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Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2017 (p.d.)



Professore, l’anno che si è appena chiuso ha visto gli effetti del Jobs act. Bilancio?
Pessimo, ma facciamo una premessa: la questione del lavoro è centrale non solo perché rappresenta il cuore della crisi attuale, ma perché è il principale indicatore della mutazione genetica che ha subito la sinistra. O, se si vuole, dell’estinzione della sinistra novecentesca. E questo è evidente analizzando le politiche del lavoro dei governi di centrosinistra degli ultimi 15 anni. Per non parlare di un ministro del Lavoro come Poletti che non potrebbe figurare dignitosamente nemmeno in un governo di destra, vista la riforma che ha fatto e le sue vergognose affermazioni sui giovani: un’intera generazione è stata cancellata dall’orizzonte sociale e viene pure disprezzata. Una catastrofe antropologica è avvenuta a sinistra.

Si parla molto dei voucher.
Il tormentone ora è che non bisogna criminalizzarli. Ma i buoni lavoro sono la certificazione per legge della precarietà come stato permanente del lavoratore. Assistiamo al rovesciamento di quell’orizzonte che un tempo si chiamava riformista, cioè teso a migliorare le condizioni del lavoro. Il fatto che si possano comperare le braccia in tabaccheria per pochi euro come fossero un oggetto di consumo minimo la dice lunga. Poi ci sono settori e professioni in cui un certo grado di frammentarietà è strutturale, ma i buoni sono entrati nell’intero sistema-lavoro.

La sinistra ha smesso di occuparsi del lavoro?
Peggio: i mini-job in Germania li hanno introdotti i socialdemocratici, non la Cdu. Quando Berlusconi provò ad abolire l’articolo 18 si è trovato 3 milioni di lavoratori al Circo Massimo: ma ci è riuscito Renzi. La sinistra tardo-novecentesca, che non ha capito nulla delle mutazioni in corso e della globalizzazione, si è accomodata all’interno delle categorie neoliberiste come se fossero una condizione di natura. Non criticabile: anzi, ogni critica era segno di arretratezza. Ma questo è il prodotto di un’assoluta ignoranza di quali siano caratteristiche e contraddizioni della modernità. Ciò che continuiamo a chiamare sinistra è in realtà una destra tecnocratica venata di populismo. Parola che detesto ma che la caratterizza: la demagogia renziana è populista, ed è la peggiore perché è populismo di governo. L’ottusità e la prepotenza che circolano tra i nostri governanti si riassumono benissimo nella proposta del professor Pitruzzella sull’Agenzia di controllo del web. Tanto più che il primo da bandire sarebbe l’ex premier: fino a qualche mese fa invitava a investire nella “solida”Mps.

Lo smantellamento delle tutele, conquistate tra gli anni 60 e 70, è la cifra degli ultimi anni. È pensabile fare dei passi indietro, ora? E può bastare?
Il primo passaggio di una politica del lavoro che volesse essere coerente con le idee della sinistra sarebbe certamente la cancellazione di quanto fatto negli ultimi 4 anni. Lo Statuto dei lavoratori ha rappresentato l’ingresso nelle fabbriche della Costituzione: non sono riusciti a smantellare la Carta con la riforma Boschi, ma l’hanno cacciata dai luoghi di lavoro, e spero davvero che si possa votare presto sui referendum proposti dalla Cgil per ripristinare quei diritti. A proposito di Costituzione: bisognerebbe sì procedere a una revisione, di un solo articolo, l’81. Nel 2012 è stato introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio senza un minuto di dibattito. Questo è l’ostacolo a qualsiasi politica di tutela e garanzia del lavoro e di altri diritti, come la salute.

E poi?
Lo dico col cuore sanguinante – è un tema strappato alla sinistra dalla destra, perché fa parte del programma di Trump – ma sono favorevole alla tassazione delle imprese che delocalizzano la produzione e all’imposizione di dazi sui prodotti di imprese nazionali che vanno a produrre all’estero e vengono a vendere in Italia.

Difficile pensare ai dazi in un mondo senza frontiere... Senza dire che una delle principali industrie del Paese ha trasferito la sede fiscale a Londra e legale in Olanda salutata con applausi e abbracci dall'ex premier.
La Fiat produce in giro per il mondo e vende in Italia senza pagare il minimo pegno: tutto ciò la dice lunga sulla nostra classe dirigente.

Peraltro: Marchionne a chi pensa di vendere la Panda?
Le poche auto che produce a Torino sono le Maserati, pensate per la sottilissima fascia di mercato dei ricchissimi.

Il Bloomberg Billionaires Index ha tracciato il patrimonio dei paperoni del mondo: continua ad allargarsi la forbice tra i pochi che hanno moltissimo e i moltissimi che hanno poco o niente.
La crescita delle disuguaglianze è un enorme danno all’economia e nello stesso tempo è un prodotto strutturale della forma che l’economia ha assunto negli ultimi anni. Una terribile contraddizione che spiega, tra l’altro, la rabbia e la disperazione che serpeggiano nelle società occidentali. Noi siamo un Paese che non cresce, in cui però la ricchezza del 10% più abbiente continua ad aumentare: il meccanismo di redistribuzione funziona alla rovescia. Anche nei Paesi che crescono, il reddito della working class è rimasto al palo. Il risultato sono i lavoratori poveri, cioè coloro che col loro impiego non riescono a vivere dignitosamente, cosa che oltretutto danneggia i consumi. È la forma del terzo capitalismo: si è rotto il compromesso tra capitale e lavoro, il capitale ha acquistato un’enorme capacità di movimento e il lavoro si è paurosamente impoverito.

Il governo ha annunciato “un piano per la povertà”. I sussidi sono una risposta?
Leggo che lo stanziamento dovrebbe essere un miliardo: è insufficiente per qualsiasi cosa. Se si volesse affrontare anche solo il tema della povertà assoluta – cioè di coloro che non possono mangiare, vestirsi, curarsi e così via – bisogna pensare a un reddito di cittadinanza che arrivi a 2 milioni di famiglie. Ma poi questa non è una politica del lavoro! C’è il problema dei redditi da lavoro e della loro assoluta insufficienza: se non si risponde a questo, non si ritorna nel novero dei Paesi civili. Altro passo sarebbe la ristrutturazione del debito: senza non si esce da questa situazione. Continueremo a buttare il nostro surplus per pagare interessi a banche e istituzioni finanziarie.
Questo ci porta all’euro.
Così com’è non sta in piedi. L’euro, con livelli di produttività così differenziati, funziona come una macchina che scarica sul fondo della piramide i costi e che costringe, per competere, a comprimere il costo del lavoro ben al di sotto dei limiti fisiologici. Se non si affronta la questione monetaria – con un durissimo scontro nell’Europa (e non fuori di essa) – non si affronta nemmeno la questione del lavoro.

«La Repubblica, "Economia e finanza"29 dicembre 2016

Il datore di lavoro può licenziare un dipendente non solo in caso di difficoltà economiche e in situazioni di ristrutturazioni aziendali dettate da una congiuntura negativa, ma anche per "una migliore efficienza gestionale" e per determinare "un incremento della redditività". In altre parole: per cercare di aumentare i profitti.

La Corte di Cassazione, con una sentenza depositata il 7 dicembre scorso (segnalata dal quotidiano ItaliaOggi), scrive una nuova pagina nel campo del diritto del lavoro. Destinata a fare giurisprudenza e quindi a essere presa come riferimento anche dai tribunali di primo e secondo grado, chiamati a decidere sulle controversie tra imprenditori e dipendenti.

La Cassazione è intervenuta sul caso di un dipendente messo alla porta dall'azienda dove lavorava, dopo due sentenze tra di loro in contrasto. Il giudice di primo grado aveva stabilito che il licenziamento era legittimo in quanto "effettivamente motivato dall'esigenza tecnica di rendere più snella la catena di comando e quindi la gestione aziendale". Giudizio ribaltato in appello , dove il giudice ha ritenuto illegittimo il provvedimento in quanto non era stato motivato dalla necessità economica e dalla presenza di eventi sfavorevoli, ma essendo stato "motivato soltanto dalla riduzione dei costi e quindi dal mero incremento del profitto".

Appellandosi anche all'articolo 41 della Costituzione che prevede la libera iniziativa economica dei privati, citando le direttive comunitarie sul tema, ma anche riferendosi a decisioni del passato, la Cassazione ha ritenuto che non sia necessario essere in presenza necessariamente di una crisi aziendale, una calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento. Il provvedimento può essere così giustificato anche per migliorare l'efficienza di impresa o per la soppressione di una posizione o anche per adeguarsi alle nuove tecnologie. In poche parole, se l'attività dei privata è libera, deve esserlo anche la possibilità di organizzarla al meglio. Rimane, ovviamente, potestà del giudice verificare l'effettiva ragione presentata dall'azienda per giustificare il licenziamento per riorganizzazione e il nesso di casualità tra i due eventi (così come lo è in caso di licenziamento per motivi economici).

Il passaggio destinato a fare giurisprudenza - nonché a far discutere - è il seguente: "Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo - si legge nel dispositivo - l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto.

«L’idea delle guida è che ogni impresa può svolgere al meglio la propria specifica attività se vive la dimensione sociale e politica in cui è inserita, a contatto con i problemi socio-economici in cui si trova ad operare e ben radicata nel territorio».

Comune-info online, 28 dicembre 2016 (c.m.c.)

Fare rete, mettersi in rete, condividere… Un mantra per tutti i tipi d’impresa. La missione stessa dell’economia solidale. Lo ha scritto bene tanti anni fa Euclides Mance, pioniere brasiliano dell’economia di liberazione, in La rivoluzione delle reti. L’economia solidale per un’altra globalizzazione (Emi 2003). Ma mettere in pratica questo precetto non è facile. Ci sta provando la Mag Verona, madre di tutte le sette Mutue società per l’autogestione sorte in Italia dalla fine degli anni Settanta.

Il progetto si chiama Le reti interne… lavorare e pensare in relazione. Un po’ alla volta, nel corso degli ultimi anni, tra le imprese che hanno usufruito dei servizi e delle consulenze giuridiche e commerciali della Mag sono nate aggregazioni di soggetti imprenditoriali, di professionisti, di cooperatori, di artigiani che periodicamente si riuniscono per scambiare esperienze e socializzare saperi. Generosamente, peer to peer, con buone dinamiche di gruppo. Le riunioni sono aperte. Si sono formate così spontaneamente cinque reti tematiche: la Rete delle cooperative e delle imprese sociali di cura ed educative, Startupperisti e startupperiste di nuova generazione in rete, Gruppo delle nuove vite contadine, Comitato delle realtà artistiche (Crea) e il portate web Rete del Buon Vivere.

Solo la Crea è una associazione formalizzata in senso giuridico. Tutte le altre si muovono in una dimensione di informalità, flessibilità, autorganizzazione consensuale. In tutto, sono coinvolte, variamente, dalle centocinquanta alle duecentocinquanta persone. L’idea delle guida è che ogni impresa può svolgere al meglio la propria specifica attività se vive la dimensione sociale e politica in cui è inserita, a contatto con i problemi socio-economici in cui si trova ad operare e ben radicata nel territorio.

La Mag Verona non fa solo servizi di microcredito (sempre più messi in difficoltà dalle nuove normative bancarie), è impegnata nella reinvenzione (pratica e teorica) dell’agire economico, sulle macerie lasciate dal capitalismo industrialista, produttivista, speculativo. Ma è anche impegnata a riflettere su come le comunità possono riuscire a resistere alla dissoluzione (dismissione e burocratizzazione) dei servizi pubblici tradizionali assistenziali.

Una ricerca in corso su possibili modelli alternativi di de-istituzionalizzazione delle attività nella direzione del welfare di comunità e rigenerativo. Le reti che si occupano di imprenditorialità in agricoltura e degli “startupperisti” sono frequentate prevalentemente da giovani alla ricerca di business coerenti con le proprie motivazioni e il desiderio di un lavoro vero, pieno, utile e soddisfacente.

A Mag Verona lavorano quindici persone. Incontriamo quasi solo donne. Loredana, Gemma, Stefania. La filosofia e lo stile Mag è quello ben riassunto nel motto: “insieme possiamo”.

Il manifesto, 20 dicembre 2016 (p.d.)

L’Osservatorio sul precariato dell’Inps conferma il boom dei voucher: tra gennaio e ottobre 2016 sono stati venduti 121,5 milioni «buoni lavoro», valore nominale di 10 euro, destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio. Rispetto ai primi dieci mesi del 2015, quando il nuovo precariato aveva già battuto il record del 2014 (+67,6%), si tratta di un incremento del 32,3%.

La norma sulla tracciabilità dei voucher, da poco attivata, non sembra fermare il boom del lavoro a scontrino che integra e a volte sostituisce il lavoro propriamente detto. Il ministro del lavoro Poletti ieri ha detto di aspettare i risultati a partire «dal prossimo mese. Se i dati ci diranno che anche questo strumento non è sufficiente a riposizionare correttamente i voucher la cosa che faremo è rimetterci le mani».

Il pressing della sinistra Pd sul governo Gentiloni continua, mentre incombe la decisione della Consulta sui referendum della Cgil su voucher, articolo 18 e appalti. «Dietro questi voucher dilaga una forma di precarietà indifendibile che colpisce i più deboli – sostiene Roberto Speranza che si è candidato alla segreteria del Pd – In Parlamento c’è già una buona proposta. Non si può più aspettare». «Occorre tornare allo spirito e alla lettera della legge Biagi – sostiene Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro del Senato – Sull’articolo 18, infine, la situazione è più complessa: sarebbe prioritario concentrarsi sui temi dei licenziamenti disciplinari, di quelli collettivi e del mantenimento dell’articolo 18 nel caso di cambio di appalto».

«Sui voucher questo strumento non ci possono essere interventi correttivi o migliorativi: l’unica soluzione è l’abolizione che dovrebbe fare il Parlamento. In caso contrario si vada al referendum» sostiene Arturo Scotto (Sinistra Italiana). «Poletti dice anche che il jobs act fa bene al Paese e non vede motivi per i quali si debba modificare. Per fortuna li vedono gli italiani e li vedranno anche nelle urne» aggiunge Pippo Civati (Possibile).

Il monitoraggio dell'Inps permette di analizzare altri aspetti decisivi del Jobs Act che il neo-presidente del consiglio Gentiloni «non ha nessunissima intenzione di cambiare sull’articolo 18». Continuano a calare le assunzioni a tempo indeterminato senza articolo 18, il settore sul quale sono stati investiti almeno 11 miliardi di euro in sgravi contributivi triennali alle imprese. Dopo il taglio degli incentivi (da 8.040 a 3.250 euro per neo-assunto) questa tipologia di contratti ha registrato una diminuzione di 492 mila unità, pari a –32% rispetto ai primi dieci mesi del 2015.

Nel 2016 le assunzioni con esonero contributivo biennale sono state 323 mila, le trasformazioni dei rapporti a termine che beneficiano del medesimo incentivo ammontano a 117 mila, per un totale di 440 mila rapporti di lavoro agevolati, il 33,9% delle assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato. Rispetto al 2015, la differenza è enorme: il rapporto era pari al 60,8%. Gli incentivi continueranno fino al 2018. Le imprese del Sud li incasseranno a pieno titolo anche nel 2017.

Crescono i licenziamenti tra chi ha un contratto a tempo indeterminato, in particolare quelli per giustificato motivo oggettivo e quelli per giusta causa: i primi sono passati dai 380.292 dei primi dieci mesi del 2015 ai 399.613 del 2016; i secondi da 47.728 dello scorso anno ai 60.817 di quest’anno. I licenziamenti complessivi sul tempo indeterminato (507 mila) sono in aumento rispetto al 2015 (490 mila) e diminuiscono rispetto a due anni fa (514 mila). L’obbligo alle dimissioni on line abbia inciso su questo andamento.

Aumenta il precariato che resta la forma dominante del mercato del lavoro. Lo si vede dai numeri assoluti. Il totale delle assunzioni a tempo indeterminato, a termine, apprendistato o stagionali avvenute nel settore privato sono state 4 milioni e 833 mila nei primi dieci mesi del 2016. I contratti a tempo determinato sono 3 milioni e 106 mila, in aumento sia sul 2015 (+4,9%), sia sul 2014 (+7,6%). Le assunzioni con un contratto in apprendistato sono aumentate di 38 mila unità (+24,5%).

La ricetta del jobs act è un assistenzialismo statale alle imprese in un’economia senza domanda. Questa è l’eredità che il renzismo ha lasciato al governo senza Renzi: crescita dilagante del precariato dentro e fuori il perimetro del lavoro subordinato e un trasferimento di ingenti risorse pubbliche alle imprese.

Il 75% dei nuovi rapporti di lavoro sono precari. Questo è il calcolo della Fondazione di Vittorio (Cgil), confermato anche dal nuovo report dell’Inps. «Il Jobs Act è una ricetta amara e sbagliata – sostiene Tania Sacchetti (Cgil) – non produce occupazione di qualità, dispensa meno diritto, tutele nel lavoro e lascia piena discrezionalità alle imprese».

«Perché senza riformare le relazioni commerciali tra grande distribuzione e trasformatori non sarà possibile eliminare lo sfruttamento nei campi. Che non è solo quello dei braccianti, e riguarda anche l’ambiente». Altreconomia online, 18 novembre 2016 (c.m.c.)

Intervista al portavoce, Fabio Ciconte. Spolpati è il terzo rapporto della campagna #filierasporca, che dopo aver analizzato negli anni precedenti la mancanza di trasparenza della grande distribuzione organizzata e il mercato dell’arancia, nel 2016 si è dedicata all’industria del pomodoro.

Per quattro mesi Fabio Ciconte, direttore di Terra! onlus e portavoce della campagna, e il giornalista Stefano Liberti, si sono dedicati a un’indagine sul campo, intervistando gli attori della filiera, anche i “caporali” e i trasformatori: grazie a queste testimonianze restituiscono una lettura mai banale delle strozzature e delle inefficienze che hanno reso quasi “naturale” lo sfruttamento, in un mercato che vale 3 miliardi di euro.

Senza sminuire la condizione dei braccianti, e plaudendo la nuova legge sul caporalato, si ricorda che ormai l’85% della raccolta è meccanizzata. «Piace, specie a voi giornalisti, raccontare le storie sempre in maniera sensazionalistica, emergenziale: queste permette di nascondere all’opinione pubblica le principale cause di questo fenomeno che riguarda la manodopera, ad esempio quello, drammatico, delle aste on line» spiega Ciconte, secondo cui anche l’eccessiva meccanizzazione comporta però problemi «di natura ambientale, relativi all’esigenza di aumentare continuamente la resa per ettaro, anche in assenza di manodopera».

Che cos’è un’asta on line? È quel momento, generalmente a primavera, in cui i gruppi della grande distribuzione organizzata (GDO) pubblicano su portali con accesso riservato le proprie richieste di prodotto per l’autunno successivo. Riflettiamo, dice Ciconte: «Il prodotto verrà raccolto a partire dal mese di agosto, e a quel punto viene trasformato. Mesi prima, senza aver cognizione di quel che sarà l’annata agricola, l’industriale ha raggiunto un accordo con la GDO, sulla base di due successive aste, la seconda delle quali, decisiva, fatta con offerte al ribasso. Questo processo si fa a maggio, quando le fabbriche sono chiuse e il pomodoro non è ancora stato comprato. Da quell’offerta dipenderà il prezzo d’acquisto proposto agli agricoltori, che sono costretti ad accettare».

Quasi tutte le catene della grande distribuzione non hanno accettato di rispondere alla domande di #filierasporca, che è un campagna di Terra! onlus e DaSud. «L’unica che lo ha fatto è Coop, che ha confermato di partecipare alle aste on line: lo fanno tutti. Il 17 novembre, con la conferenza stampa alla Camera dei deputati, lanciamo una mini campagna per chiedere l’abolizione delle aste on line, ed è una richiesta che avanziamo al governo, chiedendo un impegno agli attori della GDO» aggiunge Ciconte.

Alcuni marchi, «come Esselunga in occasione del secondo rapporto -spiega il portavoce di #filieraspoarca-, hanno risposto che loro non sono interessati ad interloquire per politiche aziendali; altri lo fanno, ma non danno informazioni e si nascondono dietro ragioni di business, concorrenza, privacy: la realtà è che anche i trasformatori sono soggetti deboli, molti dei quali ormai producono solo il private label della GDO. Esistono, infatti, pochissimi marchi ‘riconosciuti’: il leader del settore è Mutti, che di fatto non partecipa alle aste on line, perché ha un potere d’acquisto forte. Gli altri, tutti piccoli o disorganizzati, si trovano dentro questa morsa. E a loro volta mettono dentro questa morsa i loro fornitori».

Spolpati sottolinea il ruolo ambiguo di un altro attore fondamentale della filiera, ovvero le O.P., organizzazioni di produttori (riconosciute e con tanto di albo sul sito del ministero delle Politiche agricole): «Nascono per aggregare l’offerta, su impulso dell’Unione europea. Le ritengo un soggetto importante: è utile che esiste un’aggregazione tra ‘piccoli’ che faccia da contraltare all’industria e alla GDO, e nel distretto Nord del ‘pomodoro industriale’, a Parma, Piacenza e Ferrara, le OP funzionano: si sottoscrive un contratto, fissando il prezzo d’acquisto, e questo viene rispettato; nel Sud, molte delle O.P. sono in realtà organizzazioni di carta che esistono per prendere i fondi europei destinati al settore, senza farsi carico di alcune responsabilità, senza assumere in alcun modo il rischio d’impresa, firmando i contratti di vendita all’industria per nome e per conto del produttore».

Nel Sud Italia, dove 30mila ettari sono coltivati a pomodoro ed esistono 84 impianti di trasformazione, le O.P. sono 39, contro le 14 del Nord Italia (che ha 26 impianti di trasformazione e una superficie dedicata al pomodoro di 40mila ettari). «L’estrema frammentazione e la loro frequente disconnessione dal mondo agricolo rendono uno dei principali ostacoli allo sviluppo di una filiera funzionante, in cui i diversi attori lavorano in un sistema integrato» spiega il rapporto. Questa disconnessione Ciconte la traduce con un dato: la gran parte delle O.P. del Sud hanno sede in Campania, dove hanno sede gli impianti di trasformazione, mentre oggi la produzione avviene principalmente tra le province di Foggia e Potenza, tra Puglia e Basilicata.

«Il rischio è che ogni anello della filiera lavori per fregare l’altro, com’è successo a settembre 2016, quando le piogge intense durate una settimana hanno portato a una diminuizione del prodotto. A quel punto il produttore ha la possibilità di andare con un autotreno carico di pomodori di fronte all’industria, e metterlo in vendita a 130 euro per tonnellata, quando il contratto firmato stabiliva un prezzo di 87 euro. L’anno scorso, però, quando c’è stato un esubero di produzione questo potere di stracciare il contratto lo avevano i trasformatori» dice Ciconte. È un circolo vizioso da cui -allo stato attuale- risulta difficile uscire, a meno che tutti gli attori della filiera non prendano l’impegno di farlo.

A partire, magari, da una legge sulla trasparenza, quella che con la pubblicazione del rapporto Spolpati la campagna #filierasporca avanza a governo e Parlamento. Due gli elementi chiave: l’introduzione di una “etichetta narrante” sui prodotti agroalimentari, in particolare su quelli (agrumicoli in primis) dove insiste il fenomeno del caporalato; l’introduzione dell’elenco pubblico dei fornitori che permetta la loro tracciabilità lungo la filiera: «è sufficiente un elenco, consultabile sui siti web delle aziende, in cui siano indicati tutti i fornitori di ciascuna» spiega il rapporto.

. Nuove forme di auto-organizzazione si diffondono in Europa e sono ispirate alla storia del mutualismo, con un nuovo progetto

». il manifesto, 13 novembre 2016 (c.m.c.)

È NATA L’ALTERNATIVA A FOODORA
ORA I BIKERS PEDALANO IN COOPERATIVA

Gig Economy in Belgio. Take Eat Easy, start up belga di consegne a domicilio, è fallita a luglio. I ciclo-fattorini si sono organizzati con la società mutualistica Smart. La storia della prima innovazione dal basso nel mondo delle piattaforme digitali

È nata in Belgio l’alternativa a Foodora, Deliveroo o UberEats, le multinazionali statunitensi ed europee che usano i ciclofattorini per le consegne a domicilio. Tutto è iniziato il 26 luglio scorso con il fallimento del gigante Take Eat Easy, l’analogo belga di Foodora o Deliveroo. Pochi giorni dopo, ad agosto, una parte dei bikers hanno deciso di organizzarsi. Alcuni di loro, 434, facevano già parte della «società mutualistica per artisti» Smart, un’impresa di economia sociale composta da diverse entità con personalità giuridiche distinte e una fondazione che le coordina e ne garantisce il fine senza scopo di lucro. Da marzo a oggi sono cresciuti e, insieme ad altri 1.300 che svolgono lo stesso lavoro, parteciperanno alla più grande cooperativa europea composta da lavoratori indipendenti.

A gennaio, infatti, Smart ha deciso di trasformarsi in cooperativa e diventerà uno dei casi di riferimento per il dibattito mondiale sulla nuova cooperazione. I «livreurs» – così vengono chiamati in Belgio i ciclo-fattorini – saranno protagonisti della prima innovazione su base solidale e mutualistica nel mondo della «gig economy», l’economia dei «lavoretti» che in Italia è diventata nota dopo la vertenza dei bikers torinesi della Foodora.

Take Eat Easy era una start up di consegne a domicilio che operava in venti città belghe e con la sua piattaforma metteva in contatto 3200 ristoranti. I bikers impiegati circa 4500. In un solo anno i clienti sono aumentati da 30 mila a 350 mila. Cifre vertiginose per un paese come il Belgio, ma non sufficienti per un’economia altamente finanziarizzata come quella della «gig economy». Adrien e Chloé Roose, co-fondatori di Take Eat Easy, hanno spiegato le ragioni del fallimento. La start-up si è sviluppata troppo lentamente e non è riuscita a trovare nuovi investitori.

Se non ci fosse stata Smart, i 434 «livreurs» non avrebbero ricevuto i compensi, né versamenti degli oneri sociali per una cifra pari a 340 mila euro, come invece è capitato ai loro colleghi. Smart ha versato i soldi ai suoi impiegati senza poterli riscuotere dal committente Take Eat Easy. Forte di 60 mila soci che versano il 6,5% dei guadagni in un fondo di garanzia in cambio di servizi, Smart è riuscita a sostenere il peso delle conseguenze del fallimento e ha allargato il numero dei soci. Nel 2015 erano infatti solo 89 i «livreurs» ad avere aderito all’iniziativa. Oggi le cose sembrano funzionare: sono 50 mila le ore di lavoro prestate dai 1300 fattorini.

Smart aveva già siglato con Take Eat Easy, e con Deliveroo, un protocollo d’intesa che rimedia al principale problema del ciclo-lavoro a domicilio: il tempo di lavoro tra una corsa e l’altra non è remunerata. Il protocollo ha assicurato un salario pari al minimo legale mensile in base alle ore lavorate, il rimborso delle spese di manutenzione per la bicicletta o le spese telefoniche e un’assicurazione contro gli incidenti. Il tutto nel quadro di un contratto di lavoro di cui Smart si è assunta le responsabilità del datore di lavoro.

«Oggi – afferma Sergio Giorgi, project officer di Smart – i livreurs sono impiegati per il tempo che lavorano per Smart, quando non sono in bici svolgono altre attività che possono anche condurre nell’ambito di Smart, dipende dal loro profilo professionale». «Considerata la natura dei beni dell’azienda in fallimento – un database dei livreurs, un software che fa da interfaccia tra loro, i ristoranti e i consumatori – è probabile che i 340 mila euro versati da Smart saranno iscritti tra le perdite e coperti con le sue riserve».

A questo punto viene da chiedersi che cosa guadagnerà la cooperativa da questa operazione. «Insieme agli altri soci contribuiranno alla costruzione dei servizi che permettono di assicurargli la continuità nel lavoro e la protezione sociale – risponde Giorgi – Quando hanno fatto ricorso a Smart i livreurs sono, di fatto, diventati impiegati. In quanto datore di lavoro, Smart ha fatto valere le condizioni minime di lavoro: la durata minima dell’impiego, il sostegno delle spese nei confronti del cliente».

Nelle intenzioni dei promotori dell’operazione c’è il desiderio di «tutelare i lavoratori su base mutualistica dai rischi derivanti della discontinuità del lavoro indipendente, siano essi freelance o abbiano uno statuto patchwork come quello del lavoro nella gig economy. È un’alternativa al modello attuale dove il singolo «auto-imprenditore» vende un servizio all’azienda proprietaria della piattaforma e vede diminuire il livello di protezione e di sicurezza sociale». Nell’esperimento inauguratocon Smart, i livreurs si sono sottratti all’individualismo e hanno iniziato a organizzare direttamente il loro lavoro in bicicletta senza rispondere a un datore di lavoro che gestisce i tempi del cottimo digitale attraverso un telefono.

SMART, LA SFIDA EUROPEA
ALL’UBERIZZAZIONE DEL LAVORO

Dagli intermittenti dello spettacolo ai lavoratori autonomi e freelance. Nuove forme di auto-organizzazione si diffondono in Europa e sono ispirate alla storia del mutualismo, con un nuovo progetto. «Stiamo creando un mutualismo a livello continentale che permette ai soci della cooperativa in Belgio di aiutare quelli italiani ed europei a tutelare i loro diritti».

Nel 1998 un gruppo di intermittenti dello spettacolo decise di dare una risposta a una domanda ricorrente tra gli artisti in Belgio: come ottenere un livello dignitoso di protezione sociale quando si percepiscono redditi irregolari, soggetti a ritardi? Un problema che riguarda, ieri come oggi, le professioni dello spettacolo e quelle autonome o precarie.

È nata così Smart che oggi conta 75 mila soci, 12 sedi in Belgio e nove società gemelle in altrettanti stati europei: Francia, Svezia, Italia, Spagna, Germania, Olanda, Austria, Ungheria. A gennaio si concluderà il processo di trasformazione di questa impresa sociale in cooperativa al quale ha partecipato un migliaio di persone. Smart è una delle forme del mutualismo di nuova generazione: eroga ai soci servizi di formazione e strumenti amministrativi, giuridici, fiscali e finanziari per semplificare e legalizzare la loro attività professionale.

A differenza del modello dell’auto-imprenditore che spinge il lavoratore autonomo a considerarsi un’impresa e non come un lavoratore, Smart assume il ruolo di datore di lavoro nei confronti dei soci che diventano impiegati di un’impresa condivisa e per questo accedono alla protezione sociale.

Negli anni è stato elaborato, e perfezionato, un meccanismo basato sul principio della mutualizzazione: grazie all’aumento del fatturato dei soci (sul quale Smart preleva il 6,5%, in Italia l’8,5%) si finanzia un fondo di solidarietà che permette di sostenere i lavoratori sia nel caso di interruzione dell’attività o di diminuzione del reddito, o in quello di creazione di nuovi servizi. In una fase in cui la cosiddetta «uberizzazione» del lavoro si sta espandendo, la durata del lavoro è sempre più determinata e frammentata e le condizioni di accesso alle tutele sociali e previdenziali tendono a restringersi sempre di più, questo modello creato dagli artisti, e oggi esteso a molti altri lavori come quello dei «bikers» di Take Eat Easy, si presenta come un’alternativa.

Agli esponenti di Smart, è stato rimproverato di contribuire alla precarizzazione del lavoro e di sostituire il Welfare con il loro modello. L’accusa viene respinta perché l’esistenza di una cooperativa, che continuerà a funzionare su base democratica, non sostituisce il pubblico ma costituisce un esempio per modificare il Welfare in senso universalistico, alla luce di una trasformazione generale del lavoro. Smart costituisce anche un’autodifesa, elemento determinante nella storia del mutualismo, in attesa di una riforma di tale portata.

Su questi temi il dibattito è ampio e se ne sta discutendo anche a New York dove, in questo fine settimana, si è svolta un’importante conferenza sul platform cooperativism, la nuova cooperazione sulle piattaforme digitali, animata dal ricercatore Trebor Scholz.

Giunta al terzo anno di vita Smart Italia può contare su 490 soci, prevalentemente artisti di teatro, cinema, musica e danza. Con l’associazione Acta ha anche siglato un accordo per gestire le committenze complesse dei freelance. «Il fondo di garanzia fornisce liquità a tasso zero per pagare i soci. È un mutualismo di secondo livello che permette ai soci belgi di aiutare gli italiani a tutelare i loro diritti – sostiene Giulio Stumpo di Smart Italia – La trasformazione in cooperativa sarà una sfida per creare una nuova economia partecipativa e democratica in Europa».

Finalmente dal mondo del lavoro emerge una organizzazione che si pone al livello della controparte, ed è capace di superare i confini nazionali. Lo testimonia il documento finale del meeting della "Transnational Social Strike Platform" che si è tenuto a Parigi dal 21 al 23 ottobre scorsi. connessioniprecarie,

Centocinquanta persone, lavoratori e attivisti provenienti da Francia, Italia, Regno Unito, Portogallo, Slovenia, Bulgaria, Polonia, Scozia, Svezia, Germania e Belgio hanno partecipato alle tre giornate organizzate dal 21 al 23 ottobre scorsi a Parigi dalla Transnational Social Strike Platform.

Dai protagonisti del movimento francese contro la loi travail ai lavoratori dei magazzini tedeschi, francesi e polacchi di Amazon, dai lavoratori che hanno organizzato lo sciopero di Deliveroo in Gran Bretagna ai migranti che in Italia lottano contro lo sfruttamento e le leggi sull’immigrazione, dai lavoratori tedeschi e svedesi della cura agli uomini e donne che hanno organizzato l’iniziativa per la libertà di movimento lungo la rotta balcanica, dai medici specializzandi che hanno scioperato in Inghilterra alle studentesse e studenti sloveni: un intero mondo di insubordinazione del lavoro si è incontrato a Parigi per discutere di come superare i limiti delle iniziative locali e di come connetterle in un progetto condiviso.

Un anno fa a Poznan abbiamo affermato che l’opposizione allo stato presente dell’Europa non può che partire dal rifiuto dello sfruttamento e delle sue condizioni politiche. Quest’anno a Parigi la scommessa è stata quella di fare un passo avanti nel consolidamento della nostra comune infrastruttura transnazionale.

Per essere efficace, essa deve essere radicata nell’insubordinazione del lavoro che ha luogo in ogni punto d’Europa e deve essere praticata dai soggetti che, individualmente e collettivamente, rifiutano di essere pienamente disponibili per il capitale. L’infrastruttura transnazionale, perciò, non può essere separata dalle sue basi locali ma non può neppure essere ridotta a una loro somma o a un accordo formale tra sindacati e collettivi. Essa è piuttosto uno spazio di organizzazione, dove i flussi di insubordinazione locale possono essere diretti contro nemici comuni nello spazio europeo e dove, allo stesso tempo, ogni punto può acquisire potere e nuovi alleati grazie a questa interconnessione.

Riconosciamo un movimento dello sciopero che attraversa l’Europa e stiamo lavorando alla creazione delle condizioni per uno sciopero sociale e transnazionale. Per noi lo sciopero è il movimento reale che può sovvertire l’attuale equilibrio dei poteri dentro e fuori i posti di lavoro. Vogliamo consolidare un’infrastruttura politica che consenta di fare di ogni sciopero il momento in cui si intensifica l’insubordinazione del lavoro e in cui lavoratori e lavoratrici possono riconoscersi come parte della stessa lotta attraverso le categorie, le condizioni giuridiche e i confini. Per farlo, dobbiamo costruire connessioni più solide intensificando lo scambio di informazioni, la condivisione dei momenti di conflitto e la definizione di direzioni comuni.

Quattro assi sono stati riconosciuti come centrali e sono stati l’oggetto dei quattro workshop i cui report circoleranno nei prossimi giorni: il controllo logistico sul tempo, applicato nei magazzini così come nel lavoro di cura, nelle piattaforme telematiche e nelle fabbriche; la precarizzazione del lavoro, sostenuta dalle politiche europee attuate in ciascun paese; la gestione del welfare come strumento per imporre ai cittadini e ai migranti l’obbedienza e come spazio di un lavoro di cura precario; le politiche migratorie che mostrano come la questione dell’integrazione abbia a che fare con il lavoro a basso costo e lo sfruttamento, a sua volta intensificato dal ricatto del permesso di soggiorno e dal governo della mobilità.

La sottrazione dei lavoratori della cura svedesi al controllo delle app che misurano il loro tempo di lavoro è legato al rifiuto di quello stesso controllo da parte dei lavoratori dei magazzini di Amazon; la lotta contro la loi travail è un segmento di quella organizzata, in diversi paesi, contro le leggi sul lavoro che seguono le linee guide dell’Agenda 2020 dettata dall’Europa; lo sciopero delle infermiere, delle insegnanti e dei medici specializzandi è parte dell’opposizione ai tagli al welfare portata avanti dagli utenti; l’attraversamento dei confini da parte dei migranti lungo la rotta balcanica è connesso alla lotta contro il razzismo istituzionale che pone i migranti interni e quelli extraeuropei in una condizione di ricatto.

La nostra infrastruttura logistica rende queste connessioni visibili e riconoscibili. In questo senso, essa non è solo un modo di mettersi in contatto attraverso i confini, ma anche di superare i limiti delle iniziative locali attraverso lo sviluppo di un terreno comune. Possiamo vedere tutti i giorni, a livello locale, che anche le lotte vicine nello spazio sono di fatto isolate, perché ciascuna è basata su specifiche rivendicazioni o riguarda specifiche categorie del lavoro ormai desuete. Ma il movimento dello sciopero va al di là dei suoi confini istituzionali.

Superando la pratica dello sciopero regolato dalla legge, esperienze come quelle di Deliveroo sono state sostenute da un movimento autonomo che è nato prevalentemente fuori dai sindacati e ha coinvolto lavoratori che tecnicamente non possono scioperare; lo sciopero delle donne in Polonia ha reso concreto ciò che uno sciopero sociale può essere, perché ha creato lo spazio per un rifiuto di massa delle condizioni politiche dell’oppressione e dello sfruttamento. Ogni sciopero può diventare il punto di concentrazione di una più ampia connessione e parte di un movimento transnazionale.

Per rafforzare la nostra infrastruttura, abbiamo bisogno di costruire il nostro spazio e di prenderci il nostro tempo. Vogliamo trasformare lo spazio europeo, con le sue differenze interne, nel nostro spazio di lotta, sapendo che si tratta di un processo lungo. Ciò significa anche costruire un nuovo linguaggio, un nuovo immaginario e la capacità di intervenire in modo tale da rendere le differenze di cui facciamo esperienza dei punti di forza.

A questo dedicheremo i prossimi mesi. Saremo a Londra per prendere parte all’organizzazione di «una giornata senza di noi», lo sciopero che i migranti stanno organizzando nel Regno Unito il prossimo 20 febbraio, portando la nostra prospettiva transnazionale e l’esperienza dello sciopero del lavoro migrante. In quell’occasione, vogliamo sovvertire la logica secondo la quale la soluzione della crisi è quella di liberarsi dai migranti e affermare che questa logica non può essere contrastata soltanto su basi utilitaristiche o solidaristiche.
Saremo a Lubiana per incontrare i migranti e gli attivisti che negli ultimi anni hanno fatto dei Balcani un campo di battaglia politico, insieme al movimento dei lavoratori e degli studenti, confermando la centralità dell’Est nell’attuale costituzione dell’Europa. Infine saremo in Polonia, dove è in cantiere un altro meeting internazionale dei lavoratori di Amazon, per discutere insieme come organizzare scioperi capaci di attraversare i confini e iniziative simboliche che possano viaggiare da un magazzino all’altro.
Affermeremo il nostro progetto comune in tutte le occasioni in cui l’opposizione all’attuale Europa neoliberale sarà discussa e in cui emergerà il rifiuto dello sfruttamento, con l’intento di far sentire ovunque il movimento dello sciopero. Saremo impegnati insieme nella costruzione di momenti di visibilità e di mobilitazione che possano esprimere e dare risonanza al potere comune che stiamo costruendo attraverso i confini.

Il manifesto, 19 ottobre 2016 (p.d.)

Il Jobs Act è scoppiato come una bolla di sapone. Secondo i dati di agosto pubblicati ieri dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps, la bandiera che il governo Renzi sventola nei consessi internazionali per dimostrare che le riforme in Italia sono «impressionanti» (il copyright è della cancelliera Merkel che lo disse già a Monti) serve in realtà a coprire questa situazione: il mercato del lavoro è stagnante, anzi le attivazioni e le cessazioni dei contratti diminuiscono; crollano del 33% i rapporti di lavoro a tempo indeterminato con il contratto «a tutele crescenti», dove l’unica cosa che cresce è la libertà di licenziare i lavoratori.

I licenziamenti sono aumentati tra gennaio e agosto 2016. Quelli sui contratti a tempo indeterminato sono passati da 290.656 del 2015 a 304.437 (+4,7%). Sono cresciuti soprattutto i licenziamenti individuali per ragioni disciplinari sui quali è intervenuto il Jobs act eliminando la possibilità di reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato dei nuovi assunti dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore della riforma. In otto mesi i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo sono passati da 36.048 a 46.255 con un aumento del 28%. Nello stesso periodo le dimissioni sui contratti a tempo indeterminato, sono passate da 599.248 a 510.267 con un calo del 14,8%.

Per il presidente dell’Inps Tito Boeri questa crescita dei licenziamenti rispetto al 2015 «è agli stessi livelli del 2014». «Dicono che il Jobs act ha aumentato i licenziamenti – ha precisato – ma le tutele crescenti c’erano già nel 2015». «Si cominciano a vedere gli effetti concreti dell’aver abolito la tutela nei confronti del licenziamento, con particolare riferimento a quelli individuali o disciplinari – ha detto invece il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso – in mancanza di tutele nei confronti dei licenziamenti e in mancanza di ammortizzatori sociali, le nostre preoccupazioni si stanno dimostrando più che fondate». «dovremo gestire questi licenziati in più proprio a causa della riduzione delle tutele generata dal Jobs Act – ha aggiunto Carmelo Barbagallo (Uil). Qual è la soluzione per queste altre persone che, ora, si ritrovano senza occupazione?». Una domanda, al momento, senza risposta.

I numeri dimostrano che il Jobs Act non ha scalfito la struttura del mercato del lavoro fondato sul contratto a breve e brevissimo termine e, oggi, su un’alluvione di . Questo è il risultato dell’ulteriore liberalizzazione dei «buoni lavoro» che si comprano in tabaccheria voluta dal governo Renzi. Ad agosto ne sono stati venduti 96,6 milioni in più, il 35,9% in più rispetto ai primi otto mesi del 2015. La regione che ha registrato il maggior aumento di ticket-lavoro è la Campania (+55,6%), seguita dalla Sicilia (+50,7%).

Questa ondata di ticket influisce sui dati complessivi dell’occupazione e si riverbera sulla crescita che il governo continua a rivendicare. Questa crescita trainata dagli over 50 obbligati a restare al lavoro dalla legge Fornero. Tra queste persone si registra l’aumento maggiore dell’occupazione dovuta a una quota più alta di trasformazioni dei contratti precari nel nuovo a «tutele crescenti». Ne sono esclusi i giovani e gli under 49.

Il nuovo monitoraggio dell’Inps conferma inoltre il legame tra i fondi pubblici erogati alle imprese per la decontribuzione sui neoassunti con il «contratto a tutele crescenti»: tra i 14 e i 22 miliardi in tre anni e l’aumento relativo dell’occupazione. Erano oltre 8 mila euro nel primo anno del Jobs Act, ora sono a poco più di 3 mila euro, e sono destinati a scomparire, a parte alcuni incentivi mirati per le assunzioni a Sud.

Le statistiche registrano un crollo clamoroso degli assunti con questa formula. L’andamento era già evidente da un anno al punto che lo stesso governo sembra, oggi, avere rinunciato a rifinanziare i costosissimi sgravi. La droga degli incentivi non ha tuttavia risolto uno dei problemi che gli ideatori del Jobs Act speravano di avere risolto: il costo del lavoro per i contratti a tempo indeterminato. Invece di tagliarlo effettivamente, il governo ha abbassato i salari e dato incentivi alle imprese. È difficile tuttavia assumere qualcuno quando non esiste una domanda e non si sa bene cosa produrre. Chi ha concepito questa strategia ha ignorato un problema fondamentale. I fondi generosamente elargiti sarebbe stato più utile investirli in un reddito minimo, ad esempio. Le perdite sono pubbliche. I guadagni sono dei privati.

«». connessioni precarie online

Dal 21 al 23 ottobre si svolgerà a Parigi il secondo meeting della Transnational Social Strike Platform. L’incontro avrà luogo a tre settimane di distanza dallo sciopero delle donne polacche contro la proposta di riforma della legge sull’aborto e a pochi mesi dalla grande sollevazione francese contro la loi travail e il suo mondo.

In entrambi i casi lo sciopero è andato ben oltre la pratica istituzionalizzata nell’iniziativa sindacale. Esso è stato politicamente più significativo della momentanea rottura di un rapporto di forza nei luoghi di lavoro. I primi grandi scioperi francesi contro la riforma si sono riversati nelle strade e nelle piazze coinvolgendo milioni di persone, rifiutando il brutale dominio sul presente e sul futuro di intere generazioni.

Lo sciopero in Francia è stato sociale perché ha connesso segmenti altrimenti separati del lavoro vivo investiti dalla loi travail e dall’austerità europea. Le donne polacche hanno mostrato che la parola d’ordine dello sciopero mantiene il suo potentissimo richiamo anche al di fuori dei luoghi di lavoro.

La rivendicazione della libertà di aborto non ha soltanto prodotto grandi manifestazioni di piazza e la forzatura dei limiti imposti dalla legislazione sullo sciopero. Essa ha ridefinito le posizioni individuali e messo in discussione le gerarchie sessuali e sociali, stabilendo le connessioni che hanno portato così tante donne e molti uomini a esprimersi contro un modo complessivo di governare che non riguarda solo la società polacca. Lo sciopero in Polonia non è stato sociale perché ha difeso un diritto più o meno universale, ma perché la rivolta di una parte della società ha fatto valere una differenza contro un ordine complessivo dei rapporti sociali e sessuali.

In questi ultimi mesi, da est a ovest, attraversando i confini e in contesti radicalmente diversi, lo sciopero è stato la condizione grazie alla quale donne e uomini, precarie, operai e migranti hanno potuto prendere parola in prima persona e in massa contro le condizioni politiche che determinano la loro oppressione e il loro sfruttamento.

Da più di un anno la Transnational Social Strike Platform agisce per fare dello sciopero l’articolazione politica delle differenze che attraversano il lavoro vivo contemporaneo e quindi per stabilire una prospettiva condivisa del rifiuto soggettivo delle condizioni della nostra oppressione. Per raggiungere questo scopo, lo sciopero deve essere logistico, industriale e metropolitano. Sono queste le modalità in cui donne e uomini, precarie, operai e migranti si scontrano con la furia accumulatrice del capitale e con le coazioni della riproduzione sociale.Sono questi i tre fronti sui quali ogni giorno le strategie individuali e collettive di insubordinazione si scontrano con quelle messe in atto dai governi europei per garantire il dominio del capitale.

In questo campo di tensione, in cui la mobilità del lavoro fronteggia quella del capitale, il punto d’impatto può continuamente cambiare e, con esso, anche i comportamenti soggettivi di precarie, operai e migranti.

In ognuna di queste congiunture, perciò, lo sciopero può assumere una forma diversa, rimanendo però una pratica per sottrarsi alla coazione quotidiana, per colpire le diverse facce del padrone collettivo, per ampliare e approfondire le connessioni con tutti coloro che condividono le stesse condizioni di vita e di lavoro. La distinzione dello sciopero in logistico, industriale e metropolitano è quindi direttamente politica, perché dà conto delle molteplici forme del lavoro sociale, cogliendole nei loro differenti punti di impatto con il capitale.

Essa non riguarda soltanto la categoria politica del lavoro salariato, ma ambisce a dare espressione a posizioni tanto specifiche quanto essenziali alla produzione e riproduzione sociale nel suo complesso, da quella delle donne – che con il loro lavoro domestico sono obbligate a sostenere le trasformazioni contemporanee del welfare e la ristrutturazione neoliberale delle gerarchie sessuali – a quella dei migranti, il cui lavoro è sottoposto a un’autorizzazione politica e a un razzismo istituzionale che impongono loro obblighi che altri lavoratori semplicemente non conoscono. Ciò conferma d’altra parte l’insufficienza pratica di categorie universali che pretendono di unificare i lavori a partire da un loro carattere più o meno diffuso, come può essere il loro contenuto di conoscenza.

La frammentazione e l’isolamento sono le caratteristiche fondamentali del lavoro sociale contemporaneo. Il sapere, il comando diretto, l’organizzazione complessiva del lavoro mirano costantemente a questo risultato. Spetta a noi produrre la forza politica in grado di opporsi a questa realtà.

Logistico, industriale e metropolitano non rimandano alla combinazione o al coordinamento di tre diversi settori (smistamento e trasporto, produzione di merci, servizi) e neppure di conseguenza a tre diverse pratiche di sciopero (il blocco della circolazione, della catena di montaggio, dell’ordine delle città). Logistico, industriale e metropolitano sono tre modalità di organizzazione del capitale che dobbiamo essere in grado di aggredire simultaneamente.

La logistica non è semplicemente l’infrastruttura di servizio per lo smistamento di materie prime, mezzi di produzione e merci nel mercato globale. Essa è la logica che il capitale assume nel processo della sua costante globalizzazione. Il capitale scopre la logistica quando ha bisogno di inseguire il profitto e quando deve trovare nuova forza lavoro da sfruttare. Questa sua inesausta ricerca produce le condizioni dello sfruttamento negli hub e nei porti. Tuttavia non sono solo i facchini, i portuali, i marinai o gli addetti alle spedizioni a incontrare e a ribellarsi al comando logistico. Esso estende la propria presa su tutta l’organizzazione del lavoro. Quella che per il capitale è l’estensione nello spazio del suo domino, per noi è un’incessante intensificazione dello sfruttamento, è la costante valutazione di quello che facciamo, è il codice a barre che ci marchia per renderci compatibili con le altre merci, è l’algoritmo che fraziona all’infinito il nostro lavoro.

La logistica è per noi il lavoro «uberizzato» che fa di apparenti imprenditori indipendenti delle frazioni di lavoro comandato dalla logica immanente del capitale. La logistica è per noi la pretesa del capitale di avere un comando assoluto sul tempo per garantire il movimento incessante dei suoi traffici globali. Contro questo tempo assoluto lo sciopero sociale è dunque logistico non solo perché interrompe i flussi, ma perché è il rifiuto della rapina incessante di tempo e di tutte quelle procedure che scaricano sui singoli lavoratori i costi sociali della produzione. Lo sciopero logistico avviene in luoghi precisi, ma anche e soprattutto dove si manifesta il rifiuto alla piena e costante disponibilità del proprio tempo.

Il comando logistico esercita la propria forza in maniera particolarmente feroce sul lavoro industriale che per noi, e per l’evidenza empirica, non è un residuo del passato. In occasione della Brexit e durante le lotte contro la loi travail qualcuno ha scoperto che la classe operaia esiste ancora. Persino l’ascesa di Donald Trump è addebitata alla classe operaia bianca statunitense. Lontani dai miti di destra e di sinistra, noi registriamo più semplicemente che il lavoro manifatturiero non è scomparso. Qualcuno produce materialmente le merci non solo nelle lontane fabbriche cinesi o indiane, ma anche in Europa.

Non a caso il precedente incontro del TSS si è svolto a Poznan con lo scopo di stabilire contatti e connessioni con quei luoghi dove il lavoro operaio è stato delocalizzato o dove sta tornando dopo i suoi viaggi in Oriente. Quale capitale incontrano gli operai dell’industria? Incontrano come sempre la dura legge della fabbrica, nella quale però il comando logistico definisce i tempi del profitto su quelli delle catene transnazionali del valore. Incontrano la realtà della delocalizzazione, che da una parte del confine è utilizzata come minaccia per peggiorare costantemente le condizioni del lavoro mentre dall’altra apre la strada a un nuovo sfruttamento e a nuovi terreni di lotta operaia.

Attraverso e lungo i confini, il lavoro operaio è mobile e precario, senza certezze e con assicurazioni minime se non assenti. Da un lato e dall’altro del confine, la mobilità del capitale impone una sistematica intensificazione del tempo dello sfruttamento. Sciopero industriale significa allora interrompere questo tempo, colpire l’origine del profitto, ma anche l’isolamento sociale a cui la fabbrica è stata condannata. Per il lavoro industriale sciopero significa più che mai stabilire connessioni che smettano di fare apparire gli operai una costante sorpresa sociale.

I lavoratori dell’industria non sono fuori dello spazio metropolitano. Con quelli dei servizi e del terziario essi danno forma a una geografia conflittuale, nella quale la produzione e la riproduzione sociale stabiliscono una connessione sistematica e dominata tra le diverse figure del lavoro vivo proprio perché non coincidono con i limiti della singola città. Nello spazio metropolitano una moltitudine di lavoratori e di lavoratrici ha l’occasione in incontrare la faccia politica del capitale, quella che li obbliga amministrativamente a subire la loro condizione. In questo spazio il welfare non ha più la funzione di produrre una relativa uguaglianza tra i cittadini, ma stabilisce continuamente differenze tra diverse figure del lavoro assegnando posizioni funzionali tanto alla riproduzione sociale quanto al governo della mobilità.

Nello spazio metropolitano, come lavoratrici salariate o gratuitamente, nelle scuole, negli ospedali o nelle case, le donne garantiscono le condizioni generali di riproduzione di una forza lavoro che è transnazionale anche quando può essere puntualmente localizzata. Nello spazio metropolitano il lavoro migrante è governato attraverso norme europee, nazionali e locali che pretendono di farne un segmento separato della forza lavoro e completamente disponibile allo sfruttamento.

Lo spazio metropolitano è quindi uno spazio di movimento nel quale i precari di un call center spagnolo, le operaie di una fabbrica tessile in Polonia, le lavoratrici domestiche, i facchini di un deposito merci francese, i marinai di un cargo attraccato al Pireo, i migranti costretti a lavorare con salari da 1€ l’ora per pagare il prezzo dell’accoglienza in Germania possono riconoscersi come uguali, nonostante tutte le differenze dei loro lavori e delle loro vite, a partire dal rifiuto delle condizioni politiche e amministrative che li costringono alla subordinazione e allo sfruttamento.

Nello spazio metropolitano i diversi lavori possono andare oltre la coazione salariale, oltre le gerarchie che le accompagnano, contro le forme politiche che le legittimano. Lo sciopero è metropolitano perché dà voce al rifiuto di essere frammenti di un ordine, andando oltre le stesse differenze imposte dal lavoro. Lo sciopero metropolitano è uno sciopero contro il lavoro e le divisioni che esso impone. Scioperare nello spazio metropolitano significa restituire al capitale la sua frammentazione sotto forma di progetto comune.

Per tutte queste ragioni le tre dimensioni dello sciopero non possono essere separate. La logistica, la fabbrica e la metropoli rimandano in continuazione l’una all’altra. Sono il segno tangibile della mobilità del capitale e di quella opposta e riottosa di milioni di uomini e donne. Non basta bloccare un hub della distribuzione per sabotare i circuiti del profitto, quando l’infrastruttura logistica è capace di adattarsi in tempi sempre più rapidi riattivando i suoi flussi. Non è sufficiente interrompere la produzione in un intero settore su scala nazionale, quando un segmento di quella produzione continuerà a funzionare al di là del confine e all’interno di ogni fabbrica s’intrecciano figure del lavoro che non rientrano in un’unica categoria.

Non è possibile pensare a una figura del lavoro egemone e capace di ricomporre politicamente tutte le altre, quando il lavoro di un creativo italiano o un ingegnere francese dipende dalla produzione di microchip nelle fabbriche dormitorio della Repubblica Ceca o dal lavoro domestico di una donna migrante. Lo sciopero logistico, industriale e metropolitano è dunque sociale perché trasforma le connessioni globali dello sfruttamento in una comunicazione costante e sistematica tra i diversi segmenti della produzione e riproduzione sociale.

Lo sciopero sociale non è uno sciopero generale, che mira a interrompere in un singolo momento la produzione attraverso l’azione simultanea e confederata di diverse categorie di lavoratori. Lo sciopero è sociale perché connette esperienze soggettive di insubordinazione al lavoro che altrimenti non potrebbero comunicare. Lo sciopero è sociale perché produce un livello di comunicazione che prima non c’era. Lo sciopero sociale connette i tempi diversi della mobilità del lavoro vivo. Lo sciopero sociale agita nel tempo i sonni apparentemente tranquilli del capitale e dei governi europei.

Questa è per noi la scommessa della Transnational Social Strike Platform. Essa non può essere semplicemente una rete o una coalizione per quanto europea di segmenti di movimento e la somma delle loro diverse rivendicazioni. Essa è un processo in cui il rifiuto dell’oppressione logistica, industriale e metropolitana che in modo frammentato e sconnesso già attraversa l’Europa si possa riconoscere in una comune direzione politica. Individuare rivendicazioni condivise – un salario minimo, un welfare e un permesso di soggiorno europei – è essenziale per identificare i punti di impatto con il capitale incidendo sul tempo e sullo spazio in cui esso pretende di imporre il suo dominio, ma anche per aggredire le politiche neoliberali dell’Unione Europea che di quel dominio stabiliscono sistematicamente le condizioni politiche.

Attraverso queste rivendicazioni, la separazione imposta dal capitale tra i segmenti di una stessa catena del valore che va dalla Polonia alla Francia o dalla Germania alla Grecia può essere superata, così come singoli momenti di insubordinazione possono legarsi in un processo comune. Pretendere un salario minimo europeo significa inceppare la strategia logistica del capitale, che si muove per inseguire lavoro a basso costo attraverso i confini. Significa impedire il ricatto che viene imposto nella fabbrica della mobilità.

Conquistare un welfare europeo significa rifiutare le gerarchie che attraversano lo spazio metropolitano ed esprimere il rifiuto della divisione sessuale del lavoro che sostiene la riproduzione sociale transnazionale. Ottenere un permesso di soggiorno europeo senza condizioni significa rifiutare la piena disponibilità al lavoro di centinaia di migliaia di uomini e di donne che altrimenti per restare in Europa devono rinunciare a disporre delle proprie vite.

Contro la presunta opposizione tra un Est isolazionista e rinnegato e un Ovest in cerca di riscatto, queste rivendicazioni puntano a stabilire le connessioni per fare della quotidiana insubordinazione che già esiste un processo collettivo, sociale e transnazionale, per rifiutare l’oppressione che ci divide. Lo sciopero sociale europeo è possibile. Possiamo contrapporre i nostri tempi a quelli del capitale e dei suoi governi. Noi possiamo avere il coraggio di osare.

». Sbilanciamoci.info online, 17 ottobre 2016 (c.m.c.)

Sabato 8 ottobre una cinquantina di lavoratori di Foodora, impresa attiva nel settore della consegna cibo tramite fattorini in bicicletta, sono scesi in piazza a Torino per protestare contro le condizioni di lavoro imposte dall’azienda. La vicenda ha avuto molto risalto mediatico e diversi quotidiani hanno parlato dell’azione dei lavoratori di Foodora come del primo sciopero in Italia della cosiddetta sharing economy.

Questa terminologia è però scorretta. Si parla solitamente di sharing economy in riferimento all’attività di aziende come Blablacar o Aibnb, che operano tramite piattaforme online che hanno essenzialmente la funzione di mettere in rete compratori di servizi e venditori che ‘condividono’ un loro bene, come la propria auto o la casa.

Diverso è invece il caso di imprese come Foodora o Deliveroo: queste compagnie offrono un servizio di consegna cibo dai ristoranti agli utenti, utilizzando lavoratori che danno la propria disponibilità in precise fasce orarie tramite una applicazione per smartphone. L’unico elemento in comune tra i due tipi di attività é il fatto che basano le proprie operazioni su piattaforme digitali, ma la somiglianza finisce qui. L’uso di una app per intermediare la domanda e l’offerta di servizi e consumi e per gestire l’allocazione delle prestazioni lavorative accomuna dunque Foodora e Deliveroo ad altre piattaforme digitali di ‘micro-lavoro’, come Uber, MechanicalTurk o Task Rabbit, che ben poco hanno a che fare con l’idea di ‘condivisione’. In questo caso si tende perciò a parlare di o “economia dei lavoretti” (gig).

La protesta dei lavoratori di Foodora, inizialmente partita da un contenzioso sulle biciclette (i mezzi così come la manutenzione sono a carico dei lavoratori), si è poi allargata su tre fronti. In primis i lavoratori contestano il passaggio da una retribuzione oraria di 5,40 euro ad una retribuzione a cottimo (2,70 euro per consegna), che l’azienda ha implementato per tutti i neo assunti e che avrebbe progressivamente coperto l’intera forza lavoro.

In secondo luogo ad essere messo in discussione è il tipo di contratto: i fattorini e i promoter (ossia coloro che si occupano di fare pubblicità all’azienda) che lavorano per Foodora non sono dipendenti ma risultano essere liberi professionisti assunti con un co.co.co. Non hanno quindi alcun diritto a ferie o malattie pagate. I lavoratori sostengono però che il loro rapporto di lavoro con l’azienda sia, di fatto, un rapporto subordinato: lo dimostrano il fatto di avere un orario concordato, turni stabiliti e un luogo di partenza per le consegne prefissato (per essere “connesso al sistema” un lavoratore deve trovarsi in una determinata piazza di Torino).

Su questa base, i lavoratori rivendicano il diritto ad essere inquadrati all’interno di un contratto collettivo nazionale di lavoro. Fra i motivi della protesta vi è infine il licenziamento di due ragazze che lavoravano come promoter, colpevoli a quanto pare di aver partecipato ad una delle assemblee tramite cui i rider di Foodora hanno organizzato lo sciopero di sabato. Secondo quanto riportato dalla Stampa, il licenziamento è avvenuto tramite la disconnessione delle due lavoratrici dalla app tramite la quale si organizzano i turni di lavoro.

Lo sciopero dei fattorini di Foodora ricorda da vicino quanto avvenuto questa estate a Londra, dove a scioperare sono stati i lavoratori di Deliveroo e UberEats, la piattaforma di consegna lanciata dalla statunitense Uber (nota in Italia per il contenzioso con i taxisti). Anche in questo caso le proteste erano originate dal tentativo delle aziende di passare da una retribuzione oraria ad una a cottimo.

Come già avvenuto a Londra nel caso di UberEats, all’inizio dell’attività le imprese utilizzano un compenso orario. Ma il sistema di consegne a domicilio sul modello di Foodora o Deliveroo utilizza il meccanismo dell’algoritmo per gestire la fluttuazione della domanda: si basa sull’avere a disposizione una forza lavoro flessibile, che può venire mobilizzata o smobilizzata a seconda della domanda dei consumatori. Il tentativo delle imprese di passare ad un sistema di compensi stabilito a prestazione piuttosto che all’ora permette alle piattaforme di esternalizzare totalmente i costi dei potenziali tempi morti o di bassa domanda sui lavoratori stessi, operando dunque una stretta al ribasso sui costi del lavoro.

In questo senso, il modello Foodora ha molto in comune con le strette sui salari del mondo della logistica – in cui la maggior parte dei profitti vengono estratti attraverso l’intensificazione dei ritmi lavorativi dei facchini.

Il vecchio e il nuovo

Come è inevitabile nel caso di tematiche che comprendano l’uso di tecnologie di ultima generazione, molto del dibattito sul tema Foodora si è concentrato sugli aspetti di novità di questo tipo di attività lavorativa. Questo probabilmente spiega anche il grande risalto che ha avuto questa vicenda, che tutto sommato coinvolge un numero di lavoratori piuttosto ristretto. È necessario tuttavia fare chiarezza su cosa sia nuovo e cosa non lo sia.

Non è certamente un fatto nuovo, ma è bene ribadirlo, che l’attività dei fattorini e dei promoter di Foodora sia una prestazione lavorativa a tutti gli effetti, e non «un’opportunità per andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio», come hanno provato a sostenere i responsabili italiani di Foodora. Come ha ricordato il giurista Valerio Di Stefano, fra i primi in Italia ad occuparsi di queste tematiche, i rider di Foodora svolgono «un vero lavoro che comporta tutte le contraddizioni del caso: il rispetto della professionalità, la responsabilità e la fatica fisica».

Il fatto poi che il livello di paga sia troppo basso per permettere ad un lavoratore di sopravvivere lavorando esclusivamente per Foodora (lo stipendio difficilmente supera i 4-500 euro al mese) non significa che il rapporto di lavoro non sia tale, ma soltanto che si tratti di un cattivo lavoro: malpagato e ultraprecario. La logica che accomuna prestazioni lavorative di questo, ossia esternalizzare sui lavoratori il rischio e i costi dei tempi morti, è la stessa per cui in Italia si fa un uso massiccio dei voucher, il cui utilizzo è cresciuto enormemente nel corso degli ultimi anni e non accenna a fermarsi anche nel 2016. Proprio per questo appaiono particolarmente ipocrite le dichiarazioni del Ministro del Lavoro Poletti, che ha preso le difese dei lavoratori Foodora.

Di per sé, la logica che sta dietro alla gestione del processo di lavoro in una piattaforma come Foodora è un principio neo-taylorista: frammentazione del processo di lavoro in compiti misurabili e in cui tutti i lavoratori sono perfettamente sostituibili; privazione del controllo sul processo e i tempi di lavoro da parte del lavoratore, che viene costantemente monitorato tramite la app. Questo è coerente con alcune evidenze empiriche a livello europeo, che mostrano un aumento del grado di routine e standardizzazione in molte occupazioni. Sotto questo aspetto, più che essere innovativa, la gig economy rappresenta semplicemente una reincarnazione dei principi del management ‘scientifico’ che risalgono ai primi del Novecento.

Quello che è nuovo è certamente il mezzo attraverso cui il rapporto e il processo di lavoro sono gestiti: l’algoritmo, e le conseguenze ambigue che l’utilizzo dell’algoritmo ha per quanto riguarda le relazioni di lavoro. La gestione dei lavoratori tramite algoritmo offusca l’esistenza di un rapporto di lavoro standard, visto che a livello formale non ci sono impiegati ma solo, per usare una terminologia cara al management di Foodora, “collaboratori”. Questo permette di aggirare molte delle regolamentazioni previste dai contratti collettivi, come il diritto alla malattia.

Questo nonostante le pratiche di controllo, la gestione dei tempi e delle modalità di lavoro siano in tutto e per tutto simili a quelle di un rapporto di lavoro dipendente: obbligo di indossare la divisa aziendale, paga determinata dall’azienda, ritmi di lavoro ‘abituali’ imposti dall’algoritmo, varie regole e procedure da seguire, e così via.

L’uso della piattaforma digitale come mezzo di gestione del rapporto e del processo lavorativo crea altre opportunità per nuove forme di controllo e coercizione della forza lavoro. La valutazione dei lavoratori della gig economy secondo criteri di performance viene portata all’estremo dall’utilizzo della tecnologia, tramite la quale è possibile monitorare costantemente il lavoratore durante lo svolgimento dell’attività e misurare la sua velocità e efficacia. C’è poi un’individualizzazione totale del rapporto di gestione del lavoratore: i turni vengono dettati dall’algoritmo più che da un interlocutore fisico con cui confrontarsi, e anche i rapporti con i colleghi vengono frammentati e ridotti al minimo, perché ognuno interagisce direttamente con la propria app.

L’unica eccezione è data dai pochi minuti in cui i fattorini si ritrovano in un punto comune in attesa di un ordine, ed infatti è lì che sono nate le proteste dei lavoratori di Foodora, come ha raccontato uno di loro. In questo senso, è interessante notare come i casi di sciopero nella gig economy siano per ora rimasti concentrati in quei servizi in cui c’è ancora un aspetto di compresenza fisica dei lavoratori – come nel caso dei rider di Foodora e Deliveroo. Questo è molto più difficile nel caso di piattaforme in cui la prestazione lavorativa si svolge totalmente tramite mezzo digitale – come TaskRabbit e MechanicalTurk – benché anche in questo caso vi siano stati dei tentativi di organizzazione da parte dei lavoratori.

Dato il meccanismo di individualizzazione del rapporto di lavoro che abbiamo delineato non sorprende quindi che i responsabili di Foodora avessero inizialmente dichiarato di voler trattare esclusivamente a livello individuale con i lavoratori, una tattica per togliere forza ad una vertenza collettiva. Tuttavia, a causa della pressione mediatica generata dall’azione di protesta dei lavoratori, i gestori della piattaforma si sono visti costretti ad incontrare una rappresentanza collettiva dei rider, che hanno così segnato un primo punto a loro favore, anche se a questo non è seguita un’apertura di trattativa e i lavoratori hanno annunciato ulteriori azioni di protesta.

Un altro inquietante elemento di novità è il fatto che l’azienda abbia la possibilità di licenziare un lavoratore semplicemente disconnettendolo dal sistema, come è avvenuto nel caso delle due promoter licenziate. Basta un clic per negare al lavoratore l’accesso ai mezzi di produzione – un’operazione che costituirebbe mobbing in un rapporto di lavoro standard, e che diventa invece possibile nel caso di lavoro ‘autonomo’ pagato a cottimo.

La minaccia della ‘disattivazione’ e il potere totale che la piattaforma ha nel decidere chi possa averne o meno accesso è stata largamente documentata nel caso degli autisti di Uber – ed usata anche come base legale per sostenere che a tutti gli effetti la piattaforma avesse instaurato nei confronti dei propri contractor un rapporto di lavoro di lavoro di tipo subordinato.

Come ultimo elemento di novità, l’utilizzo delle valutazioni del servizio offerto da parte degli utenti, parte centrale del modello di performance management usato da imprese come Uber, aggiunge un’ulteriore fonte di controllo spostando il meccanismo di disciplina sul lavoratore dal manager al cliente, anche se questo magari non se ne rende conto.

In effetti l’uso della piattaforma digitale come forma di intermediazione lavorativa rende il lavoro che sta al suo interno a tutti gli effetti invisibile. Come già nel caso della logistica e dei servizi di consegna di altri prodotti, l’utente-cliente clicca, il cibo arriva a casa e nessuno si chiede come abbia fatto ad arrivare così velocemente e soprattutto come facciano

I costi a rimanere così bassi. L’invisibilità del lavoro che sta dietro al funzionamento della piattaforma facilita la permanenza di condizioni lavorative ai limiti del legale, e rende queste aziende più attrattive agli occhi degli investitori perché permette loro di presentarsi come start-up tecnologiche – e dunque, in teoria, innovative – piuttosto che come semplici intermediari di lavoro che estraggono profitti tramite meccanismi vecchi quanto il capitalismo stesso: l’intensificazione dei ritmi lavorativi e il ribasso dei salari.

L’invito dei rider di Foodora a boicottare la piattaforma in supporto alla loro protesta é dunque particolarmente efficace perché chiama in causa anche i consumatori come parte complice, e forza il lavoro invisibile a essere riconosciuto. In questo senso, ancora una volta, il fatto che i lavoratori di Foodora si possano vedere ed essere visti fisicamente aiuta a dare forza alla loro protesta.

Ed ora?

La protesta dei lavoratori e le lavoratrici di Foodora ha giustamente suscitato molto interesse, anche perché i lavoratori della gig economy sono spesso considerati ‘inorganizzabili’ a causa della frammentazione e del carattere transitorio della forza lavoro. Va sottolineato che il lavoratore tipo di questa azienda è solitamente alle prime esperienze lavorative.

La paga bassa e le condizioni di estrema precarietà fanno sì che la percezione sia quella di aver poco da perdere: come ha dichiarato un altro intervistato, «c’è un punto di non ritorno passato il quale la ritorsione non è più efficace». Non va quindi sottovalutata l’importanza di questa mobilitazione, anche per l’oggettivo elemento di novità. Secondo un articolo di Wired il settore del food delivery in Italia vale ad oggi 400 milioni di euro, con altre aziende come Deliveroo o Just Eat presenti oltre a Foodora. Non è quindi da escludersi che sull’onda della protesta di Torino le lotte per le rivendicazioni salariali si allarghino anche ad altre aziende e altre città.

Come nel caso inglese, dove i sindacati di base UWGB e UWW hanno giocato un ruolo importante per dare alla lotta una rivendicazione collettiva, e in maniera simile alle lotte nei magazzini della logistica a Piacenza e oltre, è probabile che anche in questa situazione sarà importante l’intervento delle forze sindacali. Anche nel caso di Foodora, come già nel settore della logistica, i sindacati confederali sembrano giocare un ruolo minore, probabilmente per la diffidenza da parte di una componente giovane e precaria e le difficoltà nell’organizzare i lavoratori in assenza di canali tradizionali di intermediazione.

Ma qualsiasi sia la forza sindacale che si occuperà della questione, il punto su cui impostare la lotta è l’oggettivo elemento di rigidità del sistema: che servono (ancora) lavoratori umani per far arrivare le merci ai consumatori e realizzare il loro valore, e senza di essi Foodora o Deliveroo non possono esistere. Dare visibilità a questi lavoratori e facilitare la loro organizzazione collettiva, superando l’individualizzazione del rapporto di lavoro facilitata dalla piattaforma digitale, rappresenta la chiave di volta per costruire una mobilitazione a lungo termine che non rimanga soltanto un fuoco di paglia.

E forse l’indignazione collettiva del pubblico italiano nei confronti della vicenda Foodora può costituire un punto di partenza per mettere finalmente in discussione in maniera più fondamentale il modello di mercato del lavoro italiano, in cui la precarietà é all’ordine del giorno, anche quando non gestita tramite una app.

Il manifesto, 11 ottobre 2016 (p.d.)

Ogni mese 640 mila italiani possono prendere la loro pensione grazie agli 11 miliardi di euro di contributi pagati ogni anno dai due milioni di lavoratori stranieri occupati regolarmente nel nostro paese. Contributi ai quali vanno aggiunti anche 7 miliardi euro di Irpef. Ma non basta: le oltre 550 mila imprese straniere presenti in Italia producono 96 miliardi di euro all’anno di valore aggiunto. A rivelarlo, smentendo così tanti luoghi comuni sugli immigrati, è uno studio condotto dalla fondazione Moressa dedicato a «L’impatto fiscale dell’immigrazione» secondo il quale complessivamente «gli stranieri che lavorano in Italia producono 127 miliardi di ricchezza, paragonabile al fatturato del gruppo Fiat». In cambio la spesa dedicata agli immigrati è apri al 2% della spesa pubblica italiana (15 miliardi di euro)
«Nel nostro Paese l’immigrazione è sempre più importante», sostiene il dossier. «Per mantenere i benefici attuali anche nel lungo periodo sarà necessario aumentare la produttività degli stranieri, non relegandoli a basse professioni».

Dal punto di vista demografico «nel 2015 gli italiani in età lavorativa rappresentano il 63,2%, mentre tra gli stranieri la quota raggiunge il 78,1%» anche se nella maggior parte dei casi si tratta di lavori a basa qualifica. A livello di singoli settori di attività economica, la presenza degli immigrati è concentrata nel comparto del commercio (oltre 200mila imprese su 550mila totali a guida straniera). Seguono le costruzioni. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, invece, la maggior parte dei lavoratori stranieri risiede in Lombardia, anche se non mancano presenze significative nel lazio in Emilia Romagna e in Veneto. Romani, Albania e Marocco sono i paesi di origine maggiormente rappresentati.

I lavoratori stranieri rappresentano una realtà importante già oggi per l’economia italiana e destinata ad assumerne un peso sempre maggiore in futuro. Utilizzando i dati della fondazione Moressa, la Cisl ha calcolato che nel 2013, tra soli 15 anni, il numero dei lavoratori stranieri sarà raddoppiato, passando dagli attuali 2 milioni (pari al 10% del totale) a 4 milioni del 2013 (18% del totale), con un contributo al Pil che salirà dall’attuale 9% al 15%. Nel complesso, con gli attuali flussi migratori, nello stesso periodo gli immigrati sulla popolazione totale italiana aumenteranno dal 8,2% del 2015 al 14,6% di cui il 21,7% nella fascia 0/14 anni ed il 17,4% nella fascia 15/64 anni.
Sempre secondo la Cisl dei 2.294.000 attualmente immigrati nel nostro Paese con un regolare contratto di lavoro, 1.238.000 sono uomini ed 1.056.000 donne, occupati al 70% come operai, con un reddito che, per il 40% degli occupati, è inferiore agli 800 euro mensili.

Infine le richieste di asilo, che nel 2015 sono aumentate passando da 626.960 a 1.321.600, (+110,8%) nell’Unione europea. L’Italia riceve prevalentemente profughi africani che seguono la rotta centrale (dal Camerun, dalla Nigeria, dal Niger, dalla Repubblica Centrafricana ai porti libici di Zawra, Zwiya, Tripoli, Sabrata o cirenaici di Bengasi dai quali si imbarcano per Lampedusa) e la rotta orientale che arriva, a sua volta ai porti libici e cirenaici ed alla Sicilia partendo dal Corno d’Africa (Uganda, Kenya, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan, Sud Sudan). La rotta occidentale, che attinge al bacino territoriale compreso fra Senegal, Guinea e Mali attraversa la Mauritania ed il Marocco, arriva, come destinazione prevalente, in Spagna.

Internazionale online, 8 ottobre 2016

Dovendo scegliere se lasciare l’azienda fondata da papà Aurelio cinquant’anni fa nelle mani di avventurieri americani e cinesi o provare a riprendersela insieme ai dipendenti, Lorenzo Onofri non ha avuto dubbi. Ha scelto la strada apparentemente più impervia, quella di affidare la fabbrica agli operai, aiutandoli a recuperarla, e da appena un mese è il presidente della neonata cooperativa Stile, un acronimo che recupera il nome dell’azienda fondata nel 1965 da suo padre: Società Tiberina legnami.

È una storia lunga più di un secolo, quella della sua famiglia e dei loro soci, i Colcelli, cominciata alla fine dell’ottocento con la produzione di legna da ardere e culminata nell’apertura di una fabbrica specializzata nella produzione di pavimenti in legno. I parquet di Città di Castello nel tempo sono diventati un’eccellenza del cosiddetto made in Italy e gli affari fino alla prima decade del nuovo millennio sono andati a gonfie vele. Nel 2014, però, dopo la morte di Aurelio Onofri e soprattutto a causa del crollo del mercato dell’edilizia, la Tiberina legnami si è trovata in difficoltà, al punto da essere costretta ad avviare una procedura di concordato preventivo per evitare il fallimento giudiziario.

Per provare a risollevarla con capitali freschi, Lorenzo Onofri si è messo alla ricerca di investitori internazionali, riuscendo a mettere in piedi una “compagine straniera”, composta di statunitensi e cinesi, che si è presentata con un piano di rilancio che prevedeva una forte espansione sui mercati europei e mondiali. Con loro aveva costituito una nuova società, la Anbo-Stile, che aveva affittato l’azienda dal liquidatore giudiziale, evitando la chiusura dello stabilimento.

Cinesi, americani e umbri

Ma ben presto i nuovi padroni hanno rivelato il loro vero volto: “Volevano solo svuotare il nostro magazzino, lasciandoci il cadavere dello stabilimento”, ristrutturato con sistemi all’avanguardia dalla vecchia azienda quando ancora le cose andavano bene, poco prima del crac di Lehman Brothers che aveva fatto esplodere la crisi economica.

«Purtroppo, non tutti i dipendenti mi hanno creduto, perché pensavano che fosse una manovra architettata da me per riprendermi l’azienda», spiega oggi Onofri. Ne è nato un “lungo dibattito” all’interno della fabbrica tra gli scettici e chi invece aveva capito che la ex Tiberina legnami sarebbe stata solo spolpata e abbandonata.

I fatti hanno dato ragione ai secondi. All’inizio del 2016 la situazione è precipitata. L’amministratore delegato si è improvvisamente dimesso, gli stipendi hanno cominciato a tardare e così gli altri pagamenti. I sindacati hanno chiesto a più riprese incontri alla proprietà per conoscere il piano industriale, ma inutilmente. A giugno i lavoratori sono entrati in sciopero e la vecchia società Tiberina legnami fondata da Aurelio Onofri ne ha approfittato per chiedere al tribunale di Perugia la revoca dell’affitto all’Anbo-Stile per «gravi inadempienze nel pagamento dei canoni di affitto e delle merci prelevate».

I magistrati gli hanno dato ragione e il 20 giugno hanno deciso di riconsegnare le chiavi dello stabilimento ai vecchi proprietari, che però non avevano i mezzi economici per proseguire.

A questo punto i lavoratori si sono trovati di fronte a un bivio: in piena estate si è consumato lo scontro tra chi era disposto a rischiare il tutto per tutto, «a qualunque costo», provando a recuperare la fabbrica rischiando in prima persona, e chi invece, «per formazione o per interessi diversi», avrebbe auspicato la ricerca di un altro padrone. Alla fine, in venti hanno abbandonato e altrettanti hanno deciso di proseguire. Per non rimanere chiusi troppo a lungo e pregiudicare il riavvio, gli ex operai della Tiberina legnami si sono mossi contemporaneamente su più fronti.

Hanno costituito in tutta fretta una cooperativa, la Stile, che ha chiesto al liquidatore giudiziale di poter affittare l’azienda. Nello stesso tempo, si sono messi alla ricerca dei soldi. Hanno bussato alle porte degli istituti di credito, ottenendo un prestito da Banca Etica, che ha anticipato le liquidazioni.

Sono andati al ministero per lo sviluppo economico, che ha garantito un finanziamento del fondo Cfi (Cooperazione finanza impresa), istituito dalla legge Marcora del 1984 per sostenere il recupero delle fabbriche da parte dei lavoratori, già sospeso dopo una sentenza europea che lo considerava “aiuto di stato” e poi ripristinato grazie ad alcune modifiche (sostanzialmente la concessione a fondo perduto è stata trasformata nell’anticipazione delle indennità di disoccupazione).

Dalla Cuin factory a Fenix Pharma

Infine, si sono rivolti alla Legacoop, che li ha sostenuti attraverso Coopfond, un fondo destinato ai lavoratori che costituiscono una cooperativa per rilevare un’impresa e alimentato con il 3 per cento degli utili di tutti gli iscritti.

Nel giro di un mese, la Tiberina legnami, dopo l’infelice parentesi sinoamericana, si è rimessa in moto, andando ad aggiungersi alle 252 fabbriche recuperate censite in tutta Italia dall’Euricse, l’Istituto europeo di ricerca sull’impresa cooperativa e sociale. Con una particolarità: la Stile è il primo caso in cui è stato recuperato pure il padrone.

Non si tratta di una prima assoluta: già in Spagna il proprietario della Cuin factory, una fabbrica di mobili di Vilanova i la Geltrú, vicino Barcellona, per evitare la chiusura aveva accettato l’offerta dei suoi ex dipendenti di lavorare con loro, accettando una retribuzione di 900 euro al mese.

Sono ripartiti da dove avevano lasciato, sfornando un farmaco contro l’osteoporosi

In Italia, invece, c’è un altro caso atipico, dove il workers buyout non l’hanno realizzato degli operai in tuta blu bensì ex manager di una multinazionale. Si tratta della FenixPharma, una compagnia farmaceutica nata a Roma dalle ceneri della Warner Chilcott. A fondarla sono stati cinque ex manager licenziati da quest’ultima.

Salvatore Manfredi, che ho incontrato nella sede della prima cooperativa farmaceutica d’Italia, nel quartiere Laurentino di Roma, era il responsabile delle vendite quando facevano capo alla Procter&Gamble. Il giorno in cui l’azienda è stata ceduta alla Warner Chilcott ha capito che era l’inizio della fine e ha lasciato, andando a lavorare per un’altra compagnia.

«Era tutto pianificato dall’inizio: appena rientrati dall’investimento e dopo essersi divisi una discreta torta di stock option, i manager della big company d’oltreoceano hanno chiuso e venduto la licenza del farmaco, senza curarsi di lasciare per strada 550 persone in tutta Europa, 151 delle quali solo in Italia», racconta.

Quando gli americani hanno deciso di dismettere le attività in Europa, dopo appena tre mesi, perché il brevetto del farmaco contro l’osteoporosi che assicurava loro guadagni molto forti stava scadendo, Manfredi è tornato sui suoi passi, decidendo con un pugno di colleghi di sfidare i colossi di big pharma.

In cinque, riunendosi puntualmente in un bar della Montagnola, nella periferia sud della capitale, hanno messo in piedi un piano industriale e l’hanno sottoposto agli ex dipendenti, convincendoli a riprovarci tutti insieme. Poi hanno cominciato a cercare fondi, a contattare le banche per avere prestiti e mutui, a negoziare licenze e brevetti.

Dice Manfredi: «Abbiamo scelto la forma cooperativa perché ci piaceva uscire dalle logiche che avevamo conosciuto fino ad allora e nelle quali eravamo rimasti immersi per anni, dove il lavoro è solo un fattore della produzione che si può cancellare quando i profitti attesi non sono quelli sperati, senza tenere in considerazione i drammi personali e delle famiglie». Sono ripartiti da dove avevano lasciato, sfornando un farmaco contro l’osteoporosi.

Un modello che funziona

La prima tranche della licenza per la commercializzazione del medicinale, di 240mila euro, l’hanno pagata investendo le loro liquidazioni: 25mila euro a testa i cinque della Montagnola, diecimila gli altri settanta lavoratori. Poi sono arrivati i soldi di Coopfond, che è entrato nel capitale sociale di Fenix Pharma con 300mila euro, e quelli di Cfi, che ha dato 200mila euro più altri centomila di obbligazioni convertibili.

Grazie alle garanzie fornite da Legacoop e altre individuali hanno avuto inoltre un mutuo da Banca Intesa e un altro da Cooperfidi, l’organismo nazionale di garanzia della cooperazione al quale partecipa l’Alleanza delle cooperative italiane. Inoltre, ogni socio ha fatto un prestito sociale da dieci o quindicimila euro, vincolando i soldi per due anni in cambio di un piccolo dividendo.

Nonostante le difficoltà nel rilevare e far ripartire uno stabilimento chiuso, quello dei workers buyout, come sono definiti i salvataggi operati dai lavoratori che acquistano il loro luogo di lavoro, è un fenomeno in costante crescita, soprattutto nelle regioni del centronord: tra Emilia-Romagna, Toscana e Veneto, regioni dove il movimento cooperativo è tradizionalmente forte, si trova il 76 per cento delle imprese recuperate.

Dai dati dell’Euricse emerge un modello che funziona: il tasso di sopravvivenza medio di un’azienda senza padroni è di 13 anni, contro i 13,5 di un’impresa tradizionale e i 17 di una cooperativa che parte ex novo. Di quelle che hanno riaperto negli ultimi anni, l’86 per cento ha avuto successo, nella metà dei casi innovando la produzione e aumentando il fatturato rispetto alla vecchia società. Per questo i ricercatori europei la considerano una “misura anticiclica”, vale a dire capace di invertire il ciclo economico, creando posti di lavoro laddove si vanno perdendo e facendo aumentare il prodotto interno lordo quando è in discesa.

Nello stabilimento di Città di Castello appena riaperto, Lorenzo Onofri lo sta sperimentando sulla sua pelle: se non ci fossero stati i suoi ex dipendenti, l’eredità di famiglia con ogni probabilità sarebbe andata dispersa. Sostiene che «il passaggio culturale da padrone a socio-lavoratore» non è stato per lui «un grande trauma», a dispetto di quello che si potrebbe immaginare, perché «la Tiberina legnami è sempre stata una fabbrica atipica, nella quale non esistevano gerarchie precise e c’era un rapporto molto amichevole tra la proprietà e i dipendenti».

Piuttosto, si lamenta dei «muri di gomma» contro i quali si sono scontrati per poter riprendere a lavorare: la freddezza e a volte l’ostilità dei sindacati «che hanno scoraggiato i lavoratori» e «ci hanno tagliato le gambe in ogni modo», le porte chiuse delle banche, le risposte poco chiare delle istituzioni, una burocrazia «troppo complessa», fatta di funzionari che «non conoscono le procedure» e di «competenze che si sovrappongono».

Dalla nuovissima sede al Laurentino, Salvatore Manfredi è fiero di ciò che ha fatto: avrebbe potuto agevolmente lavorare per una grande compagnia, ma ha preferito mettersi insieme ai suoi ex colleghi, «pur sapendo che mettevo a rischio la famiglia e che avevo un mutuo da pagare». Dice di aver seguito l’istinto: voleva costruire un’azienda su altre basi, dando «centralità al lavoro e alle persone, quello che mancava quando eravamo dipendenti degli americani».

Al modello delle big companies, dove tutto viene deciso in luoghi inaccessibili dall’altra parte del mondo, contrappongono la gestione collettiva. La sfida si può considerare vinta: la Fenix Pharma commercializza diversi tipi di farmaci e ha una linea di integratori alimentari, fattura sei milioni di euro all’anno e chiude i bilanci in attivo. Il loro slogan è: «Multinazionali? Se le conosci, le eviti».

«Il rapporto 2015: in 107mila via dall’Italia».

Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2016 (p.d.)

Il grave problema dell’Italia, oggi, è l’incapacità di evitare il depauperamento dei giovani e dei più preparati a favore di altri Paesi”: il succo del rapporto Migrantes Italiani nel Mondo, presentato ieri a Roma, è nell'introduzione dello studio. Gli espatriati aumentano, sono stati 107mila nel 2015, e vanno via soprattutto gli under 35 più preparati, insieme a una buona fetta d’età compresa tra 35 e 49 anni. Forza lavoro qualificata, che emigra soprattutto perché in Italia i salari sono più bassi.

A Milano, qualche giorno fa, in una brochure per gli investitori esteri (con logo del ministero dello Sviluppo economico) si leggeva che “un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi ha una retribuzione media di 48.500” e che più in generale “i costi del lavoro in Italia sono al di sotto dei competitor”. E ancora, che “la crescita del costo del lavoro nel 2012-14 è stata la più bassa dell’Eurozona”.

I dati. I numeri della Fondazione Migrantes vengono soprattutto dall’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire): in un anno, hanno lasciato l’Italia 39.410 giovani tra i 18 e i 34 anni – 6.232 in più rispetto al 2014 – pari al 37 per cento circa del totale. Non vanno via dall’Europa (gli spostamenti intercontinentali sono costanti e, in alcuni casi, in lieve diminuzione) ma migrano soprattutto verso la Germania (16.568), il Regno Unito (16.503) e la Svizzera (11.441). Restano in Europa. E se chi ha meno di 35 anni si sposta a seconda delle opportunità, la fascia 35-49 anni (il 25,8% del totale) lo fa con un progetto di vita. Aumenta, poi, l’emigrazione dal Nord Italia. “Pur restando indiscutibilmente primaria l’origine meridionale dei flussi – si legge – si sta progressivamente assistendo a un abbassamento dei valori percentuali del Sud a favore di quelli del Nord”. Lombardia e Veneto prima di tutto. Totale: a gennaio, gli italiani residenti all’estero erano più di 4,8 milioni, il 3,7%in più rispetto al 2014, +54,9% rispetto al 2006. Peggio dell’Italia fa solo la Spagna, dove in dieci anni l’incremento è stato del 155,2%.

La globalizzazione non è una spiegazione sufficiente. “Oggi il fenomeno degli italiani migranti ha caratteristiche e motivazioni diverse rispetto al passato – ha detto ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella –. Un segno di impoverimento piuttosto che
una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze”.

“Sono dati che non stupiscono – spiega al Fatto Ugo Fratesi, docente di Economia regionale al Politecnico di Milano, studioso degli effetti delle migrazioni sui differenziali economici tra regioni – e che mostrano un cambiamento rispetto alle migrazioni del Dopoguerra e del periodo pre-crisi”. Il dato più evidente è che ci si sposta all’estero da tutte le regioni, non più solo dal sud. “Pur considerando che la Lombardia è la regione più popolosa d’Italia, è comunque significativa l’inversione del trend. Segnala che il ruolo di assorbimento che il nord Italia svolgeva prima della crisi economica è svanito”.

Chi va via è giovane e ha un titolo di studio medio-alto: la fuoriuscita di persone qualificate impoverisce il Paese di capitale umano, portando con sé anche l’investimento fatto su di loro dalla collettività (attraverso l’istruzione pubblica, ad esempio). Sempre più gente emigra, mentre il numero di chi rientra in Italia è rimasto lo stesso negli ultimi dieci anni. “Bisogna capire se queste persone emigrano per sempre o se rientreranno – dice Fratesi – Perché questa perdita di capitale umano potrebbe non danneggiarci del tutto in futuro, a patto che queste persone mantengano rapporti con l'Italia e che magari rientrino portandosi dietro esperienze e network di relazioni”.

In questo contesto, c’è chi ne trae beneficio, Germania su tutti. I programmi speciali del governo tedesco per la “Promozione della mobilità dei giovani stranieri interessati alla formazione professionale” – spesso pagati con fondi Ue – non sono un investimento a fondo perduto,ma una strategia precisa. Corsi teorico-pratici di almeno tre anni, l’insegnamento del tedesco, stipendi di 800 euro al mese nel periodo di formazione. Senza contare che gli ultimi dati demografici sulla Germania, confermati anche dall’Istituto tedesco di studi demografici, parlano di più di 64 milioni di morti previsti nel prossimo mezzo secolo e meno di 40 milioni di nascite. Berlino ha quindi un bisogno disperato di forza lavoro per evitare una crisi demografica.

“Per quanto riguarda i salari – spiega Fratesi – bisogna invece ragionare non tanto sul loro livello medio, quanto sul differenziale relativo a certi tipi di qualifiche”. In pratica, la ricercadi migliori opportunità in altri Paesi dà vantaggi economici soprattutto alle persone più qualificate e per le quali, come mostra la letteratura scientifica, è anche più facile inserirsi in contesti diversi. La moneta unica poi, non aiuta. “Un’area monetaria che non è ottimale – spiega Fratesi – cioè formata da economie che funzionano in modo diverso e hanno diversi livelli di inflazione, non rende possibile recuperare competitività con la normale svalutazione del cambio”. Quindi si svaluta il lavoro. “Non c’è una relazione diretta col fenomeno migratorio ma contribuisce a spiegare perché sono più bassi e non stanno crescendo”.

«». connessioni precarie, 4 ottobre 2016 (c.m.c.)

Dobbiamo ammetterlo, questa volta il governo ci ha colto di sorpresa pubblicando un dis∫ocial di sua spontanea volontà, dimostrando di non avere ormai nemmeno l’ambizione di assumere le più vaghe sembianze di uno Stato orientato al benessere. Ci riferiamo al recente opuscolo diffuso dal sito investinitaly.com – il portale dell’ICE, l’agenzia per la promozione all’estero e l’internalizzazione delle imprese italiane, in cui compare il logo del Ministero dello Sviluppo Economico – e distribuito a Milano durante la presentazione del piano nazionale Industria 4.0, in cui il governo sfodera tutte le sue migliori carte al fine di attirare capitali e investimenti esteri. Ma quali carte?

Beh, nel mondo c’è chi può garantirsi un posto tra i grandi competitors globali attraverso dei primati tradizionali come le risorse in materie prime, la strategicità della propria posizione geografica, la produzione di sapere, o addirittura puntando sull’innovazione.

Allora l’Italia ha dovuto necessariamente trovare degli altri punti di forza, solidi e credibili, per far sì che i capitali del mondo possano intravedere nella penisola degli scorci di «investibilità» al di là di quella serie di catapecchie romane di cui siamo in possesso e che, lo sanno tutti, non serve proprio a nulla se non a impedire di costruire metropolitane più efficienti e ponti sugli stretti. Non è quella la grande bellezza!

Per fortuna però abbiamo una peculiarità dai tratti imbattibili, siamo un popolo in balia della miseria economica e della precarizzazione crescente, allora perché non smettere di pensare che sia un problema ed elevarlo invece a pregio? Il governo giura che da noi un ingegnere guadagna mediamente 38.500 € l’anno contro i 50.000 € della media europea… Una grande occasione! Se pensavate che impoverire il famoso e famigerato ceto medio fosse un problema, non avevate capito niente. Sono gli altri, tutti quei paesi che stanno messi leggermente meglio e che pur precarizzando i lavoratori, gli danno degli aiuti sociali, che sono un po’ sfigati.

Siccome propinandoci il Jobs Act, ci avevano garantito che la precarietà sarebbe andata a nostro favore, che i voucher avrebbero fatto emergere il lavoro nero e altre amenità di questi generi, ora verrebbe da pensare che ci abbiano accuratamente indebolito a tal punto da far di questo male il nostro punto di forza. Grazie, non ci avevamo mai pensato. La prossima volta che ci proporranno un salario indecente, senza contratto e con un calcio in culo al posto del preavviso di licenziamento, sapremo di essere in realtà baciati dalla fortuna. Beh certo ora che siamo sempre più impoveriti possiamo dire finalmente che investire in India, Vietnam o in Italia sia ormai la stessa cosa.

Noi sì che ci teniamo all’uguaglianza globale delle condizioni. Potremmo dire, senza timore di sbagliarci, che è stata trovata una soluzione più che efficiente al problema della delocalizzazione della produzione delle merci: «mai più Taiwan, ora anche in Italia puoi pagarli come se fossero asiatici»!

D’altronde a Prato sono in corso da anni sperimentazioni in questa direzione. Ma evidentemente dire che siamo un popolo di poveri iperqualificati non è sufficiente, infatti gli investitori non sono scemi e guardano al futuro, non sia mai che subentrino dei diritti e delle rivendicazioni per ottenere migliori condizioni.

Così il governo, per chiudere una volta per tutte la partita con i futuri investitori, gli fa giustamente notare che non c’è alcun pericolo in vista, le condizioni dei nostri lavoratori non potranno che peggiorare, perché il costo del lavoro è aumentato negli ultimi anni in maniera di gran lunga inferiore rispetto al resto di Europa: +1,2% contro la media del +1,7% altrove. Diciamo pure che ce ne eravamo accorti.

Quando il costo del lavoro cresce lentamente, per chi lavora il prezzo di dover lavorare è molto alto. Se a tutto ciò aggiungiamo che un welfare degno di tale nome è ormai latitante da anni, quale miglior investimento della povera, misera, qualificata e sfruttabile Italia? Pensiamo si siano però dimenticati di vantarsi anche della presenza di migranti quotidianamente sfruttati nelle catene di produzione nazionali…ah già, sarebbero sembrati razzisti e crudeli e quello non va affatto bene. Forse così avrebbero rivelato uno degli ingredienti principali di un sistema che tende a precarizzare le persone dividendole in categorie di «sfruttabilità».

Tutto questo dovrebbe andare nel capitolo «valorizzazione del capitale umano». Ciò che si mostra, invece, è il lato volgarmente disumano del capitale, davanti al quale il governo vanta oltre ogni senso del ridicolo la sua politica pro-business. Purtroppo, tanto per ripetere una vecchia verità davanti a tante nuove idiozie, noi non siamo nel business, noi siamo il business.

«Happy birthday Cgil. Il sindacato compie 110 anni e deposita in Parlamento 1 milione e 150 mila firme a sostegno dello Statuto del lavoro 2.0. La sfida dei tre referendum su ticket, appalti e articolo 18».

Il manifesto, 30 settembre 2016 (c.m.c.)

L’antidoto al Jobs Act della Cgil è finalmente maturo: la Carta dei diritti universali del lavoro ha raccolto un milione e 150 mila firme e adesso approda in Parlamento. La segretaria Susanna Camusso ha consegnato ieri mattina gli scatoloni con le sottoscrizioni alla Presidente della Camera Laura Boldrini, proprio nel giorno del centodecimo compleanno del sindacato: la sfida, a questo punto, sarà quella di portare effettivamente alla discussione delle due Camere la proposta di legge di iniziativa popolare, evitando che come tante altre finisca in un cassetto.

La giornata della Cgil è proseguita poi in Piazza del Popolo, con la festa «Rosso vivo»: cantanti e artisti si sono esibiti per augurare happy birthday al maggior sindacato italiano. Susanna Camusso ha anche intonato «Bella ciao» insieme ai Modena City Ramblers e alla piazza, e molti si saranno chiesti se quella canzone sia in effetti in sintonia con questo governo, le sue leggi, ma anche con l’opposizione: fatta salva la sinistra, non certo con centrodestra e Lega, ma lo stesso dialogo con l’M5S è complicato se non assente. Più probabilmente avranno cantato con la Cgil i braccianti pugliesi, gli operatori dei call center, dei fast food e delle pulizie, i metalmeccanici e i lavoratori della logistica.

La Carta dei diritti universali riscrive in 97 articoli non solo il vecchio Statuto del 1970 – glorioso, ma sicuramente da ammodernare alla luce dei cambiamenti avvenuti negli ultimi 45 anni – ma soprattutto corregge le tante storture intervenute successivamente (ad esempio con la legge 30) dando spazio a due concetti fondamentali: uguaglianza e inclusione.

Il principio lo ha ricordato la stessa Camusso dal palco: «A qualsiasi categoria appartieni, qualsiasi contratto tu abbia, dovrai avere un corredo di diritti uguali per tutti in quanto lavoratore o lavoratrice». E la contrattazione, le leggi, dovranno «includere»: «Includere i tanti invisibili che un tempo avevano rapporti precari e oggi vengono impiegati in nero o con i voucher». Le parole «uguaglianza», «solidarietà», «che noi applichiamo oggi ai migranti e a chi chiede rifugio dalle guerre, dobbiamo farle vivere anche nel lavoro», spiega ancora la leader Cgil: messaggio che ormai senti pronunciato soltanto dal sindacato, perché al contrario la politica vive di distinguo, e spesso alza muri, gioca sulla disuguaglianza.

La Carta dei diritti è integrata da tre referendum – su voucher, appalti, e licenziamenti – che hanno raccolto 1,1 milioni di firme ciascuno: la consultazione potrebbe essere indetta già per la primavera 2017.

Nel suo discorso dal palco, Camusso non ha fatto gli auguri né a Silvio Berlusconi, né a Pierluigi Bersani, che come la Cgil ieri facevano il compleanno. Ha citato un’altra festeggiata: «Mafalda, la bimba dei fumetti, che ci guarda e dice No, che parla delle ferite di questo mondo. Le guerre e il bombardamento degli ospedali dove spesso ci sono bambini: dobbiamo avere il coraggio di opporci, di accogliere chi cerca rifugio in Europa, di dire no a chi vuole costruire muri».

Subito dopo la segretaria Cgil si è rivolta al governo, polemica: «Perché tra i tanti “più” che cita, dimentica il “più” registrato dai voucher? Lo vogliamo dire che è questa la nuova forma di sfruttamento, che ai giovani vengono proposti al posto di qualsiasi tipo di contratto, e che spesso vengono accoppiati al lavoro nero? E perché – ha proseguito, parlando idealmente al premier Renzi, al ministro Poletti – si dimenticano un altro “più”: l’aumento dei licenziamenti che è iniziato dal passato trimestre?».

Dall’altro lato la Cgil in questi giorni è al tavolo delle pensioni, è stata invitata di nuovo a concertare dopo circa due anni di black out: Camusso ha difeso il verbale sottoscritto con il governo e ha rilanciato, chiedendo che venga riconosciuto «il principio che i lavori non sono tutti uguali».

Tornando alla Carta dei diritti universali, la segretaria ha aggiunto di aver chiesto alla Presidente della Camera Boldrini «che la proposta di legge non rimanga chiusa in un cassetto». «È assurdo – ha spiegato – che in un paese democratico il Parlamento non discuta una proposta di legge sottoscritta da più di un milione e centomila persone».

La Cgil, dal canto suo, «quella proposta comincerà a farla vivere subito, nell’azione quotidiana e nella contrattazione». Equo compenso, tutele come la maternità, la malattia, i riposi, la salute e sicurezza sul lavoro. Ma anche la formazione permanente, il diritto di espressione e di partecipazione al sindacato. L’esigenza di una legge sulla rappresentanza e la democrazia, l’efficacia della contrattazione. Questi gli obiettivi della Carta, la materia dei suoi 97 articoli.

Senza dimenticare ovviamente i tre referendum, sfida ancora più complessa visto che ovviamente necessiteranno del quorum. «Dobbiamo convincere milioni di italiani a votare per il referendum – dice Camusso alla piazza – E potremo farlo se useremo una parola che sembra essere stata abolita: solidarietà».

«Il primo quesito – ricorda la segretaria della Cgil – riguarda i voucher». Il sindacato chiede di abolirli completamente, perché «sono la nuova grande malattia della precarietà del nostro Paese». Il secondo vuole riordinare gli appalti, «assegnando la responsabilità in capo alla committenza: perché non si può essere sempre sospesi, aspettando la nuova gara al massimo ribasso, sperando che ti assegnino le stesse ore e che magari i tuoi contributi e la tua retribuzione non spariscano insieme a qualche imprenditore truffaldino».

Infine, il terzo quesito, quello sui licenziamenti, e che più direttamente va a impattare con (anzi sarebbe meglio dire: contro) il Jobs Act di Renzi. «Ci dicono che siamo vecchi, e in effetti abbiamo 110 anni, ma non credo che sia vecchio voler ridare dignità e tutela a chi lavora. Puntiamo a un nuovo articolo 18 e a reintrodurre le garanzie per i licenziamenti collettivi».

«Rivendicazioni europee è l’unico modo per scardinare la falsa alternativa tra europeisti e antieuropeisti, che sono accomunati in realtà dalla condivisione del progetto neoliberale di comando sul lavoro».

connessioniprecarie online, 30 settembre 2016 (c.m.c.)

Sul fronte orientale non c’è niente di nuovo. L’opposizione dei paesi dell’est al migration compact mostra che il tentativo di risolvere la crisi centralizzando la decisione politica all’interno dell’Unione è fallito prima ancora di nascere. Anche a ovest d’altra parte l’austerità continua a essere affermata come la pietra angolare del governo dell’Unione, sebbene i singoli Stati stiano progressivamente forzandone i confini. Anche qui niente di nuovo, si potrebbe dire: a est come a ovest i confini dell’Unione sono continuamente violati.

L’Unione europea non è quel Moloch unitario che alcuni immaginano e che essa stessa pretende di rappresentare. Le crepe della sua disgregazione sono le stesse che migranti, precarie e operai cercano quotidianamente di allargare per garantirsi una vita migliore. Tanto per Bruxelles quanto per i singoli Stati, però, il governo dell’austerità e quello della mobilità sono due facce della stessa medaglia. Mentre la Commissione cerca di imporre un sistema coordinato per tutta l’UE, gli Stati mettono in scena uno scontro che non intacca il governo neoliberale dell’Unione.

Questo gioco delle parti è ormai parte integrante della costituzione materiale dell’Europa e dei suoi Stati e, anche laddove la sovranità nazionale è invocata a viva voce, il dispotismo del capitale è imposto attraverso il predominio incontrastato degli esecutivi. È ormai chiaro che la presunta difesa delle prerogative sovrane non è che un’articolazione delle politiche di austerità, il cui prezzo viene costantemente pagato da precarie, operai e migranti. È quindi illusorio pensare che, in Italia come altrove, questo predominio e quel dispotismo possano essere rovesciati dando una spallata al governo attraverso un referendum, un’elezione o una manifestazione stagionale.

L’Europa è il campo di contesa sul quale far valere la pretesa di libertà e l’insubordinazione allo sfruttamento praticate dalle precarie, dagli operai e dai migranti che ogni giorno attraversano il suo spazio con i loro movimenti. L’Europa è il terreno minimo sul quale praticare una prospettiva politica transnazionale. Ciò lascia tuttavia aperto il difficile problema di comprendere quale sia la scala della nostra iniziativa politica, a partire dalla consapevolezza che non è possibile contrapporre il piano transnazionale e quello territoriale: mentre fermarsi al primo finisce per essere un esercizio politicamente sterile, puntare solo sul secondo ci condanna all’impotenza.

Partiamo allora da un fatto: la dimensione transnazionale è già presente nel locale e riconfigura radicalmente le sue coordinate, tanto dal punto di vista materiale quanto da quello istituzionale. L’iniziativa transnazionale, perciò, non può più essere concepita come il risultato di una messa in rete, federazione o coalizione di differenti esperienze radicate sui territori, perché ogni territorio è attraversato da poteri sociali che si muovono attraverso i confini e che continuamente li producono e riproducono.

Come dimostrano le lotte dei migranti nella logistica, anche conflitti apparentemente radicati sul territorio riguardano linee di comando e organizzazione del lavoro transnazionali e coinvolgono una forza lavoro mobile che non può più essere identificata secondo i criteri della cittadinanza. Le stesse città, sulle quali investono le ipotesi di «nuovo municipalismo», sono parte di uno spazio metropolitano che non coincide con quello municipale ma lo determina.

Metropolitano è lo spazio della produzione e riproduzione sociale, creato dalla connessione logistica tra hub di servizio e zone industriali poste anche a migliaia di chilometri di distanza e nel quale le direttive dell’Unione, mediate dai singoli Stati, ricadono, determinando le condizioni politiche dello sfruttamento. Lo spazio metropolitano è organizzato da regimi giuridici che connettono ogni singola azione amministrativa locale alle politiche neoliberali europee, alla direzione finanziaria impartita dall’Unione e alle strettoie del suo governo della mobilità in modo funzionale al dominio del capitale globale.

Basta leggere in che modo le linee di finanziamento europee parlano della governance delle città per capire che essa è costituita da assetti di governo che si confondono con le zone di scambio e sono connessi con altre «regioni metropolitane» o «zone urbane», che costituiscono le basi dello sviluppo economico in quanto capaci di unire tutti i livelli della catena produttiva: dalla scuola all’Università alla fabbrica, passando per i nuovi centri delle reti logistiche.

La metropoli è in questo senso uno spazio post-coloniale, non per gli effetti persistenti di una passata dominazione, ma perché è governata secondo criteri coloniali di efficienza, differenziazione e gerarchizzazione per via amministrativa divenuti ormai globali. Questo governo dello spazio metropolitano si serve delle istituzioni municipali incatenandole a uno Stato che non si rivolge a tutti i cittadini allo stesso modo, ma governa e reprime i loro movimenti con diverse intensità, combinando l’azione assistenziale o coattiva dei servizi sociali all’esercizio della forza armata nelle periferie.

Lo spazio metropolitano, allora, comincia là dove la cittadinanza è destrutturata, dove la precarietà si manifesta come mobilità, frammentazione e gerarchia mettendo radicalmente in questione le forme tradizionali dell’organizzazione e dell’iniziativa politica, da quella sindacale a quella elettorale.

Questa configurazione impone di ripensare il modo in cui la città può essere oggi l’orizzonte di riferimento di un’iniziativa politica alla luce di due diversi ordini di problemi. Il primo ha a che fare con la reale capacità di azione delle istituzioni municipali in relazione tanto allo Stato, quanto all’Unione quanto, infine, alle dinamiche transnazionali che attraversano lo spazio metropolitano in cui le città sono inserite, in modi anche molto diversi l’una dall’altra.

Questa differenza è qualcosa con cui è necessario fare i conti, per non istituire modelli ideali che, come nel caso di Barcellona, sembrano semmai segnalare l’originalità, ma anche la specificità di un’esperienza. Il secondo ordine di problemi riguarda invece la capacità di fare della città uno spazio di organizzazione, senza per questo rivolgersi a un indeterminato pubblico dei «cittadini», unito da improbabili bisogni comuni, dall’essere l’oggetto complessivo e il destinatario universale di una medesima amministrazione o da una generica volontà di partecipazione attiva nei processi di decisione che dovrebbe coinvolgere anche chi non ha la cittadinanza.

Questo modo di guardare alla città non avrebbe nulla di particolarmente nuovo. Per non limitarsi a una pratica di lobbismo pre-elettorale, magari anche utile nel breve periodo ma di incerta e improbabile prospettiva, una politica nella città deve necessariamente offrire alle figure irriducibilmente diverse del lavoro vivo contemporaneo la possibilità di riconoscersi, non in nome di un’identità etnica o etica già condivisa o di una presunta tradizione ribelle, ma in vista di un progetto comune di insubordinazione, emancipazione e lotta.

Il municipalismo può essere nuovo se è all’altezza dell’orizzonte metropolitano e dunque transnazionale in cui si costituisce la città. Ciò significa che la ribellione non può consistere nella ricostruzione localizzata di una comunità andata in frantumi, né si può risolvere mettendo in rete sul piano europeo le esperienze esistenti: la città deve diventare il fulcro di un processo di sollevazione del lavoro vivo che, anche per consolidare la sua forza e le sue conquiste sul piano istituzionale, deve essere in grado di interrompere i momenti della produzione e riproduzione sociale che organizzano lo spazio metropolitano a partire da un progetto politico che ne riconosca la dimensione già globale e offra a quella sollevazione la sua infrastruttura logistica.

Riconoscere il modo in cui la dimensione transnazionale ridetermina quella locale significa allora rovesciare l’ordine delle priorità: non si tratta di partire dal locale per arrivare al transnazionale, secondo un movimento progressivo di accumulazione di esperienze o attraverso una messa in rete e coalizione dell’esistente, ma di collocare ogni iniziativa locale in quell’orizzonte transnazionale capace di conferirle forza espansiva.

DIEM 25 sembra avere compreso la necessità di questo rovesciamento, perché assume l’Europa come propria dimensione specifica aggirando, almeno a parole, l’idea di una federazione internazionale di partiti o movimenti nazionali. Ciò dovrebbe spiegare la polemica di Varoufakis contro il «sovranismo» e le proposte di uscita a sinistra dall’Unione. Al di là della singolare scelta di assumere il sig. Fassina Stefano quale interlocutore, ciò che conta è la registrazione che la sovranità degli Stati è ormai radicalmente riconfigurata dal piano transnazionale entro il quale essa agisce.

Come nel caso delle città, criticare l’idea di una sovranità di sinistra non è semplice materia di dibattito politico e teorico, ma riguarda le forme pratiche di organizzazione del conflitto e i soggetti che le praticano e che trovano in esse espressione. Sino a oggi, per DIEM il riferimento privilegiato sono i cittadini europei delusi dall’Unione. Ma i cittadini sono tali perché c’è una sovranità, così come l’idea di costruire un demos europeo è una prospettiva di riattivazione della sovranità, non la sua critica. Anche dando per scontata la praticabilità delle campagne di disobbedienza civile e governamentale degli Stati, delle regioni o dei municipi, il problema qui si presenta rovesciato e non sembra cogliere ciò su cui insistiamo, ovvero che il transnazionale non è un piano a sé stante, ma è già nel locale e nel territoriale.

Promuovere la disobbedienza degli Stati, o delle regioni e dei municipi nei confronti del comando dell’Unione replica l’idea di un assetto istituzionale in cui questi diversi livelli sono chiaramente distinguibili e relativamente autonomi e possono essere utilizzati uno contro l’altro a seconda delle occasioni. I processi elettorali possono essere certamente spazi di mobilitazione e quindi di soggettivazione, anche importanti, ma non si può affidare loro il compito di resistere alle dinamiche del capitale globale.

Non si tratta solo del carattere ovviamente limitato delle decisioni che possono essere prese tramite elezioni, che è certamente evidente a tutti. Si tratta piuttosto dell’implicita delimitazione del campo di azione e della difficoltà di connettere produttivamente i movimenti del lavoro vivo con la gestione quotidiana degli eventuali risultati elettorali in assenza di un’organizzazione in grado di mantenere quella connessione nel tempo.

Da tempo le elezioni non sono più un esercizio di democrazia. Quando va bene, esse possono essere un momento di lotta dentro e contro il sistema democratico di dominio. La democrazia è certamente un problema urgente: mentre a est sempre più paesi stanno abbandonando procedure democratiche ed erodendo spazi di libertà, tanto formale quanto sostanziale, in ogni punto d’Europa la dinamica dell’inclusione è stata sostituita da una produzione di differenze e gerarchie che servono a irreggimentare il comando capitalistico.

La risposta a questo processo non può tuttavia coincidere con una larga intesa degli scontenti e una coalizione di militanti non allineati, reclutati all’occorrenza anche tra le fila di fantomatici «conservatori progressisti». Allo stesso modo, non è possibile pensare che una politicizzazione di massa possa darsi attraverso il feticismo della procedura e piattaforme virtuali in cui la forma della decisione è sempre prioritaria rispetto al programma. Per diventare lo spazio per una presa di parola di precarie, operai e migranti, la mobilitazione democratica deve essere pensata a partire dalla mobilità del lavoro vivo, dalle sue condizioni materiali e dal rifiuto dello sfruttamento e dell’oppressione che esso quotidianamente esprime.

A partire da qui, una lotta per la democrazia che non sia né un fittizio piano di riforma dell’Europa dell’austerity né un sogno tecnocratico dovrà riempirsi di contenuti e offrire strumenti di lotta e costruzione di autonomia nelle condizioni attuali. Rivendicare un salario minimo europeo, reddito e welfare europei e un permesso di soggiorno europeo significa per noi fare della lotta per la democrazia un progetto di emancipazione che, incidendo sul tempo e sulle condizioni della produzione e riproduzione sociale, sullo spazio metropolitano sul quale il capitale esercita il suo dominio, sia capace di impattare i pilastri dell’Europa dell’austerity e il regime europeo del salario.

Queste rivendicazioni possono connettere i diversi livelli di iniziativa politica sul piano locale e transnazionale. Avanzare rivendicazioni europee è l’unico modo per scardinare la falsa alternativa tra europeisti e antieuropeisti, che sono accomunati in realtà dalla condivisione del progetto neoliberale di comando sul lavoro. Per quanto rilevante, il problema non è oggi verso chi indirizzare queste rivendicazioni, ma pensare chi può oggi riconoscersi in esse. Quelle rivendicazioni non sono parte di un catalogo di diritti, ma identificano salario, welfare e mobilità quali terreni materiali di scontro, partendo dalla consapevolezza che ogni precaria, migrante e operaio può farsi valere in ogni singolo luogo solo utilizzando degli strumenti transnazionali.

Questo non significa negare o aggirare la necessità di fare i conti con il piano istituzionale, che è tanto più rilevante quanto più è urgente consolidare a tutti i livelli ciò che precarie, operai e migranti possono conquistare con le loro lotte. Ma queste conquiste sono possibili solo attraverso un’accumulazione di forza che a sua volta non è data, ma è la posta in gioco di qualunque progetto che abbia la pretesa di essere espansivo e di durare più di una stagione.

Risulta perciò difficile immaginare che questa accumulazione possa compiersi in Italia attraverso la mobilitazione «sociale» in vista del referendum costituzionale. Che cosa significhi sociale non è politicamente dato, né quando si organizza l’opposizione alla riforma costituzionale, né quando si cerca di organizzare lo sciopero sociale transnazionale. In entrambi i casi non può significare la somma delle esperienze esistenti, anche perché sarebbe davvero illusorio pensare che la somma delle nostre forze attuali sia qualcosa di significativo.

Tanto sul piano locale quanto su quello transnazionale «sociale» deve essere lo spazio di espressione di tutti quei segmenti del lavoro vivo che sono colpiti tanto dalle norme della riforma costituzionale quanto da quelle dei governi europei. Il sociale non è un fronte, ma uno spazio aperto sul quale nessuno può vantare una superiore legittimità, perché nessuno è finora riuscito nemmeno lontanamente ad approssimarne la definizione. Solo ponendo questo problema del «sociale» c’è la possibilità che il nostro No sia differente e autonomo dal variegato caravanserraglio che con l’occasione del referendum vuole saldare i suoi conti con il governo Renzi.

Va riconosciuto nel progetto di riforma costituzionale il disegno di consolidare quel predominio dell’esecutivo che è parte integrante della politica neoliberale. Questo predominio è inscritto nella costituzione materiale tanto dell’Unione quanto dei suoi Stati e non sarà la difesa della Carta costituzionale, la garanzia dell’alternanza al governo o il ritorno al bicameralismo perfetto a invertire questa tendenza. L’occasione del referendum non può perciò essere la replica di altre spallate ad altri governi, ma deve mostrare ovunque i nessi tra questa riforma e il dominio quotidiano che milioni di persone subiscono ogni giorno e che sono regolarmente taciuti dallo scontro tra il sì e il no. Quei nessi non sono immediatamente evidenti.

Per questo, più che produrre improvvise chiamate a raccolta delle componenti organizzate di movimento e parti dei sindacati, accontentandosi di una manifestazione più o meno grande o di uno sciopero più o meno rituale, è necessario mostrare questi nessi in tutta la loro brutalità, sapendo che essi non cominciano e non finiscono con il referendum e nemmeno con il governo Renzi. L’autonomia del nostro No non può limitarsi al quadro istituzionale italiano, così come non può accontentarsi di quello che abbiamo. La nostra opposizione può essere sociale solo se diventa lo spazio in cui si esprimono diversi segmenti di classe, con una presenza di massa che supera i confini del tessuto militante e che sappia perciò investire i rapporti di forza transnazionali che organizzano la società.

La Francia ha mostrato che nemmeno il più grande sciopero sociale e la più grande sollevazione del lavoro vivo che l’Europa abbia visto negli ultimi anni sono riuscite a evitare l’approvazione della loi travail attraverso la ripetuta imposizione dello stato d’urgenza da parte del governo. Non si tratta però di registrare una sconfitta, ma di riconoscere che è ormai impossibile conseguire una vittoria eludendo il piano transnazionale su cui si gioca la partita.

Lo hanno compreso bene le realtà francesi che, dopo essere state protagoniste degli scioperi e della mobilitazione di Nuit Debout, ora sostengono la costruzione della tre giorni del 21-22-23 ottobre a Parigi, nella prospettiva di rafforzare il processo verso uno sciopero sociale transnazionale. Dopo l’esperienza di Poznan, che ha indicato nell’Est Europa un terreno centrale di iniziativa, il meeting di Parigi dovrà affrontare il problema di come superare il limite delle lotte nazionali e costruire momenti di sollevazione del lavoro vivo capaci di attraversare i confini e di accumulare forza.

La piattaforma dello sciopero sociale transnazionale può diventare la nostra infrastruttura logistica per connettere le lotte locali e quotidiane e irrompere tanto negli spazi metropolitani quanto nei processi transnazionali per contrastare il governo dell’austerità e della mobilità.

«Solo se le imprese recuperate concorrono a realizzare quelle filiere produttive legate ai principi dell’Altreconomia possono costituire un tassello importante per l’alternativa al modello socio-economico dominante». Il manifesto, 29 settembre 2016 (c.m.c.)

Il fenomeno delle «imprese recuperate» sta crescendo in tutti i paesi colpiti dalla lunga Recessione, come era avvenuto in Argentina all’indomani del crac finanziario del 2001. È uno dei modi con cui i lavoratori sono tornati protagonisti del loro destino, reagendo alle cosiddette leggi del mercato capitalistico. Era successo anche nei paesi dell’est, all’indomani della caduta del muro di Berlino, quando furono chiuse migliaia di fabbriche statali e si avviò bruscamente un processo di deindustrializzazione e privatizzazione.

Personalmente, nel periodo 1994-1996 ho promosso con il Cric (una ong meridionale molto attiva in passato), il recupero di tre imprese nel settore dell’abbigliamento a Tirana, Valona e Durazzo. Grazie alla collaborazione del Forum i Grua Shiptar (Forum delle Donne Albanesi) , sono state costituite delle cooperative di donne tra quelle che erano state licenziate. Anche se non si poteva parlare di vere e proprie cooperative, per via dei trascorsi storici che ne avevano distorto le finalità , lo spirito era quello e furono avviate delle produzioni di camicie (a Tirana e Valona) e di biancheria intima a Durazzo.

Le prime due esperienze andarono male per diversi motivi, invece a Durazzo in pochi anni la cooperativa crebbe e riuscì a sopravvivere alla guerra civile del marzo/aprile 1997 , scatenato dagli sgherri dell’ex presidente Berisha. Le donne di Durazzo difesero la fabbrica recuperata con ogni mezzo, impedendo che venisse bruciata insieme ad altri edifici pubblici della zona. A distanza di più di vent’anni l’impresa recuperata di Durazzo, diretta da Elvira Ajazi, è un modello sociale per tutti i Balcani: le donne ricevono un salario mediamente più alto del resto dell’Albania, hanno l’asilo nido e la mensa nella fabbrica ed un buon livello di partecipazione alla gestione dell’azienda.

Unico neo è quello che questa impresa recuperata lavora su commesse di due grandi aziende italiane nel settore dell’intimo per bambini. Ed è questo il punto dolente, non solo in Albania. Infatti, quando parliamo di “imprese recuperate”, dovremmo usare il quadrangolare e vedere come queste imprese si collocano nelle filiere produttive. Ci sono infatti “imprese recuperate” che entrano a pieno titolo nella catena dello sfruttamento e dell’accumulazione capitalistica.

Altre che invece fanno parte di quella sfera dell’economia che il grande Fernand Braudel definiva “economia di mercato” dove il denaro è solo un intermediario negli scambi e dove la relazione sociale permane forte e trasparente (Braudel parla di «occhi negli occhi e mano nella mano» ). O se vogliamo in quella forma di economia mercantile che Marx individuava nel circuito «Merce-Denaro-Merce» opposta a quella del mercato capitalistico che si fonda su Denaro-Merce-Denaro.

È questa la questione politica di prima grandezza con cui fare i conti. Se le imprese recuperate concorrono a realizzare quelle filiere produttive legate ai principi dell’Altreconomia – basata sulla ricerca del prezzo equo e della solidarietà – se entrano in circuiti dove c’è un rapporto diretto tra consumatori e produttori, se si avvalgono del credito elargito dalla finanza non profit, allora possono costituire un tassello importante per l’alternativa al modello socio-economico dominante. Altrimenti sono ottime esperienze per chi le fa, ma vengono utilizzate e sfruttate dal sistema.

Il manifesto, 20 settembre 2016 (p.d.)

Parlare della vicenda dei licenziamenti di rappresaglia nello stabilimento di Nola-Pomigliano, di quella rappresentazione del suicidio dell’amministratore delegato di Fiat-FCA addotta come motivo del licenziamento degli operai che l’avevano messa in scena, è difficile perché è una vicenda che coinvolge una grande mole di sofferenza. Mi è difficile soprattutto circoscrivere alla sola categoria della satira quello che in realtà è un urlo disperato che, di fronte a un atto estremo come il suicidio di lavoratori colpiti dal dispotismo padronale, fa appello alle coscienze. Non certo alla coscienza di Marchionne. Quella è protetta da una corazza fatta di denaro, di potere e del suo ruolo, che difficilmente la rende raggiungibile dal rimorso. Bensì alle coscienze di coloro che per il lavoro che svolgono sono stati coinvolti in questa vicenda: i capi della gerarchia di fabbrica, innanzitutto; poi quei sindacalisti che trovano l’emarginazione a vita dal mondo del lavoro di quegli operai il prezzo da pagare per non turbare gli accordi firmati o che vorrebbero firmare; poi i giornalisti che in qualche modo sono venuti a conoscenza della vicenda, ma che non hanno dedicato a un moto di indignazione per quei suicidi niente di più dello spazio di routine che è stato loro concesso dai rispettivi direttori.
Ma oggi quell’urlo è rivolto soprattutto alla coscienza di quei magistrati che hanno perseguito, giudicato e di fatto condannato al licenziamento gli autori di quella recita, contraddicendo, prima ancora che la lettera e lo spirito della legge, il più elementare senso della giustizia: quello che dovrebbe accomunare tutti gli esseri umani. Sia quel senso della giustizia che, almeno per ora, lo spirito e la lettera della legge non impongono certo l’obbligo di parlar bene del padrone, o di non farlo sfigurare quando mette in atto misure talmente gravi da portare al suicidio, e non una sola volta, di un lavoratore .

È a loro, a quei magistrati, alla loro coscienza, che va riferito ora il senso profondo di quella rappresentazione, che è, o dovrebbe essere, il rimorso. Come è possibile non provare rimorso per una sentenza che antepone al rispetto della pari dignità e al diritto alla vita di tutti i lavoratori l’ego tronfio di un padrone e di una gestione aziendale? Di un sistema che include tra i materiali e i fattori del processo produttivo anche la pretesa di essere esentati da una critica che porta in piazza le gravissime conseguenze di quelle discriminazioni?

Si è lasciato volutamente per strada quel briciolo di umanità che dovrebbe impedire di invertire le parti tra una serie di suicidi veri, di lavoratori ridotti alla disperazione, e un suicidio finto, e solo rappresentato con un’effige di stracci e cartone. Di quei suicidi veri si è scritto in sentenza che è impossibile ricondurli alla discriminazione e alla conseguente miseria che li hanno generati. Mentre quel suicidio finto e solo rappresentato è stato invece considerato un irrimediabile intoppo alla produzione o alla possibilità di dargli un adeguato sbocco sul mercato. Perdere quel briciolo di umanità con una inversione delle parti come questa, e non senza un gravissimo stravolgimento dello spirito e della lettera della legge, dà la misura di quanto siamo ormai precipitati, o stiamo precipitando, in un clima di barbarie.

Una barbarie che non è più confinata solo entro i muri della fabbrica, un luogo in cui ai lavoratori non sono mai stati garantiti giustizia e benessere, perché diritto e amministrazione della giustizia se ne sono sempre tenuti lontani per non disturbare l’«ordinario andamento» dei processi produttivi. Ma qui c’è qualcosa di più: c’è una barbarie che si è mossa alla difesa del processo produttivo anche all’esterno della fabbrica, circondandola con un «cordone sanitario», per impedire che anche solo l’eco delle malefatte che si perpetrano al suo interno possa raggiungere le orecchie dei non addetti ai lavori. Con questa sentenza i giudici che l’hanno emessa ci stanno dicendo che la discriminazione all’interno della fabbrica è una componente «naturale» dell’ordine produttivo; che non va denunciata neanche quando porta a conseguenze gravissime come il suicidio; che il suicidio di chi è stato discriminato non è che una «opzione» individuale; e che il richiamo alla coscienza dei responsabili di quelle discriminazioni e di quei suicidi – e di chi dovrebbe farsi carico di quell’urlo di disperazione – è un atto indebito. È un maldestro tentativo di far ricorso a quel senso di umanità che dovrebbe albergare in ciascuno di noi e che invece va spento una volta per sempre, perché il processo produttivo e le prospettive di mercato non subiscano intoppi.

La cattiveria umana, e non il caso, ha fatto sì che proprio in questi giorni venisse messo in chiaro dove portano sentenze secondo cui la vita di un operaio o di una operaia non vale niente, mentre le esigenze della produzione sono tutto. Al grido di «Spianatelo come con un ferro da stiro» un lavoratore che partecipava a un picchetto è stato ucciso da un camion lanciato contro di lui su incitazione di un manager. Aveva cinque figli ed era egiziano. Due ragioni in più per sostenere che non era niente. Infatti sembra che la Procura di Piacenza abbia declassato quel l’omicidio a «incidente stradale».

».

Il manifesto, 18 settembre 2016 (c.m.c.)

Giovedì l’uccisione a Piacenza di Abdesselem El Danaf all’ingresso della Seam, azienda di logistica dell’indotto Gls. Ieri la morte di un operaio dell’impresa appaltatrice Steel nell’Ilva di Taranto e di un dipendente Atac, azienda dei trasporti romana, folgorato durante una riparazione.

I sindacati metalmeccanici Fim, Fiom e Uil hanno dichiarato un’ora di sciopero nazionale per mercoledì prossimo. «Dall’inizio dell’anno sono 500 i dipendenti morti mentre lavoravano – spiegano i leder sindacali di categoria Marco Bentivogli, Maurizio Landini e Rocco Palombella -. È un dato inaccettabile, che rappresenta una situazione drammatica. Queste morti non sono mai la conseguenza della fatalità ma sempre della mancanza di rispetto delle imprese per le procedure e le regole di sicurezza e, in generale, della inadeguatezza dei sistemi di prevenzione tali da assicurare effettive garanzie per i lavoratori».

Landini, le condizioni in Italia sembrano peggiorare.
Il prossimo 21 settembre abbiamo chiesto alle Rsu non solo di scioperare ma di organizzare assemblee nei siti produttivi per discutere di sicurezza. La precarietà, le catene di appalti e subappalti stanno peggiorando le condizioni di lavoro fino ad arrivare a livelli non più sopportabili. Tutta l’organizzazione ruota intorno a profitti e ricavi, quello che viene considerato un costo è tagliato via. Del resto se si posso comprare i voucher dal tabaccaio come un pacchetto di sigarette allora la prestazione del dipendente è diventata una merce come un’altra. Il 28 settembre si riapre la trattativa sul rinnovo dei contratti per i metalmeccanici, in quella sede chiederemo che la sicurezza sia un punto qualificante della discussione.

La riforma del Testo unico sulla sicurezza sul Lavoro sembra però andare nella direzione della riduzione delle responsabilità penali in capo alle aziende.
Siamo contrari a qualsiasi peggioramento del testo attuale, ci vogliono anzi leggi che assegnino la responsabilità solidale anche all’azienda appaltante, che oggi invece sempre di più scarica le colpe lungo la catena dei subappalti. Del resto nei casi di Piacenza e Taranto ci troviamo di fronte a due aziende dell’indotto. Sempre più spesso ai lavoratori precari non viene fatta la formazione proprio per risparmiare. Ridurre i costi a qualsiasi prezzo non ha prezzo per l’impresa. La sicurezza non è più vista come un obbligo e una prescrizione così stiamo assistendo a un arretramento culturale generalizzato. Il risultato è che aumenta la disoccupazione, aumenta la cassa integrazione ma i morti sul lavoro, invece di diminuire, crescono.

Venerdì la Fiom aveva suonato un campanello d’allarme per la situazione all’Ilva, scrivendo al governo che il problema delle manutenzioni non veniva affrontato.
Avevamo chiesto un incontro urgente ai commissari e al governo, bisogna discutere della sicurezza e della salute dentro e fuori gli impianti di Taranto. Chiediamo un impegno di Cassa depositi e prestiti come garanzia che lo Stato non abbandoni l’Ilva. Gli investimenti necessari non sono sostenibili dal privato o da un gruppo di privati.

A Piacenza Abdesselem El Danaf è stato ucciso perché chiedeva che venissero rispettati i diritti dei suo colleghi precari.
Il settore della logistica è uno di quelli dove l’imbarbarimento è più alto. Non solo i subappalti ma anche le finte cooperative hanno reso le condizioni di lavoro difficilissime. È evidente che non può andare avanti così anche perché tutto questo ha favorito l’ingresso della malavita organizzata. In Italia attualmente ci sono interi pezzi di economia reale in mano alla malavita. Non è un problema che riguarda solo il privato, ma anche il pubblico. Pensiamo ad esempio alla sanità dove da anni si utilizzano i bandi al massimo ribasso, dove poi si inseriscono anche aziende legate ai clan. Dove si ritrovano lavoratori che fanno lo stesso mestiere ma con paghe, condizioni e diritti differenti.

Come si cambiano le cose?
Bisogna corregge le leggi sbagliate che sono state fatte in materia in questi anni. Il 29 settembre terminerà la raccolta firme della legge di iniziativa popolare della Cgil per la Carta dei diritti universali del lavoro, un nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori che rovescia l’idea che sia l’impresa, il soggetto più forte, a determinare le condizioni di chi lavora. E poi abbiamo promosso tre referendum contro la logica che c’è dietro al Jobs Act. Avranno come oggetto l’eliminazione dei voucher che, così come sono, destrutturano il lavoro; gli appalti, con la responsabilità sociale che resta anche in chi dà il lavoro in appalto; i licenziamenti, per correggere le storture introdotte dalla riforma Fornero e dal Jobs Act. Bisogna prevedere il reintegro dei lavoratori a partire dalle aziende che hanno cinque dipendenti.

«La distanza tra le due verità è enorme. Così enorme che non si riesce a farla rientrare nel fisiologico arco dei diversi punti di vista di chi racconta un fatto».

La Repubblica, 17 settembre 2017 (m.p.r.)

,Abdel Salam El Danaf, operaio egiziano di 53 anni, padre di cinque figli, è morto schiacciato da un camion nel piazzale di carico e scarico dell’azienda Gls, Piacenza, settore logistica. I suoi colleghi di lavoro dicono che era in corso una manifestazione sindacale e che il camionista è stato esortato da imprecisati “dirigenti dell’azienda” a forzare il picchetto. La magistratura inquirente sostiene che non c’era nessun picchetto e si è trattato di un omicidio stradale come ce ne sono tanti.

La distanza tra le due verità è enorme. Così enorme che non si riesce a farla rientrare nel fisiologico arco dei diversi punti di vista di chi racconta un fatto. Così enorme che è inevitabile pensare alla distanza crescente tra la voce operaia - che sta tornando a essere di debolezza ottocentesca, quasi presindacale - e un palcoscenico sociale che sembra averla relegata dietro le quinte: come un rumore di fondo. È esattamente nel nome di questa debolezza, politica e mediatica, che è indispensabile parlare di Abdel. E di pretendere che gli attori sociali toccati dalla vicenda - la Procura di Piacenza, il governo e in specie il Ministero del Lavoro, l’azienda presso la quale Abdel lavorava e davanti alla quale Abdel è morto, i media - cerchino di ricomporre i brandelli di verità disponibili, con la stessa pietà e lo stesso rispetto con il quale si ricompone il corpo di una vittima.

«Il manifesto, 14 settembre 2016

L’insistenza di Confindustria e governo sulla «produttività del lavoro» potrebbe far sperare in un loro ritorno ai Classici dell’economia politica: se non a Karl Marx, almeno ad Adam Smith: «Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma».

Un concetto che si ritrova nel primo articolo della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Si potrebbe anche sperare che così si voglia riconoscere al lavoro di essere l’unico «fattore produttivo» capace di produrre un sovrappiù.

Temo, tuttavia, che non sia così. Lo slogan del Presidente della Confindustria, il suo «grido di guerra» ampiamente ripreso, è «Vogliamo una più alta produttività per pagare salari più alti»: una esortazione a che, prima di tutto, i lavoratori si mettano a lavorare di più.

Il vero slogan dovrebbe invece essere: «Pagheremo salari più alti perché vogliamo una più alta produttività».

Dalla crisi del ‘29 Italia e Germania uscirono con il fascismo e il nazismo; gli Stati Uniti proprio con una politica di alti salari, con il «Fordismo» di Henry Ford e di Franklin Delano Roosvelt, cui Gramsci dedicò grande attenzione. Come lo stesso Gramsci aveva previsto, la lunga stagione del Fordismo non poteva durare in eterno, e così fu; né il Fordismo può essere preso oggi a modello per tentare di uscire dalla lunga serie di crisi che alla sua fine seguì, dai primi anni Ottanta del secolo scorso. Tanto meno in Italia, dove non c’è né un Ford né un FDR.

Tuttavia il Fordismo contiene una lezione per il nostro presente, proprio per quanto riguarda la questione della produttività del lavoro.

A misura della «produttività del lavoro» normalmente si prende il rapporto tra Pil e numero di ore lavorate. Questa misura, in verità molto rozza, nulla però ci dice circa le determinanti della produttività del lavoro. Una e ovvia, che ho il sospetto sia quella implicita nello slogan «Vogliamo una più alta produttività per pagare salari più alti», è la voglia di lavorare dei lavoratori. Le vere determinanti sono però altre e più complesse, di ordine qualitativo: il così detto «progresso tecnico» e il contesto in cui il lavoro viene prestato: l’impresa e lo Stato.

Ho messo tra virgolette «progresso tecnico», perché sarebbe meglio parlare di «cambiamento tecnico».

La prima locuzione suggerisce che un cambiamento nelle tecniche di produzione comporti un miglioramento nelle condizioni di vita dell’intera società, ma poiché la scelta delle tecniche di produzione è riservata ai proprietari delle macchine, e non anche a chi a le fa funzionare, quell’esito è improbabile.

Fin dal 1930 Keynes aveva avvertito che «Siamo colpiti da una nuova malattia: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera».

Per medicare le conseguenze patologiche del «progresso tecnico» occorrerebbe dunque che le imprese si assumessero le loro responsabilità, per quanto riguarda la qualità della produttività del lavoro, e che altrettanto facesse lo Stato per quanto riguarda le condizioni di vita dei lavoratori in quanto cittadini.

Pochi, tuttavia, sono nel nostro paese gli imprenditori che ciò fanno, e per miopia: poiché ciò sarebbe anche nel loro interesse. E pochissimi sono gli imprenditori «schumpeteriani», che a differenza dei tanti imprenditori-rentier non si riconoscono nell’insulsa definizione del nostro codice civile all’articolo 2082: «È imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi»; imprenditori «schumpeteriani» che creano e realizzano nuovi prodotti o nuove qualità di prodotti, che introducono nuovi metodi di produzione, che creano nuove forme organizzative dell’industria, che aprono nuovi mercati di sbocco e nuove fonti di approvvigionamento.

Assenti, in Italia, un Ford e un FDR, e in presenza di pochi veri imprenditori, tutto ricade sulla spalle dello Stato; ma dovrebbe essere uno Stato che provvedesse a risanare, sviluppare e consolidare quel poco di stato sociale che ancora c’è: Scuola Università Ricerca Sanità Assistenza, e questo non con la beneficenza ma con nuovi investimenti.

Al presidente della Confindustria di recente è stato chiesto: «Come pensa che possa risalire il Pil senza sostenere la domanda?»; il Presidente rispose: «Alla domanda ci si arriva attraverso la politica dell’offerta e non facendo l’inverso.» È questa una tesi, la così detta «legge degli sbocchi», che risale al Jean-Baptiste Say del suo Traité d’économie politique (1803): una «legge dell’economia» che nessuno rispetta, né nella teoria né nella pratica.

Ora un governo che davvero volesse fare ciò (risanare il contesto, e rilanciare la produttività e la domanda effettiva), ciò potrebbe fare. Mi aspetto l’obiezione: «Dove si trovano i fondi, senza trasgredire le regole comunitarie?».

La domanda è legittima, ma la risposta è semplice: i fondi si troverebbero rispettando e facendo rispettare l’articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Un articolo che questo governo non ha rispettato con molti suoi provvedimenti: dall’abolizione dell’IMU alla Voluntary disclosure. Termine, quest’ultimo, che evoca il Manuale del confessore: «Dóminus noster Jesus Christus te absólvat et ego absólvo te a vínculo excommunicatiónis, in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen».

Se invece quell’articolo si rispettasse e si facesse rispettare come si deve, poiché l’evasione fiscale è un furto, si rimedierebbe all’ingiusta distribuzione del reddito e della ricchezza, che è una delle cause della forma attuale e più perniciosa delle crisi economiche: la deflazione; e inoltre una redistribuzione del reddito (sia chiaro: dai ricchi ai poveri) farebbe aumentare la domanda per consumi, e dunque degli investimenti; e rimarrebbero ancora fondi per rendere più civile questo povero paese.

«Pomigliano. Il dramma dimenticato dei lavoratori licenziati da Marchionne dopo le proteste per le condizioni di lavoro in fabbrica».

Il manifesto, 7 settembre 2016 (c.m.c.)

La vicenda dei lavoratori della Fca (già Fiat) di Pomigliano-Nola che si sono suicidati o hanno commesso gesti estremi a causa del perdurare di condizioni di lavoro insostenibili sul piano materiale e psicologico è nota ai lettori di questo giornale, così come è conosciuto «l’happening» che ha messo in scena la rappresentazione del suicidio dell’Ad Sergio Marchionne per «estremo rimorso», azione di provocazione e di satira atta ad evocare i gesti disperati dei compagni di lavoro. Questa rappresentazione ha dato il motivo all’azienda di licenziare gli operai che hanno inscenato il suicidio in effigie di Sergio Marchionne.

I lavoratori licenziati si sono rivolti al tribunale del lavoro per fare revocare il provvedimento che a mio parere ha tutti i tratti della rappresaglia. Il tribunale del lavoro, sia in primo grado che nel ricorso di competenza, ha dato ragione all’Azienda con questa fattispecie di motivazione: «un intollerabile incitamento alla violenza (…) una palese violazione dei più elementari doveri discendenti dal rapporto di lavoro gravissimo nocumento morale all’azienda e al suo vertice societario, da ledere irreversibilmente (sic!) il vincolo di fiducia sotteso al rapporto di lavoro».

In seguito, nel riesame del ricorso, il tribunale di Nola ha confermato il primo giudizio. In questa motivazione si legge che le manifestazioni messe in atto: «hanno travalicato i limiti del diritto di critica e si sono tradotte in azioni recanti un grave pregiudizio all’onore e alla reputazione della società resistente, arrecando alla stessa, in ragione della diffusione mediatica che esse hanno ricevuto, anche un grave nocumento all’immagine».

Ritengo che queste parole - dato che le sentenze non si discutono - meritino un’analisi spassionata per trarne un ammaestramento non solo sullo specifico dell’accaduto ma anche di carattere generale e persino universale. L’azienda ritiene che l’azione drammatica della messa in scena di un suicidio in effigie rechi nocumento all’immagine, pregiudizio all’onore, alla reputazione e nuovamente nocumento morale.

Il suicidio reale, carnale, tragico e «violento» di tre esseri umani invece non recherebbe, a quanto pare, danno di sorta al buon nome dell’azienda. Forse i vertici ritengono essere quei suicidi indipendenti dalle condizioni lavoro, dalla cassa integrazione, dallo stillicidio dell’erosione continua dei diritti sociali, dal peggioramento inarrestabile delle prospettive di vita, forse si tratta di un’epidemia suicidaria dovuta all’insostenibile pressione del benessere come in Svezia, visto che il numero di suicidi nel reparto di Nola di quella leggendaria azienda ex vanto dell’italico genio ex italico, pare essere di cento volte superiore alla media nazionale.

Il capo della Fca, imprenditore, pare non cogliere il senso di un suicidio reale quando è causato da disperanti e umilianti condizioni di vita. Mi permetto di suggerirgliene uno servendomi del linguaggio usato da un suo collega meno fortunato di lui che si è tolto la vita a seguito dei morsi della crisi che lo ha rovinato. Ai familiari ha lasciato uno scritto lapidario per spiegare le ragioni del suo gesto: «la dignità è più importante della vita!». Dovrebbe essere semplice da capire, la vita senza dignità cessa di essere tale per diventare sopravvivenza.

Da noi in Italia non c’è stato un dibattito serrato, profondo e diffuso sul concetto di dignità come è accaduto invece in Germania a partire dalla redazione della Costituzione pensata e ratificata all’indomani della micidiale esperienza nazista. Il primo articolo di quella carta recita: «Die Würde des Menschen ist unantastbar. Sie zu achten und zu schützen ist Verpflichtung aller staatlichen Gewalt». (La dignità umana è intangibile. Rispettarla e proteggerla è obbligo di ogni potere statale). Ecco quale è il primo è fondante merito della giustizia sociale come del resto proclama anche il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

L’attacco portato allo statuto dei lavoratori è un attacco all’idea stessa di dignità del lavoratore nel lavoro e nella vita. È da qui che è necessario ripartire chiedendoci «se questo è un operaio», che è privato dei diritti, che vive sotto ricatto, a cui non è concesso di progettare la propria esistenza e di costruire un futuro migliore per i propri figli, che non può neppure protestare con il legittimo linguaggio della provocazione concesso ad ogni disegnatore satirico, a cui per non perdere il posto si chiede di accettare la condanna alla disperazione senza alzare la testa, come l’ultimo dei servi.

Articoli di T. Colluto e L. Musolino, T. Rodano e A.Segre

. Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2016 (p.d.)

L’ESTATE ETERNA

DEI NOSTRI SCHIAVI
di Tiziana Colluto e Lucio Musolino

Quest’estate, per adesso, sono mancati i morti di caldo: i martiri dell’uva, del pomodoro e dei cocomeri. Per il resto nei campi del Sud lo scenario è lo stesso della passata stagione, di quella prima e di quella prima ancora: il caporalato resta una forma di schiavitù tollerata. Tra Calabria e Basilicata, tra le vigne e i campi, tra le tendopoli, i porcili e le stalle si ripete ogni giorno, in silenzio, la stessa grande vergogna italiana.

Lecce: “Poco pomodoro, uguale poco lavoro”
Abdul va e viene tra le baracche, con un bicchiere in mano: “Una moneta, mi serve per tornare a casa”. Casa è la tendopoli di Rosarno, da cui il ghetto di Nardò, nel leccese, sembra lontano una distanza infinita quando si è senza un soldo: quest’anno, per molti, l’impiego tra i filari non c’è neanche a pagarlo ai caporali. Poco pomodoro, poco lavoro. Ahmed spunta da dietro un ulivo: “Io dormo qui da nove giorni e non mi hanno chiamato una volta. Il ‘capo nero’ è arrabbiato con me, perché gli ho detto che con questi prezzi solo lui mangia”.

I costi sono quelli fissi: 5 euro al giorno per il trasporto; 3 euro per il panino; 1,50 euro la cresta su ogni cassone che al lavoratore frutta appena 3,50 euro. Ma non c’è posto qui per la ribellione. Tra gli schiavi della terra, nulla è cambiato in Puglia. Solo il sole meno severo non ha reso anche questo l’anno di Mohamed, Zaccaria e Paola, i tre braccianti schiantati dal caldo e dalla fatica la scorsa estate.

L’ordinanza che impedisce di restare sui campi dalle 12 alle 16, voluta dal sindaco di Nardò, Pippi Mellone, ha un limite intrinseco: si applica solo al territorio neretino. Un metro più in là, a Copertino come nel resto della regione, è ancora far west. È mutato solo ciò che non si vede. Le prime file della catena di comando si sono inabissate: i caporali lasciano il lavoro sporco ai capisquadra, che si confondono con i braccianti, vivono nel ghetto con loro, li reclutano tramite Whatsapp, insieme raggiungono in auto le campagne. All ’apparenza, quasi un’autogestione. Nella realtà, è l’organizzazione ad essersi fatta sofisticata, liquida. Perché la controffensiva della magistratura qui è stata, paradossalmente, una lezione al contrario: dopo l’operazione Sabr, che quattro anni fa ha portato in carcere 16 persone tra imprenditori e intermediari, il cartello del caporalato ha imparato in fretta a non esporsi. E ora rischia anche di farla franca: troppo complicato far reggere in giudizio le accuse di riduzione in schiavitù e tratta di persone. “Se dovesse andare male il processo nato da quell’inchiesta – ammette il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta – si dovrà ricominciare da capo”. Il ddl sul caporalato approvato in Senato tre settimane fa a chi è in trincea fa storcere il naso: “Per me, è una schifezza, – dice Motta – quella norma ha un errore di impostazione. Parte dalla necessità di punire l’intermediario e solo in casi particolari il datore di lavoro. Invece, la legge avrebbe dovuto colpire in primis chi utilizza i braccianti in condizioni di grave sfruttamento e poi, per concorso, gli altri”.

Trecento chilometri più a nord, nel foggiano, c’è lo stesso scenario. Una città di baracche di plastica e cartone. Un inferno esasperato: sono quasi 2mila i migranti nel “Gran ghetto di Rignano”, sotto sequestro dopo l’incendio che lo ha devastato, il 23 marzo. Lo smantellamento del campo, promesso a più riprese dal governatore Emiliano, tiene tutti in ansia: “Per me va bene – dice Amadou – perché qui siamo senza acqua né luce e le persone vengono sfruttate, ma devono darci un’alternativa vera”. Hanno proposto una tendopoli a San Severo, è lontana 30 chilometri. “Lo sgombero ora è impensabile. Avverrà in inverno, quando gli stanziali sono meno di 200”, assicura Stefano Fumarulo, dirigente della Sezione Politiche per le migrazioni della Regione Puglia. I progetti di ospitalità in un campo container adeguato sono destinati, anche quest’anno, ad essere rimandati al prossimo. Forse: i 4 milioni di euro che si attendevano dal governo, dopo la firma del protocollo di lotta al caporalato di fine maggio, non sono arrivati. Fermi anche i 500mila euro stanziati da Bari per incentivi all’ospitalità e gli altrettanti per il trasporto: le aziende non si sono fatte avanti. E degli 800mila euro impegnati tre anni fa per rafforzare i controlli, ne sono stati spesi appena 48mila. Nella lotta al caporalato, neanche i soldi, quelli pubblici, fanno la loro parte. “Il tema vero è l’avviamento al lavoro e qui va sempre peggio – spiega Giuseppe Deleonardis, segretario generale Flai Cgil Puglia. A Lecce, a fronte di 200 iscritti nelle liste di prenotazione da cui le imprese possono attingere, lo scorso anno ci sono state 80 assunzioni, quest’anno appena 40. A Foggia, su 800 iscrizioni, zero contratti ”. Meglio pescare gli schiavi nell’economia illegale.

Le stalle di Cosenza e le tende di Gioia Tauro
San Ferdinando, Calabria. Siamo nell’area industriale a ridosso del porto di Gioia Tauro. “Non ho visto nessun cambiamento rispetto a quando è morto il fratello Sekine Traore. Nessuno ci ha dato una mano”. Sono passati due mesi dal giorno in cui un colpo di pistola, sparato da un carabiniere intervenuto a sedare una rissa, ha ucciso un ragazzo del Mali all’interno della baraccopoli dei braccianti. I “fantasmi neri” non hanno voglia di parlare. Qualcuno lo fa ma non vuole dire il suo nome. È un ragazzo del Ghana. Vive col figlio nell’indegna tendopoli di Rosarno. “Presto – anche lei – dovrà essere smantellata. Lì, di fronte, costruiranno quella nuova”.

Decisione della prefettura. La Regione ha stanziato 300mila euro per acquistare le tende e far vivere maniera dignitosa i migranti stagionali che in Calabria raccolgono le arance. All’epoca, il governatore Mario Oliverio aveva parlato di “ghetto”. Sono trascorsi oltre sei mesi ma quel ghetto è sempre lì.

In questi giorni la Protezione civile sta gestendo l’appalto per l’acquisto di 44 nuove tende che ospiteranno 440 migranti. Pochi: d’inverno la tendopoli di San Ferdinando esplode con oltre mille stagionali, protagonisti già nel gennaio 2010 di una violenta rivolta. I progetti di accoglienza diffusa previsti nel protocollo tra prefettura e Regione non sono mai partiti, i migranti che non troveranno posto nella tendopoli saranno costretti a costruire nuove baracche.

“Adesso siamo solo 200, – spiega uno di loro – molti sono andati a Foggia e in Campania per la raccolta dei pomodori, ma torneranno”. Il Comune di San Ferdinando è sciolto per mafia. Un funzionario riconosce: “Nella nuova tendopoli i posti sono troppo pochi”. E come si fa? “Me lo domando pure io. – risponde. Succederà la rivoluzione. Con quale criterio assegneranno le tende? E gli altri migranti che faranno? La baraccopoli bis?”.

Altrove la situazione è ancora più tragica. Nella piana di Sibari, un’inchiesta della guardia di finanza (che ha denunciato 49 persone) ha svelato gli intrecci tra la ‘ndrangheta e un caporale pachistano, che in un anno è riuscito a guadagnare circa 250mila euro, in parte finiti nelle casse della cosca locale. Era il dominus a cui si rivolgevano gli imprenditori agricoli per recuperare manodopera illegale. Sequestrava i documenti dei lavoratori e li costringeva a vivere in condizioni oltre il limite: le loro “case”erano stalle e porcili. Dormitori sommersi dalla paglia e dall’immondizia. Esseri umani trattati letteralmente come bestie.

In Basilicata la storia non è diversa. La linea di chi amministra è una sola: smantellare le baracche. Per il resto, nessuno ha chiaro come contrastare il caporalato. A Boreano, una frazione di Venosa, in provincia di Potenza, l’accampamento dei braccianti è stato distrutto e i migranti trasferiti nei centri di accoglienza gestiti dalla Croce Rossa. “I lavoratori non vogliono andare lì perché sono zone molto scomode e senza alcun servizio. – spiega Giulia Bari, responsabile di Medu (Medici per i diritti umani). Non hanno i letti, dormono sulle brandine da campeggio e per mangiare hanno dei fornetti elettrici appoggiati sui tavoli di plastica. Non essendoci una rete di trasporto che colleghi i centri ai campi, saranno sempre i caporali a organizzare le squadre per andare a lavorare”. E poi ci sono le “liste di prenotazione”. I migranti che vogliono accedere al centro di accoglienza devono iscriversi: “La scelta di chi lavora è tutta nelle mani del caporale. È lui che comunica i nomi dei prescelti al datore di lavoro. Il caporale, insomma, fa le squadre”.

Il vecchio campo è smantellato, avanti il prossimo. “Vedrai – spiega Vincenzo Esposito, della Flai-Cgil – da qui a 20 giorni costruiscono una nuova baraccopoli altrove. Bisogna sottrarre questi lavoratori ai caporali, il resto serve a poco”.

“UNA BATTAGLIA DI
LAVORO E DIRITTI MA
LA SINISTRA NON C'E'”
di Tommaso Rodano e Andrea Segre

“Le condizioni pesantissime dei braccianti sono il punto di convergenza di due grandi assenze di diritti nella nostra società: quelli di chi lavora e quelli dei migranti economici”. Andrea Segre ha dedicato agli uni e agli altri – lavoratori e migranti – buona parte del suo impegno nella sua precoce e brillante carriera di regista. “Lo Stato”, aggiunge, “ha dimostrato di essere totalmente incapace di intervenire nel mercato del lavoro”.

Lei ha girato il documentario “Il sangue verde” a Rosarno nel 2010. Sei anni dopo non è cambiato nulla.
È tutto immobile, non solo a Rosarno. Sono stato a Vittoria, in provincia di Ragusa, dove c’è uno dei più grandi mercati agricoli d’Europa di piccoli pomodori, i datterini. Un’enorme spianata disseminata di serre, dove lavorano tra i 3 e i 6 mila braccianti. Molte donne, soprattutto tunisine e romene. D’inverno vivono, lavorano e dormono dentro le serre. Sono stato accompagnato dagli operatori della Caritas, pensavano fossimo della parrocchia. È l’unico modo per frequentare questi posti: se uno parla di diritti fa una brutta fine.

Nessun controllo?
Nulla. Nessuno dei sindacati, né delle amministrazioni pubbliche ha la legittimità di entrare lì dentro. In un luogo che produce ortaggi per un mercato enorme, che genera contrattazioni milionarie e coinvolge la grande distribuzione. Un’economia gigantesca che non ha bisogno di diritti: tra il mercato e i braccianti non c’è nessun filtro, nessuna mediazione.

Il Senato ha approvato un ddl contro lo sfruttamento agricolo. Secondo il procuratore di Lecce è una legge che punisce solo i caporali e non le aziende agricole. È d’accordo con il suo giudizio?
Sì. Quella norma è un controsenso. I caporali, come gli scafisti, ovviamente non sono dei santi. Ma colpire gli “utilizzatori finali” della catena di sfruttamento non è sufficiente per risolvere questi fenomeni. È un paradosso, un’ipocrisia: lo Stato fa una legge per fermare chi sfrutta un’assenza dello Stato stesso.

Come si possono portare queste persone fuori dalla schiavitù?
I diritti nell’agricoltura italiana sono stati ottenuti nel momento in cui i braccianti si sono auto organizzati. I lavoratori stranieri ancora non riescono a farlo, o gli viene impedito. E i sindacati italiani sono molto indietro nella loro tutela. A tentare di rappresentarli restano le associazioni sul territorio, a Nardò, come a Rosarno e in Campania. A Caserta il 20 giugno sono scesi in piazza 6 mila braccianti africani. Un numero enorme, ma chi lo sa? Sembra non se ne sia accorto nessuno.

Una rimozione collettiva.
A vigilare su Vittoria, per migliaia di braccianti, ci sono solo tre ispettori del lavoro. Tre. Lo Stato dia un segno di vita. Lo dico come provocazione: assuma 2mila ispettori del lavoro africani.

Si parla di diritti, lavoro, civiltà. Dov’è la sinistra italiana?
La risposta è semplice: il bracciante non porta voti. Una volta un senatore del Pd mi ha detto: “Noi non siamo una ong”. Lo considerano un argomento umanitario, invece è una questione di diritti civili e sociali. Soltanto il diritto di voto può resituire a queste persone la possibilità di essere rappresentate.

«Il rapporto McKinsey ha messo l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei paesi che hanno scommesso peggio sul proprio futuro.

». Internazionale online, 21 agosto 2016 (c.m.c.)

L’Italia è, tra i paesi ricchi, uno di quelli in cui l’ingiustizia sociale trova meno argini al suo dilagare. E, in assoluto, quello che nell’ultimo decennio ha lavorato meglio per distruggere il futuro dei giovani. Tenendo conto che nel 2005 eravamo la sesta economia mondiale, al centro di un continente che ha fatto e in certi casi riesce ancora a fare del welfare uno strumento d’equità, ci voleva molta impreparazione, molto impegno, molto cinismo, molta cialtronaggine per diventare la pecora nera dell’ultimo rapporto McKinsey sull’impoverimento delle nuove generazioni.

Del rapporto, intitolato Poorer than their parents? A new perspective of income inequality (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sulla disuguaglianza dei redditi), si sta molto parlando sui giornali, e sorprende come – per la gravità dei suoi contenuti – l’agenda politica non dia segno di risentirne in modo drastico.

Secondo lo studio della multinazionale, che ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta, oggi il 97 per cento delle famiglie italiane sta peggio di come stava nel 2005. Alta la percentuale degli Stati Uniti (81 per cento), preoccupante quella di Regno Unito e Paesi Bassi (70 per cento in entrambi i casi), poco incoraggiante quella della Francia (63 per cento). Isola felice la Svezia, dove welfare e politiche keynesiane hanno fatto sì che solo il 20 della popolazione oggi stia peggio di dieci anni fa.

Fallimento certificato

A fare le spese in una simile situazione sono soprattutto i giovani, condannati a essere più poveri dei loro genitori. A parte una breve battuta d’arresto durante gli anni settanta, fa notare lo studio McKinsey, non era mai successo a partire dal dopoguerra che le nuove generazioni si affacciassero sul mondo del lavoro con meno prospettive rispetto alle precedenti.

Se si tiene conto che in Nordamerica e in Europa occidentale i profitti delle imprese negli ultimi tre decenni “sono stati eccezionali” (sempre lo studio McKinsey nella sua versione più estesa), e che il 2015 è anche il primo anno in cui il famoso 1 per cento della popolazione più ricca è arrivato a possedere oltre la metà della ricchezza mondiale (qui è il rapporto Oxfam a dirci a quale livello è giunta la disuguaglianza, con 62 super miliardari la cui ricchezza è pari a quella dei 3,6 miliardi di esseri umani più poveri), il fallimento delle politiche economiche adottate nella maggior parte dei paesi occidentali a partire dagli anni della reaganomics non è più un’opinione, ma un fatto, certificato spietatamente dai numeri.

I ventenni di oggi lo sanno subito che per loro sarà dura

Secondo i sostenitori del neoliberismo l’aumento della ricchezza complessiva all’interno di un sistema economico dovrebbe beneficiare la maggior parte degli individui che ne fanno parte, sia pure al costo di un allargamento della forbice tra più e meno fortunati. Nelle economie più evolute non è andata così. È accaduto l’opposto. Le cose sono andate benissimo per pochi e decisamente peggio per la maggior parte di noi. Questo vale sia per i paesi che ancora stentano a uscire dalla recessione (l’Italia) sia per le economie ben più dinamiche della nostra, come quella degli Stati Uniti, dove il pil ha ripreso a crescere già da qualche anno ma l’ascensore sociale resta fermo e la redistribuzione della ricchezza (nonché la moltiplicazione delle opportunità) è abbastanza critica da generare fenomeni come Donald Trump.

Tornando in Italia, se volete misurare con più precisione lo svantaggio dei nati tra il 1970 e il 1974 rispetto ai nati tra il 1965 e il 1969, e dei nati tra il 1975 e il 1979 rispetto a tutti gli altri, allora date un’occhiata a questo studio, dal quale si evince tra l’altro come “siano soprattutto i laureati ad aver subìto una forte riduzione dei livelli retributivi rispetto alle generazioni precedenti”.

A rendere più infame la situazione italiana c’è l’ultimo Rapporto Unicef su povertà e disuguaglianza tra i bambini, secondo il quale siamo trentaduesimi su trentacinque paesi di Unione europea/Ocse presi in esame. In questo caso i parametri usati sono il divario nel reddito, nei risultati scolastici, nelle condizioni di salute. Compromettiamo in modo quasi irreversibile il futuro dei giovani, e come se non bastasse rendiamo molto complicato il presente dei bambini.

Fino qui, l’evidenza dei dati. Ciò che desta altrettanta preoccupazione è assai meno misurabile. Si tratta delle ripercussioni sociali, civili, esistenziali, spirituali che un simile tradimento del futuro potrà avere e in parte sta già avendo e ha già avuto su di noi, sul modo in cui ci consideriamo parte di una comunità e sul rapporto che intratteniamo con noi stessi giorno dopo giorno, dai quali discendono in buona misura autostima, equilibrio, serenità e riconoscimento di senso (o di non senso) rispetto al fatto di appartenere a un determinato momento storico, in un altrettanto ben determinato contesto. Come Amleto, i più fantasiosi possono credersi re dello spazio infinito perfino chiusi in un guscio di noce. Il problema è che fuori c’è Elsinore, ed è impossibile non farci i conti.

I quarantenni. I trentenni. I ventenni. In Italia, nessuno che appartenga a queste fasce anagrafiche aveva bisogno del rapporto McKinsey per sapere come stavano le cose. I ventenni più dei trentenni. I trentenni più dei quarantenni. Chi sperimenta un certo tipo di male sulla sua pelle si trova nell’ingrata condizione di sapere prima degli altri che cosa sta accadendo e al tempo stesso rischia di non essere creduto, almeno fino a quando il proprio travaglio personale non avrà il tempo per diventare una statistica.

Odioso scetticismo

Ho 43 anni, faccio parte della prima generazione che in Italia si è trovata a muoversi in un contesto meno favorevole rispetto a quello che ha accolto chi c’era in precedenza. Il cambio di paradigma ha avuto su quelli come me un effetto di spiazzamento che i ventenni di oggi – più consapevoli e più svantaggiati rispetto a quanto ero io alla loro età – non sperimentano. Lo sanno subito, che per loro sarà dura.

Noi eravamo quelli a cui avevano detto “andate, laureatevi, e il mondo sarà vostro”. Laureati quanto era bastato ai nostri genitori per mettere su famiglia, freschi di master quanto era stato sufficiente ai nostri fratelli maggiori per diventare benestanti, ci siamo ben presto resi conto quanto la porta d’accesso al futuro si fosse ristretta. Il problema è che un ventenne non ha quasi mai una voce in grado di farsi sentire pubblicamente. Così, all’epoca, il nostro grido d’allarme suscitò non di rado un certo fastidio tra i cinquantenni, i sessantenni, i settantenni di allora.

Ricordo l’incredulità stizzita di certi miei parenti più adulti quando gli raccontavo come funzionavano le cose per chi cominciava a lavorare alla fine degli anni novanta. Trovavo odioso il loro scetticismo – “se non riuscite a guadagnare quanto facevamo noi alla vostra età, se non avete trovato un modo decente per mettere su casa e famiglia, la colpa è vostra” –, mentre oggi mi appare umanamente comprensibile.

Sul piano emotivo, deve essere complicato ammettere di aver lasciato ai propri figli un mondo per molti versi peggiore rispetto a quello ereditato dai propri padri. Quando poi la marea si è alzata, e una grave difficoltà economica ha cominciato a lambire fasce anagrafiche che fino a quel momento ne erano state risparmiate, un istintivo senso di solidarietà nella disavventura ormai comune ha portato a ricredersi la maggior parte di coloro che negavano ciò che oggi risulta impossibile anche solo mettere in dubbio.

Ciò che continuo a trovare ancora odioso è l’atteggiamento della nostra classe politica davanti a questo dramma. Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Mario Monti, Enrico Letta. Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Tommaso Padoa Schioppa, Vittorio Grilli, Fabrizio Saccomanni. Roberto Maroni, Cesare Damiano, Maurizio Sacconi, Elsa Fornero, Enrico Giovannini.

Assoluto sfruttamento

Con l’esclusione dell’ultimo governo, insediato troppo di recente per partecipare degli esiti del rapporto McKinsey, vale la pena ricordare chi sono stati i presidenti del consiglio, i ministri dell’economia e delle finanze, i ministri del lavoro degli ultimi dieci anni. Essendo i responsabili politici di una rottura del patto generazionale così drammatica e al tempo stesso così eclatante e incontestabile, un sommesso mea culpa sarebbe un obbligo dovuto al ruolo istituzionale, e delle scuse sentite il minimo da pretendere sul piano umano. Invece è stata l’arroganza a dominare.

Tommaso Padoa Schioppa – cioè il figlio dell’amministratore delegato delle assicurazioni Generali – definì “bamboccioni” i giovani costretti a vivere con i genitori per la mancanza di un lavoro decente. Giulio Tremonti assicurava in diretta nazionale che la crisi in Italia non sarebbe mai arrivata o ne sarebbe uscita presto, e tutt’oggi è talmente sicuro del fatto suo che se qualcuno lo chiama “Tiresia” non coglie l’ironia.

Elsa Fornero inventò prima le lacrime di coccodrillo preventive (manifestò pubblicamente il cordoglio per la riforma delle pensioni che il governo di cui faceva parte stava per attuare, e forse il pentimento per la riforma del lavoro che non aveva ancora attuato, alla luce dei risultati una delle più inefficaci degli ultimi anni) e poi riuscì a insultare quegli stessi giovani che aveva contribuito a gettare sul lastrico definendoli choosy, troppo schizzinosi, perché qualcuno le aveva riferito che i neolaureati rifiutavano lavori al di sotto del proprio livello formativo.

In realtà si trattava quasi sempre di decidere se accettare o meno le condizioni di assoluto sfruttamento che gli venivano proposte – se le spese per raggiungere il posto di lavoro e per mangiare durante la pausa pranzo rischiano di pareggiare lo stipendio, qualcosa non va.

Come scrivevo, l’attuale governo è in carica da troppo poco tempo perché si possa onestamente considerare corresponsabile del disastroso decennio fotografato dal rapporto McKinsey.

Altrettanto onestamente, però, osservando il modo in cui anche Matteo Renzi indora l’inefficacia delle proprie politiche, da cittadino ho imparato a diffidarne. Mi è bastato assistere al trionfalismo con cui il presidente del consiglio ha accolto il ritorno del segno più davanti al prodotto interno lordo italiano nel 2015 per concludere che i suoi freni inibitori non gli impediscono di mentire su cose molto importanti.

Se nel 2015 il pil italiano ha segnato un + 0,8 per cento (molto più verosimilmente un +0,6 per cento) contro il +1,7 della Germania, il +1,2 della Francia, il + 3,2 della Spagna, il +7,8 dell’Irlanda, il +1,5 del Portogallo, questo significa solo che siamo stati meno bravi degli altri a sfruttare quel po’ di ripresa che ha attraversato il vecchio continente. Imbellettare un insuccesso fino a venderlo come il suo opposto significa mentire. Bill Clinton rischiò il posto perché lo fece sulla sua vita erotica.

A differenza di certi puritani, non credo che chi mente sulle proprie vicende private sia più bendisposto a tradire il suo paese. A un presidente del consiglio chiedo molto meno. Se all’indomani della pubblicazione dei dati sul pil Matteo Renzi si fosse presentato agli italiani illustrando in modo sobrio e virile la difficoltà della situazione, e la modestia dei risultati, ne avrei avuto stima. Per risolvere certi problemi ci vuole realismo nel leggere il presente e una certa visionarietà per costruire il futuro. Ho l’impressione che Renzi sia affetto al tempo stesso da sguardo corto e visionarietà: interpreta i numeri con molta fantasia e scambia le Cassandre per gufi.

Più della sorte di Renzi, mi interessa ovviamente quella dei suoi coetanei (i primi a essere colpiti dalla crisi) e di chi appartiene alle generazioni successive, per le quali le difficoltà sono addirittura maggiori.
Studenti partecipano allo sciopero nazionale indetto contro la riforma della scuola del governo Renzi, il 5 maggio 2015. (Giuseppe Ciccia, Pacific Press/LightRocket via Getty Images)

I pericoli della pazienza eccessiva

Mi sembrò tremendamente ingiusto Mario Monti quando parlò degli attuali trenta e quarantenni come di una generazione perduta. A me al contrario quella sembrava una generazione che aveva contribuito a salvare il paese. Se molti giovani non avessero accettato di lavorare a condizioni che per i loro genitori sarebbero state intollerabili, come avrebbero fatto a reggere in Italia – solo per fare pochi esempi – il mondo della scuola, dell’università, della sanità, della cultura, della comunicazione?

Se tuttavia una non comune capacità di resistenza e di pazienza delle ultime generazioni è innegabile – e anziché essere dileggiato dalle istituzioni, il loro sacrificio avrebbe dovuto essere pubblicamente riconosciuto – il prolungarsi della crisi oltre le peggiori previsioni le espone a pericoli di cui si vedono le prime avvisaglie.

Innanzitutto, una generazione economicamente molto debole, la cui capacità di autodeterminazione è stata ridotta al lumicino, subisce al tempo stesso con più efficacia i ricatti di determinati poteri (quando ti chiedono obbedienza in cambio di sopravvivenza) e i deliri di altri (a stomaco vuoto si ragiona male, e parlare allo stomaco dei bisognosi è da sempre la facile strategia dei demagoghi).

Dall’altro, subire per molto tempo un’ingiustizia erode con una certa facilità gli strumenti di autocritica. Essere costretti nel ruolo della vittima sociale è assai insidioso, perché ti fa sentire nella parte del giusto anche quando non lo sei. Esiste anche un’arroganza dei perdenti, che danneggia soprattutto chi è nella condizione di farsene contagiare.

All’arroganza si aggiungono il sarcasmo e il cinismo. Fino a quindici anni fa, quando le difficoltà di una e poi di due generazioni sembravano temporanee, era l’autoironia l’arma con cui si tentava maldestramente di esorcizzarle: rido dei miei problemi pur di non rappresentarli come tali davanti a un mondo in cui “vincere” è determinante.

Oggi, abbassata l’asticella, in un mondo in cui determinante è “sopravvivere”, e inizia a essere chiaro che i problemi di almeno tre generazioni sono strutturali, non potendo più nascondere una situazione palesemente drammatica, l’espediente retorico più a buon mercato per darsi un’importanza altrimenti inattingibile è passare dal fioretto usato raffinatamente su se stessi al randello con cui colpire all’impazzata tutt’intorno.

In un mondo in cui è sempre più difficile essere protagonisti della propria vita, non rimane infine che diventare tifosi. Trovo molto deludente, specie tra la classe intellettuale delle ultime generazioni, il fanatismo con cui alcuni supportano per esempio ogni mossa, persino la più indifendibile, del Movimento 5 stelle; o la santimoniosa benevolenza ai limiti del servilismo con cui altri contemplano il cerchio magico di Renzi o altri panorami della sinistra. Tanti anni di studi e di letture per abbracciare la filosofia della curva nord contro la curva sud?

Il rapporto McKinsey ha messo l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei paesi che hanno scommesso peggio sul proprio futuro. Due delle tre generazioni che i più sfacciati considerano “perdute”, cominciano a propria volta ad avere figli, ai quali i neogenitori non potranno spesso garantire il benessere economico e il livello di istruzione di cui hanno beneficiato loro quando erano ragazzi.

Bisogna aggiungere che se non fosse stato per la generazione di chi a propria volta sta diventando nonno, molti di questi trentenni e quarantenni verserebbero in una condizione di povertà assoluta. In mancanza di un serio welfare, è stata come sappiamo la famiglia il vero ammortizzatore sociale del nostro paese, il che da una parte ci ha salvati dal disastro, mentre dall’altra non ha sempre giovato alla serenità dei rapporti tra genitori e figli, e alla capacità di interpretare in modo degno, e bello, entrambi i ruoli.

Un’avventura da compiere insieme

Nessuna generazione è mai davvero perduta. Ognuno di noi può rivendicare legittimamente un ruolo attivo nel mondo in cui vive. In Italia, la crisi economica è stata troppo lunga e gestita in modo troppo irresponsabile per non essersi trasformata in un male molto più profondo.

L’attuale compagine politica è composta da uomini la cui mediocrità impedisce di sapere anche solo dove mettere le mani, figuriamoci come. Se le cose andranno bene, e ce lo auguriamo, ridurranno di un punto percentuale la disoccupazione, ma non riformeranno l’animo malato del paese.

Per guarire, è necessario un patto intergenerazionale più serio e maturo di quello che ha funzionato a intermittenza – e con troppi fraintendimenti – negli ultimi anni. Forse la vera sfida oggi è avere la forza, nonché trovare i modi, per reincludersi socialmente laddove l’economia ha messo tanti fuori dei giochi. Non è un’avventura che si può cominciare a intraprendere da soli. Se qualcosa di buono nascerà sarà la parte sana della società a produrlo, vale a dire il senso di responsabilità, il coraggio, il cuore, la capacità di stare con gli altri, la voglia di spendersi di ogni singolo individuo. Sentirsi esclusi anche da questa sfida è condannarsi a non esistere.

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