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«XII edizione del festival Vicino/Lontano, in programma a Udine dal 5 all’8 maggio moltissime saranno le voci che si confronteranno nei “dialoghi sul mondo che cambia”». LaRepubblica, 3 maggio 2016 (c.m.c.)

La vulnerabilità come cifra del nostro tempo. È il tema sotteso agli oltre cento appuntamenti della XII edizione del festival Vicino/Lontano, in programma a Udine dal 5 all’8 maggio. Cuore della rassegna, la consegna del Premio Terzani a Martín Caparrós, che il 7 maggio dialogherà con Loredana Lipperini. Ma moltissime saranno le voci che si confronteranno nei “dialoghi sul mondo che cambia”, a partire dalla lectio magistralis “L’Età dell’incertezza” del direttore di LiMes, Lucio Caracciolo.

Sul rapporto tra mondo islamico e Occidente interverrà il sociologo franco-iraniano Farhad Khosrokhavar, mentre a far luce sul complesso fenomeno migratorio in atto sarà il dibattito che vedrà fra i protagonisti Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia, e il giornalista Domenico Quirico, che a Udine presenterà in anteprima Esodo. Storia del nuovo Millennio. Di immigrazione, tra indifferenza e disinformazione, si parlerà anche con Stefano Allievi, Giampiero Dalla Zuanna e Pierluigi Di Piazza, mentre Roberta Carlini e Alessandro Leogrande analizzeranno l’approccio dei media.

Il potere e le sue menzogne saranno il tema del confronto inaugurale del festival, di cui discuteranno Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia e i giornalisti Andrea Purgatori e Valerio Pellizzari. E in questa prospettiva si colloca anche la lectio sulla tortura proposta dalla filosofa Donatella Di Cesare.

Sul male oscuro della democrazia si confronteranno, invece, l’8 maggio, l’ex direttore di Repubblica, Ezio Mauro, lo storico Guido Crainz e il linguista Raffaele Simone, insieme all’antropologo Nicola Gasbarro. Nel percorso dedicato alla legalità si inscrive anche il format educativo che il 6 maggio vedrà la partecipazione di Domenico Quirico e di Federica Angeli.

Dalla vulnerabilità del sistema alle fragilità del singolo: del reddito di cittadinanza come utopia possibile parlerà Philippe Van Parijs. Di fragilità del sistema economico- finanziario discuteranno gli economisti Giangiacomo Nardozzi e Antonio Massarutto, mentre Riccardo Staglianò e Fabio Chiusi spiegheranno come web e robot stiano impoverendo la classe media.

Il tema della “cura” troverà spazio nell’incontro con Beatrice Bonato, Duccio Demetrio e Vittorio Lingiardi. Mentre il filosofo Pier Aldo Rovatti terrà una lectio sul mettersi in gioco, tema rilanciato da Marcello Fois e Alberto Garlini nel dialogo su soggettività e scrittura creativa. In gioco oggi è anche il ruolo della famiglia e dei genitori, di cui parlerà lo psicanalista Massimo Ammaniti. Non mancherà la riflessione sulla violenza, da quella verbale che corre in Rete - esplorata da Giovanni Ziccardi e Fabio Chiusi - a quella mostrata dall’Isis, di cui dialogheranno Bruno Ballardini e Nicola Strizzolo.

Ma si parlerà anche di violenza esercitata sulle donne, con Chiara Volpato, Filippo Focardi e Igiaba Scego. Moltissimi saranno inoltre gli spettacoli, le mostre e i concerti: il programma completo del festival è disponibile sul sito www. vicinolontano. it

Se si vuole restar fedeli «a quella grande tradizione intellettuale che ha fatto della critica" il momento centrale della pratica di pensiero che si pone, in primis, l’obbiettivo del "disvelamento"» occorre tornare a parlare del capitalismo.

Il manifesto, 12 febbraio 2016

Nell’articolo di Piero Bevilacqua (il manifesto, 28 gennaio) il centro del problema riguarda le possibilità di convergenza di un ampio ventaglio di saperi in un comune denominatore di critica alla «cultura neoliberista, alla sue strategie, alle sue pratiche». «Un comune denominatore molto ampio – dice ancora Bevilacqua – in grado di tenere anche posizioni politiche distanti».

Discutere di tali questioni a partire dai nomi contenuti nella «parziale» mappa degli studiosi di varie discipline che l’autore ha collocato in appendice del suo testo è fuorviante perché il panorama degli studiosi «critici» è più ampio, più articolato e, d’altra parte, l’autore stesso parla di una lista «tracciata alla buona». È possibile che tale «comune denominatore» possa tenere insieme posizioni politiche anche distanti, ma dal punto di vista analitico le cose sono più complicate.

Coloro che si riconoscono interni a quella grande tradizione intellettuale che ha fatto della «critica» il momento centrale della pratica di pensiero che si pone, in primis, l’obbiettivo del «disvelamento», quindi pressoché tutti coloro a cui Bevilacqua si rivolge, sanno perfettamente che termini come «neoliberismo» ed anche «liberismo» altro non sono che componenti di una narrazione ideologica di «superficie».

Una narrazione che copre i meccanismi strutturali del mutamento, anzi della molteplicità dei mutamenti, della loro corposa incidenza nella vita materiale, intellettuale, spirituale (perché no?) di tutti noi, sotto la coltre di categorie disincarnate dai fatti. Categorie disincarnate rispetto ad una realtà economico sociale, che non ha alcun rapporto con quella narrata dai vincitori di questa fase di accumulazione.

La narrazione ci descrive un campo di battaglia dove le roccaforti delle nostalgie novecentesche (intromissione della politica nella sfera economica, ostacoli alla libera competizione e dunque alla formazione di un mercato mondiale di liberi e di uguali) stanno definitivamente cedendo al soffio vivificante di un neoliberalismo in espansione. Persino nella stagione classica del laissez fair, grosso modo fino al 1870, i processi di accumulazione utilizzavano a piene mani tanto dimensione statuale che formazioni oligopolitistiche ed anche monopolistiche. Oggi poi, in piena retorica neoliberista, tali aspetti sono addirittura i punti di forza del processo in atto.

Ecco che, allora, il pensiero può avere dignità «critica» se si confronta con i caratteri consustanziali alle ragioni, alle logiche, alla direzione dei mutamenti in atto, se si confronta con l’analisi delle odierne forme capitalismo.

«Capitalismo»: un termine che, soprattutto coloro che avrebbero dovuto essere gli eredi della storia del movimento operaio fanno fatica ad usare, anzi non usano proprio. Già più di vent’anni fa lo storico Raffaele Romanelli sottolineava il fatto che l’uso del termine «mercato» e l’uso del termine «capitalismo» comportava un diverso apporto teorico. E Luciano Gallino, nel suo ultimo libro, ha definito questo slittamento lessicale, «una frode linguistica».

Al concetto «capitalismo» si addicono analisi strutturali. Il che implica anche una particolare misura del tempo storico, compresa la cosiddetta transizione del tempo che stiamo vivendo. Implica la necessità di pensare il tempo lungo della modernità capitalista scandito dalle fasi delle sue diverse forme di accumulazione. Questo significa che le differenze, a volte anche profonde, tra le differenti fasi, tra le diverse forme capitalismo, devono venir ricondotte al un livello temporale ancora più profondo e più lungo. Perché oggi il mercato globale necessita di un paradigma interpretativo in grado di combinare la pluralità dei tempi e dei modi di manifestarsi nella dimensione unificante della modernità. La «modernità liquida», seconda la nota definizione di Bauman, è l’aspetto fondante di un post capitalismo, è la porta d’ingresso definiva nella postmodernità, o è del tutto interna ad una forma capitalismo?

Se optiamo per la prima risposta cambiano radicalmente i termini del nostro rapporto con la dimensione conoscitiva di questo nostro presente, dei processi storici che alla «modernità liquida» hanno portato, ed anche, è impossibile evitarlo, con le possibilità di trasformazione in senso democratico del «momento attuale». Se però, come credo, i meccanismi di questo «momento attuale» non sono affatto estranei alle ragioni profonde dei mutamenti della forme capitalismo, e che, nell’attuale fase di accumulazione, sono impliciti (in molti casi espliciti) aspetti fondamentali di forme precedenti dispiegati in maniera esponenziale, ecco che i termini del rapporto rottura-continuità non possono esaurirsi esclusivamente nel momento della negazione.

Dobbiamo interrogarci sulle caratteristiche del rapporto capitalismo-modernità in questa nostra transizione/non transizione. In particolare del rapporto del capitalismo con quella che, per la nostra tradizione, è la promessa fondamentale della modernità: la democrazia, cioè la tensione inesaustiva verso l’uguaglianza storicamente possibile.

Allora è all’interno di questo panorama analitico che è possibile ricreare quei sistemi di rilevanza in grado di contrastare i moltissimi aspetti di irrilevanza che sono stati (e sono) l’altra faccia del processo di frammentazione dei saperi.

Naturalmente la sfera culturale non è il luogo dove si costruiscono le nuove condizioni di un’egemonia fidando sulla propria autosufficienza. Il rapporto con la sfera politica è essenziale.

«Per tradurre in pratica tale disegno, penso che occorra auto-organizzarsi in un’associazione informale e indipendente, aperta al continuo scambio di idee e contributo di studiosi di diversi ambiti scientifico-disciplinari, nonché di varia formazione».

Il manifesto, 29 gennaio 2016 (m.p.r.)

L’articolo di Piero Bevilacqua sulla parcellizzazione dei saperi (il manifesto, 28 gennaio) offre un’analisi e una proposta su cui lavorare. Sul processo che ha portato il neoliberismo a diventare «la forma di razionalità assunta dal capitalismo nel nostro tempo» e sulle conseguenze che ciò comporta è forse è utile qualche considerazione. Il punto partenza, a mio avviso, è da ricercare nella crisi del capitalismo dei consumi, giunta al punto limite già nei primi anni ’70. Il segno più evidente fu la diminuzione dei tassi di profitto che si registrò in tutti i settori, negli Usa, in Europa e in Giappone.

Quella crisi richiedeva profonde innovazioni nei modi di produzione, nell’organizzazione del lavoro e nei sistemi di vita. Invece, i gruppi economici e politici dominanti preferirono una risposta decisamente conservatrice. Un aumento dei margini di profitto fu cercato attraverso un ancor più intenso sfruttamento e mercificazione del lavoro e delle risorse naturali. E non c’è dubbio che tutto ciò ha favorito la piena affermazione del paradigma neoliberista fino a farne la cifra dominante della scena economica, sociale e politica nei paesi del capitalismo storico per più di un trentennio, estendendo la sua influenza in quelli di nuovo sviluppo, condizionando gravemente quelli più poveri e troneggiando nelle maggiori istituzioni economiche e politiche internazionali.
Il neoliberismo trionfante (sia quello aperto e proclamato dai governi conservatori, come il suo camuffamento nella cosiddetta "terza via") ha garantito il prevalere pressoché incontrastato della razionalità contingente, utilitaria e strumentale propria del capitalismo. Un capitalismo che negli ultimi 35 anni ha potuto muoversi senza freni e controlli proclamando la superiorità del mercato auto-regolato, la necessità di un deciso arretramento dello Stato rispetto ad esso, finendo col determinare una sostanziale rinuncia della politica a svolgere le sue essenziali funzioni di guida e di scelta in vista di obiettivi d’interesse generale.
A quella logica irresponsabile, proprio perché schiacciata sul contingente e guidata da interessi parziali, oggi è quanto mai urgente contrapporre una nuova razionalità e consapevolezza storica capace di progettare un futuro migliore del presente, costruito sulla base dei bisogni autentici e delle aspirazioni profonde della grande maggioranza delle popolazioni, nel Nord come nel Sud del mondo.
Un altro punto, a mio avviso, molto significativo dell’analisi stimola un’attenta riflessione sull’alienazione estrema ormai raggiunta nel rapporto dell’uomo con la natura. Stiamo assistendo ad una crisi sempre più generalizzata che, non solo sacrifica i bisogni elementari ad altri bisogni, artificiali e gratuiti, determinando una vera e propria mutilazione dell’uomo, ma addirittura insidia i beni naturali che dovrebbero soddisfarli. Si tratta di forme di rapina che colpiscono bisogni primari nel modo più irreparabile, attraverso la rarefazione dei beni più vitali per l’intera specie, come l’aria respirabile, l’acqua potabile, la vegetazione, il suolo coltivabile. S’impone, perciò, una radicale conversione - teorica e pratica insieme - capace di operare quella riconnessione dell’uomo alla natura che è richiesta dagli stessi sviluppi della scienza e che riguarda direttamente il nostro possibile futuro.

Per muovere in tale direzione, è necessario ricomporre il rapporto d’intima appartenenza dell’uomo alla natura, contro ogni astratta e alienante idea di estraneità e dominio dell’uno rispetto all’altra. Questo mi sembra il presupposto epistemologico per «tentare i sentieri di una possibile cooperazione tra i saperi, in grado di fondere scienze della natura e umanesimo quale base di un nuovo progetto di società» come auspica Piero Bevilacqua. Il proposito, quindi, di rendere possibile, su questa base, una rinascita e convergenza del pensiero critico aggregando energie in «una comunità cooperante di pensiero e ricerca» è, a mio avviso, necessario e possibile.

Per tradurre in pratica tale disegno, penso che occorra auto-organizzarsi in un’associazione informale e indipendente, aperta al continuo scambio di idee e contributo di studiosi di diversi ambiti scientifico-disciplinari, nonché di varia formazione. Lo strumento più idoneo potrebbe essere la creazione di un sito web dotato di un archivio in cui raccogliere materiale utile già prodotto e nel quale sia possibile inserire nuovi articoli, saggi, sintesi e segnalazioni di libri che si ritengano significativi per gli scopi indicati. Scopi che saranno inevitabilmente discussi, ridefiniti, arricchiti, com’è auspicabile che avvenga negli sviluppi di una battaglia delle idee viva ed aperta.

E’ probabile che si renda necessaria la costituzione di un gruppo di coordinamento composto da volenterosi che s’impegnino a tenere le fila dell’associazione. Penso ad un gruppo non numeroso e costituito sia da studiosi di maggiore esperienza che da ricercatori più giovani, in modo da valersi di attitudini e modi di operare in parte diversi e, al tempo stesso, felicemente complementari. Si tratta di un’impresa certamente impegnativa, ma irrinunciabile. Il neoliberismo si è dimostrato incapace dell’indispensabile e vitale opera di trasformazione che consente la riorganizzazione continua dei rapporti sociali e il rinnovamento della loro espressione politica. Senza di che, il sistema è avviato alla dispersione e al caos, ovvero alla fine entropica. Se esistono, come esistono, saperi ed energie capaci di contrastare questo disfacimento e di costruire nuove coordinate di senso per le scelte individuali e collettive, allora l’officina per l’egemonia è una buona occasione.

Il manifesto, 28 gennaio 2016

La mappa di studiosi italiani di varie discipline, che qui viene cartografata, nasce un po’ per gioco, un po’ per curiosità ricognitiva dell’arcipelago dei saperi dispersi del nostro paese.

Si tratta di una geografia tracciata alla buona, fondata su conoscenze personali, su rapide ricognizioni bibliografiche oltre che su qualche amichevole suggerimento. Dunque inevitabilmente lacunosa. Essa comprende per lo più docenti universitari di tutte le fasce, anche ricercatori precari, poche figure intellettuali autonome, alcuni docenti scolastici che possiedono un loro rilievo intellettuale e svolgono un ruolo importante di organizzatori culturali nel proprio territorio.

Un elenco, necessariamente incompleto (mancano artisti, editori, giornalisti, uomini di cinema e di teatro, personalità di spicco fuori dall’accademia) che vuole costituire solo l’occasione per l’avvio di una riflessione di carattere generale. Ci auguriamo che venga infoltito da chi non abbiamo incluso per ovvio riserbo o per dimenticanza.

Che cosa unisce queste figure tra loro così diverse per specifico peso intellettuale, per impegno militante e appartenenti a così diversi campi del sapere?

Un comune denominatore molto ampio, in grado di tenere insieme anche posizioni politiche distanti: la critica alla cultura neoliberistica, alle sue strategie e alle sue pratiche.

La messa in evidenza di tante intelligenze convergenti in un fronte culturale differenziato, ma comune, mostra una potenzialità egemonica resa inattiva dalla loro frantumazione. In assenza di un grande collettore politico generale, esse si disperdono individualmente nei singoli campi specialistici, senza riuscire a elaborare il progetto di controffensiva teorico-politica che la fase storica richiederebbe.

Appartiene ormai al senso comune il fallimento delle politiche neoliberistiche che hanno imperversato negli ultimi 30 anni. Ma vi appartiene ormai anche la constatazione della loro vitale persistenza pratica: benché la sostanza egemonica si sia dissolta, lasciando il posto al puro scheletro del dominio.

In verità, appare ormai evidente che il neoliberismo non è più tanto un corpo di dottrine, non sono soltanto i dettami di Ayeck o di Friedman, economisti defunti che dirigono ancora le menti dei loro colleghi viventi.

Il neoliberismo è la forma di razionalità assunta dal capitalismo nel nostro tempo, è il capitalismo all’opera. Ma il suo fallimento storico, oltre che in tutto ciò che appare evidente – la crisi economica, le disuguaglianze crescenti, l’instabilità dei sistemi politici, lo svuotamento della democrazia, le guerre come mezzo di regolazione dei rapporti internazionali, i gravi squilibri ambientali –andrebbe considerato anche in un aspetto poco osservato, eppure di grande significato.

Le società capitalistiche contemporanee, al cui interno è sorta una così straordinaria varietà di saperi, di conoscenze, di orizzonti intellettuali – come quelli che figurano nella nostra parzialissima mappa — sono sempre più dominate, com’è noto, da un pensiero unico.

Tanta ricchezza dell’umana ricerca e intelligenza finisce per confluire, trova il suo fine ultimo, come in un paradossale imbuto, nel basso orizzonte di una razionalità prossima a una forma di ossessione. Di fronte alla inedita varietà delle forme e delle direzioni di lettura e rappresentazione del mondo, che i vari gruppi intellettuali oggi sono in grado di offrire, la razionalità capitalistica riduce e immiserisce la complessità, tende a imbrigliare la realtà sociale nelle maglie di pochi imperativi di dominio: supremazia dei mercati, competizione, efficienza d’impresa, capacità di prestazione, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato. E ormai sappiamo che non si tratta di regolamentazioni esterne al libero fluire della società, che consentono poi la piena espressione delle libertà individuali. Questo lo immaginavano illusoriamente i soci di Monte Pelerin.

Al contrario, esse plasmano e innervano l’intero universo delle relazioni umane, forgiano le soggettività, entrano nelle coscienze e le piegano al loro dominio unidimensionale. E infatti appare evidente come gli individui “resi liberi” dalla razionalità capitalistica non solo annaspano in una società agonistica e desertificata, ma sono compulsivamente spinti nel tunnel di un unico scopo replicativo: produrre e consumare sempre di più.

Le necessità elementari dell' homo sapiens, quelle che sono state la base della sua sopravvivenza, produrre e consumare, per l’appunto, sono diventati gli obblighi ossessivi degli individui nelle società capitalistiche mature.

A partire da tale constatazione si dovrebbe comprendere quale rilievo politico di portata strategica viene ad assumere il dialogo tra le discipline e i saperi per ricomporre una razionalità generale contrapposta alla desertificazione nichilistica presente.

Dialogo reso drammaticamente urgente da una constatazione a cui non ci si può sottrarre. La maggiore minaccia globale che si erge davanti a noi, il riscaldamento climatico, è stata resa possibile anche dalla direzione che hanno preso le scienze contemporanee, impegnate, ciascuna nel proprio ambito, a indagare e manipolare la natura smembrata in campi separati (della chimica, della botanica, della fisica, della genetica, ecc) a fini di dominio economico. Nessuna di esse ha guardato alla natura come a un tutto connesso, un sistema di equilibri da pensare nella sua totalità. Non per nulla l’Onu ha istituito l’Ipcc, consesso mondiale di saperi multidisciplinari per lo studio del clima, a fini di previsione e di riparazione del danno compiuto.

Dunque, per venire ai possibili scopi operativi, costituirebbe un passo importante mettere insieme, anche solo con una organizzazione in rete, un’associazione i cui membri, pur da posizioni politiche differenti, si sentissero impegnati a dialogare sul piano teorico e culturale.

L’obiettivo da perseguire è una critica multidisciplinare della razionalità neoliberista, tentare i sentieri di una possibile cooperazione tra i saperi, in grado di fondere scienze della natura e umanesimo quale base di un nuovo progetto di società.

Una Lega Italiana Contro il Liberismo, anche nella sua forma virtuale, otterrebbe già il risultato di rendere visibile ciò che oggi è disperso, di attrarre e aggregare energie, rendere possibile una comunità cooperante di pensiero e di ricerca. Non è un surrogato del nuovo soggetto politico. E’ altra cosa.

Siamo convinti che la sconfitta delle sinistra in Occidente ha origini in un tracollo culturale e dunque di egemonia, nell’incapacità dei partiti operai e popolari di fornire soluzioni ai problemi del capitalismo nel secondo ‘900. Mentre i successi dello stato sociale hanno narcotizzato per decenni il pensiero critico e l’antagonismo delle élites intellettuali.

Non siamo peraltro così ingenuamente illuministi da credere che un simile esperimento possa esaurirsi in un ambito esclusivamente culturale. I mutamenti del pensiero, le sue creazioni, sono figli del conflitto. Marx non sarebbe stato Marx senza Hegel e Ricardo, ma soprattutto senza il 1848: l’anno delle rivolte operaie e popolari in tutta Europa. E tuttavia non sono certo i conflitti che mancano al nostro tempo, destinati a ingigantirsi e inasprirsi per effetto delle disuguaglianze crescenti.

Ciò che manca, in una società che tende a dissolvere nel mercato istituzioni e forze organizzate, a privare gli individui del collettivo sociale, a sbriciolare perfino le forze oppositive in frazionismi settari, è la capacità di aggregare, di creare presidi unitari, istituzioni sottratte alla razionalità che divide gli uomini e li domina.

Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline

Economisti

Nicola Acocella, Piergiovanni Alleva, Alberto Bagnai, Andrea Baranes, Leonardo Becchetti, Nicolò Bellanca, Fabrizio Barca, Giacomo Becattini, Giampiero Betti, Mauro Bonaiuti, Emanuele Brancaccio, Mauro Callegati, Guglielmo Carchedi, Roberto Cellini, Domenico Cersosimo, Roberto Ciccone ‚Pierluigi Ciocca, Valeria Cirillo, Vincenzo Comito, Marcello De Cecco, Amedeo Di Maio, Marta Fana, Lia Fubini, Andrea Fumagalli,Giorgio Gattei, Adriano Giannola, Sergio Cararo, Nadia Garbellini, Francesco Garibaldo, Enrico Grazzini, Maurizio Franzini, Wladimiro Giacché, Paolo Leon, Giorgio Lunghini, Riccardo Bellofiore, Riccardo Realfonzo„ Thomas Fazi, Mario Pianta, Ugo Marani, Loretta Napoleoni„ Antonella Stirati, Laura Pennacchi, Michele Raitano, Alessandro Roncaglia, Giorgio Ruffolo, Stefano Sylos Labini, Luciano Vasapollo, Daniela Venanzi, Giovanna Vertova Gianfranco Viesti, Carmen Vita, Stefano Zamagni, Alberto Zazzaro.

Filosofi

Ferdinando Abri, Giorgio Agamben, Daniele Balicco, Mauro Bertani, Remo Bodei, Roberto Bondi, Romeo Bufalo, Alberto Burgio, Rosa M. Calcaterra, Giuseppe Cantarano, Massimo Cappitti, Roberto Ciccarelli, Felice Cimatti, Elena Gagliasso, Cristina Corradi, Giuseppe Cacciatore, Fortunato Maria Cacciatore, Giuseppe Cantillo, Gregorio de Paola, Delfo Cecchi, Fabio Ciaramelli, Pio Colonnello, Francesco Coniglione, Girolamo Cotroneo, Lucio Cortella,Vincenzo Costa, Roberto Esposito, Paolo Godani, Paolo Flores D’Arcais, Diego Fusaro, Guido Liguori, Fabrizio Lomonico, Nicolao Merker, Stefano Petrucciani, Massimo Cacciari, Daniela Falcioni, Roberto Finelli, Pino Ferraris, Eugenia Lamedica, Sefio Landucci, Laura Marchetti, Gianfranco Marelli, Giacomo Marramao, Maurizio Matteucci, Marco Maurizi, Toni Negri, Nuccio Ordine, Domenico Losurdo, Ottavio Marzocca, Giuseppe Cognetti, Nario Pezzella, Pier Paolo Poggi, Giuseppe Prestipino, Fabio Raimondi, Massimo Recalcati, Nicola Siciliani de Cumis, Fulvio Tessitore, Massimiliano Tomba, Franco Toscani, Mario Tronti, Nadia Urbinati, Emilio Sergio, Francesco Trincia, Amando Vitale, Giovanbattista Vaccaro, Luigi Vavalà, Gianni Vattimo, Maurizio Viroli.

Giuristi

Francesco Adornato, Gaetano Azzariti, Dario Bevilacqua, Giuseppe , Valerio Calzolaio, Angelo Antonio Cervati, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Gianpaolo Fontana, Paolo Grossi, Luciano Guerzoni, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Paolo Maddalena, Massimo Morisi, Lorenza Carlassare, Luciano Patruno, Stefano Rodotà, Massimo Villone, Carlo Desideri, Elisa Olivito, Alessandro Pace, Francesco Pallante, Lorenza Paoloni, Livio Pepino Livio Pepino, Pietro Ugo Rescigno, Umberto Romagnoli, Roberto Scarpinato, Raffaele Teti, Giuseppe Vecchio, Gustavo Zagrebelsky, Danilo Zolo.

Sociologi, politologi, antropologi

Aris Accornero, Giuseppe Allegri, Gennaro Avallone, Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Amendola, Sergio Bologna, Paola Borgna, Matilde Callari Galli,Franco Cassano, Andrea Cerroni, Stafano Cristante, Ilvo Diamanti, Alessandra Dino , Carlo Donolo, Pietro Clemente, Carlo Galli, Alberto Giasanti, Rita di Leo„ Piero Ignazi, Paolo Jedlowsky, Emanuele Ferragina, Benedetto Meloni, Alfio Mastropaolo, Enrico Pugliese, , Alessandro Lupo, Franco Ferrarotti, Maria Immacolata Maciotti, Pierluca Marzo, Sandro Mezzadra, Fabio Mostaccio, Bernardino Palumbo, Luigi Pellizzari, Tonino Perna, Raffaele Rauty , Marco Revelli, Onofrio Romano, Angelo Salento, Chiara Saraceno , Rocco Sciarrone, Renate Siebert, Alberto Sobrero ‚Vito Teti, Maria Turchetto, Daniele Ungaro.

Architetti, Geografi, Urbanisti

Ilaria Agostini, Paolo Baldeschi, Mauro Baioni, Angela Barbanente, Paolo Berdini, Paola Bonora, Roberto Budini Gattai, Giovanni Caudo, Angelo Cirasino, Maria Cristina Gibelli, Vezio de Lucia, Giorgia Boca, Ilaria Bonirubini, Fabrizio Bottini, Sergio Brenna, Arnaldo Cecchini, Carlo Cellamare, Pierluigi Cervellati, Giancarlo Consonni, Flavia Cristaldi, Lidia De Candia, Giuseppe De Matteis, Anna Donati, Franco Farinelli, Rita Gisotti, Claudio Greppi, Maria Pia Guermandi, Domenico Gattuso, Francesco Indovina, Teresa Isenburg, Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Alberto Magnaghi, Lodo Meneghetti, Francesca Leder, Ezio Manzini, Barnardo Rossi Doria, Alessandro Bianchi, Anna Marson, Edoardo Milesi, Giancarlo Paba, Pancho Pardi, Adriano Paolella, Rita Paris, Marco Picone, Ezio Righi, Chiara Rizzica, Michelangelo Savino, Massimo Quaini. Maria Pia Robbe, Gianni Scudo, Maria Cecilia Scopetta, Maria Adele Teti, Daniele Vannetiello, Maria Rosa Vittadini, Alberto Ziparo.

Letterati (scrittori, storici della letteratura e della cultura)

Fulvio Abate, Alberto Abruzzese, Roberto Antonelli, Franco Arminio, Alberto Asor Rosa, Gian Luigi Beccaria, Pierluigi Bellocchio, Andrea Camilleri, Remo Cesarani, Leonardo Colombati, Giulio Ferroni, Sivia De Laude, Tullio De Mauro, Nicola Gardini, Goffredo Fofi, Giorgio Inglese, Nicola La Gioia, Romano Luperini, Maurizio Maggiani, Raffale Manica, Franco Marcoaldi, Claudia Micocci, Ugo Olivieri, Mario Porro , Valeria Parrella, Raffaele Perrelli, Elisabetta Mondello, Raul Mordenti, Giovanni Ragone, Omerita Ranalli, Vito Santoro, Raffaele Simone, Walter Siti , Monica Storini, Lucia Strappini, Enrico Terrinoni, Enrico Testa, Giorgio Todde, Emanuele Trevi, Sandro Veronesi, Pasquale Voza, Marina Zambron.

Scienziati (agronomi, biologi, fisici, giornalisti scientifici, ecc)

Giuseppe Barbera, Silvia Bencivelli, Carlo Bernardini,Gianluca Bocchi, Marcello Buiatti, Gianluca Brunori, Franco Dessì, Emanuela Guidoboni , Mario Ginapietro, Pietro Greco,Tommaso Lamantia, Matteo Lener, Ginevra Virginia Lombardi, Giuseppe Longo,Ugo Mazza, Claudio Melagoli, Luca Mercalli, Carlo Modenesi, Giorgio Nebbia, Piergiorgio Odifreddi, Giorgio Parisi, Telmo Pievani, Franco Piperno, Andrea Segrè, Claudia Sorlini, Stafano Bocchi, Gianni Tamino, Stefano Ruffo, Francesco Santopolo, Ivan Verga, Paolo Vineis.

Storici
Cristina Accornero, Franco Acqueci, Salvo Adorno, Aldo Agosti, Manfredi Alberti , Luigi Ambrosi, Giuseppe Aragno, Alberto M.Banti, Francesco Barbagallo, Francesco Barone, Cesare Bermani, Annunziata Berrino, Carmen Betti, Piero Bevilacqua, Giuliana Biagioli, Roberta Biasillo, Gian Mario Bravo, Luciano Canfora, Carlo Felice Casula, Franco Cazzola,Innocenzo Cervelli, Francesca Chiarotto, Livio Ciappetta, Salvatore Cingari, Marco Clementi, Michele Colucci, Danilo Corradi, Paola Corti, Ennio Corvaglia, Leandra D’Antone, Angelo D’Orsi, Marco di Maggio, Paolo Favilli, Fabio Fabbri, Paolo Frascani, Giuliano Garavini, Umberto Gentiloni, Paul Ginsborg, Chiara Giorgi, Carlo Ginzburg, Antonio Gibelli, Oscar Greco, Gabriella Gribaudi, Alexander Höbel, Valentina Iacoponi, Salvatore Lupo, Giovanni De Luna, Saverio Luzzi, Luciano Marrocu, Luigi Masella, Ignazio Masulli, Gino Masullo, Giancarlo Monina, Tomaso Montanari, Michele Nani, Leonardo Paggi, Guido Panico, Guido Panvini, Luisa Passerini, Rossano Pazzagli, Marta Petrusewicz, Franco Pitocco, Daniela Poli, Alessandro Portelli, Adriano Prosperi, Franco Rizzi, Saverio Russo, Biagio Salvemini, Daniela Saresella, Giuseppe Sergi, Simonetta Soldani, Gregorio Sorgonà, Salvatore Settis, Gabriele Turi, Roberto Valle, Donato Verrastro, Giuliano Volpe.

«A 150 anni dalla morte di Pierre-Joseph Proudhon, una riflessione sul significato di un termine che talvolta viene usato del tutto impropriamente» Si tratta della parola "umanità", densa oggi di significati rilevanti.

La Repubblica, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

Pochi ricordano il nome di Pierre-Joseph Proudhon, morto centocinquant’anni fa. Qualcuno ne incontra lo sguardo nei musei parigini che espongono i due ritratti del suo amico Gustave Courbet. Compaiono ancora nelle discussioni pubbliche alcune sue frasi taglienti – «la proprietà è un furto», «chi dice umanità vuole ingannarvi». Quest’ultima appartiene all’archivio delle denunce dell’uso strumentale e distorcente di grandi parole, come quelle attribuite a Madame Roland mentre veniva condotta alla ghigliottina («O libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome») o a Samuel Johnson («il patriottismo, ultimo rifugio di una canaglia»). L’invettiva di Proudhon ha trovato un rilancio e un’ambigua, rinnovata fortuna quando se ne è impadronito nel 1927 Carl Schmitt, che dell’idea di umanità ha parlato come di una «disonesta finzione», come di «uno strumento ideologico particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche».

Queste parole sferzanti colgono l’uso strumentale del termine, gli abusi linguistici e politici, tra i quali spicca ormai il riferimento alla “guerra umanitaria” per fondare interventi ispirati a pura logica di potenza. La riflessione di Schmitt è accompagnata dal rifiuto della “dottrina della fratellanza e dell’uguaglianza”, sì che la costruzione della “vera humanitas”, svincolata da questi riferimenti, deve rispondere a un «ideale di selezione razziale e matrimoniale», che si converte in un’esclusione dall’umanità di chi non corrisponde ad un determinato modello, con gli esiti violenti che abbiamo conosciuto. Sgombrato il campo dalla disonesta finzione, il dato reale è la consegna alla politica liberata da ogni vincolo di tutti gli esclusi, ormai degradati a oggetti.
Nelle parole di Proudhon si coglie piuttosto una messa in guardia, in quelle di Schmitt una ripulsa. Si avvia così una costruzione dell’umanità “per sottrazione”, con una continua operazione di “scarto” di coloro i quali non sono ritenuti degni di farne parte. Ma questa non è una vicenda che possiamo consegnare al passato, per tranquillizzarci. Viviamo in società che producono quelle che Zygmunt Bauman ha definito “vite di scarto”, selezionate con criteri attinti unicamente dal processo produttivo. Ecco allora un orizzonte ingombro di poveri e disoccupati, precari e immigrati, persone alle quali vengono negate eguaglianza e dignità, destituite di umanità.
Il realismo drammatico di questa constatazione, tuttavia, non ci consegna ad un pensiero che deve espellere da sé la consapevolezza dell’umanità. Al rifiuto dell’altro, al disgusto che può destare il suo modo di vivere, Martha Nussbaum contrappone “la politica dell’umanità”. Alla sottrazione di diritti, che la costruzione per sottrazione dell’umanità implica, si oppone la riflessione di Hannah Arendt, che ci ricorda come «il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa».
Ma come si definisce l’umanità? Chi parla in suo nome? Per rispondere, bisogna muovere da una premessa semplice, anche se impegnativa: può ritrovarsi umanità solo là dove eguaglianza, dignità e solidarietà trovano pieno riconoscimento. Troviamo un riferimento eloquente nelle parole dell’Internazionale: «L’Internazionale futura umanità», bella traduzione del testo originale, dove si dice «l’Internationale sera le genre humain». Perché sottolineare queste parole? Perché l’umanità è declinata al futuro, non è vista come la somma degli esseri viventi, come un semplice dato quantitativo, un insieme biologico, una realtà già esistente, di cui ci si può limitare a prendere atto. È qualcosa da costruire incessantemente attraverso l’azione comune e solidale di una molteplicità di soggetti, che producono non tanto un “valore aggiunto”, ma una realtà continuamente “aumentata”. È il processo al quale stiamo assistendo, quello di umanità che include e riconosce tutti gli altri, quasi capovolgendo la conclusione di Sartre, «l’inferno sono gli altri».
Ma, con la globalizzazione, questa umanità si fa tutta presente, e può essere percepita come invadente. Ogni accadimento, per quanto lontano, ci fa partecipi di quel che accade alle persone colpite da un terremoto, o da uno tsunami, in luoghi che fino a ieri erano remoti e che il sistema della comunicazione avvicina e rende visibili. Questo provoca moti di solidarietà: basta digitare un numero sul cellulare per far arrivare un contributo finanziario all’alluvionato asiatico o al bambino africano. Se, però, queste persone si materializzano ai nostri confini, possono diventare oggetto di rifiuto. È così per i migranti, per i poveri, visti come aggressori o incomodi. Così gli altri tornano ad essere segni d’un inferno al quale si vuole sfuggire.
Di colpo l’umanità si scompone e si immiserisce. Quella lontana suscita ancora sentimenti e azioni solidali, quella vicina turba. L’idea di “prossimo” si rattrappisce, sembra addirittura morire. Al suo posto troviamo spesso comunità chiuse. Ma questa constatazione, ci conferma che l’umanità è una costruzione ininterrotta, non un approdo consolatorio. Vi sono usi di “umanità” che la costruiscono come un riferimento capace di sottrarci a sopraffazioni. Quando si parla di patrimoni dell’umanità, si sfidano sovranità e proprietà, che vorrebbero sottoporre al potere e agli egoismi degli Stati e dei privati pezzi del mondo, e persino ciò che è fuori di esso come spazio e tempo.
Lo spazio extra-atmosferico non può essere sottoposto alla sovranità statale, come il fondo del mare o l’Antartide. I luoghi dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità vengono ritenuti meritevoli di una disciplina che li sottragga agli intenti speculativi nell’interesse anche delle generazioni future. E così cominciano ad individuarsi anche i soggetti che possono parlare in nome dell’umanità, con specifici diritti, obblighi e responsabilità. Compaiono gli Stati che, avendo firmato un trattato comune sullo spazio extra-atmosferico o sul fondo del mare, possono opporsi alle mire di chi vuole appropriarsene. E tutte le persone alle quali, per salvaguardare un sito o un ambiente o una eredità culturale, deve essere attribuito un diritto di azione popolare per impedire che interessi proprietari possano sottrarre all’umanità il godimento di quei beni.
Qui l’umanità comincia a parlare il linguaggio dei beni comuni. L’acqua e l’aria, l’ambiente globale e la conoscenza in Rete, mostrano connessioni che rinviano alla sopravvivenza stessa dell’umanità, all’esistenza di ogni suo componente, quindi alla necessità di sottrarre quei beni a forme di appropriazione che possono determinare la negazione di diritti fondamentali. Ma l’umanità si trova di fronte anche all’imperativo di sottrarre se stessa a trasformazioni che portano verso un ambiguo postumano o addirittura alla sua scomparsa, sopraffatta dall’intelligenza artificiale. È il tema della tecnoscienza ad occupare sempre più l’orizzonte, con le denunce di una persona espropriata di umanità, avviata a divenire una “nano- bio-info-neuro machine”.
Inoltrandosi in questo sconfinato territorio, la comprensione non è aiutata dal cedere agli opposti estremismi di un catastrofismo senza speranza e di un ottimismo senza misura. Le indispensabili analisi del mutamento, di cui non vanno ignorati i benefici, dovrebbero sempre essere accompagnate da un consapevole sguardo all’indietro, mantenendo saldamente al centro eguaglianza e dignità. L’eguaglianza nell’accesso ai vantaggi incessantemente offerti dalla tecnoscienza è condizione indispensabile perché non nasca una società “castale”. La dignità è limite invalicabile, perché proprio qui, reagendo alle aggressioni di ieri e alle negazioni di oggi, possiamo ritrovare il proprio dell’umano.

Già ad agosto, sulla pagina sportiva di

Repubblica, si poteva leggere: «Austerity? In serie A è già finita». E proseguiva...(continua la lettura)

Già ad agosto, sulla pagina sportiva di Repubblica, si poteva leggere: «Austerity? In serie A è già finita». E proseguiva, «Big mai così spendaccione». Dunque lo sport più popolare del mondo torna ai fasti dei grandi acquisti di campioni, dei colpi clamorosi a suon di milioni di euro.Torna? Come se quei fasti li avesse per qualche momento abbandonati. Il calcio – sport meraviglioso, ça va sans dire – oltre a far sognare, dar senso alla vita, istupidire da una settimana all'altra centinaia di milioni di persone, è uno straordinario veicolo ideologico. Della società dello spettacolo costituisce forse il mezzo più popolare e potente per fare accettare, come naturali, le disuguaglianze che lacerano la società del nostro tempo. Un ragazzo di 22 due anni è acquistato al prezzo di 40 milioni di euro? Guadagna in un solo giorno, da contratto, quanto un operaio non riuscirà mai a racimolare in una intera vita di fatica? Ma quel ragazzo è «una forza della natura», è «il terrore delle difese», «segna goal incredibili». Una giustificazione di merito, una gerarchia di valore, una speciale aristocrazia dello spirito vengono frettolosamente messi in piedi per giustificare l'accaparramento di immense fortune da parte di un singolo individuo.

Mai qualcosa di simile poteva accadere nelle società del passato. Solo nelle favole. Non a caso, per secoli, si sono sono raccontate storie di favolosi ritrovamenti, di Isole del tesoro, sparse per i mari del mondo. Oggi un talento fisico particolare, regalato a un individuo dal puro caso, calato dal cielo come la Grazia dei protestanti, può determinarne un incremento stellare della ricchezza personale nel giro di poco tempo. Naturalmente la giustificazione economica viene subito in soccorso a dar senso all'enormità. Il campione contribuisce ai grandi incassi della società, è giusto che una parte rilevante dei profitti vada a lui. E poi i prezzi dei calciatori li determina il libero mercato. Se una società decide di acquistare ad alto prezzo un campione lo fa secondo i propri calcoli di impresa. Avrà il suo tornaconto. Dov'è lo scandalo? Nessuna meraviglia, occorre d'altronde che appaia vantaggiosa la compravendita di uomini, che è l'essenza nascosta della società capitalistica.
Tale razionalità mercantile ha tuttavia lo scopo di fare accettare ai tifosi, in un ambito un tempo ispirato a regole puramente agonistiche, quelle che dominano la società intera. Se c'è sul mercato un valente campione, occorre comprarlo, come si compra un vitello in fiera, magari nel corso dello stesso campionato, non importa se l'anno precedente, quello stesso campione ci ha inflitto uno sconfitta umiliante.I colori e le bandiere, l'identità storica della squadra? E che c'entra? Quel che è importante è vincere. E i campioni, gli individui eroi, i leader sono importanti per vincere, esattamente come accade per i partiti politici. Non importa con quale programma e per far cosa: la vittoria elettorale è il fine che assorbe interamente il loro agire politico .
Quel che conta, nel calcio come in politica, è il primo posto, la coppa, i soldi, il potere. Ma alla fine del percorso si vede bene in quale bolla di valori neoliberistici galleggia il mondo artefatto di questo sport. Si esalta sempre di più il merito del singolo, a cui si assegnano virtù salvifiche, mentre si deprime l'idea di una squadra come collettivo cooperante e proprio per questo esteticamente e moralmente da ammirare. E se la vittoria è l'unico fine e il mezzo sono i singoli campioni, quel che decide tutto alla fine è il mercato, l'acquisto dei singoli. Dunque il “merito” della squadra si riduce al potere d'acquisto, ai capitali investiti, ai soldi. Il merito che vale nel campionato è in realtà funzione del potere finanziario delle singole società, è deciso da una solida gerarchia economica.
Gratta, gratta, sotto lo smalto lucente del valore trovi sempre l' opaco luccicore del denaro. Ma le partite, il campionato, il calcio mercato, grazie alla TV, costituiscono forse la più sfolgorante costellazione della società dello spettacolo. Essi formano il cielo stellato dei divi, supereroi che possono godere di ingaggi milionari, che vivono al di sopra della mischia indistinta dei mortali, ammirati da folle adoranti che ne urlano il nome. I loro stipendi, introiti pubblicitari, premi-partita, ecc. l'intero sopramondo di privilegi in cui vivono immersi appare naturale, accettato come si accetta la supremazia della divinità.
Nulla meglio del calcio mostra oggi come il divismo sia diventato la spettacolarizzazione delle disuguaglianze ad uso del popolo. E' diventato un elemento della cultura popolare. Di che stupirsi se ai grandi a manager di azienda vengono elargiti stipendi centinaia, talora migliaia di volte più elevati del salario degli operai ? Sono i capi, i comandanti, i grandi dirigenti che fanno la fortuna dell'impresa. Lì è il merito. E gli operai, quelli che con la propria quotidiana fatica trasformano le materie prime in beni vendibili, che generano la ricchezza generale, realizzano servizi essenziali al funzionamento della macchina sociale? Quanti talenti sconosciuti, quante donne e uomini portatori di merito – di eccellenza, come dicono i cantori del conformismo corrente - operano all'oscuro, nella massa indistinta delle maestranza di fabbriche ed uffici? Ma costoro svolgono un'opera anonima e collettiva, sempre uguale e ripetitiva, non sono individui, autori di scelte e gesti, di azioni quotidiane sempre nuove, che possono essere vendute sui media, e perciò non possono entrare a far parte della società dello spettacolo.

Senza dire che il merito è, per definizione, di pochi, sia perché non si può premiare tutti, col rischio di cadere nell'egalitarismo, sia perché occorre creare degli idoli, piccoli o grandi che siano, cui la massa deve aspirare per poter sopportare meglio il proprio anonimato, la propria mediocrità quotidiana. Il calcio, infatti, costituisce un universo divistico paradigmatico, ma non è certo il solo.

I media hanno trasferito un fenomeno che in origine, nel XX secolo, era nato con il cinema, all'intera società. Provate, entrando in una qualunque edicola, a guardarvi intorno mentre comprate i vostri giornali. E' come trovarsi in un santuario di paese costellato di immagini votive, il luogo di culto di arcaiche superstizioni. Dalle copertine dei rotocalchi, dei magazine, dei quotidiani, dei libri, dei video, ecc,centinaia di volti e di corpi vi sorridono e vi guardano desiderosi di essere comprati. E' cosi anche all'interno dei quotidiani, che cercano di competere con la TV e vi offrono foto giganti di manager e finanzieri, scrittori, attori, uomini politici, capi di stato.

I nuovi dei del nostro tempo sono tutti lì, come del resto nei palinsesti televisivi, divinità di un politeismo merceologico, necessari a incrementare l'industria editoriale, ma anche a diffondere un messaggio fondamentale: la società, con i suoi obblighi e costrizioni, esiste solo per i sommersi, coloro il cui destino è segnato dall'anonima ripetizione del lavoro e della precarietà. Gli altri sono gli individui. Per gli altri c'è il protagonismo della vita. O almeno è questo che deve apparire, perché il fine ideologico fondamentale del divismo è persuadere che la disuguaglianza è naturale, è frutto del merito di chi ci sa fare. Vuol far vincere l'idea che ci si salva e ci si rende visibili, non tutti insieme, con la lotta politica, ma soltanto da soli, ognuno per sé.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

Uno strumento di autodifesa per chi vuole mantenere intatta la propria capacità di pensare, apprendere, valutate e quindi agire in modo sensato. Particolarmente utile in un'epoca in cui la manipolazione delle menti è diventa un sofisticato strumento di potere.

La Repubblica, 2 febbraio 2015

Liberi di criticare. Sono quasi dieci anni che all’università di Grenoble viene insegnata l’arte del dubbio. L’ateneo ha un corso di “Zetetica e Autodifesa intellettuale” frequentato da centinaia di studenti ma anche semplici curiosi, affascinati da una materia nuova e unica in Francia. La cattedra è guidata da Richard Monvoisin insieme ad altri insegnanti del Cortecs, Collectif de recherche transdisciplinaire esprit critique et sciences.

Com’è nata l’idea di un corso specifico?
«La zetetica, inventata da una scuola greca di scettici radicali nel IV secolo a. C., è stata riscoperta nel Novecento come investigazione scientifica su fenomeni paranormali da un americano di origini italiane, Marcello Truzzi, e poi dal francese Henri Broch. Dopo essermi laureato in didattica e scienze fisiche, ho fatto il mio dottorato con Broch. Mi sono accorto che la zetetica poteva essere una disciplina trasversale».

Su cosa si fonda questa disciplina?
«Partiamo sempre dall’analisi delle fonti, dalla ricerca su informazioni non verificate, dalla demistificazione di cifre o frasi vuote. Nel nostro collettivo ci sono specialisti di ogni disciplina, dall’informatica alla biologia, dalla medicina, all’economia, alle scienze politiche. Ormai ci sono corsi di zetetica anche a Marsiglia, Montpellier. Lavoriamo su temi diversi come il creazionismo o i gender studies, Internet aperto e la xenofobia in politica. L’obiettivo di Cortecs è mettere in rete contributi diversi, invitando altri esperti a dialogare con noi, in un processo evolutivo di conoscenza».

Perché nel titolo del corso si parla di “autodifesa intellettuale”?

«E’ una metodologia che combatte la manipolazione delle opinioni o l’emergenza di nuove forme di consenso. Come diceva Noam Chomsky, il pericolo è tanto più grande per chi studia e fa professioni intellettuali. Nel mondo accademico anglosassone c’è già chi insegna il critical thinking ».

È più facile oggi manipolare le opinioni?
«Sono nato nel 1976 e ho vissuto l’avvento di Internet come una benedizione. Ero convinto che le generazioni dopo di me avrebbero avuto accesso a ogni tipo di informazione. Oggi invece i giovani rischiano di annegare nella vastità della Rete oppure di accontentarsi di una rappresentazione parziale. Dietro una schermata di Google ci sono interessi economici che molti purtroppo ignorano. La pluralità delle fonti è uno dei punti di partenza. Se voglio farmi un’opinione su Vladimir Putin, ad esempio, cercherò di leggere testi francesi, russi e ucraini. Inoltre, la rapidità nella diffusione delle informazioni rende ancora più facile errori di analisi. Suggerisco ai miei alunni di aspettare almeno qualche settimana prima di prendere posizione su un evento. Insieme al dubbio, bisogna praticare un ritmo lento del pensiero».

La zetetica è una forma di scetticismo?
«Lo scetticismo è un atteggiamento filosofico che si può riassumere con la frase di Bertrand Russell: “Dammi una buona ragione di pensare quello che pensi”. La zetetica è la metodologia pratica dello scetticismo. Il nostro scopo è aiutare la libertà di pensiero dei cittadini».

Eppure i dubbi dilagano sul web, alimentando le teorie del complotto. Vi occupate anche di questo?
«Intanto non le chiamiamo teorie, ma scenari, miti moderni, perché non sono confutabili e dunque non rispettano il criterio di falsificabilità di Karl Popper. Quando ci troviamo di fronte a scenari complottisti, come quello sull’11 Settembre, non facciamo altro che usare nozioni di epistemologia, applicando il criterio di massima parsimonia o il cosiddetto “Rasoio di Occam” che prediligono spiegazioni dimostrabili e semplici. L’esercizio funziona quasi sempre».

Avete già affrontato il tema dell’informazione sugli attentati di Parigi?
«Cominceremo un nuovo ciclo questa settimana dal titolo “Censura e libertà di espressione”. Noi pensiamo che sia meglio pubblicare il libro di Eric Zemmour (popolare saggista francese contro l’immigrazione, n.d.r.) oppure autorizzare gli spettacoli di Dieudonné. Piuttosto che impedire a qualcuno di esprimersi, trasformandolo in una presunta vittima, è meglio diffondere strumenti critici e di analisi. La zetetica dovrebbe essere insegnata già nelle scuole ai bambini. Piuttosto che la censura, è meglio scommettere sull’intelligenza collettiva».

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