Eddyburg.it organizza la seconda edizione della scuola estiva di pianificazione dedicata quest'anno al tema della costruzione pubblica della città.
La scuola si terrà dal 26 al 30 settembre 2006, presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, Parco archeominerario di San Silvestro Campiglia Marittima (LI).
Con essa si intende:
- fornire i presupposti, i riferimenti e gli obiettivi del governo della città e del paesaggio;
- informare sull’evoluzione del quadro legislativo e istituzionale;
- promuovere un confronto con le esperienze e tendenze europee.
Il tema
Dalla casa ai trasporti. Dall’ambiente ai servizi. Il soggetto pubblico ha visto ridursi progressivamente il proprio ruolo, ritirandosi non solo dall’intervento diretto, ma anche dall’esercizio di indirizzo e regolazione. In Italia, questa riduzione è stata accettata da destra e sinistra, vuoi per un convincimento culturale, vuoi per le inefficienze dell’amministrazione pubblica. Così facendo, si sono accresciute le disuguaglianze, sociali e territoriali, e i costi sopportati dai soggetti più deboli, dall’ambiente e dal paesaggio.
L’urgenza di un recupero della costruzione pubblica della città (o del territorio, qui inteso in modo equivalente) appare non più rinviabile. E’ in questo senso che possiamo tornare a parlare di “città pubblica”, concentrando l’attenzione sugli strumenti necessari per mantenere, ampliare o costruire il patrimonio di beni pubblici.
Come costruire una città vivibile, una città amica delle donne e degli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento? A queste domande si tenterà di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano.
Il programma
Martedì 26 settembre:
Arrivo e registrazione
Mercoledì 27 settembre
m - Introduzione al corso: le parole chiave
m - Una nuova stagione di politiche abitative: la risorsa suolo per il diritto alla casa
p - Una nuova stagione di politiche per l’ambiente
Giovedì 28 settembre
m - Muoversi e sostare: idee e non opere per una città a misura dei cittadini.
p - a disposizione per lavori di gruppo
Venerdì 29 settembre
m - Una nuova stagione di politiche urbanistiche nazionali e regionali
p - Sostenere l’intercomunalità
Sabato 30 settembre
m + p - Seminario aperto. Chi paga la città pubblica? Il ruolo dell’economia sociale.
I docenti
Edoardo Salzano, già presidente dell’INU e già preside della facoltà di pianificazione del territorio dell'IUAV, direttore di eddyburg.it
Giovanni Caudo, ricercatore, Università Roma Tre.
Gabriele Rabaiotti, ricercatore, Politecnico di Milano.
Giancarlo Storto, già Segretario del CER.
Francesca De Lucia, architetto.
Maria Berrini, Istituto ricerche Ambiente Italia. Dario Franchini, dirigente provincia di Pisa.
Massimo Zucconi, presidente di Parchi Val Di Cornia spa.
Mauro Baioni, urbanista.
Maria Rosa Vittadini, professore, Università IUAV Venezia.
Armando Barp, professore, Università IUAV Venezia.
Elena Camerlingo, dirigente del settore trasporti - Comune di Napoli .
Maurizio Sani, dirigente del settore urbanistica Regione Emilia Romagna.
Angela Barbanente, urbanista, assessore al territorio - Regione Puglia.
Maria Cristina Gibelli, professore, Politecnico di Milano.
Roberto Camagni, professore, Politecnico di Milano.
Piero Cavalcoli, dirigente del settore urbanistica - Regione Puglia.
Francesco Erbani, giornalista de "la Repubblica".
Pierluigi Sullo, direttore di"Carta".
Oscar Mancini, Segretario della CGIL – Vicenza.
ISCRIZIONI
Modalità
Alla Scuola estiva di Pianificazione sono ammessi 30 partecipanti, ai quali sarà rilasciato un attestato di frequenza.
Per ricevere maggiori informazioni, o comunicare la propria volontà di adesione, vi invitiamo a rivolgervi ai recapiti sotto indicati, indicando nome, cognome, qualifica, e-mail, telefono.
Seguirà l’invio del modulo di conferma da compilare in ogni sua parte e da rispedire unitamente alla ricevuta di versamento di un acconto di 150,00 €.
Costi di partecipazione
Il costo di partecipazione è pari a 395 € + IVA e comprende la partecipazione alle lezioni e alle altre attività didattiche, il materiale didattico, i coffee break e il pranzo. Sono esclusi gli spostamenti, il pernottamento e la cena.
Studenti e urbanisti under-30 possono usufruire di una tariffa agevolata.
Pernottamento
Chi lo desidera può pernottare presso l’ostello di Palazzo Gowett, a pochi passi dalla sede del corso. Sono disponibili stanze doppie, triple o quadruple a 32 € per persona (trattamento di mezza pensione, escluso il servizio alberghiero).Altre soluzioni di alloggio saranno fornite su richiesta.
La sede
Le attività della Scuola si svolgeranno presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, nel cuore del Parco archeominerario di San Silvestro a Campiglia Marittima
L’area dei Parchi è situata a circa 80 km a sud di Livorno ed è attraversata dalla SS1 variante Aurelia che collega Rosignano a Civitavecchia.
I Parchi sono segnalati alle uscite di San Vincenzo nord, San Vincenzo sud, Piombino/Venturina, Riotorto/Vignale.
Per il Parco archeominerario di San Silvestro, l’uscita consigliata è San Vincenzo sud.
Dopo l’uscita seguire le indicazioni per Campiglia Marittima. Il Centro Villa Lanzi è indicato da un cartello bianco sulla sinistra, a pochi km dal paese.
Informazioni e pre-iscrizioni
Didattica e contenuti del corso: Mauro Baioni, tel: +39 335 5865736,
mabaion@tin.it
Iscrizioni e aspetti amministrativi: Monica Porciani, tel: +39 348 8883163,
villalanzi@parchivaldicornia.it
Mauro Baioni, Direttore di questa scuola, mi ha proposto di aprire questa sessione fornendo qualche elemento a proposito di un certo numero di “parole chiave”.
Parole rilevanti, sulle quali in eddyburg sono raccolte appropriate definizioni, che è utile ricordare qui, anche per costruire una sorta di lessico comune nei nostri colloqui. Le parole su cui vi intratterrò sono: pianificazione, democrazia, partecipazione, sussidiarietà, governance, sviluppo, beni e merci, lavoro, rendita.
Pianificazione
Vorrei partire dalla parola “pianificazione” – termine che adopero più spesso e più volentieri di “piano”. Naturalmente intendendo la pianificazione della città e del territorio. Io la definisco così:
“Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica (non faccio nessuna distinzione tra l’una e l’altra) quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.”
Per completare questa definizione, occorre precisare il significato che assumono i termini che ho adoperato per qualificarla. In primo luogo, qual è l’oggetto della pianificazione:
“Sono oggetto della pianificazione territoriale ed urbanistica le trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione.
“Dove per trasformazioni fisiche intendo quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali intendo quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono. A questo campo, solo a questo campo (ma, insieme, a tutto questo campo) deve essere secondo me diretta la responsabilità e la competenza della pianificazione.”
Prima di aggiungere un altro paio di definizioni vorrei precisare perché distinguo piano e pianificazione .
“In termini molto sintetici, occorre passare cioè dall'attuale concezione della pianificazione, centrata sull'idea di "piano" e consistente in una serie di piani che si succedono a salti di tempo, ciascuno dei quali viene, volta per volta, attuato, a una concezione della pianificazione basata sull'idea di "processo", e quindi su un succedersi, sistematico, continuo e cadenzato, di atti di pianificazione nei quali il momento del piano, quello dell'attuazione e quello della verifica ciclicamente si susseguono e - per così dire - si nutrono l'uno dell'altro.”
Ovviamente questa definizione comporta che gli atti e i documenti della pianificazione non vengano redatti da soggetti esterni all’amministrazione, ma prodotti al suo interno, con strutture adeguatamente qualificate e sorrette da competenze esterne.
Ecco altre due, definizioni, non contraddittorie né tra loro né con la mia. Quella di Antonio Cederna, che accentua l’aspetto morale della pianificazione urbanistica:
“La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese.”
Giorgio Ruffolo è un economista. In un importante saggio sulla necessità di una politica ambientale ha dato una definizione che mi sembra molto bella della pianificazione territoriale, che vi propongo:
“Il quarto pilastro di un ambientalismo moderno è la pianificazione territoriale. E’ lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico.”
La definizione di Ruffolo introduce il concetto di bellezza: “dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa”, produrre “valore aggiunto estetico”. Ma non si tratta della bellezza dell’oggetto: è una bellezza d’insieme. E nella differenza tra attenzione all’oggetto e attenzione all’insieme sta il fondo della differenza tra due mestieri che, nel nostro paese (a differenza di moltissimi altri) sono molto vicini e quasi confusi: l’urbanista e l’architetto. A me sembra molto chiaro un passo di Itali Calvino, che cito spesso per rispondere al quesito: che differenza c’è tra l’urbanista e l’architetto. Ecco il passo di Calvino.
“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco.”
L’urbanista si occupa dell’arco, l’architetto delle pietre. L’architetto progetta singoli oggetti, e definisce le regole secondo le quali essi devono essere costruiti. L’urbanista si occupa di definire le regole secondo le quali essi devono essere composti perché raggiungano, nel loro insieme, un’armonia e una funzionalità complessive. L’architetto disegna la casa dell’uomo, l’urbanista la casa della società.
Democrazia
“Disegnare la casa della società” significa esprimere quest’ultima. Da quando nasce l’urbanistica moderna ciò significa che è essenziale il legame tra urbanistica e pianificazione da un lato, società e democrazia dall’altro lato.
La democrazie non è una formula astratta, è un regime molto concreto, che è giunto a maturazione in un determinato processo storico e si è svolto in una determinata parte del mondo.
Della democrazia vorrei riportare innanzitutto una bella definizione, spirituale, di Norman Mailer:
“La vera democrazia scaturisce da molte impercettibili battaglie umane individuali combattute per decenni e alla fine per secoli, battaglie che riescono a costruire tradizioni. L’unica difesa della democrazia, in fin dei conti, sono le tradizioni di democrazia. Se si inizia ad ignorare questi valori, si mette in gioco una nobile e delicata struttura. Non esiste nulla di più bello della democrazia. Ma non è una cosa con cui giocare. Non si può avere la presunzione di andare a far vedere agli altri che magnifico sistema possediamo. Questa è mostruosa arroganza.
“Poiché la democrazia è nobile, è sempre messa a rischio. La nobiltà in effetti è sempre in pericolo. La democrazia è effimera. Personalmente sono dell’opinione che la forma di governo naturale per gran parte delle persone, dati gli abissi di abiezione della natura umana, sia il fascismo. Il fascismo è una condizione più naturale della democrazia. Dare allegramente per scontato che possiamo esportare la democrazia in qualunque paese vogliamo può servire paradossalmente ad incoraggiare un maggior fascismo in patria e all’estero. La democrazia è uno stato di grazia ottenuto solo da quei paesi che dispongono di un gran numero di individui pronti non solo a godere della libertà ma a sottoporsi al pesante onere di mantenerla.”
La democrazia che conosciamo non è l’unica esistita,né è l’unica possibile. Si dà il fatto che, come diceva Winston Churchill, “è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri che sono stati inventati ne hanno di più”. Quindi teniamocela, ma assumiamo piena consapevolezza dei suoi limiti e degli errori della sua attuale applicazione. Ricordiamo soprattutto che essa è stata messa in crisi da alcune cause precise, che Canfora sintetizza così:
“impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo.”
Solo se siamo consapevoli dei suoi limiti ed errori – delle sue cause - potremo: 1) tentar di migliorarla nell’applicazione, 2) non interrompere la ricerca di un sistema migliore.
Sulla storia e sulla crisi della democrazia esistono intere biblioteche. Io consiglio il libro di Luciano Canfora, Democrazia, Storia di una ideologia, editore Laterza. Ne trovate qualche stralcio in eddyburg. Comunque ricordate sempre che le istituzioni hanno senso solo nel loro contesto (storico, territoriale, economico). Perciò non ha senso parlare di esportare istituzioni, senza che prima abbiano maturato le condizioni che lo rendano possibile. Aver dimenticato questo è uno degli errori della globalizzazione (termine sul quale dovremo prima o poi soffermarci).
Parlare di democrazia ci rinvia al altre questioni:le istituzioni attraverso le quali la democrazia rappresentativa si esprime, e il rapporto tra di esse; il rapporto tra le istituzioni (e in generale la democrazia) e la società. Incontriamo subito tre parole sulle quali è opportuno riflettere: sussidiarietà, governance, partecipazione.
Sussidiarietà
In un regime democratico rappresentativo esistono diversi livelli di governo. In Italia, Stato, regione, provincia o città metropolitana, comune. Si tratta di individuare un principio che consenta, in linea generale, di attribuire competenze ragionevolmente distinte ai diversi livelli. Questione rilevantissima per la pianificazione. Questo principio è stato individuato nella sussidiarietà.
Esistono due modi di intendere il principio di sussidiarietà. Il primo è demagogico e devastante, ed è quello che si traduce nello slogan “tutto il potere al basso”. Malauguratamente è l’interpretazione dominante in Italia. Eco il testo che la definisce:
“attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”. Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a).”
L’altra interpretazione è quella originaria, propria della cultura europea. Si può sintetizzare nella frase “a ciascuno degli istituti territoriali (Unione europea, stati nazionali, regioni,province, comuni) tutte e sole le decisioni relative a quegli oggetti ed aspetti che, nell’interesse generale, a quel livello possono più efficacemente essere governati”.
In appendice troverete un testo che argomenta ampiamente la questione.
Governance
L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno. Come moltissimi altri termini, viene usato spesso in modo impreciso, o addirittura distorto. In appendice trovate un testo nel quale ho cercato di precisare il significato e i modi d’uso della governance.
Molto sinteticamente vorrei sottolineare:
- che nella governance è decisivo stabilire quali sono gli attori che si siedono attorno al tavolo della concertazione, quali sono i rispettivi ruoli e interessi;
- che vanno in particolare distinti, e posti in una scala gerarchica, i portatori d’interessi generali, d’interessi diffusi, d’interessi economici e, tra questi, quelli che esprimono la produzione e quelli che esprimono la rendita;
- che particolare attenzione va posta tra i portatori d’interessi forti e portatori d’interesse deboli;
- che non possono essere attribuiti a sedi multiple, in cui siedono portatori d’interessi generali e portatori d’interessi particolari, responsabilità che competono a sedi istituzionali, cioè portatrici d’interessi generali;
- che la governance non è alternativa al government: la ricerca del consenso e della condivisione delle scelte non esclude, ma integra ed arricchisce il momento della decisione pubblica e autoritativa.
Partecipazione
Per l’urbanistica la partecipazione è una chimera raramente raggiunta. Per la democrazia la partecipazione è la condizione irrinunciabile e, quando non c’è, la testimonianza della crisi. La partecipazione è difficile, se non impossibile, quando domina l’ideologia dell’arricchimento individuale, pervasivamente e vittoriosamente propagandata da tutto il mondo dei massmedia, e in primo luogo da tutte le reti televisive.
Ciò apparirà chiaro se teniamo presente la bella definizione di Manuel Castells:
“La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va “aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione
“Non c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; se gli attori politici reagiscono al cinismo e ripristinano la fiducia nella democrazia; se la cultura viene ricostruita a partire dall’esperienza; se l’umanità avverte la solidarietà intergenerazionale vivendo in armonia con la natura; se ci avventuriamo nell’esplorazione del nostro io profondo, avendo fatto pace fra di noi; ebbene, se tutto ciò si verificherà, finché c’è ancora il tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, allora forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.”
In eddyburg troverete una ottima “visita guidata” ai testi raccolti nel sito, redatta da Carla Maria Carlini, e nell’appendice un mio breve testo.
Economia
La cultura urbanistica ha smarrito la consapevolezza dell’importanza dell’economia nella vita e nei destini della città e del territorio. Eppure la città, nel suo sorgere come invenzione dell’uomo e nel suo affermarsi (come oggi nel suo dissolversi tra megalopoli e sprawl), è sempre stata strettamente connessa all’economia: il modo in cui l’economia si è conformata ha pesantemente inciso, nel bene e nel male, sulla natura della città, sui suoi problemi, sulle sue potenzialità.
Non possono mancare perciò alcune parole-chiave rilevanti a questo proposito: sviluppo, lavoro, rendita sono essenziali.
Sviluppo
Nel linguaggio corrente il termine sviluppo non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro utilità.
Consistenti correnti di pensiero, che cominciano a tradursi in pratiche, hanno rivelato che questo sviluppo è arrivato a un punto mortale. Si sono manifestati i limiti delle risorse disponibili sul pianeta, e la loro esistenza configge con la natura stessa di questo sistema economico, obbligato alla crescita indefinita.
L’espressione più felice è forse quella di Kenneth Boulding
“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”.
Beni e merci; valore d’uso e valore di scambio
L’operazione culturale che ha dovuto essere compiuta per raggiungere un simile risultato è stata quella di ridurre ogni bene e merce,e di cancellare il valor d’uso riducendo ogni valore a valore di scambio. È allora importante tenere ben presenti queste distinzioni.
Il bene è un oggetto (o un servizio, o un sentimento) che ha valore di per se,per l’uso che ne fa l’essere umano; la merce è un oggetto (o un servizio) la cui funzione è solo quella di essere scambiato con un altro oggetto o servizio. Il bene è caratterizzato da identità, la merce da fungibilità: il fungibile universale è la moneta, espressione sublimata della merce. Il valor d’uso è riferito ovviamente al bene, il valore di scambio alla merce.
Questa economia nella quale viviamo riconosce il valore dei beni solo riducendoli in merce. Il che spesso significa eliminarne il valor d’uso, o attribuirne il godimento solo ad alcuni. Ma questa economia non è l’unica possibile: difendere oggi i beni (le coste e i boschi, i beni culturali sparsi sul territorio o sedimentati in essi e nelle città, i corsi d’acqua e le culture dei luoghi) ha senso anche perché tutela- in vista di una economia futura possibile -. Patrimoni che altrimenti sarebbero distrutti per sempre.
Lavoro
Anche il lavoro ha una duplice natura. È lo strumento per l’arricchimento interiore delle persone, per lo svolgimento d’una loro funzione sociale, oper l’espressione della sua identità. In questo senso è un bene. Ma è ridotto a merce quando comprato e venduto (preso e dato in affitto) per produrre altre merci. Cessa di avere un’identità, una personalità, una funzione umana (oppure la conserva solo marginalmente e opzionalmente), ed è finalizzato unicamente alla produzione di altra merce.
Ecco due belle definizioni di lavoro (Karl Marx, Capitale, 1867
“Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere.
“In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita.”
Rendita
Tra tutte le parole dell’economia quella che ha più incidenza per il territorio è indubbiamente la rendita. È grazie alla rendita, e al peso che essa ha nell’economia italiana, che quote rilevanti e del tutto ingiustificate del territorio vengono sottratte ai loro usi ragionevoli e trasformati in una “repellente crosta di cemento e asfalto”,come ripeteva Antonio Cederna. Che cos’è la rendita?
È una delle tre forme di reddito:il salario, remunerazione del lavoro, il profitto, remunerazione dell’impresa, la rendita, remunerazione della proprietà.
A differenza delle altre due forme di reddito, come ha scritto recentemente l’economista Giorgio Lunghini,
“la rendita non crea nessun valore: è una sottrazione al prodotto sociale, senza nessun corrispettivo e legittimata soltanto dal diritto di proprietà.”
Vediamo una definizione scientifica della rendita, quella di Claudio Napoleoni:
“Si chiama rendita il reddito che il proprietario di certi beni percepisce in conseguenza del fatto che tali beni sono, o vengono resi, disponibili in quantità scarsa; dove la scarsità va intesa in uno dei seguenti sensi:
1) i beni in questione appartengono alla categoria degli agenti naturali, disponibili in quantità limitata e inferiore al fabbisogno;
2) i beni in questione vengono resi disponibili da chi li possiede in quantità inferiore alla domanda che di essi si avrebbe in corrispondenza di prezzi uguali ai loro costi.”
Le tre forme di rendita esprimono differenti classi sociali. Al salario corrisponde l’operaio, proprietario della forza-lavoro. Al profitto corrisponde il capitalista, organizzatore della produzione che esercita comprando sul mercato le diverse componenti del capitale. Alla rendita corrisponde il proprietario degli immobili (aree ed edifici) adoperati nel processo produttivo.
Storicamente, la rivoluzione borghese (Inghilterra e Francia fine XVIII secolo, Germania metà XIX secolo) ha rappresentato la vittoria della borghesia capitalistica sulla proprietà fondiaria d’impronta feudale (ancien régime)
Una delle ragioni per cui l’Italia è distante dagli altri paesi europei è proprio l’incidenza della rendita,dovuta al fatto che la borghesia, giunta al potere in ritardo rispetto agli altri paesi europei, ha potuto prevalere solo alleandosi all’ancien régime, quindi alla rendita.
Paesaggio,ambiente, territorio
Mi piacerebbe a questo punto ragionare su altre parole, sulle quali si sono scritte cose molto interessanti anche se spesso confuse, adoperando i termini in modi molto diversi e attribuendo loro significati spesso scambiati: paesaggio,ambiente, territorio
Ma eddyburg ha ancora poco materiale a questo proposito, e alcuni di noi stanno pensando di preparare proprio a partire da queste parole la prossima scuola di Eddyburg: la terza edizione. Quindi, su queste parole rinviamo. Per ora, incamminiamoci sulla via della seconda edizione della scuola, e auguri a tutte e a tutti.
APPENDICE
Sussidiarietà
Salzano, Edoardo "Il principio di sussidiarietà", da Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)
Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino al completamento e al riordino del trasferimento e della delega delle competenze alle regioni, nel 1977. Fino alla ventata del “federalismo all’italiana” e delle “devoluzioni” il criterio che si cominciava ad adottare era quello di riferire le competenze a oggetti[1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”, ancor oggi celebrato a parole.
In Italia questo termine viene infatti adoperato spesso (come del resto il termine “sostenibilità”) in modo approssimativo. Nel linguaggio della Lega di Bossi, “sussidiarietà” significa tutto il potere al basso, il più lontano possibile da “Roma ladrona”. Nel linguaggio dei variopinti fautori (a destra, al centro e a sinistra) del “meno Stato più mercato”, significa delegare tutto il possibile ai privati. In un linguaggio più accettabile significa delegare ai livelli più vicini all’elettorato il maggior numero possibile di competenze. In realtà nella cultura europea il termine ha un significato alquanto diverso.
In omaggio al principio vichiano che “natura di cose altro non è che nascimento di esse” , è utile ricordare che il principio di sussidiarietà venne proposto da Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea, per individuare i poteri degli organismi sovranazionali europei distinguendoli da quelli dei governi nazionali: una definizione “dall’alto”, quindi, e non “dal basso”, come tutte quelle che circolano in Italia. Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992, in cui il lungo dibattito trovò sbocco e sistemazione. L’articolo 3b afferma:
“La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”
Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistema di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?
Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.
E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si vogliano rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.
La governance
Salzano, Edoardo, da “Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma”, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)
Come nasce
L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati . Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali, ed è quindi al modo in cui sono stati applicati altrove che è opportuno fare riferimento.
La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.
Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni.
“[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “ urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “ local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale”
L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).
Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti diversi, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come
“un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti”
altri come le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica.
La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come
“la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali”.
È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.
Non è vero che tutti gli attori sono uguali
Possiamo leggere quindi la governance, e la sua applicazione in Italia, anche come un tentativo di coinvolgere nel meccanismo delle decisioni sul territorio soggetti diversi, i quali tutti concorrono ai processi di trasformazione e utilizzazione dello spazio, ma non sono adeguatamente riconosciuti nel meccanismo definito dalle procedure vigenti. Nell’affrontare questo tema occorre però partire da una consapevolezza. Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Ogni attore esprime un interesse. E non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.
La prima grande distinzione che occorre compiere è quella che seleziona gli enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto. Allo stesso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali. La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.
Anche a questo proposito le innovazioni introdotte dalle leggi regionali recenti colgono alcuni risultati rilevanti, senza cedere a mode tendenti alla “concertazione assoluta” e, di conseguenza, alla deresponsabilizzazione di ciascuno dei soggetti coinvolti. Si tratta delle “conferenze di pianificazione” (o simili), cioè di incontri istituzionali dei diversi soggetti pubblici interessati a una questione nella quale sia coinvolta la responsabilità di ciascuno di essi. Si riuniscono, opportunamente documentati; esaminano la questione collegialmente; esprimono illico et immediate il loro parere, se possibile; se le posizioni sono contrastanti, discutono e cercano la mediazione; se è necessario un supplemento di analisi o d’istruttoria decidono lì per lì la data della prossima riunione, nella quale decideranno.
Un tavolo diverso è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali: per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore; e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricorso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.
Gli interessi privati
Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere. Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: il soggetto che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni. Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.
Altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del retino) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.
Governare la governance
Mi sembra quindi che, mentre la governance istituzionale non pone problemi che non siano “tecnici” alla sua utilizzazione in supporto al government, particolare attenzione deve essere posta a inserire correttamente nel processo delle decisioni i portatori d’interessi privati, in particolare quelli economici. L’ipotesi che si può formulare è che la governance, nel campo del governo del territorio , funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:
1. gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;
2. gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.
Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario – nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto in Italia, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole. Ed è certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio è quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.
La partecipazione
Salzano, Edoardo, da “Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma”, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)
Coinvolgere nella pianificazione i cittadini (in quanto tali, in quanto utenti della città e suoi “padroni”, e non in quanto proprietari di sue singole parti) è ambizione che l’urbanistica ha sempre coltivato. Con risultati, mi sembra, insoddisfacenti, salvo casi limitati che non hanno costituito precedenti significativi di pratiche diffuse. Il coinvolgimento è relativamente facile (là dove si adoperano tecniche adeguate e, soprattutto, volontà politica determinata) quando si tratta di trasformazioni urbane limitate: l’apertura di una strada, la ristrutturazione di un quartiere esistente, la progettazione di un intervento pubblico d’interesse locale. Ed è facile là dove si tratta di opporsi a un intervento negativo: lì la tensione NIMBY ( Not In My Back Yard: non nel mio cortile) costituisce un buon alimento se l’intervento proposto è negativo. Molto più complesso è lì dove l’argomento è un intero progetto di città o di territorio. Probabilmente non si tratta di un problema tecnico, ma politico. Lo sostiene un intelligente urbanista a tutto campo, Silvano Bassetti. Secondo Bassetti
“se per urbanistica intendiamo la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti; e se per partecipazione intendiamo il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia.”
Del resto, ho più volte affermato che urbanistica e politica sono due aspetti connessi d’un medesimo campo di interessi, obiettivi, procedure. In una civiltà politica che si è data la democrazia come regola generale, l’urbanistica è allora necessariamente anch’essa “urbanistica democratica”. Solo che, prosegue Bassetti,
“La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione.”
Per concludere che
“la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un optional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza.”
Con la stessa pazienza con la quale vanno ricostruite la politica e la democrazia.
Sostenibilità (sviluppo sostenibile), secondo l'ONU
Il testo originale del paragrafo 3, che contiene la definizione del termine “sviluppo sostenibile”, in due pagine del rapporto From One Earth to One World (Rapporto Brundtland) della World “Commission on Environment and Development”, pubblicato nel 1997 con il titolo Our Common Future, approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1989. Trad italiana da Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano 1988
L’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ailoro. Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti dall'attuale stato delta tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attivita umane. La tecnologia e l'organizzazione sociale possono pero essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica
La Commissione e del parere che la diffusa povertà non sia piu inevitabile. La povertà non e soltanto un male in sè, ma lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore. Un mondo in cui la povertà sia endemica sarà sempre esposto a catastrofi ecologiche e d'altro genere. Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali.
Lo sviluppo globale sostenibile esige che i più ricchi facciano `propri stili di vita in sintonia con i mezzi ecologici del pianeta, per esempio per quanto riguarda 1'uso dell'energia. Inoltre, gli incrementi demografici possono aumentare la pressione sulle risorse e rallentare il miglioramento dei livelli di vita; sicché, uno sviluppo sostenibile puo essere perseguito solo se I'entità della popolazione e l'incremento demografico sono in armonia pm il mutevole potenziale produttivo dell'ecosistema.
In ultima analisi, però, lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definita condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento di risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli attuali. Noi non affermiamo certo che il processo sia facile o rettilineo. Bisogna compiere difficili scelte. Sicché, a conti fatti, lo sviluppo sostenibile non puo che fondarsi sulla volontà politica.
Qualcuno ne ha parlato come di una "definizione di compromesso". In effetti, sebbene sia certamente un compromesso molto avanzato e una definizione molto severa, non esprime ancora pienamente una critica di quella ideologia della crescita indefinita che è congeniale al modo capitalistico di produzione. Ma è difficile che una critica siffatta potesse trovare consenso unanime all'interno dell'Assemblea generale dell'ONU.
Quanto quel compromesso sia avanzato è testimoniato dal fatto che oggi, nel linguaggio corrente, "sostenibile" è divenuto un sinonimo di "sopportabile", arretrando un bel po' dalla severità della definizione elaborata dai saggi coordinati da Gro H. Brundtland.
Scuola estiva di pianificazione - 19-24 SETTEMBRE 2005
PROGRAMMA DEL CORSO
Martedi’ 20 settembre
Mattina
• Edoardo Salzano, Introduzione
• Maria Cristina Gibelli, Forma della città e costi collettivi: come governare l'insostenibile dispersione urbana
• Piero Bevilacqua I caratteri del territorio italiano e la sua evoluzione storica
Pomeriggio
• Giovanni Caudo, Le condizioni abitative
• Paolo Berdini, La dimensione metropolitana dell’urbanistica romana
• Fabrizio Bottini, Nel cuore verde della megalopoli padana: insediamenti a nastro produttivi e commerciali
Mercoledì 21 settembre
Mattina
• Vezio De Lucia, Il disegno di legge Lupi. Riforma e controriforma nell’urbanistica dell’Italia repubblicana
• Maria Pia Guermandi, Il territorio dei beni culturali
• Dario Franchini, La valutazione ambientale di piani e programmi: indirizzi per una pianificazione sostenibile
Pomeriggio
• Piero Cavalcoli, Bologna, le origini e il governo dell'attuale modello insediativo
• Georg Frisch, L’Europa
• Antonio di Gennaro, Napoli
Giovedì 22 settembre
Mattina
• Antonio di Gennaro, Il territorio rurale: istruzioni per l’uso
• Alfredo Drufuca, Strumenti per interpretare e governare la città diffusa: accessibilità e mobilità
• Carla Ravaioli, Il turismo: produzione di ricchezza senza controindicazioni?
Pomeriggio
• Massimo Zucconi, Carlo Melograni
La pianificazione territoriale coordinata e la realizzazione del sistema dei parchi della Val di Cornia.
Venerdì 23 settembre
Mattina
• Luigi Scano, Disposizioni per il contenimento dell'uso del suolo nella legislazione regionale.
• Francesco Erbani, La stampa e l’urbanistica
• Mauro Baioni, Consumo di suolo e pianificazione: seminario conclusivo con gli studenti
Pomeriggio
• Approfondimenti concordati con i corsisti
• Bilancio del corso a cura di Salzano e Zucconi
In calce potete scaricare il testo in formato .pdf
Eddyburg.it organizza la seconda edizione della scuola estiva di pianificazione dedicata al tema della costruzione pubblica città .
La Scuola intende:
- fornire i presupposti, i riferimenti e gli obiettivi del governo della città e del territorio;
- informare sull’evoluzione del quadro legislativo e istituzionale;
- promuovere un confronto con le esperienze e tendenze europee.
Come l’anno passato, le attività si svolgono presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, nel cuore del Parco archeominerario di San Silvestro a Campiglia Marittima (Livorno).
La città pubblica
Dalla casa ai trasporti. Dall’ambiente ai servizi. Il soggetto pubblico ha visto ridursi progressivamente il proprio ruolo, ritirandosi non solo dall’intervento diretto, ma anche dall’esercizio di indirizzo e regolazione. In Italia, questa riduzione è stata accettata da destra e sinistra, vuoi per un convincimento culturale, vuoi per le inefficienze dell’amministrazione pubblica. Così facendo, si sono accresciute le disuguaglianze, sociali e territoriali, e i costi sopportati dai soggetti più deboli, dall’ambiente e dal paesaggio.
L’urgenza di un recupero della costruzione pubblica della città (o del territorio , qui inteso in modo equivalente) appare non più rinviabile. E’ in questo senso che possiamo tornare a parlare di “città pubblica”, concentrando l’attenzione sugli strumenti necessari per mantenere, ampliare o costruire il patrimonio di beni pubblici.
Come costruire una città vivibile, una città amica delle donne edegli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento?
A queste domande si tenterà di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano.
Per saperne di più
Chi vuole avere ulteriori informazioni sulle attività svolte l’anno passato e visionare i materiali prodotti può consultare le pagine del sito dedicate alla edizione del 2005.
Chi vuole avere ulteriori informazioni sul luogo di svolgimento delle attività della scuola, può visitare il sito del Parco archeominerario di San Silvestro.
Per ricevere informazioni e comunicare la propria adesione
Vi invitiamo a rivolgervi ai recapiti sotto elencati, indicando nome, cognome, qualifica, e-mail, telefono.
mabaion@tin.it
Nei prossimi giorni
Sul sito eddyburg.it presenteremo:
- il programma dettagliato;
- i docenti partecipanti;
- i costi di partecipazione e le modalità di adesione.
Ciao Eddy, come va? è stato davvero un piacere conoscerti. Aver frequentato la tua scuola mi ha aperto a nuove curiosità e a nuove amicizie, e direi che questo è stato davvero moltissimo. Come già sai, a me è mancato parecchio il contatto con il mondo esterno. Ma - tu obietterai - eravamo a SCUOLA! E come darti torto! Ecco, allora direi che mi sono sentita un pò sequestrata, un pò isolata forse.
Confidando nel tuo senso dell'ironia ,da toscanaccia quale sono, ti invio alcune delle mie cattivissime vignette Un caro abbraccio, elena
Grazie Elena. Per l’anno prossimo stiamo pensando a una scuola un po’ meno “isolata”. Naturalmente sarai informata, e magari collaborerai. Grazie delle belle vignette (sono nel file allegato), e sopratutto dell’humour!
Il consumo di suolo è la misura dell’espansione delle aree urbanizzate a scapito dei terreni agricoli e naturali. Il suo monitoraggio è un tema di estremo interesse per l’urbanistica, poiché investe appieno alcune tra le principali questioni che la pianificazione è chiamata ad affrontare: la forma della città, la distribuzione sul territorio delle funzioni, il conflitto tra usi alternativi del suolo.
Nel sito Eddyburg.it e nella prima edizione della scuola estiva di pianificazione è stata avviata una riflessione che non si è limitata ai soli aspetti di tecnica urbanistica. Grande attenzione è stata dedicata a temi apparentemente distanti tra loro, come l’economia, la storia del territorio, la pianificazione dei trasporti, la valutazione ambientale, che solo nel loro complesso intreccio consentono di comprendere le ragioni dell’inarrestabile crescita delle aree urbanizzate, delle conseguenze – economiche e sociali – procurate dalla mancata regolazione dello sviluppo urbano e, solo a questo punto, dei rimedi che possono essere apportati attraverso la pianificazione territoriale e urbanistica.
Ragioni e fattori di crescita del consumo di suolo
E’ spettato a Edoardo Salzano, fondatore di Eddyburg.it e promotore della scuola, il compito di inquadrare il tema, focalizzando l’attenzione sul rapporto tra consumo di suolo, economia e stili di vita, sottolineandone la patologia e indicandolo come uno degli effetti di un modello socio-economico che tende a disgregare progressivamente polis e urbs.[1]
Nel nostro paese assume un particolare rilievo la rottura dello stretto legame tra modi di produzione e territorio che aveva caratterizzato tutta la storia italiana fino al 1900, come ha spiegato Piero Bevilacqua. Per secoli la necessità di governare le acque, di adattare le terre per le coltivazioni, di rendere affidabili le reti di comunicazione e di difesa ha innervato il rapporto di mutua interazione tra uomo e natura. In poche generazioni questa necessità è venuta meno e con essa l’attenzione al territorio: il paesaggio, da costruzione collettiva del presente, è diventato memoria ingombrante del passato e l’urbanizzazione ha progressivamente e indistintamente invaso consistenti porzioni del suolo nazionale, nelle pianure, nelle coste, nei fondovalle.[2] Una trasformazione, ci ha ricordato Antonio di Gennaro, che ha investito non solo le aree urbane, ma - con altrettanta intensità - il territorio rurale, troppo spesso negletto dalla cultura urbanistica. Anche la campagna si è trasformata perché persino la produzione agricola, alla pari del commercio e della produzione industriale, ha perso il proprio legame con il territorio. Un cambiamento radicale, orientato da politiche commerciali definite a scala europea e mondiale, che si è rivelato comunque del tutto insufficiente a sostenere, economicamente oltre che culturalmente, la competizione con l’utilizzo urbano del suolo, come testimonia la drammatica dissipazione dei suoli fertili e ricchi di storia dell’entroterra napoletano.
L’espansione delle aree urbane è ben lontana da essersi arrestata. Al contrario, essa viene sostenuta dall’impennata delle rendite immobiliari con rinnovato vigore da una decina d’anni a questa parte. Spiega Giovanni Caudo che persino la produzione di abitazioni, edifici industriali e uffici sembra aver subito una mutazione genetica, all’apparenza smaterializzandosi[3]. Gli edifici diventano poste nei bilanci, sono oggetto di continui passaggi di mano tra società, acquistano un valore del tutto slegato dalla loro effettiva funzione. Gli effetti prodigiosi nelle casse delle società immobiliari sono ormai noti ai più, così come l’impennata dei costi di acquisto e affitto delle abitazioni. Dovrebbe essere evidente il nesso, causale e temporale, tra i due fenomeni, ma così non è. La pianificazione non ha finora risposto con la necessaria prontezza, anzi in taluni casi sembra voler agevolare questo perverso meccanismo. Molti sono gli esempi illustrati durante i cinque giorni della scuola.
La pianificazione:
strumento di controllo o di sostegno?
Il caso del Prg di Roma, indagato da Paolo Berdini, è esemplare di quanto possano incidere le scelte della pianificazione urbanistica nell’assecondare l’espansione delle aree urbane. Ma non si tratta di un comportamento isolato, tutt’altro. Anche in Emilia Romagna, nonostante il territorio sia pianificato con completezza e costanza da oltre trent’anni, l’espansione urbana e la dispersione degli insediamenti nel territorio hanno assunto proporzioni consistenti. Piero Cavalcoli ha mostrato la disseminazione di insediamenti produttivi nella piana bolognese, un centinaio di aree grandi 20 ettari o più, disposte a raggiera attorno al capoluogo. Lo stesso avviene in Toscana, dove sono state censite 130 aggregazioni con più di 50 ettari disseminate nei fondovalle e nelle poche aree pianeggianti. Oppure, con forza ancora maggiore, nel Veneto: 556 aggregazioni produttive censite nella sola provincia di Treviso. La razionalità delle singole decisioni assunte dai piani produce, dunque, una complessiva irrazionalità.
I difetti di questo modello, basato sulla sommatoria di decisioni particolari, sono amplificati dalle distorsioni nella rete dei trasporti. Come ha chiarito Alfredo Drufuca, la logica di costruzione e gestione di autostrade, strade e ferrovie è orientata a soddisfare prioritariamente se non esclusivamente le esigenze di bilancio e di funzionamento degli enti gestori, (monopolisti pubblici o privati, poco importa), ignorando la realtà territoriale in cui si collocano le infrastrutture, così come gli effetti territoriali delle scelte compiute. Paradossalmente, la congestione di alcune tratte e la dispersione degli insediamenti si alimentano a vicenda e le soluzioni usualmente proposte non fanno che amplificare i problemi.
Sembrerebbe necessario, dunque, spingere in direzione di una maggiore coerenza complessiva delle scelte, rafforzando il ruolo degli enti pubblici, in particolare di province e regioni. Tutto il contrario di quanto si va affermando con la proposta di legge urbanistica in discussione al Senato. Vezio de Lucia ha evidenziato come la proposta redatta dall’onorevole Lupi porti alle estreme conseguenze il modello “individualista” e frammentario delle decisioni che sta alla base della disarticolazione della crescita degli insediamenti: l’iniziativa sulle trasformazioni della città viene completamente delegata ai privati (rectius, agli investitori immobiliari) e l’autorità pubblica si limita a introdurre qualche correzione, con armi che la stessa legge provvede a spuntare. La debolezza del sistema della pianificazione viene ulteriormente esasperata da altri passaggi del testo legislativo, laddove si depotenziano i piani territoriali e si rinuncia ad una visione dell’urbanistica coincidente con il “governo del territorio”, a favore di una più angusta visione rivolta alle sole trasformazioni edilizie, al cemento e all’asfalto come avrebbe detto Antonio Cederna.
La separazione tra urbanistica, ambiente e paesaggio non è senza conseguenze. Nel ricordarci le difficoltà che hanno incontrato l’applicazione della VIA e la redazione dei piani specialistici, Dario Franchini e Maria Pia Guermandi hanno ben argomentato come questo scorporo finisca col rafforzare quella frattura tra società e ambiente di cui si è parlato all’inizio del paragrafo precedente. In una società sempre più avulsa dal territorio in cui abita, la protezione del paesaggio, dei beni culturali e dell’ambiente sono così percepiti come un vincolo, come un costo, persino come un lusso in tempi di crisi, e non – come sarebbe auspicabile – il fondamento delle scelte.
Modelli di crescita ed effetti prodotti
La crescita delle aree urbane non si è dunque arrestata, né in Italia, né nel resto del mondo, tutt’altro. Sprawl, diffusione, dispersione insediativa: attraverso questi termini Maria Cristina Gibelli ha spiegato come il consumo di suolo si accompagni ad un uso sempre più estensivo dello spazio, alla perdita dei confini della città, alla progressiva formazione di un magma di costruzioni, infrastrutture e aree agricole relitte. Fabrizio Bottini ha percorso una consistenze sezione della principale delle conurbazioni italiane, quella padana, e le sue fotografie – scattate lungo la strada che congiunge Torino a Venezia – illustrano nella loro sequenza quanto sia profonda la dilatazione e destrutturazione dello spazio urbano, a dispetto delle intenzioni dei piani territoriali. Nel panorama della conurbazione convivono tuttora forme tradizionali di espansione, come ricordato da Berdini e De Lucia a proposito di Roma: la crescita della città non costituisce affatto un rimedio alla congestione delle aree centrali. Al contrario, la deregulation dello sviluppo urbano comporta l’esasperazione congiunta di due fenomeni solo apparentemente opposti: l’uso sempre più intensivo di alcune parti del territorio e la dissipazione di superfici agricole sempre più ampie. Lo testimoniano le grandi trasformazioni urbane (Caudo), le dinamiche della mobilità (Drufuca, Cavalcoli) e persino il turismo (Ravaioli), i cui effetti negativi sono legati sia ad un eccesso di pressione nelle città d’arte o lungo le coste, sia ad una sua progressiva diffusione in aree poco vocate e accessibili.[4]
Il confronto con altre nazioni europee, compiuto da Georg Frisch, evidenzia l’abissale vuoto di conoscenze in Italia, a testimonianza di quanto sia poco in auge il tema del controllo degli usi del suolo. Mentre in Germania e in Gran Bretagna, accurati catasti degli usi e delle trasformazioni sono posti a fondamento di politiche di correzione delle dinamiche spontanee di crescita delle aree urbane, in Italia sono disponibili poche ricerche, effettuate senza alcun sostegno e coordinamento da parte dello stato e delle regioni. Quanti km di costa sarda sono destinati al turismo? Quante porzioni dei fondovalle appenninici o delle pianure interne sono stati consumati, in nome dello sviluppo industriale delle piccole imprese? Chi abita nelle nostre campagne? Qual’è la mappa reale degli spostamenti che compiamo ogni giorno?
Altre domande scaturiscano dall’osservazione della distribuzione di costi e vantaggi. Il mancato controllo del consumo di suolo e la dispersione degli insediamenti generano una serie di costi collettivi la cui entità è stata stimata, per la prima volta in Italia, in una ricerca condotta da Camagni, Gibelli e Rigamonti, della quale Gibelli ha presentato gli esiti. Il fatto che pochi gruppi sociali si avvantaggino di una consistente esternalizzazione dei costi, ambientali, sociali ed economici non sembra essere ben compreso. Una sottovalutazione che provoca distorsioni evidenti: attualmente è più vantaggioso urbanizzare il terreno agricolo, rispetto alla ristrutturazione di aree dismesse; attualmente i comuni derivano gran parte del proprio sostentamento da oneri di urbanizzazione e ICI (cioé dalla consistenza e dalla crescita delle aree urbane); nella prospettiva indicata da alcune leggi regionali e fatta propria dalla proposta di legge urbanistica nazionale, la realizzazione e persino la gestione dei servizi pubblici (degli asili, delle scuole, del verde pubblico, degli impianti sportivi...) saranno indissolubilmente legati ad operazioni di trasformazione urbana. Al “motore della crescita urbana”, per usare l’espressione del Sustainability institute americano, non si vuole far mancare il carburante.
Il panorama sulle leggi regionali fornito da Luigi Scano dimostra la superficialità con cui la pubblica amministrazione si occupa del controllo della crescita urbana: qualche dichiarazione di principio relativa alla sostenibilità, poca o nessuna attenzione al territorio rurale, letto al più come supporto per la produzione agricola. Non è dunque un caso che anche nelle regioni con la migliore tradizione urbanistica, Toscana ed Emilia, la crescita e dispersione degli insediamenti abbiano interessato significative porzioni di territorio.
I rimedi possibili: quali sfide per la pianificazione
La panoramica fornita durante la scuola, sopra brevemente riassunta, mostra con sufficiente chiarezza la complessità del problema del consumo di suolo, il cui contenimento non può certo basarsi esclusivamente sul modo in cui vengono redatti gli strumenti urbanistici. Del resto il legame tra urbanistica e politica, così come tra politica e cultura è – o dovrebbe essere – assai stretto. Registriamo, dunque, la necessità che si ristabilisca innanzitutto questo legame, che gli urbanisti ritrovino parole capaci di descrivere la realtà, che smettano di interrogarsi esclusivamente sulla nomenclatura dei piani e riprendano ad occuparsi del rapporto tra società e territorio e di quanto l’organizzazione delle città è importante per la vita quotidiana delle persone. Se il territorio non è nell’agenda politica è anche perché gli urbanisti hanno perso le parole.
In secondo luogo, ben prima della definizione di complesse politiche o di raffinati strumenti di piano, sarebbe bene recuperare un po’ della chiarezza e della semplicità dei piani del passato, frettolosamente archiviati come strumenti inadeguati a governare il cambiamento. Al contrario: quanta forza visionaria era contenuta nei piani coordinati dei comuni della Val di Cornia, così come emerso dal racconto di uno dei loro autori, Carlo Melograni. In una tavola di piano caratterizzata da pochi e semplici colori viene tratteggiato un futuro diverso per lo sviluppo di Piombino e del suo entroterra, basato su una rete di parchi e non sullo sfruttamento immobiliare della costa. E che dire del piano regolatore di Napoli, pressoché l’unica grande città italiana ad avere approvato di recente un nuovo piano regolatore? Che reazione avreste, se vi descrivessero Napoli come una città circondata da un grande parco sulle colline, dove la piana industriale di Bagnoli è stata restituita alla città realizzando una spiaggia e un grande giardino pubblico, dove i turisti visitano il centro restaurato muovendosi con la metropolitana o il treno, dove il traffico soffocante e le macchine a Piazza Plebiscito sono un ricordo sbiadito... Eppure non si tratta della fantasia di uno scrittore, ma del contenuto concreto di un piano urbanistico che, quand’anche tradizionale nella forma, si rivela assai innovativo nei suoi contenuti.
Se appare auspicabile recuperare un po’ di chiarezza nel descrivere e interpretare la realtà, così come nel fornire proposte per il domani, la terza e probabilmente la più importante sfida per la pianificazione consiste nell’attivare gli strumenti che consentono il passaggio dall’idea di piano alla sua concreta realizzazione. E’ Massimo Zucconi, con il suo intervento, a ricordare quanta tenacia occorra per muoversi controcorrente. Eppure la storia di successo della Società dei Parchi Val di Cornia dimostra che è stato possibile tradurre in una realtà concreta l’intuizione tecnico-politica contenuta nei piani redatti all’inizio degli anni settanta. E’ stato possibile e necessario al contempo: se in Val di Cornia i parchi non fossero oggi un modello di gestione, un soggetto economico e un protagonista attivo sulla scena locale è del tutto probabile che le proposte di piano verrebbero facilmente sopraffatte, con esiti analoghi a quanto è accaduto in molte altre aree costiere. Allo stesso modo, la sorte del Prg di Napoli è indissolubimente legata al funzionamento della rete dei trasporti, alla vitalità del parco delle colline, alla progressiva realizzazione dei servizi nelle periferie e della riconversione di Bagnoli. Ad un’idea semplice, ma chiara, dello sviluppo delle città e del territorio deve perciò corrispondere un ventaglio di iniziative che solo nel loro insieme possono rappresentare un antidoto all’anarchia dello sviluppo urbano: politiche fiscali, rafforzamento del coordinamento intercomunale, incentivi al riutilizzo delle aree già urbanizzate, introduzione di regole più severe o di forme più stringenti di valutazione per l’ammissibilità delle espansioni urbane, introduzione di un legame obbligatorio tra localizzazione delle nuove aree urbane ed esistenza di un servizio di trasporto pubblico su ferro, introduzione di densità minime di occupazione del suolo, sostegno all’agricoltura come presidio ambientale e paesaggistico e così enumerando, come testimoniano i numerosi esempi forniti dai docenti della scuola. Nuovamente, si tratta di proposte che necessariamente esulano dallo specifico dei piani, e riguardano innanzitutto il funzionamento della pubblica amministrazione, e inoltre la sfera legislativa, quella economica, l’insieme delle politiche sul territorio, in un percorso circolare che necessariamente riconduce alla politica e alla cultura.
In conclusione
Ben vasto programma, dunque. E molto ricco di sfaccettature, così come era logico che scaturisse da una scuola estiva di pianificazione promossa da Eddyburg.
Per concludere, in questi giorni circola in televisione una pubblicità che mostra un uomo con sua figlia che giocano felicemente insieme. Per tutto il resto, recita lo slogan, c’è la carta di credito. Rovesciando il punto di vista, il mercato con le sue distorsioni sembra occupare ogni giorno sempre più spazio, nell’agenda politica così come nel piccolo mondo dell’urbanistica. Ebbene, per tutto il resto c’è Eddyburg. Questo credo che basti a spiegare l’affetto e l’impegno con cui hanno contribuito, docenti e partecipanti, al successo di questa settimana.
[1] Edoardo Salzano. Consumo e città. Dispense della scuola estiva di pianificazione 2005. Anche nel sito, qui.
[2] Va ricordato che la grande trasformazione descritta da Bevilacqua ha significato l’affrancamento dalla miseria, l’evoluzione del costume e la diffusione del benessere alla più gran parte della popolazione. Non è dunque uno sguardo nostalgico, ma piuttosto desideroso di comprendere il percorso compiuto per giungere sin qui. Nei giorni successivi alla conclusione della scuola, Vezio de Lucia mi ha segnalato il libro Terra di rapina di Giuliana Saladino, una testimonianza esemplare per ricordare quali drammatici eventi abbiano segnato i profondi cambiamenti dell’Italia del ‘900.
[3] Il significativo titolo della comunicazione di Caudo è “Case di carta”.
[4] E’ di questi giorni la demenziale proposta di costruire nuovi impianti da sci sulla sommità dell’Etna, a 2000 metri di quota, esempio paradossale di quanto il falso mito dello sviluppo turistico venga addotto come giustificazione per operazioni dall’elevatissimo impatto ambientale. Ma, all’opposto, anche la silenziosa e progressiva trasformazione della campagna toscana in chiave turistica meriterebbe qualche considerazione più approfondita, come sottolineato anche dai partecipanti al corso.
L’insediamento extraurbano a nastro lungo il tracciato della Padana Inferiore: un percorso critico
Il “percorso critico” del titolo si riferisce contemporaneamente a due aspetti e approcci complementari: lo stato attuale di criticità insediativa del percorso stradale e del suo contesto ambientale immediato; l’esame critico degli strumenti di pianificazione provinciale che ne dovrebbero restituire un’idea strategica di sviluppo spaziale.
Questi due approcci complementari sono stati proposti all’interno del corso (anche a causa dei ristretti tempi disponibili) attraverso una rassegna sistematica di fotografie scattate recentemente lungo i circa 400 chilometri del tracciato, e un testo che a partire dall’idea di insediamento megalopolitano unitario e articolato per grandi zone “specializzate”, tentava di verificare attenzione e continuità dei nove piani provinciali interessati al tema dell’insediamento (soprattutto commercial-produttivo) extraurbano a nastro.
Il percorso fisico documentato dalle fotografie mostrava un “cuore verde della padania” ancora in parte caratterizzato come tale, ma con gravi tendenze alla saldatura delle varie fasce extraurbane secondo sistemi sempre più continui e prolungati, spesso indipendentemente dalla consistenza o dalla stessa esistenza di nuclei abitati o comunque consolidati.
Il percorso critico attraverso le pianificazioni provinciali evidenziava una notevole disparità: sia nelle qualità e consapevolezza degli approcci al problema (del tutto ignorato, o sottovalutato, o affrontato in modo contraddittorio); sia nell’idea di spazio che emergeva dai documenti (che restituiva un’immagine della fascia centrale megalopolitana frammentata e “localistica”). In particolare, sul versante delle ipotesi di sviluppo e governo si oscillava fra un’idea generale di contenimento dei consumi di suolo e di polarizzazione (pur con qualche lacuna), e programmi del tutto opposti di crescita insediativa all’insegna di elementi ad alto impatto (logistica, infrastrutture autostradali parallele al tracciato ecc.).
La provvisoria conclusione di entrambi i complementari percorsi è da un lato la grande disparità che emerge fra un approccio infrastrutturale (autostrade, alta velocità ferroviaria ecc.) che opera a tutto campo a dimensione megalopolitana, e una pianificazione territoriale esplicitamente inadeguata a rapportarsi su un piano di parità. Dall’altro la tendenza visibile alla crescita di interventi che pur concepiti alla scala locale manifestano i propri effetti a dimensione molto maggiore.
Ne emerge quantomeno l’urgenza di ripensare culture e ruoli della pianificazione sovracomunale.
Qualche particolare descrittivo in più nell'articolo Quore di Tenebra (f.b.)
Case di carta: la nuova questione abitativa
I dati sull’emergenza abitativa ci colpiscono per la loro rilevanza: canoni di affitto in aumento, tra il 1998 e il 2004, mediamente del 49%, ma a Venezia del 139% e a Roma del 91%. I valori degli immobili in crescita cresciuti, tra il 2001 e il 2004, di quasi il 40%, media nazionale nelle città capoluogo. In molte città, quindi, sono letteralmente raddoppiati. Gli sfratti per morosità rappresentano, nel 2002, il 68% del totale, nel 1983 erano appena il 13%. E’ anche vero che le famiglie che abitano in case di proprietà sono aumentate. Erano poco meno del 51% nel 1971 e sono diventate, nel 2001, il 71%. Incremento addirittura più consistente si è registrato nelle città metropolitane dove le famiglie in proprietà sono più che raddoppiate: dal 30,6% al 62,5%. E’ frequente la contrapposizione tra i dati sull’emergenza abitativa e quelli sulla proprietà così da poter relegare la prima a problema marginale in fase di risoluzione anche grazie ai bassi tassi dei mutui che agevolano l’accesso alla proprietà.
L’articolazione dell’emergenza abitativa dipende da più fattori ma soprattutto, e in misura sempre maggiore, dalle condizioni di vulnerabilità delle famiglie esposte ai canoni di affitto in regime di libero mercato. Oggi queste sono 3.288.990 (dati Istat 2001), pari al 76% delle famiglie in affitto. E’ questo il bacino della vulnerabilità sociale. Le stime del Cresme mostrano che nel 2007, a seguito dell’incremento dei canoni, le famiglie con un rapporto canone reddito superiore al 30% aumenteranno di circa 400 mila (da 1.355.300 a 1.758.260). E’ la linea della povertà che avanza verso l’alto. Franco Ferrarotti l’ha descritta come «la povertà dignitosa, quella che cerca disperatamente di “salvare le apparenze”». Nei grandi comuni il canone medio per un alloggio di 75 mq è di 1.089€, lo stipendio netto per un impiegato pubblico (ministero, sanità, scuola, enti locali) si aggira intorno ai 1.200€. Così avanza l’emergenza abitativa, aumenta l’insicurezza ed è emergenza sociale.
Quali le ragioni o le possibili spiegazioni della crescita del mercato immobiliare? L’osservatorio immobiliare individua l’inizio del ciclo positivo a partire dal 1997. In quell’anno, infatti, il numero delle transazioni (compravendite) è cresciuto dell’8,7%. Da quel momento la crescita è stata progressiva con un solo dato negativo, nel 2001, quando le compravendite registrano una correzione dell’1,3%. Un ciclo cominciato ben prima che si sgonfiasse la bolla speculativa della new economy e ben prima del crollo delle torri gemelle. Nel 1997 e non nel 2000 o nel 2001. Le cause quindi vanno trovate altrove.
Anche i dati sui finanziamenti oltre il breve termine dell’osservatorio statistico della Banca d’Italia indicano che tra il dicembre del 1997 e il marzo del 1998 si è registrata una inversione di tendenza nei prestiti alle famiglie per l’acquisto della casa che, nel 2004, rappresentano quasi il 30% del totale (a fronte di un 15,8% di finanziamenti per le costruzioni, e di un 10,8% per i macchinari e le attrezzature).
Cosa è successo quindi in quegli anni, tra il 1997 e il 1998, tanto da avviare in modo così deciso e repentino un ciclo economico che ha prodotto una crescita dei valori immobiliari senza precedenti? Certo è che l’allentamento da parte delle banche dei cordoni della borsa a favore delle famiglie ha avuto un effetto anticiclico e ha prodotto un aumento della domanda di acquisto di alloggi contribuendo a rivitalizzare il mercato immobiliare.
Anche il governo di allora, con la legge 431 del dicembre 1998, liberalizzando i canoni di affitto e cancellando la legge dell’equo canone consentì la crescita dei canoni e attraverso questi contribuì ad aumentare la redditività degli alloggi.
Sempre in quegli stessi anni si registrano però altri eventi significativi. Nell’ambito del più ampio processo di ristrutturazione delle imprese di produzione di beni e servizi, tra il 1997 e il 1998, si modifica radicalmente il legame tra impresa e proprietà immobiliare. Questo cambiamento radicale si traduce nell’esternalizzazione del patrimonio immobiliare che viene affidato ad una società (di nuova costituzione o già presente nella ramificazione aziendale).
Il meccanismo finanziario che si realizza è noto nella letteratura come ABS – Asset backed securitization, o semplicemente securitization. Questo meccanismo si basa sulla comparsa nel mercato di un soggetto con sole finalità immobiliari finanziato da una banca e chiamato ad incrementare la redditività degli immobili per assicurare il suo mantenimento. Redditività che è assicurata dai canoni di affitto e dai valori immobiliari che perciò devono, entrambi, crescere o comunque mantenersi su valori alti. Un meccanismo che ha necessariamente bisogno di vedere aumentare i valori del mercato immobiliare (+ domanda) e i canoni di locazione (+mercato). La coincidenza temporale (1997-1998) per cui il sistema bancario concede più facilmente mutui alle famiglie e il governo, dicembre 1998, liberalizza i canoni abolendo non solo l’equo canone ma anche i patti in deroga introdotti nel 1992, non costituisce necessariamente una spiegazione.
Conclusioni. Le case sono diventate di carta, sono state immesse sul mercato finanziario per produrre redditività e sostenere il sistema economico delle banche, la ristrutturazione delle imprese e, soprattutto, per alimentare la rendita finanziaria. I costi di questo processo di ristrutturazione gravano sulle famiglie in affitto ma anche su quelle che comprano casa indebitandosi con i mutui. Le società immobiliari fanno profitti mai visti e incrementano il fatturato da un anno all’altro. La questione abitativa ha dunque caratteri del tutto diversi da quella conosciuta in passato e anche le soluzioni che si richiedono devono essere diverse. Non è questa la sede per approfondire o delineare i caratteri di una possibile politica abitativa. Mi limiterò quindi a segnalare che se è necessario pensare ad un “progetto per le città d’Italia”, questo dovrà contenere tra le priorità l’individuazione di linee di intervento sulla nuova questione abitativa che (a) incidano sui meccanismi di finanziarizzazione, che (b) aprano il mercato a nuovi soggetti, che (c) valorizzino (invece di dismettere) il patrimonio immobiliare pubblico.
Caro Prof Eddy, più ci penso e più sono contenta di aver partecipato alla tua iniziativa. per quanto mi riguarda è andato tutto ottimamente,dagli aspetti logistici , a quelli culturali e perchè no agli aspetti ricreativi. Mentre sugli aspetti culturali devo un po’ lasciar decantare la marea di informazioni che ci avete fornito, mi preme dire che il passaggio da virtuale a reale non mi hanno deluso anzi ,e fra le persone che hanno partecipato ho trovato degli amici. E' vero non c'è stata una sistematicapresentazione dei partecipanti, ciò è comprensibile in relazione alla novità dellesperimento, ma la particolarità del luogo, che sebbene inizialmente ci ha lasciati tutti un pò perplessi, ha favorito la comunicazione e l’aggregazione fra le persone. Infatti alla fine delle lezioni ci siamo scoperti gruppo e personalmente mi dispiaciuto che molti per ragioni varie siano dovuti andare via il venerdì anche perchè in effetti il corso è continuato sul territorio; le parole dei quattro giorni precedenti hanno potuto legarsi a una realtà ben precisa e molto significativa.
Infatti siamo scesi nelle viscere della terra dove generazioni hanno cercato preziosi metalli , abbiamo assaporato la luna rossa di una notte umida nella quale per magia sono tornati a danzare e suonare per noi presenze etrusche, ci siamo immersi nell'impianto appena affiorato di una città sacra e ci siamo sentiti parte della storia, ma soprattutto ci siamo sentiti insieme. Quel territorio è davvero molto propizio alle nostre tematiche, infondo anche noi siamo un po’ minatori che ricerchiamo nuovi filoni di materia preziosa per fabbricare nuovi strumenti per le costruire le città di domani. vi ringrazio tutti, a uno a uno, un grazie particolare a Georg e a Mauro che ci hanno accompagnato anche nelle ultime gite. un abbraccio speciale a te.
Grazie Carla, a te e alle altre e gli altri (anche quelli che non sono potuti vebire) appuntamento fra un anno in Val di Cornia, e magari anche prima per una giornata di discussione.
Note di vita quotidiana alla scuola estiva di Eddyburg
Sembra ieri ed è già domani alla scuola estiva organizzata da Eddyburg nel Parco Archeominerario di San Silvestro in Val di Cornia.
L’arrivo
L’ultima email di Monica inviata a tutti i partecipanti ci aveva istruito su come arrivare a Villa Lanzi dove il martedì mattina sarebbero cominciati gli interventi dei relatori, come da programma.
Il tema della scuola, consumo di suolo, si sarebbe conteso la platea con il dibattito sulla legge Lupi appena approvata dalla Camera dei Deputati. Fin qui tutto come da copione.
Nella tarda serata di lunedì, dopo essermi lasciata alle spalle la strada comunale per Campiglia Marittima, seguendo le indicazioni di Monica mi sono inerpicata con la mia auto lungo una strada ghiaiosa che sembrava perdersi nel silenzio della macchia mediterranea : in mezzo al paesaggio di antiche miniere, oggi circondato dai gradoni delle cave ancora in attività, è apparsa quasi all’improvviso casa Gowett, costruzione dei primi anni del secolo scorso, semplice ed al tempo stesso austera nella sua testimonianza di presidio dei minatori che per decenni hanno lavorato in questa zona.
Il luogo è unico, tra le colline che lasciano intravedere il mare immerso nella luce della sera, e oltre, le sagome delle isole dell’arcipelago toscano. Sono affascinata.
Salgo le ripide scale che portano alla reception, qualcuno dei partecipanti è già arrivato, saluto Carla e Maria Paola; subito si parla, ci si conosce, curiose di poter frequentare questa scuola insieme.
Il prof. Salzano è arrivato presto insieme a Mauro Baioni, Angela era già arrivata, gli altri arrivano alla spicciolata: Elena, Valerio, e poi ancora Elena, Oscar, Rossana, Vanni, Francesca; Paolo e Michele ci raggiungeranno domani; e poi alcuni relatori, Vezio De Lucia, Giovanni Caudo, Georg Frisch, Paolo Berdini: alcuni di loro hanno lavorato attivamente con il prof. Salzano alla costruzione della scuola estiva e il loro sorriso rivela la soddisfazione di essere arrivati al traguardo: la Scuola Estiva di Eddyburg sta per cominciare.
Il primo “raduno generale “ verso le venti e trenta è intorno alla tavola della cena: non serve rompere il ghiaccio, basta il nostro nome e poi tutti ci sentiamo accomunati dai quattro intensi giorni che dedicheremo a parlare di ciò che ci sta veramente a cuore: come direbbe Leopardi, delle magnifiche sorti e progressive del nostro territorio, la casa comune del nostro vivere.
Primo giorno
Dopo una notte un po’ burrascosa di forte pioggia la mattina di martedì ci accoglie con un tiepido sole; cominciano gli interventi dei relatori, mi avvio frettolosamente lungo il sentiero che porta a Villa Lanzi: - “Puntuali!” - ha detto perentorio il prof. Salzano ieri sera!
Dopo il saluto di benvenuto del fondatore di Eddyburg, che invita attraverso le parole di Calvino a ricorrere con ampiezza “all’ottimismo della volontà per saper riconoscere, in questi tempi di lupi, chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, è compito di Maria Cristiana Gibelli introdurre il tema così attuale del consumo di suolo, con una trattazione quanto mai organica ed interessante impostata sulla valutazione dei costi economici della città dispersa: la sua conclusione va oltre l’affermazione della eventuale necessità di introdurre costi aggiuntivi per chi produce insediamenti diffusi, indicando esperienze europee di buone pratiche di governo del territorio per un più saggio controllo del consumo delle risorse territoriali.
Piero Bevilacqua, soffermandosi sulla evoluzione storica delle trasformazioni che l’uomo ha operato da sempre nell’ambiente in cui vive, ci riporta alla imprescindibile necessità di non perdere la coscienza di un uso naturale delle risorse del territorio negando con fermezza quella da lui definita la “pestilenza ideologica del nostro tempo” che ci porta a credere nella necessità del costruire continuo per favorire e mantenere livelli costanti di sviluppo.
Il pranzo è ormai alle porte a Villa Lanzi: ci si concede una pausa tra un piatto di zuppa toscana e carpaccio di ottimo pesce.
Si torna a parlare nel pomeriggio; e certamente la relazione di Giovanni Caudo è quella che più ci lascia stupiti, quasi interdetti, nel comprendere la semplice quanto perversa logica con la quale in pochi anni siamo stati fagocitati dall’ascesa inarrestabile della rendita immobiliare e fondiaria, con tutte le conseguenze che questa ha prodotto, e sta producendo, sul nostro territorio.
Paolo Berdini ci introduce un caso esemplare di nuovo piano regolatore nella redazione del quale ci si è distaccati dal modello di pianificazione pubblica previsto dalla legge urbanistica nazionale, per fortuna ancora vigente, del 1942: il nuovo PRG di Roma che con operazioni di “compensazione urbanistica” esemplifica, secondo il relatore, la prima vera applicazione delle regole di contrattazione pubblico-privata previste dalla legge Lupi.
La prima giornata finisce con un ritorno alla realtà, che troppo spesso vorremmo credere irreale, documentata da una carrellata di foto di insediamenti produttivi e commerciali a nastro scattate lungo una statale padana che da Torino ci porta a Monselice dall’ ironico quanto mai pungente Fabrizio Bottini, presente anche in qualità di fotografo ufficiale della Scuola Estiva.
Si esce da Villa Lanzi che è quasi sera, alcuni pensierosi su ciò che hanno ascoltato, altri continuando la discussione mentre si avviano verso Casa Gowett; altri ancora vagano in cerca del segnale del proprio telefonino che in questa parte di mondo, dominato per quattro giorni solo dalle nostre discussioni talebane sull’urbanistica interrotte unicamente dal passaggio degli automezzi che provengano dalle aree di cava, ha giustamente ritenuto di dover rimanere muto.
Secondo giorno
Il secondo giorno della Scuola di Eddyburg si focalizza sull’intervento di Vezio De Lucia sulla Legge Lupi: non mi sento di aggiungere alcuna parole alle sue, tanto la relazione è precisa nella ricostruzione delle fasi che hanno portato al disegno di legge quanto accurata nell’ indicare il legame profondo tra l’incremento delle rendite e le regole dettate dai nuovi articoli che cantano il Requiem della pianificazione pubblica.
Non c’è urbanistica se non c’è tutela: su quest’ultima frase di Vezio De Lucia si inserisce l’intervento di Maria Pia Guermandi che ci riporta ad una analisi delle testimonianze culturali del nostro territorio, spesso fagocitate, se non cancellate, dall’avanzare dell’urbanizzazione selvaggia; beni culturali che devono essere sì catalogati ma prioritariamente tutelati e valorizzati come identità della nostra storia.
Dario Franchini, parlando della valutazione strategica, ci riporta alla dimensione progettuale dell’urbanistica ed all’attualità dell’uso ed abuso del termine “sostenibilità”, ponendo l’accento su pregi e difetti del modello toscano, padre in Italia del concetto di sviluppo sostenibile, alla luce della nuova Legge Regionale di Governo del Territorio.
Dopo un pranzo veloce la visita alla Rocca di San Silvestro, insediamento fortificato a poche centinaia di metri da Villa Lanzi, ci apre scenari medievali di incontrastata bellezza oggi riscaldati da un’aria quasi estiva.
Nel pomeriggio ancora tre relazioni, tutte che riportano l’attenzione su casi esemplari di pianificazione pubblica: Piero Cavalcoli ci racconta l’esperienza del PTCP di Bologna sottolineando la necessità, oggi innegabilmente attenuata dalle leggi in materia, della pianificazione di livello sovracomunale.
Georg Frisch e Antonio Di Gennaro, il primo attraverso esperienze europee, il secondo con il racconto della nascita e morte dell’ultimo PTCP di Napoli, non fanno che confermare che la pianificazione genericamente definita “di area vasta” è il livello nodale su cui strutturare modelli corretti di trasformazione del territorio.
Anche oggi i relatori hanno contribuito con grande professionalità ad aggiungere un piccolo ma prezioso tassello al selciato che tutti noi vogliamo porti alla costruzione della strada su cui far progredire il nostro modello di urbanistica: un’urbanistica che per sopravvivere nei suoi valori deve, come dice Eddy, andare necessariamente controcorrente.
La Scuola si prende un piccolo momento di libertà e la sera ci allontaniamo dal nostro ritiro per andare a visitare il borgo di Massa Marittima.
Terzo giorno
Così, ormai abituati al ritrovo mattutino davanti ad una tazza di caffè a discutere delle notizie sulle prime pagine dei giornali che Fabrizio Bottini ci porta puntuale di ritorno dall’edicola più vicina, ci ritroviamo nuovamente a Villa Lanzi per la terza giornata della Scuola Estiva di Eddyburg.
E’ ancora Antonio Di Gennaro che ci parla di come sono cambiati non solo i modelli insediativi sul territorio aperto ma anche come questo sia dominato da nuovi soggetti: ed allora la domanda è come dialogare con questi nuovi destinatari della pianificazione e come possa il territorio rurale “difendersi” dalla crescita urbana.
Ad Alfredo Drufuca spetta invece l’interessantissimo compito di farci capire come possa la realizzazione di un nuovo asse stradale modificare i modelli di crescita urbana sul territorio; e in questo caso la domanda sorge spontanea: quanto le infrastrutture stradali, e non, hanno contribuito alla dispersione urbana? Sono decenni ormai che ci sentiamo ripetere che le strade sono necessarie “allo sviluppo del paese”, l’attuale governo ne ha fatto il suo cavallo di battaglia, noi alla scuola abbiamo cercato di riflettere anche su questo.
E un’ottima conclusione al dibattito è stata la relazione di Carla Ravaioli che argomentando sul concetto di turismo di massa ha riportato l’attenzione al pericolo che tale fenomeno può avere sulla nostra identità culturale legata alla identità dei luoghi in cui viviamo messa fortemente in discussione dalle trasformazioni edilizie volute dagli operatori del settore turistico ed avvallate dalla rendita fondiaria.
Nel pomeriggio abbiamo conosciuto dalle parole del suo presidente Massimo Zucconi e dall’intervento di Carlo Melograni la realtà della pianificazione della Val di Cornia e la vitalità con cui oggi crescono le attività dei Parchi di questa terra di Toscana.
Quarto giorno
Ed è arrivato anche venerdì, ultimo giorno di relazioni e discussioni della Scuola: è Gigi Scano che affronta in prima mattina il tema del rapporto tra legislazione regionale e consumo di suolo: il suo intervento apre un ampio dibattito tra noi; ormai ci sentiamo parte di questa comunità, portiamo i nostri contributi, le nostre idee con semplice entusiasmo.
Mauro Baioni, a cui spetta il grande merito di aver fatto sì che tutto filasse liscio in questi giorni di convivenza, chiude gli interventi dei relatori.
Il pranzo quest’oggi è breve, cominciano a girare gli elenchi con i nomi dei partecipanti e i loro indirizzi email per i futuri scambi di missive.
Eddy ci vuole tutti intorno a lui per un bilancio di questo primo corso: è il momento più intenso dei cinque giorni, ormai ci chiamiamo per nome, trasmettiamo l’un l’altro i colori della cultura dei luoghi da cui proveniamo, ci sentiamo uniti da questo nostro sentire comune, da idee urbanistiche oggi controcorrente che vogliamo non solo difendere ma soprattutto affermare anche all’esterno, anche nei confronti di che la pensa in modo diverso da noi.
La Scuola di Eddyburg tornerà il prossimo anno sempre in Val di Cornia; il ritiro in questo luogo ameno e silenzioso, ed anche un po’ spartano, aiuta la concentrazione ed i rapporti; sul tema c’è ancora discussione: Eddy propone la pianificazione provinciale, Vezio De Lucia il modello toscano.
Tutti noi siamo invitati a dire la nostra perché il nostro mestiere, il mestiere dell’urbanista, continui a farsi portavoce di un modello culturale che rappresenta la capacità di sopravvivenza della nostra civiltà.
Al prossimo anno
Ci salutiamo davanti a Casa Gowett in mezzo ad un andirivieni di valige e borse su e giù per le scale; il piazzale si svuota, torna il silenzio immerso nel verde della macchia mediterranea di questa selvaggia terra toscana scandito dal correre degli automezzi lungo le strade polverose che attraversano le cave.
Un saluto a tutti coloro che hanno partecipato alla Scuola ed un arrivederci al prossimo anno!
Postilla
Monica Porciani è l’impareggiabile organizzatrice che la Parchi della Val di Cornia s.p.a. ha messo a disposizione della scuola. Casa Gowett la foresteria dove erano ospitati i frequentanti della scuola (studenti e docenti), Villa Lanza la sede del Centro di documentazione dove si sono svolte le lezioni e le altre attività connesse