Sono passati 10 anni da quando una norma sciagurata ha consentito di impiegare gli oneri di urbanizzazione per finanziare ogni tipo di spesa corrente. In pratica, per attenuare l’impatto del taglio dei trasferimenti statali, si sono sottratte risorse - già di per sé scarse - agli investimenti sull’infrastrutturazione pubblica.
I governi Renzi e Gentiloni hanno messo fine a questa deriva e una recente deliberazione della Corte dei Conti consente di tracciare il punto: dal primo gennaio 2018 “i proventi da “oneri di urbanizzazione” cessano di essere entrate con destinazione generica a spese di investimento per divenire entrate vincolate alle determinate categorie di spese” stabilite dalla legge. Queste ultime attengono a un’ampia serie di interventi, compresi il risanamento dei centri storici e delle periferie, la demolizione di costruzioni abusive, la riqualificazione ambientale e si estendono anche alle spese correnti, ma limitatamente agli interventi di manutenzione ordinaria sulle opere di urbanizzazione primaria e secondaria”
Ai sindaci spetta decidere, quindi, come impiegare le risorse, sperabilmente sulla base di piani e programmi che stabiliscano le priorità sulla base di pensieri lunghi e sistemici, dei quali abbiamo drammaticamente bisogno.
Qui si può scaricare la deliberazione 163/2018 della Corte dei Conti.
Sullo stesso tema, un articolo di Raffaele Lungarella, su sito lavoce.info, e uno di Marco Pompilio sul sito Millennio urbano.
La legge sui piccoli comuni, approvata il 28 settembre, è piena di buone intenzioni per una causa meritoria. Giuste ambizioni, ma poche risorse e molti impegni affidati alla buona volontà delle istituzioni. Con riferimenti. (m.b.)
Un merito va sicuramente riconosciuto alla nuova legge “Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni” di recente (28 settembre) approvata in via definitiva al Senato: riportare l’attenzione sullo stato di abbandono di un immenso patrimonio, sia costruito che naturale, che connota le aree interne, ma non solo quelle, del Paese. Un abbandono diverso da quello conosciuto da importanti luoghi delle città a seguito di dismissioni di interi comparti economico-produttivi. Intanto perché meno percepibile da un’osservazione fondata principalmente sui valori economici in gioco, sugli asset aziendali, sulle appetibilità del mercato. Lungo le fasce alpine e prealpine, la dorsale appenninica, persi nelle retrovie delle aree sviluppate” si incontrano luoghi in cui la crisi urbana incontra la crisi ambientale e il dissesto del territorio. Sono i cosiddetti "piccoli comuni", 5.500 enti locali, 2.000 dei quali si trovano in Piemonte e Lombardia. In termini di popolazione, si tratta del 16% degli italiani; in termini di territorio, del 55%.
Il cuore della legge è l’istituzione di un fondo di 85 milioni di euro, ripartito in cinque annualità, destinato a finanziare opere pubbliche di carattere edilizio e infrastrutturale, con particolare attenzione al recupero e alla valorizzazione dei centri storici. Il finanziamento è concesso sulla base di progetti presentati alla presidenza del consiglio dei ministri, sulla base di un piano nazionale, di validità triennale, che dovrà essere approvato entro sei mesi (se il termine sarà rispettato, significa entro la fine dell’attuale legislatura).
Le rimanenti disposizioni hanno per lo più un carattere di principio. La parola più ricorrente è “possono”: i comuni possono individuare zone di pregio (art. 4), acquistare stazioni e case cantoniere (art. 6), stipulare convenzioni con le Poste (art. 10) o con la Diocesi (art. 7), promuovere la vendita dei prodotti locali (art. 11) e la realizzazione di alberghi diffusi (art. 4). Le regioni possono definire interventi ulteriori (art. 1), concorrere alle spese (art. 2), e coordinare l'attività dei comuni (art. 5). E anche le istituzioni competenti in materia di istruzione, trasporti, cultura, informazione ed editoria sono esortate - nell’ambito delle proprie competenze - a dedicare specifica attenzione ai piccoli comuni. Apparentemente, tutte iniziative che si potevano fare anche prima, ma d’ora in avanti si potrà agire non soltanto per buona volontà, ma anche in base alla legge.
In estrema sintesi, si può dire che, per le ottime ragioni e finalità dalla legge, non si può essere soddisfatti dei suoi contenuti.
La prima carenza evidente, riguarda la sproporzione tra fini e mezzi. Considerato nell’arco di 5 anni, lo stanziamento è pari 15.000 € per comune. In altri termini, le risorse sono sufficienti per sostenere un paio di progetti l’anno, in ogni regione. Decisamente poco. Basti pensare che per il solo bando riguardante i laboratori urbani (simile, per contenuti e finalità, a quelli ipotizzabili dalla legge sui piccoli comuni) - la regione Puglia ha stanziato 54 milioni di euro. Insomma, al fondo manca uno zero che potrebbe trasformare un provvedimento simbolico in un sostegno strutturale.
E, ancora: tutte le esperienze condotte negli ultimi venti anni (a partire dai benemeriti “Contratti di quartiere”, stupidamente abbandonati) hanno dimostrato che le iniziative delle persone, delle associazioni e delle imprese sociali contano altrettanto - se non più - degli interventi fisici e che solo un legame virtuoso tra attività e interventi garantisce il necessario abbrivio iniziale. La legge sembra ignorare questo aspetto e c’è da augurarsi che la cantierabilità delle opere non sia l’unico criterio di selezione, come purtroppo sembra costume di questo periodo.
Infine, un ulteriore lato debole risiede nel rapporto tra Stato promotore dell’iniziativa e comuni attuatori: la “governance” del progetto. La linea dei finanziamenti parte dai Ministeri competenti e aspetta di incontrare l’iniziativa dei comuni potenzialmente interessati. Manca l’individuazione di specifiche strutture decentrate in grado di organizzare e sostenere queste iniziative e una visibile riorganizzazione delle pratiche con cui i diversi livelli istituzionali partecipano al gioco.
I piccoli comuni, dispersi non solo geograficamente, necessitano di riorganizzazioni territoriali e funzionali ben orientate a questo scopo. Le unioni di comuni non sono così diffuse e ancor meno lo sono le integrazioni di servizi e cura del territorio. Senza questo salto di qualità della cornice in cui si collocano iniziative come questa hanno il fiato corto. Chi ha avuto occasione di frequentare qualche comune tra quelli potenzialmente interessati ai benefici previsti dalla nuova legge sa quali difficoltà si incontrano. Ha visto una dotazione organica ridotta e messa alle corde nella gestione di attività ordinarie. Ha visto la penuria di mezzi operativi con sindaci e amministratori spesso autoincaricatisi di svolgere servizi quotidiani dell’ente come il trasporto di persone disabili, piccoli lavori di manutenzione, sorveglianza e molto altro. Dire loro “Ti aiutiamo a fermare il declino della tua comunità” senza modificare il circuito dei rapporti istituzionali che, quantomeno, ha contribuito a marginalizzarli non basta. Occorre un supporto attivo che affianchi i comuni interessati. Pensiamo a gruppi di lavoro misti decentrati (per Provincia o area vasta o per ambiti montani etc.) con lo scopo di:
- affiancare i comuni in questo progetto con il compito di rilevare le situazioni segnalate, raccogliere dati e informazioni propedeutiche al progetto, supportare i sindaci nelle negoziazioni con soggetti terzi (altri enti pubblici, istituzioni, istituti finanziari, privati).
- favorire l’incontro tra potenzialità dei luoghi e domande latenti che potrebbero essere intercettate dagli obiettivi del progetto.
- preparare programmi economico-finanziari con individuazione di risorse da attivare e piani di spesa e di rientro generati dalle attività messe in campo dai progetti.
- costituire un Osservatorio per il monitoraggio costante delle iniziative e rilevazione delle criticità su cui intervenire tempestivamente.
- costituire un repertorio delle iniziative per renderle note ed estendibili ad altri luoghi.
In altri termini, per passare da un provvedimento buono solo per le agenzie di stampa a uno utile per cambiare le cose occorre un forte e qualificato impegno organizzativo. L’iniziativa pubblica deve essere univoca, priva di ambiguità, abbandonando, per esempio, velleità di nuovi condoni e altre scelte contradditorie. La legge dice che Stato e regioni “possono” fare la differenza. Vedremo se sarà così.
Qui è scaricabile il testo della legge. Qui potete riascoltare il podcast della puntata di Zona mista - un'interessante trasmissione di Radiopopolare - dedicata allo spopolamento dei paesi alpini.
Su eddyburg trovate diversi scritti di Franco Armino e un'intervista di Francesco Erbani.
Cinque mesi per completare l’intera procedura nei casi più complessi, che possono scendere fino ad appena 45 giorni. Possibilità di svolgere le riunioni in via telematica e “asincrona”, cioè senza la presenza fisica dei rappresentanti delle varie amministrazioni.
Una voce sola per tutte le Pa, per evitare sovrapposizioni, blocchi e veti. E acquisizione automatica dell’assenso di chi non si esprime. Sono solo alcuni ingredienti della nuova conferenza di servizi che ieri il Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva. Molte le conferme rispetto alla prima versione del decreto che attua la delega Madia, ma qualche novità di peso è arrivata all’ultimo minuto.
Soprattutto, accogliendo alcune osservazioni formulate da Consiglio di Stato, Conferenza unificata e Parlamento, è stato previsto che alle riunioni della conferenza possono essere invitati i privati interessati, inclusi i soggetti che hanno proposto il progetto, per depositare documenti e memorie. Ed è stata anche inserita una tagliola per regolare la fase transitoria: le norme ormai prossime alla pubblicazione si applicheranno, quindi, solo alle nuove procedure.
La strada ordinaria da seguire per acquisire pareri e intese di diverse amministrazioni diventa la conferenza semplificata. Andrà svolta in modalità “asincrona”, dice il decreto, cioè senza la presenza fisica dei vari rappresentanti delle amministrazioni coinvolte attorno a un tavolo, ma con scambio di documenti via mail.
La conferenza deve essere indetta entro cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda e deve concludersi in tempi certi. Per la precisione, ai partecipanti alla conferenza vengono assegnati 45 giorni per fornire il proprio parere. Un ritmo serrato, dal momento che nella prima versione del decreto veniva fissato un limite massimo di 60 giorni.
Il termine raddoppia e sale a 90 giorni per gli enti di tutela ambientale, paesaggistica, culturale e della salute dei cittadini. La mancata pronuncia entro il termine viene considerata alla stregua di un assenso incondizionato. Al contrario, gli eventuali dissensi devono essere «non superabili» per portare a una pronuncia negativa.
La seconda strada, da seguire «solo quando è strettamente necessaria», porta alla conferenza simultanea, cioè con la presenza dei rappresentanti delle amministrazioni, «ove possibile anche in via telematica». Anche in questo caso la conclusione del procedimento deve avvenire entro 45 giorni dalla prima riunione. E varrà la regola del rappresentante unico. Ciascun ente invitato, cioè, potrà farsi rappresentare da un unico soggetto.
Nel caso di amministrazioni statali, addirittura, è previsto che parleranno tutte per bocca di un unico soggetto, «abilitato ad esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la posizione di tutte». A indicare il rappresentante unico sarà Palazzo Chigi o, nel caso di amministrazioni statali periferiche, il prefetto. In caso di disaccordo, le altre amministrazioni potranno mettere a verbale il loro parere negativo ma non potranno incidere sulla volontà del rappresentante unico.
Una terza alternativa viene prevista per i progetti di particolare complessità e per gli insediamenti produttivi di beni e servizi. Su motivata richiesta dell’interessato, corredata da uno studio di fattibilità, l’amministrazione potrà indire una conferenza preliminare «finalizzata a indicare al richiedente», le condizioni per ottenere il via libera.
Per i progetti da sottoporre a valutazione di impatto ambientale si procede di norma con una sola conferenza di servizi da svolgere in forma simultanea e non con due procedimenti paralleli come accaduto finora. Fanno eccezione i procedimenti relativi a progetti sottoposti a valutazione ambientale di competenza statale.
Una volta conclusa la conferenza, resta la possibilità di fare opposizione. Ma non per tutti, Entro dieci giorni dalla conclusione della conferenza gli enti di tutela possono chiedere l’intervento del Consiglio dei ministri. Un chiarimento importante arriva, infine, nella parte che regola le norme transitorie. Le disposizioni del decreto, infatti, saranno applicate solo ai procedimenti avviati «successivamente alla data della sua entrata in vigore».
». Il Sole 24 ore, 6 giugno 2016 (c.m.c.)
La nuova disciplina in materia di appalti pubblici interessa anche le operazioni immobiliari di sviluppo private. Il Codice (Dlgs 50/2016) regola infatti anche gli accordi tra i Comuni e i costruttori per la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione.
Il vecchio sistema
Il previgente sistema (Dlgs 163/2006) assoggettava a diverso regime la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (strade, parcheggi, reti elettriche, idriche e fognarie) e secondaria (scuole, edifici religiosi, culturali e sociali, parchi), distinguendo anche i casi in cui l’ammontare delle opere fosse superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria (attualmente pari a 5.225.000 euro per gli appalti di lavori).
In particolare, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria da eseguire a scomputo oneri e con valore superiore alla soglia seguiva una procedura a evidenza pubblica, secondo l’ordinario percorso di gara – aperta o ristretta – previsto dal vecchio Codice. Mentre l’affidamento dei lavori inerenti alle opere di urbanizzazione secondaria a scomputo e di valore inferiore alla soglia di rilevanza doveva seguire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando, con invito rivolto ad almeno cinque soggetti idonei(articolo 122, comma 8, Dlgs 163/2006).
In virtù del comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001 (introdotto dal Dl 201/2011 “Salva Italia”), le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria - sempreché funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica - potevano invece essere realizzate a cura del titolare del permesso di costruire (ovvero da questi liberamente assegnate a terzi) senza applicare le norme del Dlgs 163/2006. Ma se l’opera di urbanizzazione primaria sotto soglia non era funzionale all’intervento, si doveva applicare la procedura negoziata prevista all’articolo 122, comma 8.
Il nuovo sistema
Il Dlgs 50/2016 modifica parzialmente tale quadro, ma in modo significativo.
Per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra la soglia, resta ferma la piena applicabilità delle procedure a evidenza pubblica ordinariamente previste dal nuovo Codice.
Così come, per le opere di urbanizzazione primaria sotto soglia ma funzionali agli interventi di trasformazione, continua ad applicarsi l’esclusione prevista dal comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001.
Per le opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia e per quelle di urbanizzazione primaria sotto soglia e non funzionali all’intervento, invece, occorre ora far ricorso alla procedura ordinaria, con avviso o bando di gara (articolo 36, comma 3, Dlgs 50/2016).
Le opere non a scomputo
Altra novità rilevante, ma all’insegna della semplificazione, è introdotta rispetto al tema (molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza) delle opere di urbanizzazione che non vanno a scomputo del contributo di costruzione. Vale a dire quelle opere, spesso previste dalle convenzioni urbanistiche, realizzate in più rispetto agli obblighi che da regolamento i Comuni attribuiscono ai costruttori.
A riguardo, è bene ricordare che il criterio per applicare le procedure a evidenza pubblica viene normalmente riconosciuto nel requisito dell’onerosità della prestazione. E in tale ottica, la normativa in materia di appalti non si dovrebbe applicare alle opere pubbliche non a scomputo (ossia a quelle con costi interamente a carico del privato).
In merito, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (determinazione 4/2008) aveva però precisato che il costo delle “opere extra”, per quanto non scomputato dai contributi ordinari, rappresenterebbe comunque un corrispettivo riconosciuto al Comune a fronte dell’approvazione del progetto di sviluppo. Non essendo quindi opere realizzate dal costruttore in spirito di liberalità, avrebbero dovuto seguire le procedure di evidenza pubblica per la selezione dei soggetti chiamate a realizzarle.
L’articolo 20 del Dlgs 50/2016 ricollega invece l’applicabilità delle regole pubblicistiche solo ai casi in cui il requisito dell’onerosità sussiste in via diretta e immediata. Il nuovo Codice, dunque, non si applica quando un’amministrazione stipula una convenzione con cui un soggetto si impegna a realizzare a sua cura e spese, cioè senza scomputarne il valore dai contributi dovuti al Comune, un’opera pubblica prevista nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici.
In questi casi, è tuttavia previsto che l’amministrazione svolga una funzione di controllo preventivo: prima della stipula, valuterà infatti il progetto di fattibilità delle opere e lo schema dei contratti di appalto. Spetterà inoltre alla convenzione disciplinare le conseguenze in caso di inadempimento.
Cambiare tutto per non cambiare niente. Il nuovo Codice appalti è stato presentato dallo stesso premier Matteo Renzi durante la conferenza stampa del 15 aprile come una riforma "che chiude le strade alla corruzione". L’asso nella manica del capo governo doveva essere, anche questa volta, l’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. Ma l’Anac, nella battaglia per garantire la trasparenza negli affidamenti di lavori pubblici, avrà le armi spuntate: i suoi esperti vigileranno solo su una piccola parte degli appalti, appena il 5%, come fa notare Sergio Rizzo sul Corriere della Sera. Una nuova falla nella legge, dunque, dopo quelle segnalate nei giorni scorsi dai sindacati: nel testo definitivo sono saltate le norme sulla tutela del posto di lavoro nel cambio di impresa appaltatrice e sulla trasparenza nelle gare.
A questo quadro si aggiunge la sostanziale sopravvivenza delle gare al massimo ribasso, che negli annunci del governo dovevano andare in soffitta con il nuovo codice. "Basta gare al massimo ribasso", aveva dichiarato il ministro dei Trasporti Graziano Delrio il 3 marzo dopo il Consiglio dei ministri che aveva approvato il testo in via preliminare. Eppure, l’articolo 95 delinea uno scenario diverso. Il testo prevede che si possa ancora usare il criterio del minor prezzo per i lavori di importo fino a un milione di euro, ancora una la volta la maggioranza dei casi: circa 8 su 10.
Ma la vera norma-beffa relativa ai poteri dell’Anac si trova all’articolo 77 della nuova legge. Nelle procedure di appalto con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione sulla proposta migliore è affidata a una commissione giudicatrice composta da esperti del settore. Per garantire la massima trasparenza in questo processo, i commissari saranno estratti a sorte da un apposito elenco preparato dall’Anac. Ma questa regola vale solo per le gare con importi che superano le soglie comunitarie, vale a dire i 5,2 milioni di euro. Se non si supera questa cifra, o se gli appalti "non presentano particolare complessità", liberi tutti: "La stazione appaltante può nominare componenti interni alla stazione appaltante, nel rispetto del principio di rotazione". Insomma, i commissari saranno scelti dallo stesso ente che assegna l’appalto. Tutto in famiglia. Risultato: il 95 per cento degli appalti verrà assegnato esattamente come prima.
Non a caso, lo stesso Raffaele Cantone in audizione in parlamento aveva avvertito sui rischi insiti nella norma: "Tale previsione sembra non essere del tutto rispettosa del criterio di delega che, nell’obiettivo della garanzia della massima trasparenza nelle nomine dei commissari non distingue, per la nomina dei commissari, tra appalti di valore superiore ed inferiore alle soglie. Inoltre il riferimento troppo generico agli appalti di "non particolare complessità" sembra consentire una ulteriore troppo ampia possibilità di derogare al principio".
E i problemi sorgono non solo in fase di affidamento dell’appalto, ma soprattutto nella gestione esecutiva dei lavori. "La corruzione e le infiltrazioni mafiose si annidano non tanto nell’affidamento degli appalti, ma nella gestione esecutiva del contratto – spiega a ilfattoquotidiano.it Ivan Cicconi, direttore di Itaca, Istituto per l’innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale – E in questo senso il codice lascia scoperto questo buco enorme". Ma Cicconi sottolinea anche un ulteriore aspetto delicato del nuovo testo legislativo. "Il buco di questo codice è che attribuisce un ruolo straordinario all’Anac, ma non c’è una riga su durata, composizione, modalità di nomina dell’autorità. Oggi il presidente è Raffaele Cantone, una persona per bene, ma se domani cambia il governo, il nuovo presidente del Consiglio potrà nominare un nuovo presidente senza alcun vincolo. Domani potrebbe essere nominato un delinquente alla guida dell’Anac".