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Corriere della sera /economia, 4 luglio 2017, con postilla

La chiusura delle frontiere ai cittadini extracomunitari fino al 2040 potrebbe costare alle casse dell’Inps 38 miliardi. È quanto emerge da una simulazione presentata oggi dal presidente Inps, Tito Boeri, secondo il quale con la chiusura delle frontiere agli immigrati fino al 2040 avremmo 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate agli immigrati «con un saldo netto negativo di 38 miliardi». Insomma, «una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo». Secondo Boeri «una classe dirigente all’altezza deve avere il coraggio di dire la verità agli italiani: abbiamo bisogno di un numero crescente di immigrati per tenere in piedi il nostro sistema di protezione sociale».
L’Inps ha eseguito una simulazione dell’evoluzione da qui al 2040 della spesa sociale e delle entrate contributive nel caso in cui i flussi di entrata di contribuenti extra-comunitari dovessero azzerarsi: «Nei prossimi 22 anni avremmo 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate a immigrati, con un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps». Gli immigrati che arrivano in Italia sono sempre più giovani e rappresentano 150mila contribuenti in più ogni anno; molti - spiega Boeri - lasciano il nostro Paese prima di maturare i requisiti per la pensione e ci regalano i loro contributi: «Nostre stime prudenziali sono ad oggi di circa un punto di Pil». «Abbiamo perciò bisogno di più immigrati - è la conclusione di Boeri - Impedire loro di avere un permesso di soggiorno quando sono in Italia è la strada sbagliata perché li costringe al lavoro nero e li spinge nelle mani della criminalità».

Più giovani, più contributi. Ma il saldo...

«Gli immigrati che arrivano da noi siano sempre più giovani: la quota degli under 25 che cominciano a contribuire all’Inps è passata dal 27,5% del 1996 al 35% del 2015. In termini assoluti si tratta di 150.000 contribuenti in più ogni anno». In questo modo ha spiegato il presidente: «Compensano il calo delle nascite nel nostro Paese, la minaccia più grave alla sostenibilità del nostro sistema pensionistico, che è attrezzato per reggere ad un aumento della longevità, ma che sarebbe messo in seria difficoltà da ulteriori riduzioni delle coorti in ingresso nei registri dei contribuenti rispetto agli scenari demografici di lungo periodo».

Nel 2016, secondo dati di preconsuntivo, il saldo finanziario dell’Inps è stato negativo per 180 milioni di euro, contro i +1.434 milioni del 2015. Il patrimonio netto è passato da 5.870 milioni a 254 e l’avanzo di amministrazione da 36.792 a 36.612 milioni. Nel presentare il Rapporto annuale, il presidente ha fatto notare che i «disavanzi contabili dell’Inps offrono una rappresentazione fuorviante delle sostenibilità del nostro sistema previdenziale né offrono informazioni aggiuntive sullo stato dei conti pubblici nel loro complesso, perché le stime del disavanzo e del debito pubblico dell’Italia non cambierebbero ripianando i debiti dell’Inps nei confronti dello Stato. Per azzerare questo debito dell’Inps e riportare il suo stato patrimoniale ampiamente in territorio positivo, basterebbe infatti trasformare le anticipazioni in trasferimenti a titolo definitivo, come già avvenuto nel 1998, nel 2011 e nel 2013. Il tutto senza alcun aggravio per il disavanzo e il debito pubblico».

Salario minimo

Il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la pensione di vecchiaia «non è una misura a favore dei giovani», dice ancora Boeri presentando la Relazione al Rapporto annuale dell’Istituto a proposito della discussione sul possibile stop nel 2019 all’adeguamento dell’età di uscita, spiegando che i costi si «scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli». Sarebbe meglio - spiega - fiscalizzare una parte dei contributi all’inizio della carriera lavorativa per chi viene assunto con un contratto stabile.
Secondo il presidente è anche arrivato il momento per l’introduzione del salario minimo nel nostro ordinamento. «Avremmo il duplice vantaggio - dice - di favorire il decentramento della contrattazione e di offrire uno zoccolo retributivo minimo per quel crescente nucleo di lavoratori che sfugge alle maglie della contrattazione». Boeri afferma che «le premesse ci sono» ricordando che il nuovo contratto di prestazione occasionale fissa una retribuzione minima oraria. «Di qui il passo è breve - conclude - per introdurre il salario minimo».

Effetto articolo 18

Sul Jobs Act Boeri pensa che: «Quello che il contratto a tutele crescenti sembra avere fatto è rimuovere il tappo alla crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti (ex art 18 dello Statuto dei lavoratori, ndr). I nostri studi, nell’ambito del programma VisitInps Scholars dimostrano — ha spiegato il presidente — che c’è stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8mila al mese di fine 2014, siamo passati alle 12mila dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti». Boeri ha inoltre precisato che «gli incentivi fiscali non sembrano avere avuto alcun ruolo in questo contesto, come era legittimo attendersi dato che la decontribuzione era la stessa sopra e sotto la soglia».

Male il congedo di paternità. E il reddito delle donne...
«Il congedo di paternità obbligatorio non è stato in gran parte applicato. Due terzi dei neopadri non hanno preso neanche il giorno obbligatorio nel 2015, l’anno in cui questa misura è stata maggiormente adottata. Se l’obiettivo di questa legge era quello di stimolare una maggiore condivisione degli oneri per la cura dei figli e di cambiare le percezioni di datori di lavoro restii ad assumere le donne in età fertile, il risultato è stato molto deludente», ha spiegato Boeri. «Impensabile cambiare attitudini - continua - se non si introducono sanzioni per le imprese che violano la legge e se non si va al di là di uno o due giorni di congedo di paternità obbligatorio. Il cambiamento culturale e nelle norme sociali che il congedo di paternità vuole favorire non può essere incoraggiato con un congedo simbolico».

Sul fronte maternità, invece, «Il reddito potenziale delle donne lavoratrici subisce un calo molto accentuato (-35% nei primi due anni dopo la nascita del figlio), soprattutto fra le donne con un contratto a tempo determinato, perché provoca lunghi periodi di non-occupazione. Non sorprende perciò constatare come la crisi abbia fortemente ridotto le nascite (-20% nel Nord del paese)». I costi della genitorialità potrebbero essere fortemente contenuti non solo rafforzando i servizi per l’infanzia, «ma anche e soprattutto promuovendo una maggiore condivisione della genitorialità», conclude Boeri.

postilla
Forse il saldo negativo delle entrate che si avrebbe con la chiusura delle frontiere aiuterà a far cambiare idea ai governanti. Ben vengano tutti i punti di vista che contribuiscono a comprendere la stoltezza di questa manovra. Ma non bisogna dimenticare che la ragione prima e fondamentale per combattere le attuali politiche di contenimento e respingimento dei migranti deve rimanere la difesa di tutti gli esseri umani, al di là e al di qua delle frontiere, nonché la salvaguardia dei principi elementari della nostra civiltà.

La denuncia del portavoce del sindacato USB del taglio di fondi che costringerà' al licenziamento e all'inattività' dei dipendenti dell’ISPRA.

La Stampa attualità, 30 giugno 2017 (m.c.g.)

Le ultime settimane hanno visto le tematiche ambientali ritornare sulle prime pagine dei giornali per le importanti dichiarazioni di politici, italiani e esteri, che hanno confermato l’impegno e la determinazione nella lotta ai cambiamenti climatici e nella salvaguardia dell’ambiente. Qualche giorno prima del G7 Ambiente di Bologna, occasione colta dal ministro Gian Luca Galletti e dal Premier Paolo Gentiloni per ribadire l’adesione al fronte unito contro le scellerate prese di posizione dell’amministrazione Trump, succedeva, però, che ricercatori e tecnologi dell’ISPRA organizzati da USB, insieme ai tecnici e al personale amministrativo, entrassero in occupazione.

L’ISPRA, Istituto per la Protezione e Ricerca Ambientale, nasce nel 2008 quale risultante dello scioglimento di due istituti di ricerca (l’ICRAM sul mare e l’INFS sulla fauna selvatica) e dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i Servizi Tecnici (APAT). L’ISPRA è un Ente Pubblico di Ricerca “vigilato” dal MATTM, in pratica il suo “braccio tecnico”. È il principale ente pubblico di riferimento per le tematiche ambientali nel nostro Paese e svolge anche attività di ricerca funzionale all’implementazione dei numerosi compiti attribuitigli per legge e garantisce il supporto tecnico-scientifico alle istituzioni. Un Ente cosiddetto “strumentale” alle azioni del Ministero in tema di politiche ambientali. Nel panorama degli Enti Pubblici di ricerca “strumentali” ritroviamo, ad esempio, l’Istituto Superiore di Sanità o l’ISTAT, vigilati rispettivamente dal Ministero della Salute e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Ci sarebbe da aspettarsi, pertanto, un’attenzione particolare del Ministro di riferimento Galletti e del governo, invece no perché l’ISPRA è stato ridotto al collasso economico. I numeri parlano chiaro: meno 13 milioni di euro al contributo ordinario dell’Ente da parte dello Stato operati in ragione della razionalizzazione della spesa; meno 43% registrato per i fondi esterni; un disavanzo di bilancio di 6,3 milioni di euro, come dichiarato pubblicamente dallo stesso direttore generale nonché presidente incaricato dott. Stefano Laporta; una contrazione delle unità di personale scese dalle 1650 del 2008 alle attuali 1200, compresi i precari, a fronte di sempre più numerosi e gravosi compiti attribuiti per legge “senza ulteriori aggravi per il bilancio dello Stato”. Le conseguenze immediate saranno il blocco delle attività per mancanza di fondi e il licenziamento di precari storici.

Ebbene, nonostante sia nelle prerogative del Ministero dell’Ambiente intervenire fattivamente, con integrazioni al contributo annuale elargito dal MEF, questo non ha mai voluto effettuare ulteriori passaggi stabili di finanziamento, se non per piccole attività aggiuntive, preferendo invece la ben più costosa società privata Sogesid. La Sogesid è una società in House del ministero dell’ambiente, oggetto di attenzione della procura e di numerose interrogazioni parlamentari, nata sotto la Prestigiacomo e, di fatto, un doppione dell’ISPRA. Lo stato preferisce attingere a privati, spendendo anche più soldi e con procedure privatistiche che fanno nascere dubbi anche ai procuratori.

Dal 22 maggio, sacrificando salario, ferie e famiglia, un gruppo nutrito di lavoratori sta cercando di denunciare agli Italiani la reale situazione della politica ambientale italiana che non trova rispondenza con le belle parole proferite dal ministro Gian Luca Galletti e dal Presidente Gentiloni. La politica distratta quando non ostile ci ha ridotto al collasso economico. Se non si agirà rapidamente da luglio, come peraltro dichiarato pubblicamente dallo stesso Stefano Laporta, i 1200 dipendenti dell’ISPRA saranno costretti alla inattività per mancanza di fondi; circa un centinaio di precari storici, con anzianità di servizio fino a 17 anni, saranno licenziati. Licenziati nonostante l’art. 20 del d.lgs 75/2017, il Testo Unico della Pubblica Amministrazione voluto dalla ministra Madia, li consideri stabilizzabili. Ma non ci sono soldi. E l’Italia si concede di sperperare un patrimonio di conoscenza e professionalità.

Ne conseguirebbe che i controlli dei grandi impianti industriali, come l’ILVA di Taranto, gli adempimenti del protocollo di Kyoto e degli accordi di Parigi, le attività nelle zone terremotate e dello studio del territorio (cartografia geologica e naturalistica, studio e difesa della biodiversità), i controlli e le valutazioni ambientali (rifiuti, istruttorie VIA/VAS, piattaforme off-shore), le certificazioni di qualità ambientale Emas e Ecolabel, la gestione delle emergenze ambientali, l’accertamento del danno ambientale, la supervisione agli interventi di ripristino dei fondali dell’Isola del Giglio colpiti dal naufragio della Costa Concordia, i monitoraggi (qualità dell’aria e delle acque marino-costiere), le attività di laboratorio, per citare solo alcuni degli ambiti di attività dell’istituto, e la “ricerca finalizzata” alla protezione ambientale, subiranno uno stop. A rischiare il collasso sarebbe anche il Sistema Nazionale di Protezione Ambientale (ex L.132/2016) che ha l’ambizione (senza stanziamento di fondi) di mettere a rete ISPRA e le Agenzie Regionali così da garantire controlli e monitoraggi adeguati in tutto il territorio nazionale. Un po’ il parallelo dei LEA della Lorenzin applicati all’ambiente.

Il messaggio d’allarme che vogliamo dare va oltre la richiesta del legittimo riconoscimento dei precari alla stabilizzazione. Numeroso è il personale di ruolo, incluso me, che partecipa alla lotta. Siamo stanchi di lavorare in un istituto in agonia sin dalla sua istituzione, 8 anni fa, e che non decolla mai. Bastano pochi soldi per rilanciare ISPRA e SNPA. La parte carente è la volontà politica. Lottiamo e occupiamo dal 22 maggio anche e soprattutto da cittadini che aspirano a che siano enti pubblici in prima linea a garantire la tutela ambientale e non società private come SOGESID. L’occupazione è luogo di lotta e crescita personale e con determinazione presidiamo 24 ore su 24, sacrificando ferie, salario e famiglia, per mandare un messaggio che spero venga colto: il nostro Paese ha bisogno dell’ISPRA, ovvero di un istituto terzo e indipendente che supporti i decisori politici per una corretta e utile azione di prevenzione, controllo, gestione del territorio e delle emergenze ambientali. Anche facendo ricerca applicata e funzionale a migliorare il conseguimento degli obiettivi istituzionali.

A chi ci dice che con la nostra protesta rischiamo di passare dalla ragione al torto, rispondiamo che l’aver ragione è un concetto che non può e non deve rimanere astratto. Noi vogliamo passare dal semplice avere ragione a prenderci questa ragione ed applicarla nel nostro lavoro al servizio dei cittadini. La saggezza popolare e la storia raccontano che i mali estremi si guariscono con estremi rimedi. Questo è il nostro estremismo.

«l’Italia si trova in una condizione drammatica, la cui ultima frontiera è il più massiccio processo di sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata dell'epoca recente.Un nuovo ossimoro, il lavoro gratuito».

Granello di Sabbia n. 29 di Maggio - Giugno 2017 (m.p.r.)


«Interrogare il passato non serve a niente. E’ al futuro che bisogna fare le domande. Senza il futuro il presente è solo disordine». Un passaggio tratto da “Chourmo”, opera seconda della splendida trilogia marsigliese dell’indimenticabile Jean Claude Izzo. Un passaggio che ben si attaglia anche alla drammatica situazione vissuta, oramai da tempo infinito, nel nostro Paese da intere generazioni e, più in generale, riconducibile alla decadente parabola del pianeta rispetto proprio alle soluzioni da proporre alla questione giovani/lavoro/prospettive.

Ci raccontano costantemente di un Paese che non c’è più, legato al remoto ricordo del boom dei “gloriosi anni trenta”, il periodo del dopoguerra che consentì ad intere generazioni di sognare e praticare in ascesa la mobilità sociale, cioè la possibilità di migliorare la propria posizione sociale rispetto a quella di provenienza. Ma non c’è oggi, purtroppo, un solo indicatore - sociale o economico - che invece lasci intravedere un barlume di speranza, di “ripresa”, di superamento di quelle pazzesche diseguaglianze ingenerate dal “malsano quarantennio del liberismo”.

Le politiche neoliberiste degli ultimi quarant’anni, nel primo ventennio (‘75-’95) sincopate e quasi invisibili, almeno in Occidente, ma già dirompenti nelle “aree test”, Sud-America e Africa, poi ovunque apertamente e diffusamente aggressive, hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale, esaltando la libertà dell’individuo a scapito della dimensione collettiva.

Una simile libertà basata sull’assenza di limiti, sul disinteresse per il bene e i beni comuni e sul conformismo, è in realtà illusoria per la sua assoluta sudditanza ai modelli e ai consumi imposti dal mercato, e ha come conseguenza l’aumento dell’impotenza collettiva e la paralisi della politica, sempre più sottomessa ai poteri forti e totalmente insignificante sul versante di una moderna e funzionale gestione della res publica. La vità individuale è così ipersatura di cupi pensieri e di sinistre premonizioni, tanto più terrorizzanti in quanto subite in solitudine interiore ed acuite dalla continua competitività individuale alla quale siamo chiamati per mantenerci a galla. In questa sorta di isteria collettiva, il risveglio è stato brusco, assai brusco: il mondo contemporaneo si ritrova quale contenitore colmo fino all’orlo di paura e di frustrazione diffuse, sia sociali che economiche, alla disperata ricerca di un tipo di sfogo che chiunque soffra possa ragionevolmente sperare di avere in comune anche con altri.

Per sentirsi meno soli, meno isolati. Meno fragili.
Per superare la fragilità individuale devi riacquisire la dimensione collettiva. Quindi in maturazione, forse, il bisogno di tornare ad essere comunità, collettivo. Per ora questo “bisogno” si palesa più con fughe, con derive che si incentrano con l’adozione degli “ismi” - qualunquismi, sovranismi, nazionalismi – più che rispetto al tentativo di ri-costruire un senso di appartenenza prospettico, nel quale saper coniugare la propria libertà individuale con il bisogno e l’impegno collettivo, dove tornare ad interrogarsi insieme per trovare risposte innovative e coerenti alle sofferenze individuali, in modo condiviso, comune, politico.

La vorticosa diffusione degli “ismi” è anche frutto di una studiata e meticolosa strategia messa in campo dalle istituzioni: come possono le istituzioni offrire sicurezze e certezze, in un simile disastroso contesto socio-economico? Quest’ansia, sempre più estesa e diffusa, viene convogliata verso un’unica condizione, quella della sicurezza, della sicurezza personale. Se per mitigare l’insicurezza e l’incertezza servono azioni comuni, gran parte delle misure adottate per garantire la sicurezza individuale risultano invece volutamente divisive: seminano il sospetto, allontanano le persone, le spingono a fiutare nemici, invasori, competitori, cospiratori.

Ansia e incertezza colpiscono tutti, proprio tutti, è oramai una situazione prospettica intergenerazionale, colpisce indistintamente donne e uomini, anziani e cinquantenni, tutti ne sono direttamente coinvolti. Ma risulta invece una vera epidemia sistemica per quanto riguarda le prospettive dei giovani: per la prima volta dal dopoguerra la mobilità sociale è in vorticosa discesa, tutti stanno introiettando il reale peggioramento della propria posizione sociale. La maggior parte delle nuove generazioni ha vissuto e sta vivendo questo processo di declassamento rispetto alla posizione acquisita dai loro genitori. Quello a cui si sta assistendo è, né più né meno, la storia della scomparsa dal mondo produttivo di una generazione, che, come viene ben descritto in alcuni degli articoli contenuti in questo Granello, è vittima di una serie di soprusi pazzeschi, tutti collegati alle logiche dell’economia a debito, come i “prestiti d’onore” per lo studio o il lavoro gratuito.

I giovani, gli studenti nel mondo sono oggi definiti con l’acronimo Ninja (No Income, No Jobs, No Assets), nessun reddito, nessun lavoro, nessun patrimonio. E anche quando i pochi fortunati trovano un impiego, gli interessi che devono pagare per rispettare “il debito d’onore” contratto per laurearsi, sono così alti che non riescono quasi mai ad estinguerlo. Ben pochi ce la fanno, gli altri ingrossano le fila dei “moderni peones” o se preferite degli “schiavi precari”. Il problema è serissimo, strutturale, ricorrente e su questo tema si incardina sia questo bel Granello di Sabbia sia la prossima Università Estiva di Attac Italia (Lavoro e non lavoro, Cecina Mare 15-17 Settembre). Il ricorso all’indebitamento come surrogato al reddito è sempre più esteso e praticato ed è un male così inarrestabile, una moderna “peste nera” che conduce alla più perversa e tragica degenerazione del capitalismo e ad una diffusione epidemica delle diseguaglianze prima e della povertà diffusa poi.

L’unico antidoto a questa degenerativa e contagiosa patologia è riuscire ad attivare una contro-narrazione puntuale ed efficace alle teorizzazioni dell’ Economia del debito che sappia condurci in tempi brevi almeno all’abolizione di tutti i debiti illegittimi. E’ lo scenario che occupa da tempo i maggiori sforzi di Attac Italia e che ha portato - come ben sapete – alla costituzione di uno specifico Centro Studi orientato all’azione, Cadtm Italia.

«Uno dei guai più grossi della nostra Società è che ha smesso da tempo di interrogarsi» (Cornelius Castoriadis). Le università sono da decenni la trincea vera del pensiero unico liberista, hanno sfornato intere generazioni “assuefatte” al mantra che il mercato sappia davvero regolare tutto e che il fondamentalismo capitalista di Milton Friedman sia l’unico zenit proponibile. La decadenza di un Paese si misura innanzitutto sulla condizione sociale e culturale delle sue giovani generazioni. Risiede in quella fascia di età l’energia, la creatività, la possibilità di un futuro per l’intera società. Un Paese che non investe sui giovani sta segando il ramo su cui è seduto. E senza futuro, c’è solo disordine.

Da questo punto di vista, l’Italia si trova in una condizione drammatica, la cui ultima frontiera è il più massiccio processo di sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata dell'epoca recente. L’ultima trovata del fondamentalismo capitalista è proprio questa: l’introduzione di un nuovo ossimoro, il lavoro gratuito. In Italia questa accelerazione (governi Renzi e Gentiloni, con Pd sempre in prima fila nel togliere diritti trasformandoli in doveri, ora pure “gratuiti”) prende la forma dell’alternanza scuola- lavoro resa obbligatoria dalla “buona Scuola” di Matteo Renzi, dalla trasformazione del servizio civile da volontario in obbligatorio, dal lavoro volontario per i migranti (Legge Minniti-Orlando), nella trasformazione del sussidio di disoccupazione in “patto di servizio”.
Suggerisco su questi aspetti la lettura del preziosissimo libro collettaneo curato dalla nostra Francesca Coin Salari Rubati. Economia politica e conflitto ai tempi del lavoro gratuitoEd. Ombre Corte, con contributi, tra gli altri, di Marco Bascetta, Anna Curcio, Alessia Acquistapace, Cristina Morini, Andrea Fumagalli, Silvia Federici, Christian Marrazzi, Franco Berardi “Bifo”. «Il lavoro gratuito - afferma Francesca nel libro – è un moto di spontanea solidarietà del lavoro nel confronto del capitale, legittima la competizione al ribasso che acuisce la povertà e la diseguaglianza sociale».
E’ una brutta epoca, ecco tutto!
«Interrogare il passato non serve a niente. E’ al futuro che bisogna fare le domande. Senza il futuro il presente è solo disordine». In dialetto provenzale Chourmo, il titolo del romanzo di Izzo, significa la ciurma, i rematori delle galere. Negli anni ’90 a Marsiglia viene ripreso dalle band alternative per indicare gruppi di incontro, di supporto, di fan. Lo scopo era che la gente si “immischiasse”. Degli affari degli altri e viceversa. Esisteva uno spirito chourmo. Non eri di un quariere o di una cité. Eri chourmo.
Nella stessa galera a remare.
Per uscirne fuori.
Insieme.
Fuori dal lavoro gratuito, dalla precarietà, dal disordine del non aver futuro, dall’economia a debito, fuori da tutti gli “ismi”.
Usciamo fuori. Tutti, insieme. Chourmo!
Anche nel Veneto vistosi episodi di sfruttamento del lavoro di chi viene da lontano e non ha garanzie. Il ruolo perverso della forma cooperativa, divenuta nuova veste del padronato.

Corriere del Veneto, 31 maggio 2017 (m.p.r.)

Padova, Avrebbero accettato qualsiasi cosa. Avevano bisogno di quel lavoro da magazzinieri nei locali dell’Interporto di Padova che avrebbe permesso loro di sopravvivere e garantito il permesso di soggiorno. E così centinaia di stranieri, provenienti per lo più dal Bangladesh, non hanno mai rifiutato le condizioni, a tratti disumane, imposte loro da chi, per almeno due anni, ha gestito una vera organizzazione di caporalato, la prima accertata in Veneto in un settore diverso da quello agricolo.

Vera eminenza grigia era Floriano Pomaro, 52 anni, originario di Lendinara e da anni a Padova, un nome conosciuto nel polo della logistica padovana, e da ieri agli arresti al Due Palazzi. Ad aiutarlo, Riccardo Bellotto e Mario Zecchinato, entrambi padovani ed entrambi ai domiciliari. Per loro le accuse arrivate al termine di un’indagine condotta dalla Digos e dalle Mobile e coordinate dal procuratore capo Matteo Stuccilli, dall’aggiunto Valeria Sanzari e dal sostituto procuratore Federica Baccaglini, sono a vario titolo di caporalato e riciclaggio.

Un’inchiesta avviata nel 2013, quando agli inquirenti è arrivata la voce di malumori tra le cooperative che si occupavano dello stoccaggio merci nei locali dell’Interporto. Qualcuno, si diceva, giocava sporco. Gli agenti della questura di Padova, così, hanno concentrato l’attenzione su alcune cooperative, tra cui la Easy Società Cooperativa e la B.B. Società Cooperativa che gestiscono i magazzini della Gottardo Spa, l’azienda guidata da Tiziano Gottardo, fondatore della catena di profumerie Tigotà ed estraneo all’inchiesta. Tra i dipendenti di queste coop, centinaia di stranieri, quasi tutti del Bangladesh, con contratti a tempo determinato e part time. Qualcosa, però, non quadrava. Perché se da una parte figurava che i dipendenti lavoravano mezza giornata, con uno stipendio da mille euro, dall’altra nei magazzini trascorrevano più di 70 ore a settimana.

È così emerso il capo indiscusso del sistema, Pomaro, già implicato in passato per frode fiscale in inchieste che hanno coinvolto diverse aziende della logistica padovana. Attraverso prestanome, Pomaro avrebbe costituito cooperative ad hoc. Era lui a gestire tutta l’organizzazione. Un sistema che si occupava di ogni fase: dal reclutamento dei lavoratori all’estero, soprattutto dal Bangladesh («Sono quelli più malleabili», si sente dire nelle intercettazioni ambientali), alla loro assunzione. Gli aspiranti dipendenti, per essere assunti, versavano mille euro. Una volta arrivati in Italia, accettavano un contratto di tre mesi e firmavano le dimissioni in bianco. Scaduto il primo periodo, poi, pagavano altri 500 euro per un rinnovo. E così andavano avanti, di scadenza in scadenza, sempre in pugno di Pomaro e soci.

Figuravano come dipendenti part time, anche se le ore di lavoro erano decine nell’arco di una settimana. Parte dei loro compensi figuravano come «indennità di missione», vale a dire rimborso spese: uno stratagemma per abbassare le tasse e che permetteva un risparmio da centinaia di migliaia di euro.

A dare una parvenza di legalità era Riccardo Bellotto, classe 1981, il contabile del gruppo. Era lui a occuparsi dei contratti e che procurava agli stranieri il tanto agognato permesso di soggiorno. I dipendenti, inoltre, erano costretti ad aprire un conto corrente nel quale ricevere lo stipendio. Le credenziali dei conti, però, erano gestite da Mario Zecchinato, 62 anni e un’accusa alle spalle per favoreggiamento della prostituzione. Una volta versato lo stipendio, Zecchinato si occupava di prelevarne il 30 per cento, una cifra che tornava nelle tasche dell’organizzazione.

Impossibile, per gli stranieri, ribellarsi, o aderire a scioperi. Qualsiasi tentativo di protesta poteva essere pretesto per il mancato rinnovo, il che comportava la perdita del permesso di soggiorno. «Dobbiamo renderli ricattabili», si dicevano i tre indagati. E così hanno fatto.

Oggi Pomaro sarà interrogato dal gip Domenica Gambardella, mentre domani sarà il turno di Belotto e Zecchinato. L’inchiesta, però, non è finita qui. Se per ora nel mirino del gip sono finiti gli organizzatori del caporalato, non si escludono sviluppi che possano coinvolgere altre persone. Nell’ottobre scorso, infatti, è cambiata la legge sul caporalato, rendendo perseguibile anche il datore di lavoro. L’operazione, quindi, procede.

La catechesi e l'attualità. «La meritocrazia nel Vangelo la troviamo nella figura del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo. Lui disprezza il fratello minore e pensa che deve rimanere un fallito perché se lo è meritato; invece il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci».

Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2017 (m.p.r.)

È stato un discorso lungo, denso, articolato quello che papa Francesco ha tenuto sabato scorso all’Ilva di Genova, nel corso della sua visita nel capoluogo ligure. Il tema è stato il lavoro e la sciatta sintesi giornalistica ha schiacciato l’intervento del pontefice su un titolo strumentalmente anti-grillino: “Bergoglio contro il reddito di cittadinanza”. Vero. Ma in che contesto?

E qui viene il bello. Perché se i renziani possono rallegrarsi per le parole sul reddito non possono farlo per quelle sugli imprenditori “speculatori” (tra cui tanti amici del Sistema in generale) ma soprattutto per quelle, clamorose, contro la meritocrazia. Ossia il totem degli ultimi vent’anni che ha ridisegnato in peggio il perimetro della sinistra. Così, ancora una volta, il papa argentino si conferma punto di riferimento per coloro che si riconoscono nei valori dell’uguaglianza.

Bergoglio ha svolto un’autentica catechesi: «Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata ‘meritocrazia’. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza».

Dopo aver spiegato i danni che provoca il talento considerato come “merito” e non come “dono”, il papa ha concluso: «Una seconda conseguenza è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Ma questa non è la logica del Vangelo, non è la logica della vita: la meritocrazia nel Vangelo la troviamo invece nella figura del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo. Lui disprezza il fratello minore e pensa che deve rimanere un fallito perché se lo è meritato; invece il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci».

«Licenziare, ricattare e delocalizzare è indegno e incostituzionale. Il nuovo capitalismo dà una veste morale alla diseguaglianza e rende il povero "un demeritevole", e quindi un colpevole».

il manifesto, 28 maggio 2017 (m.p.r.)

L’imprenditoria buona che crea lavoro dignitoso e quella «mercenaria» preoccupata solo del profitto. Il lavoro come «riscatto sociale» ma anche come arma di «ricatto». La ferita del lavoro nero, la piaga della disoccupazione. Il falso mito della «meritocrazia» usato come «legittimazione etica della disuguaglianza». Il lavoro «cattivo» che produce armi e violenta la natura.

È stato un discorso a 360 gradi sul tema del lavoro quello che ieri – mentre a Taormina era in corso il G7 su ambiente, economia e migrazioni – papa Francesco, in visita a Genova, ha tenuto all’Ilva di Cornigliano davanti alla folla osannante di operai metalmeccanici, rispondendo alle domande di quattro persone, accuratamente selezionate sulla base del principio dell’interclassismo, pilastro della dottrina sociale della Chiesa: un imprenditore, una sindacalista, un operaio, una disoccupata.

«Non c’è buona economia senza buon imprenditore», ha detto Francesco. Ma «chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente, non è un buon imprenditore, è un commerciante, oggi vende la sua gente, domani vende la propria dignità». È uno «speculatore», un «mercenario» che «usa azienda e lavoratori per fare profitto».

«Licenziare, chiudere, spostare l’azienda (delocalizzare, ndr) non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto». E «qualche volta – ha proseguito – il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro».

Il papa ha dato ragione alla sindacalista, che ha parlato della necessità di rendere il lavoro «una forma concreta di riscatto sociale», e ha aggiunto il tema del lavoro usato come «ricatto», con un episodio che ha detto essergli stato raccontato da una ragazza a cui era stato proposto un lavoro da 10-11 ore al giorno per 800 euro al mese: «800 soltanto? 11 ore?. E lo speculatore, non era imprenditore, le ha detto: Signorina, guardi dietro di lei la coda: se non le piace, se ne vada. Questo non è riscatto ma ricatto!». Poi il «lavoro in nero», quello dei «caporali», ma anche le forme apparentemente soft: «Un’altra persona mi ha raccontato che ha lavoro, ma da settembre a giugno: viene licenziata a giugno, e ripresa a settembre». Non c’è bisogno di andare nei campi della Puglia, basta entrare in una scuola pubblica per verificare la normalità di tale prassi.

«La mancanza di lavoro è molto più del venir meno di una sorgente di reddito», è assenza di «dignità». Per questo, ha detto il papa, l’obiettivo «non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti! Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». Lo afferma il primo articolo della Costituzione italiana, ha ricordato Francesco: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». E allora «togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato, è anticostituzionale».

«Competitività» e «meritocrazia», secondo il papa due «disvalori» da rimuovere. La prima perché mette i lavoratori in guerra gli uni contro gli altri («quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione fra loro, magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio, ma finisce presto per minare quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione»). Con la seconda, «il nuovo capitalismo dà una veste morale alla diseguaglianza» («se due bambini nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente») e rende il povero «un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa».

La visita è proseguita in cattedrale, dove ha incontrato i vescovi, i preti, i religiosi e le religiose, poi i giovani al santuario della Madonna della Guardia, dove è tornato sul tema dei migranti: «È normale che il Mediterraneo sia diventato un cimitero? È normale che tanti Paesi, non l’Italia che è tanto generosa, chiudano le porte a questa gente che fugge dalla fame e dalla guerra?». Pranzo con alcuni rifugiati, senza fissa dimora e detenuti, un saluto ai degenti del Gaslini, messa a piazzale Kennedy e, in serata, rientro a Roma.

«». huffingtonpost 1°Maggio 2017 (c.m.c.)

Quanti, tra i “lavoratori” della cultura, possono fare loro le parole che Giorgio Gaber cantava nel 1965? Oggi il più difficile da far proprio è il primo verso: perché tra chi manda avanti il patrimonio culturale non manca chi spera, né chi lotta, ma tende a mancare chi vive del lavoro. Perché dietro i lustrini dei grandi musei ipercommerciali di Franceschini, dietro i siti archeologici di grido, dietro l’agonia della biblioteche e degli archivi c’è uno schiavismo senza diritti e senza redditi mascherato da volontariato.

Ebbene, una delle cose più insopportabili di questa insopportabile situazione è che gli schiavi trenta-quarantenni del patrimonio non hanno neanche il modo di parlare con la loro voce. E allora almeno oggi – in questo primo maggio 2017 – vorrei provare ad ascoltarla, questa voce. È per questo che pubblico una delle lettere che ogni tanto mi giungono dagli inferi del patrimonio culturale italiano:

«Egregio prof. Montanari,
siamo un gruppo di lavoratori della Biblioteca nazionale di Roma, formalmente inquadrati come volontari.
In quanto lavoratori sfruttati, ci sentiamo vicini a tutti i precari che, come dice Guido Cioni, oggi non trovano la giusta collocazione nella pubblica amministrazione, vittime di un mondo del lavoro ormai frammentato e non più in grado di offrire il giusto riconoscimento e collocamento a chi ha investito anni e soldi nello studio per vedere realizzate le proprie speranze e aspirazioni.
Il Mibact, attraverso lo strumento del project financing, ha dato avvio a interventi di ristrutturazione e restyling della Biblioteca senza porre al centro dei suoi obiettivi il lavoro e ignorando le funzioni essenziali di un simile istituto. Le biblioteche, soprattutto in un paese ricco di storia come l’Italia, sono luoghi in cui dovrebbe essere celebrata la cultura, nel rispetto della dignità del lavoro.
Crediamo infatti che solo riconoscendo le professionalità di chi vi opera sia possibile valorizzare il nostro patrimonio e garantire una buona qualità dei servizi erogati all’utenza, un’utenza peraltro sempre più insoddisfatta.
Non si comprende dunque come si possa porre rimedio alle carenze di personale con il volontariato retribuito e non retribuito, con l’utilizzo del servizio civile (altra forma di volontariato) o con l’assunzione di un numero irrisorio di addetti.
A nulla sono serviti i nostri tentativi di dialogo con il direttore della Biblioteca e con il Ministero.
Siamo convinti che ogni battaglia per il riconoscimento dei diritti connessi al lavoro si possa vincere solo se si marcia uniti, facendo rete, costruendo una comunicazione continua tra le realtà presenti sul territorio, tra studenti (i lavoratori del futuro), volontari (che con fatica provano ad arricchire di competenze il proprio curriculum in vista di un contratto) e lavoratori sfruttati e non inquadrati sulla base delle abilità acquisite.
Facciamo parte di una generazione molto bistrattata e dunque scoraggiata. Stiamo invecchiando con prospettive lavorative che rischiano di trasformarsi in illusioni, la realizzazione professionale è ormai un miraggio, considerando che la realtà in cui viviamo ci costringe irrimediabilmente ad abbassare le nostre giuste aspettative, e le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni hanno progressivamente sgretolato quei diritti che ci avrebbero garantito certezze per l’avvenire.
Le chiediamo di incontrarci, di raccontarci, di confrontarci per comprendere meglio quali siano gli obiettivi che possano unirci, nel breve e lungo termine, e spingerci a una mobilitazione comune. Le battaglie si vincono e si perdono. Ciò che può fare sempre la differenza è la coscienza di aver agito per costruire un futuro migliore per noi e i nostri figli, restituendo parola a chi si sente “invisibile” come noi, come molti in Italia».

Ecco l’unico modo possibile per “festeggiare” il primo maggio: prendersi il tempo per ascoltare e meditare la voce di chi non ha voce. La voce di chi lotta: di chi spera di poter vivere, un giorno, del lavoro che già sta facendo.

Molte volte su questo sito, abbiamo ricordato la festa del lavoro con lo sguardo volto al passato. Oggi non ce la sentiamo più.

Nel ricordare il 1° maggio nel 2017 ci sentiamo fortemente spiazzati, e non riusciamo a sentire questa data come una festa che ricorda momenti drammatici ma forieri di lotte, di riscatto e di progresso. Basta guardarci intorno per comprende quanto il mondo è cambiato, e in peggio, proprio sul tema fondativo dell'umanità che è il lavoro.

Per noi, che abbiamo letto e meditato su testi di autori lontani nel tempo (ma vicini alla verità) il lavoro è un valore, una dimensione essenziale dell'uomo, maschio o femmina che sia. È lo strumento che consente all'uomo, collaborante con i sui simili vicini o lontani nel tempo e nello spazio, di conoscere l'universo (quello della materialità come quello dello spirito e dei sentimenti) e a governarlo.

Nell'età lunga (troppo lunga) del capitalismo il sistema dominante ha condotto gli uomini a lavorare insieme, e a riconoscersi come una forza potenzialmente antagonista dello stesso sistema di cui facevano parte come sfruttati. I secoli che abbiamo alle nostre spalle sono interamente intessuti dalle vicende di quell’antagonismo, e dei successi e insuccessi delle parti in conflitto.

Oggi questa data ci fa riflettere sul che cosa abbiamo ottenuto e che cosa abbiamo perso. Dobbiamo però precisare quale attore vogliamo essere in questa riflessione: se vogliamo essere il cittadino dei paesi del benessere, e se in questo ambito vogliamo indossare l’abito e il punto di vista del ricco, oppure del benestante, o del povero. Una scelta simile dovremmo fare anche se volessimo collocarci al di fuori dei paesi del benessere: anche lì ci sono le differenze, le “classi”.

Cercheremo oggi di metterci nella collocazione di quelli che sono di più, della moltitudine, così le nostre considerazioni avranno un maggiore valore statistico. Come nell’Inferno dantesco, troveremo nostri simili in vari gironi: nell’infimo i profughi, quelli che oltre al lavoro hanno perso la casa, la terra, il cibo, la libertà; un po’ più su, gli schiavi: quelli che sono obbligati a svolgere lavori, ma privati di ogni scelta circa le sue condizioni, retribuzioni, tempi; e a rischio di perdere – se lo rifiutano – anche il luogo ove vivere.

Ancora un pò più su i precari, quelli che non possono investire il loro tempo e la loro attività in un progetto di apprendimento e crescita, ma devono essere pronti in ogni momento della loro vita a mutare mansione, settore, località, padrone, compenso. Quelli, infine, cui la relativa stabilità nel posto, nel ruolo, nel salario non è messa a riparo dalla crisi e dall’interruzione definitiva e senza domani (salvo a ricadere nei cerchi più vicini al cuore dell’inferno).

Descritto l’inferno, ci manca di raccontare chi è il demonio. Non vi è dubbio che si tratti di quel neoliberismo che già nelle sue riflessioni iniziali poneva al primo piano la riduzione del peso sociale del lavoro. E ricordiamo allora, visto che la data corrisponde, che proprio oggi, 1° maggio 2017 circa 2 milioni di italiani festeggiano l’ulteriore vittoria di uno dei più titolati traduttori del pensiero neoliberista in FARE, Matteo Renzi.

». il manifesto, 14 aprile 2017 (c.m.c.)

La paga arriva puntuale ogni 5 del mese: il presidente dell’associazione di volontariato Avaca entra in biblioteca, prende posto a una delle scrivanie dei dipendenti pubblici – che gli fa spazio: siamo all’ufficio Servizi – ritira gli scontrini dei volontari e consegna a ciascuno di loro un assegno di 400 euro. Per 20 ore alla settimana, solo 15 giorni di ferie all’anno, niente malattia, maternità, contributi e copertura infortuni. Alla Biblioteca nazionale di Roma funziona così: 22 addetti alla catalogazione, ai prestiti, alle sale, ai rapporti con il pubblico non hanno un contratto, ma sono sottoposti a turni e svolgono le stesse mansioni dei 130 dipendenti effettivi. Sono gli «scontrinisti», e il modo in cui vengono sfruttati da un pezzo del nostro Stato urla vendetta.

La biblioteca nazionale dipende dal ministero dei Beni culturali, e fa acqua da tutte le parti. Il servizio agli utenti è costantemente a rischio, e carente, per una mancanza strutturale di organico, tappata alla bell’e meglio dai «volontari»: alcuni di loro lavorano retribuiti a scontrino da 13 anni, altri da sette o cinque, senza che sia mai cambiato nulla. Le recenti denunce – una conferenza stampa della Cgil, un articolo del manifesto, un servizio della trasmissione di Rai 2 Nemo – hanno aperto uno squarcio su una situazione totalmente surreale.

Federica, 32 anni, scontrinista alla Nazionale da cinque, è la lavoratrice che ha scoperchiato il vaso di Pandora della Biblioteca, raccontando la sua storia a una delle prime iniziative pubbliche della Cgil per i referendum su voucher e appalti: «Noi andiamo ben oltre i voucher – spiega – La nostra paga, di massimo 400 euro al mese per 20 ore settimanali, ci viene erogata solo se presentiamo gli scontrini delle spese alimentari degli ultimi 30 giorni. Ogni singolo buono non può superare i 30 euro, e a volte – pur di arrivare ai 400 euro – portiamo anche scontrini dei dipendenti della biblioteca o di nostri familiari. L’associazione Avaca, che ha una convenzione con il ministero dei Beni culturali e che ci retribuisce, annulla qualche scontrino: in questo caso il valore ci viene decurtato il mese successivo. Capita che ci chieda anche di raccogliere più di 400 euro di scontrini: fino a 500 o 600, se li troviamo. Non sappiamo poi cosa se ne facciano».

Federica racconta che i nomi dei volontari vengono inseriti nel piano turni, accanto a quelli dei dipendenti, e che è l’ufficio Servizi della Biblioteca a gestire gli uni e gli altri. «Prima delle recenti denunce pubbliche, capitava spesso che i volontari coprissero da soli intere sale o il magazzino, ma ora stanno sempre attenti ad accoppiarli ad almeno un dipendente. Lo stesso per i fogli firma di entrata e uscita: in passato era segnato anche il nostro turno, dopo gli articoli e i servizi tv è stato rimosso».

Foglio firme che i «volontari» della Biblioteca nazionale hanno dovuto «trafugare», come dei carbonari, per poterlo fotocopiare e avere una prova certificata della loro presenza quotidiana in Biblioteca: «Viene timbrato dalla dirigenza della Nazionale e trattenuto dall’Avaca. Abbiamo richiesto di fare delle copie ma ci è sempre stato negato».

Idem per lo statuto e gli altri documenti relativi all’associazione, che i volontari scontrinisti non riescono ad avere dal presidente: «Stiamo cercando di accedere attraverso le registrazioni pubbliche. Non abbiamo un contratto individuale, solo la tessera cartacea di iscrizione: paghiamo 25 euro l’anno. In biblioteca non entriamo con badge magnetici ma con un tesserino cartaceo, evitando i tornelli, come accade per i dipendenti».

Veri e propri «fantasmi», che si fa di tutto per rimuovere, ma tanto utili per coprire i turni dei dipendenti, specie in estate e per le festività. «Abbiamo solo 10-15 giorni di ferie l’anno – ripete Federica – Per Natale e Capodanno massimo due o tre giorni. Tappiamo i buchi, anche la vigilanza ai cancelli. Noi ci siamo sempre». Ma chi li obbliga a fare le quattro ore giornaliere, se sono soltanto dei «volontari»?

«Non ce lo chiede l’associazione, che non si occupa direttamente dei turni e compare solo al momento della paga – conclude la lavoratrice – Ma sì, la Biblioteca fa affidamento sul nostro lavoro e ci inserisce costantemente nei turni. Noi speriamo un giorno di venire regolarizzati, per questo in otto abbiamo avviato una vertenza con la Cgil».

«Se davvero vuole sconfiggere il fenomeno del caporalato, e cancellare le immagini della manodopera sfruttata nei campi di pomodori o intorno agli alberi di arance, l’Italia deve mettere al bando le aste “al doppio ribasso».

Altreconomia online, 27 marzo 2017 (c.m.c.)
Terra! e FLAI Cgil scrivono al ministro dell’Agricoltura per chiedere un intervento in grado di fermare le aste “al doppio ribasso”, attraverso le quali vengono stabiliti i prezzi offerti alla grande distribuzione organizzata. La ricerca di fornitori sempre più a buon mercato rende difficile, se non impossibile, la tutela dei diritti nei campi.Se davvero vuole sconfiggere il fenomeno del caporalato, e cancellare le immagini della manodopera sfruttata nei campi di pomodori o intorno agli alberi di arance, l’Italia deve mettere al bando le aste “al doppio ribasso”, uno dei meccanismi utilizzati dalla grande distribuzione organizzata per scegliere i proprio fornitori.

La dinamica è semplice: la GDO fa sedere attorno a una piattaforma virtuale i propri fornitori chiedendo loro di avanzare un’offerta per una grande quantità di un certo prodotto; sulla base dell’offerta più bassa la GDO convoca successivamente una seconda asta on line che in poche ore chiama i partecipanti a rilanciare, con un evidente paradosso, per ribassare ulteriormente il prezzo di vendita di quel prodotto.

Per questo, secondo Terra! e daSud -promotrici della campagna #filieraSporca- e il sindacato FLAI della Cgil, «sebbene si presuma che questi meccanismi consentano al distributore di mantenere bassi i prezzi al consumo, risulta evidente che un sistema simile produce delle sofferenze economiche, scaricate sui fornitori e da questi ultimi sul settore produttivo e conseguentemente sui lavoratori». Questo scrivono, in una lettera inviata il 22 marzo al ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, Ivana Galli -della FLAI- e Fabio Ciconte -direttore di Terra!-.

Lo stesso Martina, infatti, nelle ultime settimane ha mostrato apertura nei confronti delle criticità che la campagna #filierasporca ha fatto emergere, a partire dalla pubblicazione del suo ultimo rapporto sulla filiera del pomodoro. E così le organizzazioni chiedono al ministro, tra i promotori della legge contro il caporalato, uno sforzo in più, per intervenire con «misure legislative volte a cancellare la pratica delle aste elettroniche inverse (così si chiama tecnicamente il meccanismo del doppio ribasso, ndr) nell’acquisto dei prodotti alimentari».

«Meccanismi come il sottocosto e le aste on line distruggono l’intera filiera dell’agricoltura, perché alterano alla base i rapporti tra grande distribuzione e consumatore, facendo pagare il costo più elevato all’ambiente e ai produttori, oltre ad aggravare le condizioni di sfruttamento dei lavoratori e il caporalato» ha spiegato Fabio Ciconte di Terra!, nel lanciare la campagna #ASTEnetevi.
FLAI Cgil e Terra! hanno scritto anche ad Auchan Italia, Carrefour Italia, Conad, Coop Italia, Crai, Despar, Esselunga, Eurospin, Interdis, Lidl Italia, Gruppo Pam Panorama, Selex, Sigma, Sisa, Sma Italia.

Sono i principali marchi della grande distribuzione presenti nel nostro Paese, e in molti casi fanno parte anche di importanti «centrali d’acquisto internazionali», che hanno sede fuori dall’Italia e fanno uso del meccanismo delle aste al doppio ribasso.

Queste centrali d’acquisto rappresentano una forma di cooperazione tra soggetti apparentemente concorrenti -i giganti della GDO-, e hanno l’obiettivo principale di accrescere il potere esercitato dai compratori sul mercato.
Secondo un recente report pubblicato da SOMO -centro olandese di ricerca sulle multinazionali- le maggiori centrali d’acquisto sarebbero in grado di spuntare dai fornitori ribassi ulteriori fino al 10% rispetto a quelli che potrebbe contrattare il singolo gruppo. Tra i marchi italiani, fanno parte di una delle maggiori centrali d’acquisto Coop Italia (il “gruppo d’acquisto” si chiama Coopernic, ha sede in Germania ed opera in 21 Paesi), Conad (fa parte di Alidis, che ha sede in Svizzera ed opera in 8 Paesi), mentre BIGS è la centrale d’acquisto che agisce in 11 Paesi europei per i licenziatari del marchio SPAR (Despar, in Italia).

SOMO ha riscontrato l’assenza di codici etici -in merito tanto a variabili di carattere sociale che ambientale- da parte delle prime cinque centrali d’acquisto europee, che hanno come clienti circa 35 marchi, per un fatturato complessivo di 600 miliardi di euro. La forza di questi soggetti, poi, non è solo quella contrattuale: alcuni fornitori, intervistati da SOMO, preferirebbero non dover collaborare con le centrali d’acquisto internazionali, per non offrire informazioni “sensibili” (come quelle relative ai loro costi) che saranno sicuramente condivise anche con le catene della grande distribuzione.

«». comune-info, 11 marzo 2017 (c.m.c.)

Fin da quando l’economia divorziò dalla filosofia e dalla morale, pretendendo di assumere uno statuto scientifico autonomo, si palesarono due tendenze: quella – ahimè vincente – basata sull’individualismo degli interessi di Adam Smith (di fede calvinista) e quella del suo contemporaneo meno noto Antonio Genovesi (napoletano di fede cattolica), primo cattedratico di economia in Europa all’Università di Napoli (1754), che considerava il mercato come una civilissima forma di “mutua assistenza”, capace di tenere assieme individui e comunità. A questa seconda scuola di pensiero si è ispirato il Laboratorio Nazionale di Nuova Economia, un gruppo informale che dal 2012 ha raggruppato ricercatori e attivisti di varie associazioni, fondazioni culturali, reti di economia solidale, tra cui Banca popolare Etica, Arci, Arcadia University, Attac Italia, Solidarius Italia.

Il loro scopo è stato studiare e accompagnare pratiche locali capaci di «coniugare l’economia e la finanza con la solidarietà, l’etica, la socialità, l’ecologia, le buone relazioni». Una di queste esperienze è in corso da circa tre anni a Roma, al III Municipio, tra via Salaria e via Nomentana.

Dopo molte riunioni periodiche aperte agli abitanti e incontri con gli operatori economici è stato organizzato nella piazza antistante il Municipio un incontro/evento per condividere con gli abitanti i risultati della ricerca-azione e una piccola fiera dell’artigianato di qualità del quartiere che mostrasse abilità e competenze degli artigiani. Falegnami, restauratori, corniciai, parrucchieri artistici, un bronzista, un calderaio… hanno creato un’istallazione che hanno chiamato Eco-house attorno a cui si sono svolte varie attività dimostrative. Le botteghe artigianali e il recupero di mestieri antichi possono costituire il tessuto su cui ricostruire relazioni sociali nelle aree urbane pesantemente colpite dalla crisi.

Oltre a ciò il Laboratorio è impegnato a costruire un circuito virtuoso tra il negozio locale di prodotti biologici Passo al Bio, rilevato da una cooperativa, il Gruppo di acquisto solidale, le cooperative sociali agricole del vicino Parco della Marciliana e i produttori della filiera agroalimentare che fanno parte della Rete dell’economia solidale del Lazio.

Soana Tortora, di Solidarius Italia, impresa sociale che si ricollega alle attività del filosofo brasiliano Euclides Mance, è una delle animatrici del gruppo di regia del Laboratorio: «Come ricercatori non siamo partiti dalle definizioni teoriche che connotano le varie esperienze di Nuova economia. Ci interessa piuttosto vedere dove ci porta un metodo davvero partecipativo di progettazione sociale. Come abitanti siamo impegnati a costruire relazioni comunitarie per mantenere di buona qualità le funzioni residenziali e la vocazione artigianale del quartiere attaccate dall’eccessivo costo dei fitti, dagli sfratti per cambio di destinazione e dal contemporaneo degrado e abbandono di molti edifici».

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Dal divieto dell’attività di collocamento privata e della mediazione di lavoro interinale alla sua regolarizzazione.

La Nuova Venezia, 6 marzo 2017 (m.p.r.)

I recenti sei arresti in Puglia per la morte di una bracciante, sollevano il problema del ruolo delle agenzie interinali, che hanno avuto sorprendentemente Marghera come incubatore. Vediamo perché. Sino alla liberalizzazione degli anni Novanta, in Italia il mercato del lavoro era sottoposto al regime del sistema di collocamento pubblico obbligatorio gestito da uffici pubblici, regolato dalla legge 264 del 1949. La successiva legge 1369 del 1960 vietava la mediazione e l’interposizione nei rapporti di lavoro; l’inosservanza di questa norma comportava l’applicazione di pesanti sanzioni penali. Il divieto dell’attività di collocamento privata e della mediazione di lavoro interinale aveva la giusta finalità di tutelare i lavoratori.

Nel 1993, Charles Edward Hollomon (uno statunitense della Georgia dalla doppia nazionalità), fondò a Marghera l’agenzia Spider: una vera e propria agenzia interinale avente per oggetto specifico l’intermediazione per il lavoro ad interim (dal latino, provvisorio): fu la prima del suo genere in Italia. Che questo sia accaduto nella Marghera industriale, cioè nella terra di uno dei capisaldi delle lotte operaie negli 1960/70, appare come una beffa del destino, uno sfregio sul volto della sua storia. L’agenzia di Hollomon si occupava di far incontrare domanda e offerta nel mercato del lavoro, disponendo di book fotografici dei vari candidati, come quelli tuttora in uso dalle agenzie per cercare una/un partner o una escort.
Nel Veneto, in breve tempo l’agenzia Spider mise assieme più di 200 mila curricula. Essendo “contra legem” l’imprenditore dovette chiudere l’attività. Con la legge delega 196 del 1997, sollecitata dall’Unione Europea (conosciuta come legge Treu, all’epoca ministro del Lavoro e della Previdenza sociale) vennero emanate le norme per regolare direttamente l’apprendistato e legalizzare il lavoro interinale, fino ad allora illegale in Italia. Tant’è vero che prima dell’approvazione della legge 196, in un faccia a faccia televisivo con Hollomon, il ministro Treu definì illegale l’attività intrapresa dall’agenzia Spider.
Aperta la strada, immediatamente (1997) Luigi Brugnaro fondò, sempre a Marghera, sfregiandola così nuovamente, l’agenzia interinale Umana Spa, che rapidamente diventò leader indiscussa in Veneto (ora è l’ottava agenzia per fatturato in Italia). Non va dimenticato che Ferruccio, il padre di Luigi Brugnaro, quando lavorava alla Montefibre, organizzò lotte durissime contro la precarietà del lavoro, fino a prendersi le manganellate della polizia e ad alzare contro queste ingiustizie un alto grido di protesta nelle sue poesie, scrivendo: sono sempre stato con “la gente più sfruttata della terra”.
Le agenzie interinali si arricchiscono sfruttando la precarietà del lavoro, in particolare quella che colpisce i giovani, i nostri figli. Di fatto, queste agenzie si configurano come una legalizzazione dell’abominevole intermediazione, svolta dal caporalato. Che nella morte della bracciante agricola Paola Clemente, stroncata dalla fatica tra i vigneti di Andria nel luglio 2015, sia implicata anche un’agenzia interinale, la dice lunga tanto sulla sgangheratezza del nostro sistema normativo, quanto sulla inadeguatezza dei controlli ai quali queste agenzie sono sottoposte. Turba non poco le nostre coscienze di cittadini veneziani avere un sindaco paladino delle agenzie interinali (dal 2012 al 2014 egli è stato addirittura il presidente dell’associazione di categoria nazionale), che, seppur legalmente riconosciute, possono essere ritenute eticamente esecrabili, perché è dis-umana ogni attività che “specula” sull’intermediazione del lavoro.
Un prezioso articolo che, cogliendo l'occasione delle ultime castronerie di Matteo Renzi, ricorda che cosa fu il New Deal e perché potrebbe essere oggi una via d'uscita dalle crisi che affligono il mondo di oggi: dal lavoro all'economia, dall'ambiente all'esodo.

il manifesto, 1° marzo 2017
«L’anima del New Deal. Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. Perché va ricordato Keynes a chi, come Renzi, vuole contrabbandare i famosi Job Corps, ripresi da Di Vittorio ed Ernesto Rossi, con il Jobs Act gonfio di bonus e sottrazione di diritti. Atkinson, per esempio, suggerisce di tornare a prendere molto sul serio l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e un programma nazionale per il risparmio garantito

Resisterò alla tentazione di parlare di frode per la spregiudicatezza con cui Renzi tenta oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione (sostanzialmente una riedizione del Jobs Act, una riduzione della dignità del lavoro, la contrazione dei suoi diritti, una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese), dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.

In tutta Europa è in corso una discussione molto seria e molto ardua su cosa preferire tra “reddito” e “lavoro” di cittadinanza” e personalmente ho argomentato perché opto per quest’ultimo[1].

La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo “denaro gratuitamente per tutti”, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode». Non userò una simile definizione per le ultime uscite di Renzi, ma alcune precisazioni sono, tuttavia, il minimo che l’habermasiana “etica del discorso” ci impone.

L’anima del New Deal di Roosevelt – e così dovrebbe essere anche oggi – fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla Cgil di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico.

Riprodurre oggi un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’Imu e della Tasi): perché mai se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?

Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali.

Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario:
- Identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi «resta fuori dal processo di innovazione», come dice Renzi).
- Dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola, ecc.), l’opposto della “neutralità” e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del “dirigismo”) rivendicate dai consiglieri di Renzi.
- Lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della “piena e buona occupazione” rovesciando la logica: invece che affrontare ex post «i costi della perdita di impiego» (secondo il suggerimento di Renzi), fare ex-ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata.
- Considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come Employer of last resort, invece che il “perimetro” da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.

Qui va riscoperto Keynes e non per contrabbandare come keynesiano lo strappare “margini di flessibilità” all’”austerità” europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi.

Richiamandosi a Keynes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, il grande economista Tony Atkinson invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni).

Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%. Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.

Ed escogita tutta una serie di proposte “radicali”, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito».

Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – la sua rivoluzionarietà – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.

E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.

All’idea di rilanciare la piena e buona occupazione Atkinson collega altre proposte radicali : quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’incredibile aumento delle disuguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri superricchi).

[1] Vedi su eddyburg in particolare il recente articolo di Laura Pennacchi Perché al reddito di cittadinanza preferisco il lavoro, in “Il lavoro dentro e fuori dal capitalismo

«». Il PaesedelleDonne online, 24 febbraio 2017,

Trani – Fu un infarto a ucciderla, ma la morte di Paola Clemente, la bracciante agricola 49enne di San Giorgio Jonico scomparsa mentre lavorava all’acinellatura dell’uva sotto un tendone nelle campagne di Andria il 13 luglio del 2015, non è stata vana. L’inchiesta, aperta all’indomani della denuncia da parte del marito e della Cgil, è arrivata a una svolta. Sei persone sono state arrestate nel corso di un operazione della guardia di finanza e della polizia coordinate dal magistrato tranese Alessandro Pesce. Truffa ai danni dello Stato, illecita intermediazione, sfruttamento del lavoro: la nuova legge contro il caporalato non ha fatto sconti. Se fosse entrata in vigore prima, probabilmente il numero delle persone in manette sarebbe stato più alto.

In carcere sono finiti Ciro Grassi, il titolare dell’azienda di trasporti tarantina che trasportava in pullman le braccianti fino ad Andria; il direttore dell’agenzia Inforgroup di Noicattaro, Pietro Bello, per la quale la signora lavorava; il ragioniere Giampietro Marinaro e il collega Oronzo Catacchio. Stessa sorte anche per Maria Lucia Marinaro e la sorella Giovanna (quest’ultima ai domiciliari). La prima è la moglie di Ciro Grassi, indagata per aver fatto risultare giornate fasulle di lavoro nei campi con lo scopo di intascare poi le indennità previdenziali, e la seconda avrebbe lavorato nei campi come capo-squadra.

Nel corso delle indagini furono acquisiti nelle abitazioni delle lavoratrici in provincia di Taranto carte e documenti in cui sarebbero emerse differenze tra le indicazioni delle buste paga dell’agenzia interinale che forniva manodopera e le giornate di lavoro effettivamente effettuate dalle braccianti. Dai documenti era emersa una differenza del 30 per cento tra la cifra dichiarata in busta paga e quella realmente percepita da alcune lavoratrici. Le braccianti sfruttate nei campi – secondo la Procura di Trani – percepivano ogni giorno 30 euro per essere al servizio dei caporali per 12 ore: dalle 3,30 del mattino, quando si ritrovavano per essere portate nei campi a bordo dei pullman, alle 15.30, quando ritornavano a casa dopo essere state al lavoro tra Taranto, Brindisi e Andria.

L’inchiesta non riguarda la morte della donna, sulla quale è in corso una consulenza di un docente di medicina del lavoro che dovrà accertare se vi sia stato nesso di causalità tra decesso e superlavoro, ma lo sfruttamento di Paola e di oltre 600 braccianti. Le vittime dello sfruttamento – secondo l’accusa – sono donne poverissime con figli da sfamare e mariti spesso senza lavoro, in molti casi ex lavoratori dell’Ilva di Taranto. Quello che più colpisce delle 302 pagine del provvedimento restrittivo è la straziante confessione di alcune braccianti, sfruttate e sottopagate dall’agenzia interinale.

Una donna racconta agli inquirenti che un giorno, sul pullman, nel momento in cui venivano distribuite le buste paga, «alcune donne si sono lamentate dei giorni mancanti e G. ha detto che noi lo sapevamo, quindi non dovevamo lamentarci. Nessuna ha più parlato, anche perché si ha paura di perdere il lavoro. Anch’io adesso ho paura di perdere il lavoro e di essere chiamata infame. Ho un mutuo da pagare, mio marito lavora da poco, mentre prima stava in cassa integrazione. Dovete capire che il lavoro qui non c’è e che perderlo è una tragedia. Quindi, se molte di noi hanno paura di parlare è comprensibile».

Un’altra fa mettere a verbale al pm Alessandro Pesce che «se fai la guerra perdi, perché il giorno dopo non vai più a lavorare». E una sua collega aggiunge: «Per noi 32 euro al giorno sono necessari per sopravvivere». Testimonianze coraggiose che commuovono il procuratore tranese Francesco Giannella: «Nell’indagine è emerso – spiega – che il caporalato moderno si è concretizzato esclusivamente attraverso l’intermediazione di un’agenzia interinale. E’ una forma più moderna e più tecnologica rispetto a quella del passato». Ma il motore che lo alimenta è sempre lo stesso:«L’assoluta povertà delle braccianti che vedono nei caporali i loro benefattori, anche se questi le sorvegliano pure quando vanno in bagno e bacchettano se non lavorano bene».

Paola Clemente, è emerso, era stata assunta da un’agenzia interinale ma non era stata sottoposta, o quanto meno non risulta, a una visita medica. Poi, la svolta. Dopo un’inchiesta di Repubblica e l’intervista al marito di Paola, la Procura di Trani decise di riesumare il cadavere. L’autopsia accertò che si era trattato di una “sindrome coronarica acuta”. La donna, stabilirono gli esami eseguiti dal medico legale Alessandro Dell’Erba con il tossicologo Roberto Gagliano Candela, era affetta da ipertensione (che stava curando) e da cardiopatia.

Durante l’ultima assemblea della Cgil a Taranto alla leader della Cgil, Susanna Camusso, fu consegnata una copia rilegata della legge in materia di contrasto al fenomeno di caporalato che il segretario generale della Cgil Bat, Giuseppe Deleonardis, volle dedicare proprio a Paola Clemente. La sua fu, ha ricordato, fu una battaglia a favore dei diritti dei lavoratori costretti a vivere nei ghetti e quelli vittime del caporalato, che ha portato a un’accelerata verso la stesura e l’approvazione della legge contro i caporali perché, disse, «se c’è un lavoro sfruttato e schiavizzato, c’è un impresa che sfrutta e schiavizza».

Immancabili le reazioni politiche. A cominciare da quella della presidente della Camera, Laura Boldrini, che spera che la nuova legge sul caporalato «si dimostri una risposta efficace per debellare una forma di schiavismo intollerabile». «La tragedia di Paola Clemente – dice il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina – è ancora viva in tutti noi e la nuova legge contro il caporalato ha segnato un punto di svolta».

la Repubblica, 24 febbraio 2017 (c.m.c.)

Cambiano vestito ma sotto c’è sempre lo stesso cuore nero. La raccolta del carico umano non la fanno più nella piazza ma in un ufficio con vetrine luccicanti e signorine sorridenti, mail garbate, furgoncini che profumano di nuovo. Sono schiavisti e si presentano come tour operator.

È il nuovo “caporale” dell’Italia nascosta, quello che si adegua ai tempi e sa che non può più andare all’alba giù in paese e mettersi davanti a tutti quelli che aspettano tremanti e dire «tu sì» e «tu no», tu lavori per me e tu fai la fame, «tu domani» e «tu mai». Come alla fiera del bestiame, solo che adesso il mercato degli animali è più pettinato, a prima vista regolare e legale, politicamente super-corretto. Senza quella manifesta violenza fisica e psicologica che li faceva sembrare tanto cattivi, tanto mafiosi. Ma sempre sfruttatori di sangue sono, vampiri che fatturano secondo stime per difetto 9 miliardi di euro l’anno, tre solo con il pomodoro. Sono sempre loro, come quando li ammassavano sul cassone di un camion per scaricarli poi in una vigna o in un orto, in un uliveto o in una serra.

Questa storia di Trani ci fa scoprire un Meridione che cambia e non cambia mai nei suoi abissi, dai campieri a cavallo ai campieri costretti dalla modernità a ripulirsi per continuare a trafficare con lavoratori in servitù totale. Solo i nomi sono diversi. Oggi è toccata a Paola, Paola Clemente, stroncata dalla fatica sotto un tendone nelle campagne di Andria. Ma quante sono le Paole di cui non sappiamo nulla e non sapremo mai nulla, le Paole che muoiono di fatica giù in Puglia o in Calabria, in Sicilia o in Campania? Solo quelle pugliesi - le braccianti donne - vittime dei caporali italiani sarebbero 40 mila. È come la mafia che non spara più e che si presenta conciliante e “affettuosa” per fare affari o dare lavoro. Mica lo fa con la lupara a tracolla o con il revolver infilato nella cinghia dei pantaloni. Fa la sua offerta, prendere o lasciare. Fuori è tutto in ordine, dentro tutto sudicio. Tour operator.

E cosa faceva prima Ciro Grassi, il titolare dell’azienda di trasporti tarantina che spostava quelle come Paola fino ad Andria o giù nel tarantino o verso Brindisi perché dividessero gli acini maturi da quelli ancora acerbi e non sviluppati? Faceva il “caporale” alla vecchia maniera, all’antica come era abituato a fare da una vita. Non ha mai trovato un altro mestiere. Si è solo emancipato nella sua specialità. Dalla conta mattutina nell’arena al patto con il direttore dell’agenzia interinale che ha il suo sito con “offerte di lavoro” e addirittura con “opportunità di carriera”, il ragioniere compiacente che sapeva tutto e giostrava con i contributi da far sparire, c’era pure una parente loro che poi nei campi faceva anche la caposquadra. La Kapò del vigneto.

Quelle come Paola stavano piegate fra pesticidi o l’inferno dei tendoni dodici ore per 30 euro, due euro e mezzo ogni sessanta minuti. Dalle tre di notte alle tre del pomeriggio. Ma ufficialmente le braccianti guadagnavano di più, il resto però - il trenta per cento circa - se lo prendevano i padroncini. Se lo dividevano.

Che differenza c’è mai fra questa schiavitù avvolta in carta patinata e quella rozza di più di mezzo secolo fa tra Eboli e Battipaglia, fra l’agro napoletano e i feudi sterminati dei conti e dei marchesi giù in Sicilia? Sempre mercato di braccia e di corpi, di soprusi e di “soprastanti” anche se nessuno li chiama più così ma così sono ancora. Il cuore nero.

Negli ultimi anni abbiamo raccontato le vicende degli schiavi che si muovevano di regione in regione inseguendo i raccolti di frutta e verdure dalla Sicilia alla Puglia, dal casertano ai giardini di arance della Piana di Gioia Tauro. Abbiamo raccontato la “caccia al nero” del 2010 sulle strade fra Rosarno e Gioia Tauro, quando la popolazione locale ha imbracciato le armi contro i senegalesi e gli ivoriani e i ghanesi che non ne potevano più di morire di freddo e di fame. E poi le tragedie dei bulgari, dei romeni, dei lituani, degli slovacchi che sopravvivevano nelle baraccopoli della Capitanata e ogni tanto morivano e ogni tanto si ribellavano. Come quei tre ragazzi polacchi di vent’anni - Arkadiusz e Wojcech e Bartosz - che un giorno d’estate del 2006 hanno fatto scoprire il racket del Tavoliere.

Ma ci mancava in questa miserabile lista il mediatore losco provvisto di licenza di “noleggio e trasporto persone con conducente” che viene contattato da una grande società del Nord, con sede al centro di Milano e che ha i suoi referenti in ogni piccola e grande città del Sud. Questa società come altre agenzie di collocamento sono tutte senza un pelo fuori dalla legge, buste paghe apparentemente regolari, firme e controfirme, le carte sempre a posto. Poi qualcuno non ce la fa più. Capita. Poi qualcuno muore. Capita.

'8 marzo si avvicina. Eppure non ci risulta che l'appello delle donne abbia avuto la risonanza che meriterebbe. Forse lo spazio va conservato per le prove di sommossa dei tassinari e simili. E ci sembra che del mondo del lavoro solo i Cobas abbiano aderito con calore.

La città invisibile online, 17 febbraio 2017
L’otto marzo 2017 sarà sciopero generale globale internazionale delle donne. Bloccheremo tutte le forme di lavoro, retribuite e non retribuite. La Confederazione Cobas in risposta a uno specifico appello lanciato da Non una di meno, ha indetto lo sciopero nazionale di tutte le categorie per l’intera giornata. Invitiamo tutti a partecipare allo sciopero, sia donne che uomini. Quest’anno l’otto marzo torna ad essere un giorno di lotta con la consapevolezza che l’ingiustizia non si accetta, si ribalta!

Ci fermeremo per affermare la nostra libertà ed il nostro valore, contro la violenza maschile sulle donne e contro ogni forma di sfruttamento sia nel lavoro retribuito: produttivo, nella distribuzione, nei servizi, istruzione, arte, amministrativo, culturale, che in quello riproduttivo, spesso non retribuito.

Contro la violenza maschile: maschilista, misogina e patriarcale che dallo stupro, alle intimidazioni, all’assassinio (femminicidio) mostra una incapacità di riconoscere la nostra autonomia e la nostra autodeterminazione. Una violenza che è anche fatta di regole patriarcali che introdotte nei codici, nelle religioni e nei rapporti sociali dominanti non ci riconoscono il diritto di scelta e costruiscono l’angusto spazio in cui dovremmo ricondurre il nostro essere che invece eccede quei pregiudizi e quelle regole. L’autonomia delle donne e la contraccezione e l’aborto come condizione per la scelta se essere madri o no, è osteggiata dalle interpretazioni più retrive delle religioni, che spesso sono quelle dominanti, come avviene per il Vaticano. Sulle donne incombe l’esproprio della nostra capacità riproduttiva.

Dagli anni settanta il movimento delle donne ha affermato il diritto alla libertà di costruire sé stesse individualmente e collettivamente oltre le regole e le imposizioni che dettano una identità eterodiretta che con violenza torce i nostri desideri e progetti.

Non possiamo né vogliamo accettare chi continua a vedere in noi, in come ci vestiamo, in come ci muoviamo, la provocazione che giustifica la violenza sessuale; né possiamo accettare di coprirci in base a dettami più o meno rigidi per evitare quella violenza. Se la nostra sola presenza e i nostri corpi sono provocatori per qualcuno è lui che va educato ad accettare che siamo esseri autonomi e in nessun modo qualcuno può pensare di avere dei diritti su di noi.
Nei posti di lavoro siamo sistematicamente sottoposte a una dirigenza quasi totalmente maschile con i rischi che il nostro valore non sia riconosciuto per semplice discriminazione oppure di dover sottostare ad attenzioni sessuali inserite in un rapporto sperequato. Non dimentichiamo che nel pubblico impiego le donne sono in maggioranza ed è proprio lì che si parla di furbetti che si assentano per malattia o per permessi. Quanti permessi coprono un lavoro di cura che ricade sulle spalle delle donne e che invece sarebbe un compito sociale? I metodi per pagarci molto meno degli uomini prevedono che il nostro grado di istruzione spesso superiore a quello degli uomini conti ben poco in carriere fatte soprattutto di appartenenza di classe e di tessere di partito o ad altri gruppi di potere. Le donne nemiche, come la Madia o la Fornero o la Boschi sono in quei posti malgrado siano donne, per appartenenza di classe e per nepotismi politico familiari. Le quote rosa avvantaggiano quasi sempre questo tipo di donne e se non si scardinano le discriminazioni e i discorsi misogini, tutte le altre resteranno subalterne.

Ma abbiamo molte armi da utilizzare. Una è questo sciopero globale in cui saremo insieme a tutte le altre donne di tutti i paesi con i nostri diversi ma simili sfruttamenti da accartocciare, regole inique da bruciare, confini da superare e spaccare.

Contro la violenza maschile sulle donne; contro il divario salariale a sfavore delle donne; contro le discriminazioni; contro lo sfruttamento sul lavoro e le prevaricazioni; contro il fatto che il lavoro di cura, che è responsabilità sociale, sia scaricato sulle donne. Per la giustizia sociale, la libertà, la creatività, la felicità!

con gli studenti della Rete della Conoscenza promuove un patto per il lavoro culturale aperto a studenti e docenti, precari e freeance nei beni culturali». il manifesto, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)

«La situazione dei lavoratori del settore dei beni culturali in Italia non è più accettabile e crea un problema nazionale: biblioteche che chiudono, cultura meno accessibile, flussi turistici sotto le aspettative, tutela del patrimonio storico-artistico a rischio, marginalità del patrimonio culturale, della Storia, dell’Arte e della cultura dalla coscienza collettiva del Paese» – dichiara Andrea Incorvaia, attivista della campagna Mi Riconosci? Sono un Professionista dei Beni Culturali – «Si è potuti arrivare a questo punto a causa di un chiaro disegno politico, ma anche della limitata opposizione di professionisti (o aspiranti tali), di chi questi professionisti li deve formare (insegnanti e professori) e dei datori di lavoro o committenti: da qua nasce l’esigenza di un Patto fra i soggetti che vivono il mondo dei Beni Culturali, un patto che abbia come obiettivo fondamentale la tutela dei diritti del lavoro e della dignità professionale».

«La sottoscrizione del Patto impegna studenti e professori, professionisti e aspiranti tali, datori di lavoro a censurare il ricorso al lavoro gratuito e sottopagato, ai tirocini formativi per coprire le carenze di organico, al volontariato in sostituzione del lavoro retribuito, alla negazione di diritti e di retribuzioni adeguate: sono tutte piaghe che affliggono il settore dei Beni Culturali da anni anche perché i suoi protagonisti hanno finito per considerare normale questo stato di cose inaccettabile» – prosegue Martina Carpani, Coordinatrice nazionale della Rete della Conoscenza – «Ma non è una situazione piovuta dal cielo: questo Governo è direttamente responsabile di politiche occupazionali insufficienti e della diffusione del lavoro precario: non solo ha liberalizzato i voucher, ma lo stesso MiBACT ha legittimato definitivamente il volontariato nel settore, con sistematici bandi volti ad assumere volontari laureati e preparati, ma senza retribuzione o con retribuzioni ridicole e vergognose».

*** Mille nuovi precari al Mibact: volontari al posto dei lavoratori

«Migliaia di professionisti sono stati spinti ad accettare condizioni di lavoro indegne per poter rimanere nel campo, e tanti altri a cambiare lavoro, per non dover accettare condizioni di lavoro indegne; datori di lavoro e committenti hanno spesso accettato di buon grado la prospettiva del massimo ribasso, facendo fronte alla mancanza di fondi con collaborazioni gratuite o appoggiandosi a varie associazioni di volontariato; anche il mondo accademico si è reso corresponsabile, facendo sempre troppo poco per il futuro dei propri laureati e per evitare che la selezione, a forza di titoli post-laurea e lavoro gratuito, divenisse sempre più censitaria» – prosegue Incorvaia – «Quella di oggi vuole essere una giornata di svolta per il mondo dei beni culturali: PLaC – Patto per il Lavoro Culturale vuole rompere questo meccanismo, mettendo ognuna delle persone che hanno a cuore il patrimonio culturale italiano di fronte alle proprie responsabilità, chiedendo di esporsi con nome e cognome per sottoscrivere impegni precisi»

Al patto hanno aderito, al momento, Salvatore Settis, Tomaso Montanari, Claudio Meloni della Fp-Cgil, Vittorio Emiliani, Rita Paris, Adriano La Regina, Margherita Corrado, Manlio Lilli e tanti altri. La giornata di lancio del Patto per il Lavoro Culturale è proseguita verso il Mausoleo di Augusto, in Piazza Augusto Imperatore a Roma, monumento da anni simbolo di spreco e degrado del patrimonio culturale per un’azione di denuncia da parte degli attivisti.

«Non c’è più tempo, dobbiamo coalizzarci e rompere, a partire da questo Patto, lo sfruttamento e lo svilimento del lavoro nel settore dei beni culturali. Ne va del futuro del nostro patrimonio culturale, cuore pulsante del Paese, e del futuro di intere generazioni di professionisti dei beni culturali presenti e futuri» – concludono gli attivisti nella nota – «Si tratta di un’emergenza nazionale, per il nostro patrimonio e il futuro di tantissimi giovani professionisti altamente qualificati»

Un dibattito interessante sul lavoro, a partire dal "reddito di cittadinanza. Ma raramente la sinistra riesce a uscire dall'angusto recinto del capitalismo. Neppure col pensiero. Articoli di Laura Pennacchi, Marco Bascetta, Aldo Carra, Andrea Fumagalli.

il manifesto, 29 gennaio - 1° febbraio 2017, con postilla

29 gennaio 2017
PERCHÉ AL «REDDITO DI CITTADINANZA»
PREFERISCO IL LAVORO
di Laura Pennacchi

Ha più di un fondamento l’affermazione de Le Monde secondo cui è «una falsa buona idea» l’ipotesi del «reddito universale» o «reddito di cittadinanza», che in tempi di populismi dilaganti ricorre dall’Italia alla Francia. Questa ipotesi (con cui si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale non sottoposto a nessun’altra condizione) pone immensi problemi di costo – si discute di centinaia di miliardi di euro -, a fronte del ben più limitato ammontare che sarebbe richiesto da «Piani per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne» ispirati alla prospettiva del «lavoro di cittadinanza» e al New Deal.

Un costo così illimitato rende la prima semplicemente irrealizzabile e i secondi assai più credibili e questo basterebbe a chiudere la diatriba, se non fosse che l’ipotesi di «reddito di cittadinanza» pone anche rilevantissimi problemi culturali e morali, sui quali è bene soffermarsi.

Non può essere sottovalutato che tra i primi sostenitori della proposta di «reddito di base incondizionato» ci fu Milton Friedman, il monetarista antesignano del neoliberismo che ne formulò una versione a base di riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella «imposta negativa».

Ma anche vari teorici di sinistra finiscono con l’avvalorare, pur di realizzare il «reddito di base», l’immagine di uno stato sociale «minimo», specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento.

Sottostante a tutto ciò c’è una strana resistenza, anche a sinistra, a fare i conti con le implicazioni più profonde della crisi «senza fine» esplosa nel 2007/2008, quasi si fosse indifferenti ad un’analisi politico-strutturale del neoliberismo e del suo esito più devastante, la «crisi permanente» per l’appunto. La motivazione con cui da parte di molti si giustifica il «reddito universale» è del tipo «tanto il lavoro non c’è e non ci sarà o quello che c’è è di tipo servile». Con questa motivazione, però, il «reddito di cittadinanza» viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si verrebbe a essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde e l’operatore pubblico si vedrebbe giustificato nella sua crescente deresponsabilizzazione (perché per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato).

In questa prospettiva è quasi del tutto assente il tentativo di intrecciare l’analisi delle trasformazioni con una osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico nella sua distruttiva versione neoliberista. Ci si limita a una considerazione delle diseguaglianze come problema solo distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Problemi di allocazione e di struttura si pongono tanto più al presente: il necessario «nuovo modello di sviluppo» non nasce spontaneamente, né solo per virtù di incentivi monetari, quale è anche il «reddito di cittadinanza», ma ha bisogno di pensiero, ideazione, progetti.

Chiarezza concettuale e culturale va fatta sulla stessa concezione del lavoro. L’escamotage a cui alcuni a sinistra ricorrono – sosteniamo insieme sia il «reddito universale» sia la «piena occupazione» – è fittizio e lascia tutti i problemi irrisolti. Stupisce, piuttosto, che oggi solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo «l’economia che uccide» – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, ribadendo che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’«essere» del lavoratore. Così come stupisce che non si faccia appello al Marx che, con Hegel, vede nel lavoro – nella sua «inquietudine creatrice» – il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità.

Dunque, piuttosto che ambire a costruire un «welfare per la non piena occupazione», la priorità assoluta va data alla creazione di lavoro demolendo l’ostracismo che è caduto sull’obiettivo della «piena e buona occupazione», nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – vorrei dire la sua «rivoluzionarietà» – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.

Non a caso il grande studioso Anthony Atkinson, scomparso da pochi giorni, da un lato proponeva un «reddito di partecipazione», cioè un beneficio monetario da erogare sulla base dell’apporto di un contributo sociale (lavoro di varia forma e natura, istruzione, formazione, ecc.), dall’altro si riferiva a Keynes e a Minsky e consigliava di tornare a prendere nuovamente sul serio l’obiettivo della piena occupazione, facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo «lavoro pubblico garantito», dall’altro ancora suggeriva che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte delle istituzioni collettive, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione. Qui peraltro – sosteneva Atkinson – si colloca la possibilità di smascherare l’inganno che si cela dietro le fantasmagoriche proposte (istituire privatamente e localmente forme di «reddito di cittadinanza») di alcuni imprenditori della Silicon Valley, interessati a ribadire che l’innovazione è guidata dall’offerta (cioè, traduceva Atkinson, dalle corporations) e non dalla domanda e dai bisogni dei cittadini, ai quali bisogna dare solo capacità di spesa e potere d’acquisto, cioè reddito magari sotto forma di «reddito di cittadinanza».

31 gennaio 2017
REDDITO UNIVERSALE,
COSÌ LA VITTORIA DI HAMON
PARLA AI NONGARANTITI
di Marco Bascetta

Benoit Hamon, che ha prevalso con ampio margine nelle primarie del Partito socialista francese per la candidatura all’Eliseo, e che guarda a una possibile alleanza rosso-rosso-verde, ha posto tra gli obiettivi centrali del suo programma il reddito di cittadinanza.

Seppure, nei tempi e nei modi della sua realizzazione, ha spesso oscillato dall’originaria impostazione universalistica e incondizionata a soluzioni più graduali e circoscritte, resta un segnale forte che, insieme al rifiuto della Loi Travail, ha saputo mobilitare una parte consistente dell’elettorato di sinistra, giovanile in particolare.

Del reddito di cittadinanza esistono infinite varianti e interpretazioni nel corso di una storia assai lunga che ha attraversato movimenti e progetti politici antagonisti, del tutto antitetici alla tradizione liberale nella quale gli avversari del basic income, si sforzano insistentemente di rinchiuderlo. Ricordare che Milton Friedman proponesse, a suo modo, forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione.

Resta il fatto che a sinistra il reddito di cittadinanza (o di base) incontra molteplici resistenze, ideologiche prima ancora che contabili. Il che rende questa vittoria di Hamon tanto più significativa e probabilmente dovuta, oltre che alla presa di distanza dal neoliberismo, dall’aver incrociato la domanda dei tanti soggetti sociali esclusi dagli ammortizzatori sociali che la sinistra tradizionalmente difende e gelosamente amministra.

Ormai stufi di rincorrere la promessa della piena occupazione da cui tutto dovrebbe discendere. L’articolo di Laura Pennacchi, pubblicato su queste pagine domenica scorsa, ci offre un catalogo piuttosto completo di queste resistenze. Che spaziano dal costo finanziario del basic income al «valore etico» del lavoro, con immancabile citazione di papa Francesco il quale, facendo il suo mestiere, fa risiedere nell’ora et labora, l’essenza della persona. Quanto ai costi del reddito universale (che dovrebbe riassorbire altre forme di previdenza) esistono tanti calcoli quante ne sono le varianti.

Qui, non potendo entrare in questioni tecniche, basterà dire che nel mondo barbaramente diseguale descritto da Piketty, l’insufficienza delle risorse è un argomento generalmente piuttosto debole.

Vi sono due tendenze alle quali quanti coltivano la fede nella piena occupazione non danno risposta.

La prima è che l’automazione e la tecnologia sono, per loro essenza, votate al risparmio di lavoro, a ridurre cioè il dispendio di fatica umana nella produzione di ricchezza. Che questa potenzialità si rovesci in disoccupazione e miseria è una conseguenza dei rapporti sociali. Solo nei momenti di più feroce sfruttamento (come la prima rivoluzione industriale) moltiplicano lavoro, perlopiù ripetitivo, dequalificato e sottoposto a un rigido comando gerarchico.

Oppure, come nell’epoca digitale, lavoro gratuito più o meno inconsapevole. Veniamo così alla seconda tendenza, del tutto invisibile a quanti guardano al reddito di cittadinanza con gli occhiali appannati dei classici ammortizzatori sociali. Viviamo in una società nella quale gran parte delle attività che ne fanno la ricchezza e la qualità sociale non sono riconosciute come lavoro e non danno diritto ad alcuna forma di reddito.

L’inattività assoluta è una pura e semplice invenzione ideologica. Per dirla con una formula secca non è di disoccupazione, ma di «disretribuzione» che dovremmo parlare. Il rapporto tra lavoro e reddito è stato di fatto già reciso, ma non dal reddito garantito, bensì dal dilagare del lavoro gratuito. Tradurre in contratti di lavoro retribuiti e regolamentati, per non dire stabili, queste molteplici attività che formano il fitto tessuto della cooperazione sociale va, questo sì, ben oltre il più strenuo sforzo di fantasia.

Detto altrimenti, ci troviamo già in una situazione di piena occupazione, la quale si presenta appunto nelle forme del lavoro precario, intermittente e gratuito da cui trae alimento il cosiddetto «capitalismo estrattivo». In questa prospettiva il reddito di base non è che il trasferimento di una parte di questa ricchezza a coloro che effettivamente la producono e non un semplice ammortizzatore sociale.

Si tratta, insomma, di un obiettivo pienamente politico e anche di un relativo trasferimento di potere.

La garanzia di un reddito comporta infatti maggiore forza contrattuale e più ampi margini di libertà dalle pretese del dirigismo pubblico di stabilire l’ «utilità sociale» come da quelle dello sfruttamento privato. «Datori di lavoro» è una espressione che non consente equivoci di sorta, che si tratti dello stato o del padrone.

Esprime, infatti, il potere di stabilire se, come, quanto, quando e cosa «dare». Una prerogativa alla quale non si rinuncia certo facilmente. E con la quale il desiderio di autonomia di innumerevoli soggetti produttivi non può che entrare in rotta di collisione.

1° febbraio 2017
REDDITO E LAVORO DUE IPOTESI DIVERSE
MA NON ALTERNATIVE
di Aldo Carra

Gli articoli di Laura Pennacchi e di Marco Bascetta, mentre nel partito socialista francese vince un candidato con la bandiera del reddito universale e della riduzione degli orari di lavoro, ripropongono la divaricazione dei punti di vista della sinistra italiana.

Da una parte centralità della creazione di nuovo lavoro come fonte di reddito, dall’altra affermazione del diritto ad un reddito di cittadinanza a prescindere dalla prestazione lavorativa.

Dopo il No dei giovani al referendum, la denuncia della crescita delle disuguaglianze per scarsità di lavoro e bassa remunerazione, mentre si sta dispiegando una ristrutturazione dei soggetti politici e tra poco dovremo affrontare referendum Cgil ed elezioni, una piattaforma politica della sinistra sulla materia si impone con urgenza. Proporrei alcuni punti di riflessione.

1 – Il matrimonio tra reddito e lavoro per cui non si dava reddito senza lavoro e lavoro senza reddito è finito da tempo: le diverse forme di welfare hanno introdotto sostegni al reddito che prescindono da prestazioni lavorative; negli ultimi anni si sono diffuse forme diverse di lavoro non retribuito connesse a prestazioni fatte per un mix di impegno civile, aspettative indotte, piacere personale. Forse se la dimensione spaventosa della disoccupazione misurata col metro tradizionale di lavoro e non lavoro non assume caratteri di rivolta è anche per questa area cuscinetto che vive in un limbo sostenuto spesso da ammortizzatori familiari.

2 – In uno quadro così dinamico le due ipotesi estreme presentano diverse criticità. La proposta di puntare esclusivamente a programmi di crescita capaci di creare occupazione in presenza di livelli di disoccupazione straordinari – 10 milioni tra disoccupati, scoraggiati, cassintegrati – non appare realistica, tenendo presente che innovazioni e robotizzazione ridurranno ulteriormente il lavoro necessario. Sul lato estremo, concentrare attenzione e risorse su una forma di sostegno come il reddito di cittadinanza appare a molti rinunciataria perché non si cimenta con la costruzione e la sfida di un nuovo modello di sviluppo oltreché negativa e dannosa sul piano etico.

3 – Collocando queste due ipotesi alle estremità di una scala, si possono ipotizzare svariate soluzioni intermedie come un reddito di cittadinanza attiva, cioè erogato in funzione di prestazioni lavorative prevalentemente di carattere sociale, ed un lavoro di cittadinanza come dovere delle istituzioni verso i cittadini e diritto dei cittadini. Le diverse proposte non sono necessariamente alternative. Al contrario, penso si possa progettare una strategia articolata, percorsi che consentano l’adattamento alle esigenze dell’individuo e dei territori con soluzioni e strumenti differenziati in veri e propri piani pluriennali. Maggiore credibilità alle due proposte dovrebbe venire dalla riduzione degli orari di lavoro, incoraggiandola nei rinnovi contrattuali con misure condizionate a nuove assunzioni e incentivi compensativi delle perdite di salario.

4 – Le diverse ipotesi, prese singolarmente o intrecciate e graduate, hanno implicazioni in termini di costo. Ciò implica investimenti pubblici sia nei settori produttivi che in quelli sociali (dai servizi alle manutenzioni, ripensando in forme nuove ai lavori socialmente utili) reperendo le risorse con una maggiore progressività sulle fasce alte sia delle imposte sui redditi che sui beni patrimoniali e sulle successioni, con investimenti diretti europei, con spesa pubblica esclusa dai vincoli di bilancio, senza trascurare l’ipotesi, a questo fine, di creare la moneta fiscale.

Un Piano straordinario di investimenti per il lavoro e per il reddito come programma minimo comune per un nuovo soggetto politico della sinistra. Se si discutesse di più di questo e, a cominciare dal congresso di Sinistra Italiana, si potesse delineare una piattaforma da discutere con il mondo giovanile innanzitutto, come base di possibili alleanze penso che il progetto ambizioso di Sinistra Italiana partirebbe col piede giusto.

1° febbraio 2017
«REDDITO DI BASE CONTRO LA PRECARIETÀ,
MODELLO HAMON PER SINISTRE E SINDACATO»
intervista di Roberto Ciccarelli ad Andrea Fumagalli

«Intervista a Andrea Fumagalli, economista dell'università di Pavia e membro del Basic Income Network Italia: "A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste sostenendo il reddito di base nel suo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica"»

«Dai dati Istat sulla forza lavoro emerge che il mercato del lavoro italiano è in forte stagnazione e gli sperati effetti del Jobs Act non si sono fatti sentire – afferma l’economista Andrea Fumagalli, docente all’università di Pavia e membro dell’associazione del Basic Income Network per il reddito di base in Italia – Una volta terminata la droga degli incentivi la crescita occupazionale si è interrotta e quella che c’è stata è trainata dai contratti precari. Il contratto a tutele crescenti, anche se viene considerato un contratto a tempo indeterminato nelle statistiche, in realtà è un contratto a tempo o un contratto di apprendistato lungo tre anni. Già adesso si inizia a vedere che molti lavoratori assunti con questo contratto sono licenziati a un costo irrisorio per le imprese ed è probabile che a tre anni dall’introduzione del Jobs Act il numero di coloro che saranno assunti stabilmente sarà relativamente basso. Ciò dipende dalle politiche assistenziali all’impresa deliberate dal governo Renzi non hanno avuto effetti sul livello della domanda e dei consumi interni e ha favorito la stagnazione del Pil e una riduzione del potere di acquisto, oltre che il rischio di una deflazione strutturale».

Perché cresce la disoccupazione giovanile?
C’è un effetto demografico dovuto non tanto all’aumento della componente giovanile che è in calo, ma all’aumento della fascia dei lavoratori con più di 50 anni, uno degli effetti dell’onda lunga del boom demografico degli anni Sessanta. Fenomeno accentuato anche dalla riforma Fornero che ha aumentato l’età pensionabile in modo drastico. Questa situazione fa da tappo a un potenziale aumento dell’occupazione giovanile. Aumenta lo scollamento tra una forza lavoro giovanile mediamente più istruita rispetto alla domanda di lavoro che ancora ricerca competenze basse. Questo dipende dalla struttura produttiva italiana votata a produzione tradizionali a basso valore aggiunto e meno innovative.

Il programma «garanzia giovani» ha funzionato?
Grazie anche a un cospicuo finanziamento europeo doveva favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I risultati sono stati di gran lunga inferiori all’obiettivo dichiarato dal ministro Poletti di inserire nel mercato del lavoro quasi un milione di giovani. Quelli inseriti vivono condizioni contrattuali precarie ad alta ricattabilità o forme di lavoro non pagato.

Perché il mercato del lavoro italiano si conferma sempre tra i peggiori in Europa?
In Italia, più che altrove, il perseguimento ottuso di politiche di sostegno all’offerta produttiva si è coniugato con politiche salariali inadeguate. Non esiste un salario minimo, né un sostegno al reddito minimo. E sono continuate le politiche di riduzione della spesa pubblica sociale in un contesto economico dove la produttività del lavoro cresce a ritmi insufficienti proprio a causa dell’eccesso di precarietà.

È possibile un’inversione di tendenza?
Con le elezioni politiche a breve è difficile che possa esserci. Sul medio-lungo periodo potrebbe essere possibile solo se cambiasse la prospettiva culturale e politica, anche all’interno delle forze di sinistra e sindacali.

In che modo?
Che non si facciano schiacciare da una retorica di tipo lavoristico e che riescano invece a elaborare politiche aperte e innovative di sostegno al reddito in grado di creare le premesse per una valorizzazione delle competenze e delle capacità lavorative che già esistono.

Sarà mai possibile?
Al momento attuale non se ne vedono le premesse. A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste su questo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica.

postilla

Sembra davvero difficile per la sinistra italiana (non consideriamo ovviamente parte della sinistra la compagine renziana) guardare al tema del lavoro dell’uomo fuori dal confine del capitalismo. Quasi mai si sente il respiro, il desiderio, l’esigenza di porre la questione del lavoro nell’ottica di una nuova visione della persona umana. In questo gruppo di articoli – che abbiamo ripreso da un recente dibattito del manifesto – l’unica che vi accenna è Laura Pennacchi. E ne accenna riprendendo le parole di un uomo che non può essere ricondotto al concetto classico, e forse obsoleto, di “sinistra”: Papa Francesco.
Stupisce, scrive Pennacchi «che oggi solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, ribadendo che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’"avere" ma l’”essere” del lavoratore».
Da qui bisognerebbe ripartire, magari ricordando i ragionamenti di un altro grande economista troppo presto dimenticato, Claudio Napoleoni. Ma qui ci fermiamo, promettendoci di riprendere il discorso in uno spazio un po’ più ampio di una postilla. (e.s.)

».

Sbilanciamoci info online, 19 gennaio 2017 (c.m.c.)

Lavorare nei beni culturali in Italia, si sa, è complicato. Qualche anno fa con brutale chiarezza l’allora Ministro dell’Economia Tremonti ebbe a dichiarare che «con la cultura non si mangia». La vicenda che coinvolge i lavoratori della Reggia di Venaria, ex residenza reale dei Savoia in Piemonte, è esemplificativa della precaria condizione di chi oggi lavora nel settore culturale.

Mentre il 29 dicembre dello scorso anno la dirigenza della residenza sabauda festeggiava il milionesimo visitatore del 2016, il sindacato USB – che organizza la maggior parte dei 95 lavoratori cui sono affidati i servizi esternalizzati della Reggia – proclamava il decimo sciopero di una vertenza cominciata nella scorsa primavera.

Dopo anni di abbandono e incuria, la Reggia ha riaperto nel 2007. Sin da allora si decise di esternalizzare i servizi di sorveglianza, assistenza, custodia, accoglienza, biglietteria, call center e attività didattiche essenziali per il funzionamento della struttura. Per il consorzio che gestisce la Venaria Reale (un ente partecipato dal Ministero dei beni culturali, dalla Regione, dal comune di Venaria e dall’onnipresente Compagnia di San Paolo), è un modo molto comodo per godere dei benefici dei servizi dei lavoratori in outsourcing senza avere l’onere della gestione delle loro questioni lavorative.

Per circa un centinaio di lavoratori e lavoratrici questo significa invece che ad ogni cambio di appalto, all’incirca ogni quatto anni, c’è il rischio concreto di rimanere a casa o di vedere ridotto il proprio stipendio. Una situazione che si è concretizzata nella primavera del 2016, quando è stato pubblicato il bando per il rinnovo dell’appalto dei servizi esternalizzati.

I lavoratori in outsourcing avevano immediatamente segnalato il taglio delle ore messe in appalto, che significava quasi certamente una riduzione del loro orario di lavoro e quindi degli stipendi. Inoltre non veniva specificato il contratto di categoria che sarebbe stato applicato, il che sollevava il sospetto che ci fosse l’intenzione di sbarazzarsi del contratto Federculture, conquistato dopo una lunga lotta che finalmente aveva equiparato la situazione contrattuale fra lavoratori esternalizzati e quelli assunti direttamente dalla Reggia.

Tutte previsioni che si sono puntualmente verificate, nonostante i numerosi scioperi e il tentativo da parte dell’USB di bloccare il bando per vie legali. CoopCulture, cooperativa vincitrice dell’appalto che fattura oltre 43 milioni di euro e che opera anche in tanti altri beni culturali in Italia, applica ad oggi ai lavoratori il contratto multiservizi: minor paga oraria, nessun supplemento domenicale e abolizione dei buoni pasto. A questo si aggiunge una riduzione dell’orario fino al 20 per cento. Il risultato è un taglio del salario che, secondo quanto riportano i lavoratori esternalizzati, va dai 200 ai 400 euro. Una situazione insostenibile, il tutto mentre il numero di visitatori continua a salire e la Reggia è sempre più il fiore all’occhiello del sistema culturale piemontese.

Il 6 gennaio USB ha pertanto proclamato un nuovo sciopero. CoopCulture ha risposto precettando 23 lavoratori, grazie alla legge del Ministro alla Cultura Franceschini, che equipara i musei a servizi pubblici essenziali come gli ospedali o le scuole. Contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, quando alcuni spazi espositivi erano rimasti chiusi, il Consorzio che gestisce la Venaria Reale non aveva però annunciato nessuna chiusura. Il perché si è capito nella mattinata dell’Epifania, quando gli scioperanti si sono accorti della presenza di lavoratori esterni, che CoopCulture ha assunto con un contratto giornaliero e che hanno garantito l’apertura dell’intero complesso, di fatto neutralizzando lo sciopero.

Il sindacato ha immediatamente denunciato ai carabinieri quello che considera un evidente comportamento antisindacale, presentando anche un esposto alla Commissione di Garanzia e all’Ispettorato del Lavoro. CoopCulture si è difesa sostenendo che non si sia trattato di un’illegale sostituzione di personale in sciopero, ma «di un potenziamento già previsto e concordato con il Consorzio per i fine settimana e i ponti di maggior richiamo turistico».

Una posizione poi ribadita in un comunicato stampa del 17 gennaio. Nell’attesa che gli organi competenti facciano chiarezza, rimane una contraddizione evidente: perché tagliare le ore a chi lavora nella Reggia da anni, per poi assumere lavoratori con contratti a giornata per coprire i buchi di organico? Se davvero si pensa che i musei e i beni culturali siano servizi pubblici essenziali come gli ospedali, non si dovrebbe allora porsi l’obbiettivo che essi forniscano condizioni di lavoro giuste e dignitose per chi vi lavora? Sono domande per cui urge una risposta, anche e soprattutto da parte di chi sogna il turismo come volano per l’economia regionale e non solo.

Lettera43 online, 17 gennaio 2017 (c.m.c.)

Non è una novità. E dunque non c’è da stupirsi. Occorre invece sforzarsi di capire. O, come diceva Spinoza, «non ridere, non piangere, non detestare, ma comprendere». Difficile, in questo caso, non piangere e, soprattutto, non detestare. Dal 1989 a oggi l’offensiva del capitale ai danni del lavoro procede ininterrottamente, inanellando un successo dietro l’altro: quelle che si chiamano abitualmente “riforme” – l’hanno capito ormai pure i bambini – sono tali solo per la parte del capitale. Di conseguenza, hanno come obiettivo puntualmente raggiunto la decomposizione dei diritti, delle conquiste dei lavoratori e delle tutele del mondo lavorativo.

L'ipocrisia di chi parla di "riforme". Basterebbe avere, in fondo, l’onestà per chiamare le cose con il loro nome: senza usare formule patetiche e ingannatorie come “riforme”, “Jobs act”, e via discorrendo, di ipocrisia in ipocrisia. È questa, in breve, la storia reale dal 1989 a oggi, al di là della lieta narrazione che canta un mondo di libertà e democrazia.

Quale libertà, in effetti, per i lavoratori ridotti all’umiliazione permanente del voucher? Il voucher offende la dignità umana e segna l’apice dell’alienazione, giacché riduce il lavoratore a merce disponibile, sottopagata e supersfruttata, alle dipendenze della volontà padronale. Non serve – come falsamente si dice – a evitare il lavoro in nero: serve, invece, a evitare contratti regolari, tutelati e dignitosi.

Voucher, lavoro non pagato (modello Expo di Milano), contratti intermittenti, stage come corvée postmoderne: ecco il paradisiaco mondo delle libertà post-1989, il meglio che la religione del libero mercato sappia venderci. La stessa eliminazione del reintegro nel posto di lavoro (prevista dall’ex Art. 18) per chi viene licenziato senza giusta causa – sostituita da un generico risarcimento (art. 3 Jobs Act) – si pone come la più bieca ridefinizione del lavoro inteso come diritto e dovere in concessione padronale arbitraria e dipendente dalla volontà del buon signore di turno: concessione che, in quanto tale, può essere revocata in qualsivoglia momento.

Il capitale vince senza resistenze. Siamo nel bel mezzo di un feudalesimo capitalistico: con nuovi signori mondialisti e nuovi servi senza diritti; con nuove e radicali forme di rifeudalizzazione dei legami sociali. Il capitale vince senza incontrare resistenze. Il lavoro sta perdendo giorno dopo giorno: complice anche, ovviamente, la generosa operatività di forze che si dicono progressiste e che, di fatto, favoriscono unicamente il progresso della mondializzazione capitalistica.

«Il diritto del lavoro è parte integrante dei diritti di seconda generazione, e questi sono cresciuti con la consapevolezza dei soggetti interessati, nella misura in cui il mercato da solo non può regolare tutti i fenomeni sociali». il manifesto, 12 gennaio 2017 (c.m.c.)

Forse è possibile scrivere un nuovo pezzo di Storia con i referendum sul lavoro, nonostante la Consulta abbia ridotto l’effetto dei referendum sul lavoro.

Infatti, i diritti e le tutele sono legate alla Storia, più precisamente alle rivendicazioni e alle lotte dei soggetti sociali. Rimane la proposta di legge della Carta dei diritti che non è meno importante del referendum sull’Art. 18. Sebbene le libertà civili siano iscritte nelle costituzioni, è il caso di ricordare che queste libertà sono figlie della maturità del movimento dei lavoratori salariati.

Se consideriamo l’evoluzione dello Stato liberale, possiamo ben comprendere questo processo. Ricordo l’importante contributo offerto dall’economia pubblica e dall’economia del benessere. Il così detto Stato liberale, infatti, nel tempo (Storia) ha fatto propri i diritti di «II generazione, mentre l’economia mista è (era) l’approdo naturale per chiunque volesse coniugare mercato e diritti.

Bobbio è il maestro indiscusso della classificazione dei diritti sociali di seconda generazione. Si tratta di diritti il cui nucleo centrale è rappresentato dalla richiesta dei cittadini allo Stato di godere di beni e servizi sociali tramite tassazione (necessariamente elevata in tutti gli stati sociali). Il diritto, quindi, evolve fino a contemplare figure e oggetti che con il passare del tempo diventano sempre più stringenti. Bobbio ricorda che la crescita del diritto è figlia della maggiore consapevolezza delle persone e delle associazioni (sociali). Lo stesso approccio vale per i diritti del lavoro di II generazione, ancorché condizionati dalla vulgata liberista che intende ripristinare, come fondamento delle relazioni sociali, il solo diritto di prima generazione (proprietà).

Chi si ostina a reclamare la libertà dell’individuo, in realtà reclama la libertà delle imprese, dimenticando che financo l’Europa (Trattato di Lisbona) pone dei vincoli all’individuo. Il diritto del lavoro è parte integrante dei diritti di seconda generazione, e questi sono cresciuti con la consapevolezza dei soggetti interessati, nella misura in cui il mercato da solo non può regolare tutti i fenomeni sociali.

Gli standards Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro) relativi al diritto del lavoro – l’Italia ha sottoscritto tutte o quasi tutte le sue convenzioni – chiariscono che il lavoro deve essere decente e produttivo, e deve essere svolto in condizioni di libertà, equità, sicurezza e dignità. L’Ilo pone anche dei vincoli che i detrattori dei referendum rimuovono con troppa semplicità: la stabilità del posto di lavoro, salari dignitosi, libertà sindacali, contrattazione collettiva e, in particolare, nessuna discriminazione di razza, colore, sesso, religione o idee politiche.

Il tema della democrazia nei luoghi di lavoro non evapora con la sentenza della Consulta. Deve essere la politica a trovare una soluzione a questo tema. Infatti, il concetto di Mercato del Lavoro è soggetto a forte critica. Esistono due tipi di approcci: economico e sociologico. Riprendendo Solow, «esiste nelle scienze economiche un’importante tradizione, attualmente dominante, soprattutto in macroeconomia, secondo la quale il mercato del lavoro è, da tutti i punti di vista, eguale a qualunque altro mercato.

Ma, tra economisti, non è per nulla ovvio che il lavoro sia un bene sufficientemente differente dai carciofi e dagli appartamenti da affittare, tale da richiedere un differente metodo di analisi». Non dobbiamo mai dimenticare che il contratto tra datore e prestatore di lavoro non è uguale ai normali rapporti tra contraenti, avendo un contenuto e una ratio speciale, derogatoria, perché le due parti in causa sono, per definizione, in posizione di disparità sostanziale.

Ecco perché il diritto del lavoro si configura come diritto «diseguale», cioè tendente a riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di diverso potere. Il diritto del lavoro non ha come finalità primaria la crescita. Può favorirla alla sola condizione di riequilibrare il rapporto di forza tra questi e il datore di lavoro.

La politica, dopo la sentenza, deve ri-costituire la base del nostro ordinamento giuridico (si vedano, tra gli altri, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della Costituzione), così come i fondamenti della società civile. Nessuno pensi di avere scampato un pericolo.

«». il manifesto, 10 gennaio 2017 (c.m.c.)

Se non mi sbaglio l’unico maschio di sinistra che ha detto qualcosa a proposito della manifestazione delle donne contro la violenza del 26 novembre scorso è stato Guido Viale.

Non concordo con tutte le sue affermazioni, in particolare l’idea che ciò che può unire uomini e donne per «un pezzo di strada» sia una comune reazione ai «ricatti» capitalistici e patriarcali. Certo la trasformazione spesso è prodotta da un negativo a cui ci si ribella.

Ma la vera molla dei movimenti femminili e femministi mi sembra essere il desiderio di libertà. Qualcosa di smisuratamente affermativo, positivo. In fondo è stato così anche per i momenti migliori dell’universo maschile, quando è stato detto: «gli ultimi saranno i primi», oppure: «abbiamo da perdere solo le nostre catene, e un mondo da guadagnare…».

Viale però ha colto in quel gesto politico femminile qualcosa di fondamentale, molto evidente ma sistematicamente «non visto», come la lettera rubata di Poe.

Se guardiamo bene vediamo anche che dagli incontri e dalle assemblee che hanno accompagnato quel No alla violenza maschile sono scaturiti numerosi obiettivi di trasformazione politica e sociale. Un Sì per un altro mondo possibile.

Per esempio la rivendicazione di un salario minimo europeo, e di un reddito chiamato non per caso di «autodeterminazione». Vedendo tante e tanti giovani colti e appassionati alle prese con la mancanza cronica di lavoro stabile le mie vecchie opinioni trentiniane contro ogni forma di salario garantito hanno vacillato. E ho ripensato a un’idea già abbozzata in altre occasioni.

Se alcune delle «emergenze» maggiori oggi sono la condizione giovanile, l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, l’assenza di interventi pubblici seri per sostenere la coesione sociale, il degrado del territorio (urbano e no), forse si potrebbero affrontare con un unico disegno, una sorta di patto tra generazioni e tra sessi.

Lo stato assicuri un «reddito di autodeterminazione» a ragazzi e ragazze. Chieda in cambio la partecipazione a un servizio civile di cura che abbia due obiettivi fondamentali: favorire l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri che vengono qui per sopravvivere e per vivere decentemente, recuperare le aree urbane degradate (paesi disabitati, periferie dimenticate) e i territori a rischio idrogeologico. Le due cose possono essere strettamente connesse, e già avviene nelle esperienze migliori, come a Riace (ne ha parlato sul manifesto anche Alberto Ziparo). Un anno di questo impegno può essere anche finalizzato a obiettivi concreti di formazione professionale e di lavoro.

Il servizio civile di cura secondo me dovrebbe essere obbligatorio per gli uomini (come una volta il servizio di leva) e facoltativo per le donne. Sarebbe un riconoscimento simbolico importante da parte maschile, giacché all’«altra metà del cielo» continua a competere la scelta di metterci tutti al mondo, e comunque non ci sdebiteremo mai del tutto di tutto il lavoro di cura assicurato dalle donne.

Costerebbe troppo? Non lo so, ma direi che sarebbe una spesa necessaria, irrinunciabile, e in prospettiva del tutto ripagata. Queste spese – come propongono alcune economiste – dovrebbero essere considerate a tutti gli effetti «investimenti produttivi», e non pesare sui bilanci pubblici ai fini del «fiscal compact».

Mi piacerebbe sapere che ne pensa non solo Guido Viale, con altri maschi di sinistra, ma anche il ministro Marco Minniti (una volta eravamo buoni compagni di partito…).

(segue)

Che cosa sta accadendo nella scuola italiana? Nel quasi totale silenzio-assenso dell’intellettualità nazionale e della grande stampa - salvo qualche eccezione, ma non certo critica, come quella del Sole 24 ore, e di qualche entusiasta apologeta - i nostri istituti superiori vengono progressivamente spinti a trasformarsi in scuole per l’avviamento al lavoro. L’applicazione della cosiddetta “alternanza scuola lavoro”, prevista nelle sue linee generali dal decreto legislativo del 15 aprile 2005, sta trovando, con la legge sulla Buona scuola del defunto governo Renzi, esiti sempre più chiari. Intanto quest’ultima stabilisce l’obbligo di dedicare ben 400 ore ad attività lavorative nel corso del triennio delle scuole professionali e tecniche, e 200 nel triennio dei licei. Ore che verranno sottratte allo studio per fare esperienze pratiche all’interno di fabbriche, imprese agricole, musei, ospedali, archivi, ecc.

L’integrazione delle strutture formative nella sfera delle imprese appare ben chiara dall’art. 41: «A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 è istituito presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura il registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro». La scuola italiana diventa un ambito che marcia sempre più in stretta cooperazione con il mondo della produzione, dei servizi e del commercio.

Il silenzio su questo processo di gravissima subordinazione dei processi formativi alle esigenze di breve periodo delle imprese, dipendente da una abborracciata lettura delle tendenze del capitalismo contemporaneo, si può anche comprendere. Da noi è universale la leggenda secondo cui la scuola italiana ”è lontana dalla società” “ i nostri ragazzi escono da scuola senza nessuna esperienza della realtà”, ecc. Dove naturalmente “realtà” e “società” coincidono perfettamente col mondo delle imprese e col mercato del lavoro.

La complessità del mondo reale si riduce alle esigenze presenti del capitale. Sicché a stabilire un nesso tra la scarsa preparazione al lavoro degli studenti e la disoccupazione giovanile a livelli record diventa fin troppo facile. Facile per menti semplici. Facile per un ceto politico che da tempo ha smesso di analizzare le strutture profonde del capitale e tenta solo di rispondere agli umori dell’opinione pubblica e di seguire il corso degli interessi dominanti. Infatti, l’articolo 33 della L. sulla Buona scuola, dichiara solennemente che l’alternanza scuola-lavoro viene attuata «Al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti». La scuola, tutti gli istituti superiori, devono e acquistare competenze per il lavoro. Sarà questa esperienza sul campo dei nostri ragazzi a favorire lo sviluppo dell’occupazione. Come si può capire è un modo di trasferire un gigantesco problema su un terreno di facile manipolazione ideologica

Ora vediamo partitamente gli errori gravi e ostinati cui conduce questa linea. Senza qui soffermarci sui possibili effetti di lungo periodo. Quelli, intendo della progressiva distruzione della nostra tradizione culturale e di una intera civiltà.

La disoccupazione italiana non dipende certo dalla scarsa preparazione dei nostri giovani, capaci, al contrario, di industriarsi anche nei più disparati lavori, e pur possedendo spesso lauree e master vari. Da noi è più grave che altrove, per ragioni legate a vari fenomeni dello sviluppo italiano, alquanto noti, ma non certo per incapacità tecnica e culturale delle nuove generazioni. Il fenomeno, del resto, investe in diversa misura tutte le società industriali e non riguarda solo i giovani.

La disoccupazione è figlia di alcuni caratteri strutturali del capitalismo del nostro tempo per mutare i quali occorrerebbe uno sforzo politico sovranazionale di vasta portata. Essa dipende da alcune scelte ideologiche di politica economica, (la riduzione della capacità di investimento da parte dello stato, la restrizione del welfare, la politica fiscale non progressiva, ecc) e soprattutto dal carattere predominante assunto dal capitale finanziario (il Finanzcapitalismo analizzato da Gallino). Ma un più profondo ambito strutturale oggi opera nel capitale con caratteri di labor killing. L’innovazione tecnologica va distruggendo posti di lavoro. Sul punto la letteratura è ormai vasta, preoccupa la Banca mondiale e perfino l’ONU ha lanciato un grido d’allarme. (E.Marro, Allarme ONU: i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano, Il Sole 24 0re, 18.11.2016) Ed è ormai diventato un vano ritornello richiamare la “teoria” della caduta a cascata.

Le nuove tecnologie distruggono vecchi posti di lavoro ma i nuovi che creano sono proporzionalmente sempre di meno. Non si tratta solo di previsioni e non solo dei settori manifatturieri. Nel novembre del 2016, ad es. il capo del personale della Wolkswagen ha annunciato che nei prossimi 15 anni 32 mila persone andranno in pensione e non verranno sostituite. Ci penseranno i robot. Ma si tratta anche di storia già consumata e che riguarda non solo semplici lavori automatizzabili, ma nuovi settori e funzioni: dalla burocrazia alle professioni legali, dal commercio ai servizi finanziari, dalla formazione alla medicina.
Una ricerca del 2013 di due economisti del MIT, E. Brynjolfsson e A. Mac Afee ( di cui è uscito per Feltrinelli, La nuova rivoluzione delle macchine, 2015) ha mostrato come a partire dal 2000 le linee della crescita della produttività e quella dell’occupazione si sono divaricate. Dopo un decennio, questo fenomeno appariva come «il grande paradosso della nostra epoca». É avvenuto il «Great decupling», termine complesso che si riferisce alla crescita esponenziale della produttività e che potremmo tradurre con il “grande disaccoppiamento”: «La produttività è a livelli record, l’innovazione non è mai stata più veloce, e tuttavia, allo stesso tempo, noi abbiamo la caduta del reddito mediano e abbiamo meno posti di lavoro» (D.Rotman, How Technology is destroying Jobs, «MIT Technology Review», giugno 2013).

Dunque piegare la formazione delle nuove generazioni ai bisogni del lavoro che muta di giorno in giorno è pura insensatezza. Una verità nota agli esperti già dagli anni ’60, (F. Pollock, Automazione, Einaudi 1970) ma prontamente dimenticata dagli attuali novatori. Quel che occorre è, con ogni evidenza, una formazione culturale non piegata ad alcun specialismo, aperta e complessa, una “educazione della mente” che sappia affrontare con strumenti critici uno mondo sempre più velocemente mutevole. Che non è solo il mondo delle imprese e del lavoro. Senza dimenticare che i ragazzi vivono anche di sentimenti e passioni, sono immersi in una sfera spirituale che ha bisogno di orientarsi e arricchirsi. Il pensiero unico va cerca di infilarsi anche nella scuola, ma va soppresso sul nascere.

E’ vero che i difensori più intelligenti dell’alternanza scuola lavoro la mettono sul piano più generale della formazione di attitudine all’impresa. Ha scritto di recente Alessandro Rosina, riprendendo alcune indagini recenti come quella OCSE-PIAAC, che scopo di questo nuovo indirizzo della scuola deve essere quella di fornire ai ragazzi «l’intraprendenza, la capacità di lavorare in gruppo, l’abilità di problem solving, l’autoefficacia, il saper prendere decisioni» (La Repubblica, 3 dicembre 2016).

Dunque tutti imprenditori? Alla fine tutte le istituzioni della formazione si devono piegare ad uno scopo unico: creare degli individui efficienti sul piano delle attività produttive e di gestione d’impresa. Le nuove competenze infatti, scrive sempre Rosina, «devono diventare parte di un solido processo di riposizionamento delle nuove generazioni al centro dello sviluppo del Paese». Credo, contro la stessa intenzione di Rosina, che tale posizione esprima il pensiero unico all’opera sotto forma di progettualità innovativa, di proiezione verso il “futuro”, di nuovo slancio allo sviluppo dell’Italia. Incarni, insomma, l’ utopia di creare un “uomo nuovo” seriale, omogeneo, flessibile, interamente modellato dal suo finale compito economico. Ma davvero di questo tipo di figura abbiamo oggi bisogno per l’oggi e per il futuro? Compito della scuola è quello di rendere ancora più efficiente e innovativo il mondo delle imprese?

E’ paradossale osservare come la nozione di innovazione sia oggi interamente assorbita nell’ambito della tecnica e nella sfera dell’economia. Vale a dire l’ambito in cui l’innovazione è già incessante e senza requie, anche con esiti di grande portata per il miglioramento delle nostre condizioni di vita. Ma pressocché nessuno osserva la drammatica divaricazione che lacera la nostra epoca: mentre l’innovazione avanza vorticosa nel mondo della produzione e dei servizi essa non muove nessun passo nell’ambito dell’organizzazione sociale. Le nostre società poggiano su economie del XXI secolo, ma l’esistenza delle persone si muove entro quadri organizzativi della vita quotidiana che appartengono al XX secolo e tendono a indietreggiare verso il XIX. Mentre le ristrutturazioni organizzative, la digitalizzazione, i robot, (e già ora l’intelligenza artificiale, le stampanti 3D) sostituiscono masse crescenti di lavoratori da attività produttive e servizi, la giornata lavorativa resta quella del secolo passato, comincia al mattino e finisce la sera, la distribuzione del reddito è sempre più disuguale, la disoccupazione endemica, i servizi sempre più costosi e inaccessibili. Mentre c’ è sempre meno bisogno di lavoro, anziché progettare una società più libera, che si dia nuovi fini, che corrisponda a questo obiettivo processo di liberazione da bisogni e fatiche, si tenta di piegare l’intero processo della formazione delle nuove generazioni agli imperativi di una più efficiente produzione. Ma dov’è finita la capacità di pensare del ceto politico e dei suoi dintorni?

Naturalmente questa critica non è una difesa dello status quo della nostra scuola. Che anche gli studenti del liceo classico abbiano contatto con l’ambiente delle imprese può essere utile alla loro formazione. Ma il rapporto con tale ambito non deve essere finalizzato all’avviamento al lavoro, quanto a un arricchimento della loro formazione. E’ assai formativo che i giovani, specie se provenienti da famiglie borghesi, osservino da vicino chi sono le donne e gli uomini che tutti i giorni, con la loro fatica, attenzione, intelligenza, abilità assicurano la produzione della ricchezza del nostro Paese.

E’ utile che osservino la potenza tecnologica cui è pervenuta l’attuale industria manifatturiera, frutto dell’umano ingegno, ma che vedano anche quanto fatica costa agli operai servirla, dalla mattina alla sera, con costante e usurante attenzione. Che i giovani destinati a diventare giuslavoristi, economisti o giornalisti economici trascorrano per qualche tempo delle ore in fabbrica potrebbe essere molto importante per il loro futuro professionale e per tutti noi: eviterebbero di occuparsi di lavoro e di mercato del lavoro con meno cinismo e irresponsabilità di quanto oggi non accada. Dovremmo ricordaci che per tutta l’età contemporanea, nei due secoli e passa di storia delle società industriali, mai le innumerevoli élites che sono diventate classi dirigenti dei rispettivi paesi hanno attraversato nel loro percorso formativo una esperienza conoscitiva della fabbrica. Due mondi necessariamente separati per rendere possibile l’architettura classista della società.

Non meno utile alla formazione dei ragazzi può essere la frequentazione delle aziende agricole. Ma anche qui non per trasformare lo studente in un apprendista lavoratore. E’ significativo del basso orizzonte dell’attuale ceto politico che si occupa di istruzione quanto ebbe ad affermare il sottosegretario all’istruzione del passato governo, Gabriele Toccafondi: «I ragazzi imparano a fare ma anche a vendere: lo studente che esce da un agrario deve saper fare un formaggio, ma anche saperlo vendere» (Corriere della Sera, 20.11.2014).

Personalmente annetto un valore formativo al “saper fare”, perché nell’uso delle mani si possono talora trasmettere antichi saperi e abilità. Ma purché questo si inserisca in una formazione culturalmente più alta e complessa e che non rimanga nel ristretto orizzonte di un vecchio mestiere. In un azienda agricola si possono apprendere cose ben più importanti per una moderna formazione culturale che non imparare a vendere il formaggio. Con l’aiuto di un bravo agroecologo i ragazzi possono sperimentare un approccio rivoluzionario alle scienze naturali, oggi così neglette e sciattamente insegnate. E’ sufficiente partire da un pugno di terra, una manciata di suolo agricolo, per spiegare l’evoluzione geologica del suolo terrestre, per passare poi alla sua composizione chimica, alla biologia dei microrganismi che contiene, ai meccanismi che presiedono al nutrimento delle piante, alla loro fisiologia, patologie, rapporto con gli insetti, comportamento e dipendenza dai fenomeni climatici.
Insomma dentro un’azienda agricola i ragazzi possono apprendere i fenomeni vitali che si svolgono all’interno di un habitat che è un frammento della nostra biosfera. Per questa via le varie discipline, in cui è stato frammentato il sapere scientifico contemporaneo, rivelano il loro carattere parziale e convenzionale e si ricompongono in una visione unitaria del mondo in cui viviamo. E’ di questo sapere che oggi abbiamo bisogno: necessità di una visione più complessa del mondo reale, per avviare un rapporto di cura con la natura, dopo secoli di dissennato saccheggio. E naturalmente, questo tipo di insegnamento deve avvenire rompendo lo schema ottocentesco della classe, dominata dalla figura dell’insegnante demiurgo e dei discenti da indottrinare, disciplinare e punire (si veda l’utile G.Stella, Tutta un’altra scuola, Giunti 2016). E’ qui l’altra rivoluzione da compiere, insieme alla valorizzazione, economica e formativa di chi tiene in piedi la scuola: gli insegnanti.

L'articolo è inviato contemporaneamente a officinadeisaperi.it

«Referendum contro il Jobs Act. A pochi giorni dal verdetto della Corte costituzionale, il parere dell’avvocatura dello stato. La replica della Cgil».

il manifesto, 6 gennaio 2016

In un paese dove l’allusivo quesito presentato da Matteo Renzi al referendum costituzionale del 4 dicembre è stato considerato legittimo, ieri l’avvocatura dello Stato (in rappresentanza del governo Gentiloni) ha definito «propositivo, manipolativo e inammissibile» il quesito referendario presentato dalla Cgil per abrogare le modifiche apportate dal Jobs Act all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. È l’inizio della guerra contro un altro pilastro del renzismo. Mercoledì 11 gennaio ci sarà una battaglia campale davanti alla Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità anche dei quesiti su voucher e appalti.

LA TESI È STATA ANTICIPATA da una campagna stampa trasversale iniziata poche ore dopo lo tsunami del «No» che ha spinto Renzi alle dimissioni da Palazzo Chigi. È continuata con i retroscena, simulati direttamente dalla camera di consiglio, secondo i quali alcuni giudici della Consulta giudicherebbero «propositivi» i quesiti che intendono abrogare la norma che ha inciso sull’articolo 18. Stessa musica si ascolta nella memoria dell’avvocatura dello Stato: il quesito ha «carattere surrettiziamente propositivo e manipolativo» e per questo «si palesa inammissibile – sostiene l’avvocatura dello Stato – Proponendosi di abrogare parzialmente la normativa in materia di licenziamento illegittimo, di fatto la sostituisce con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo di riferimento; disciplina che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo, né direttamente costruire».

LA CGIL PUNTEREBBE a estendere i vincoli al licenziamento a tutte le aziende con più di 5 dipendenti. «L’intento dei promotori del referendum – continua l’Avvocatura – è quello di produrre la tutela reale per tutti i datori di lavoro con più di 5 dipendenti che chiaramente estrae il limite dei 5 dipendenti, previsto per le sole imprese agricole, per applicarlo a tutti i datori di lavoro, a prescindere dal tipo di attività svolta». Ma «secondo costante giurisprudenza costituzionale in tema di referendum abrogativo, non sono ammesse tecniche di ritaglio dei quesiti che utilizzino il testo di una legge come serbatoio di parole cui attingere per costruire nuove disposizioni».

L’AVVOCATURA HA DATO PARERE negativo sul quesito che intende abrogare i contestatissimi voucher. «Rischia di produrre un vuoto normativo in quelle prestazioni che – per la loro limitata estensione quantitativa o temporale – non risultino riconducibili al lavoro a termine o di altre figure giuridiche contemplate dall’ordinamento vigente». L’abrogazione delle norme sugli appalti – il terzo quesito proposto dalla Cgil – condurrebbe a un’«incertezza normativa». Inoltre «una eventuale modifica della disciplina nel senso del quesito referendario, avrebbe, come ulteriore effetto, quello di incidere sulla regolamentazione delle vicende negoziali in essere al momento della modifica normativa». Letto lo spartito è prevedibile che ci sarà un fuoco di fila contro Corso Italia per bloccare o screditare un referendum che, sia pure con modalità diverse da quello del 4 dicembre, rischia di minare uno dei dogmi del liberismo giuslavorista.

LA RISPOSTA ALLA MEMORIA dell’avvocatura dello Stato è arrivata ieri pomeriggio a stretto giro. «L’ammissibilità la stabilisce la Corte costituzionale, che è autonoma e competente. Per quanto riguarda il quesito, non manipola alcunché. Non è propositivo, né manipolativo, è un quesito abrogativo: la risultante è una norma esistente» sostengono fonti della Cgil. Una risposta tecnicamente più argomentata è arrivata dall’ufficio giuridico del sindacato secondo il quale «l’ammissibilità è manifesta sul piano dello stretto diritto costituzionale. «Nessuno dei tre referendum riguarda materie che, per l’articolo 75 della Costituzione, siano esplicitamente precluse all’iniziativa referendaria» sostengono i giuristi. Questo articolo esclude la consultazione sulle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. L’oggetto del referendum riguarda le decisioni di un governo: «i licenziamenti illegittimi, la responsabilità verso i lavoratori in caso di appalto, l’uso del lavoro accessorio tramite voucher sono materie rimesse alla decisione politica». Renzi ha infatti, deliberatamente, scelto di abrogare l’articolo 18. La politica è la materia del referendum.

PER QUESTE RAGIONI il sindacato ha proposto un’abrogazione non «totale» ma solo «parziale» della legislazione in materia di licenziamenti illegittimi «per non cagionare vuoti legislativi i quali impediscano lo svolgimento, per sé necessario, di principi e regole costituzionali». Nel merito delle illazioni sul «ritaglio» effettuato dal quesito abrogativo – che finirebbe così per diventare «propositivo» – i giuristi di Corso Italia rispondono: «Il “sì” al quesito referendario, lungi dal rendere meno limpide e nitide le disposizioni di legge sui “licenziamenti illegittimi” che ne sono l’oggetto, ne ricomporrebbe il significato unitario, restituendo la certezza del diritto».

VINTO IL REFERENDUM sul campo resterebbe una disciplina legislativa «precisa e rigorosamente unitaria» e varrebbe in tutti i casi in cui il datore di lavoro occupa più di cinque lavoratori. Il quesito abroga parzialmente il comma 8 del testo attuale dell’articolo 18 dello Statuto e allarga questa soglia anche ai lavoratori e alle imprese che operano in settori diversi da quello dell’agricoltura. Osservazioni che valgono per il quesito sugli appalti che risulta più elaborato «a causa degli sviluppi tumultuosi e contraddittori della legislazione», e anche per quello sui voucher. La loro abrogazione lascerà sul campo le norme esistenti sul lavoro a tempo determinato e stagionale e mira a eliminare l’abuso che ha reso possibile il boom incontrollato dei buoni lavoro.

FAVOREVOLE, per ragioni storiche, all’impostazione dell’Avvocatura è il presidente della commissione lavoro al Senato Maurizio Sacconi: «Il contenuto dei quesiti non è univoco e il loro esito favorevole sarebbe creativo di una disciplina del tutto nuova». Parere opposto è quello del presidente della commissione lavoro alla Camera Cesare Damiano: «Il contenuto è univoco, è già successo nel ’93 sull’elezione del Senato. Sui voucher il governo Gentiloni dovrebbe sostenere la proposta di legge firmata da 45 parlamentari Pd. Anche se non ci fossero i referendum, tutti questi problemi andrebbero affrontati perché realmente esistenti».

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