Il gruppo di lavoro “rinnovo urbano” facente capo alla segreteria tecnica del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Maurizio Lupi, ha predisposto e reso pubblica la bozza di disegno di legge riguardante i principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana.
Il titolo primo, composto da 16 articoli, è dedicato ai principi fondamentali in materia di governo del territorio, proprietà immobiliare e accordi pubblico- privato. Il titolo secondo, composto da 5 articoli, riguarda le politiche di “rinnovo urbano”, l’edilizia sociale e la delega al Governo, d’intesa con la Conferenza unificata delle Regioni, per la riscrittura del testo unico dell’edilizia (dpr 380/2001) al fine di introdurre ulteriori semplificazioni.
Qui di seguito forniamo alcune considerazioni sugli aspetti più critici di questa proposta. Il testo è disponibile sul sito Casa e territorio del Sole 24 ore.
La Costituzione alla rovescia. Beneficiario di questa proposta di legge è la proprietà immobiliare, così come chiarito sin dal titolo primo e dall’articolo 1 dove si attribuisce ai proprietari il diritto di iniziativa e di partecipazione – nella pianificazione - per “garantire il valore della proprietà. “Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento” recita l’art. 8.
È il rovesciamento della Costituzione: quest’ultima impone vincoli e obblighi alla proprietà privata in nome dell’utilità collettiva e stabilisce il principio della “funzione sociale” della proprietà. Nella proposta di legge urbanistica tutto è rovesciato: vincoli e obblighi limitano l’iniziativa pubblica, affinché non produca riduzioni al valore immobiliare dei terreni.
La scomparsa del territorio. Chiunque, anche un osservatore distratto, sa che le nostre città sono sorte senza prestare adeguata attenzione ai rischi idrogeologici, alla protezione della natura e alla considerazione del paesaggio. Nella proposta di legge nessuna di queste materie (e nessuna delle leggi organiche che le disciplinano) è menzionata, nemmeno per inciso. Sappiamo che le leggi di tutela, fortunatamente, dettano disposizioni prevalenti rispetto a quelle della pianificazione, ma l’obliterazione di questi argomenti in una legge che tratta del governo del “territorio” riporta indietro di un secolo l’urbanistica, confinandola nell’alveo angusto delle trasformazioni edilizie.
L’ignoranza dei centri storici. Non meno clamorosa è l’assenza anche di un minimo cenno ai centri storici. Una dimenticanza incommentabile.
La diluizione dello spazio pubblico. Gli spazi pubblici sono l’essenza della città, l’elemento qualificante e ordinatore. Senza spazi pubblici la città è ridotta ad un ammasso di edifici. Non per questa proposta di legge, che oblitera il concetto di “spazio pubblico”, lo sostituisce con una locuzione generica (dotazioni territoriali) che comprende un coacervo di funzioni di interesse generale (agli ospedali pubblici si sostituisce la salute, alle scuole l’istruzione, e così via), nel quale tutto si equivale e si confonde. Ma soprattutto prosegue l’accanimento contro gli standard urbanistici. Ogni regione può fare come gli pare. Ma davvero il problema, per dare qualità alle città italiane, è la cancellazione degli standard minimi di spazio pubblico?
La compressione della democrazia. Per ignoranza o per furia iconoclasta, la legge dimentica (o sopprime) ogni riferimento democratico. Scompare dai principi nazionali non soltanto la cosiddetta partecipazione, ma persino la possibilità di presentare osservazioni e opposizioni. A maggior ragione, è assente ogni riferimento alla valutazione ambientale e alle procedure di coinvolgimento del “pubblico” previste dalla direttiva europea.
In sintesi, possiamo dire che nessuna delle funzioni di coordinamento delle attività umane, nello spazio e nel tempo, che costituisce l’essenza della pianificazione urbanistica è trattata in questa legge. Nessuna delle finalità sociali (dalla tutela dell’ambiente e della salute alla conservazione del paesaggio, dalla presenza di spazi e servizi pubblici alla gestione della mobilità e dell’accessibilità) trova in questa legge alcuna traduzione. Nessuna delle garanzie, anche minime, di democraticità trova assicurazione. Tutto è delegato – in bianco – alle regioni, salvo la tutela della proprietà immobiliare.
La morte della pianificazione comunale. La pianificazione comunale è articolata in una componente “di carattere programmatorio” e una “di carattere operativo”. La prima ha efficacia (sic) “ricognitiva e conoscitiva”. Poco più di un libro. Non ha nemmeno un blando carattere di indirizzo o di direttiva. Niente di niente: un mero scopo ricognitivo e conoscitivo. Secondo la legge, il piano operativo deve essere approvato (!) in meno di cinque o di dieci anni, altrimenti perde efficacia. Qui il legislatore ha probabilmente confuso efficacia quinquennale del piano e durata del procedimento di approvazione.
Tutto qui, per la pianificazione comunale? Tutto qui. La legge non dice altro, che non riguardi il rapporto pubblico-privato.
Pubblico e privato. Al rapporto tra pubblico e privato sono dedicati i contenuti salienti del capo I e tutto il capo II del titolo I. Niente di nuovo sotto il sole, rispetto agli istituti ben noti dell’urbanistica romana: perequazione, compensazione, premialità edificatorie. La proposta di legge, tuttavia, perfeziona tali istituti – nel senso deteriore del termine. Occorre essere molto chiari: in base a questo Ddl, una volta che il comune abbia riconosciuto la possibilità di costruire a fronte della cessione di terreni o della realizzazione di opere, tale facoltà di edificare viene trasformata in un “diritto”, non reversibile se non dietro indennizzo. Perde quindi la sua natura urbanistica per trasformarsi nell’oggetto di un contratto. Meditare quindi: ogni volta che il sindaco o la giunta o il consiglio precedente (la legge non si occupa di distinguere quali organi assumono le decisioni) riconosce un “diritto edificatorio”, produce un debito che l’amministrazione successiva è chiamata a onorare o indennizzare. Spero che non sfugga la follia di questo meccanismo che rende perpetua la rendita! A quale scopo? Per quale utilità sociale, tutto ciò?
Rinnovo urbano. Tutto si fa con il concorso dei privati, in deroga ai piani urbanistici operativi, ricorrendo a incentivi urbanistici (in pratica, si ammette una generalizzata densificazione). Se non possono essere applicati sul posto, gli incentivi danno origine a trasferimenti di volumetrie in altre zone edificabili. L’idea che si possa riconvertire edifici dismessi (e quindi privi di valore) attraverso operazioni di diradamento, comunque remunerative dell’investimento, non è presa in considerazione. Né sembrano esserci particolari facilitazioni per interventi di recupero diffuso. Tutto si basa e tutto si esaurisce nella concessione di incrementi di volume e deroghe.
Edilizia residenziale sociale. La legge prevede, per l’edilizia residenziale sociale, il ricorso al permesso di costruire in deroga: altra picconata alla pianificazione. Le definizioni di ERS sono mutuate da analoghe descrizioni contenute in documenti e in provvedimenti di legge, ma si omettono due questioni fondamentali:
- la distinzione tra alloggi pubblici destinati alle categorie sociali svantaggiate, e sociali destinati alla cosiddetta “zona grigia”; equipararli e confonderli è un errore: la produzione di alloggi sociali dovrebbe costituire un tassello della pianificazione ordinaria, non un grimaldello per la sua delegittimazione;
- nessuna specificazione è data dalla legge né sulle categorie di beneficiari, né sulla commerciabilità degli alloggi (compresi quelli, ab origine, destinati alla vendita), senza le quali l’edilizia residenziale sociale è una truffa.
Il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2014
Il cosiddetto Art Bonus (propagandato da un pacchianissimo logo composto dalle firme di grandi artisti) è la vera novità. Esso prevede un credito d’imposta del 65% in tre anni per chi fa donazioni per “interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, musei, siti archeologici, archivi e biblioteche pubblici, teatri pubblici e fondazioni lirico sinfoniche”. Se funzionerà, aumenteranno finalmente i fondi per la cultura.
Si può notare che alla fine ci sarà ovviamente un minor gettito per il fisco, e dunque tanto valeva stanziare direttamente i denari che servivano per la manutenzione del patrimonio, senza dover dipendere dalla generosità dei singoli: ma è importante è aver affermato il principio. I 50 milioni in più concessi al fondo per le Fondazioni liriche che risanano i loro bilanci è un’altra buona notizia. Sono spiccioli, ma sono particolarmente di sinistra i 3 milioni annui che andranno “a finanziare progetti di attività culturali, elaborati da enti locali nelle periferie urbane”. Ed era ora che si permettesse di fare nei musei tutte le foto che uno vuole, purché “con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose”.
Quelle che lasciano, invece, molto perplessi sono le misure sulla struttura del ministero. Confermando tutti coloro che avrebbe invece potuto rimuovere, Franceschini ha perso l’occasione di operare un radicale rinnovamento della struttura apicale: ma nel decreto egli imbocca l’infausta strada dei commissariamenti. E non ha senso procedere per misure eccezionali e contemporaneamente mummificare la struttura centrale: c’è bisogno che la macchina funzioni con regole ordinarie, e non violando sistematicamente queste ultime. Al Direttore generale di Pompei vengono attribuiti “poteri commissariali”, e questa è una pessima buona idea. L’ultimo commissariamento di Pompei ha prodotto una serie di disastri (tra i quali la cementificazione del Teatro Grande) e uno strascico di processi. E l’Expo insegna che i poteri eccezionali in fatto di appalto generano corruzione: ora il direttore generale di Pompei è l’integerrimo generale dei carabinieri Giovanni Nistri, nominato da Massimo Bray, ma domani? E il posto di vicedirettore è ora vacante: e a questo punto la scelta sarà pesantissima. Stesso discorso vale per la Reggia di Caserta: quello che nelle prime bozze del decreto era un segretario generale ora è diventato (salvo varianti dell'ultima ora) un commissario senza se e senza ma.
Infine, l'inevitabile cedimento all’odio di Renzi contro le soprintendenze: il decreto impone la figura del mitico manager nei poli museali presenti e futuri. Per capire bene come funzionerà bisognerà leggere l’articolato: nello schema si dice che il manager avrà “specifiche competenze gestionali e amministrative in materia di valorizzazione del patrimonio culturale”. Il che potrebbe voler dire che deciderà quali mostre fare, con immaginabili disastri culturali. È un pessimo passo, ma non è (ancora) la strage voluta da Renzi: sarà per questo che, in un tweet, il presidente del Consiglio ha definito il decreto solo “molto interessante”, invece che usare uno dei superlativi che di solito riserva alle proprie gesta.
. 16 maggio 2014
Racconta Emanuele Montini, avvocato e urbanista, consigliere di Italia Nostra di Roma: «La solita manina si è infilata di nuovo dentro un decreto legge in conversione per risolvere un problema alle associazioni di campeggiatori che, nel Decreto del Fare, erano riuscite a fare il colpo gobbo: far passare per opere precarie le case mobili. Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco, e i lobbisti che avevano scritto l'emendamento avevano bisticciato con le parole, e anzichè scrivere che le case mobili non erano più soggette a permesso di costruire, con un “ancorchè” avevano introdotto esattamente il contrario: “[sono interventi edilizi] l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, ancorche' siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformita' alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti (art. 3 lett. e.5 del DPR 380/2001) A nulla erano valse le grida dei campeggiatori, che si volevano trasformare in novelli affittacamere a costo zero (ricordiamo che le case mobili non pagano una lira nè di oneri concessori nè di TASI), in quanto l'italiano è (per ora) una scienza esatta e gli uffici tecnici degli enti locali (e le procure) in questi mesi hanno contestato la loro lettura "elastica" dell'articolo, che essi stessi avevano fatto inserire. Ma ecco che un gruppo di senatori PD interviene sul decreto EXPO (d.l. n. 47/2014) e modifica la parolina incriminata in "salvo che", e la magia è fatta, a suon di fiducia».
I promotori dell'emendamento sono Stefano Collina, primo firmatario, Mario Morgoni e Andrea Marcucci e Manuela Granaiola, entrambi firmatari, nel novembre scorso, di un emendamento che aveva l'obiettivo di vendere le aree demaniali agli stabilimenti balneari, sinora in concessione, per "contribuire al risanamento dei conti pubblici" e "offrire agli attuali concessionari il diritto di prelazione all'acquisto”;emendamento poi ritirato tra le polemiche (lo stesso Marcucci aveva tolto la firma).
Adesso luoghi naturalistici di pregio potranno riempirsi di casette prefabbricate, con buona pace dell'articolo 9 della Costituzione ma anche della nutrita giurisprudenza che è sempre andata esattamente nella direzione opposta dello sciagurato emendamento: ancora nell'ottobre scorso la Cassazione si è pronunciata a proposito di un campeggio di Alghero, stabilendo che se l’insediamento è stabile e ha concreta incidenza sul territorio, non si può prescindere da autorizzazioni espresse sul piano urbanistico-edilizio e sul piano paesaggistico. E sulla stessa linea si sono espresse numerose sentenze del TAR e del Consiglio di Stato.
Il Decreto, con tutti gli emendamenti, è già passato in Senato grazie alla fiducia. Oggi è arrivato alla Commissione Ambiente della Camera, ma a quanto pare il Presidente Ermete Realacci (PD) non ha concesso la discussione degli emendamenti abrogativi della norma sui campeggi in nome della necessità di chiudere la votazione entro oggi per dare ai partiti il tempo di fare la campagna elettorale per le europee. Pensare che lo stesso Realacci pochi mesi fa, a proposito di un altro provvedimento, fortunatamente poi decaduto, tuonava: «Non c’era francamente bisogno, oltre alle tante norme del tutto estranee al testo iniziale [del decreto legge 126/2013], che venisse inserita anche una sanatoria indifferenziata per case in legno, cabine, bungalow, roulotte o altri manufatti non previsti dalle concessioni e realizzati in aree demaniali senza nessuna valutazione nel merito e a fronte di una aumento del canone francamente irrisorio. Non è così che si fanno gli interessi dell’ambiente, del turismo, del Paese. E’ un autogol per l’Italia che punta ad un futuro migliore ed è stato realizzato, per quanto mi risulta, senza coinvolgere il ministero dell’Ambiente. Non è così che si fanno buone leggi».
Evidentemente il clima preelettorale spinge ad altre valutazioni, ma a nostro avviso, visto che ormai tutte le forze politiche indistintamente fanno a gara nei proclami per la tutela dell'ambiente, la fiducia degli elettori ormai si conquista solo con i fatti, cioè con scelte legislative a favore dell'interesse generale, e non con gli emendamenti infilati dove non c'entrano niente per fare favori a qualche categoria. E forse una riflessione in più, in questi casi, converrebbe farla...
Più ampie informazioni nel sito Carteinregola.
Né chiarezza né coerenza né risorse nel pasticcio della Cittàmetropolitana in salsa Delrio, Lavoce.info, 18 febbraio 2014
Inviato a eddyburg il 20 gennaio 2014
La recente approvazione alla Camera del disegno di legge 1542 del 20/08/2013 in materia di Città Metropolitane, Province, Unioni e Fusioni dei Comuni è il quarto tentativo in tre anni volto a riformare il sistema degli enti locali. Il dibattito attorno alla nuova legge è purtroppo stato monopolizzato dal tema della spending review, che ha messo in secondo piano la necessità, non più eludibile, di attuare una seria revisione dell’intera architettura istituzionale italiana, nella quale funzioni e competenze spesso si sovrappongono. Si è enfatizzato il tema mediatico del risparmio di risorse pubbliche e di poltrone politiche, sorvolando invece sulla redistribuzione delle funzioni che si potrebbe realizzare con il nuovo assetto istituzionale.
La proposta legislativa si basa, essenzialmente, su tre pilastri:
- istituzione delle Città Metropolitane;
- ridefinizione delle Province, trasformate in enti di secondo livello con progressivo svuotamento di funzioni a favore delle Città Metropolitane o dei Consorzi di Comuni;
- disciplina in materia di unioni e fusioni per i piccoli Comuni.
La somma di queste azioni produrrebbe, secondo le stime effettuate dal ministero, risparmi da uno a due miliardi di euro e la cancellazione di oltre 5.000 cariche politiche.
Ma vi è un altro aspetto davvero criticabile: per chi si occupa di pianificazione territoriale il disegno di Delrio appare, per ora, come una grande occasione mancata. Infatti, è proprio nel campo della pianificazione territoriale e urbanistica che i problemi generati da sovrapposizioni e conflitti di competenza tra diversi livelli amministrativi sono più evidenti.
Da tempo è necessaria una revisione dell’intero sistema di pianificazione, che è ancora ispirato alla legge fondamentale del 1942.
Con la riforma del titolo V della Costituzione le principali competenze urbanistiche sono in capo ai Sindaci secondo il principio di sussidiarietà, il quale, nella prassi, si è trasformato in un eccesso di municipalismo egoistico dagli esiti deludenti: a nostro avviso il concetto di sussidiarietà è stato interpretato più come un processo di decentramento funzionale e decisionale che non come l’occasione per sperimentare forme innovative e più efficienti di governo del territorio alla scala pertinente.
Da qui la necessità di un ente intermedio, che sia in grado di governare le tematiche dell’area vasta quali trasporti, ambiente, pianificazione territoriale, recependo così un altro principio fondamentale come quello dell’adeguatezza.
Purtroppo la nuova legge non affronta in modo convincente queste problematiche.
Le città metropolitane saranno istituzioni che manterranno tutte le competenze delle Province alle quali subentreranno e a cui andranno ad aggiungersi le seguenti funzioni:
- elaborazione e aggiornamento annuale di un piano strategico del territorio metropolitano, quale strumento di indirizzo;
- pianificazione territoriale generale, comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture di scala metropolitana;
- promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale;
- promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e digitalizzazione.
Le restanti Province, che dal giugno 2014 si trasformeranno in enti di secondo livello, diventeranno strutture leggere, i cui organismi (Presidente e Consiglio Provinciale) saranno eletti dai Sindaci e dai Consiglieri Comunali dei comuni ricadenti nel territorio provinciale, fino alla loro definitiva abolizione che dovrà avvenire con legge costituzionale. Il disegno di legge attribuisce alle Province le seguenti funzioni fondamentali:
- pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché valorizzazione dell’ambiente;
- pianificazione dei servizi di trasporto;
- programmazione della rete scolastica;
- assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali.
La disciplina sulle unioni e fusione dei comuni non si discosta molto da quella introdotta dal precedente governo Monti e prevede due tipologie di intercomunalità. La prima, rivolta a tutti i comuni, consiste nell’esercizio associato facoltativo di specifiche funzioni. La seconda, rivolta ai comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 se montani), consiste nell’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali, attraverso Unioni o Convenzioni con un limite demografico di almeno 10.000 abitanti. La legge ha previsto la proroga al 31/12/2014 per consentire gli adempimenti ai piccoli comuni che dovranno consorziare le funzioni fondamentali, ma non prevede particolari o innovative forme di incentivi per spingere verso processi di cooperazione intercomunale che superino la dimensione strettamente gestionale per una valenza di natura maggiormente strategica.
Il nuovo assetto istituzionale attribuisce quindi tutte le competenze di area vasta a enti di secondo livello. Ma con quale legittimità e autorevolezza?
La funzione di coordinamento territoriale, fino ad oggi esercitata da un ente amministrativo superiore secondo un approccio sovracomunale, passerà ad essere di competenza di un ente non elettivo, nel quale le scelte di area vasta saranno oggetto di una contrattazione tra i Sindaci.
Un’ulteriore indicazione dell’Unione Europea per rilanciare e riqualificare le regioni urbane ricorrendo a strategie di pianificazione integrata alla scala sovracomunale e metropolitana, è contenuta nella Carta di Lipsia del 2007[1], che indica, tra gli obiettivi dell’attività di pianificazione:
- la definizione di obiettivi di sviluppo coerenti e realistici per l’area urbana e lo sviluppo di una visione per la città;
- il coordinamento di piani e politiche locali e settoriali e la definizione di criteri per l’utilizzazione dei fondi pubblici e privati nella loro allocazione spaziale;
- la cooperazione fra settore pubblico e privato nell’utilizzo dei Fondi Strutturali;
- la sinergia a livello locale ma anche a livello della città-regione e il coinvolgimento dei cittadini e degli attori che possono contribuire a dar forma alla qualità futura economica, sociale e ambientale dei territori;
- la lotta alla “speculazione” edilizio-immobiliare e al consumo di suolo.
Non trovano un riscontro convincente nel testo di legge di Delrio molti di questi obiettivi, come:
- l’esigenza di formulare nuove forme di governance multilivello;
- l’importanza dei processi negoziali pubblico e privato nel perseguire forme di coordinamento per il governo locale;
- l’importanza dei processi partecipativi per il rilancio dell’attività pianificatoria
Contenimento del consumo di suolo, rigenerazione urbana, valorizzazione ambientale, infrastrutturazione, edilizia sociale sono temi che richiedono una nuova stagione di politiche pubbliche di scala necessariamente territoriale e sovralocale.
Eppure sarebbe bastato osservare con più attenzione l’esperienza di altri paesi europei, come la Francia, che proprio in questi mesi sta approvando una legge sull’istituzione dei governi metropolitani (Loi de modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles), dopo oltre quarant’anni di serio dibattito nazionale e di politiche che hanno favorito la cooperazione intercomunale.
La tradizione alla volontarietà intercomunale, nell’esperienza francese, ha reso possibile correggere una gerarchia urbana fortemente squilibrata, garantendo efficienza territoriale alle politiche statali.
In questo modo si sono individuate forme associative diverse, di natura metropolitana o di medi e piccoli comuni, che rappresentano gli ambiti di governo pertinenti e davvero sovracomunali, particolarmente efficienti nel governo dei processi spaziali e sociali (per esempio nei progetti e nella messa in comune di una parte cospicua delle entrate fiscali).
Inoltre, la legislazione francese ha sempre richiesto inderogabilmente prove di effettiva volontà di superamento dell’egoismo municipale e del saper operare attraverso visioni e strategie.
In Francia, nel 2014, si dovrebbero votare per la prima volta a suffragio universale i rappresentanti delle associazioni volontarie intercomunali, le Communautés (enti intercomunali ai quali sono stati attribuiti anche funzioni di coordinamento), realizzando finalmente il sogno di Jacques Delors per introdurre partecipazione, e quindi democrazia, nei processi decisionali, secondo il principio per cui una corretta sussidiarietà garantisce gli interessi della collettività di scala vasta che altrimenti rischiano di essere trascurati dagli eccessi di localismo.
In Italia, purtroppo, si punta invece alla rinuncia di quote di rappresentanza democratica in nome di un presunto risparmio economico che non solo rischia di non risolvere i problemi degli enti locali ma reitererà il sistema di relazioni centro/periferia che è alla base della frammentazione, anche territoriale, di gran parte del nostro Paese.
Questo in netto contrasto non solo con le direttive che provengono dall’Europa ma anche con la tradizione italiana, la quale insegna che anche i contesti periferici e periurbani non sono subalterni alle realtà metropolitane (basti pensare alla tradizione dei distretti industriali).
Per superare le attuali Province, delle quali non si negano i confini spesso asfittici e incoerenti, sarebbe stato forse più opportuno e lungimirante guardare alle esperienze estere per realizzare un disegno di legge più ambizioso sull’intercomunalità, incentivando la cooperazione tra i comuni e permettendo geometrie variabili che ben si adattano a territori coerenti ed effettivi, individuando la scala di governo pertinente per ambiti metropolitani o periferici.
Sul modello francese, si potrebbero delineare quattro tipologie di associazioni intercomunali:
1. Unioni Metropolitane, per le maggiori aree metropolitane italiane;
2. Unioni Urbane, per le aree urbane di medie dimensioni;
3. Unioni Territoriali, per ambiti di comuni medio-piccoli e piccoli distanti dalle realtà precedenti;
4. Unioni Montane, per gli ambiti più periferici.
Un esempio: nelle Comunità di Valle della Provincia di Trento, il Presidente è eletto a suffragio universale, affiancato da un Consiglio dell’Unione in cui vi è una quota di consiglieri eletti direttamente e una quota in rappresentanza dei Comuni che costituiscono la Comunità.
Un’altra materia che potrebbe trovare nuove evoluzioni in questo quadro è quella fiscale, immaginando di trasformare una quota dell’IMU e degli oneri di urbanizzazione in una tassa intercomunale. In tal modo si realizzerebbe una innovativa forma di perequazione territoriale capace di orientare coerentemente le scelte di governo del territorio.
Si raggiungerebbe in questo modo un migliore equilibrio fra i poteri dei Comuni, che restano la cellula fondamentale del nostro ordinamento e primo luogo in cui si esercita la rappresentanza democratica, e l’ente competente per la pianificazione di area vasta, coniugando efficacemente i principi strettamente legati di sussidiarietà e di adeguatezza.
eddyburg sapevano da un pezzo, ma che i cattivi urbanisti e gli accecati amministratori continuano a praticare.
1. La pianificazione urbanistica è un diritto delle pubbliche amministrazioni
In primo luogo la sentenza rigetta ancora una volta la censura del proponente (una società immobiliare proprietaria di un vasto compendio immobiliare destinato ad espansione urbanistica nel quadrante sud est di Roma) tesa a mettere in dubbio il diritto di ogni amministrazione comunale a delineare il futuro delle città. In tal senso la sentenza ribadisce ancora una volta –se ce ne fosse ancora bisogno - l’inesistenza di cosiddetti diritti edificatori acquisiti così cari alla sedicente urbanistica riformista romana. Afferma infatti la sentenza che: «Con ogni evidenza, una siffatta situazione non è rinvenibile in capo all’odierna appellante, non potendo certo un’aspettativa giuridicamente tutelabile discendere dalla pregressa destinazione del suolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 dicembre 2009, nr. 9006), e nemmeno dalla mera circostanza che nella specie la società istante avesse presentato una proposta di lottizzazione, mai esaminata dal Comune (e ciò in disparte quanto appresso si dirà con riguardo al diverso “trattamento” riservato ad altra proposta formulata in relazione a un suolo limitrofo). Per queste ragioni, non possono essere accolte le doglianze (pagg. 48-55 e 61-69 dell’appello) con le quali si tende a sollecitare un non consentito sindacato nel merito delle scelte pianificatorie assunte dall’Amministrazioni, ancorché penalizzanti dei suoli della società esponente, attraverso l’evocazione di insussistenti e improbabili carenze motivazionali».
2. L’ invenzione della compensazione urbanistica
La sentenza del Consiglio di Stato demolisce poi il principale strumento dell’urbanistica romana, e cioè quella della più assoluta discrezionalità utilizzata nella cancellazione o nella compensazione in altri luoghi delle volumetrie che si intendeva sulla base di motivazioni paesaggistiche ed ambientali, cancellare. A questo punto dobbiamo ripercorre brevemente la vicenda pianificatoria romana in modo da comprendere appieno la sconsiderata scelta della compensazione urbanistica.
Quando l’amministrazione guidata da Francesco Rutelli prese in mano l’urbanistica romana, erano in itinere la Variante per la conferma dei vincoli scaduti a verde e servizi e la Variante di salvaguardia entrambe ottenute con una forte iniziativa del mondo ambientalista e dell’urbanistica democratica. La seconda, in particolare, applicava in pieno il principio confermato dalla sentenza che stiamo commentando: essa infatti cancellava milioni di metri cubi di espansioni urbanistiche sulla base di “oggettive esigenze” ambientali.
Inopinatamente il comune di Roma, invece di sollecitare la regione Lazio ad approvare quella variante di salvaguardia e chiudere così il processo di tutela paesaggistica, avviò la redazione del cosiddetto “Piano delle certezze” che pose a proprio fondamento che la cancellazione delle volumetrie previste dal piano previgente non potessero essere effettuate se non attraverso una sorta di “indennizzo”, e cioè la compensazione urbanistica di quelle volumetrie in altre aree urbane (questa fase dell’urbanistica romana è ricostruito in dettaglio nella nuova edizione di Roma moderna di Italo Insolera aggiornata con la collaborazione di Paolo Berdini. Einaudi 2011).
Il caso di maggiore evidenza mediatica è stato quello relativo al comprensorio di Tor Marancia, comprensorio che la Soprintendenza archeologica vincolò all’inedificabilità per la sua adiacenza al Parco dell’Appia Antica e che proprio sulla base del vincolo imposto non doveva in alcun modo essere “compensata”. Nel caso di Tormarancia, la compensazione urbanistica ha dimostrato di essere un micidiale fattore di moltiplicazione delle volumetrie da realizzare: è noto infatti che dagli iniziali 1,8 milioni di metri cubi si è passati ad un totale di 5,2 milioni, con un aumento del 200% circa.
3. La sentenza del Consiglio di Stato
La cultura urbanistica che si riconosce in Eddyburg affermò immediatamente la pericolosità di quell’atto che oltre a limitare la potestà pianificatoria comunale poneva in esplicita contraddizione due proprietà limitrofe con identiche caratteristiche paesaggistiche ed ambientali che venivano trattate in modo differente poiché alla prima (inserita nella variante delle certezze) si garantiva la compensazione delle volumetrie previgenti, mente alla seconda (esclusa dalla variante delle certezze) venivano cancellate le volumetrie previgenti.
Torniamo come si vede ai principi basilari dell’urbanistica, a quelli cioè di aver il dovere di trattare in modo identico le proprietà caratterizzate da identiche caratteristiche: quello che l’urbanistica romana ha accuratamente evitato di fare facendo invece della discrezionalità il principale strumento. Atteggiamento solennemente censurato dalla sentenza 119 laddove si afferma che «lo stesso Consiglio di Stato, preso atto che il Comune di Roma ha inteso introdurre con propria scelta di insindacabile discrezionalità urbanistica l’istituto della compensazione, ha espressamente sancito il principio della necessaria applicazione dell’istituto compensativo per tutte le aree che hanno subito la medesima privazione della capacità edificatoria indipendentemente dal momento e dall’atto con cui questa è stata realizzata».
Continua ancora il Consiglio di Stato: «In altri termini, altra è la situazione di chi, ferma restando la capacità edificatoria pregressa del proprio suolo, intenda acquisire ulteriore volumetria edificabile (ed a cui, come detto, si riferiscono le previsioni perequative de quibus); ben diversa è invece la situazione di chi abbia subito sic et simpliciter una decurtazione rispetto al passato dell’edificabilità attribuita al proprio suolo: per queste ultime fattispecie l’Amministrazione ha introdotto l’istituto della compensazione urbanistica il quale, per le ragioni sopra esposte, deve trovare applicazione a tutte le aree soggette a tale deminutio di edificabilità, indipendentemente dal momento e dall’atto con cui questa sia stata realizzata. Ne discende anche che del tutto irrilevante è ogni approfondimento in ordine alla piena identità o meno fra la situazione dell’odierna appellante e quella di altri soggetti, ai quali risulta invece spontaneamente riconosciuta dal Comune la compensazione, dovendo ritenersi acclarata in ogni caso l’applicabilità dell’istituto anche alla prima».
La sentenza ha due tipi di conseguenze, una specifica immediata ed altre di più lunghe e profonde implicazioni. Quella immediata riguarda la Società ricorrente e la necessità di reperire le aree per la realizzazione delle volumetrie a lei attribuite, con il danno ulteriore che emerge dalla lettura della sentenza, che tale cubatura in conseguenza della approssimazione con cui la amministrazione si è mossa, è aggiuntiva rispetto alle previsioni edificatorie: stiamo parlando di due milioni di metri cubi da scaricare sul territorio con ulteriore enorme del consumo di suolo. Se le conseguenze non fossero drammatiche per la capitale, verrebbe da sottolineare che i teorici della “nuova urbanistica romana” escono dalla ventennale vicenda con le ossa rotte, facendo la figura degli apprendisti stregoni inconsapevoli delle forze che hanno scatenato, sopravvalutando le loro capacità di controllarle.
4. La nuova amministrazione di Ignazio Marino e il caso della compensazione di Casal Giudeo
Ma gli ostacoli all’apertura di una nuova fase dell’urbanistica romana hanno incontrato proprio in questi giorni un’ulteriore ostacolo rappresentato dalla deriva della cultura politica del centro sinistra capitolino. Il 17 settembre scorso, infatti, il voto compatto del Pd e del Pdl e l’unico voto contrario del consigliere 5stelle Daniele Frongia (Sel era inspiegabilmente assente) ha dato il via libera ad una contestatissima deliberazione che autorizza la “compensazione urbanistica” nel comprensorio di Casal Giudeo per una cubatura totale di 1,3 milioni di metri cubi.
La nuova amministrazione guidata da Ignazio Marino aveva impostato la campagna elettorale promettendo una netta discontinuità verso la precedente amministrazione. E’ dunque grave che alla prima concreta occasione il “partito del cemento” abbia trovato un accordo trasversale tanto disinvolto: va infatti sottolineato che la deliberazione di Casal Giudeo era andata alla discussione delle commissioni consiliari con il parere contrario del Segretario generale del comune di Roma e dello stesso assessore Caudo. La politica si è dimostrata sorda ai richiami alla legittimità degli atti e intende evidentemente perpetuare la cultura dell’urbanistica derogatoria, dei diritti edificatori e della compensazione urbanistica. Quell’urbanistica che la sentenza 119 del Consiglio di Stato ha giudicato fallimentare sotto ogni punto di vista.
Vedi su eddyburg gli scritti di Edoardo Salzano e di Vincenzo Cerulli Irelli,
A 50 anni da "Le mani sulla città", la speculazione edilizia è favorita per legge.
Un emendamento introdotto dal Senato al testo governativo del "Decreto del Fare" consente a regioni e province autonome di approvare disposizioni derogatorie agli standard urbanistici: un provvedimento della fine degli anni Sessanta, d’importanza vitale, che fissa le quantità minime di spazi pubblici di cui ha diritto ogni cittadino italiano. Non sorprende che a condurre l'attacco sia l'attuale ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi che, da assessore al comune di Milano e poi da parlamentare FI e Pdl, aveva portato avanti terrificanti proposte di privatizzazione dell'urbanistica. Grave è che stavolta sia riuscito a ottenere l'assenso del centro sinistra, accampando pubblicamente l'intesa raggiunta con il Pd Roberto Morassut.
Questo è uno degli effetti del governo delle larghe intese.
Alberto Asor Rosa, Paolo Berdini, Pierluigi Cervellati, Vezio De Lucia
Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Tomaso Montanari, Salvatore Settis.
Per tutelare i centri storici ed altre zone importanti della città non basta quindi individuare della aree in cui non si applica la Scia, bisogna anche cambiare il Piano Regolatore in modo da non consentire il cambiamento di sagoma sugli edifici compresi in queste zone. Altrimenti il Permesso di costruire dovrà comunque autorizzare l’intervento. Rimarrebbe solo la possibilità di opposizione della Commissione Edilizia per motivi estetici, ma di fronte a un ricorso al Tar del proprietario questi motivi potrebbero essere molto deboli. Il PGT di Milano ha previsto che nel centro storico solo gli edifici di valore senza valore culturale, ambientale, estetico e storico-testimoniale possano essere sottoposti a ristrutturazione edilizia con modifica di sagoma, ma questo perché la Legge urbanistica della Regione Lombardia già consente il cambiamento di sagoma nelle ristrutturazioni e il PGT ne ha tenuto conto. A Milano per fortuna la norma sui cortili del nuovo PGT che fissa l’altezza massima uguale a quella preesistente resta salva perché prescinde dal fatto che si tratti di una ristrutturazione o di una nuova costruzione. Ma nelle altre Regioni qual’è la situazione ?». Resta il fatto che anche fuori dal centro storico il cambiamento di sagoma potrà portare a situazioni paradossali come quella mostrata dalle foto pubblicate, che riguarda un intervento a Milano nell’isolato di Via Zambeletti/Via Maiocchi, dove il nuovo fabbricato arriva fino a 4,80 metri dalle abitazioni adiacenti .
E non è molto rassicurante la risposta inviata da Silvia Paparo, Direttore Ufficio per la Semplificazione Amministrativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roberto Barabino, Presidente della Rete dei Comitati per la Qualità Urbanistica di Milano:
«Gentile Dr. Barabino,nella predisposizione della nuova disciplina in materia edilizia si è operato nella consapevolezza che la semplificazione non potesse in nessun modo abbassare i livelli di tutela del patrimonio culturale e paesaggistico. In particolare, la disposizione che assoggetta gli interventi di alterazione della sagoma alla segnalazione certificata di inizio attività non introduce modifiche in senso peggiorativo all’ambiente e al paesaggio. Al contrario, è volta a dare nuovo impulso alle politiche di rigenerazione urbana, a permettere un miglioramento ed una riqualificazione fisica del territorio e ad affrontare la grave crisi del settore, contribuendo all’avvio di investimenti privati.La norma non legittima speculazioni edilizie, né la costruzione di “ecomostri”. Difatti, pur venendo meno il vincolo di sagoma, gli interventi di ricostruzione e di ripristino degli edifici rimangono soggetti al vincolo di volumetria. Ne consegue che è sempre vietato costruire edifici di dimensioni maggiori rispetto a quelli preesistenti e che tutti gli interventi sono, in ogni caso, realizzati nel pieno rispetto del contesto urbanistico in cui si inseriscono. Preme inoltre sottolineare che la semplificazione riguarda unicamente gli interventi di ricostruzione e ripristino di edifici preesistenti e non le nuove costruzioni, le quali, potendo potenzialmente ledere l’aspetto del paesaggio e del contesto urbanistico, sono in ogni caso soggette al rilascio del permesso di costruire. Infine, in sede di conversione del decreto, si è operato in senso maggiormente garantista, ampliando la tutela del paesaggio e del patrimonio storico, artistico e architettonico ed escludendo dall’applicazione della nuova disposizione, oltre agli immobili soggetti a vincoli paesaggistici o culturali, anche aree site in centri storici di particolare pregio, espressamente individuate dai Comuni, con propria deliberazione.Cordiali saluti Cons. Silvia Paparo
Post scriptum: anche se non c’entrano con l’edilizia, in questo decreto diventato legge continuano le scoperte. Segnala l’amico Peppe commentando un articolo su Repubblica di Genova (Re_Ge_22_8_13_decretofare_nautica): »Siccome il settore della nautica (come tutto il resto) è in crisi, si cerca di sostenerlo, quasi avesse un suo speciale valore sociale. Come? Si esenta da ogni tassa il proprietario di barca fino a 14 metri (quattordici!) e si dimezzano le tasse ai proprietari di barche fino a 20 metri (venti!), cioè di yacht. Costoro non pagano niente o pagano la metà, mentre mettiamo chi ha un trabiccolo per vendere ortaggi, con cui lavora, paga al posto suo. E questo nel momento in cui per recuperare i mancati introiti di una tassa se pur rozzamente progressiva (Imu), si aumentano le marche da bollo, le accise, le tasse sui fiammiferi, sulla spazzatura, e altre imposte indirette, fregando i poveracci. E nessuno parla» FORSE CONVERREBBE RIBATTEZZARLO IL DECRETO DEL FARE…FAVORI
Ė invece passato quasi inosservato un emendamento introdotto dal Senato al testo governativo che consente a Regioni e province autonome di approvare con proprie leggi e regolamenti disposizioni derogatorie al D.M. n. 1444/68, dettando "disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attivitá collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali."
Nonostante la forma circonvoluta e imprecisa, ė tuttavia molto chiaro l'obiettivo perseguito: si tratta dell'ennesimo e forse definitivo tentativo di sopprimere le conquiste ottenute alla fine degli anni Sessanta in tema di spazi pubblici minimi e distanze tra gli edifici (18 mq/abitante, distanza pari all'altezza degli edifici, con un minimo di 10 metri tra pareti finestrate), dopo i guasti della stagione liberista degli anni Cinquanta conclusasi con il massacro di molte delle nostre città da parte della speculazione edilizia e infine con il tragico episodio della frana di Agrigento.
Con la pretesa delle incombenti difficoltà economiche del settore edilizio, vedremo così vanificarsi non solo la stagione che tra il 1975 e il 1990 aveva visto molte Regioni rafforzare quelle conquiste, con la prescrizione di dotazioni pubbliche superiori a quelle minime nazionali, attestate attorno a 24-28 mq/abitante in sintonia con le tendenze europee, ma verrà meno anche il plafond minimo garantito dalle norme nazionali, che nemmeno regioni così selvaggiamente deregolatrici come la Lombardia erano sinora riuscite a sfondare completamente.
Non sorprende che a condurre questo attacco sia stato l'attuale ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi che come assessore al Comune di Milano prima e parlamentare FI e PdL poi - spesso in combutta con il parlamentare milanese Pierluigi Mantini della Margherita, in una sorta di premonizione delle larghe intese - nelle scorse legislature aveva portato avanti proposte di impronta filo-liberista che equiparavano interessi pubblici e privati, fortunatamente mai giunte a definitiva approvazione.
Grave é che Lupi sia riuscito oggi ad ottenere nuovamente l'assenso del centro-sinistra a questa sua furia demolitrice delle conquiste urbanistiche degli anni Sessanta-Settanta, nonostante le perplessitá diffuse nell'aula del Senato, accampando pubblicamente un'intesa raggiunta con il deputato Morassutt.
Si tratta, infatti, non di modifiche puntuali di questa o quella singola norma specifica a scopo di semplificazione attuativa, ma di una vero e proprio cambiamento di sistema della materia urbanistica, paragonabile alle riforme istituzionali, alla cui definizione non appare titolata una maggioranza di emergenza quale quella che attualmente sostiene il governo Letta, e che richiederebbe comunque un dibattito approfondito non solo nelle commissioni parlamentari (dove peraltro non c'é stato), ma tra le forze sociali ed intellettuali dell'intero Paese.
A nulla sono valsi gli emendamenti soppressivi e gli ordini del giorno (n. 9/1248 AR/160 Basilio - M5S) tutti inesorabilmente respinti.Ora il provvedimento è al Senato fino alla fine di questa settimana e speriamo che sia corretto eliminando questa dannosa disposizione, è l'ultima occasione per evitare l'ennesimo sfregio al territorio del Paese e la fine di quella che viene definita "la filosofia del campeggio", almeno in Italia.
Dopo la pubblicazione dellʼarticolo di Salvatore Settis su La Repubblica del 1 giugno e le lettere apparse su La Repubblica di martedì 4 giugno di Ermete Realacci, Ilaria Borletti Buitoni e Andrea Carandini, ho cercato di approfondire i temi posti dal Progetto di legge Realacci sul consumo di suolo, anche alla luce delle note inviate da Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini.
Ma veniamo al merito. Trattandosi di un testo di legge la questione è ovviamente complessa, anche perché ogni termine ed ogni comma dovrebbero essere attentamente analizzati e discussi al fine di valutarne le molteplici implicazioni e connessioni con le leggi oggi vigenti. Mi siano comunque consentite alcune prime, rapide e sommarie, osservazioni volte a motivare la mia richiesta di apertura di un confronto ad ampio raggio per la elaborazione di un diverso e più incisivo disegno di legge.
1. Eʼ ovviamente positiva la proposta di cui allʼart. 1 di istituzione di un Registro nazionale del consumo di suolo e la richiesta che il Ministro delle infrastrutture di concerto con il Ministro dellʼAmbiente presenti annualmente alle Camere un Rapporto sul consumo di suolo «... nellʼambito del quale sono individuati gli obiettivi di contenimento quantitativo da perseguire su scala pluriennale nella pianificazione territoriale ed urbanistica», obiettivi che dovranno essere successivamente articolati per ciascuna Regione in sede di Conferenza Stato - Regioni (osservo che la proposta di legge - contrariamente a quella dellʼallora ministro Catania - non prevede alcuna scadenza certa per molti di questi adempimenti).
Quello che però qui non si evidenza è che già oggi ci troviamo - per quanto concerne il consumo di suolo - in una situazione emergenziale e che nella situazione attuale, al di là degli aspetti programmatori, un progetto di legge deve necessariamente porsi anche lʼobiettivo di porre da subito un freno ad ogni ulteriore distruzione di risorse ambientali e di paesaggio. In attesa della definizione delle metodologie, del Registro, del Rapporto annuale e della Conferenza Stato Regioni occorre richiedere con forza una moratoria edilizia generalizzata. Va a tal proposito ricordato come nel già citato progetto di legge Catania si prevedeva che “per tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge al fine di consentire lʼattuazione di quanto previsto allʼart. 3 (quello che specificava lʼiter per la definizione del limite massimo di superficie consumabile a livello nazionale e locale, ndr) non è consentito il consumo di superficie agricola”.
Aggiungerei una ulteriore osservazione. Eʼ facile immaginare - come già è avvenuto nel passato - che nelle more della discussione parlamentare e dellʼapprovazione della nuova legge si scatenerà la corsa allʼadozione di nuovi piani attuativi, di nuove varianti ed al sovradimensionamento dei piani regolatori da parte dei Comuni meno virtuosi (purtroppo la grande maggioranza!). Ritengo fondamentale dunque che da parte nostra ci si batta per la prioritaria approvazione di un decreto legge che - proprio in vista dellʼavvio del dibattito parlamentare - stabilisca da subito, per almeno un anno e comunque sino allʼapprovazione della legge, detta moratoria edilizia ovvero lʼobbligo di non consumare suolo inedificato ed in particolare superficie agricola (dovendosi intendere per superficie agricola non solo i terreni qualificati tali dagli strumenti urbanistici, bensì anche le aree di fatto utilizzate a scopi agricoli indipendentemente dalla destinazione urbanistica e quelle comunque libere da edificazioni e infrastrutture suscettibili di utilizzazione agricola).
2. Lʼintroduzione di un “contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana” aggiuntivo rispetto ai normali oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione (art.2 della proposta di legge), può effettivamente essere considerato un deterrente nei confronti delle nuove lottizzazioni che prevedono lʼoccupazione di suolo inedificato (ovviamente se connesso al rispetto dei limiti che la legge dovrà imporre al consumo di suolo, al preventivo stralcio delle previsioni edificatorie non giustificate dallʼeffettivo fabbisogno e quindi se non concepito come semplice monetarizzazione di un danno che per altra via si potrebbe evitare). Detto contributo è previsto sia nel caso in cui con lʼintervento edilizio si occupino aree coperte “da superfici agricole in uso o dismesse” (duplicando gli oneri a carico del lottizzante) sia che si tratti di superfici coperte “da superfici naturali o seminaturali” (triplicando gli oneri). Nello stesso articolo si prevede però anche che il contributo non sia dovuto per interventi su aree edificate “o comunque utilizzate ad usi urbani o da riqualificare”. Eʼ una definizione ambigua che, a mio avviso, se non chiarita si presta a diverse interpretazioni. Mi chiedo se, ad esempio, rientrino in questʼultima casistica tutte le aree individuate dagli strumenti urbanistici vigenti come zone territoriali omogenee di cui alle lettere A), B), D),e F), di norma giuridicamente considerate come “aree urbanizzate” anche se di fatto possono comprendere ampi comparti non edificati. Se fosse valida questa interpretazione, se ne dovrebbe dedurre che i limiti al consumo di suolo ed i contributi penalizzanti verranno applicati solo alle nuove aree di espansione previste dai nuovi piani urbanistici.
Riterrei invece fondamentale, per contrastare il consumo di suolo, che la proposta di legge rimetta in discussione le previsioni dei Piani regolatori vigenti e non si accontenti di porre un limite alle ulteriori espansioni introdotte da nuovi piani regolatori o varianti di piano e che anche lʼeventuale edificazione di aree libere interne al “territorio urbanizzato” sia soggetta ad un contributo penalizzante (la cui determinazione richiederebbe un serio approfondimento di tipo economico in relazione alla rendita ed ai costi e benefici per la collettività)!
Il caso del Veneto è esemplificativo. La Regione Veneto, con lʼart. 13 della Legge urbanistica 11 del 2004, ha già previsto un limite alle trasformazioni dʼuso dei suoli agricoli utilizzati (Sau): un limite variabile tra lo 0,65 e lʻ1,3% della Sau esistente, in relazione alle diverse caratteristiche dei Comuni. Nellʼinterpretazione corrente (interpretazione che inutilmente, sino ad oggi, come Legambiente abbiamo tentato di contestare) detto limite viene applicato ai soli fini del dimensionamento delle potenzialità edificatorie aggiuntive previste dai nuovi Piani di Assetto Territoriale (Pat) redatti dai Comuni in attuazione della legge 11/2004. Si calcola che con questa norma di legge i nuovi piani urbanistici comunali approvati o in corso di approvazione non potranno consumare, nel prossimo decennio, più di 9.000 - 9.500 ettari di terreno agricolo. Il problema è che, dalle indagini effettuate dalla stessa Regione in occasione della redazione del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento del 2009, nei PRG vigenti già sono previsti oltre 75.000 ettari (pari ad un incremento del 40% del già urbanizzato) di nuove urbanizzazioni non ancora attuate, che spesso riguardano proprio aree aventi ancora caratteristiche agricole o comunque suscettibili di utilizzazione agricola! Per detta ragione ritengo che nella legge debba essere previsto lʼobbligo per i Comuni di effettuare il censimento del patrimonio edilizio esistente e non utilizzato e di quello sotto- utilizzato (inutilmente richiesto nei mesi scorsi da Salviamo il Paesaggio), individuando le aree e gli insediamenti degradati nei quali concentrare prioritariamente gli interventi di trasformazione urbana e di predisporre una Carta del consumo di suolo che evidenzi i terreni ancora utilizzati a fini agricoli, pur avendo altra destinazione di Piano, ed i terreni urbani e periurbani abbandonati ma potenzialmente riconvertibili ad attività agricole o a silvicoltura. Verificati i risultati di detto Censimento i Comuni dovranno procedere alla revisione ed allʼeventuale ridimensionamento delle previsioni dei piani urbanistici vigenti in relazione allʼeffettivo fabbisogno (determinato dalle Regioni e/o dalle Province in ambito sovracomunale, sulla base - per il fabbisogno abitativo - dei nuovi trend demografici e di uno standard volumetrico di non più di 150 mc/abitante) ed alla possibilità di riusare e riorganizzare gli insediamenti e le infrastrutture esistenti. (Eʼ forse a tal proposito opportuno ricordare che, contrariamente a quanto spesso interessatamente si afferma, se non è stato rilasciato il Permesso di costruire o se non è stato formalmente approvato un Piano Urbanistico Attuativo, per i proprietari di terreni che il PRG prevede edificabili non esistono “diritti acquisiti”. Come hanno fatto i Comuni di Udine e Desio, i piani regolatori - con adeguata motivazione - possono essere rivisti riducendo le precedenti previsioni di espansione urbana).
Sino allʼadeguamento degli strumenti urbanistici a quanto sopra previsto, va prescritto che i Comuni siano tenuti a sospendere ogni determinazione sulle domande relative ad interventi di trasformazione edilizia ed urbanistica che interessino aree libere, siano esse interne od esterne alla perimetrazione del “territorio urbanizzato”.
3. Desta perplessità, in un disegno di legge che si dichiara finalizzato alla riduzione del consumo di suolo, lʼampio spazio dedicato alla proposta dei meccanismi della perequazione e della compensazione urbanistica, quasi fossero considerati essenziali allo scopo dichiarato (artt. 4, 6 e 7). Meccanismi che, peraltro, sono già da tempo normati ed applicati da larga parte delle Regioni ed enti locali con esiti in molti casi tuttʼaltro che entusiasmanti. Quasi sempre infatti - comʼè avvenuto nel caso di Padova e come il nostro circolo denuncia da anni - la logica di fondo è stata quella di concedere nuove volumetrie edilizie ai proprietari privati di aree, non motivate da alcun reale fabbisogno (703 abitanti in più nel corso dellʼultimo decennio), ma giustificate con la necessità di far fronte alla scadenza dei vincoli sulle aree un tempo preordinate allʼesproprio per pubblica utilità e per acquisire “gratuitamente” aree utilizzabili da parte del Comune per la realizzazione di nuove “dotazioni territoriali” (verde, servizi, edilizia pubblica). Nel 2004 a Padova, con apposita Variante di PRG (e con la consulenza di Federico Oliva, presidente dellʼINU), 4,7 milioni di mq di aree destinate a verde pubblico sono state trasformate in aree di “perequazione urbanistica”, con un incremento di 2 milioni di mc di volumetrie edificabili. Si affermò allora che - data la scarsità di risorse finanziarie - questa era lʼunica strada per incrementare realmente e non solo sulla carta gli standard di verde urbano, prevedendo lʼobbligo per i privati di cedere al Comune - in cambio della nuova cubatura concessa - il 70 per cento della superficie territoriale. Questa distribuzione indiscriminata della perequazione in larga parte del territorio comunale, senza un chiaro disegno di rete ecologica e del sistema degli spazi aperti (la città pubblica), ha incentivato il brulicare di nuove lottizzazioni (pubblicizzate come “case nel parco”, data lʼampia dotazione di verde circostante, ed ovviamente poste sul mercato a prezzi astronomici) con in generale una frammentazione delle aree destinate a verde, formalmente di uso pubblico, ma spesso di fatto usufruibili solo da parte dei nuovi condomini. Per i non numerosi casi di cessione di aree di maggiori dimensioni, tramontata - per ragioni di bilancio - la possibilità di attrezzarle e gestirle come veri parchi urbani, lʼorientamento attuale dellʼAmministrazione comunale è quello di istituire orti sociali e parchi rurali, assegnandone la gestione ad associazioni e cooperative con finalità sociali. Unʼiniziativa che presenta interessanti aspetti positivi e che tendiamo ad appoggiare, anche se - considerato che quelle aree avevano già nella quasi totalità un utilizzo di tipo agricolo sia pure da parte di operatori privati - sorge inevitabile la domanda su quale fosse la reale necessità di destinarne quota parte allʼedificazione, con tutte le immaginabili, pesanti conseguenze anche in termini di infrastrutturazione e impermeabilizzazione del territorio. Anche sullʼefficacia della “compensazione urbanistica” ai fini della riduzione del consumo di suolo, non pochi sono i dubbi. Valga anche in questo caso un esempio concreto riferito alla nostra città, dove si sta programmando la realizzazione di un nuovo ospedale su di unʼarea di 600.mila mq di terreni agricoli. Per lʼacquisizione delle aree - in alternativa allʼesproprio, che come sappiamo deve oggi avvenire a prezzi di mercato - vi è chi ha proposto di attribuire ai proprietari privati quote di edificabilità non utilizzabili in loco, bensì da trasferire in altri comparti urbani (di proprietà pubblica? di proprietà privata, aumentandone gli indici di edificabilità?), previo accordo per la cessione al Comune delle aree necessarie per il nuovo complesso ospedaliero. Esempi di perequazione e di compensazione urbanistica che non riducono certo il consumo di territorio. Di fatto con questi meccanismi il Comune cerca di sopperire alle proprie difficoltà di bilancio sovradimensionando le previsioni di piano ed incentivando lʼattività delle immobiliari private, alle quali viene richiesto un “contributo” corrispondente ad una quota parte delle rendita fondiaria derivante dallʼaver trasformato la destinazione dʼuso delle aree. Con questo non si vogliono demonizzare in assoluto gli strumenti della perequazione e della compensazione che alcuni Comuni hanno saputo utilizzare in modo più mirato ed intelligente (ad esempio Ravenna, per la formazione di una green belt urbana, paracadutando le quote di edificabilità aggiuntiva attribuita a queste aree nella ristrutturazione della darsena). Mi limito però ad osservare che se si vuole affrontare la questione in termini innovativi ed in connessione al consumo di suolo, occorre predisporre una normativa meno generica, ben più finalizzata e cogente di quella prevista dal progetto di legge.
4. Lʼarticolo 5 affronta il tema del “Comparto edificatorio” finalizzato alla realizzazione degli obiettivi di riqualificazione urbanistica e ambientale individuati dal Piano regolatore. Eʼ senza dubbio una proposta positiva, che riprende e cerca di rendere operativo quanto un tempo previsto dalla Legge urbanistica del 1942. Dalla lettura del primo comma sembra però che lʼiniziativa sia principalmente delegata ai privati (“Su invito del comune o per propria iniziativa, i proprietari di beni immobili compresi in un comparto possono riunirsi in consorzio e presentare al comune il piano urbanistico attuativo riferito allʼintero comparto”). Anche in questo caso riterrei invece importante che il disegno di legge sollecitasse ed incentivasse un ruolo attivo della pubblica amministrazione per la redazione dei relativi piani urbanistici attuativi.
5. Anche il tema della tutela del paesaggio (citato solo di passaggio nel terzo comma dellʼarticolo 1) e delle sue connessioni con il tema del consumo di suolo, e quindi la ricerca di una possibile integrazione tra le nuove norme proposte e quelle previste dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio per i piani paesaggistici richiederebbero un ben più ampio sviluppo... ma è un capitolo troppo vasto, che non oso qui affrontare per non appesantire queste già pesanti note.
Quelle indicate sono evidentemente solo alcune delle problematiche sollevate dal progetto di legge Realacci. Ritengo però che forniscano motivi sufficienti per richiedere un approfondimento del dibattito allʼinterno della nostra associazione e per aprire un confronto aperto con le altre associazioni e forze politiche che stanno cercando di mettere a punto nuove più efficaci norme per ridurre il consumo di suolo e per salvare il paesaggio.
Il manifesto, 6 giugno 2013
L'Alto Adige on-line, 10 aprile 2013
MERANO. A meno di un mese dall'incarico per la realizzazione del masterplan 2030, il documento di sviluppo urbanistico della città propedeutico al nuovo Puc, il Consiglio di stato allontana definitivamente il rischio di cementificazione di Maia Alta. Non stiamo parlando di briciole di ma 150 mila metri cubi sparsi e compresi tra le zone edificabili sopra Lazago, la via Castel Gatto e la via Winkel, praticamente il polmone verde di Merano. Con una sentenza definitiva l'organismo giuridico con sede a Roma ha sancito la legittimità delle scelte adottate a fine anni Novanta dal Comune contro l'aumento della cubatura nelle zone di completamento inserite nel piano urbanistico con la classificazione B6. Una sorta di difesa d’ufficio di quella serie di fazzoletti verdi che sono inseriti nell’assetto di Maia Alta, la zona più pregiata dal punto di vista edilizio di tutta la città di Merano.
Il Comune, in sede di approvazione di un Puc, che oggi è vicino a dover essere riesaminato per intero, aveva deciso di non allinearsi alle decisioni prese dagli altri Comuni altoatesini e di ridurre a 1 metro cubo per metro quadro la capacità edificatoria delle zone di completamento, contro una cubatura di 1,3 scelta dagli altri sindaci. Un taglio alla possibilità di cementificazione che ha di fatto salvato gran parte dei grandi giardini di Maia Alta e ha anche magari evitato domande di concessione edilizia in sanatoria per piccoli abusi compiuti in questi anni.
La decisione del Comune però non era passata inosservata, al punto che un comitato appositamente costituito - comitato Maia Alta il suo nome ufficiale - aveva deciso di prendere carta e penna, dotarsi di avvocato e ricorrere al Tar contro la riduzione di cubatura. Perso il ricorso al Tar il comitato, composto a differenza di quanto accade normalmente non per tutelare il verde ma per consentire al contrario maggior libertà d’uso del cemento e quindi aumenti di cubature, aveva opposto appello rivolgendosi al Consiglio di stato.
Nelle scorse settimane la sentenza finale che chiude ogni contesa: bocciato l'appello e successo della linea difensiva del Comune portata avanti dagli avvocati Karl Zeller e Luigi Manzi di Roma. La linea del Consiglio di stato difende una volta di più le prerogative del Comune, che per più d'una volta negli ultimi quindici anni si era visto calare provvedimenti dall'alto, con variazioni urbanistiche d'ufficio della giunta provinciale.
Era stato proprio il Comune di Merano, per primo a opporsi a questo modo di fare, portando, sempre con l’avvocato Karl Zeller, la Provincia davanti al Tar e ottenendo in quella sede confermata la propria autonomia decisionale in merito di sviluppo urbanistico della città.
postilla
Daremo più ampie informazioni sulla sentenza di Merano appena saremo in possesso. del testo. Vedi su eddyburg la sentenza del Consiglio di Stato su analoga questione, a proposito del comune di Monteroni (LE)
In alcuni scritti pubblicati su queste pagine abbiamo ripreso il tema del regime degli immobili ("diritti edificatori, rendite immobiliari, perequazione ecc.) Un assiduo frequentatore di queste pagine riprende la questione, che a nostra volta commentiamo con una postilla
Pur non potendo che compiacermi di un consolidamento della Giurisprudenza attorno al problema del rapporto tra pianificazione e diritti edificatori, non posso non sottolineare che si è ben lontani dalla soluzione dell’argomento e che questa stessa situazione non fa in alcun modo scomparire la possibilità di continuare le oscene politiche che cerchiamo di contrastare.
Per rimettere in fila i dati di fatto e per avere ben chiaro il terreno su cui dobbiamo necessariamente operare è necessario fare un passo indietro, e tornare alla sentenza della Corte costituzionale 5/80 in cui si dichiaravano incostituzionali le norme sugli espropri contenute nella Legge 10/77. Dopo un decennio e più di discussioni sul regime dei suoli e di tentativi normativi volti a separare la proprietà dal diritto a costruire si era convinti di esservi riusciti con quello che successivamente la Corte ha giudicato un artificio verbale inefficace dal punto di vista del diritto: l’aver definito concessione il titolo autorizzativo per la edificazione; questo è stato ritenuto palesemente insufficiente allo scopo e la immediata conseguenza è stata la cassazione delle norme in tema di espropri, che da questo presupposto partivano, tornando alla situazione della legge per Napoli, ed attribuendo a TUTTI i terreni una possibile suscettività edificatoria, elemento sostanziale per poter loro attribuire un prezzo di mercato, base anche per la determinazione delle indennità di esproprio.
Quindi il punto di partenza di ogni successivo sviluppo è stato la conferma del regime giuridico dei suoli e la inesistenza di una normativa sugli espropri. Questa dicotomia va sottolineata e tenuta ben presente perché il primo elemento è da allora scomparso dal dibattito ma non dalla realtà legislativa e normativa. Infatti la comparsa ed il primo sviluppo dei concetti di compensazione e perequazione si ha all’interno del dibattito su una possibile proposta di norme sulle espropriazioni, alla ricerca di vie di fuga da una realtà che prometteva, come poi è accaduto, una catastrofe economica per gli enti locali.
Mentre però la legge sugli espropri languiva lasciando il passo alla fantasia giurisprudenziale ed alle pezze normative che, sommati alla lentezza e insipienza degli Enti Locali, hanno portato a condanne inflitte dall’Europa, ad un contenzioso che incute paura e ad un debito potenziale da fallimento, a partire dagli anni novanta qualcuno ha capito che i concetti evocati potevano essere ben diversamente ed ampliamente utilizzati: perché solamente cubature invece di denaro per espropri e non cubature in cambio di qualsiasi cosa? E, come passo successivo, non sono io Amministrazione a dire cosa fare, ma sei tu privato che mi manifesti la tue volontà e quantifichi la contropartita da cedere.
In questa maniera si è passati dalle compensazioni alle deroghe normative, alla urbanistica contrattata, alla legislazione speciale, al pianificar facendo ed alla sussidiarietà programmatoria tra pubblico e privato. In questo lasso di tempo, praticamente tutti gli anni novanta dello scorso secolo, intanto, nella persistente assenza di una normativa organica sugli espropri, la situazione su questo fronte peggiorava per le Amministrazioni che hanno visto, anche al netto della ideologia avanzante, nella creazione e cessione di cubature una via per aggirare la mancanza di una normativa e di una giurisprudenza chiara ed univoca e le difficoltà economiche per la realizzazione degli interventi; questa spirale drogata ha portato al disastro attuale. Solo all’inizio degli anni duemila è stata emanata la legislazione organica in materia espropriativa, ma ormai da più di venti anni il tarlo della compensazione era andato molto avanti, spinto potentemente anche dalle aumentate ristrettezze economiche degli Enti locali.
La situazione in cui ci troviamo oggi conferma che la battaglia è tutta politica: finora nessuno è tornato a mettere in discussione il regime dei suoli, e mentre si capiscono perfettamente le motivazioni dei fautori della deregulation, sfugge il perché dall’altra parte ci si accontenti di vittorie tattiche e locali che non spostano i rapporti di forze stabiliti e consolidati dalla storia che ho cercato di riassumere.
Certo è soddisfacente sapere che ci può essere la possibilità di pianificare senza che il ricatto dei diritti privati sia sempre prevalente e che si può imporre, anche con l’avallo della interpretazione normativa della Magistratura, all’interno di quella pianificazione il rispetto dell’interesse pubblico, ma forse pochi si sono accorti che questo modo di operare continua ad essere svuotato nella pratica, da ultimo nel 2007 dal recepimento della dichiarazione di incostituzionalità delle norme sulla definizione della indennità di espropriazione.
Adottando in pieno lo slogan reaganiano di affamare la bestia, senza che ciò risultasse obbligato dalla sentenza della Corte ne dalla sovrastante decisione della CEDU, si è deciso che gli espropri si eseguono riconoscendo il pieno prezzo di mercato (non ci si lasci ingannare dalla possibilità della decurtazione del 25%) del bene espropriato, facendosi forte della mancata soluzione del regime dei suoli. Questo significa che l’avversario della pianificazione pubblica e delle potestà decisionali delle Amministrazioni è ancora un passo avanti e forse due quando si consideri che come effetto collaterale delle privatizzazioni e della societarizzazione delle municipalizzate, per non parlare delle ferrovie, per arrivare ai decreti sulla destinazione dei beni demaniali ad esempio della difesa, si è sottratto un enorme patrimonio immobiliare alla possibilità di utilizzo a fini di interesse comune, aprendo sempre nuovi varchi al consumo di territorio, al depauperamento delle risorse ed alla privatizzazione della pianificazione.
La conclusione è che bisogna tornare a discutere della separazione tra proprietà ed edificabilità che, checchè se ne dica non è affatto stabilita e per renderlo chiaro basta riflettere che se esistesse renderebbe inspiegabili ed inutili le norme sulla reiterabilita e indennizzabilità dei vincoli, le norme di salvaguardia in pendenza della efficacia della pianificazione e quelle riguardanti le cd zone bianche. Il raggiungimento di questo obiettivo è l’unico che possa salvaguardare il futuro di una urbanistica fatta per perseguire obiettivi condivisi di conservazione del paesaggio e del territorio, di consumo di risorse e suolo tendenzialmente pari a zero, di soddisfacimento dei bisogni dei cittadini in termini di qualità della vita in ogni suo aspetto.
Dalla nostra abbiamo da mostrare il disastro cui le teorizzazioni e le politiche degli ultimi venti anni hanno portato: per non parlare che dell’ultima nefasta vicenda, che come spesso succede da tragedia scivola in farsa, il Comune di Roma ha praticamente abbandonato il programma dei Piani di Edilizia Economica e popolare perché, dopo aver densificato i Piani stessi per poter offrire cubatura invece del denaro che non aveva, dopo aver destinato a tale fine circa il 30% della edificabilità prevista, dopo aver dovuto trovare svariate decine di milioni di euro per pagare l’IVA sulle cessioni, che non poteva rientrare nella compensazione, si è visto tornare indietro le adesioni dei proprietari che, nelle attuale situazione di mercato hanno scoperto di stare per fare un pessimo affare.
Postilla
Ha ragione Stefano Lanza quando attribuisce l’affermarsi «dei concetti di compensazione e perequazione all’interno del dibattito su una possibile proposta di norme sulle espropriazioni, alla ricerca di vie di fuga da una realtà che prometteva, come poi è accaduto, una catastrofe economica per gli enti locali In realtà, l’attribuzione di una sorta di “diritto edificatorio” a tutte le aree, urbane e non urbane, era già stato affacciato nel dibattito sulle sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968, ma subito respinto dagli urbanisti e dai giuristi di quegli anni. Eravamo ben prima della svolta neoliberista dell’ideologia dominante. Così come è vero che la sentenza costituzionale 5 del 1980, rendendo più costose le indennità espropriative, diede un potente alibi a chi quell’antica tesi (la “spalmatura dell’edificabilità) voleva riprendere e portare al trionfo.
Lexambiente, ribadisce interpretazioni delle leggi vigenti, ignorando le quali tecnici e amministratori incompetenti, hanno contribuito al pesante e ingiustificato consumo di suolo
In un comune salentino, Monteroni di Lecce, il comune aveva approvato un nuovo Prg che destinava a verde privato un’area destinata dai precedenti strumenti di pianificazione a zona di completamento. Il proprietario ha ricorso al Tar chiedendo l’annullamento degli atti e il ripristino della precedente destinazione. Il Tar ha rigettato il ricorso e il proprietario si è appellato allora al Consiglio di Stato . Quest’ultimo ha confermato la sentenza del Tar con motivazioni interessanti per il loro carattere generale. Abbiamo notizia della sentenza dalla bella rivista online di Luca Ramacci, Lex ambiente, dalla quale riprendiamo di seguito sia il commento (firmato F. Albanese) che il testo integrale della sentenza.
Agli argomenti di valutazione positiva della sentenza espressi da Albanese vogliamo aggiungerne due.
1 - Il Consiglio di stato afferma ( paragrafo 5.1) che la nozione di naturale vocazione edificatoria postula la preesistenza di una edificabilità di fatto, cioè può essere attribuita solo a un terreno già edificato. ed è quindi concetto impiegato propriamente nelle sole vicende espropriative, stante la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie dell'amministrazione Non ha quindi alcun senso parlare di “vocazione edificatoria” di un suolo riferendosi a precedenti previsioni urbanistiche legittimamente modificate, e nemmeno a situazioni di fatto diverse dalla già avvenuta edificazione.
Possiamo dunque ritenere ulteriormente confermate le conclusioni alle quali eravamo da tempo arrivati sulla base dell’analisi della giurisprudenza: non esiste alcun fondamento giuridico sulla cui base il proprietario di un terreno possa rivendicare un “diritto edificatorio”, o un malaccorto urbanista o amministratore possa motivare la decisione di rendere edificabili aree che attualmente non lo sono.
2 - La sentenza afferma ( paragrafo 2.1) che « l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima». E’ esattamente il modo di vedere la pianificazione urbanistica che eddyburg sostiene e promuove.
Consiglio di Stato, Sez. IV n. 6656, del 21 dicembre 2012.
Urbanistica. Pianificazione urbanistica e tutela ambientale ed ecologica.
All’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi. Infatti, l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione di futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente sentenza sul ricorso in appello n. 10252 del 2005, proposto da
Corrado Carriero, [...]
FATTO
Con ricorso iscritto al n. 10252 del 2005, Corrado Carriero propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sezione prima, n. 4374 del 28 settembre 2005, con la quale è stato respinto il ricorso proposto contro il Comune di Monteroni di Lecce e la Regione Puglia per l'annullamento di tutti gli atti del procedimento di formazione del PRG del Comune di Monteroni di Lecce ed in particolare: della delibera del C.C.di Monteroni di Lecce n.54 del 13.02.89; della delibera del C.C. di Monteroni di Lecce n.80 del 11.10.1996; della delibera della G.R. Puglia n. 1643 del 7.12.1999 di approvazione del piano con prescrizioni e modifiche; della delibera del C.C. di Monteroni di Lecce n. 51 del 4.8.2000 di recepimento e controdeduzioni in ordine alle prescrizioni e modifiche regionali; della delibera G.R. Pugliese n. 529 del 10.05.2001 di approvazione definitiva del PRG di Monteroni di Lecce; di ogni altro atto comunque presupposto, connesso e consequenziale.
Dinanzi al giudice di prime cure, il ricorrente, proprietario di un terreno nel Comune di Monteroni di Lecce, su cui insiste un fabbricato ad uso residenziale, sito alla Via Isonzo, distinto in catasto al fg. 7/A part. 468-467-1036, esponeva:
- che la suddetta area era tipizzata nel vecchio P.d.F. come zona “B” – I circoscrizione, destinata a edilizia residenziale, con le seguenti prescrizioni: altezza massima degli edifici pari a una volta la larghezza stradale; numero massimo dei piani:2;
- che nel PPA, approvato con delibera C.C. n. 95 del 1.8.1985 e prorogato con delibera C.C. n. 28 del 30.1.1989, l’area veniva definita “Zona di completamento”;
- che il C.C. di Monteroni, con la delibera di intenti del 13.2.1989 n. 54, avviava il procedimento di formazione del PRG, cui seguiva in data 11.10.1996 la delibera di adozione del PRG;
- che la G.R. Puglia con delibera n. 1643 del 7.12.1999 approvava il piano con prescrizioni e modifiche;
- che con delibera n.51 del 4.8.2000 il C.C. di Monteroni recepiva e controdeduceva alle prescrizioni e modifiche regionali;
- che con delibera n. 529 del 10.05.2001 la G.R. Pugliese approvava in via definitiva il PRGPRG di Monteroni;
- che nel nuovo PRG l’area di proprietà del ricorrente risultava classificata come zona a verde privato (VP), disciplinata dall’art 2.15/H della N.T.A., che consente attività primarie di tipo agricolo, la sistemazione di verde attrezzato, interventi manutentivi e di ristrutturazione dell’edificato esistente, di tipo conservativo.
Il ricorrente impugnava gli atti di cui in epigrafe, chiedendone l’annullamento, per i seguenti motivi di diritto:
1) Eccesso di potere, violazione del principio della tendenziale stabilità delle previsioni urbanistiche.Violazione del principio di ponderazione degli interessi privati da sacrificare in relazione all’interesse pubblico perseguito. Carenza motivazionale: la nuova destinazione rende di fatto l’area inedificabile, senza alcuna specifica motivazione sulla scelta così penalizzante per il ricorrente;
2) Eccesso di potere per contraddittorietà. Carenza istruttoria sotto altro profilo, essendo la destinazione definitiva in contrasto con la delibera di intenti, in cui si prevede la conservazione dei contenuti del P.P.A.
3)Violazione dell’art 2 D.M. 1444/68, presentando l’area una vocazione edificatoria.
4) Violazione dell’art 2 D.M. n. 1444/1968 sotto altro profilo. Violazione dei criteri della delibera di G.R. n. 6320 del 13.11.1989. Violazione del principio di tipicità degli atti ammnistrativi: la destinazione impressa non rientra tra le destinazioni previste dal D.M. n. 1444/68;
5) Eccesso di potere per perplessità, irrazionalità ed illogicità. Carenza motivazionale sotto altro profilo. Sviamento dalla causa tipica. l’Amministrazione ha erroneamente inserito una zona agricola all’interno dell’abitato di Monteroni, qualificando senza una adeguata istruttoria l’immobile del ricorrente come “edificio con caratteristiche architettoniche di particolare interesse”.
Costituitosi in giudizio il Comune di Monteroni di Lecce, il ricorso veniva deciso con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, sottolineando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, in relazione all’inesistenza di posizioni tutelabili particolarmente qualificate in capo al ricorrente ed alla conseguente correttezza dell’azione amministrativa, in rapporto ai criteri di giudizio concretamente applicabili.
Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l’errata ricostruzione in fatto ed in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo in appello le proprie ragioni.
Alla pubblica udienza del 23 ottobre 2012, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione.
DIRITTO
1. - L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
2. - Con il primo motivo di diritto, rubricato in tre distinti sottopunti, l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza del T.A.R. in relazione: alla mancata pronuncia sulla prima censura nel ricorso introduttivo, dove si è sindacata l’irrazionalità della destinazione impressa alle aree di proprietà dell’appellante, non avendo il TAR valutato come tale imposizione di fatto venisse a precludere qualsiasi utilizzo edificatorio dell’area; all’irragionevolezza ed atipicità della qualificazione come zona destinata “a verde privato” come “sottospecie della zona agricola”, in contrasto con i criteri generali valevoli per la redazione del piano e con la riserva di legge sui limiti apponibili alla proprietà privata; alla non configurabilità di una normale zonizzazione riguardante un’area, stante la carenza delle caratteristiche proprie di tale tipologia di area.
2.1. - Le doglianze non possono essere condivise.
Occorre osservare come il giudice di prime cure abbia fatto precedere la disamina dei singoli punti di doglianza con una premessa teorica di carattere generale.
In particolare, con un esame del tutto in linea con i principi e i criteri seguiti dalla giurisprudenza, ha evidenziato come le scelte urbanistiche costituiscano apprezzamenti di merito, e quindi sottratte al sindacato di legittimità con l’eccezione di quelle inficiate da errori di fatto o da incongruità argomentativa. Sulla scorta di tale premessa, va condivisa l’affermazione per cui le scelte sulla destinazione di singole aree sono congruamente motivate facendo riferimento alle ragioni evincibili dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano regolatore, ossia emergenti dalla relazione illustrativa del piano. Al contrario, la necessità di altri e più incisivi profili motivazionali può essere rinvenuta solo nei casi in cui preesistano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti, e che quindi, stante l’esistenza di posizioni soggettive meritevoli di specifica considerazione, debbano ricevere una più compiuta valutazione. Tuttavia, tali situazioni, lungi dall’essere riscontrabili in qualsiasi situazione peggiorativa, hanno il loro referente in situazioni oramai tipizzate dalla interpretazione giurisprudenziale (si pensi al superamento degli standards urbanistici minimi, alla lesione dell'affidamento qualificato del privato in rapporto a precedenti convenzioni di lottizzazione, agli accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, alle conseguenze da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 11 settembre 2012 n. 4806).
Sulla base di tale ricostruzione, e sulla non contestata affermazione che nel caso in esame non ricorre nessuna di tali ipotesi, il T.A.R. ha potuto ravvisare in capo al ricorrente unicamente una generica aspettativa ad una non reformatio in peius, tale da non giustificare né una particolare tutela, né un obbligo di più puntuale motivazione. La conclusione di tale iter argomentativo è stata quindi nel senso di non poter spingere il proprio sindacato fino al merito delle scelte urbanistiche operate, che rientrano nell'ambito della discrezionalità degli organi preposti all'adozione e approvazione del piano.
Deve pertanto evidenziarsi che, al contrario di quanto dedotto in appello, il T.A.R. abbia correttamente spiegato le ragioni per cui non ha valutato i profili d’irrazionalità censurati, atteso che gli stessi o ricadono in un ambito sottratto alla disamina giurisprudenziale oppure, come si vedrà in seguito, ricadono in altri aspetti di doglianza, partitamente esaminati.
Conseguentemente, non può dirsi immotivata la scelta di procedere ad una classificazione dell’area a “verde privato”, stante l’inesistenza di una posizione particolarmente qualificata a non subire destinazioni peggiorative. Deve condividersi l’assunto del primo giudice che, sulla base del principio generale, ha applicato la stessa tecnica di giudizio anche al caso in specie, atteso che il passaggio dalla destinazione edificatoria, prevista dal previgente piano, a quella di tipo agricolo all’interno di una più ampia zona omogenea con carattere edificabile altro non è che un’applicazione in concreto di quanto sopra evidenziato; né la circostanza dedotta è tale da fare mutare la ratio applicativa sottostante.
Anche in questo caso, infatti, la destinazione a verde privato non richiede motivazione specifica. E, infatti, opportunamente deve farsi ricorso a quella giurisprudenza che ha evidenziato come all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi. Infatti, l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10 maggio 2012 n. 2710).
Non è dato quindi riscontrare alcuna tipizzazione abnorme o extra ordinem nella vicenda de qua, atteso che il verde privato viene a svolgere una funzione di riequilibrio del tessuto edificatorio, del tutto compresa nelle potestà pianificatorie dell’ente comunale, come peraltro precisamente motivato nella relazione illustrativa, dove si fa riferimento all’intento di “ritrovare un equilibrio nuovo dotando il centro esistente delle infrastrutture e delle aree per verde e servizi necessari”.
Proprio la funzione svolta rende corretta la risposta data dal giudice di prime cure, il quale ha inquadrato la destinazione a verde privato in un’ottica più comprensiva, utilizzabile anche al fine di salvaguardare precisi equilibri dell'assetto territoriale.
Conseguentemente, va respinto anche il terzo profilo del motivo, stante la rilevanza funzionale della destinazione di zona a verde privato.
3. - Con il secondo motivo di diritto, viene gravata la censura sub B) del primo motivo di diritto, sollevata in tema di carenza motivazionale sulla scelta di tipizzazione peggiorativa nei confronti dell’area, evidenziando come le ragioni addotte mostrino una ostilità verso il ricorrente e una parzialità, non avendo considerato la posizione interclusa del fondo.
3.1. - La doglianza non ha pregio.
Come sopra evidenziato, la situazione del fondo escludeva la necessità di una motivazione di particolare puntualità. Né peraltro pare condivisibile la lettura della detta area come lotto intercluso, attesa la funzione eccezionale di tale concetto (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10 giugno 2010 n. 3699 e tale quindi da escludere l’estensione analogica della sua applicazione) e la tipologia dell’area (che, affacciando su due diverse strade, non pare riconducibile a tale ambito). In ogni caso, va ricordato come la nozione di “lotto intercluso” abbia una sua valenza quando non si rinvenga spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi, come quello in esame, di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Consiglio di Stato, sez. V, 1 dicembre 2003, n. 7799).
La particolare posizione, come evidenziata dalla parte appellante, non rientra quindi, come si ripete, tra quelle a cui la giurisprudenza connette una situazione di particolare affidamento, per cui le ragioni sopra esposte e la considerazione di una avvenuta corretta giustificazione delle scelte addotte possono essere pienamente richiamate.
4. - Con il terzo motivo di diritto, si lamenta la mancata considerazione della fissazione dei criteri di formazione e indirizzo del piano, dati con delibera n. 54 del 13 febbraio 1989, con particolare riguardo alla necessità di ricucire il tessuto urbano esistente attraverso il recupero degli spazi destinabili a servizi, criterio leso dalla tipizzazione a verde dell’area. La detta ragione di doglianza trova poi adeguata precisazione nel quarto motivo di ricorso (pag. 11 dell’appello e tuttavia rubricato con il n. 3), dove viene censurata la mancata considerazione della destinazione di area come zona di completamento, secondo quanto previsto nel vecchio PPA del Comune, nonostante che i criteri generali prevedessero la conservazione di tali prescrizioni per il restante periodo di validità.
4.1. - La doglianza non può essere condivisa.
La contraddittorietà evidenziata, in rapporto a due diversi criteri generali, non è evincibile dalla lettura degli atti. Va, infatti, ribadito come la delibera di intenti contenga, tra gli obiettivi generali, proprio quello “di ricucire il tessuto urbano esistente, recuperando tutti i possibili spazi da destinare a servizi, con priorità per il verde”, nonché “di salvaguardare il patrimonio edilizio privato di carattere ambientale e artistico”. La scelta pianificatoria appare quindi del tutto coerente con le priorità fissate.
5. - Con il quinto motivo (pag. 13 dell’appello e tuttavia rubricato con il n. 4) si censura la mancata considerazione della naturale vocazione edificatoria delle aree in questione, in quanto aventi le caratteristiche di cui alle zone B di cui all’art. 2 del D.M. n. 1444 del 1968.
5.1. - La doglianza non ha pregio dogmatico.
In disparte la contestabilità dell’impiego in questa sede della nozione di naturale vocazione edificatoria (che postula la preesistenza di una edificabilità di fatto ed è quindi concetto impiegato propriamente nelle sole vicende espropriative), stante la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie dell’amministrazione, occorre rilevare come le caratteristiche dell’area risultino del tutto chiare nella relazione illustrativa, dove si evidenziano le caratteristiche dell’area in rapporto alle costruzioni esistenti.
6. - L’appello va quindi respinto. Nulla per le spese.
[…]
Con l'entrata in vigore del provvedimento il 16/02/2013 saranno i Sindaci a dover render noto il bilancio arboreo del proprio Comune, indicando il rapporto fra il numero degli alberi piantati in aree urbane di proprietà pubblica rispettivamente all'inizio e al termine del mandato stesso. A prescindere dalle ravvicinate scadenze di mandato, come nel caso di Roma, di fatto i Sindaci delle grandi città italiane difficilmente forniranno questi dati. I motivi principali? Rendita fondiaria, moneta urbanistica, consumo del territorio e soprattutto malgoverno, tanto che da anni sono saltate tutte le misure per la salvaguardia e la gestione delle dotazioni territoriali di standard previste nell'ambito degli strumenti urbanistici attuativi dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444. La dotazione di verde pubblico per ogni abitante, così come previsto per legge, infatti non c’è. Dunque, se non ci sono le aree verdi, dove si potranno piantare i nuovi alberi? Forse nelle rotatorie o nelle fasce intermedie o nelle superfici inaccessibili che indegnamente si fanno rientrare negli standard di verde pubblico? Il verde pubblico deve essere fruibile e non essere semplicemente un'area di colore verde non fruibile.
La nuova legge (che prende spunto dal riconoscimento del 21 novembre quale «Giornata nazionale degli alberi», con l’obiettivo di perseguire il rispetto del protocollo di Kyoto, la valorizzazione del patrimonio arboreo e boschivo, la riduzione delle emissioni, la prevenzione del dissesto idrogeologico, il miglioramento della qualità dell'aria e la valorizzazione delle tradizioni legate all'albero), interviene in realtà su un aspetto del tutto dimenticato da parte delle amministrazioni italiane: la vivibilità degli insediamenti urbani. Come possiamo vivere in agglomerati di cemento e ferro senza pubblici spazi verdi di 'natura'? Vediamo come l'articolo 4 di questa legge protegge il decreto del Ministro dei lavori pubblici del 2 aprile 1968, n. 1444,
- rapporto annuale del Comitato sull'applicazione nei comuni italiani delle disposizioni del decreto ministeriale 1444
- obbligo per i comuni di approvare le necessarie varianti urbanistiche per il verde e i servizi entro il 31 dicembre di ogni anno
- destinazione delle maggiori entrate derivanti dai contributi per il rilascio dei permessi di costruire e dalle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, alla realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione, di recupero urbanistico e di manutenzione del patrimonio comunale in misura non inferiore al 50 per cento del totale annuo.
E' finita dunque l'era di amministrazioni che mistificano i parcheggi pubblici con le aree verdi per raggiungere gli standard? E' finita l'era in cui le varianti urbanistiche servono solo per consumare territorio? E' finita l'era in cui le amministrazioni battono moneta urbanistica per concedere cemento ai costruttori solo per pagare i consulenti del Sindaco, lasciando città senza opere di urbanizzazione? Sembrerebbe di sì, ma solo a patto che venga istituito il Comitato di vigilanza (e bisognerà vedere come sarà composto, perché nulla si dice a riguardo) libero da influenze politiche, altrimenti la Legge non trova di fatto applicabilità, venendo a mancare l’organo essenziale, quello di controllo, cosa che accade sovente nel nostro Paese.
Lo strumento di legge ora c’è e sicuramente può consentire comportamenti meno discrezionali da parte dei Sindaci. Addirittura con la nuova legge i Sindaci possono incentivare iniziative finalizzate a favorire l'assorbimento delle emissioni di anidride carbonica (Co2) dall'atmosfera tramite l'incremento e la valorizzazione del patrimonio arboreo delle aree urbane, senza contare le nuove disposizioni per la tutela e la salvaguardia degli alberi monumentali o la promozione di iniziative locali per lo sviluppo degli spazi verdi urbani per consentire l'assorbimento delle polveri sottili e per ridurre l'effetto «isola di calore estiva», favorendo al contempo una regolare raccolta delle acque piovane. Il prossimo 21 novembre è ancora lontano, ma non troppo. E’ necessario però fare pressione perché almeno per quella data il “Comitato per lo sviluppo del verde pubblico" sia già stato istituito e sia soprattutto libero da influenze politiche, altrimenti avremo in Italia l'ennesima bella legge non attuabile.
Salvatore Settis I falsi difensori del paesaggio che violano la Costituzione
Il paesaggio e la sua tutela:«Quale è, su questo punto, la favoleggiata “agenda Monti”?». La risposta sembra chiare. La Repubblica, 21 ottobre 2012
IL DISEGNO di legge sulle semplificazioni appena approvato dal Consiglio dei ministri si scontra con un piccolo intoppo: la Costituzione. Il ddl modifica la normativa sui permessi di costruire nelle zone con vincolo paesaggistico. Ma insiste nella “dottrina Confindustria” secondo cui la tutela del paesaggio è un inutile freno all’edilizia, considerata contro ogni evidenza come il principale motore dell’economia del Paese.
Tre sono gli strumenti escogitati negli ultimi anni per vanificare la tutela del paesaggio in barba alla Costituzione: la devoluzione di fatto ai Comuni delle procedure autorizzative, la diluizione dei pareri tecnici dei Soprintendenti in “conferenze dei servizi” dominate dalle istanze della politica localistica, e infine varie forme di silenzio-assenso (“chi tace acconsente”). È su quest’ultimo punto che interviene il ddl in discussione. Il silenzio-assenso, nato per tutelare il cittadino dall’inerzia della pubblica amministrazione, non può applicarsi in qualsiasi ambito, e infatti la legge 537/1993 ne escludeva beni culturali e paesaggio. Tuttavia si tentò con ripetuti colpi di mano di rovesciare le carte, in un idillio bipartisan in cui il ddl Baccini del 2005 (governo Berlusconi) e il ddl Nicolais del 2006 (governo Prodi) si somigliano come due gocce d’acqua. In ambo i casi, lo scempio fu denunciato da questo giornale e da altri, bloccando l’iter dei provvedimenti. Ma il governo Berlusconi, già in avanzato stato di decomposizione, portò a segno nel maggio 2011 un colpo di coda, il D. L. 70 (poi L. 106): il silenzio-assenso veniva introdotto modificando il testo unico sull’edilizia e il Codice dei beni culturali.
Ora, che cosa fa il ddl Monti? In apparenza migliora la situazione, togliendo dal Codice lo smaccato invito alle procedure di silenzio-assenso. Ma gli apparenti miglioramenti, su cui l’ignaro Ornaghi si auto-elogia a vuoto, non cambiano in nulla la sostanza anzi la confermano fingendo di volerla sanare. Il dispositivo che risulta dal nuovo ddl, in un labirinto di commi e codicilli, è confuso e farraginoso, ma qualche punto è chiaro. I permessi di costruire nelle aree vincolate vanno richiesti a uno “sportello unico” presso ciascun Comune. Le Soprintendenze, organo a cui la legge affida la tutela del paesaggio, vengono interpellate insieme con le altre ammini-strazioni, e possono essere convocate in conferenze di servizi dove sono ovviamente in posizione minoritaria. Per giunta, il parere dev’essere reso “in conformità al piano paesaggistico” locale, cioè può non tener conto dei vincoli ministeriali, a volte non inclusi nel piano paesaggistico, a volte successivi ad esso. In ogni caso, il parere delle Soprintendenze dev’essere espresso entro 45 giorni; se no, il Comune può decidere quel che gli pare. Con la pistola alla tempia, i Soprintendenti o decidono o perdono ogni potere: di fronte a questo dato di fatto, la dichiarazione del Ministero secondo cui «la nuova norma rafforza la tutela» è irresponsabile. Perché la tutela si rafforzi è indispensabile che vi sia chi la fa: ma le Soprintendenze sono delegittimate dall’incompetenza e dall’inerzia degli ultimi tre ministri, e al 40% coperte per reggenza; i loro funzionari sono in costante calo numerico per carenza diturn-over, hanno un’età media di 55 anni, e sono stati borseggiati da cinici tagli di bilancio, tanto che mancano i soldi per pagare il telefono e per ispezionare il territorio. In queste condizioni, ridurre da 90 a 45 giorni i tempi di risposta è uno sberleffo ai funzionari che provano eroicamente a fare il proprio lavoro.
Fingendo di dar risalto al parere delle Soprintendenze, il ddl Monti le mette in condizioni di minorità, introducendo una nuova versione del famigerato silenzio-assenso: il silenzio-abdicazione. Si demanda di fatto ogni decisione ai Comuni che dappertutto, con un sottobosco di deleghe e subdeleghe, gestiscono il territorio in funzione di manovre elettorali e degli interessi dei costruttori. Ma il silenzio-assenso in tema di paesaggio è contrario all’art. 9 della Costituzione, come ha dichiarato la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza 404/1997). Il silenzio non ha di per sé alcun significato giuridico: è il legislatore che sceglie se attribuirgli un significato, e quale. Se il legislatore privilegia l’interesse pubblico a tutelare il paesaggio, attribuirà al silenzio dell’amministrazione il valore di un diniego; se (come nel ddl Monti) gli dà invece valore di assenso o, che è lo stesso, di abdicazione in favore dei Comuni, privilegia l’interesseprivatodi chi intende devastare boschi, coste, zone archeologiche. Questo disegno di legge impegna la credibilità del governo e il rispetto della Carta fondamentale dello Stato. Ma l’assalto al paesaggio italiano è, a quel che pare, irrinunciabile: basti pensare alle dichiarazioni (Passera, Ciaccia) sulla cementificazione del territorio con grandi opere da finanziarsi con denaro pubblico, cioè accentuando i tagli alla spesa sociale.
Anche il ddl Catania sui suoli agricoli, partito bene, sta intanto cambiando pelle, tanto che secondo l’assessore all’urbanistica della Toscana, Anna Marson, «il testo dichiara di voler tutelare i suoli agricoli e limitarne il consumo, ma nei suoi dispositivi concreti rischia di produrre nuovo consumo di suolo, anziché ridurlo». La debole risposta del ministro dei Beni culturali non fa notizia: Ornaghi, si sa, ha la genuflessione facile. Con accanimento suicida, si invocano le ragioni dell’economia, le stesse che da trent’anni a questa parte legittimano condoni, sanatorie e piani casa in nome di uno sviluppo che non c’è stato. Come ha scritto l’antichista David Sedley, la passività dei governi rispetto alle pretese leggi dei mercati, sempre più simile a una superstizione, ha la funzione che nell’impero romano ebbe l’astrologia (anche imperatori assai pragmatici non muovevano un dito senza consultare gli astrologi di corte). Ma la tutela del paesaggio è vitale nel sistema di diritti della Costituzione: è espressione dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art.2), indirizzata al «pieno sviluppo della personalità umana» (art.3), collegata alla libertà di pensiero e di parola (art.21), alla libertà dell’arte, della scienza e del loro insegnamento (art.33), al diritto allo studio (art.34), alla tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art.32).
Secondo la Costituzione il bene comune non comprime, ma limita i diritti di privati e imprese: alla proprietà privata deve essere «assicurata la funzione sociale» (art.42), la libertà d’impresa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» (art.41). Mettiamo dunque sul tappeto questa domanda: l’alto orizzonte di diritti che la nostra Costituzione consegna ai cittadini è compatibile con le (vere o false) costrizioni dell’economia? E se non lo è, come si risolve il contrasto, archiviando la Costituzione o agendo sull’economia e sulla politica? Quale è, su questo punto, la favoleggiata “agenda Monti?
Su proposta del ministro per le Politiche agricole, il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge quadro sulla valorizzazione delle aree agricole e il contenimento del consumo del suolo. L’obiettivo – meritorio – dell’iniziativa è porre un freno a quella che Italo Calvino, nel suo romanzo La speculazione edilizia, chiamava “la febbre del cemento”: la bramosia di edificare anche dove e quando non serve, alimentata dall’alleanza tra il potere politico-amministrativo, ampiamente inteso, e l’insieme degli operatori economico-professionali del settore dell’edilizia. A leggere sul sito del Governo il comunicato che illustra il contenuto del disegno di legge, si resta sorpresi da una certa veemenza del lessico: l’obiettivo è “di disincentivare il dissennato consumo di suolo”, al quale ci si è abbandonati finora (nel comunicato si ricorda che “in Italia ogni giorno si cementificano 100 ettari di superficie libera”). La novità del ricorso ad aggettivi con forte connotazione negativa è il segno della necessità di porre un argine a quella parte dell’edificazione gonfiata da aspettative speculative.
Buoni propositi in attesa di fatti
Per perseguire i suoi buoni propositi, il ddl prevede il ricorso ad alcune misure puntuali e a uno strumento di pianificazione di portata più generale. È da quest’ultimo che ci si attende il maggior contributo alla salvaguardia del suolo agricolo, contenendone la trasformazione in edificabile; ma è anche quello che suscita qualche perplessità. Quanto alle iniziative di carattere specifico, sono diverse e i risultati che sarà possibile conseguire dipenderanno dal come ognuna sarà attuata. Viene vietato, per almeno dieci anni, il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli che hanno usufruito di aiuti di stato o comunitari (art. 3); si incentiva il recupero del patrimonio edilizio rurale (art. 4); presso il ministero delle Politiche agricole è istituito un registro dei comuni virtuosi che economizzano il consumo del suolo agricolo (art. 5); si abroga (art. 6) la normativa che autorizza i comuni a impiegare una parte (arrivata fino al 75 per cento del totale) degli introiti derivanti dagli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente.
Oneri di urbanizzazione per strade e scuole
Quest’ultima previsione è particolarmente rilevante. La distrazione di una quota degli oneri di urbanizzazione dalle loro finalità naturali di finanziare la realizzazione di strade, fognature, acquedotti (opere di urbanizzazione primaria), scuole, palestre (opere di urbanizzazione secondaria), è stato un modo per addolcire l’opposizione o ottenere l’assenso dei cittadini alla trasformazione di terreno agricolo in aree edificabili anche quando non servivano. Ai cittadini si è proposto uno scambio tra espansione edilizia e minori tasse per pagare i servizi di cui beneficiano. Nell’immediato hanno la percezione di un vantaggio, perché non mettono in conto che essi stessi e i loro figli e nipoti dovranno pagare i costi dell’accresciuta domanda di servizi indotta dalla nuova edificazione. Il solo impiego di una quota degli oneri di urbanizzazione per coprire la spesa corrente amplifica di per sé il “dissennato consumo di suolo”. Quando viene edificata una nuova area, le opere di urbanizzazione devono essere comunque fatte, se non si vogliono costruire ghetti senza strade, scuole e servizi. Poiché il comune non può sostenerne la spesa, vengono realizzate dalle imprese coinvolte nelle lottizzazioni, le quali vengono compensate con premi di superfici edificabili.
Chi decide quanto costruire
Restituire la totalità degli oneri di urbanizzazione alla loro originaria finalità è senz’altro opportuno, non è, però, sufficiente a bloccare il consumo del territorio originato dalla speculazione – che, infatti, avveniva anche quando gli oneri non erano destinati in parte a spesa corrente. Per questo il governo propone un intervento molto più radicale, ma sulla cui efficacia e operatività è difficile scommettere. Con un decreto interministeriale (Agricoltura, Ambiente, Infrastrutture e trasporti) “è determinata l’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale” (comma 1, art. 2 del Ddl). In sostanza, tenendo conto del terreno agricolo disponibile, di quanto già edificato, degli immobili non utilizzati, della domanda di case e infrastrutture, vengono calcolati dei “numeroni” su quanti metri quadrati di abitazioni, capannoni, strade eccetera devono essere costruiti in Italia. Questa superficie agricola edificabile viene ripartita tra le Regioni, le quali, a loro volta, la suddividono tra i comuni, considerando anche la loro popolazione. Il ddl non dettaglia i criteri per la determinazione, con cadenza decennale, dell’estensione di superficie agricola edificabile a livello nazionale, né quelli per sua ripartizione ai livelli territoriali sottostanti. Il meccanismo, però, richiama alla mente la pianificazione di stampo sovietico e rischia di produrre effetti inefficaci e paradossali non dissimili da quelli che si verificavano in Urss: là i campi venivano annaffiati anche mentre pioveva, perché così era programmato, da noi si corre il rischio che a Regioni e comuni con un sovrappiù di capacità edificatoria rispetto alle esigenze, facciano da contrappunto Regioni e comuni con un deficit, perché quella è la situazione determinata dalla ripartizione territoriale dell’ammontare nazionale di suolo agricolo edificabile (ammesso, e non concesso, che tale ammontare rifletta il reale fabbisogno del paese).
Una misura transitoria
La procedura che dovrebbe disegnare la geografia delle aree edificabili nel nostro paese sembra macchinosa e foriera anche di innescare una conflittualità tra territori e tra livelli istituzionali. Di certo, se mai sarà attuata, comporterà una spoliazione delle competenze in materia di pianificazione urbanistica ora esercitate da Regioni e (soprattutto) comuni, senza, tuttavia, la certezza di conseguire l’obiettivo. L’intervento dello Stato potrebbe essere molto più efficace se, in attesa di una più ponderata riforma delle norme sul governo del territorio, inducesse le amministrazioni comunali a una maggiore parsimonia nella definizione e attuazione delle previsioni dei loro strumenti urbanistici. Un buon passo avanti, per esempio, potrebbe essere una misura transitoria che consenta ai comuni di approvare nuovi piani attuativi di aree già edificabili solo successivamente alla totale attuazione di quelli approvati in precedenza. In questo caso, anche le aree già trasformate in edificabili dal Prg, sfuggirebbero alla “dissennata cementificazione” finché non vi fossero reali bisogni da soddisfare e non fosse possibile farlo in altro modo. Sembra una piccola cosa, ma potrebbe dare grandi risultati.
Osservazioni al disegno di legge in materia di valorizzazione aree agricole e di contenimento del consumo di suolo.
Art. 1 Si propone una definizione più mirata delle motivazioni a cui risponde la legge:
1. La presente legge detta principi fondamentali per la conservazione e la valorizzazione dei terreni agricoli, al fine di promuovere l'attività agricola -necessaria anche nel contenimento dissesto del territorio - riconoscendole un ruolo fondamentale per il perseguimento di un rapporto equilibrato tra sviluppo delle aree urbanizzate e aree rurali, al fine di contenere e progressivamente azzerare il consumo di suolo libero, nonché per la tutela del paesaggio in attuazione della Convenzione Europea del Paesaggio e dell'art. 9 della Costituzione.
Al comma 2, si ritiene più opportuna la seguente definizione: Le politiche di tutela e valorizzazione del territorio e del paesaggio agricolo e di contenimento del consumo del suolo e di sviluppo territoriale sostenibile sono coordinate con la sono attuate mediante la pianificazione paesaggistica prevista dalle disposizioni della Parte Terza del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni.
Al comma 3, si ritiene fortemente limitativa la definizione di aree agricole in rapporto alla loro destinazione in seno agli strumenti urbanistici vigenti. Occorre infatti tenere presente che in tutta Italia gli strumenti urbanistici vigenti hanno fino ad oggi previsto ampliamenti dell'urbanizzato in funzione di scenari di sviluppo economico e demografico largamente eccedenti le verosimili proiezioni, generalmente basandosi sull'assunto che i nuovi bisogni insediativi fossero sempre e comunque corrispondenti ad ampliamenti dell'urbanizzato, considerando il tessuto urbano come 'consolidato' non solo nel suo perimetro ma anche nelle sue funzioni, e trascurando così sistematicamente i vuoti funzionali lasciati alle spalle dai nuovi fronti urbani. Pertanto, la gran parte delle aree considerate “urbanizzabili”, non solo non saranno realisticamente urbanizzate, ma in molti casi risulta opportuno vengano fatte oggetto di revisione, onde verificare se i bisogni insediativi ivi localizzati non possano trovare altra, e più idonea, localizzazione all'interno del perimetro del tessuto urbano consolidato. Inoltre, il concetto di piani urbanistici 'vigenti' senza alcuna indicazione di soglia temporale fa sì che la semplice acquisizione dell'attributo di 'vigenza' di un piano urbanistico, indipendentemente da quando venga approvato, determina il venir meno automatico della attribuzione di area agricola: non è pertanto superflua la specificazione di una 'vigenza' entro l'entrata in vigore della presente legge, o comunque una scadenza temporale adeguatamente ravvicinata. Si richiede in ogni caso di definire le aree agricole in funzione del loro stato di fatto (come già avviene ad esempio nella legislazione della regione Lombardia), includendo anche le aree forestali:
“Ai fini della presente legge costituiscono terreni agricoli tutte le superfici interessate dalla presenza di suoli produttivi o comunque vegetati, coltivati, incolti o forestali, comunque non interessate libere da edificazioni e infrastrutture allo stato di fatto. Sono fatte salve le aree per le quali sono stati rilasciati titoli edilizi alla data di entrata in vigore della presente legge”
Art. 2 commi 1-4 e 9-10 Si riterrebbe molto opportuno, in incipit, introdurre un riconoscimento e una attribuzione valoriale al suolo: il suolo è un bene comune e una risorsa naturale fondamentale della Nazione. La progressiva espansione di aree urbanizzate e di usi del suolo concorrenti con la produzione vegetale determina effetti ambientali estremamente gravi ed una erosione irreversibile delle potenzialità produttive derivanti dalle lavorazioni agricole e forestali dei suoli e delle vegetazioni
La definizione di una soglia massima di superficie agricola 'edificabile' e il meccanismo di applicazione prospettato dalla norma (secondo una logica discendente, dal Governo, alle Regioni, ai Comuni) è una opzione di regolazione del consumo di suolo che non ci sentiamo di condividere stante la definizione di cui al primo articolo. In base alla lettera del testo, essa verrebbe infatti definita per sottrazione rispetto al suolo agricolo residuo alle previsioni urbanistiche vigenti in essere o future: ferma restando la possibilità di edificare per effetto di previsioni urbanistiche vigenti, si tratterebbe di una possibilità ulteriore, attualmente non data, di trasformare aree agricole. La proposta diventa ovviamente interessante se la definizione di area agricola viene modificata e resa aderente all'effettiva consistenza delle superfici agricole, e se la soglia di incremento, coerentemente con lo spirito della iniziativa legislativa, viene definita ad un livello molto inferiore al tasso annuo di variazione registrato negli ultimi decenni con riguardo alla componente 'superfici edificate', tenendo conto del patrimonio edilizio inutilizzato, sotto-utilizzato e recuperabile e se la stessa soglia di incremento ricomprende al suo interno anche le previsioni non attuate degli esistenti strumenti di pianificazione comunale. Preme in questa sede osservare come il meccanismo sotteso alla definizione di una soglia massima prescrittiva, concettualmente semplice, sia invece di attuazione estremamente complessa, in considerazione delle competenze pianificatorie concorrenti di Regioni ed enti locali, e della nonlinearità del processo pianificatorio, che notoriamente risponde poco a meccanismi di comando-controllo di natura esclusivamente amministrativa. Inoltre, la distribuzione tra tutti i comuni di quote di territorio agricolo edificabile prefigura una attuazione della norma deresponsabilizzante per l'ente territoriale, che si troverebbe a disporre di una aliquota di superficie edificabile, additiva rispetto a quella derivante dalla propria pianificazione territoriale, in ogni caso utilizzabile a prescindere da appropriate valutazioni di fabbisogno locale, la stessa, per essere ritenuta sostenibile (come prima indicato), non dovrebbe essere additiva, ma comprensiva delle previsioni pianificatorie non ancora attuate. Infine, la definizione di una soglia per l'edificabilità dei terreni agricoli, operativa nel suo recepimento da parte del piano urbanistico comunale, affronta solo una parte del problema del consumo di suolo, che avviene certo per progressione di edificazioni, ma anche per altre trasformazioni (reti infrastrutturali, cave, discariche, cantieri, aree attrezzate, ecc.), gran parte delle quali non dipendenti da potestà decisionali di livello comunale, ma ugualmente meritevoli di adeguata considerazione circa l'effettiva inevitabilità del consumo di suolo che ne deriva. Riteniamo in ogni caso che non si possano a priori prevedere limiti, comunque fissati, all'urbanizzazione di suoli agricoli, se, a monte, non si è censito il fabbisogno effettivo e non lo si è rapportato alle potenzialità di reimpiego di spazi già urbanizzati ma inutilizzati o sotto-utilizzati. Riteniamo pertanto che la presente legge debba prioritariamente imporre il censimento del patrimonio edilizio esistente e le sue potenzialità residue, e solo dopo questa varare specifici provvedimenti che concedano aliquote di nuovo consumo di suolo, demandando alle Regioni le modalità attuative, nonché i compiti di verifica e controllo dell'espletamento degli obblighi di censimento da parte dei singoli Comuni, ma stabilendo in ogni caso, fino all'adempimento di tale verifica, una sospensione dell'efficacia di tutti i piani e varianti per gli ambiti la cui attuazione contempli l’esigenza di nuovi consumi di suolo libero, nonché il divieto di approvarne di nuovi.
A valle del censimento, la quantificazione di fabbisogni che richiedono un consumo di nuovo suolo agricolo deve essere effettuata tenendo conto delle vigenti previsioni di carico insediativo dei piani urbanistici (prevedendo, nel caso che queste siano superiori, una adeguata rimodulazione delle previsioni di crescita).
commi 6-8 La funzione di 'monitorare il consumo di superficie agricola sul territorio nazionale e il mutamento di destinazione d'uso dei terreni agricoli' appare impropriamente attribuita ad un Comitato interministeriale costituito ad hoc, quando invece si tratta di funzione che appare più appropriatamente attribuibile ad una istituzione di studio e statistica territoriale quale, ad esempio, ISTAT, che già opera in questo campo e che il Senato della Repubblica ha recentemente indicato come istituzione di riferimento per il rilevamento e il monitoraggio del consumo di suolo. Quanto si richiede è, piuttosto, che le legende, le scansioni temporali, l'accuratezza e il grado di risoluzione delle misure vengano predeterminati in accordo con i criteri adottati da altre istituzioni e centri studio (ISPRA, JRC, Servizi tecnici delle Regioni, AGEA, CRCS-Politecnico di Milano), già attive in questo campo, onde individuare un protocollo comune di rilevamento e monitoraggio, scalabile fino al livello comunale e coerenziato con i sistemi di misura in essere negli altri Paesi UE. Si richiede inoltre una classificazione nazionale organica e coerente dei suoli agricoli in base alla classe agronomica, adottando per esempio il criterio introdotto in Piemonte da IPLA.
Si propone invece di attribuire a detto comitato la funzione di coordinare e monitorare l'attuazione della strategia nazionale per la riduzione del consumo di suolo, nonché di prevedervi la partecipazione di tre rappresentanti rispettivamente designati dalle organizzazioni agricole, delle associazioni riconosciute di protezione ambientale, delle istituzioni scientifiche
Art. 3 Si propone di prolungare ad almeno 20 anni il divieto di mutamento di destinazione per i terreni che hanno beneficiato di aiuti di Stato e Comunitari relativi alle misure di miglioramento del paesaggio agrario (molte delle quali prevedono interventi di natura agropaesistica e forestale la cui maturità interviene ben oltre i 5 anni dall'impianto).
Al comma 1, si ritiene pertanto più opportuna la seguente definizione:
I terreni agricoli in favore dei quali sono stati erogati aiuti di Stato o aiuti comunitari non possono avere una destinazione diversa da quella agricola per almeno venti anni dall’ultima erogazione salve più restrittive disposizioni esistenti. Fino alla realizzazione dell'intervento edilizio, sui terreni oggetto di trasformazione urbanistica sono comunque consentiti, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, gli interventi strumentali alla coltivazione del fondo, all’allevamento del bestiame, alla silvicoltura, nonché quelle funzionali alla conduzione dell’impresa agricola e alle attività di trasformazione e commercializzazione dei propri prodotti agricoli.
Art. 4 Si fa presente che relativamente al contributo di costruzione citato al comma 3, il riferimento di legge corretto deve includere anche l'art. 19 del DPR 6 giugno 2001, n 380, per gli edifici non destinati a residenza.
Per le finalità del presente articolo, devono essere destinate ai Comuni specifiche risorse anche per la redazione di piani di recupero, corredati da studi di fattibilità, che prevedono la riqualificazione e rivitalizzazione dei medesimi centri e nuclei abitati.
Art. 5 Il registro dei comuni deve evidenziare pratiche urbanistiche effettivamente virtuose nei confronti della riduzione del consumo di suolo: per questo l'approvazione di strumenti urbanistici privi di ampliamenti di aree edificabili può rappresentare il requisito minimo di ingresso al registro, ma il punteggio di merito comporta ulteriori e più incisive azioni, che vanno dalla riduzione/stralcio degli ambiti edificabili già previsti negli strumenti urbanistici vigenti alla adozione di regolamenti edilizi che prevedano la riduzione dell'impermeabilizzazione, alla attivazione di misure agroambientali compensative delle trasformazioni urbanistiche. I comuni iscritti al registro devono beneficiare di priorità nell'erogazione di trasferimenti per la redazione di piani di recupero dei centri e nuclei abitati, ovvero di accesso a fondi istituiti ad hoc in materia di manutenzione del territorio.
Art. 6 L'articolo è fortemente condiviso nelle sue sottintese finalità, quanto si auspica è senz'altro la soppressione dell'abnorme facoltà concessa ai comuni di distogliere risorse dalla copertura dei costi di interventi di urbanizzazione alla copertura di spese correnti, ripristinando appieno lo spirito della legge 10/1977, art. 12. Nella versione originaria del 1977 (L. 10/1977) tale articolo prevedeva l'"utilizzo per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, per il risanamento dei complessi edilizi nei centri storici, per l'acquisizione di aree da espropriare". La modifica intervenuta nel 1986 (D.L. 318/1986 convertito in L. 488/1986) introduceva l'espressione “nonché nel limite massimo del 30% per le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale". L'art. 136 del D.P.R. 380/2001 tuttavia ABROGAVA integralmente tale fondamentale articolo. A fronte di quanto testé ricostruito, l'abrogazione della norma citata dal disegno di legge (peraltro trattasi di norma prevista a scadenza il 31.12.2012) non appare sufficiente: tale norma infatti stabilisce unicamente limitazioni alla discrezionalità concessa al comune dal testo unico dell'edilizia per come modificato nel 2001. La abrogazione di tali norme perciò non impedisce al comune di impiegare, anche al 100%, le entrate da oneri ai fini di coperture di spesa corrente. Ciò che è richiesto pertanto, in aggiunta alla abrogazione contemplata dal DdL, è il ripristino del disposto dell'art.12 l.10/1977, nella versione anteriore all'abrogazione intervenuta nel 2001, opportunamente attualizzata. La formulazione aggiornata e corretta che proponiamo è la seguente:
"i proventi derivanti dai titoli abilitativi edilizi e dalle specifiche sanzioni di cui al D.P.R. 380/2001 sono versati in un conto corrente vincolato presso la tesoreria comunale e sono destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria -tra cui le bonifiche ambientali/di aree inquinate e la messa in sicurezza del territorio e delle discariche per il risanamento dei complessi edilizi e la riduzione dei rischi (sismici in primis), per l'acquisizione di aree ed immobili da espropriare, nonché, nel limite massimo del 30%, per le spese di manutenzione del patrimonio comunale (tra cui , e nel limite massimo di un ulteriore 20%, per la bonifica ambientale e messa in sicurezza del territorio e delle discariche"
La nostra proposta riprende in altre parole la versione modificata nel 1986 della cd. 'Legge Bucalossi', ma estende le possibilità di utilizzo delle risorse, fermo restando il divieto di utilizzo a copertura delle spese correnti, prevedendo che il risanamento possa essere non solo per i centri storici ma per tutti i complessi edilizi, alla luce delle tantissime aree degradate e/o da bonificare collocate anche in posizioni periferiche, ed inoltre inserendo la possibilità di espropriare anche gli immobili (oltreché le aree). Il mantenimento della facoltà di utilizzo del 30% per la manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio comunale appare opportuno per sanare troppe situazioni di degrado e obsolescenza del patrimonio edilizio comunale, tenuto conto del difficile contesto di trasferimenti di risorse ai comuni a fronte di esigenze impellenti di miglioramento dell’efficienza energetica e di messa in sicurezza statica e sismica. Rispetto all'epoca in cui fu varata la legge 'Bucalossi' inoltre, si vuole prevenire un eccesso di investimenti in nuove opere pubbliche (che anch'esse sovente determinano rilevanti ed evitabili consumi di suolo agricolo), privilegiando invece la manutenzione del patrimonio e del territorio esistente.
Oltre a ciò, riteniamo che si debbano prevedere opportune compensazioni per prevenire uno stato di sofferenza delle risorse finanziarie a comporre il bilancio di parte corrente, fino ad oggi (impropriamente) coperte dall'utilizzo degli oneri. Riteniamo che il recupero di gettito a livello di ente locale possa avvenire attraverso premialità in virtù delle quali, nella misura in cui un dato Comune dimostri di tutelare e valorizzare il suolo agricolo, ad esso derivino precisi ritorni, ad esempio in termini di maggior partecipazione al gettito fiscale derivante da imposte sul reddito, IMU e ex-ICI.
Ci auguriamo che le presenti osservazioni possano essere tenute in considerazione e cogliamo l’occasione per porgere i nostri più cordiali saluti.
Per il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio
Roberto Burdese, Damiano Di Simine, Alessandro Mortarino
Qui in eddyburg è scaricabile il testo integrale dell'ultima bozza(9.10.2012 del disegno di legge
INFO
Che cos'è il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio
Il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio è stato costituito formalmente il 29 Ottobre 2011 a Cassinetta di Lugagnano (Milano). Si tratta di un aggregato di associazioni e cittadini di tutta Italia (sul modello del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua), che, mantenendo le peculiarità di ciascun soggetto aderente, intende perseguire un unico obiettivo: salvare il paesaggio e il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio. Vi aderiscono attualmente oltre 12.000 persone a titolo individuale e 828 Organizzazioni (84 associazioni nazionali e 744 tra associazioni e comitati locali), tra cui tutte le principali realtà italiane operanti nel campo della salvaguardia del territorio, dell'ambiente, del paesaggio, dei suoli agricoli (l’elenco aggiornato è visibile nel sito Salviamo il paesaggio.
Consumo del suolo, Catania: con ddl approvato in CdM vogliamo cambiare modello di sviluppo del Paese (14/09/2012)
"Grazie alle misure contenute nel disegno di legge contro il consumo del suolo, approvato oggi dal Consiglio dei Ministri, facciamo un decisivo passo in avanti per raggiungere l'obiettivo di limitare la cementificazione sui terreni agricoli, in modo da porre fine a un trend pericoloso per il Paese. Questo provvedimento tocca temi molto sensibili, come l'uso del territorio e la sua corretta gestione, ma coinvolge anche la vita delle imprese agricole e l'aspetto paesaggistico dell'Italia. Riguarda il modello di sviluppo che vogliamo proporre e immaginare per questo Paese, anche negli anni a venire".
Lo ha detto il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, Mario Catania, intervenendo nel corso della conferenza stampa che si è tenuta a Palazzo Chigi - alla presenza del presidente Mario Monti - al termine del Consiglio dei Ministri, durante il quale è stato approvato il disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo.
"Abbiamo introdotto - ha spiegato Catania - un sistema che sostanzialmente prevede di determinare l'estensione massima di superficie agricole edificabile sul territorio nazionale. Questa quota, quindi, viene ripartita tra le Regioni le quali, a caduta, la distribuiscono ai Comuni. In questo modo otterremo un sistema che vincola l'ammontare massimo di terreno agricolo cementificabile distribuendolo armonicamente su tutto il territorio nazionale. Vogliamo - ha aggiunto Catania - interdire i cambiamenti di destinazione d'uso dei terreni che hanno ricevuto i fondi dall'Unione Europea, infatti abbiamo previsto che queste superfici restino vincolate per 5 anni. Inoltre, il provvedimento interviene sul sistema degli oneri di urbanizzazione dei Comuni. Nella normativa attualmente in vigore è previsto che le amministrazioni possono destinare parte dei contributi di costruzione alla copertura delle spese comunali correnti, distogliendoli dalla loro naturale finalità, cioè il finanziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Questo fa sì che si crei una tendenza naturale delle amministrazioni e dei privati a dare il via libera per cementificare nuove aree agricole anche quando è possibile utilizzare strutture già esistenti. Le nuove norme avranno sicuramente un impatto su questo fenomeno".
Di seguito, in sintesi, i punti principali del provvedimento:
1. Vengono definiti "terreni agricoli" tutti quelli che, sulla base degli strumenti urbanistici in vigore, hanno destinazione agricola, indipendentemente dal fatto che vengano utilizzati a questo scopo;
2. Si introduce un meccanismo di identificazione, a livello nazionale, dell'estensione massima di terreni agricoli edificabili (ossia di quei terreni la cui destinazione d'uso può essere modificata dagli strumenti urbanistici). Lo scopo è quello di garantire uno sviluppo equilibrato dell'assetto territoriale e una ripartizione calibrata tra zona suscettibili di utilizzazione agricola e zone edificate/edificabili;
3. Si introduce il divieto di cambiare la destinazione d'uso dei terreni agricoli che hanno usufruito di aiuto di Stato o di aiuti comunitari. Nell'ottica di disincentivare il dissennato consumo di suolo la misura evita che i terreni che hanno usufruito di misure a sostegno dell'attività agricola subiscano un mutamento di destinazione e siano investiti dal processo di urbanizzazione;
4. Viene incentivato il recupero del patrimonio edilizio rurale per favorire l'attività di manutenzione, ristrutturazione e restauro degli edifici esistenti, anziché l'attività di edificazione e costruzione di nuove linee urbane.
5. Si istituisce un registro presso il Ministero delle politiche agricole in cui i Comuni interessati, i cui strumenti urbanistici non prevedono l'aumento di aree edificabili o un aumento inferiore al limite fissato, possono chiedere di essere inseriti.
6. Si abroga la norma che consente che i contributi di costruzione siano parzialmente distolti dalla loro naturale finalità - consistente nel concorrere alle spese per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria - e siano destinati alla copertura delle spese correnti da parte dell'Ente locale.
Il sindaco di Cagliari ha recentemente motivato il suo tentativo di raggiungere un accordo con i proprietari delle aree di Tuvixeddu-Tuvumannu con l’esigenza di non far sborsare ingenti somme al comune. I proprietari, come è noto, si ribellano all’applicazione delle norme del Piano paesaggistico regionale che sono più tutelatrici (dicono: “vincolistiche”) di quelle del piano urbanistico comunale, e il sindaco Zedda ha affermato che «per Tuvixeddu non ce la facciamo, da soli, a fronteggiare eventuali risarcimenti chiesti dai costruttori. Solo per l'annullamento di una piccola porzione del loro intervento, vogliono 12 milioni. E poi c'è l'Ici che hanno pagato». Così abbiamo letto sull’articolo di Francesco Erbani, su Repubblica del 10 febbraio. Abbiamo scoperto così che se l’edificabilità di un’area diminuisce, o scompare, per norma sopraggiunta al pagamento dell’ICI, il comune sarebbe tenuto a rimborsarla. Possibile? ci siamo detti. Non sarà che questo è un'altra voce fatta cirolare dagli interessati, e raccolta dai poco furbi (o troppo furbi)? Che poi diventa opinione corrente, come l’esistenza di “diritti edificatori”?
Abbiamo chiesto un parere a un nostro amico, di cui conosciamo la sapienza e il rigore, Alberto Roccella, che avevamo conosciuto proprio a Cagliari. Ecco la sua risposta, che ci tranquillizza. Ci rimane una curiosità: chi avrà spaventato il sindaco?.
Grazie, Alberto. (e.s.)
Inedificabilità sopravvenuta e preteso diritto al rimborso dell’ICI
di Alberto Roccella
1. Un caso di attualità ancora aperto, quello del progetto di edificazione in prossimità della necropoli di Tuvixeddu, propone un problema di carattere generale meritevole di un approfondimento.
Alcuni amministratori locali sono intenzionati a modificare i piani urbanistici comunali vigenti al fine di ridurre o cancellare previsioni di edificabilità che, se effettivamente realizzate, comprometterebbero valori primari meritevoli di tutela. Essi, tuttavia, sono intimiditi dai proprietari interessati, i quali prospettano, tra l’altro, anche azioni legali volte a ottenere il rimborso dell’ICI, l’imposta comunale sugli immobili, pagata negli anni precedenti. Gli amministratori si preoccupano quindi delle conseguenze delle nuove scelte urbanistiche per le finanze dei loro Comuni.
Ma veramente l’inedificabilità sopravvenuta comporta per i proprietari delle aree il diritto al rimborso da parte del Comune dell’ICI pagata negli anni precedenti?
Per il futuro bisognerà seguire l’evoluzione della legislazione. Infatti il cosiddetto decreto Salva Italia ha sostituito l’ICI, già a partire dal 2012, con l’IMU, la nuova imposta municipale propria sugli immobili, la cui disciplina per vari aspetti rinvia a quella dell’ICI (decreto-legge 201/2011, convertito in legge 214/2011, art. 13). L’IMU però è stata istituita in via sperimentale e la sua applicazione a regime è stata fissata al 2015 (comma 1), lasciando così intendere che la sua disciplina potrà essere ritoccata.
Non è invece prevedibile che venga modificata retroattivamente la normativa sull’ICI che si è applicata fino al 2011 e che si considera nel seguito di questo lavoro, poiché il nostro ordinamento reca una regola generale, se pur derogabile da leggi successive, di segno contrario. La regola è posta dalla legge dedicata allo statuto dei diritti del contribuente, la quale stabilisce che le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo; relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono (l. 212/2000, art. 3, comma 1).
2. Nella disciplina originaria dell’ICI una disposizione prevedeva il caso di aree divenute inedificabili e stabiliva il rimborso dell’imposta pagata per il periodo di tempo decorrente dall’ultimo acquisto tra vivi dell’area (con il limite massimo di dieci anni), a condizione che il vincolo fosse perdurato per almeno tre anni (decreto legislativo 504/1992, art. 13, comma 1, ultimo periodo). Ma questa disposizione è stata presto soppressa e l’obbligo di rimborso dell’imposta è stato trasformato in una semplice facoltà: i Comuni possono prevedere, con proprio regolamento, il diritto al rimborso dell’imposta pagata per le aree successivamente divenute inedificabili, stabilendone termini, limiti temporali e condizioni, avuto anche riguardo alle modalità e alla frequenza delle varianti apportate agli strumenti urbanistici (decreto legislativo 446/1997, art. 58, comma 1, lettera c), e art. 59, comma 1, lettera f).
Proprio con riferimento a questa normativa, tuttora vigente, la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha recentemente deciso in modo netto la questione di principio in un caso facile da descrivere. Un Comune della Lombardia aveva rigettato un’istanza di rimborso dell’ICI pagata per gli anni dal 1993 al 1997; l’istanza era stata avanzata dopo che l’area tassata era divenuta inedificabile per una variazione di pianificazione conseguente a una imposizione della Giunta regionale. La sentenza si è limitata a osservare che la domanda di rimborso dell’imposta, ancorché riferita agli anni 1993-1997, era stata presentata dopo il 1° gennaio 1998, quando era già entrata in vigore la nuova normativa che non prevedeva più l’obbligo del rimborso; d’altra parte non risultava che il Comune avesse approvato un proprio regolamento sul rimborso dell’imposta. Tanto è stato sufficiente per rigettare il ricorso dei privati proprietari avverso la sentenza della commissione tributaria regionale che, nel precedente grado del giudizio, aveva negato il diritto al rimborso (Corte di Cassazione, sezione tributaria, 24 marzo 1010, n. 7100).
Dunque non ci sono dubbi in giurisprudenza. La sopravvenuta inedificabilità dell’area, a seguito di nuove previsioni di pianificazione urbanistica, comporta per i privati proprietari il diritto al rimborso dell’ICI pagata solo nel caso in cui il Comune abbia previsto tale rimborso in un proprio regolamento e nei limiti stabiliti dal regolamento medesimo. Questo principio si applica anche all’ICI pagata per gli anni dal 1993 al 1997, nei quali vigeva invece l’obbligo del rimborso, se la domanda sia stata avanzata dopo il 1° gennaio 1998, quando l’obbligo di rimborso è stato trasformato in semplice facoltà
3. Le sentenze della Corte di Cassazione, per quanto autorevoli, decidono solo il caso specifico e non vincolano gli altri giudici né la stessa Corte per decisioni future sullo stesso problema. Ci si può dunque chiedere se la soluzione sopra esposta sia razionale, accettabile, coerente con il sistema, o se invece sia seriamente criticabile, al fine di valutare se siano prevedibili in futuro mutamenti di giurisprudenza.
A questo riguardo si devono valutare altre importanti decisioni della stessa Corte di Cassazione e della Corte costituzionale che non riguardano specificamente il rimborso dell’ICI, ma delineano i caratteri generali di questo tributo, nella parte relativa alla tassazione delle aree edificabili. La Corte di Cassazione ha pronunciato a sezioni unite una decisione particolarmente approfondita, la sentenza 30 novembre 2006, n. 25506, di cui la Corte costituzionale ha tenuto conto in modo positivo allorché ha dichiarato manifestamente inammissibili o manifestamente infondate varie questioni di legittimità costituzionale della normativa sull’ICI per i terreni edificabili. La Corte costituzionale ha respinto le censure di violazione dei princìpi di capacità contributiva, di ragionevolezza e di uguaglianza, di garanzia della proprietà privata e, in particolare, ha respinto le critiche alla disposizione secondo cui le aree sono da considerarsi edificabili ai fini dell’ICI anche se manchino i necessari piani attuativi dello strumento urbanistico generale (ordinanze n. 41, 266 e 394 del 2008). Vi è quindi pieno accordo tra la massima istanza dell’autorità giudiziaria ordinaria, le sezioni unite della Corte di Cassazione, e la Corte costituzionale (la quale non decide controversie specifiche ma giudica la legittimità delle leggi), pur nella distinzione dei rispettivi ruoli e dell’oggetto dei relativi giudizi.
E allora, invece di proporre affermazioni perentorie che potrebbero suonare gratuite o di sviluppare argomenti che potrebbero apparire soggettivi, conviene affidarsi ai massimi organi giurisdizionali, delle cui decisioni in materia si riportano di seguito testualmente i brani di motivazione più significativi.
3.1. «Bisogna partire da alcune premesse di sistema: l’imposta comunale sugli immobili è una imposta locale sul patrimonio immobiliare, a carattere proporzionale (ad aliquota unica), reale (in quanto prescinde dalle ulteriori condizioni economiche del contribuente) e periodica (riferita all’anno solare). Infatti, il presupposto impositivo è costituito, per quanto interessa in questa sede, dal "possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 1, comma 2). Dunque, l’ICI incide sia il possesso delle aree fabbricabili che quello dei terreni agricoli. La distinzione, però, è rilevante, ai fini fiscali, perché differenti sono i criteri utilizzati per determinare la base imponibile. Infatti, per le aree fabbricabili, la base imponibile è costituita dal "valore venale in comune commercio", calcolato al 1° gennaio dell’anno di imposizione, "avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all’indice di edificabilità, alla destinazione d’uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 5). Per i terreni agricoli, invece, "il valore è costituito da quello che risulta applicando all’ammontare del reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell’anno di imposizione, un moltiplicatore pari a settantacinque" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 7, oltre gli eventuali coefficienti di rivalutazione, l. n. 662 del 1996, ex art. 3, comma 5). In definitiva, ai fini dell’ICI, la distinzione tra aree edificabili e terreni agricoli, non serve per distinguere un bene imponibile da uno non imponibile, serve soltanto per individuare il criterio in base al quale deve essere determinata la base imponibile ICI (criterio del valore venale, secondo i prezzi medi di mercato, ovvero valore catastale). Questa premessa serve anche a sdrammatizzare il problema, perché, se i criteri di calcolo vengono applicati correttamente, il contribuente subirà un prelievo che non sarà mai superiore a quello giustificato dal reale valore del bene posseduto. Con la possibilità, del tutto naturale, che si verifichino oscillazione di valore connesse all’andamento del mercato e/o allo stato di attuazione delle procedure che determinano il perfezionamento dello jus aedificandi. È naturale che le imposte patrimoniali siano commisurate al valore del patrimonio cui si riferiscono. Possono verificarsi variazioni al rialzo, che comportano un maggior prelievo nel periodo di imposta, o variazioni al ribasso (ad esempio, a causa della mancata approvazione del PRG), che attenuano il prelievo, senza che questo comporti, ex se, il diritto al rimborso per gli anni pregressi (salvo che i comuni non ritengano, sul piano dell’equità, di riconoscere il diritto al rimborso (d.lgs. n. 446 del 1997, ex art. 59, comma 1, lett. f)), durante i quali, comunque, l’imposta è stata commisurata al valore venale di mercato. E non rileva, ai fini dell’ICI, che l’incremento di valore non sia stato monetizzato, attraverso un atto di trasferimento oneroso, che, eventualmente, ricorrendone i presupposti di legge, avrebbe potuto dare luogo ad una plusvalenza, soggetta ad imposta sul reddito. D’altra parte, anche un PRG approvato e vigente è soggetto a modifiche che possono portare a una diversa classificazione dei suoli con conseguenti sensibili oscillazioni di valore. Per ragioni di equità, come già accennato, il legislatore ha previsto espressamente che i comuni possano "prevedere il diritto al rimborso dell’imposta pagata per le aree successivamente divenute inedificabili, stabilendone termini, limiti temporali e condizioni, avuto anche riguardo alle modalità ed alla frequenza delle varianti apportate agli strumenti urbanistici" (d.lgs. n. 446 del 1997, art. 59, comma 1, lett. f))». (Cass., sez. un., 25506/2006).
3.2. «È del tutto ragionevole che il legislatore: a) attribuisca alla nozione di “area edificabile” significati diversi a seconda del settore normativo in cui detta nozione deve operare e, pertanto, distingua tra normativa fiscale, per la quale rileva la corretta determinazione del valore imponibile del suolo, e normativa urbanistica, per la quale invece rileva l’effettiva possibilità di edificare, secondo il corretto uso del territorio, indipendentemente dal valore venale del suolo; b) muova dal presupposto fattuale che un’area in relazione alla quale non è ancora ottenibile il permesso di costruire, ma che tuttavia è qualificata come “edificabile” da uno strumento urbanistico generale non approvato o attuato, ha un valore venale tendenzialmente diverso da quello di un terreno agricolo privo di tale qualificazione; c) conseguentemente distingua, ai fini della determinazione dell’imponibile dell’ICI, le aree qualificate edificabili in base a strumenti urbanistici non approvati o non attuati (e, quindi, in concreto non ancora edificabili), per le quali applica il criterio del valore venale, dalle aree agricole prive di detta qualificazione, per le quali applica il diverso criterio della valutazione basata sulle rendite catastali» (Corte cost., 41/2008, richiamata anche da Corte cost., 266/2008).
3.3. «La potenzialità edificatoria dell’area, anche se prevista da strumenti urbanistici solo in itinere o ancora inattuati, costituisce notoriamente un elemento oggettivo idoneo ad influenzare il valore del terreno e, pertanto, rappresenta un indice di capacità contributiva adeguato, ai sensi dell’art. 53 Cost., in quanto espressivo di una specifica posizione di vantaggio economicamente rilevante; e ciò indipendentemente dalla eventualità che, nei contratti di compravendita, il compratore, in considerazione dei motivi dell’acquisto, si cauteli condizionando il negozio alla concreta edificabilità del suolo, trattandosi di una ipotetica circostanza di mero fatto, come tale irrilevante nel giudizio di legittimità costituzionale; (…) inoltre, il criterio del valore venale non comporta affatto (…) una valutazione fissa ed astratta del bene, ma consente di attribuire al terreno (già qualificato come edificabile dallo strumento urbanistico generale) il suo valore di mercato, adeguando la valutazione alle specifiche condizioni di fatto del bene e, quindi, anche alle più o meno rilevanti probabilità di rendere attuali le potenzialità edificatorie dell’area» (Corte cost., 41/2008, richiamata anche da Corte cost., 266/2008 e 394/2008).
3.4. «(..) Contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo, il pagamento dell’ICI, attenendo all’adempimento, mediante versamento diretto di una somma di denaro, di un obbligo tributario, non rientra nelle ipotesi di espropriazione di beni previste dall’evocato terzo comma dell’art. 42 Cost.; e ciò neppure nel caso in cui il contribuente non abbia a disposizione denaro liquido e, per adempiere detto obbligo, alieni a terzi uno o più beni di sua proprietà; (..) l’assunto del giudice a quo, per cui, in definitiva, le imposte patrimoniali sono costituzionalmente legittime solo se possono essere pagate con il reddito ritraibile dal cespite oggetto d’imposta, non trova fondamento nemmeno nel primo comma dell’art. 53 Cost., perché la capacità contributiva in ragione della quale il contribuente è chiamato a concorrere alle pubbliche spese esige solo l’oggettivo e ragionevole collegamento del tributo a un effettivo indice di ricchezza espresso, nella specie, dal valore del bene immobile “posseduto” dal soggetto passivo di imposta ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992 (…); (..) il presupposto fattuale della qualificazione di un’area come “edificabile” ad opera di uno strumento urbanistico generale non approvato o non attuato costituisce un indice di capacità contributiva che, giustificando la tassazione ai sensi dell’art. 53 Cost., esclude di per sé l’evocabilità dell’art. 42, terzo comma, Cost.» (Corte cost., 394/2008).
4. Le decisioni della Corte di cassazione e della Corte costituzionale guidano verso le conclusioni.
L’ICI riguardava tutte le aree, non solo quelle fabbricabili ma anche quelle agricole. La base imponibile era sempre il valore del bene (non il suo reddito), ma da determinare con due criteri diversi, il valore venale in comune commercio per le aree fabbricabili, un moltiplicatore legale del reddito catastale per le aree agricole.
La nozione di area fabbricabile ai fini dell’ICI non coincideva con la stessa nozione a fini urbanistici. Ai fini dell’ICI, infatti, le aree erano considerate fabbricabili se utilizzabili a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi dello strumento generale. Ai fini dell’ICI, dunque, le aree potevano essere considerate fabbricabili ma in quattro circostanze diverse, in relazione allo stato di attuazione delle procedure che determinano il perfezionamento dello jus aedificandi (secondo l’espressione adoperata dalla Corte di Cassazione a sezioni unite). Le quattro circostanze sono così sintetizzabili: 1) piano regolatore generale adottato, ma non ancora perfezionato; 2) piano regolatore generale approvato e in vigore, ma con edificazione soggetta a pianificazione attuativa; 3) piano regolatore generale seguito da pianificazione attuativa in vigore (ovvero anche piano regolatore generale la cui attuazione non sia subordinata a pianificazione attuativa); 4) avvenuto rilascio del permesso di costruire. Il valore venale in comune commercio poteva dunque risultare diverso in relazione a ciascuna delle quattro circostanze (come suggerito non solo dalla Corte di Cassazione a sezioni unite ma anche dalla Corte costituzionale nel brano riportato al par. 3.3.) e resta ferma al riguardo la giusta considerazione che si legge nella sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite: i criteri di calcolo dovevano essere applicati correttamente (con la conseguenza, si può aggiungere, che il valore venale non era lo stesso nelle quattro circostanze).
La sopravvenuta inedificabilità non poteva mai giustificare una richiesta di rimborso integrale dell’ICI pagata, ma soltanto un rimborso parziale, con la rideterminazione dell’imposta dovuta per differenza tra l’importo calcolato secondo il criterio del valore venale e quello basato sulle risultanze catastali. Ma, come ha ben spiegato la Corte di cassazione a sezioni unite, l’ICI era un’imposta che colpiva il patrimonio, non il reddito, ed era quindi logico che essa fosse ragguagliata, anno per anno, al valore delle aree secondo le loro caratteristiche per il relativo periodo di imposta, sempre con riferimento al 1° gennaio dell’anno di imposizione. Solo considerazioni equitative, rimesse all’autonomia regolamentare del singolo Comune, potevano dar luogo, in caso di sopravvenuta inedificabilità, al rimborso dell’ICI pagata, peraltro un rimborso parziale, come più sopra chiarito.
La Corte di Cassazione a sezioni unite e la Corte costituzionale ci hanno dato una ricostruzione coerente, sistematica e razionale della disciplina dell’ICI, cosicché non è prevedibile un cambiamento di giurisprudenza.
Si può aggiungere che questa disciplina dell’ICI aveva anche una giustificazione razionale che non compare nelle sentenze esaminate, le quali non avevano motivo di considerarla in funzione dei problemi da risolvere, ma che si mostra chiaramente a chi si occupa per motivi di studio di diritto urbanistico e che potrebbe essere confermata da chi ha pratica di governo del territorio. Non è frequente che i proprietari chiedano, nelle procedure di pianificazione urbanistica, di mantenere la destinazione agricola delle loro aree. I proprietari invece spesso esercitano forti pressioni sugli amministratori pubblici per ottenere, nelle stesse procedure, la destinazione edificatoria delle loro aree, anche se essi non hanno veramente intenzione di costruire immediatamente. La destinazione edificatoria di piano regolatore generale produce subito un incremento di valore delle aree, spendibile non solo in trattative commerciali con potenziali acquirenti, ma anche nei rapporti con le banche come garanzia per l’accesso al credito. L’ICI sulle aree fabbricabili commisurata al valore in comune commercio e non alla rendita catastale (come invece per le aree agricole) rappresentava un fattore di equilibrio del sistema, perché bilanciava le pressioni per ottenere con la pianificazione urbanistica destinazioni non corrispondenti a reali e attuali esigenze edificatorie. La disciplina tributaria si collegava alla disciplina urbanistica attenuando, sia pure parzialmente, le pressioni per piani urbanistici sovradimensionati.
La disciplina dell’ICI, così come ricostruita, è contestabile solo da chi, per pregiudizio ideologico e politico, ritenga che i tributi debbano colpire sempre i redditi e i consumi e non possano invece colpire i patrimoni. Le decisioni considerate invece esplicitamente qualificano l’ICI come imposta patrimoniale e la considerano compatibile con la Costituzione. Il rimborso dell’ICI per inedificabilità sopravvenuta era previsto dalla legge solo a discrezione del Comune, come misura equitativa, in stretta correlazione col carattere del tributo di imposta patrimoniale.
Le cattive scelte di pianificazione urbanistica operate in passato sono sempre suscettibili di essere corrette, riducendo o cancellando previsioni di edificabilità eccessive o sconsiderate. Ovviamente occorre che le nuove scelte siano disposte nel rispetto delle regole di legge, sostanziali e procedurali, sulla pianificazione e siano quindi indenni da vizi di legittimità censurabili dal giudice amministrativo. Ma la disciplina dell’ICI non costituisce una remora per le variazioni di pianificazione le quali, come si è visto, possono comportare conseguenze finanziarie sui Comuni solo nei limiti in cui gli stessi Comuni, per ragioni equitative, abbiano previsto il rimborso (parziale) dell’imposta pagata negli anni precedenti.
Si avverte, infine, che l’IMU ha la stessa natura dell’ICI e che la vigente disciplina dell’IMU, da applicare in via sperimentale nel triennio 2012-2014, non contiene, per il rimborso dell’imposta, nessuna disposizione diversa da quelle relative all’ICI.
16 febbraio2012
La Libera Università di donne e uomini si richiama ad Ipazia protagonista di quella rivoluzione scientifica e filosofica che, iniziata nel 200 a.C., ad Alessandria, viene cancellata, con il suo assassinio, dalla violenza del potere nel 415 d.C. La Libera Università intende intrecciare generi e generazioni, culture e saperi in modalità relazionali per dare spazio al dialogo, al confronto, in uno scambio dei ruoli, così da rendere pratica effettiva l'essere-insieme. Si vuole in tal modo creare uno spazio d'incontri, per contrastare la desertificazione culturale e cognitiva dei luoghi tradizionali di trasmissione delle conoscenza, per favorire attivi filoni di ricerca, e contrastare, in generale, quei processi sociali, politici e culturali disgregativi che fanno riemergere la violenza in tutte le sue forme.
Grazie a tutti/e quelli/e che hanno partecipato, in qualsiasi forma, alle giornate sulla "Città reale /Città possibile", tenute al Giardino dei Ciliegi nell'inverno del 2005, contribuendo così, direttamente e indirettamente, a questa carta dei desideri. Un particolare grazie ai colori e ai sogni delle alunne e degli alunni della seconda Media Scuola Città pestalozzi per il loro viaggio nella città di oggi e in quella di domani, che vorremmo all'altezza dei loro sorrisi.
Desideriamo anche esprimere il nostro debito alle/ai molte/i, le cui idee e il cui ricordo – dalla letteratura alla politica, dall'urbanistica alle arti - sono la trama e l'ordito di questo nostro tentativo, anche se le nostre lacune non sono certo a loro imputabili.
Premessa
Oggi, all'inizio del nuovo secolo, la città del welfare, incarnazione di un ideale di governo e progettazione dello spazio urbano volto a produrre integrazione sociale e a scongiurare gli effetti negativi prodotti dalle leggi di mercato, è in crisi. E' stata travolta dalla delocalizzazione, dal ridimensionamento produttivo, dall'evaporarsi delle politiche pubbliche e dalla corsa alle privatizzazioni. Si hanno così diverse conseguenze, fra cui un’accelerata mutazione dell’organizzazione spaziale della città, dove siti industriali e commerciali si svuotano ma sono consegnati nuovamente alla speculazione immobiliare. Le relazioni umane, sociali e culturali si lacerano, mentre sulla base di posizioni ispirate dalla mondializzazione, le città tendono a rap¬portarsi fra loro come imprese private in con¬correnza, favorendo di conseguenza quella politica che considera il progetto, urbano o territoriale che sia, un ostacolo alle op¬portunità da cogliere, e l'edificazione un'esclusiva questione pri¬vata. Tale affermazione in realtà può essere rovesciata: costruire è sempre un atto pubblico, perciò inevitabilmente politico. Proprio per questo la crisi della città – cui le forze del mercato (immobiliare ma non solo) rispondono con nuove cementificazioni, con nuovi insediamenti spesso blindati, sprechi di risorse naturali e soffocamento urbano – può essere affrontata solo a condizione che il potere decisionale torni in mano pubblica.
La crisi della città
La struttura urbanistica delle città italiane arriva al 1860 quasi immutata rispetto alla loro fisionomia rinascimentale e barocca: dopo l’Unità, protagonista d'ogni ampliamento e d'ogni trasformazione è la rendita fondiaria urbana, vale a dire la differenza tra il valore agricolo iniziale e quello assunto dal terreno una volta reso edificabile dal Comune e dotato d'infrastrutture. Da allora la rendita fondiaria è strumento insostituibile di ogni avvenimento urbano, e addirittura ragione d’essere del sorgere di nuovi quartieri, di nuove case. La città realizzata sotto il dominio della rendita, diventa così elemento portante di una sintesi politica, capace di condizionare l'economia, la correttezza amministrativa, il rapporto fra i poteri, l'esercizio effettivo della sovranità popolare.
Infatti, molte delle patologie, di cui soffrono le nostre città, sono dovute alla pressoché perenne e devastante vendita all'incanto dei suoli che ha segnato l'assetto urbano e territoriale del nostro Paese fin dai primi anni dell'Unità politica, dove i pubblici poteri hanno semplicemente accompagnato qualsiasi modernizzazione, rendendo tutto vendibile, prostituendo il territorio e l'ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni (Franco Cassano).
A questa lunga tradizione va aggiunta oggi l'esplosione della crisi ambientale. Le modifiche climatiche, l’effetto serra, il buco dell’ozono, segnalano che la questione è ormai ineludibile poiché il sistema natura mostra evidenti limiti d’autoregolazione a livello globale e locale, con rischio per la salute del singolo e per la stessa sopravvivenza della specie umana. Il nesso tra “stato sociale” e “stato ecologico” dovrebbe risultare ovvio poiché il cittadino/la cittadina in quanto soggetti di diritto alla salute devono poter godere un’aria e un'acqua che non inquinino, mangiare cibi che non avvelenino, avere un lavoro che non faccia morire di cancro. Il diritto alla salute non comporta solo assistenza e terapia, come è noto, ma anche prevenzione e la prima prevenzione è salvaguardare l'ambiente.
Lo sfruttamento dell’uomo sulla natura è un aspetto del più generale sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della conseguente ricerca di una diversa ragione dello sviluppo. Un discorso ecologico cioè non può essere disgiunto da un discorso sociale , e viceversa. Perciò l’innovazione delle procedure urbanistiche va considerata, valutata e giudicata all’interno di un programma sociale centrato su nuove regole di convivenza.
I tessuti urbani del nostro presente globalizzato sono alterati dal declino della grande fabbrica, dalla riduzione sia degli impianti produttivi sia dei lavoratori, e dall'apertura di fabbriche in paesi dal costo del lavoro e protezione sindacale più bassi (delocalizzazione). Come conseguenza, anche per la voluta assenza di politiche pubbliche, si determina una profonda mutazione della città: siti industriali e commerciali si svuotano senza essere tuttavia consegnati nelle mani dei cittadini per diventare luoghi di sviluppo diversi all'interno delle città, accogliendo funzioni di interesse culturale o di altro genere, e supplendo anche alla carenza di edilizia residenziale di tipo popolare, che non necessariamente deve essere rappresentata da casermoni. Sono invece nuovamente ceduti alla sistematica edificazione poiché la crescita economica per molti oggi passa necessariamente attraverso l'apertura della città all'impresa globale.
Essendo la mentalità dominata dalla logica d'impresa, emergono anche nei centri minori sia le regole di gestione ricalcate sul modello aziendale, sia il mito immorale della competizione: le città conducono, infatti, una politica economica senza esclusione di colpi l’una nei confronti dell’altra, offrendo il possibile e l'impossibile alla transnazionale o all'immobiliare di turno, rap¬portandosi così fra loro come aziende private in con¬correnza. In questa realtà fatta di integrale ade¬sione agli interessi economici finanziari e speculativi, l'Ente locale, mentre diventa sempre più liberista sul ter¬reno sociale, è fervente interventista sul piano dell’economia e dei mercati, anche attraverso nuovi Piani regolatori e Piani strutturali, vere e proprie "offerte" al mercato di aree edificabili.
Eppure la città non è solo lo spazio della rappresentazione del denaro, poiché non ospita solo attività economiche ma ben più vaste costellazioni umane. Nella dimensione spazio-temporale le città non sono solo vetro, mattoni e cemento ma carne, sangue, grumi di esistenza, memorie, labirinti di strade e corpi: sono storia. Appena si varca la soglia di casa, andando per la città, in quello spazio sostanzialmente plasmato dal potere e dalla speculazione, s'incontrano corpi ed esistenze, desideri e bisogni che considerano l'economia un semplice mezzo della vita umana e non il suo fine ultimo.
E tuttavia la città è stata sempre piegata alla speculazione edilizia e alla rendita fondiaria; l'urbanistica contrattata favorisce le cordate economico-finanziarie e i condoni; l'espansione della rendita viene sempre pagata dai ceti sociali più sfavoriti e sottrae risorse per impieghi produttivi; i piani per l'edilizia economica e popolare sono ormai archeologia e gli Istituti delle case popolari non sono più titolari di politiche e di finanziamenti ad hoc. Inoltre alla “rendita assoluta” della fase espansiva a macchia d’olio si è aggiunta la “rendita differenziale” (o "relativa") che agisce su ogni singolo terreno o unità immobiliare, secondo l'ubicazione e/o in base al prestigio percepito. Infine va considerato che la valorizzazione fondiaria viene determinata dallo sviluppo generale della città ed è quindi una ricchezza collettiva di cui s'impossessa il solo proprietario.
Per tutte queste ragioni riteniamo che la generalizzata domanda di servizi collettivi e di trasformazioni ambientali, sia riassumibile nella più generale questione della qualità della vita, dove il problema ambientale confluisce. Se lo spreco di energia è grave, lo spreco di spazio lo è altrettanto in quanto la quantità di territorio disponibile è un bene limitato e irriproducibile. Dobbiamo convincerci che la rigorosa tutela della natura è garanzia di progresso sociale ed economico; che i vincoli sono un essenziale servizio pubblico; che la salvaguardia dei valori paesistici, culturali e l’uso parsimonioso del territorio, sono una priorità assoluta, alla quale va subordinata qualsiasi ipotesi di trasformazione.
Pianificare per ricostruire società
In Italia il dominio della rendita fondiaria ha comportato la rinuncia da parte di molti ceti politici agli obiettivi di pianificazione democratica. Questo dipende dal fatto che un piano vieta, almeno in linea di principio, mediazioni, eccezioni, modifiche continue fino allo stravolgimento, appoggi clientelari, deroghe, abusivismi . Se poi il Piano, oltre che avere una sua correttezza tecnico-scientifica, fosse anche aperto alla corresponsabilità attuativa e gestionale delle/dei cittadine/i, difficilmente si potrebbe attuare uno sfruttamento personale su quel bene collettivo che è una città. Si comprende facilmente, allora perché i piani siano stati visti da un lato come il "libro dei sogni", e, dall'altro come siano stati bruciati a favore della contrattazione caso per caso.
La ragione dello scadimento culturale e politico della materia urbanistica e architettonica sta essenzialmente nel fatto che, anche dentro la sinistra, neoliberismo, deregolamentazione e privatizzazione ad oltranza hanno messo radici. L'urbanistica guidata dal piano regolatore, nonostante la complessità delle sue regole, fornisce un sistema di garanzie, ma è stata progressivamente sostituita dalla discrezionalità cioè dalla contrattazione con la proprietà immobiliare che fa evaporare la pianificazione territoriale. Capofila di questa tendenza è il Comune di Milano dove, al di là della terminologia tecnico-giuridica adottata, i progetti e i programmi pubblici e privati non sono tenuti ad uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore, ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti, trasformandosi in una specie di ufficio del catasto che registra le trasformazioni edilizie contrattate e concordate (Vezio De Lucia).
Sostenuta in particolare dal mondo accademico, questa modalità si è affermata in larga parte d'Italia. Senza voler assumere l'ordinamento urbanistico tradizionale come se fosse un valore in sé, poiché il PRG è uno strumento molto spesso utilizzato con procedure oggettivamente indifendibili e presenta delle indubbie rigidità, tuttavia va evidenziato come l'urbanistica contrattata faccia prevalere l'interesse privato su quello pubblico. Questa si manifesta ogni volta che l'iniziativa sull'assetto del territorio è presa per la pressione diretta o con il decisivo condizionamento di chi detiene il possesso dei beni immobiliari, quando insomma comanda la proprietà e non il Comune (Salzano).
Il piano regolatore è stato fino ad ora uno strumento di tutela ma anche, come si è accennato, uno strumento rigido ed immobile. In particolare non rispecchia le caratteristiche dinamiche del territorio, se con questa parola non intendiamo solo un'unità spaziale ma un risultato complesso di fattori culturali, sociali ed economici; tutti fattori dipendenti in sostanza dalla popolazione che lo abita, la quale si modifica nel tempo, non solo in termini numerici, ma soprattutto in termini di distribuzione qualitativa. Inoltre è uno strumento di contrattazione individuale che prevede solo le "osservazioni", per di più a posteriori: il Comune apre di fatto una "trattativa privata" che mette il cittadino di fronte alla possibilità di contrattare unicamente sul singolo appezzamento o su ciò che lo riguarda molto da vicino. Questo fa sì che emergano solo interessi particolari e bisogni individuali (dei piccoli proprietari come dei grandi) ai quali l'amministrazione pubblica, al massimo, può contrapporre od imporre delle motivazioni di "utilità collettiva". Ma la verità è che, non presentando alcuna fase procedurale durante la quale chiamare i singoli a ragionare come comunità sullo sviluppo complessivo del loro territori, non permette agli interessi individuali di maturare, attraverso il confronto, il dialogo, l'informazione e di comporsi in un disegno comune che arriverebbe così a rispecchiare, senza doverlo imporre, una "Città come Bene Comune". Infine è uno strumento non in grado di correggersi per come è stato concepito. E' così in contrasto con il concetto stesso di sviluppo sostenibile, che prevede sì che le scelte iniziali debbano essere chiare, i principi condivisi e gli obiettivi rispettati, ma anche che i processi debbano essere flessibili ed in grado di assorbire nuove informazioni man mano che la situazione si sviluppa: è il concetto di feedback, particolarmente interessante nei processi di progettazione urbana sostenibile, perché prende atto del fatto che le condizioni possano variare in corso di realizzazione, e che vadano continuamente monitorate per trovare soluzioni senza però compromettere scelte, principi, obiettivi.
Nonostante questi limiti del Piano Regolatore, non ci separiamo dall'idea della centralità della pianificazione territoriale che possiamo ben dire decisiva affinché il "fare città" sia nelle mani dei/delle cittadini/e.
Di fronte alle idee dominanti dello sfruttamento (territorio come serbatoio di risorse) e della competitività (territorio come merce), la pianificazione del territorio perciò deve tornare ad incidere nella riproduzione dei cosiddetti «valori d'uso», per avviare forme e pratiche di «fare società» e riportare il confronto politico al centro di una necessaria ricomposizione di un collettivo sociale. Occorre dunque pensare ad un "processo di pianificazione ambientale" che "per la sue caratteristiche di continuità, autocorrezione, e adattabilità, diventi una funzione permanente del territorio. Si va progressivamente affermando il piano-processo, che trova la sua forza nella capacità di adattamento ai mutamenti continui di una realtà complessa ed in continua evoluzione» (Fernando Clemente). Di fronte al caos della città contemporanea - che non è una fatalità naturale, ma l'effetto di politiche diverse, tutte comunque indirizzate verso una identica azione di utilizzo dello spazio urbano – occorre parlare di urbanizzazione capitalistica. Non significa voler apporre un'etichetta per dar vita ad un affresco immobile e astratto, anzi è voler fare emergere dal territorio analizzato – al quale non si può guardare come fosse una cartolina - relazioni sociali e rapporti di produzione, perché il territorio stesso è soggetto e prodotto del processo di produzione: un processo costituito da divisione sociale del lavoro, da accumulazioni, da rapporti e, soprattutto, da «risorse» o meglio da «valori d'uso», che sono allo stesso tempo «oggetti materiali» e fattori della produzione di città (trasporti, spazi pubblici, scuole, strade, rete idrica, gas, elettricità, telecomunicazioni, servizi e attrezzature in genere, ecc. ).
Appare pertanto ancora oggi un valido punto di partenza considerare l'urbanizzazione capitalistica come una «molteplicità di processi capitalistici privati, di appropriazione dello spazio, dove ciascuno di tali processi è determinato dai singoli rapporti di produzione, cioè dalle regole di valorizzazione di ciascun capitale o frazione di capitale» (Edmond Préteceille). All'interno di questo processo la proprietà fondiaria e immobiliare è riuscita a superare il problema dell'appropriazione dello spazio, andando, tra l'altro, ad intervenire pesantemente proprio sulla natura della pianificazione urbana, svilendone i presupposti e depotenziandone le capacità, per avere più facile gioco nel controllo della produzione di quei «valori d'uso» necessari all'appropriazione dello spazio, e alla destinazione dei suoli.
Essendo la città uno spazio dove i problemi privati si connettono a quelli pubblici, riteniamo che nella pianificazione della città e del territorio debba prevalere una visione non tecnocratica ma attenta alle differenze qualitative dei luoghi e dei soggetti, a partire da quelli meno tutelati nelle loro concrete esigenze. Aprire il piano regolatore all'immenso arcipelago complesso dei corpi che abitano lo spazio, vuol dire intrecciare il Piano urbanistico con quello che Silvia Macchi chiama "un piano regolatore sociale", per poter pensare la città insieme ai soggetti reali che la vivono. Per tornare a vedere la policromia umana, è tuttavia preliminare prendere le distanze da qualsiasi automatismo tra crescita economica e qualità della vita, rovesciando la priorità delle leggi economiche in priorità delle persone e dell'ambiente. Per queste ragioni la pianificazione non può esprimersi nell'unica forma del piano urbanistico, ma deve tenere conto della necessità di una interazione tra tutti i soggetti sociali, e della pluralità di esigenze, obiettivi, percorsi e sbocchi. In questo senso il governo locale deve operare per una connessione tra pianificazione urbana e dinamiche sociali e politiche più complessive.
Questo approccio relazionale alla pianificazione, crea le condizioni – in un confronto fra tutti gli attori sociali – per riappropriarsi del territorio, attraverso la pianificazione come processo finalizzato al «fare società», il contrario dell'urbanistica contrattata. Il progetto, infatti, come scrive Dematteis, è una sfera spazio-temporale che mette in relazione i soggetti nelle più diverse accezioni: la razionalità, i desideri, i sentimenti, le passioni, le abilità, la memoria, la creatività. Il progetto della città e del territorio è un progetto collettivo, ossia è un processo di interazione sociale, è una emergenza dell'essere-insieme, è un progetto di società, un progetto politico e culturale.
Il concetto di territorio non serve solo per circoscrivere un'area più o meno omogenea con al centro la città, ma rappresenta la materialità dei 'luoghi' attraverso cui passa la costruzione di una società: rapporti, relazioni, rappresentazioni. Ecco perché un progetto di città è un progetto di territorio e viceversa; ecco perché gli esiti dell'interazione progettuale non riguardano solo le modalità di sviluppo e di organizzazione del territorio, ma le prospettive di costruzione e di 'fare società'. Il territorio infatti è una rete di soggetti politici e sociali, ossia di soggetti progettuali. Il progetto della città è un processo creativo che richiama l'attenzione sull'articolazione e sulla ricchezza della realtà, dello spazio, delle relazioni sociali: esperienze, memorie, emozioni che costruiscono una 'identità relazionale', mutante, plurale in continuo confronto/conflitto con ogni altra identità. Vedere la struttura sociale come sistema stratificato e intrecciato di relazioni è il punto di partenza e di arrivo per una pianificazione come funzione permanente del territorio e come interazione sociale fra tutti i soggetti che vi agiscono. Con questa diversa prospettiva il territorio può tornare ad essere il 'luogo' della ricostituzione del tessuto sociale.
Pertanto il piano deve riportare alla luce quella incorporazione sociale e culturale propria del territorio. Ma per poter fare questo occorre prima di tutto svelare il gigantesco processo di funzionalizzazione del territorio alla competizione globale. Il sistema produttivo è passato da una strutturazione centrata sulla fabbrica, luogo unico della produzione, alla sua dilatazione nel territorio, al punto che l'intero complesso territoriale è diventato luogo di produzione. Perciò Bonomi parla di "territorio come fabbrica" in quanto si è affermata la competizione tra sistemi territoriali, e le nuove configurazioni del territorio sono dettate dai sistemi di scambi produttivi. Ecco perché il territorio è diventato una merce e perché all'interno di questa logica, sul territorio finiscono per prevalere in maniera esclusiva le reti dei soggetti e dei luoghi funzionali alla produzione. Lo scollamento tra il territorio con una sua consistenza fisica, ambientale, culturale, storica, e il territorio come sola rete dei luoghi della produzione competitiva, è a questo punto completo.
Un diverso modo di pensare e vivere lo spazio urbano, rispetto a quello della città come mercato e del territorio come merce, dipende da tutti coloro che abitano, utilizzano e percorrono la città stabilmente e occasionalmente. I tempi e gli spazi della città influiscono sulla vita di tutti, sulla quotidianità e sulla materialità ed ecco perché devono essere i cittadini nel loro complesso i soggetti della pianificazione: una pianificazione plurale e diffusa nel senso della interazione fra diversità. In altri termini la pianificazione è necessaria perché deve regolare ed esaltare le diversità esistenti, non annullarle in un indistinto partecipato (come nel mercato), bensì dare forma ad una eguale partecipazione per costruire un progetto di società da rinnovare continuamente nella sua attuazione. L'obiettivo finale dell'interazione progettuale non è così né un compromesso, né una combinazione di interessi, ma una riflessione critica in divenire, un'attività elaborativa di riflessione sul modello di sviluppo, sui mutamenti in corso, sulle dinamiche sociali e culturali e sui «futuri della città».
Il piano diventa così il prodotto di una pianificazione capace progressivamente di ripensare se stessa perché non causa ed effetto di una proceduralizzazione amministrativa (il piano come regolazione e mediazione tra poteri e interessi), bensì capace di spostare l'attenzione sul carattere dei processi e sui soggetti che vi partecipano. Ecco che allora il piano diventa l'occasione per ricostruire un tessuto sociale attraverso l'interazione di tutti i soggetti, insieme alle istituzioni, recuperando il significato perduto della politica come relazione, confronto, conflitto. Così facendo il piano diventa un momento della pianificazione stessa come interazione sociale di tutti i soggetti che agiscono sul territorio e non solo del tecnico, dell'amministratore e dell'immobiliarista: al centro non vi sono più solo gli strumenti, ma le problematiche dello sviluppo e dell'ambiente, l'azione e le politiche dei soggetti coinvolti.
In questa prospettiva non è più il piano in sé ad essere oggetto di elaborazione, ma è il territorio stesso tramite e attraverso i soggetti che vi abitano e interagiscono. Il piano diviene così un momento del complessivo processo di pianificazione, un momento di formalizzazione del processo (progressivo e continuo) di riappropriazione culturale del territorio.
E' questo il tratto distintivo dello «sviluppo locale», che attiva un processo di responsabilizzazione collettiva del proprio patrimonio a sostegno della qualità del vivere (presente e futura), autodeterminazione del proprio modello di sviluppo, costruzione di reti sociali e produttive in grado di organizzarsi e relazionarsi criticamente e in autonomia con le reti globali.
I concetti di qualità urbana, di sviluppo sostenibile, di ecologia della vita quotidiana sono ovunque sempre più annunciati ma raramente tradotti in coerente azione pubblica. La qualità urbana è qualità d'insieme e non la si raggiunge se non si tenta di governare insieme le diverse parti che compongono la città e i suoi diversi aspetti: da quelli formali a quelli funzionali. E' per questo che la qualità è raggiungibile solo mediante la tecnica della pianificazione urbanistica: una tecnica, un metodo, una procedura che considerando il territorio urbanizzato come un sistema, vuole governare le trasformazioni valutando gli effetti che ogni intervento esercita sull'insieme. Perciò l'urbanistica contrattata è l'elusione della pianificazione. Se gli amministratori cercano oggi la scorciatoia dell'intesa con la proprietà è spesso perché non prendono in considerazione la possibilità di regole nuove e più efficaci anche perché l'impegno rigoroso e costante, necessario per costruire una politica della pianificazione, paga meno e meno rapidamente dell'accordo raggiunto con un potentato economico. Si tratta comunque di un atteggiamento che non solo rende gli amministratori esposti al sospetto e al rischio della corruzione ma li rende rinunciatari rispetto ai reali interessi collettivi di qualità e funzionalità urbana.
Non basta però limitarsi a denunciare un simile atteggiamento. Occorre invece riflettere sulle sue cause. E allora appare evidente che esso è in primo luogo l'effetto di quella decennale deregolamentazione urbanistica promossa dallo schieramento moderato ma tollerata dalla sinistra che ha contrassegnato il decennio trascorso: una campagna che mentre screditava la pianificazione alla quale si arrivava ad imputare anche l'abusivismo edilizio ("abusivismo di necessità"), tendeva a spegnere ogni tensione per una riforma legislativa. E' un atteggiamento che oggi può essere superato solo con un costante impegno politico e culturale che sappia intrecciare la ripresa dell'iniziativa legislativa con le concrete vertenze ed esperienze locali. Sul primo terreno d'impegno, la sinistra può essere determinante per sbloccare finalmente la decennale vicenda degli espropri e dei vincoli urbanistici e per dare all'Italia una legge moderna sul regime delle aree e degli edifici; sul secondo terreno delle mille realtà locali, si misura la capacità della sinistra di fornire risposte adeguate alla crisi delle città, una crisi che è il prodotto di errori culturali e politici, di pigre miopie e di fughe dalla corposità degli interessi (Salsano).
Nelle decine di documenti che formano il nuovo strumento urbanistico di Roma e di Firenze, ad esempio, non c'è nessuna traccia di elaborazione sul consumo del suolo e sui metodi per fermarlo. Anzi è la stessa logica del piano che alimenta il consumo di suolo, poiché il meccanismo di produzione dei beni pubblici (verde, scuole, parcheggi, attrezzature) dipende dall'edificazione privata. Ed è anche evidente l'assenza di indirizzi in materia di politica abitativa, in particolare rispetto alla "domanda povera" (sfrattati, immigrati, senza fissa dimora, nomadi, ecc.) e di quella in ogni caso non opulenta. Un PRG non può certo risolvere tutti i problemi. Infatti se da oltre un decennio assistiamo alla cancellazione del concetto stesso di edilizia pubblica, non è certo l'urbanistica che può invertire questa deriva. Per questo servirebbe una politica che abbia a cuore il destino di tutti coloro che non hanno la capacità di accedere al mitico mercato.
A Firenze e a Roma, mancando questa impostazione, la cosiddetta crescita economica si traduce ineluttabilmente in crescita edilizia e le nuove cubature diventano merce di scambio tra operatori economici e amministrazione cittadina, ma nessuna "compensazione" potrà mai restituire gli spazi aperti e gli orizzonti liberi cancellati dall'edificazione. La mancanza di risorse fornisce il pretesto per ulteriori anche se inedite agevolazioni agli operatori immobiliari e alla speculazione fondiaria: il Comune rende edificabile un suolo, l'immobiliarista cede qualche alloggio per l'emergenza abitativa, non importa dove, non importa come.
L'impegno dev’essere dunque quello di dotare finalmente l’Italia della fondamentale legge che consenta di sottrarre alla taglia della rendita fondiaria terreni e immobili, separando il diritto di proprietà da quello di costruzione e la riaffermazione della politica di piano. Del resto il recupero della pianificazione dovrebbe essere il fulcro di una nuova politica amministrativa, per due ragioni: a) restituire certezza di diritto a tutti gli operatori, indipendentemente dai legami che si costruiscono, di volta in volta, con gli amministratori; b)avere lo strumento indispensabile per governare il territorio anche con risorse scarse.
Proposte
PRIMA PROPOSTA: IL PIANO METROPOLITANO?
Mentre bisognerebbe ripristinare e ampliare l'indipendenza dei comuni minori per valorizzare pienamente la loro specificità collettiva, si tratta di dare alle grandi città l'assetto metropolitano richiesto da quella macchia edificata continua, chiamata "città dispersa". Ciò non attraverso una procedura unificata ma secondo modelli istituzionali pensati a misura di ciascuna area, poiché ogni città è un caso a sé. Il Piano della città metropolitana sarebbe necessario non solo per ragioni di unitarietà del sistema ecologico e ambientale, ma principalmente perché tende a consolidarsi un vasto bacino di pendolarità determinato dal trasferimento di nuclei familiari, da trasformazioni dei modi di produrre e da processi di terziarizzazione, che superano i cristallizzati confini comunali.
Nel 2005, per la prima volta nella storia del pianeta, gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne (dati ONU), causa ed effetto di quella uscita da un sistema produttivo manifatturiero e della maturazione del processo di mondializzazione economica secondo regole capitalistiche neoliberiste, che produce il proprio territorio e ambiente, e costruisce le proprie forme di territorialità, producendo un modello di città del tutto inedito.
La globalizzazione economica neoliberista ha fatto saltare i confini, facendo perdere di senso qualunque divisione amministrativa. La delocalizzazione dei comparti produttivi e la deterritorializzazione delle categorie di spazio e tempo sono le pesanti ricadute sulle città, poiché segnano il passaggio da una spazialità organizzata sulla centralità del 'luogo', ad una spazialità «di flusso» in cui lo spazio è oggetto continuamente ridefinito (Manuel Castells).
Il nuovo assetto urbano si sta caratterizzando per un accresciuta valenza delle grandi città e delle aree regionali, e per l'apertura di una fase di competizione diretta tra sistemi urbani. L'idea di innescare una competitività fra aree urbane mentre non ha sortito effetto alcuno sul miglioramento della qualità della vita e della qualità ambientale, è stata semmai funzionale a modellare la distribuzione della popolazione e delle attività economiche, sulla base di cointeressi (cordate, gruppi, centri) prevalentemente economici e di potere, che hanno piegato e cooptato la struttura istituzionale locale per intensificare lo sfruttamento del territorio e perseguire i propri interessi. Dunque i processi, le trasformazioni del capitalismo su scala mondiale non riguardano esclusivamente la sfera dell'economia, ma hanno pesanti ricadute sulla forma fisica, sulla struttura sociale delle città e sugli aspetti sociali del vivere quotidiano. Occorre pertanto partire dal riconoscere che i collegamenti tra la deriva mondiale dell'economia e i cambiamenti della struttura sociale e dei sistemi urbani sono il fenomeno centrale dell'epoca contemporanea.
La prima e più evidente trasformazione è la formazione e la crescita di strutture urbane metropolitane, che non possono più essere definite da rigidi confini amministrativi o da omogeneità morfologiche, in quanto emergono nuove categorie a stabilire le grandi conurbazioni contemporanee. (ad esempio la mobilità, la capacità di consumo, ecc.). Alla città tradizionale si sta sovrapponendo - ma non sostituendo - una nuova morfologia dettata dalle ragioni del consumo, dalla flessibilità e precarietà del lavoro, da una diversa organizzazione spazio-temporale del quotidiano. Comuni, Provincie e Regioni invece sono unità territoriali costruite per un sistema territoriale completamente diverso dai processi in atto. Inoltre, di fronte a tali cambiamenti, anche l'apparato concettuale e conoscitivo è divenuto ormai inadatto, e deve essere rimodellato e sottoposto a profonda revisione sulla base delle nuove mappe sociali che si stanno configurando.
La legge 142/90 Riforma dell'ordinamento degli enti locali - che ha riorganizzato amministrativamente il territorio - ha tentato di introdurre il concetto di «città metropolitana». Tale legge, pur presentando al suo interno contraddizioni e incertezze, e nonostante sia rimasta praticamente inapplicata, andava a cogliere uno degli elementi centrali di questa profonda trasformazione della forma urbana, che per intensità e diffusione ricorda il passaggio dalla città medievale a quella industriale del Settecento.
Il nuovo «sistema urbano policentrico», o «città a rete» - per riportare due tra le più diffuse espressioni - crea una complessità morfologica, normativa e analitica, ossia la convivenza di sistemi urbani crea problemi di certezza amministrativa e di rappresentanza politica affrontabili solo nell'ambito di una pianificazione che, partendo dalle dinamiche sul territorio, dia senso e voce al territorio stesso.
Oggi la città diventata metropoli, non è più il luogo della produzione, ma quello della distribuzione e del consumo di merci e servizi: magazzino di attività amministrative e di cultura mercificata. Il territorio perde così ogni possibile significato autonomo e diviene anch'esso merce a disposizione della metropoli. In una struttura sociale urbana basata sul profitto e sul consumo a dimensione globale, non si può non partire che dal mettere in discussione tale modo di sviluppo e cominciare ad intervenire nella società, per ricreare luoghi e tempi delle relazioni; e l'unica strada percorribile è la via della pianificazione, della progettazione plurale e collettiva per una riappropriazione del tessuto urbano da parte dei/delle cittadini/e. Una pianificazione che non può che essere a scala metropolitana, aperta e multidimensionale, nel senso che riesca a cogliere e tenere insieme le correlazioni, le interazioni di tutti i soggetti attivi nel territorio (Carlo Doglio). Programmare pluralmente il futuro della città significa programmare il futuro dell'intera comunità che in essa vive, lavora e si riproduce; e regolare la città come luogo di queste relazioni significa irrompere nei tessuti urbani del nostro presente globalizzato. Qui sta la dimensione plurale e metropolitana di un ripensare criticamente e continuamente i confini codificati, per la costruzione di nuove forme di territorialità.
SECONDA PROPOSTA: SEPARARE IL PROFITTO EDILIZIO DALLA RENDITA SUL SUOLO ATTRAVERSO L'ACQUISTO PUBBLICO TEMPORANEO DELLE AREE DA TRASFORMARE.
C'è un modo tradizionale che assegna all'amministrazione pubblica il compito di stabilire le regole per gli interventi altrui, e di gestire in proprio una parte minore del suolo, come le vie di comunicazione e gli impianti necessari a disimpegnare i terreni privati. I difetti di questo metodo – lo squilibrio finanziario derivante dalle spese pubbliche a fondo perduto che valorizzano i terreni privati – emergono già a cavallo dell'800/900, e conducono a un secondo metodo, che assegna all'amministrazione pubblica il compito di acquisire temporaneamente i terreni da trasformare, corredarli delle opere pubbliche e rivenderli in pareggio economico ai vari operatori pubblici e privati.
Olanda, Paesi Scandinavi, Gran Bretagna hanno applicato su larga scala questo secondo metodo, soprattutto nel secondo dopoguerra, per eliminare il sovrapprezzo speculativo sulla casa e rendere progettabile il nuovo paesaggio costruito. Si è cioè compresa la necessità di accompagnare il piano regolatore con strumenti che rendono possibile una politica non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare (Salzano). In Italia invece non si è riconosciuto il ruolo dell'intervento fondiario pubblico al fine di separare il profitto edilizio dalla rendita sul suolo e si è accantonato definitivamente ogni idea di riforma organica della legge urbanistica del 1942. Pertanto nel nostro paese il saggio della rendita ricavata dalla compravendita delle aree può crescere indefinitamente, incidendo sul prezzo dell'alloggio in misura del 50%, 100%, il 200% e anche più. Questa tacita decisione ha escluso ogni ipotesi di acquisto pubblico preventivo dei terreni; ha lasciato crescere il prezzo delle case in vendita e in affitto; ha lasciato divergere domanda e offerta per cui oggi abbiamo una percentuale eccessiva di alloggi vuoti e contemporaneamente l'emergenza sfratti; ha determinato la costruzione di immense periferie disordinate; la cementificazione delle coste, la distruzione del paesaggio; ha consolidato l'ingerenza degli interessi fondiari nella formazione delle regole urbanistiche; ha reso difficilissima e persino impraticabile la formazione dei PRG lasciando quasi tutte le città italiane fino agli anni '60 senza piani aggiornati.
Qual è il problema? Non osando agire sulla causa si hanno alcuni esiti micidiali: l'Italia, pur avendo un patrimonio edilizio di stanze per abitante fra i più alti del mondo è in continua emergenza sfratti; gli affitti (mercato quasi interamente privato e anche quando è pubblico osserva le stesse regole) e i prezzi delle abitazioni sono tali che non solo la casa è fuori dalla portata di vaste masse di cittadini ormai sulla soglia della povertà, ma si è avuto un generale pesante aggravio per i bilanci familiari: mentre nel 1980 la spesa per l’abitazione non superava il 10% del reddito familiare, nel 1998 incideva per il 25%. Infine si è costruito un patrimonio di case pagate col denaro pubblico che, pur essendo quantitativamente insufficiente (sotto il 10%), viene oggi donato agli immobiliaristi. A ciò va aggiunta la decisione rovinosa della legge del dicembre del 1993 che, nella logica delle privatizzazioni, prescrive agli enti pubblici di vendere la metà delle case in loro proprietà. Si tratta quindi di una strategia in difesa del mercato immobiliare che spiega anche i continui conflitti fra politica edilizia e urbanistica.
Per impostare la politica nazionale delle aree fabbricabili basterebbe l'acquisto dei terreni da trasformare da parte delle amministrazioni comunali, e da inserire nel ciclo dell'urbanizzazione pubblica preventiva in pareggio economico (Benevolo). Per questo ciclo non occorrono finanziamenti ma anticipi di cassa, che i Comuni, le Regioni, lo Stato possono erogare per le vie consuete.
Le esigenze pubbliche chiedono che i nuovi quartieri nascano armoniosi, che si raggiunga un equilibrio tra la superficie destinata agli spazi liberi e quella per le costruzioni; tra la superficie destinata ai parchi ed ai giardini pubblici e quella per le strade e le piazze; tra l'edilizia popolare e quella di lusso. Le esigenze private si possono invece sintetizzare nella corsa di ogni proprietario di suolo a guadagnare il massimo di soldi dalla utilizzazione intensiva del proprio terreno, e nella tendenza delle società immobiliari a sostituirsi ai primitivi proprietari ponendo in essere tutti i possibili accorgimenti pur di valorizzare i metri quadrati posseduti.
Soltanto una legge che preveda l'acquisto obbligatorio e totale delle aree e delle zone di espansione a favore del Comune, come fase intermedia che precede l'urbanizzazione delle zone stesse, e che prelude alla cessione di un'aliquota delle aree ai cittadini per l'edilizia privata, può impedire che si perpetui la gara di corruzione e di favoritismi che accompagna fatalmente la redazione, l'adozione, l'approvazione e persino la pubblicazione e l'esecuzione dei piani regolatori. Questa pratica porrebbe tutti i proprietari in condizione di uguaglianza poiché i proprietari il cui suolo sarà destinato alla costruzione di una strada o di una scuola saranno trattati, quanto ad indennizzo, allo stesso modo.
Collocando l'intervento pubblico nel campo della manovra fondiaria – il che costituirebbe un ribaltamento della situazione - attraverso la fornitura di aree fabbricabili pubbliche in pareggio economico, si avrebbe il controllo della produzione edilizia; si libererebbe il mercato edilizio dalla speculazione fondiaria; si consentirebbe un controllo generale sull'assetto del territorio da parte delle comunità locali. Inoltre l'uguaglianza effettiva tra i proprietari renderebbe possibile l'attuazione più veloce dei piani regolatori, poiché verrebbero meno le lotte di interessi che si scatenano in regime privatistico di utilizzazione di aree fabbricabili. Sarebbe inoltre più facile anteporre agli interessi dei singoli gli interessi generali della città, in quanto la pianificazione urbanistica diventa pressoché impossibile quando chi dovrebbe pianificare deve lottare con centinaia di piccoli, medi e grandi proprietari terrieri che desiderano lo sfruttamento dei terreni e si pongono in netto antagonismo con i cittadini desiderosi di maggiori spazi con riduzione al massimo della densità fabbricativa. Lo scopo non è di punire o sanzionare i proprietari terrieri, quanto di impedire che l'ansia di speculare sulle aree fabbricabili condizioni l'evoluzione delle città.
Il secondo problema è come smaltire gli effetti di 50 anni di malaurbanistica. Dal dopoguerra si sono costruiti sui suoli privati, solo nell'edilizia residenziale, circa 10 miliardi di metri cubi (calcoli 1995), che al costo del 1995 di 400.000 lire al metro cubo sono costati circa 4 milioni di miliardi e hanno fatto lievitare il valore dei terreni urbanizzati fino a una cifra pressappoco equivalente. Questa somma, prelevata agli acquirenti delle case, è stata incamerata dai mercanti di aree. E' mancato invece il finanziamento delle opere pubbliche, dei servizi e degli standard urbanistici (al contempo una conquista epocale e un diritto alla vivibilità garantito a tutti i cittadini indipendentemente dal tipo di casa che si potevano comprare o abitare), che sono rimasti in buona parte ineseguiti.
Gli standard minimi obbligatori sono stati introdotti per la prima volta nel nostro Paese con la legge 765/1967 al fine di rispondere alle esigenze dei cittadini non solo in materia di abitazione, ma anche di qualità della vita. In molti paesi europei non si è verificata tale necessità poiché è inconcepibile edificare in una città senza pensare prima agli spazi pubblici e ai servizi. In Italia invece la costruzione del progetto di una città parte dagli spazi da destinare all’edilizia privata, lasciando quelli residui alle funzioni pubbliche. E' significativo che alcune città arrivano a far rientrare all’interno del computo per gli spazi pubblici le rotonde e gli sparti traffico. Da questa cattiva gestione dello spazio pubblico (non solo piazze e parchi, ma anche ospedali, centri sociali, asili, scuole, ecc.) deriva l’idea che le esigenze dei cittadini si risolvano attraverso una semplice operazione matematica mq/abitante, senza considerare la reale qualità di questi metri quadri (quasi sempre il minimo previsto dalla legge) e la relativa accessibilità e fruibilità. Il posizionamento di queste attrezzature deve avvenire infatti in un modo funzionale, e cioè in un modo che ne garantisca il reale utilizzo. E' quindi necessaria una riflessione sugli standard urbanistici, non per annullarli ma per renderli strumenti efficaci nella pianificazione, facendo coesistere qualità, quantità ed accessibilità reale nella loro progettazione.
Gli ambienti urbani indicano un cronicizzarsi di una condizione segnata da una crescente divisione sociale e dalla povertà . Il nodo della questione risiede nei processi economici generali che producono disuguaglianza, disoccupazione e precarizzazione del lavoro, in un quadro generale reso ancora più aspro dalla crescente discriminazione etnica e socio-spaziale, per cui nuove frontiere interne si creano nelle città: barriere non solo urbanistiche, ma anche psicologiche e culturali
Esistono quindi nelle diverse e disastrate periferie, condizioni di vita pessima e sacche di degrado e infelicità, un enorme arretrato di infrastrutture e servizi che dovrebbe essere colmato. Nei quartieri periferici per aprire una piazza, un centro culturale, un teatro ci vogliono anni e anni di battaglie, e altrettanti ce ne vogliono per trovare le risorse e superare le resistenze mascherate da burocrazia.
Mentre i fatti dicono inequivocabilmente che per le periferie non c'è mai una lira, occorre al contrario riportare l'ambiente residenziale a forma insediativa e qualità architettonica accettabili, mettendo in atto un intervento straordinario delle Regioni e dello Stato. Si potrebbe pensare a un piano pluriennale finalizzato all'adeguamento dei servizi e alla ricostruzione di reti di protezione sociale rispondendo così ad una fortissima domanda popolare al di fuori della retorica dell'ideologia della sicurezza. Infatti, le periferie disordinate e ossessive, realizzate nel corso di 50 anni, sono il luogo di residenza ormai consolidato della maggior parte della popolazione italiana, e proprio per questo devono essere migliorate nell'unico modo possibile: completando o ricreando e curando la rete dei servizi e degli spazi liberi, collettivi e pubblici.
Occorre evitare in futuro l'arretrato di infrastrutture e servizi derivante dalla non acquisizione pubblica delle aree. Infatti:
- Non è più ammissibile spendere risorse per rimediare a carenze che non hanno mai fine, poiché si perpetuano i meccanismi che producono all'infinito queste stesse carenze.
- Non è più accettabile finanziare a fondo perduto le opere di urbanizzazione primaria e secondaria – strade, impianti, scuole, biblioteche, mercati, giardini, impianti sportivi – il cui corrispettivo arriva ai proprietari dei terreni circostanti sotto forme di valorizzazione delle aree e degli immobili. Le opere pubbliche di interesse locale devono essere prodotte gratuitamente dal ciclo dell'urbanizzazione pubblica, quindi essere incluse nel prezzo di costo dei terreni e pagate dagli operatori prima degli interventi. Dunque l'amministrazione interverrebbe direttamente nel processo di trasformazione, riservandosi il passaggio essenziale: la fornitura delle aree fabbricabili ai vari operatori.
- Tuttavia le grandi quantità di nuove aree fabbricabili sono del passato. Oggi il problema più rilevante è dato – in particolare - delle aree industriali dismesse, ma nessuna amministrazione è stata finora capace di applicare a queste aree l'acquisto pubblico preventivo, per ricondurle a un disegno generale. In tale contesto hanno trovato terreno propizio i "piani di terza generazione" basati sulla contrattazione con la proprietà fondiaria: nascono tante trattative isolate dove l'esigenza di collocare per ogni terreno, opportunità pubbliche e contropartite private annulla la possibilità di qualsiasi manovra unitaria.
TERZA PROPOSTA: TRASFORMAZIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ.
Impegnarsi per la trasformazione ecologica della città e dell'economia, significa impegnarsi nella produzione della città della qualità della vita; determina vantaggi territoriali, produttivi ed occupazionali sia nella fase di costruzione della qualità (ambientale, sociale, culturale), sia nelle diverse fasi della sua realizzazione. La costruzione della qualità come “ambiente globale” è un progetto complesso di riqualificazione dell’intera città come sistema per vivere. La questione ambientale non è una moda, ma fa parte di un progetto politico e culturale nella consapevolezza che non si può salvare l’ambiente senza mettere in discussione gli assetti economici e di potere che lo hanno distrutto.
Se si facesse un sondaggio, i cittadini risponderebbero che il problema più grave è il traffico. Ed in effetti il traffico rende la città particolarmente invivibile. Tuttavia questo è anche un problema che, se si avesse coraggio, si potrebbe risolvere più facilmente di come in generale si pensa. Perciò questo non è il problema più grave. Quello più grave perché di natura strutturale è il problema del verde .
L'operazione più significativa, come critica diretta alle ragioni dell'economia vigente e all'impianto concettuale che vi presiede, può essere la messa in campo di una diversa pianificazione urbanistica, sociale e culturale del territorio, affinché si cominci ad agire sulle cause e non sugli effetti dei vari degradi. La nuova stagione dei diritti deve comprendere il diritto alla città per tutti i cittadini, vecchi e nuovi, nativi e migranti, sulla base del concetto della Città come bene comune.
Occorre che l’Ente locale – affinché non sia semplice accompagnatore politico-istituzionale degli interessi economici – rivoluzioni le priorità di bilancio, prendendo atto della spirale d'impoverimento e di esclusione, e intervenga con una nuova politica degli investimenti, una politica per la riqualificazione e ristrutturazione urbana contro la periferizzazione sociale e culturale, distribuendo sul territorio qualità sociale.
Un'opportunità in questo senso sembrava fornita dalla svolta per cui le città stavano disarmando sia per quantità di popolazione sia perché restano liberi ampi spazi dismessi, costituiti da fabbriche, officine, magazzini, negozi, ecc. frutto dei nuovi modi del produrre, del lavorare, del vivere. Gli spazi abbandonati avrebbero potuto assurgere a risorsa primaria per la collettività e non sono mancate formali dichiarazioni in proposito. Tuttavia nulla di tutto questo è accaduto e si è continuato a coltivare lo spazio urbano a cemento.
Non vi sarà nessuna nuova qualità del vivere se non si esce dalle logiche capitalistico-speculative ed è vano pretendere di avere ragione dei vari inquinamenti (dall'inquinamento dell'aria a quello estetico) se non se ne combatte la causa prima, e cioè l'uso distorto che da decenni tante amministrazioni vanno facendo del territorio. I vari “dismessi” possono ancora essere un'occasione a condizione che si pensi all’aumento degli spazi aperti nella città, a ridurre le densità edificabili, controllare le destinazioni, pensare anche a demolizioni per risarcire precedenti devastazioni, e ad un recupero a cubatura zero, vuoti strategici, sottratti alle logiche di mercato, per restituire il verde al paesaggio urbano e reintrodurre la natura nella città.
Come deve essere pensata la città in questa prospettiva? A questa domanda non si può dare risposta restando all’interno di una pianificazione urbana tradizionale, ma implica mutamenti profondi in molti settori dell’organizzazione sociale. Dalla critica dell’economia della crescita quantitativa, dalla compatibilità tra economia dell’uomo ed economia della natura, conflitto fra indicatori della crescita e del benessere, ai vincoli posti all’economia dai limiti biofisici (effetto serra, buco dell’ozono, piogge acide), ai limiti economici (disoccupazione strutturale) e ai limiti sociali (nuovi bisogni e nuovi valori). Le regole del nuovo progetto di città si esprimono in nuovi concetti transdisciplinari che producono nuovi indicatori sociali (benessere sociale contro crescita quantitativa) e nuovi standard qualitativi che interpretano le funzioni biologiche ed ecologiche del mondo vivente: regole legate alla capacità dei sistemi di assorbire inquinamento, rumori, variazioni climatiche, ecc.
Al di là delle grandi catastrofi (Chernobyl, Bhopal, Seveso), con i fenomeni macrobiologici, i mutamenti climatici, la crescente desertificazione, la riduzione della fascia di ozono, è la stessa vita quotidiana ad essere soggetta a un progressivo deterioramento direttamente legato al degrado dell'ecosfera. Questo si configura come un “secondo sfruttamento” dei cittadini, poiché come abbiamo una natura depredata, spogliata, inquinata così abbiamo uomini e donne depredati, spogliati, inquinati. Il sistema economico attuale è distruttivo ecologicamente e socialmente. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono strettamente legate.
All’attuale città che produce rifiuti, inquinamento, dissipazione di risorse, distruzione di ambiente naturale, occorre sostituire una città del riuso, del recupero, ossia una città caratterizzata per la quota sempre più bassa di materia ed energia destinata al proprio mantenimento. Al modello aziendalistico dell’Ente Locale che si manifesta nella pratica della concertazione che esalta solo la logica degli affari, va contrapposta l’idea della città come soggetto vivente. La questione ambientale impone la fine dei consumi di suolo e l’abbandono della concezione riduttiva del verde urbano, inteso come occasionale e inutile arredo urbano, per passare alle acquisizioni della biologia dei sistemi viventi che indicano come il verde assolva funzioni vitali per la produzione di ossigeno, per assorbire l’inquinamento acustico, per abbattere le polveri, per temperare il micro clima .
Mettere al centro la città a misura di vita, significa tradurre in politica la riconversione ecologica della città che investe non solo i modi di vivere e consumare ma anche le modalità dell’edificare e/o ristrutturare gli edifici pubblici e privati secondo i criteri dell’edilizia bio-compatibile, tenendo presente come gli elementi della natura siano potenti alleati contro inquinamento atmosferico e acustico e contro lo spreco di energia. Una strategia dunque che va oltre i metri cubi di cemento e dove i valori ambientali, diffusori di qualità, possono liberare le/i cittadine/i e le stesse attività economiche dalla rendita fondiaria che li soffoca. Tutto questo ha nel verde il suo asse primario.
Le ragioni per procedere in questo modo stanno nella crisi ambientale e climatica, che mette a rischio migliaia di esseri umani, non sono solo una questione estiva riguardante gli anziani (del resto invisibili per il resto dell’anno) cui si offrono le risibili soluzioni dei supermercati e delle caserme dei Vigili del fuoco. Il riscaldamento locale è dovuto all’urbanizzazione intensa e continua. Rinfrescare le città è il problema poiché sulle aree coperte da cemento e asfalto si forma la cosiddetta “isola di calore”, che surriscalda l’aria rispetto alla campagna circostante. Uno studio scientifico (2002) dell’Agenzia federale per l’ambiente Usa, dimostra che piantare 10 milioni di alberi a Los Angeles, permetterebbe di ridurre la temperatura estiva di 4 gradi. Le strategie di riforestazione urbana sono le prime da mettere in atto per produrre brezza termica anche in assenza di vento. Nelle conoscenze dell’ambientalismo scientifico vi sono dunque gli elementi per dei veri e propri piani per la riduzione del caldo in città.
Una città dopo l’automobile significa non la fine del trasporto privato individuale ma il suo contenimento e la sua subordinazione alle esigenze del trasporto pubblico di massa, della salute e del benessere collettivi, oltre che rappresentare quella struttura qualitativa benefica anche alla stessa produzione di merci. Ecco perché più che il potenziamento del sistema viario è importante la sua classificazione funzionale e una rigorosa politica dei parcheggi rimuovendo gli errori gravissimi che si stanno compiendo in materia. Ma soprattutto è centrale che la politica della mobilità sia integrata a quella del verde e della qualità ambientale.
Una volta si parlava di isola pedonale per il Centro, oggi non basta più dal momento che in tutta la città sono superate le soglie a rischio di inquinamento. Ci vuole un arcipelago pedonale e una rete mista di itinerari pedonali e ciclabili che unifichino tutti gli spazi verdi della città e della conurbazione, diventando una struttura portante del disegno urbano metropolitano.
Proviamo immaginare, diceva Walter Tocci per Roma, che nel deserto fatto di lamiere di automobili, di ingorgo e aria irrespirabile possano sorgere delle oasi, dei luoghi dove si possa passeggiare, giocare, respirare e chiacchierare. Allora l’idea è creare tanti e tanti spazi completamente liberati dalle automobili e restituiti alle forme di vita più semplici, separando finalmente il traffico veicolare da quello pedonale.
Non si tratta di fare grandi opere ma di curare la manutenzione del tessuto urbano: rifare la pavimentazione a misura dei pedoni, togliendo marciapiedi e asfalto; ecc. Da queste nuove piazze potrebbe partire almeno una strada interamente riservata ai mezzi pubblici (elettrici) tale da consentire un collegamento facile con altre piazze simili rendendo quindi fattibile la limitazione al traffico ben al di là della singola isola pedonale. Nelle piazze così rinnovate possono essere accessibili tutti i moderni mezzi di relazione, che potrebbero consentire di fruire collettivamente di spettacoli, performance e manifestazioni di vario tipo, o di seguire in diretta alcuni eventi comprese alcune sedute del consiglio di Quartiere e/ del Consiglio Comunale: una sorta di "agorà" anche in talune modalità elettroniche, fra generazioni, fra culture ed esperienze diverse, per esperire insieme modelli comunicativi e spettacolari non mercificati, contribuendo così a cercare forme di vivere quotidiano fuori dal coma ipermediatico.
Cominciamo dal proprio quartiere, e dalle aree dismesse a costruire una città nuova.
QUARTA PROPOSTA: ELOGIO DEI MARGINI PER UNA CITTÀ PLURALE
Nel suo libro La città imprevista, Paolo Cottino racconta alcune pratiche di dissenso rispetto all’utilizzo convenzionale di svariati spazi urbani milanesi: occupazioni di edifici abbandonati, mercatini autogestiti e vendita in strada, orti cittadini sono alcune delle esperienze che immigrati, pensionati, disoccupati sperimentano a partire dai loro desideri e bisogni, dalla loro quotidianità e posizione subalterna. La descrizione di queste pratiche di riutilizzo e trasformazione degli spazi urbani – luoghi solitamente marginali, oppure centrali ma ‘problematici’ secondo le accezioni del senso comune come stazioni, parchi e marciapiedi riconvertiti alla socialità – rimanda ad una proposta politica: l’abbandono di una visione organica, unitaria e tecnicistica del territorio e delle sue funzioni a favore di una nuova centralità dei soggetti e delle loro pratiche, soggetti sempre più plurali, diversi, differenziati sia dal punto di vista delle origini e delle culture sia in termini di generazione, genere, classe, stili di vita, tempi, accesso alle risorse e gestione del potere.
La retorica della città ‘multiculturale’ imperversa quasi ovunque, alternando spesso la descrizione di scenari catastrofici con appelli paternalistici in difesa di diversità congelate, stereotipate. Un’idea altra di città – la città bene comune - colloca invece al centro i soggetti con le loro molteplici determinazioni; e guarda ai luoghi e alle pratiche ‘marginali’ come possibilità di riappropriarsi e di trasformare l’imperativo oggi dominante della legge e dell’ordine, a servizio di un altro imperativo con cui si modella la vita urbana contemporanea, ‘consumare e produrre’. Diversi soggetti collettivi, i/le migranti in primo luogo, stanno già rinegoziando l’utilizzo e il significato dello spazio urbano imposto dalla norma e dal senso comune predominante; pratiche di utilizzo e riappropriazione materiale e simbolica che sono quotidianamente davanti ai nostri occhi, dall’occupazione di spazi abitativi ai ritrovi in luoghi pubblici riconvertiti dal desiderio di socialità. Invece del ritorno alla normalità, chiediamo che questi soggetti, le loro pratiche e i loro modelli, siano inclusi in quel processo incessante di negoziazione che dovrebbe essere alla base della costruzione della territorialità e dei legami sociali che la definiscono. Dai margini e attraverso i margini ci arrivano molteplici pratiche di disobbedienza urbana e autorganizzazione che contribuiscono ad aprire spiragli per l’immaginazione di città diverse, plurali: "le variegate domande di fruizione degli spazi urbani, i conflitti attorno ai suoi molteplici possibili usi, sono dunque buoni indicatori del cambiamento sociale in corso e rimandano all’insieme dei nuovi significati che le nostre città oggi sono chiamate ad accogliere" (Paolo Cottino).
Perché ciò avvenga sono indispensabili spostamenti che coinvolgono processi materiali e simbolici, al centro dei quali vi è la necessità di riconoscere nell’altro/a – nelle sue variegate articolazioni – un soggetto che attivamente partecipa dal basso alla ridefinizione delle regole, dei significati e delle politiche del vivere cittadino. Tradotto in ambito urbano implica di favorire l’organizzazione della diversità piuttosto che l’estensione dell’uniformità; il valore della pluralità piuttosto che la sintesi uniformante; il riconoscimento dell’irreversibilità dei processi di complessificazione della società e delle città non in termini di frammentazione ma di riconoscimento che include conflitti, tensioni e cambiamenti.
QUINTA PROPOSTA: LA CITTÀ ACCESSIBILE.
Le città ,"in cui quasi tutti sono venuti da un altro luogo" (Anne Michaels ), devono offrire luoghi di incontro e socialità per nuovi modi di vivere. Se si guarda al fenomeno della trasformazione della città dal punto di vista dell’insediamento, si pone la questione della definizione dei modi stessi dell’abitare delle comunità accolte, questione affrontata fino ad ora costruendo recinti reali e simbolici di emarginazione e sofferenza.
Eppure è esistita un'architettura moderna che ha elaborato il tema dell’abitare di massa, dando consistenza a programmi urbanistici, sorretti da strategie politiche, che propugnavano l’inserimento delle classi considerate subalterne nel corpo delle città, come ad esempio la Garbatella romana degli anni Venti, costruita da Innocenzo Sabbatini e altri, e l'intervento di edilizia sovvenzionata destinato a ceti popolari, come il Tiburtino III, che Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni costruirono in anni di attuazione del Piano Fanfani attraverso lo strumento dell’INA Casa. Oggi si tratta di comprendere che la modalità dell’accoglienza di popoli altri – fuori dell'emergenza - obbliga a pensare nuovi modi di vita collettiva: nuova tipologia dell’abitazione, nuovi disegni di impianto per le aree di risanamento, nuovo rapporto tra alloggi e servizi.
La storia della città si è depositata nella sua forma: i rapporti - con il potere di turno, e tra poteri - sono più o meno leggibili dietro l'insieme delle costruzioni, così come gli obiettivi sociali. In questa scena ogni abitante è molto simile ad uno spettatore inserito in uno spazio esistente (strade, piazze, palazzi, case, ecc.) che stimola l'interazione, la riflessione, la conoscenza, in una pluralità di forme e modalità di cui non possiamo predeterminare gli effetti. La città è così – di per sé - uno spazio pubblico, interpretato attraverso il vissuto di chi lo abita. Ma lo spazio pubblico – che non nasce mai come condiviso, spartito, comune - è continuamente attraversato da confini, conflitti e dialettiche più o meno asfittiche. Dunque la città c'invita a riflettere non per definire in senso astratto lo spazio pubblico, ma per vederlo costruito relazionalmente nella situazione concreta in cui, di volta in volta, si dà. Dunque la città come spazio pubblico è uno spazio eminentemente esposto, donato, inassimilabile alle logiche proprietarie, eppure mai definitivamente salvo come mostrano la storia e la cronaca dei nostri tempi
Al di là di come gli individui siano posizionati nello spazio della città, la periferia può essere ovunque, legata com'è alla distribuzione disuguale delle risorse fisiche, sociali, economiche, culturali e ambientali: periferia come rappresentazione di un vivere dimezzato simile allo stare in una riserva come versione più discreta di un vecchio ghetto.
In questo senso la città è un organismo vivente, è un'unità ricca e complessa e l'altrove (classi, generi, culture) comincia qui. Di fronte all'altrove sentito come pericolo, si possono creare "città fortezza", oppure delineare città accessibili. Rendere accessibile la città significa, nel suo significato più profondo, il prevalere di una centralità per le persone di ogni età: si riconoscono così i corpi, le specificità dell'appartenere a generi e generazioni differenti, le diversità dei percorsi e scelte di vita, le culture di origine di chi viene da fuori, la creatività e l'immaginario individuale e collettivo.
Il programma del governo Prodi contiene molte buone formulazioni. Una riguarda il futuro delle città e del territorio. Afferma infatti il programma: “In particolare proponiamo di varare una nuova legge quadro per il governo del territorio che operi secondo i seguenti criteri: evitare il consumo di nuovo territorio senza aver prima verificato tutte le possibilità di recupero, di riutilizzazione e di sostituzione”. Questa proposta arrivava quando era ormai scampato il pericolo dell’approvazione della famigerata legge Lupi, la riforma neoliberista che assegnava il destino delle città alla rendita speculativa. Per dare concreta attuazione a quella posizione di principio, il gruppo di urbanisti e di intellettuali che gravita intorno al sito Eddyburg ha pensato di elaborare una legge e chiamare a discuterne i partiti del centrosinistra.
Il principio cardine della proposta è semplice: “Il territorio e le sue risorse sono patrimonio comune. Le autorità pubbliche ne sono i custodi e i garanti nel quadro delle specifiche competenze”. Il territorio è dunque un bene comune e spetta allo Stato promuovere politiche di indirizzo per il suo uso. Si afferma ancora che: “Nuovi impegni di suolo ai fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative al riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti”. Perseguire l’obiettivo del risparmio di suolo è un modo per rendere l’Italia uguale a tutti gli altri paesi d’Europa che attuano da anni politiche di contenimento della diffusione urbana. Quei paesi stanno costruendo la prospettiva è quella della riutilizzazione dell’enorme patrimonio già realizzato, la sua riorganizzazione, l’evoluzione della dotazione tecnologica in coerenza con la necessità di risparmio energetico. Le città e il territorio dell’Europa stanno diventando il campo su cui si misurano le capacità dei singoli paesi di saper costruire un futuro sostenibile.
La salvezza delle città è dunque legata al recupero del concetto di governo pubblico del territorio. La proposta di legge riafferma così due fondamentali principi dell’urbanistica classica. La titolarità della pianificazione compete esclusivamente alle istituzioni pubbliche e si esercita attraverso atti di pianificazione. La proposta, poi, arricchisce i principi cui deve essere soggetta la pianificazione. In primo luogo, il “diritto alla città e all’abitare”. Si propone non soltanto di confermare la storica conquista degli standard urbanistici, cioè di una dotazione minima di spazi pubblici garantita a ogni cittadino. E’ maturo il tempo per affermare i diritti al godimento di un’abitazione; alla mobilità e all’accessibilità; all’uso delle risorse territoriali. Affermano l’Ance e Nomisma che la rivalutazione media italiana degli immobili ha superato il 70% nel periodo 1998-2005. Se si tiene anche conto che il settore delle abitazioni sociali è stato azzerato, si comprendono le radici della nuova questione abitativa. Sul tema della mobilità urbana, poi, si misurerà la capacità a misurarsi con la sfida tecnologica. L’aria delle città è avvelenata e occorre ripensare in modo sistematico le modalità di spostamento collettive, così da riportare ai valori minimi i livelli di inquinamento atmosferico e acustico.
Il secondo principio “nuovo” riguarda infine la partecipazione sociale alle scelte del governo del territorio. E’ un tema più generale, poiché riguarda i problemi stessi dell’esercizio della democrazia. E le scelte di sviluppo del territorio e delle città, per il loro carattere “statutario”, rappresentano uno dei campi fondamentali in cui deve essere perseguita la più ampia partecipazione sociale.
La proposta di legge è stata presentata ad un nutrito gruppo di parlamentari e di associazioni il 28 giugno scorso: i lettori lo troveranno su www.eggyburg.it. Da quella data è aperto il dibattito e il giudizio critico. Si potrà migliorare e integrare in una logica di confronto tra le culture che caratterizzano lo schieramento progressista. L’importante è giungere ad una proposta di legge al passo con i fenomeni che caratterizzano la vita delle città.
Il Giornale dell'Architettura ha chiesto ad alcuni dei più importanti urbanisti italiani d'indicare un punto che il Parlamento non dovrà dimenticare nella redazione della nuova bozza di legge urbanistica. Alla discussione aperta da Edoardo Salzano con un articolo sul Consumo di suolo segue ora l'opinione di Bruno Gabrielli.
Un urbanista che si rispetti non può che essere d'accordo con quanto scritto da Edoardo Salzano nel numero scorso. Contenere il consumo di suolo è certamente una priorità. Ma è suffìciente l'enunciazione di principio? Davvero si può risolvere la questione con un divieto generalizzato imposto da una nuova legge urbanistica?
Pongo una questione di metodo, non di merito: ho idea che si debba ormai ragionare in maniera «integrata» per colpire un fenomeno che non è causa ma conseguenza d'altri fenomeni, ed è a essi che occorre, almeno contemporaneamente, mirare. Hanno tra l'altro contribuito al consumo di suolo: a) il settore pubblico attraverso le realizzazioni dei quartieri d'edilizia economica e popolare: si pensi alle enormi «167» realizza te da Comuni come quello di Paternò, dove s'è assistito al quasi completo trasferimento degli abitanti e a una «desertificazione» del pur cospicuo centro storico; b) gli operatori privati, attraverso lo strumento della lottizzazione; c) i «piccoli» operatori privati utilizzando le aree a bassa densità dei PRG o costruendo abusivamente.
Una nuova legge urbanistica potrebbe dare la necessaria chiarezza prescrittiva per evitare i primi due punti. Per quanto riguarda il primo, sarebbe sufficiente smetterla (questo sta già avvenendo) di realizzare quartieri d'edilizia popolare e provare invece (questo non sta avvenendo) a realizzare «parti» di città ove collocare quote d'edilizia popolare pubblica.
La questione sollevata al terzo punto ha invece radici economiche, sociali e culturali legate alla formazione della domanda. Trionfa un modello culturale che nega la città contemporanea e che premia, allo stesso tempo, i centri storici e le casette sparse. Ho idea che nel merito non vi sia legge che tenga: sono gli architetti, gli urbanisti e gli amministratori pubblici che debbono saper dimostrare che si può realizzare una città contemporanea vivibile.
Consumo di suolo e rendita fondiaria sono, del resto, due questioni indissolubilmente legate ed è questo, a mio avviso, il punto che il legislatore non dovrà dimenticare nel prossimo testo urbanistico. Bella scoperta, si dirà. Ma da questo discendono la possibilità d'un reale governo pubblico del territorio, la qualità della città contemporanea (che è un obiettivo essenziale) e l'equità dei processi trasformativi (che è un principio irrinunciabile dell'urbanistica). Una nuova legge può garantire tutto questo? Non può garantirlo, ma può fornire strumenti per renderlo possibile.
La nuova legge potrebbe conferire al piano la possibilità di ridistribuire la rendita che, attraverso un meccanismo di perequazione diffusa, renderebbe indifferente la proprietà dei suoli; è questo l'unico strumento che garantirebbe la densificazione come alternativa alla dispersione. Lo sprawl è infatti anche un fenomeno di rendita minuta, d'interessi di piccoli proprietari che possono trovare soddisfacimento con il trasferimento di quelle possibilità edificatorie che provengono dall'equa distribuzione delle quantità poste in essere dal piano. Questa strada potrebbe condurre all'attuazione di servizi pubblici senza problemi d'espropri o d'indennità o di decadenze di vincoli. Il piano urbanistico (e non la legge, che deve però consentirglielo) può fissare i criteri d'un modello perequativo precisamente adattato a quelle specifiche realtà urbane e territoriali che deve governare, conferendo alle amministrazioni pubbliche un reale potere di scelta e di responsabilità.
Vedi sull'argomento l'Eddytoriale n. 92