione per la gestione di servizi (una sorta di baratto aree-servizi pubblici, che suscita qualche
perplessità in tema di tutela della concorrenza).
I nuovi standard
Il Dm 1444/1968, che individua, secondo un criterio quantitativo, gli spazi da destinare al verde, alle infrastrutture, ai servizi, a utilità collettive in genere è stato oggetto di critiche per aver imposto, a livello normativo, l’osservanza di regole che dovrebbero invece essere rimesse alle buone pratiche. È stato anche notato che gli standard quantitativi sono rimasti sostanzialmente inattuati e che la riserva di determinati spazi a finalità di interesse generale comporta l’ulteriore consumo del bene territorio. Per «assicurare il passaggio da una infrastrutturazione virtuale a una attrezzatura reale del territorio» (Portaluri), quindi, anche a fronte di una rinnovata domanda di servizi da parte della collettività, la Pdl 153 prevede standard urbanistici di natura qualitativa (o prestazionale), anche in questo caso codificando quanto già in parte recepito nella pratica locale (basti pensare al piano dei servizi configurato dalla legge 12/2005 della Regione Lombardia). Per l’esattezza, spetta al piano urbanistico:
a) documentare lo stato dei servizi esistenti in base a parametri di utilizzazione;
b) precisare le scelte relative alla politica dei servizi;
c) garantire la dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici e di interesse pubblico o generale.
La prestazione di tali servizi potrà poi avvenire anche in concreto, senza connessione con le aree o gli immobili, e con il concorso dei soggetti privati, tanto che il successivo articolo 8, comma 8, parla di «piani convenzionali stipulati con soggetti privati e accordi di programma», che favoriscano appunto il recupero delle dotazioni territoriali. L’obiezione che può essere facilmente sollevata nei confronti della disposizione in commento è che essa lascia irrisolto il problema della soglia minima di dotazioni territoriali da garantire indifferentemente a tutti i cittadini sul territorio nazionale (P. Urbani), poiché la clausola di salvezza di quanto stabilito dall’articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione (livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali) è una mera formula di stile.
L’attività edilizia
Il progetto di riforma (pur con i correttivi ottenuti in sede di votazione degli emendamenti) tende ad attribuire alle Regioni il ruolo di nuovo epicentro del governo del territorio. Spetta, infatti, a queste ultime individuare le attività di trasformazione non aventi rilevanti effetti urbanistici e non soggette a titolo abilitativo, nonché le categorie di opere e i presupposti urbanistici in base ai quali la Dia può sostituire il permesso di costruire (fermo il regime sanzionatorio previsto per la concessione edilizia dalle leggi statali vigenti). La nozione di «rilevanti effetti urbanistici ed edilizi», cui viene subordinata la necessità di ottenere il titolo abilitativo, è ambigua ed è ovvio che, se la determinazione di tale soglia di rilevanza viene rimessa agli enti territoriali, senza alcuna indicazione in merito da parte del legislatore statale, lo stesso tipo di trasformazione sarà assoggettato a trattamenti giuridici diversi da Regione a Regione. Non sfugga, poi, che, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, spetterà a tale ente anche l’individuazione dell’attività edilizia consentita in assenza di piano urbanistico o nelle more dell’approvazione del piano operativo. Resta, invece, ai Comuni il tradizionale potere di vigilanza e di controllo sulle trasformazioni edilizie, mentre la previsione delle relative sanzioni è di competenza del legislatore statale, salva la facoltà delle Regioni di imporre sanzioni amministrative di varia natura
– reale, ripristinatoria, pecuniaria, interdittiva
– «nei confronti dei responsabili degli abusi più gravi» (di nuovo, la determinazione della «maggior gravità» non sarà univoca).
La fiscalità urbanistica
L’utilizzo della disciplina fiscale in materia di governo del territorio rappresenta senza dubbio una delle novità maggiormente significative del progetto di riforma ma non sfruttata in tutte le sue potenzialità. Attraverso tale strumento, possono astrattamente essere perseguite varie finalità di politica urbana (a partire dalla redistribuzione dei vantaggi e svantaggi derivanti, rispettivamente, dalle esternalità positive e negative della pianificazione) ma scopo principale dell’articolo 12 – incisivamente modificato in sede di prima approvazione – sembra incentivare l’attuazione delle previsioni di piano: basti pensare alla perequazione e alla libera commerciabilità dei diritti edificatori, che sarebbe evidentemente compromessa da un carico fiscale eccessivo sulle compravendite. La Pdl 153 non pone una disciplina diretta della materia in parola ma sceglie il metodo della delega legislativa (verosimilmente per ragioni di copertura finanziaria), istituendo, dal 2006, un fondo per gli interventi di fiscalità urbanistica presso il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Il fulcro della disposizione è quindi costituito da quei «principi e criteri direttivi», elencati al comma 2 in cinque lettere, che il Governo dovrà rispettare nella redazione dei decreti delegati. Essi possono essere raggruppati in due categorie, comunque riguardanti misure incentivanti o premiali (mai disincentivanti):
- agevolazioni relative alle imposte sul valore aggiunto, di registro, ipotecarie e catastali, sui trasferimenti di immobili o di diritti edificatori;
- misure di perequazione fiscale intercomunale e, in dettaglio, «possibilità» (mera facoltà, quindi) di redistribuire il gettito derivante dall’imposta comunale sugli immobili (Ici) tra quei Comuni che abbiano formato un consorzio per la localizzazione di attrezzature di interesse sovracomunale, volte alla realizzazione di aree per insediamenti produttivi di beni e servizi (in base alla partecipazione delle singole amministrazioni al consorzio stesso).
Rispetto alle precedenti versioni, è stata soppressa la previsione sia di agevolazioni relative all’imposta sul reddito sia di vantaggi di natura contabile (esigibilità delle imposte in esercizi successivi) sia di un regime speciale per i progetti di recupero e riqualificazione dei centri urbani. Inoltre, la forza della misura incentivante sembra inevitabilmente compromessa laddove si ammette la futura «possibilità di rideterminazione, anche in riduzione, delle agevolazioni» (articolo 12, comma 2, lettera d): privare il destinatario del beneficio fiscale di ogni certezza sulla sua entità e durata nel tempo significa indebolire la funzione del beneficio stesso. L’articolo 12 nel suo complesso ha il sapore di una promessa che non sarà mantenuta.
Conclusioni
Il progetto di riforma ha senz’altro il merito di proporre dei principi fondamentali in una materia, come il governo del territorio, da anni alla ricerca di una nuova cornice normativa, adeguata ai mutamenti di fatto già intervenuti nelle pratiche e nella legislazione regionale. Il testo approvato dalla Camera dei deputati tradisce alcune imprecisioni, che speriamo di aver contribuito a evidenziare, e soffre di certe ambiguità che è bene qui riassumere. In primo luogo, se la negoziazione – come anticipato nel commento all’articolo 5 – deve essere assunta a modalità privilegiata di esercizio della funzione pubblica di governo del territorio, sarà necessario determinare, almeno in sede di pianificazione strutturale, le regole secondo le quali essa deve svolgersi. Merita qui riassumere che la Pdl 153 parla espressamente di accordi pubblico-privato almeno in tre diversi momenti di eccezionale rilevanza pratica:
a) all’articolo 5, con riferimento, in generale, all’esercizio delle funzioni amministrative;
b) all’articolo 8, comma 7, con riguardo alla formazione dei piani urbanistici;
c) agli articoli 7 e 8, comma 8, in merito alle dotazioni territoriali.
In secondo luogo, appare criticabile sia la generalizzazione del silenzio-assenso in sede di procedimento di rilascio del permesso di costruire sia i riferimenti confusi e sparpagliati alla tutela del paesaggio, non sufficientemente apprezzato nella sua dimensione di risorsa irripetibile del Paese. Da ultimo, a dispetto dei miglioramenti ottenuti in sede di approvazione degli emendamenti, la Pdl attribuisce un potere eccessivo alle Regioni (con una sorta di neocentralismo), a scapito di città metropolitane, Province e Comuni: laddove, peraltro, ancora non è risolta la sovrapposizione tra Città metropolitane e Province. In conclusione, molto deve ancora essere fatto perché il testo della riforma nazionale del governo del territorio possa essere considerato adeguato alle esigenze della materia e agli interessi del Paese che hanno nella valorizzazione del territorio e nella qualità dello sviluppo edilizio e infrastrutturale un asset fondamentale anche sul piano economico.
Ho letto l'articolo di prima pagina di ieri, di Roberta Carlini. Quello che è successo solo due giorni fa alla Camera è gravissimo: si è approvata l'ennesima controriforma portata avanti da questo goverrno nell'interesse dei più forti. La sostituzione degli atti autoritativi - a garanzia della collettività - con atti negoziali tra pubblico e privato renderà i nostri territori soggetti a ennesime espansioni edilizie che consumeranno il poco territorio rimasto libero e lo deturperanno.
Non c'è solo un aspetto di tutela ambientale; oggi, infatti, grandi somme vengono sottratte agli investimenti, quindi alla creazione di nuova occupazione e alla modernizzazione delle infrastrutture produttive, per essere investite sulle rendite fondiarie e immobiliari. Viene da ridere, quindi, quando i «signorotti» del nord e il ceto politico che trasversalmente li rappresenta, parlano di «pericolo cinese». Purtroppo questo provvedimento è passato in sordina; nessuno, neanche l'opposizione, ha tentato una minima mobilitazione per bloccare questo ulteriore sfregio al principio di eguaglianza e al diritto che ognuno di noi ha di fruire del territorio e di trovare le stesse condizioni. Viene spazzato via il pur minimo principio di perequazione urbanistica che, se diffcilmente applicato, è pure presente nelle leggi di governo del territorio e nei piani di gestione territoriale.
In un paese come il nostro dove le deturpazioni del paesaggio e del territorio stanno facendo pagare il conto in termini di dissesto idrogeologico e di sicurezza del territorio più in generale, la legge che il governo e la maggioranza stanno approvando, può determinare un punto di non ritorno.
Il costante aumento di risorse destinate alla protezione civile, l'aumento dei consumi energetici con conseguente dispersione, potrebbero essere regolate e limitate attraverso buone pratiche applicate alla pianificazione urbanistica, questo Pdl invece elimina alla radice qualsiasi idea di sviluppo sostenibile appoggiando cialtronescamente uno sviluppo economico basato sulla rendita, sulla speculazione mettendo sotto scacco il territorio.
Che conseguenze potrà avere la legge Lupi sul territorio rurale italiano? In linea di principio, è possibile osservare come la legge sia in netta controtendenza non solo rispetto agli indirizzi dettati in materia dall’Unione europea, ma anche alle esperienze di importanti stati membri (Inghilterra, Germania, Francia). I motivi di questa affermazione sono molteplici.
In ambito europeo è oramai prevalente il punto di vista secondo il quale lo spazio rurale rappresenta nel suo complesso un bene pubblico, al di là degli assetti proprietari e delle forme di conduzione. L’attenzione è rivolta alla multifunzionalità del territorio rurale, alla capacità cioè che esso ha di produrre un flusso di beni e servizi utili alla collettività, legati non solo alla produzione primaria, ma anche e soprattutto al riciclo ed alla ricostituzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo), al mantenimento degli ecosistemi, della biodiversità, del paesaggio; al turismo, alle occasioni di ricreazione e vita all’aria aperta ecc. Il territorio rurale è in grado di compiere tutte queste funzioni perché esso costituisce la porzione largamente prevalente dei bacini idrografici, degli ecosistemi e dei paesaggieuropei, cioè delle infrastrutture ambientali che sostengono, direttamente o indirettamente, la vita delle comunità insieme a buona parte delle attività economiche, sociali, culturali.
2. I principali documenti comunitari in materia di pianificazione e ambiente (vedi ad esempio lo Schema di Sviluppo Spaziale Europeo approvato dal Consiglio dei ministri nel 1999, ma anche le varie edizioni del Dobris Assessment curate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente) considerano il consumo di suolo per espansione urbana come la principale minaccia alla conservazione delle risorse ambientali in Europa. Una possibile via di uscita viene indicata nel riciclo delle aree urbane esistenti, e nell’utilizzo del più appropriato mix di strumenti regolativi, incentivi e comportamenti volontari per governare entro limiti di sostenibilità complessiva la trasformazione urbana di aree rurali.
3. Molti stati europei, in risposta a queste esortazioni, hanno definito strategie nazionali per la tutela del proprio spazio rurale. Come racconta Jeorg Frisch nel suo articolo per Eddyburg, la Germania ha elaborato un piano nazionale per la riduzione del consumo di suolo dagli attuali 130 ettari giornalieri, a 30. La Gran Bretagna, che protegge da quasi settant’anni con le sue green belt un milione e mezzo di ettari - il 12% del paese -, ha scelto una strada differente, fissando l’obiettivo di soddisfare, mediante riciclo delle aree urbane esistenti, una quota della nuova edificazione, definita localmente, e comunque non inferiore al 50-60%. Per evitare la dispersione urbana, in Francia, le leggi sul paesaggio rurale e la montagna impongono che le nuove edificazioni avvengano esclusivamente in continuità con i nuclei insediativi esistenti. E’ superfluo aggiungere come tali strategie, pur con le debite aperture ad aspetti di negoziazione e partecipazione pubblica, presuppongono un ruolo forte della pubblica amministrazione, come garante della sostenibilità complessiva delle scelte, nonché del rispetto degli interessi diffusi, oltre che di quelli particolari degli stakeolders.
4. La strada perseguita dalla legge Lupi è diversa, e si ispira ad un contrattualismo radicale che non ha probabilmente riscontro in nessuna democrazia liberale al mondo, con le funzioni di regolazione e garanzia della pubblica amministrazione che vengono di colpo praticamente azzerate. In un simile contesto, al di là degli aspetti predicatori in materia ambientale, dai quali la legge non ha il pudore di esimersi, strategie di tutela dello spazio rurale simili a quelle adottate dalle principali democrazie europee diventano impraticabili, perché semplicemente illegittime. La logica è rovesciata: mentre in Europa il valore dello spazio rurale, nel suo complesso, rappresenta ormai l’assunzione di principio, ed è il proponente a dover semmai dimostrare la necessità impellente e non diversamente ovviabile di nuovi consumi di suolo, in Italia è il diritto edificatorio della proprietà fondiaria ad essere garantito, a spese di un “territorio non urbanizzato” che, sul tavolo dissettorio della Lupi, viene impietosamente smembrato in “aree destinate all’agricoltura, aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili” (sic! se non è zuppa è pan bagnato).
5. Tutto ciò, all’interno di un contesto nazionale di involuzione regressiva della governance ambientale, che vede le Soprintendenze in disarmo; le Autorità di bacino e gli Enti parco operare allo stremo con risorse risibili, in un regime di spoil system tra i più spietati; la sospensione di fatto delle procedure di VIA, oggi più efficientemente surrogate da una delibera del Cipe, piuttosto che di un commissario governativo alle cave o ai rifiuti. Per non parlare dell’infelice momento in cui versano le associazioni ambientaliste, impegnate a leccarsi le ferite dopo mesi di cruente e dissolutive contrapposizioni.
Insomma, il ghe pensi mi al posto delle garanzie liberali, e poi per favore basta lagne: chi ha più capacità e iniziativa alla fine prevarrà: sulle macerie fumanti del bel paese. Ne riparliamo a settembre alla Scuola estiva in Val di Cornia.
Qui sotto potete scaricare il testo in formato .pdf (il testo ufficiale dai stampati del Senato). Spero che nessuno, fermandosi al primo firnmatario della prima legge "unificate", la chiamerà "Legge Bossi". La vergogna è già abbastanza. Se poi leggete la legge e cercate di comprenderla...
01/07/2005 - Approvato ieri alla Camera il disegno di legge Lupi sul governo del territorio che apre la strada ad una nuova legge urbanistica, vera e propria riforma della vecchia legge del 1942.
Si tratta di un primo atto concreto a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, ma anche a seguito del processo di sviluppo delle autonomie territoriali e amministrative avviato già dai primi anni Novanta, che riguarda anzitutto le Regioni ma anche Province, Comuni e le future Città metropolitane.
Il Ddl definisce il governo del territorio l'insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi di tutela e valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni e la mobilità. Il governo del territorio comprende l'urbanistica, l'edilizia, i programmi infrastrutturali e la difesa del suolo.
Con un emendamento presentato da Sandri del centro-sinistra è stata inserita la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali.
Il Ddl prevede che lo Stato mantenga le funzioni di predisposizione di politiche generali e di settore. Lo Stato, d’intesa con gli Enti locali, effettua interventi speciali in determinati ambiti territoriali per rimuovere condizioni di squilibrio territoriale, economico e sociale e promuovere politiche di sviluppo economico locale sostenibile, attraverso gli strumenti di programmazione negoziata.
La Legge introduce i criteri di sussidierietà, di concertazione tra i diversi livelli di governo e di semplificazione delle procedure, come già anticipato da molte recenti legislazioni regionali.
Le regioni individuano gli ambiti e i contenuti della pianificazione del territorio e fissano regole di garanzia e di partecipazione degli enti territoriali coinvolti, per assicurare lo sviluppo sostenibile e per soddisfare le nuove esigenze di sviluppo urbano, privilegiando il recupero e la riqualificazione dei territori già urbanizzati.
Confermando il Comune quale primario titolare delle funzioni di governo del territorio, il Ddl definisce il piano urbanistico comunale lo strumento che ricomprende e coordina i piani settoriali o di area vasta, che recepisce le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici e nelle normative statali in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio.
Il piano comunale sarà uno strumento pianificatorio diviso in due livelli: strutturale e operativo.
Con un altro emendamento viene ribadita l’importanza del piano territoriale di coordinamento provinciale che rivaluta il livello intermedio di pianificazione.
Alla valutazione quantitativa della dotazione di servizi si sostituisce un criterio di tipo prestazionale
È prevista la possibilità per gli enti di proporre modificazioni ai piani settoriali o di area vasta, così da assicurare la coerenza tra gli strumenti di pianificazione: si tratta di un passo in avanti verso il superamento della rigidità del modello gerarchico della pianificazione territoriale che in passato ha spesso dato risultati deludenti.
Sono anche consentiti accordi con i privati, nel rispetto dell’imparzialità amministrativa, e della trasparenza, nonché piani convenzionati stipulati con i privati e accordi di programma per il recupero delle dotazioni di servizi pubblici.
Il Ddl introduce i criteri della perequazione e della compensazione, e prevede il trasferimento e la commercializzazione dei diritti edificatori, utilizzabili anche in alternativa all'indennizzo previsto per gli espropri.
Tra gli emendamenti del centro-sinistra approvati dalla Camera vi è quello di Mantini che assoggetta gli abusi edilizi a sanzioni penali, civili e amministrative, e consente alle regioni di prevedere sanzioni amministrative di natura reale, ripristinatoria, pecuniaria, interdittiva dell'attività edilizia nei confronti dei responsabili degli abusi più gravi.
Altri emendamenti passati sono quello che introduce il glossario nell’articolo 1, quello che riformula l’articolo 11 relativo alla fiscalità urbanistica e l’articolo finale che abroga numerose leggi vigenti.
Contrastanti i pareri dei parlamentari del centrosinistra: Mantini apprezza il testo bipartisan approvato ma è critico sulle carenze della legge in termini di trasparenza dei rapporti fra privati e PA; Iannuzzi ritiene che la legge si limiti agli aspetti urbanistici trascurando una visione organica della tutela del territorio. Per Folena la legge non tutela l’ambiente e favorisce i poteri forti.
Confermata la delega al Governo per riscrivere le norme sulla fiscalità.
Ora la legge passerà all'esame del Senato.
Il sito Edilportale, con i links ad altri documenti (f.b.)
Governo. La Camera approva la legge “Lupi” sulla riforma urbanistica. La tutela del paesaggio e dei beni culturali si sottomette agli interessi economici. Nell'indifferenza generale
In questo periodo si era finalmente rotto il muro del silenzio sui temi della città. Da qualche settimana i riflettori mediatici si sono accesi su un gruppo di giovani e rampanti “immobiliaristi” e sulle enormi ricchezze accumulate in questi anni.
Addirittura si è iniziato a sentire la parola palazzinaro al posto del più paludato immobiliarista: una definizione certo più sommaria, ma che rende perfettamente il senso di quanto sta avvenendo. Mentre una parte della popolazione non ce la fa a sopportare i prezzi del mercato immobiliare (sono spesso i Prefetti a lanciare l’allarme sul diffuso dramma sociale degli sfratti) alcuni disinvolti operatori ne ricavano ricchezze con cui tentano di acquisire banche e giornali.. L’impoverimento di molti è compensato dall’arricchimento di pochissimi: una enorme bolla speculativa ha riempito le casse di nuovi ricchi e ha fatto il deserto della vita della fascia di popolazione meno difesa.
Ma non è solo con la bolla speculativa che si spiega l’ascesa dei palazzinari: da molti anni vengono infatti sfornate leggi che semplificano loro la vita, permettendo alla proprietà immobiliare di fare tutto ciò che vuole. Del resto nel programma elettorale dell’attuale governo era scritto “padroni a casa propria”, e questo concetto è stato poi arricchito da vergognose svendite del patrimonio pubblico e condoni.
In buona sostanza si è privatizzato il futuro della città: l’urbanistica è stata sistematicamente cancellata e sostituita dall’iniziativa della speculazione fondiaria. In questo clima, la Camera dei Deputati ha approvato la cosiddetta legge “Lupi”, dal nome del primo firmatario della proposta di riforma urbanistica. Essa, con l’appoggio esplicito dell’Istituto nazionale di Urbanistica e la pressoché totale indifferenza di molta parte dello schieramento ulivista, completa il percorso legislativo iniziato in questi anni. I piani urbanistici da atti pubblici diventano strumenti da costruire insieme alla proprietà immobiliare. Gli standard urbanistici, e cioè la storica conquista degli anni ’70, sono sostituiti da oscuri concetti “qualitativi” che nascondono un’ulteriore compressione dei diritti collettivi. La tutela del paesaggio e dei beni culturali è messa in subordine agli interessi economici.
Un brutto colpo per i progressisti, dunque. E un grande regalo per gli immobiliaristi-palazzinari.
Approvata alla Camera la legge Lupi sul "Governo del territorio" con il voto contrario del centrosinistra e di Rifondazione. Ora si sposta al Senato la battaglia per impedire che questo vero e proprio scempio della cultura della pianificazione e della programmazione pubblica del territorio diventi legge dello Stato. Molti, e a proposito, l'hanno chiamata "la legge 30 dell'urbanistica" cogliendo appieno la forza precarizzatrice di ogni norma di garanzia e di tutela del territorio che il testo contiene. Certo si viene da anni di picconate robuste alla pianificazione pubblica, da anni di "urbanistica contrattata" con gli interessi immobiliari e la rendita fondiaria, e quindi qualcuno potrebbe dire che questa legge altro non è che un compendio di consuetudini già consolidate nelle leggi regionali e nella quotidiana deregolazione. Ma questa rappresenta un di più, un salto di qualità, una codificazione stabile non solo del principio liberista. Essa rappresenta la sanzione che la rendita fondiaria (e i suoi accoliti cementificatori) diventa il soggetto che propone e dispone delle trasformazioni territoriali e urbane. Esattamente il contrario di ciò che ha fatto la cultura urbanistica democratica che ha sempre individuato nella rendita l'avversario da battere o almeno da piegare per garantire un uso del territorio consono agli interessi della collettività e dell'ambiente. L'interesse pubblico, la salvaguardia del territorio, la preziosa difesa dell'ambiente naturale ed urbano, una volta diventati "merce", possono essere trasformati e privatizzati pagando. E figuriamoci quale baluardo possono opporre i Comuni, sempre alla disperata ricerca di euro per far quadrare i bilanci taglieggiati dalla contrazione dei trasferimenti dello Stato e dall'aumento delle competenze! Abbiamo già detto che la ridefinizione culturale, disciplinare e legislativa dell'interesse pubblico delle trasformazioni urbanistiche è punto importante di un programma alternativo all'uso liberista della risorsa territoriale e urbana, ma questa battaglia contro la legge Lupi ha un ulteriore significato generale: impedire la saldatura fra rendita finanziaria e rendita fondiaria, entrambe liberate da lacci e laccioli e dunque libere di esplicare il massimo del loro interesse parassitario. A guardare le ultime imprese (banche, media ecc) dei rentiers d'assalto palazzinari e non, viene il dubbio che l'Italia non sia più una Repubblica fondata sul lavoro, ma sulla rendita. Eppoi ci si stupisce se uno si butta a sinistra.
Postilla
Ma quanto è diversa la sinistra? Che cosa ha fatto la sinistra per fermare la legge Lupi? Una volta, aveva raccolto "le bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango", adesso sembra aver dimenticato la verità liberale della necessità di regolare il mercato.
L’ Italia è già alla sete dopo poche settimane di caldo, col Po vicino ai minimi storici di due anni fa. Ma perché dovrebbe avvenire qualcosa di diverso visto che siamo tanto impegnati a "impermeabilizzare" il suolo italiano spalmando cemento e asfalto dove prima c'era la campagna? Perché dovrebbe avvenire qualcosa di diverso visto che la Camera ha appena licenziato - nell'assordante silenzio, mi pare, delle stesse associazioni ambientaliste e di tanta parte del centrosinistra - una nuova legge urbanistica che, travolgendo ogni argine, potenzia i meccanismi per i quali la superficie agricolo-forestale viene "mangiata" a tutta forza da cemento+asfalto? Una legge, questa, che l'on. Pier Luigi Mantini della Margherita ha definito, tutto sommato, "bipartisan", e che, non a caso, è stata accompagnata da un silenzio pressoché generale che suona vergogna per la residua civiltà urbanistica italiana.
Solo qualche cifra per capirci meglio. Fino a mezzo secolo fa il Bel Paese aveva circa 28 milioni di ettari coperti da boschi, pascoli e campagne. Nel 2000 ce ne eravamo mangiati più di 8 milioni. Siamo infatti scesi a 19,6 milioni di ettari, con una pazzesca accelerazione. Vi sono anni in cui ci "mangiamo" oltre 100 mila ettari. Il che vuol dire che, in capo ad un decennio, sparirà sotto la coltre cementizia una campagna intatta più grande di tutto l'Abruzzo. Del resto, se scendete in aereo su Venezia, potete constatare come la campagna non ci sia più fra Treviso, Mestre e Padova. Restiamo un attimo qui perché il professor Antonio Rusconi, idraulico dell'Università di Venezia (cito dal "Sole 24 Ore" di martedì), ridisegnando la pianura veneta, ha scoperto che in Veneto le acque sotterranee si sono abbassate di 10-15 metri e le risorgive sono quasi scomparse. In tal modo,"dal mare - afferma - le acque salse risalgono i fiumi per 30 e anche 40 chilometri e nel sottosuolo scacciano l'acqua dolce lungo tutto il litorale padano e romagnolo". Stiamo pompando acqua a tutto spiano (specie per l'agricoltura intensiva), trivelliamo pozzi di continuo, "rubiamo" l'acqua ai fiumi e alle falde, usiamo acqua potabile anche per fabbriche e campi, insomma la buttiamo via. Perché ? Perché siamo degli insensati, perché "ciascuno è padrone a casa sua", perché mille litri d'acqua costano niente, come una telefonata dal cellulare. A Roma - dove un metro cubo d'acqua potabile ha un prezzo sei volte più basso che a Berlino, quattro volte più basso che a Marsiglia, pari alla metà comunque della città europea più a buon mercato (Bristol) - si consuma ovviamente il doppio e anche più del resto d'Europa. Pure a Milano o a Torino gli sprechi galoppano Le cose vanno meglio, guarda caso, in città come Forlì, Ferrara o Pistoia dove l'acqua ha tariffe europee.
Questi sprechi assurdi di risorse idriche hanno impoverito le falde sotterranee, in modo spesso grave. Falde che le piogge non alimentano più come un tempo. Perché ? Perché stiamo "impermeabilizzando" i nostri suoli facendo avanzare cemento e asfalto nelle campagne. Così, l'acqua piovana - che cade più violenta - non filtra, non penetra, non resta più, ma scivola via più veloce in superficie, facendo disastri. Due danni in uno.
Dobbiamo ripensare l'intero uso delle acque. Dobbiamo ripensare l'intero uso del territorio. Dobbiamo risparmiare entrambe le risorse primarie : l'acqua e la terra. Farne grande, rigorosa economia. E invece la nuova legge urbanistica, primo firmatario il formigoniano Maurizio Lupi (Forza Italia), è destinata ad accelerare gli sprechi folli in atto. Essa infatti cancella sia i piani regolatori generali quali "atti autoritativi", sia gli standard minimi di verde, scuole, sport, sanità, cultura, ecc. previsti nei PRG, dalla legge-ponte in qua. Cancella la città dei cittadini e la sostituisce con la città degli immobiliaristi coi quali i Comuni contratteranno i loro piani (si fa per dire). Non solo : stracciando una tradizione che viene dalle leggi Bottai del '39 e dalla legge urbanistica del '42 passando per la legge Galasso e per le normative regionali, la legge Lupi esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio. "Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del Paese, avviate coi condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare". Cioè i Ricucci, i Coppola, gli Statuti di turno. Oltre ai loro fratelli maggiori. Così ha commentato, giustamente tagliente, l'urbanista Eddy Salzano animatore di un sito web aggiornato e combattivo su queste materie (Eddyburg). Nel silenzio dei siti ambientalisti, purtroppo, dove ci si balocca sovente con questioni laterali. Un tempo la sinistra aveva almeno una certezza in economia : che fosse indispensabile tagliare la rendita fondiaria e premiare il profitto d'impresa. E adesso ? La legge Lupi va al Senato : c'è tempo per uscire da questo silenzio rosso di vergogna, e per dare almeno battaglia, apertamente, contro la barbarie e per la salvezza di quanto resta del Bel Paese.
"Ci sono voluti 63 anni, ma alla fine ce l’abbiamo fatta da oggi l’Italia ha una nuova legge urbanistica".
Così si espresso Maurizio Lupi, responsabile infrastrutture di Forza Italia, commentando il provvedimento che riforma la legge urbanistica del 1942. Lupi ha sottolineato che "si tratta di un passaggio storico: mai prima d’oggi la Camera era riuscita a varare un testo di riforma nonostante se ne discuta da oltre 20 anni. La parola passa ora al Senato, ma il clima di collaborazione con l’opposizione in cui il testo e’ nato pone le basi per andare avanti".
Nel menzionare gli aspetti innovativi della legge, Lupi ha ricordato che "innanzitutto, si tratta di una legge di principi che fa un concreto passo avanti dopo la riforma del Titolo V della Costituzione". Un testo, prosegue il deputato, "snello (solo 11 articoli) che definisce in maniera inequivocabile cos’e’ il governo del territorio riorganizzando le competenze tra Stato, Regione e Comune. E’ una legge che mira alla riqualificazione e al rilancio del territorio attraverso l’applicazione concreta del principio di sussidiarieta’ orizzontale e verticale" e che porta "finalmente ad una semplificazione amministrativa. Una vera e propria rivoluzione - conclude - per un settore che, da 63 anni, aspettava una svolta".
Dal sito di Forza Italia
Pasolini dell’Onda, Desideria; presidente Italia Nostra
Salzano, Edoardo; urbanista
De Lucia, Vezio; urbanista
Bevilacqua, Piero; storico dell’ambiente
Emiliani, Vittorio; giornalista
Pallottino, Gaia; segretario generale di Italia Nostra
Barbera, Giuseppe; docente di agraria Università di Palermo
Gisotti, Giuseppe; presidente della SIGGEA
Magnaghi, Alberto; docente dell'Università di Firenze
Canestrini, Francesco; consigliere nazionale di Italia Nostra
di Gennaro, Antonio; agronomo
Mazzanti, Raffaele; architetto
Ghio, Mario; urbanista
Corona, Gabriella; direttore de “I frutti di Demetra”
Calzolari, Vittoria, urbanista
Luciani, Domenico, architetto
Stoppiello, Assunta; archeologo
Lugli,Francesca; archeologo
Taschini, Franco; Coord. Uilpd-Bac
Barbera, Mariarosa; archeologo Direttore
Micella, Marisa; Storico Dell’arte
Zapattini, Annalisa; archeologo
Ghini,Giuseppina, Direttore archeologo
Alvino,Giovanna, Direttore archeologo
Mazzanti, Raffaele; architetto
Frisch, Georg Josef; architetto
Scoppetta,Cecilia; architetto
Guccione,Matteo; Paesaggista
Mannocci,Roberto; architetto
Leone, Manfredi; architetto
Foschi, Marina; architetto
Marini, Laura; Insegnante
Mastrangelo, Virna; architetto Paesaggista
Castelli, Piero; architetto
Jesu, Lucio; Chimico
Podestà, Valentino; urbanista
Giannone, Giovanni; Dipendente Comune Palermo
Valiante,Maria Teresa; Pensionata
Botti, Federico; agronomo
Taverna, Domenico; Ingegnere
De Vito, Giuliana; architetto Regione Lazio
Bonetti, Claudio
Foresta, Laura; Funzionario Min. Bb.Cc.
Cesi, AdeleFunzionario Min. Bb.Cc.
Olivieri Massimo,
Di Leo,Raffaella
Di Monaco, Paolo; Libero professionista
Tantillo, Caterina,
Di Brina, Maria Antonietta; Dip. Sovraintendenza Di Roma
Tronca, Pietro; Dip. Mibac
Pizzo, Massimiliano; Studente Architettura
Pirozzolo, Tilde; studentessa architettura
Osio, Arturo
Corsini, Maria Grazia; Docente Architettura
Citti, Sara; architetto
Testana, Carlo; architetto
Marini, Antonella universita’ L’aquila
Scipioni, Angelo; Insegnante
Di Glulio, Alessio, Ilex Sas
Brancucci, Gerardo; prof. universita’
Castellano, Anna Maria; bologa
Maina, Giovanni ; architetto
Riccardi, Luigi; formatore
Furlani, Alessandra; agronomo
Camiz, Alessandro; architetto
Schivazappa, Emiliano, giurista
Priore, Riccardo; giurista del paesaggio
Pivo, Giovanni; agronomo
Agnoletti, Mauro; prof. universita’
Berdini, Paolo, urbanista
Guarrera, Luigi; giornalista
Romeo, Maria; Mipaf
Staccioli,Sara; storico arte Mibac
Amendola, Gianfranco; magistrato
Panaiotti, Maria Letizia; Italia Nostra
Pozzoli, Dante; Italia Nostra
Salvatore, Ciaravino; Italia Nostra
Lo Savio, Giovanni; Italia Nostra
Bettinelli, Rossana; Italia Nostra
Parolini, Cecilia; archeologo
Leone, Giorgia; archeologo
Gianni, Silvia; archeologo
Coccia, Marta; archeologo
Tocci, Michela; Storico dell’arte
Lo Russo,Rosa; Storico dell’arte
Cosentino, Rita; direttore
Dolciotti, Anna Maria; archeologo
Rocco, Giuliana; soprintendente Beni Archeologici
Migliari, Ugo
Cervellati, Pier Luigi; professore ordinario di urbanistica
Russo, Mario; archeologo
Gabriele, Giovanni; Italia Nostra
La Monica, Denise; Lab. int. ricerca, gestione e progettazione per il patrimonio culturale
Grassi, Paolo
Iaccarino, Maria Rosaria
Antonetti, Giancarlo
Antonetti, Renato
Antonetti, Giovanni
Teani, Mauro; Italia Nostra
Quaranta, Gustavo; Ingegnere
Liguori,Teresa; giornalista
Macri’, Salvatore; architetto
Pazzagli, Rossano
Guarino, Giorgia; urbanista
Bambara, Girolamo; Italia Nostra
Villa,Floriano
Rozzi, Renato; urbanista
Ferretti, Piero; architetto
Verlato, Antonio; Italia Nostra
Tesini, Federica; Italia Nostra
Zucconi, Massimo
Valsecchi, Alessio; Impiegato
Malacarne, Andrea; architetto
Fatarella, Stefano; funzionario urbanista pubblico
Gibelli, Maria Cristina; docente universitario
Predonzan, Dario; responsabile settore territorio WWF Friuli Venezia Giulia
Brenna, Sergio; docente di Fondamenti di urbanistica - Politecnico di Milano
Bottini, Fabrizio; studente
Martino, Fausto; architetto (già assessore urbanistica di Salerno)
Lironi , Sergio; architetto
Materazzi, Francesca; architetto
Caserta, Sergio; consigliere della Provincia di Bologna, dirigente d'azienda
Baffoni, Ella (Maria Gabriella); giornalista
Martino, Armando; tutor Laboratorio di analisi delle trasformazioni del paesaggio agrario Politecnico di Milano
Sabelli, Rodolfo ; architetto, (già assessore all’urbanistica Comune di Eboli)
Cecchini, Arnaldo "Bibo"; professore straordinario di Tecniche Urbanistiche, ; Università di Sassari
Berlingò, Irene; presidente Assotecnici
Longo, Luigi; urbanista
Scano, Luigi; segretario generale Polis
Rina, Eduardo; docente di Diritto e economia. consigliere comunale di Conegliano. Membro del comitato direttivo nazionale dell'ANCI- Coordinatore provinciale di Italia dei valori di Treviso
Carlini, Carla Maria; funzionario pubblico
Vettoretto, Luciano; direttore del corso di laurea in Scienze della pianificazione urbanistica e territoriale, ; Università Iuav di Venezia
Samuel, Christian; consulente informatico
Marchetta, Manlio; professore associato di urbanistica; Università di Firenze
Macchi, Silvia; professore associato di urbanistica all’Università di Roma La Sapienza
Scandurra, Enzo; professore ordinario di urbanistica all’Università di Roma La Sapienza
Ciccone, Filippo; professore associato di urbanistica all’Università di Cosenza
Paoletti, Riccardo; avvocato (già ass. all’urbanistica di Imola)
Ravaioli, Carla; giornalista e saggista
Simonetta Melani;
Frasca, Simone; illustratore
Guermandi, Maria Pia; docente all’università di Pavia, dirigente IBC Emilia Romagna
Zambrini, Antonio; farmacista-erborista
Bellucci, Patrizia; professore associato, Università di Firenze resp.laboratorio di linguistica giudiziaria
Roggio, Sandro; architetto
Baioni, Mauro; urbanista
Radicioni, Raffaele; architetto
Bruschi, Carlo; presidente Associazione italiana architettura del paesaggio
Indovina, Francesco; professore ordinario di urbanistica Università IUAV di Venezia
Gambino, Roberto; professore ordinario di urbanistica Politecnico di Torino
Tutino, Alessandro; architetto. già presidente dell’INU
Meneghetti,Lodovico; Politecnico di MilanoChiezzi, Pino; consigliere regionale Piemonte
Poggioli, Fabio; assessore all'urbanistica del Comune di Ravenna
De Biasio Calimani, Luisa; architetto
Schiavo, Flavia; architetto, Università di Palermo
D'Agostino, Roberto; assessore alla Pianificazione strategica e ai progetti Urbani - Venezia
Cannarozzo, Teresa; professore ordinario di urbanistica dell’Università di Palermo
Giura Longo, Tommaso; professore ordinario di progettazione architettonica Università Roma3
Francalanci, Ernesto L.;
Soldi, Gianluca; Quadro direttivo
Cannata, Pietro Giuliano; segretario generale Autorità di bacino Sarno
Iannello, Carlo ; funzionario
Cembalo, Fabrizio; agronomo
di Gennaro, Carlo; musicista
Liotti,Guido ; facilitatore processi di pianificazione partecipata - WWF
Nappi, Raffaeli; architetto pianificazione ambientale
DeStefano, Paolo; architetto
Tatafiore, Marco; architetto
Landolfo, Luca; rappresentante
Escalona, Francesco; architetto
Volpe, Simonetta; architetto
Bellofatto, Fabia; agronomo
Manna, Pietro; agronomo
Calabrese, Alberto; architetto
Travaglini, Laura; architetto
Vingiani, Simona; geologa
Cosenza, Giovanni; architetto
Napoletano, Paola; geologa
Trisorio, Paola; architetto
Lafratta, Rocco; geologo
Benevelli, Rossana; achitetto
Cuomo,Francesco; funzionari servizi culturali Regione Campania e docente universitario
Bertolotto, Luciano; pensionato
Bianchi, Flavia; responsabile urbanistica Legambiente Piemonte
Malacrino Claudio; architetto, socio effettivo INU Piemonte
Paradisi, Maurizio; tecnico infrastrutture
Camagni Roberto, professore ordinario di Economia urbana, PoliMi
Sacerdoti, Michele; membro delle Commissioni Edilizie dei Consigli di Circoscrizione 1,2,3 del Comune di Milano
Fioravanti, Marta; Architetto
Fioravanti, Marta; Architetto
Lazzaroni, Lucia; Funzionario pubblico
Bonomi, Antonio; architetto, consigliere comunale di Calderara di Reno
Raminella, Elisabetta; studentessa
Bazzoli, Maria; pensionata
Folli, Giovanni giornalista
Chiarante, Giuseppe; senatore (già presidente del Comitato nazionale per i beni culturali)
Tamburini, Giulio; docente universitario
Bilotta, Giuliana; architetto (dipendente pubblico)
Giannì, Roberto; dirigente Dipartimento pianificazione urbanistica Comune di Napoli
Dal Piaz, Alessandro; Professore straordinario di urbanistca, Università Federico II di Napoli
Blecic, Ivan; ricercatore universitario
Bettio, Alessandro; Architetto
Milano, Dario
Braccini, Fabrizio
Zentile, Guido
Marrocco, Anna Maria
Fioravanti, Marta; architetto
Attardi, Raffaele; già Sindaco di Sorrento
Tognoni, Elena; architetto
Valecic, Dusana; architetto
Palermo, Giuseppe; architetto
Poschi Meuron, Luca
Bevilacqua, Valeria
Daima, Eleonora Rossella
Panella, Giovanni Emanuele; giornalista
Pierfederici, Graziella; ;Consigliera Provinciale di Livorno gruppo Rifondazione Comunista,
Landsberger, Martina, architetto
Consonni, Giancarlo, ordinario di urbanistica
Tonon, Graziella, straordinario di Urbanistica
Rizzi, Sergio; architetto, consulente WWF per l'Isola d'Elba
Rossari, Augusto; Professore di Storia dell'architettura, Dip. di Progettazione dell'architettura PoliMi
Barban, Paola, architetto
Siniscalchi, Claudio; ambientalista (già Presidente Legambiente Trieste)
Tognoni, Elena; architetto
Palermo, Giuseppe; architetto
Terrasi, Rene’; Impiegato C.I.
Trombi, Celestino; Pensionato
Tomei, Fabio; Ingegnere
Casentino, Giovanna; Universitaria
Crivellari, Roberto; Operaio
Tra Bi, Maxime; Operaio
Ardizio, Claudio; Ingegnere
Vallino, Guido; Urbanista
Carabelli, Anna; Docente Universitaria
Pozzato, Bruno; Sindacalista .
Zocchi, Pier Alfonso Pensionato
Cattani, Osvaldo; Dir Coop Sociale.
Signorelli, ..; Consigliera Quartiere
Callea, Maria Pia; . Operatrice Culturale
Chiarino, Ferruccio; Prom. Finanziario
Pedicone, Lorenzo; Libero Professionista
Ferrarsi, Lucia; Architetto
Colombo, Paolo; Architetto
Raimondi, Angelo; Architetto
Gambini, Laura; Architetto
Pegno, Guido; Architetto
Migliaretti, Marco;
Pacelli, Alberto; Coord. Ass. Idee Di Futuro
Pangaro, Rocco; urbanista,
Mazzette Antonietta; ordinario di Sociologia Urbana, Università di Sassari,
Dino, Giovannini; Docente Universitario
Sembrano, Felicia; architetto Funzionario ufficio urbanistica Provincia di Napoli
Zito, Vincenzo; Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto per le Tecnologie della Costruzione - Sezione di Bari
Ferrari, Antonella; architetto
Plata, Marco; architetto, Presidente Ordine Architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori province di Novara
Moraca, Mario; architetto dirigente Dipartimento pianificaz. urbanistica Comune di Napoli
Greppi, Claudio; docente di Geografia, Università di Siena
Russo, Saverio; docente di Storia moderna, Università di Foggia
Barbagli, Massimo; docente di Economia ed estimo territoriale
Cellamare, Carlo; professore associato
Rauszer, Patrice; architecte
Sergas, Paolo; architetto case popolari
Tortolini, Matteo; Assessore Urbanistica del Comune di Piombino
Mura,Gianni; ingegnere libero professionista
Palmieri, Walter; Ricercatore CNR ISSM Napoli
Cau, Francesca; architetto
Di Domenico, Alfonso; studente in Pianificazone
Janni, Leandro A.
Celenza, Michele
Pedri, Silvia
Debernardi, Paolo
Mungo-Buffaut, Liliale
Olivero, Michela
Gandolfi, Claudio
Marranci, Stefano
Iodice, Enzo
Macuzzi, Alessandro
De Marchi, Emilia; Architetto
Cardano, Anna; Insegnante
Gatti, Valentina; Avvocato
Gregis, Paola; Ambientalista
Del Savio, Giovanna; Sindacalista
Pizzo, Renzo; Impiegato
Fiocchi, Massimo Universitario
Rossi Doria, Bernardo; professore ordinario di Urbanistica Università di Palermo
Camerlingo, Elena; urbanista, dirigente Comune di Napoli
Tozzi, Valerio; avvocato, docente Università di Salerno
Bonardo, Vanda; Presidente Legambiente Piemonte e Valle d'Aosta
Madau, Marcello; archeologo, docente di beni culturali e ambientali (Accademia di Belle Arti di Sassari)
Circolo Ambiente Ilaria Alpi, Como
Boucher, Frédérique; Urbaniste, Bruxelles,
Girardi, Franco ; urbanista
Viviani, Silvia; urbanista
Zanazzo, Marina; archivista storica
Nicoletti, Francesco Paolo; geologo
Serra, Daniela; Ingegnere , funzionario MiBAC
Fumagalli, Roberto; Candidato alle elezioni Regionali della Lombardia nella Circoscrizione di Lecco come indipendente nella lista di Rifondazione Comunista
Bodrato, Carla; architetto
Carpano, Ida; architetto
Lucco Borlera, Pier Giorgio; architetto
Sutto, Riccardo;architetto
Gandolfi, Cinzia; architetto Regione Toscana,
Ferrara, Guido; ordinario di Architettura del paesaggio Universita' di Firenze,
Campioni Ferrara, Giuliana; presidente Federazione associazioni professionali ambiente e paesaggio
De Luca, Giuseppe, professore associato di Urbanistica
Cristiano, Massimo; ingegnere
De Tullio, Gianfranco; ingegnere
Soda, Giovanni; ingegnere
Turroni, Sauro; senatore
Agnesa, Gianni ingegnere
Carfi' Daniela - architetto - patente di guida n. RG2054074K
Agnelli Luca Biologo
Bozzoni Samuela medico
Lucini Gianni giornalista
Colella Garofalo Igino dirigente industria
Costa Cecilia Universitaria
Tait Claudio consulente formazione
Gulli’ Nicola funzionario trenitalia patente
Bossi Ornella grafica
Ginammi Bruna fotografa
Salzano, Francesco; Impiegato
Sanna, Rino consulente
Agazzi, Emilia, Architetto
Boldo. Alessandro, architetto,
Salzano, Maria, Architetto
Porta, Franco ( progettista solare)
Figura, Domenico.
Rossi, Carla; geometra
Scalia, Lorenza; architetto
Cofano, Vita Maria Rosaria Architetto
Ferraresi, Maddalena architetto,
Rinaldini, Antonio Architetto
Clemente, Marino Perito Meccanico, Assistente Tecnico nella Scuola
Pretto, Giuseppe Cicloambientalista
Angiulli, Anna Studente
Bellagamba, Piergiorgio urbanista,
Cabinato, Lorenza Architetto
Steri, Emanuela Impiegata
Merletto, Vittorio
de Crecchio, Michele
Gabriele, Giovanni
Mondello, Antonia
Sgura, Marcella
Rui, Irene
Tomasella, Paola
Mignoni, Severino
Malni, Marta
Grillo, Francesco Paolo
Merletto, Gerardo; Docente di Economia dei trasporti, Politecnico di Milano, Università di Roma - Tor Vergata
Paretti, Marco; Impiegato
Rossini, Elena; architetto
Salvetti, Tiziana; architetto
Valente, Luigi; architetto
Damiani, Piero, libero professionista,
Bonomi, Camilla, impiegata
Balconi, Annamaria, libero professionista,
Abaterusso, Alessandro, architetto
Manconi, Piero assessore ambiente provicia di Lucca
Burani, Stefano, architetto libero professionista,
Cavina, Andrea;
Talone, Antonio;
Giaretta, Gabriella; insegnante;
Puppini, Chiara, insegnante;
Zulian, Annabella; impiegata;
Palazzi, Antonella; bibliotecaria;
Rubini, Carlo; insegnante,
Dussin, Paola; insegnante;
Connolly, Mary; insegnante;
Cavasin, Carolina; impiegata; CI AH 8235949
Di Sopra, Maria Maddalena; grafica;
Di Sopra, Entico,
Bullo, Carlo;
Salvardi, Laura;
Girotto, Renata;
Zago, Nicoletta;
Poropaz, Francesca;
Baruffali, Marina;
Pattaro, Francesca;
Serio, Dario;
Zamboni, Carla;
Crivellari, Cinzia;
Martinello, Luigi;
Cacciari, Paolo; giornalista;
Rizzi, Laura; funzionario PA,
Bandini, Ornella; insegnante;
Ravanne, Fabio; insegnante;
Trevisan, Gianni; pensionato;
Pesci, Teresa; pensionata,
Padovani, Graziella; consulente;
Baroni, Luisa; impiegata;
Della Bella, Giulia; pensionata;
Benedet, Bianca; pensionata;
Vallin, Daniela; traduttrice Unisco;
Scarpa, Cristiana; istr. direttivo PA;
Caramelli, Eliana; consulente;
Memo, Caterina; impiegata;
Scarpa, Silvia; impiegata.
Sassari, 14 marzo 2005 - Ricevo il programma di un seminario a cura della Fondazione Giovanni Astengo sulla perequazione urbanistica tra teoria e pratiche. Te lo invio perché tu possa apprezzare non tanto gli argomenti delle lezioni che ripropongono uno schema noto. Quanto il senso che si attribuisce al seminario in questa temperie, tra perequazione urbanistica e legge Lupi. Nella presentazione si afferma che la perequazione è uno dei contenuti essenziali della proposta di legge all'esame della Camera dopo il dibattito in Commissione VIII (?). E il pronostico è che, per le ampie convergenze politiche, l'approvazione delle legge Lupi possa essere rapida.
Non so quanto sia fondata l' opinione sui tempi -quattro salti in padella, ma ciò che colpisce è che si dia per scontato che il governo del territorio debba evolvere secondo l'idea che nelle pagine di questo sito è stata definita sconveniente per i cittadini e vantaggiosa per la rendita. Nessun dubbio, proprio nessun dubbio da parte della Fondazione che mi pare esprima un'altra molto ma molto distante convinzione.
Alle "ampie convergenze politiche" l'INU ha certamente contribuito. A me stupisce un po' che la Fondazione Astengo aderisca così totalmente all'attuale linea del gruppo dirigente dell'INU. Scopro che, nonostante le mie dimissioni dall'INU, io sono ancora membro del Comitato scientifico della Fondazione, e provvedo immediatamente a dimettermi. Qui sotto il programma del seminario e la mia lettera di dimissioni
Governo del territorio, il Consiglio provinciale a maggioranza contesta
il progetto di legge presentato
dall’onorevole Maurizio Lupi di Forza Italia
Il progetto di legge “principi in materia di governo del territorio”, in discussione alla Camera dei deputati in questi giorni, appare potenzialmente in contrasto con alcuni articoli della Costituzione italiana. È quanto afferma un ordine del giorno presentato da Verdi, PdCi, Rc, Margherita e Ds e approvato ieri dal Consiglio provinciale con 18 voti favorevoli (Ds, Margherita, Verdi, Rc, PdCi) e 3 contrari (An e FI). Il progetto di legge, sostiene il documento, “indebolisce il principio di governo pubblico del territorio che rappresenta una delle principali conquiste del pensiero liberale e accomuna tutti i paesi sviluppati”.
Gli articoli della Costituzione che, secondo il documento, vengono messi in discussione dal progetto di legge sono, in particolare, l’art.9 “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”; l’art.117 (lettera s), lo Stato ha legislazione in materia di “Tutela dell’ambiente dell’ecosistema, dei beni culturali”; l’art. 118 “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
L’odg ritiene il progetto di legge un “atto di abdicazione rispetto ai poteri e ai compiti degli enti territoriali a rappresentanza generale, così come sanciti dalla Costituzione della Repubblica e dalle vigenti leggi dello Stato; un passo indietro rispetto al ruolo delle Province in materia di pianificazione e governo del territorio, che contraddice il decreto legislativo 267 del 2000, che ha affidato alle Province, attraverso la legge regionale, l’approvazione e l’adozione del Ptcp; un palese attacco al paesaggio italiano e ai suoi valori; una pericolosa e incontrollata apertura alle logiche di mercato, con il rischio che queste prevalgano sui diritti di cittadinanza e l’interesse generale”. Pertanto, il documento invita innanzitutto il Parlamento a tenere conto di queste osservazioni e ad adottare le modifiche necessarie e la Regione a non abbassare la guardia in tema di governo del territorio e tutela del paesaggio”.
Il Consiglio comunale di Casalecchio al Reno “ritiene il Progetto di Legge Princìpi in materia di governo del territorio un atto di aggressione verso i poteri e i compiti degli enti territoriali a rappresentanza generale, così come sanciti dalla Costituzione della Repubblica e dalle vigenti Leggi dello Stato; una pericolosa e inaccettabile apertura alla negoziazione di diritti di cittadinanza con le logiche di mercato; una palese attacco al Paesaggio italiano e ai suoi valori” valuta “che il Progetto di Legge Princìpi in materia di governo del territorio risulta essere dirompente sotto tutti i profili: ambientale, sociale, culturale e politico” e di conseguenza “esprime la più netta contrarietà”
Chers amis,
L’attitude pour l’essentiel favorable de l’Inu dans les débats concernant la mise en chantier de la loi pour l’aménagement du territoire abordée le 7 février à l’Assemblée, a créé un obstacle déterminant au combat de la minorité hostile à ce projet. C’est ce que m’ont affirmé des parlementaires dignes de foi de la DS, comme il en était du reste évident à la lecture des comptes-rendus, qu’ils soient de source parlementaire ou provenant de l’Inu.
L’Institut national de l’Urbanisme, dont je m’honore d’avoir été le Président pendant dix années, s’est sali d’une façon qui me paraît très grave. Il a donné son aval à une loi qui annule soixante années de lutte incessante pour un urbanisme moderne et européen, fondé sur le rôle essentiel d’une administration publique, sur la prévalence des intérêts collectifs, sur le rapport étroit entre la planification du territoire et la tutelle du paysage, et sur la reconnaissance du droit de tous les citoyens de la république à des services et des espaces verts. Ce sont des principes que l’Inu a défendu pendant des dizaines d’années, proposant pour les atteindre des instruments appropriés, et obtenant quelques résultats.
Je me rends parfaitement compte que l’appui de l’Inu à la pire loi urbanistique imaginable n’est que l’élément le plus marquant d’un silence bien plus général concernant les fondements de l’Urbanisme.
Un silence assourdissant du milieu académique (au sein duquel il semble que les principes fondamentaux des politiques publiques de transformation des territoires soient devenus une des options que l’on peut choisir, et où toute l’attention est désormais consacrée aux techniques de péréquation, d’évaluation, et de négociation qui ont remplacé la connaissance nécessaire des aspects structuraux de l’urbanisme).
Mais aussi un silence peut-être moins injustifiable, mais plus préoccupant dans le domaine politique, là où le lien entre la planification urbaine, la pratique de la démocratie, et les conditions de vie des citoyens s’est perdu. À telle enseigne que désormais on affirme que l’urbanisme est une question sectorielle, réservée aux seules compétences des urbanistes professionnels.
Et c’est un silence qui s’étend ensuite au champ de la culture, aux autres savoirs, sourds hier comme aujourd’hui aux fondements d’une politique publique de transformation du territoire.
Je ne sais pas quel écho rencontrera dans votre intelligence ce que j’écris. Et je ne sais pas si vous partagez ma préoccupation au sujet de la loi qui est en cours d’approbation. Si vous ne la connaissez pas, je vous invite à lire l’appel «Halte à la loi Lupi», que je m’emploie à diffuser. Si vous êtes d’accord avec l’appréciation qu’il exprime, après l’avoir lu, vous pourrez envoyer votre adhésion à cet appel, à moi-même : eddyburg@tin.it
Edoardo Salzano (trad. de Patrice Rauszer)
Sono assessore al territorio nel Comune di Monza, nel direttivo anche
dell'INU Lombardia, aderisco all'appello contro la legge Lupi per più
motivi.
Uno è il fatto che la legge non ha come obiettivo il rapoporto diritti dei
cittadini e strumenti di pianificazione ma il rapporto tra decisioni
pubbliche e interessi immobiliari. Questo rapporto è comunque importante nella gestione di una città, e' strumento anche di negoziazione,al fine di ricadute pubbliche degli investimenti economici,ma non tale da deformare obiettivi civili più generali e di attenzione ambientale e di dunzionalità
urbanistica.
Due è che i problemi della città e del territorio non possono essere affrontati solo dalla ricaduta dell'uso di risorse immobiliari. Altro modo è
di connettere la capacità imprenditoriale finanziaria , ad esempio con
project financing, o altre forme piuttosto che subordinare l'organizzazione della città alle risorse immobiliari e ad un gioco del tutto casuale e non programmato.Ad esempio non possono essere affrontati i problemi emergenti di funzionalità della Città, ad esempio l'organizzazione della mobilità, o quelli ambientali come la qualità delle acque e dell'aria, spesso nemmeno quelle della casa a ceti sempre più declassati nell'uso economico della città e del suo mercato.Si scaricherà così, come nei decenni del dopoguerra, sulla economia pubblica, le conseguenze delle trasformazioni. Conseguenze
che ovviamente non potranno essere risolte.
Tre, non vengono garantiti dallo Stato i limiti a cui riferirsi per la
formazione dei Piani lasciandoli alla libera contrzione. Come se lo stato si lavasse le mani di fronte ai diritti dei cittadini. Sembra di tornare
indietro di mezzo secolo alla battaglia urbanistica degli Standards degli
anni '60. E' vero che ci vogliono nuovi tipi di standard ma non certo che
debbano sparire e lasciati alla volontà di qualche obiettivo elettorale
momentaneo o al massimo quiqiennale.
Quattro, la Perequazione, nuovo mito che nasconde scelte sovente
inconfessabili, non è visto come strumento per raggiungere fini di corretta pianificazione ma come fine a se stesso di indennità generalizzata sul territorio. E' un concetto che si scontra con la normale concezione liberale della economia e non solo con principi di corretta programmazione in funzione dei valori posizionali del territorio. Prferirei un attenta valutazione del diritto a corrette indennità in funzione dei vincoli e delle,scelte di pianificazione a fini pubblici.
Non dico altro, per ora rimarcando che si mette mano alla compromissione di diritti fondamentali costi molto di impegno civile, sociale e culturale di quasi un secolo. Bene cambiare ma se in peggio non conviene.