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Abbiamo dedicato l’ultima giornata di questa meravigliosa edizione della Scuola di eddyburg all’esperienza del piano regolatore di Napoli e dei Ragazzi del piano[1]. Ci hanno raccontato una vicenda bellissima, da cui abbiamo imparato molto sulle virtualità del nostro mestiere. E hanno concluso esprimendo tutta la loro amarezza per il fatto che Napoli è accerchiata: è accerchiato il territorio comunale, correttamente ed efficacemente pianificato, dal vasto hinterland nel quale la pianificazione non funzione o non viene praticata; ed è accerchiata la città nell’opinione pubblica, perché la buona amministrazione dell’urbanistica napoletana è ignorata dall’opinione pubblica, e dalla stessa cultura, che preferiscono dare di Napoli l’immagine di una città soffocata dalle immondizie, dalla camorra, dal cattivo governi municipale.

Vorrei dire agli amici napoletani: non vi meravigliate, ci sentiamo tutti accerchiati in questo paese (e nell’Europa, e nel mondo). È una condizione comune, della quale dobbiamo cercar di comprendere le ragioni per poter efficacemente resistere. Anche questo le quattro giornate della Scuola ci hanno insegnato. E su questo vorrei adesso riflettere.

Le quattro giornate

Abbiamo organizzato questa edizione della Scuola per comprendere una cosa: per comprendere perché, “nonostante i programmi e i piani concepiti a partire dagli anni ’90 […] abbiano fatto sovente ricorso a parole come “riqualificazione” e “qualità urbana”, gli effetti prodotti non sono corrispondenti agli obiettivi dichiarati. Per capire le ragioni che hanno determinato questo scarto – abbiamo scritto nel programma della Scuola - occorre, come nelle passate edizioni, capire i presupposti e leggere criticamente i fenomeni in atto, recuperare concetti e strumenti troppo frettolosamente abbandonati, sperimentare percorsi di riflessione e di iniziativa controcorrente”.

Una riflessione sulle “parole della città”, una comprensione della loro ambiguità e del loro uso da parte dell’ideologia dominante, delle loro potenzialità ai fini della rinascita di un pensiero critico e della loro utilizzazione come strumento di resistenza e di costruzione di pratiche virtuose ha aperto i nostri lavori[2]. Ad esse si sono fruttuosamente ricollegati gli interventi della prima giornata, nella quale gli urbanisti Giovanni Caudo, Paola Somma e Giancarlo Paba, particolarmente attenti alla società, la sociologa Elisabetta Forni e l’antropologo Ferdinando Fava ci hanno aiutato a comprendere molte cose [3]. Soprattutto, ci hanno aiutato a uscire dal nostro guscio, a comprendere in che modo si pongano i rapporti tra la nostra opera di esperti e le concrete trasformazioni della società, come i nostri strumenti vengano compresi dai cittadini e dagli abitanti – e soprattutto, quale sia la concreta condizione della città: anzi, della civitas, della società che nella città vive e senza la quale essa non sarebbe “città”.

Grazie al loro aiuto abbiamo compreso meglio in che modo le nostre piccole storie si pongano nell’ambito di quel grande conflitto al quale mi sono riferito nell’aprire queste giornate. Il conflitto tra due concezioni e due strategie: quella della città come merce, tipica del neoliberalismo e caratterizzata dal vedere la città come una macchina fatta per arricchire gli appartenenti agli strati alti della società globale, e la città come bene comune, come costruzione collettiva finalizzata alle esigenze, ai bisogni, alla crescita delle persone che vi vivono, vi lavorano, vi abitano.

Il primo giorno ha lasciato molti dei partecipanti alla Scuola in una situazione di sgomento: che fare allora, come difenderci e difendere le verità di cui ci sentiamo portatori? Su questo punto tornerò in seguito, per tentar di restituire alcune cose che ci siamo detti nei colloqui che si sono intrecciati attorno alle riunioni generali e dei gruppi. Vorrei dire subito che è emersa praticamente da tutti gli altri esempi illustrati la situazione, l’accerchiamento, il dominio di concezioni e pratiche deleterie per la città così come la intendiamo e la vogliamo. Le “buone pratiche” hanno gettato germi di speranza e hanno testimoniato che “un’altra urbanistica è possibile”, ma a condizione che si sappia uscire dal guscio della nostra specificità e si riesca a far convergere l’urbs (la città fisica alla quale è soprattutto rivolto il nostro mestiere) con la civitas e la polis, la società e la politica. Ma anche su questo tornerò più avanti.

La seconda giornata è stata aperta da una lezione di Mauro Baioni, direttore della Scuola, che ci ha illustrato il contesto nel quale gli strumenti degli anni Novanta sono nati e le loro caratteristiche. Le urbaniste bolognesi, tutte operatrici nelle strutture urbanistiche pubbliche dell’area emiliana e animatrici della Compagnia dei Celestini (quindi attivamente impegnate sia nel mestiere che nella società), ci hanno illustrato in quale modo le concrete esperienze dei “programmi complessi” nella loro città abbiano generalmente tradito le speranze e le intenzioni, determinando un peggioramento delle condizioni che ci si proponeva di migliorare[4]. Un raggio di speranza è venuto dall’illustrazione del recentissimo piano strutturale comunale, che sembra suscettibile di aprire una nuova positiva stagione: a condizione però che si eserciti un’attentissima vigilanza sul modo in cui si risolveranno alcune ambiguità o genericità del dettato del piano (ad esempio, quali concreti contenuti avrà la “edilizia sociale” e chi ne saranno i beneficiari? Qual è il contenuto reale della “vivibilità” e “qualità urbana” che si propongono come obiettivi?).

L’esperienza internazionale, illustrata in apertura della terza giornata, si è sviluppata a partire da alcuni approfondimenti delle “Parole della città”, ed ha esplorato le politiche e i problemi della rigenerazione e della riqualificazione nel quadro europeo[5]. L’analisi ha messo particolarmente in luce come non sia sufficiente perseguire qualità e vivibilità (obiettivi che peraltro devono venire attentamente qualificati per non divenire ombrelli che coprono intenzioni anche antitetiche) a livello locale, ma come sia indispensabile praticare politiche a scala di area vasta. Alcune buone pratiche in Europa e negli USA hanno gettato qualche barlume di speranza sulle potenzialità dell’urbanistica, là dove urbs, civitas e polis si incontrano e collaborano per un obiettivo condiviso. La brillante illustrazione del progetto Urban di Cosenza ha rivelato come un’esperienza volta a superare le condizioni di disagio e mirata a specifici obiettivi di rinascita sociale della città abbia condotto a risultati positivi nell’assetto e nella vita della città ma come, una volta mutato il quadro politico, la situazione sia regreditai[6].

L’illustrazione dell’area Spina Tre a Torino ha aperto uno squarcio interessante e particolarmente istruttivo[7]. Non si è trattato questa volta di un “programma complesso”, ma di un intero piano regolatore, che è stato sottoposto a critica. La questione – è emerso – non sta tanto né solo nello strumento adoperato: anche quando si adopera in modo tecnicamente corretto uno strumento di per sé capace di governare l’insieme della città l’esperienza è deludente quando mancano due requisiti: la definizione di obiettivi sociali adeguati e condivisi, tra i quali l’uguaglianza dei diritti degli abitanti abbia un peso preminente, e quando vi sia un corretto inquadramento dei problemi e delle soluzioni alla scala che ciascuno di essi richiede. Il piano urbanistico comunale è anch’esso uno strumento:come per qualsiasi altro strumento i risultati dipendono dagli obiettivi e dai contenuti.

Di Napoli si è già detto. È utile aggiungere che è rimasta inevasa una domanda, che è emersa con maggior evidenza che in altre esperienze. Perché la svolta? Nel capoluogo campano essa è non è avvenuta nel passaggio non da una maggioranza all’altra, ma da una trasformazione dello stesso personale politico. Probabilmente l’involuzione ha coinciso con il mutamento dell’interesse di chi guidava la città (nella fattispecie Antonio Bassolino): quando ha privilegiato l’intesa con gli interessi economici dominanti rispetto al benessere dei cittadini. Ma Napoli ha testimoniato anche che l’efficacia della pianificazione (ancor oggi, otto anni dopo il passaggio dal Bassolino 1 al Bassolino 2) il PRG è ancora autorevole, efficace, e prosegue il suo cammino regolatore e attivatore di interventi virtuosi. Ciò dipende con ogni probabilità dal fatto, raccontato nel libro I ragazzi del piano, che esiste un ufficio del piano costruito e consolidato dopo due decenni di esperienze di lavoro comune, in stagioni difficilissime, ha hanno costruito e consolidato il rapporto tra urbs, civitas e politi negli anni in cui le tre realtà hanno saputo trovare la loro sintesi.

Che fare

Ho accennato alla sensazione di sgomento quando, al termine della prima giornata, ci si è resi conto della pervasività della ideologia del neoliberalismo e della conseguente strategia della “città come merce”. Sembra indubbio (tutte le testimonianze successive lo hanno confermato) che l’”accerchiamento” è forte. Le esperienze positive da un lato sono minacciate nella loro stessa possibilità di proseguire, o sono già cancellate, dall’altro lato, quando anche sopravvivano, sono ignorate, nascoste, negate. E indubbiamente l’ideologia dominante è quella promossa, instillata, inculcata dai poteri forti della globalizzazione. Poteri forti dei quali è diventata parte integrante l’appropriazione della rendita urbana, strettamente intrecciata alla rendita finanziaria e con essa diventata dominatrice dell’economia. Di una economia, d’altra parte, sulla quale la politica si è appiattita.

Per questa economia (e per questa politica) la città è diventata una macchina esclusivamente finalizzata ad accrescere le rendite e a moltiplicare i consumi di merci utili all’espansione produttiva (indipendentemente dalla loro reale utilità per l’uomo e per la società), a produrre forza lavoro a basso costo (l’immigrazione, i ghetti, gli slums sono funzionali allo “sviluppo”). Nella civitas si tende a spegnere ogni forma di dissenso suscettibile di minacciare quell’equilibrio sociale: quindi a trasformare la partecipazione politica in propaganda, ad alimentare il mito dell’insicurezza recuperando fantasmi medioevali, ad aumentare le segregazioni, i “recinti”[8], le gated cities, le disuguaglianze.

Cresce l’ingiustizia, crescono le privatizzazioni (le stesse aree a standard devono servire a far soldi, non a soddisfare le esigenze comuni degli abitanti), crescono le distruzioni dei beni comuni. Ma ecco allora, all’interno stesso delle condizioni provocate dal dominio dell’ideologia neoliberale e della “città come merce”, i germi della possibile speranza. Per dirlo con una sintesi, se l’urbs non incontra la polis perché la politica ha scelto altre strade, essa può resistere e rinascere alleandosi alla civitas, alla società. Se questa è oggi dominata dall’egemonia del neoliberalismo (la libertà vince sull’eguaglianza, il mercato è il regolatore assoluto, il pubblico è servo del privato, la comunità è negata dall’individuo) in essa però crescono i momenti di sofferenza, di critica, di ribellione. Ve ne sono ormai numerose testimonianze, in Italia e nel mondo.

In Italia vorrei sottolineare le numerosissime iniziative dei comitati in vario modo sorti per difendere singoli aspetti o porzioni della gestione del territorio. Episodi numerosissimi, mai censiti, sempre caratterizzati da un localismo che minaccia di spegnerli. Episodi, però, che cominciano ad evolvere verso la costituzione di “reti” che possono orientarli verso una strategia e dei contenuti più ampi. Mi riferisco alla Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio. Mi riferisco alla costituenda e analoga rete lombarda, alle reti che tentano di costituirsi nel Veneto, ai numerosi comitati che contestano le politiche urbanistiche di Roma e di Torino. Mi riferisco alle sollecitazioni, che nascono dal mondo sindacale, di saldare la difesa del territorio con la difesa del lavoro (l’altra grande vittima della strategie neoliberale). E mi riferisco a un episodio nel Mezzogiorno che porta una testimonianza di grande significato: la lotta per l’utilizzazione pubblica del grande complesso ex militare di Macrico, a Caserta[9].

L’intreccio tra “buone pratiche” e “buone lotte” può essere un modo utile per uscire dal guscio e riportare l’urbanistica nella civitas – in attesa del giorno in cui anche la polis riprenderà il suo ruolo di espressione della società e guida dell’economia, e non di ancella di quest’ultima. Da questa possibilità, da questa speranza nascono anche le risposte al “che fare”, che è venuta con forza dalle quattro giornate della scuola: cosa fare come urbanisti.

Gli urbanisti sono in primo luogo cittadini; allora è in primo luogo come cittadini che dobbiamo interrogarci.

Il primo obiettivo che dobbiamo proporci è di recuperare i senso critico: la capacità di vedere e comprendere le cose al di là della loro apparenza. La distinzione gramsciana tra senso comune e buon senso[10] è utile per comprendere il lavoro da fare. Ciò comporta la necessità di contrastare, come suggerisce Raffaele Radicioni, la tesi secondo la quale il reale è razionale, ciò che esiste è l’unica realtà possibile. Ciò comporta di non credere che la storia sia già scritta, e convincerci che la storia siamo noi che la scriveremo, se orienteremo la nostra azione nella direzione giusta e se riusciremo a lavorare in quella direzione con altri.

Dobbiamo ricordare che ogni nostro gesto (ogni parola come ogni azione) ha una direzione: se non la scegliamo noi, allora adoperiamo quella che il senso comune ci impone. Altro è se non diciamo “i sindaci non hanno risorse finanziarie e quindi sono costretti a vendere il territorio per sopravvivere”, o se noi diciamo “i sindaci sono stati costretti a non avere più risorse finanziarie e quindi…”.

Il secondo obiettivo è quello di comprendere. Lo so, per comprendere bisogna studiare, leggere, impiegare del tempo. Ma è la condizione necessaria; se non siamo in grado di farlo, allora è meglio rassegnarsi, smettere di protestare. La Scuola tenta di aiutarvi nel comprendere e studiare: non solo nelle sue giornate, ma anche regalandovi libri e inserendo in rete i testi delle lezioni e altri documenti utili a comprendere. Ed eddyburg è pronto ad aiutarvi con le sue risorse, con la piccola rete di esperti che attorno al sito gravita. Domandate, e cercheremo di rispondervi. Le cose sono complesse. I manuali di urbanistica, se sono utili per la professione, non bastano per comprendere la società, l’economia, le loro trasformazioni. Eppure, è di lì che l’urbanistica è sempre partita. A maggior ragione ciò è necessario oggi, in tempi di così immane trasformazione.

E in quanto urbanisti?

A maggior ragione in quanto urbanisti, dobbiamo innanzitutto comprendere. Questo significa studiare. Non aggiungo nulla di ciò che ho detto or ora, se non che l’aiuto che si sforza di dare eddyburg è particolarmente rivolto a chi, dentro o a ridosso alla pubblica amministrazione, ha il dovere e la possibilità di lavorare in modo efficace per una città migliore, e quindi ha i dovere di comprendere più e meglio degli altri ciò che determina le condizioni della civitas nell’urbs.

E ancora maggiori sono le possibilità dell’urbanista di far comprendere.

Possiamo dare un sostegno al movimento in più direzioni. La prima è quella di illustrare ciò che accadrà nella città prima che esso avvenga. Radicioni lo ha detto: i cittadini hanno iniziato la protesta a Spina 3 quando anno visto gli effetti molti anni dopo che le cause (il PRG) erano state proposte, accettate, consolidate. Perché nessuno lo ha raccontato prima? Colpa dei cittadini, ma anche degli urbanisti che forse hanno fatto poco per spiegare. La seconda è di adoperarsi per far sì che il movimento (i cittadini, i comitati, le piccole associazioni) escano dal localismo, dal settorialismo, dalla logica Nimby che è spesso il necessario punto di partenza. Del resto – l’ho appena detto – gli urbanisti lavorano a ridosso delle amministrazioni pubbliche, dei municipi, che sono (che devono tornare a essere) il primo punto di riferimento dei cittadini. È da lì che occorre ricominciare a fare politica. È lì che la civitas può cominciare a incontrare la polis, a modificarla.

Possiamo lavorare per modificare le istituzioni. I sindaci, gli amministratori, non sono tutti corrotti: moltissimi non lo sono. Se subiscono l’egemonia dell’ideologia prevalente è perché, spesso, non sanno, non comprendono: restano avvolti nella tecnicità di cui noi stessi troppo spesso ci ammantiamo. Dobbiamo far comprendere a loro (come del resto ai cittadini) quali sono le conseguenze sociali, economiche, territoriali delle scelte che si compiono: i prezzi delle soluzioni sbagliate, i vantaggi delle soluzioni possibili. Dobbiamo imparare ad argomentare le nostre tesi, le nostre proposte, le nostre denunce.

E dobbiamo (questo è un punto che Cristina Gibelli mi chiedeva particolarmente di segnalare) far bene il nostro mestiere, impiegare bene la nostra cassetta degli attrezzi. Ad esempio, il calcolo del fabbisogno. Questo è uno strumento fondamentale della nostra cassetta degli attrezzi: non si decide quante nuove aree si devono urbanizzare se non si è fatto un ragionamento e un calcolo sulle reali necessità di nuovi spazi per la residenza, le industrie, la distribuzione. Chi adopera oggi questo fondamentale attrezzo? Non è forse vero che oggi, nel migliore dei casi, si decide sulla base delle ragioni della mera attività edilizia? E nel peggiore sulla base degli interessi fondiari che si vogliono premiare? Primo dovere di un urbanista è spiegare al decisore che così è indecente, è contrario alla deontologia professionale, e che per questa faccenda l’amministratore si rivolga ad altri (a proposito, che fanno gli ordini, le associazioni sindacali, per tutelare il dovere deontologico degli urbanisti?).

Certo, spesso sarà difficile convincere il decisore, resistere alla sua insistenza (e magari, in un mondo nel quale il lavoro diventa sempre più precario, al ricatto). Spesso bisognerà cedere, attaccare il carro dove vuole il padrone. Ma sarà più utile, per l’interesse generale e per quello della città e dei cittadini, farlo dopo aver tentato di resistere, e avewr instillato magari un germe nella coscienza di quel decisore, se davvero non è corrotto intellettualmente o materialmente.

Gli spazi pubblici

C’è poi un campo d’azione nel quale la professionalità dell’urbanista può dispiegarsi con una pienezza di rapporto con la coscienza civile: il campo degli spazi pubblici. Questi sino decisivi per una città che voglia davvero costruire una società non atomizzata. Al Social forum europeo di Malmö, nel seminario che eddyburg, Cgil e Zone hanno contribuito a organizzare, un ragazzo greco ha detto: “ma come facciamo a riunirci, a discutere, a convincere gli altri abitanti che così non va, che quelle scelte sono sbagliate, che queste esigenze non vengono soddisfatte, se non abbiamo spazi pubblici dove riunirci?”. Testimonianza di un carenza che avvilisce la stragrande maggioranza dei nostri insediamenti. Qui c’è davvero molto da fare. Siamo pieni di parcheggi, siamo pieni di rotatorie e svincoli, ma mancano le piazze.

Ci lamentiamo per i “recinti” che separano l’una dall’altra parte le città dei ricchi, quelle dei benestanti, quelle delle varie categorie dei poveri. Vogliamo la mixitè. Perché allora non adoperiamo gli spazi pubblici (e magari l’individuazione di quelli che gli stessi abitanti scelgono come luoghi nei quali stare insieme) come i nodi di una ricomposizione sociale della città? Perché non avviamo, insieme ai gruppi di cittadini e alle associazioni più sensibili, una campagna di rilevamento e mappatura degli spazi pubblici da difendere, o di quelli da recuperare e restituire alla società? Molte strade si aprono a chi vuole orientare la propria professionalità nella direzione giusta.

Avviandomi alla conclusione, vorrei darvi qualche anticipazione sui nostri programmi. La prossima edizione della Scuola (la quinta, un traguardo significativo) sarà con ogni probabilità in Sardegna, ad Alghero. Sarà dedicata proprio agli spazi pubblici. Pur apportando qualche modifica, volta soprattutto a stimolare il lavoro degli studenti, la organizzeremo secondo lo schema attuale.

Una prima sessione sarà dedicata a tracciare, in un contesto pluridisciplinare, il quadro generale della situazione: parleremo dell’uomo pubblico e l’uomo privato, dell’intimo e del sociale, del pubblico e del privato; parleremo del diritto alla città (ci piacerebbe avere qualcuno come Stefano Rodotà a parlarne); cercheremo di parlare di condizioni e anche di principi: perché è ai principi che si parte. In una seconda sessione vorremmo lavorare sulla storia: in particolare, la storia di quella fase nella quale, grazie al fruttuoso incontro di urbs, civitas e polis, si affrontarono in Italia due grandi questioni della “città pubblica”: gli standard urbanistici e il diritto alla casa. Ragioneremo sugli anni 60 senza nostalgia, proiettando la nostra riflessione sull’oggi. Le altre due sessioni le dedicheremo, rispettivamente, alla presentazione di casi significativi e interessanti, dal punto di vista sia delle “buone pratiche” che delle “buone lotte”, e alla individuazione di quelli che chiamerei “i nuovi standard urbanistici”: che cosa bisogna fare per guardare avanti, al di là dei confini tracciati dall’impostazione degli anni 60, al di là non solo dell’impostazione meramente quantitativa, ma anche da una visione troppo appiattita sul locale e sul cittadino, troppo limitata a ciò che allora era essenziale e oggi è solo una parte delle “nuove essenzialità”: il tempo libero, le spiagge e i boschi, i luoghi della cultura.

Prima delle giornate della scuola (che si svolgerà in una dell prime settimane di settembre) vi proporremo altre cose da fare insieme. Faremo alcune cose interessanti in preparazione della scuola, con l’aiuto di alcuni di voi. Organizzeremo degli altri appuntamenti. Da queste giornate è emerso il comune interesse di approfondire la riflessione, in modo più specifico, su realtà che qui erano rappresentate solo come illustrazione di un ragionamento generale. Per Napoli, per Torino, per Bologna è sembrato a molti interessante approfondire la conoscenza dia della città che del suo piano: incontri di un paio di giorni, nei quali si possa conoscere meglio i documenti di piano, incontrare la città e i suoi abitanti (come ci invitava a fare Giovanni Caudo), e discutere sugli uni e sugli altri insieme. Poiché le risorse che possiamo dedicare alla scuola sono impegnate fino all’estremo da questa, organizzeremo queste giornate se qualcun altro se ne farà completamente carico. Roberto Giannì si è impegnato a farlo per Napoli, Raffaele Radicioni verificherà la possibilità di farlo a Torino, e sono sicuro che le nostre Celestine saranno in grado di farlo magnificamente a Bologna.

Ringraziamenti

Ringrazio ancora tutte e tutti. I docenti cha hanno messo gratuitamente a nostra disposizione il loro tempo, cosa abbastanza eccezionale in questi tempi. Gli studenti che hanno partecipato ancor più che in passato, e hanno davvero aiutato gli stessi docenti a ricalibrare giorno per giorno il taglio delle loro presentazioni. Il sindaco Daniele Ferrazza e l’ottimo assessore (ed enologo, come abbiamo potuto sperimentare) Franco Dalla Rosa, l’impareggiabile Suor Eliana, la cui intelligenza, la cui cultura (oltre che la pazienza e la disponibilità) sono state una piacevolissima sorpresa (a proposito, vi ricordo la serie di dibattiti che ha programmato sulla politica oggi, ho già sentito di qualcuno di voi che vi parteciperà). Infine, i cirenei dell’organizzazione di queste giornate: il direttore Mauro Baioni e Ilaria Boniburini, che hanno dedicato almeno un paio di intensi mesi delle loro vite al lavoro che c’è dietro la scuola, e alle new entries dello staff della scuola, Giorgia Boca e Patrizia Del Rosso. Una punta di rincrescimento per alcuni studenti degli anni scorsi che avrebbero voluto partecipare ma non hanno potuto. Speriamo di rivederli ad Alghero, con molti di voi.

© eddyburg.it. Chiunque può riprodurre l’articolo, alla condizione di citare l’autore e indicare la fonte, eddyburg.it

[1] Hanno illustrato la vicenda del PRG di Napoli Roberto Giannì, Gabriella Corona e Vezio De Lucia.

[2] I testi delle “Parole della città (vedi in eddyburg) sono stati redatti e illustrati da Ilaria Boniburini.

[3] Le scalette e, al più presto, i testi dei oro interventi sono in eddyburg, in una cartella dedicata alle lezioni.

[4] L’analisi della situazione urbanistica bolognese è stata svolta da Barbara Nerozzi, Chiara Girotti, Graziella Guaragno ed Elettra Malossi.

[5] La lezione è stata tenuta da Maria Cristina Gibelli.

[6] L’illustrazione del programma urban di Cosenza è stata redatta e presentata da Giorgia Boca.

[7] Essa è stata tenuta da Raffaele Radicioni.

[8] Questo termine, argomentato da Paola Somma, ha incontrato una particolare fortuna nel dibattito e negli interventi degli studenti.

[9] Vedi su eddyburg

[10] Vedi su eddyburg parole

Una delle ragioni della progressiva perdita di rilevanza sociale dell’urbanistica é da ricercare nell’allontanamento di questa dai temi che riguardano il modo in cui le persone abitano, dai problemi reali che queste affrontano quotidianamente nello svolgere le diverse attività che le impegnano.

La cultura urbanistica e quella architettonica, in questo concordi, si sono lacerate negli anni. La prima attorno alla questione della rendita, divisa tra chi voleva contrastarla e tra chi voleva favorirla. La seconda, la cultura architettonica, sembra essersi appiattita sulla dittatura del mercato imperante e sulle domande di spettacolarizzazione imposte dai processi finanziari impliciti nel mercato immobiliare. Un ripiegamento verso l’immagine, talvolta con tinte ecologiche, che non ha incontrato, se non raramente, le reali condizioni di vita delle persone, degli abitanti. In entrambe queste posizioni sono mancate le persone e le relazioni che queste intrecciano con lo spazio. Da qui é necessario ripartire.

Comprendere i bisogni, le aspirazioni e costruire risposte a partire dalle forme dell’abitare (dalle difficoltà di farlo) sono attività che hanno costituito la base del lavoro degli architetti-urbanisti nel XIX e XX secolo. Al centro della proposta operativa dei maestri era la complessità delle forme di associazione umana, l’interpretazione delle vicissitudini imposte agli individui dal cattivo sviluppo della città e del territorio.

Tornare a dispiegare delle letture per comprendere i bisogni, le aspirazioni, … non é facile. Leggere i “fenomeni”, “ciò che accade”, “quello che le persone fanno” è una pratica difficile e controversa. Difficoltà date, ad esempio, dall’”evanescenza del collettivo” che ha perso (si tratti di spazio o no) i caratteri che da sempre lo hanno segnato. Difficoltà che procede con la progressiva individualizzazione della società, della sua articolazione in isole che, però, non costruiscono arcipelaghi.

Eppure, questo ritorno a “le cose” ci appare inevitabile per uscire da una prassi tecnica, dove gli strumenti, le procedure prevalgono sul “cosa fare”, sul contenuto. Oggi pare che ogni cosa, purché dentro una qualche procedura, sia giusta e vada realizzata.

Tornare a “le cose” vuol dire assumere la prospettiva di interrogarsi sul cosa fare. In qualche modo, certamente in modo diverso dal passato, é anche tornare a fare “militanza”.

Mettersi dinanzi a questa prospettiva, tanto più se poi la si offre ai partecipanti della scuola, ci impone di chiarire le difficoltà, i rischi e le implicazioni. Ammesso che poi le ragioni di partenza risultino chiare e condivise.

I differenti profili degli intervenuti ci consentono di affrontare la necessità di tali chiarimenti e di delineare l’insieme delle questioni che il “vivere insieme” nella città contemporanea propone.

La sequenza degli interventi inizia con i contributi di Somma, Forni e Fava che guardano “le cose” da tre differenti punti di vista. Rispettivamente, quello dei “nuovi arrivati”, dei bambini e da un luogo, il quartiere Zen di Palermo. Ai tre interlocutori chiediamo che il loro racconto incontri anche i due temi esposti qui di seguito:

- “la contrazione” del senso proprio della Città come luogo d’incontro. La riduzione, la progressiva scomparsa, di ciò che sta tra noi e che ci fa stare insieme. Quel mondo di cose che la Harendt considerava essenziale per vivere insieme. Cosa oggi può costituire questo “in between” posto che lo spazio di prossimità si é sciolto in connessioni e legami a-spaziali? Qui confluisce un tema ancora più ampio, quello delle relazioni tra spazio e individui. Come si ridefinisce lo spazio di prossimità?

- la seconda questione, in realtà come per la prima si tratta di grumi di questioni, attiene al Diritto alla città. E’ questione controversa, ma ci interessa guardarla il più possibile in modo frontale, per esigenze di chiarezza e per tentare di contrastare un binomio – dentro/fuori - che si sta diffondendo in modo subdolo (forse neanche tanto subdolo). Per noi stare bene (sicuri) l’altro deve restare fuori. Negare il diritto all’estraneo, ma poi anche all’indesiderato, poi anche a chi non ha le risorse economiche necessarie, poi…. . Così si sta formando una sorta di città di sotto che cresce in dimensione e che sembra essere il destino dei “deboli”.

La sequenza prosegue con l’intervento di Paba il cui racconto, oltre ad incontrare i temi di cui sopra, ci piacerebbe che affrontasse il rapporto tra la conoscenza, quella acquisita guardando “le cose” e quella più esperta ma distaccata, meno partecipata. Le difficoltà di interpretare ciò che accade, per i motivi in parte prima elencati, ci pare che incontrano qui, nel crocevia di come si costruisce la conoscenza, gli aspetti più propriamente disciplinari. Aspetti che hanno implicazioni dirette sulla formulazione delle politiche di intervento e di costruzione delle scelte.

Vorrei iniziare il mio contributo leggendo alcuni narrazioni tratte dai testi indicati in bibliografia. Credo che possa essere un modo efficace per entrare emotivamente , prima ancora che razionalmente e ‘fisicamente’ nello spazio urbano del disagio, dell’emarginazione, della povertà, del degrado, della negazione (dell’altro) della lontananza, dell’assenza (esattamente le parole-chiave che ci ha proposto Ilaria Boniburini).

Ma vorrei che queste letture ci stimolassero poi a riflettere razionalmente sul “discorso” dello spazio. E proverò a farlo con l’aiuto dell’Antropologia e della Sociologia.

Se vogliamo mettere in positivo il tema della invivibilità, credo sia importante domandarsi come si produce culturalmente e socialmente lo spazio; e chi lo costruisce? E come lo si può comprendere? E quali effetti produce il mettere lo spazio (e non l’architettura) al centro del progetto urbano?

Vorrei riflettere con voi su come l’urbanità sia legata al processo di spazializzazione sociale. La produzione dello spazio riguarda infatti la riproduzione e l’interazione sociale e culturale.

E ancora:se è vero che culture differenti usano lo spazio (e lo costruiscono) in modo differente, come affrontare e mettere in positivo il conflitto che ne deriva?

Infine: come portare l’uomo e la sua cultura dello spazio al centro del discorso sulla sostenibilità urbana

Sono due gli argomenti intorno ai quali penso di articolare il mio contributo, anche tenendo conto di coloro che mi avranno preceduto.

Il primo riguarda una concezione della pianificazione “sensibile alle differenze”: alle differenze di età (bambini), di provenienza geografica (migranti), alle altre mille differenze, e anche a quelle di luogo ( e di opportunità che ne derivano).

Il secondo argomento riguarda il ruolo che possono avere, nelle situazioni di disagio sociale, le “politiche pubbliche dal basso”, le pratiche auto-organizzate di azione sociale, per una maggiore vivibilità della città. Partirò da alcune piccole storie del quartiere della Piagge di Firenze per definire più in generale i caratteri che le “politiche pubbliche dal basso” possono avere.

Si tratta di un argomento rilevante sul quale la discussione è aperta: l’ultimo libro di Stefano Moroni e di Grazia Brunetta (Libertà e istituzioni nella città volontaria), fornisce una interpretazione liberista del significato che possono avere le forme spontanee di auto-organizzazione capaci di produrre utilità collettive; io cercherò di fornirne una visione diversa.

Nella cartella letture consigliate possono essere scaricati due contributi, che hanno qualche relazione con questi argomenti (e contengono indicazioni bibliografiche forse utili); essi riproducono, con qualche taglio e qualche variazione, i seguenti due articoli:

G. Paba, “Corpi, case, luoghi contesi: osservazioni e letture”, in Contesti. Città, territori, progetti, n. 1, 2007, pp. 39-48 [si tratta dei primi semplici appunti di una ricerca in corso, pubblicati nella rivista del Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio dell’Università di Firenze]

G. Paba, “Interazioni e pratiche sociali auto-organizzate nella trasformazione della città”, in A. Balducci, V. Fedeli, a cura di, I territori della città in trasformazione, Angeli, Milano, 2007, pp. 104-122.

• Spina 3 e le Zone Urbane di Trasformazione del PRG di Torino 1995: dove sono e cosa sono le ZUT.

• I programmi di Trasformazione Urbana di Torino: localizzazioni e dati quantitativi. Previsioni al 1997.

• Il rapporto fra il PRG ed i Programmi complessi: bilancio sintetico al 2008, con l’ausilio della pubblicazione di Silvia Saccomani sull’argomento.

• I principali elementi quantitativi di Spina 3: in particolare gli spazi pubblici; conteggi e considerazioni con l’ausilio di quanto predisposto da Flavia Bianchi in occasione del Convegno di Torino nel maggio 2007 dedicato a Spina 3.

• Le principali proprietà fondiarie operanti nel complesso di Spina 3.

• Alcune immagini fotografiche, scattate nel luglio 2005 e nel maggio 2007 in alcuni settori di Spina 3.

• Il controllo democratico del progetto di Spina 3.

• Le premesse del progetto di Spina 3 nel PRG del 1995: le aree per servizi e le scelte fondanti del PRG.

Il desiderio di “ritornare alle cose”, che sostiene anche l’impresa di conoscenza etnologica, si dispiega da una parte nel riconoscimento dell’impossibilità di accedere al reale al di fuori di circuiti di mediazione e dall’altra nel discernere, nella domanda “Cosa fare?” “un dovere” (in realtà la domanda è “Cosa devo fare?”). Si tratta di un dover fare che è ad un tempo epistemologico, etico e politico. In questa prospettiva, il mio racconto della vivibilità del quartiere Zen [Zona espansione nord] di Palermo, centrato sui modi dell’abitare (nel senso di “produzioni” di configurazioni concrete che performano il nostro rapporto alle persone, ai beni e al tempo) sarà prima di tutto il racconto delle rappresentazioni “esterne” della sua qualità della vita, di quelle rappresentazioni che hanno la pretesa di restituire immediatamente “le cose”, le condizioni della periferia degradata e la invivibilità delle sue traiettorie individuali, trasformandola con i suoi residenti in un oggetto di sapere. L’ascolto “da dentro e dal basso” dei residenti e di quanti il territorio convoca (operatori esterni) porta alla luce un rapporto allo spazio e delle relazioni sociali che rimangono occultati dai discorsi dominanti, “dall’esterno e dall’alto”. Il concetto di qualità della vita, in realtà soggettivo ed esperienziale, rivela la sua natura “posizionale”, mediatrice di rapporti tra classe, generi e generazioni. L’apparato dei suoi indicatori oggettivi che vuole operazionalizzare il tradeoff tra interventi finalizzati, pubblici o privati, e la maggiore vivibilità del quartiere, appare essere una costruzione necessaria alla cultura delle politiche (policies) e della politica che fa funzionare volontari, architetti, pianificatori urbani, ricercatori sociali, amministratori pubblici, giornalisti e molte delle loro organizzazioni. Nelle maglie strutturali economico-politiche della città di cui il quartiere è secrezione, l’iniziativa individuale che si manifesta nelle “poetiche dell’abitare”, aggirando e integrando le cosiddette “ostilità spaziali”, ci invita a pensare ad una epistemologia diversa per comprendere la città. E illustra forse l’invenzione di un rapporto allo spazio urbano ancora tutto da apprendere. Il problema della vivibilità allo Zen è diventato in gran parte la sua stessa problematizzazione.

Riferimenti biografici

Ferdinando Fava (2008), Lo Zen di Palermo. Antropologia dell'esclusione, prefazione di Marc Augé, Franco Angeli Editore, Milano.

In eddyburg vedi la cartella periferie. In particolare segnaliamo due interviste, a Vittorio Gregotti, progettista del quartiere, e a Vezio De Lucia.

Riferimenti biografici

Ferdinando Fava, antropologo, insegna Antropologia Culturale, Patrimonio industriale e trasformazioni urbane presso l’Università degli studi di Padova. È ricercatore affiliato al Centre d’Anthropologie des Mondes Contemporains, dell’EHESS di Parigi. Ha studiato Sociologia Urbana all’University of California at Berkeley.

1. Dal momento che la vivibilità non è un diritto, ma una merce con un prezzo che non tutti si possono permettere, credo sia utile partire dalla spazializzazione- territorializzazione dell’iniquità sociale perseguita, attuata e sancita dalle istituzioni pubbliche:

- non tutti i luoghi hanno la stessa qualità e amenità,

- l’insediamento di un individuo o un gruppo in una determinata parte di territorio e di città è in larga misura determinato dalla sua capacità a pagare,

- la localizzazione di attività di pregio o degradanti, la dotazione di infrastrutture e la erogazione di servizi secondo criteri e standard diversificati in funzione dei gruppi di popolazione ai quali sono destinati, lo spostamento di abitanti da una parte all’altra del territorio codificano e rafforzano ineguaglianza e discriminazione,

- gli interventi per migliorare la vivibilità, che spesso consistono in una banale barcellonizzazione degli spazi pubblici, accelerano l’allontanamento forzato degli abitanti più deboli e la loro sostituzione con altri più desiderabili.

L’ingiustizia sociale, di cui la localizzazione e condizione abitativa è solo una manifestazione, è sempre esistita. In passato, però, si raccontava che compito delle istituzioni era di lavorare per mitigarla, adesso accentuare le differenze e racchiuderle spazialmente, recintarle, è un obiettivo esplicitamente perseguito.

Le dichiarazioni del signor Swart, ministro della giustizia del Sud Africa che, nel 1953, spiegava

in a country we have civilised people, we have semicivilised people and we have uncivilised people. The Government gives each section facilities according to the circumstances of each (circumstances significa financial conditions)

ben descrivono le politiche pubbliche nei confronti di coloro che impropriamente chiamiamo nuovi arrivati, e che più semplicemente sono i nuovi senza diritti.

2. Ricondurre la vivibilità all’interno di un ragionamento sul ciclo investimento-disinvestimento-reinvestimento. (vedi il fondamentale contributo di Neil Smith) aiuta a capire la complementarità e interdipendenza degli interventi il cui intento dichiarato è di accrescere la qualità urbana e di quelli punitivi nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ghetti, cioè, quartieri o zone con le seguenti caratteristiche:

- confini riconoscibili e riconosciuti,

strade che segnano il limite tra il quartiere e il resto della città o, nel caso di insediamenti periferici, un isolamento fisico segnalato dalla presenza di barriere difficilmente valicabili - autostrada, linea ferroviaria, fabbriche, zone “speciali” - o dalla carenza di trasporti pubblici.

- condizioni di vita mediamente peggiori rispetto al territorio circostante,

minore dotazione di servizi, carenza di manutenzione degli immobili da parte dei proprietari privati e pubblici, degrado degli spazi pubblici.

- omogeneità della popolazione al suo interno e eterogeneità rispetto al contesto,

la popolazione può essere composta da gruppi diversi e talvolta in conflitto fra loro, autoctoni e immigrati, immigrati di diversa provenienza, ma presenta generalmente comuni condizioni di debolezza, per reddito, occupazione, età, a causa delle quali è considerata una comunità “a parte”;

l’insediamento di individui e famiglie immigrate è indotto, facilitato ed incentivato;

la concentrazione del disagio è spesso aggravata dai criteri di assegnazione degli alloggi pubblici

- limitate possibilità di effettiva “partecipazione”,

gli immigrati non possono votare, gli autoctoni non sono proprietari o le loro proprietà valgono così poco da non consentire il trasferimento ad altra zona,

- localizzazione appetibile per l’investimento- reinvestimento immobiliare,

il valore potenziale del terreno e le aspettative di sviluppo immobiliare sono condizione indispensabile per assurgere alla cronaca, prima come quartiere problema, zona a rischio, ghetto e poi come laboratorio, quartiere risorsa, area rivalorizzata e restituita alla città;

la rimozione degli abitanti, almeno parziale e selettiva, è uno degli ingredienti della valorizzazione (bonifica!) del quartiere, perché la terra su cui sorgono i ghetti vale molto, e potrà valere molto di più se “liberata” dagli attuali abitanti.

Il vecchio slogan renewal=removal è ancora attuale.

they told us to dream about what the neighbourhood could be… they did not tell us that the dream meant we shouldn’t be included (dichiarazione di un abitante cacciato nel corso del programma HOPE VI, per la rigenerazione dei quartieri degradati, The Baltimore Sun, 2004).

3. Gli interventi area based, come sono quelli per aumentare la vivibilità urbana, vengono attuati contestualmente – quando non ne sono un prerequisito - alla privatizzazione o riprivatizzazione di tutto quello che è - era pubblico.

La privatizzazione degli spazi pubblici, ed in genere dei beni comuni, viene presentata come una misura indispensabile per accrescere la loro produttività.

Cercare il più alto e miglior uso di ogni bene (highest and best use) non è più solo un’aspettativa del mercato, ma una sorta di imperativo morale per le amministrazioni.

In questa logica, la gentrification non è altro che un’evoluzione naturale e benefica verso un uso più redditizio del suolo e tutto quello che può ostacolarla (lacci e laccioli) è sospetto. Gentrification è sinonimo di sviluppo, si dice, e compito degli urbanisti è di facilitarne la realizzazione.

Nella seconda metà del settecento la recinzione delle terre comuni, e la loro privatizzazione, fu uno degli elementi all’origine della rivoluzione industriale, e quindi alla nascita dell’urbanistica moderna. Per mitigare gli effetti dannosi della industrializzazione e urbanizzazione sulla salute e sulle condizioni di vita si affermò il principio della responsabilità delle pubbliche istituzioni di regolare l’uso del suolo e la necessità che ogni città avesse un patrimonio di spazi pubblici.

Anche ora la recinzione e privatizzazione degli spazi pubblici è uno degli elementi che concorre all’affermazione della cosiddetta rivoluzione postindustriale, ma esattamente opposto è il ruolo assunto dall’urbanistica (dagli urbanisti) postmoderna che partecipa attivamente alla spartizione di questo enorme bottino: teorizza la città per parti, individua le aree da recintare (distretti speciali e entrerprise zones nelle quali sono sospese regole e leggi, siti per eventi speciali e abitanti speciali), valorizza il suolo per cacciare gli uomini, disegna e costruisce spazi difendibili e città sicure.

Nel complesso manca una adeguata consapevolezza delle conseguenze che l’enclosure dei commons (l’uso di termini arcaici è adatto in attesa di compilare un vocabolario per definire il furto e all’appropriazione dei beni comuni) avrà sulla/e città. La privatizzazione e/o ri-privatizzazione di tutto quello a cui può essere attribuito un prezzo è un elemento costitutivo della trasformazione della società e quindi delle città.

Una mobilitazione per la inappropriabilità e incommerciabilità dei commons è necessaria e possibile.

Riferimenti bibliografici

Nicholas Blomley, 2004, Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge

Garrett Hardin, 1968, The tragedy of the commons, “Science”, n. 162, p. 1243-48

Neil Smith, 1996, The revanchist city, Routledge

Riferimenti biografici

Paola Somma, già professore associato di urbanistica, Università IUAV Venezia, 1980-2000 e visiting professor presso l’AUB American University di Beirut, 1998-1999. Fra le sue pubblicazioni: Spazio e razzismo, Angeli; 1991, Beirut: guerre di quartiere e globalizzazione, L’Harmattan Italia, 2000; (a cura di); At war with the city, Urban International Press, 2004.

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