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LE PAROLE E I CONCETTI

La prima giornata, come è tradizione della scuola di eddyburg, è dedicata alle parole e ai concetti, illustrati nel contesto socio-economico, politico e culturale in cui si conformano.

Quest’anno abbiamo un duplice obiettivo. Da una parte fornire, come di consueto, strumenti critici per comprendere meglio gli avvenimenti e i fenomeni urbani e territoriali di questi ultimi decenni, che saranno affrontati nelle giornate successive della scuola, attraverso la critica del paradigma dello sviluppo così come si è conformato nella società di oggi. Dall’altra, introdurre un nuovo paradigma, quello dei beni comuni, come alternativa concettuale e politica, per trasformare la società e l’habitat dell’uomo in funzione del benessere materiale e immateriale degli abitanti di oggi e di quelli che devono venire, tendendo conto della limitatezza delle risorse naturali e della conoscenza umana, della diversità delle culture e della dignità che ognuna di queste possiede e della prevalenza dei valori di rispetto, uguaglianza e pace.

La giornata è aperta da un mio intervento sul concetto di sviluppo, che aprirà i lavori e fornirà la cornice ai temi approfonditi dai successivi docenti (vedi la scaletta di seguito). Concluderemo la giornata con una mia domanda ai docenti, la loro breve risposta e una ricapitolazione finale delle questioni trattate.

Il mio intervento introduttivo è diviso in tre parti. La prima illustrerà l’evoluzione del concetto di sviluppo, al fine di far comprendere sia l’arbitrarietà operata nell’assumere quella parola come sinonimo di progresso, civilizzazione, avanzamento e di attribuirle così positività a priori, che di mettere in evidenza come la parola sia stata un abile strumento di potere per orientare e plasmare la società in una determinata direzione. Si spiegherà come nuovi apporti teorici abbiano arricchito di nuove dimensioni il concetto per interpretare i processi di crescita, ma nello stesso tempo abbiano fornito indicazioni strategiche e discorsive per la formulazione di “politiche di sviluppo”: politiche che nella sostanza continuano a privilegiare le ragioni dell’accumulazione capitalistica su quelle dell’umanità nella sua totalità e diversità, perpetuando e accentuando relazioni di potere diseguali. Si argomenterà come l’allargamento del significato di sviluppo, che viene via via riconosciuto come dipendente da una fitta trama di relazioni (proprie del capitale sociale, umano e conoscitivo) abbia significato uno spostamento di approccio focalizzato sulle dimensioni locali, territoriali e sociali dei processi. E come questo passaggio abbia comportato sia l’appropriazione da parte delle forze dominanti di concetti importanti introdotti ‘dal basso’ o da forze contro egemoniche - come quello di partecipazione – sia l’adozione di aggettivi come sostenibile, che hanno contribuito alla ‘fortuna’ del termine sviluppo.

Nella seconda parte del mio intervento accennerò ad alcune trasformazioni, che possono essere lette come segni della ‘crisi’ di questo paradigma e, per estensione, della società che su questo si è conformata:

- la crisi ambientale;

- la crisi economica, mettendo in evidenza il ruolo centrale della rendita e dello sviluppo urbano e le ripercussioni negative di questa crisi sul habitat;

- la crisi del tessuto sociale, dalla ‘solitudine del cittadino globale’ alle rivolte di Londra;

- la crisi dell’organizzazione della società: dalla politica ai limiti della democrazia attuale, al rapporto distorto tra economia e politica e al conflitto tra diritti individuali e interessi collettivi;

- infine la crisi culturale, intesa sia come crisi del modello culturale basato sul positivismo, su cui anche il paradigma dello sviluppo si è strutturato, ma anche il passaggio dalla scienza alla tecnica, e la supremazia delle conoscenze scientifiche su altre conoscenze, modello che si presenta inadeguato a comprendere la realtà e ad illuminare il futuro.

La terza parte dell’intervento introdurrà il concetto di bene comune come categoria da porre a fondamento delle proposte riguardanti i diversi aspetti della società di cui deve tener conto una pianificazione della città e del territorio adeguata ai bisogni dell’uomo, alle reali condizioni del nostro pianeta e al patrimonio conoscitivo finora acquisito.

Gli interventi successivi costituiranno approfondimenti a questi temi, fornendo elementi di conoscenza e riflessione sulla situazione in atto e sull’inadeguatezza degli strumenti concettuali e operativi, ma anche introducendo nuovi approcci e proposte sia sul piano concettuale che operativo.

All’economista Giovanna Ricoveri si è chiesto di dare conto di alcuni aspetti essenziali della crisi economica e più generalmente della capacità distruttiva del sistema economico-sociale esistente. Sarà utile insistere sulla distinzione tra beni e merci prima di illustrare il concetto di “bene comune” ripercorrendone l’evoluzione, e spiegandone le sue diverse componenti e articolazioni, argomentando la tesi che la difesa e riconquista dei beni comuni è la risposta necessaria per avviare la costruzione di un sistema nuovo.

L’agronomo Nicola Dall’Olio approfondirà la questione ambientale, e in relazione ad alcune situazioni specifiche, illustrerà le drammatiche conseguenze della mercificazione di un rilevante bene comune (il territorio agricolo) sulle condizioni di vita e sulle stesse risorse essenziali per la specie umana.

Al giurista Ugo Mattei abbiamo chiesto di spiegare il ruolo della proprietà privata nel sistema economico basato sulle merci e di ragionare sulle implicazioni del concetto di bene comune nel campo del diritto e dell’assetto proprietario, e sulla necessità di arricchire la gamma delle forme della proprietà reintroducendo (accanto alla privata e alla pubblica) quella delle proprietà comune.

Il giornalista Loris Campetti introdurrà il tema, oggi centrale, del lavoro nel contesto delle ‘crisi’ sopracitate, particolarmente facendo riferimento alla crisi economica e quella sociale. Si vorrebbe ragionare su come la riduzione del lavoro, da strumento essenziale della società per la comprensione e il governo del mondo materiale e immateriale a merce, è sottoposto oggi a un processo di impoverimento ed emarginazione. Il passaggio dal paradigma dello “sviluppo” a quello del “bene comune” può essere invece l’occasione per restituirgli dignità e valore pienamente umano facendone lo strumento per affrontare alcune grandi esigenze sociali e territoriali.

Infine allo storico Piero Bevilacqua abbiamo chiesto di portare ulteriori riflessioni sulla questione ambientale e di ragionare sul ruolo della formazione, della conoscenza e dei saperi nella costruzione di un nuovo paradigma, sulle condizioni che l’applicazione che esso pone al sistema dei saperi, oggi caratterizzato dalla frammentazione e dalla subordinazione all’economia data.

PROGRAMMA

09,30 – 10,00 Mauro Baioni presenta la VII edizione della scuola

10.00 – 10.50 Ilaria Boniburini introduce le prima giornata

10,50 – 11.10 pausa caffè

11.10 – 12,00 intervento di Giovanna Ricoveri

12,00 – 12.50 intervento di Nicola Dall’Olio

12.50 – 13.15 Eventuali domande degli studenti sugli interventi di Boniburini, Ricoveri, dall’Olio

13.15 – 14.15 Pausa Pranzo

14.15 – 15.05 intervento di Ugo Mattei

15.05 – 15,55 intervento di Loris Campetti

15,55 – 16 45 intervento di Piero Bevilacqua

16,45 – 17.05 pausa caffè

17.05 – 17.40 eventuali domande degli studenti sugli interventi di Mattei, Campetti, Bevilacqua

17.40 – 18.30 repliche dei docenti e conclusioni di Ilaria Boniburini

prossimamente il programma della II e III giornata e quello della giornata conclusiva

Lungo la “linea rossa”. L'attenzione delle due giornate centrali si rivolge all’ideale “linea rossa” che segna il margine urbano, il luogo dove si manifestano in modo più evidente le contraddizioni e i conflitti relativi all'uso del territorio. Vogliamo esaminare da vicino due casi italiani - Milano e Firenze – selezionati perché rappresentativi dei problemi da affrontare, del grado di autorevolezza dei poteri pubblici, del ventaglio di politiche territoriali messe in campo, del contenuto e dell’efficacia di piani urbanistici e territoriali, del ruolo svolto da abitanti, terzo settore, soggetti economici. Due città governate in modo continuativo per oltre vent’anni dalle medesime maggioranze politiche, tra loro antitetiche. Possiamo, oggi, leggere criticamente quanto è successo non solo e non tanto a partire da astratti modelli di piano e di urbanistica contrapposti tra loro, quanto piuttosto dai caratteri - fisici, funzionali, sociali - delle parti di città investite dalle trasformazioni e dalle diverse opzioni, economiche e sociali, sottese alle decisioni.

Attorno a Milano. Milano è un esempio paradigmatico di "cattura del regolatore" da parte dei percettori di rendite e del "nuovo parastato". I primi, come noto, costituiscono il blocco dominante, in grado di condizionare le decisioni pubbliche sull'uso del territorio, piegandole alle proprie convenienze. Ma non va sottovalutato il peso dell'universo di società che si muove a cavallo tra il mondo pubblico e quello privato (concessionari e gestori delle reti, agenzie di servizi, ecc.), prendendo - ci si perdoni la semplificazione - il peggio di entrambi. Le distorsioni sull'uso e sull'assetto del territorio determinate da questo secondo blocco di soggetti sono altrettanto rilevanti, con l’ulteriore complicazione dovuta al fatto che - formalmente - essi agiscono in nome e per conto delle amministrazioni pubbliche.

Entrambe queste categorie di soggetti hanno dato impulso ad una congerie di progetti, promossi secondo logiche parziali difficilmente riconducibili a una qualsivoglia strategia territoriale complessiva (se non nelle vuote retoriche dello sviluppo), pesantemente condizionati dalle aspettative di valorizzazione immobiliare e da una ragnatela di interessi consociativi, non di rado illeciti. Affidiamo a Giuseppe Boatti il compito di spiegare perché il PGT di Milano, adottato dalla giunta Moratti, costituisce un micidale strumento per l'ulteriore moltiplicazione parossistica delle possibilità di valorizzazione immobiliare, e a Serena Righini il compito di descrivere presupposti e conseguenze della bulimia infrastrutturale milanese.

Attorno a Firenze. La Toscana è una regione opulenta, socialmente pacificata, soddisfatta di sé, stretta ai propri miti e di consolidata tradizione politica. Ed è, soprattutto, una regione nella quale si è sperimentata con successo, nei decenni passati, la possibile convivenza tra economia di mercato e protezioni dello stato sociale [riprendo le parole di Romano Viviani, decano degli urbanisti toscani recentemente scomparso]. La differente sensibilità e i cambiamenti intervenuti rendono evidenti, ai nostri occhi, i difetti delle scelte compiute nel passato relative all’industria, alla residenza e alle infrastrutture, facendo apparire particolarmente stridenti le realizzazioni tardive, e sollecitano le richieste di un cambiamento significativo, o quantomeno di un'effettiva evoluzione delle politiche per la città e il territorio. La debole propensione degli amministratori attuali ad agire in discontinuità con quanto fatto in precedenza, la scarsa coralità dell'azione pubblica e un sistema di leggi e piani a dir poco "barocco", accentuano il distacco tra le retoriche del discorso pubblico sulla città (incentrate sulla valorizzazione dei caratteri specifici dei luoghi, sull'attenzione all'ambiente, sul coinvolgimento della cittadinanza attiva) e i comportamenti concreti.

Il terreno dove si confrontano e si scontrano con maggior forza le visioni alternative è la piana fiorentina, un’area investita da una trasformazione tanto intensa quanto problematica. Che si tratti della rete infrastrutturale e delle aree produttive (come ci spiegherà Roberto Vezzosi) o dei brandelli di territorio rurale scampati, per ora, all’urbanizzazione (come ci spiegherà Lorenzo Venturini), le prospettive complessivamente delineate dai piani e dalle politiche pubbliche appaiono oggi ricche di contrasti. Conviene dunque esaminarle per capire compiere una salutare verifica dei limiti e delle contraddizioni possibili in seno all’azione pubblica.

Lontano dall’Italia. L'illustrazione dei casi italiani è affiancata da due comunicazioni rigurdanti alcune esperienze europee, potenzialmente virtuose. Vogliamo proseguire e idealmente concludere la trattazione di casi europei che negli anni passati ha riguardato il contenimento dello sprawl, la promozione dell’intercomunalità, la riqualificazione urbana e gli spazi pubblici, la realizzazione di insediamenti ad elevata vivibilità. Vogliamo sottolineare una volta di più l’importanza che rivestono oltre confine le politiche pubbliche per le città, non solo nel caso di governi particolarmente attenti alle questioni ambientali e sociali, ma persino nel caso di governi più sensibili alle sirene liberiste (seppure con una connotazione market-oriented). I casi illustrati dimostrano la possibilità di concepire strategie di lungo respiro, non ripiegate sulla composizione di interessi contingenti, di formalizzarle attraverso strumenti di piano prescrittivi, di indirizzo e di valutazione, e di promuoverne l’attuazione attraverso iniziative mirate, sui luoghi e con le persone.

Maria Cristina GIbelli partirà dal caso milanese (riprendendo le considerazioni sviluppate da Giuseppe Boatti, in particolare sull'utilizzo della perequazione urbanistica) per poi approfondire modelli di pianificazione all'opera (sia prescrittivi, sia condizionali) alternativi a quello lombardo, facendo cenno ad alcune esperienze significative: il programma VINEX, in Olanda, e lo SDAU della regione Ile de France. Francesca Blanc, dopo un inquadramento relativo alle leggi catalane e ai piani vigenti nell’area metropolitana di Barcellona, illustrerà nel dettaglio due esempi di gestione dello spazio periurbano: i parchi agrari del Baix Llobregat e de Gallecs, Mollet del Vallès.

Programma

SECONDA GIORNATA, 15 SETTEMBRE:

09.30 Mauro Baioni. Introduzione alle giornate centrali.

09.45 Giuseppe Boatti. EXPO, PGT di Milano e città della rendita.

10.30 discussione

11.15 pausa caffé

11.30 Serena Righini. Attorno a Milano. La conquista della cintura nera

12.15 discussione

13.00 pausa pranzo, al ristorante Canasta

14.30 M.C. Gibelli. Il limite urbano fra millantate innovazioni e pianificazione virtuosa

15.15 discussione

16.30 pausa gelato

17.00 Francesca Blanc. Barcellona.

17.45 discussione

18.30 fine giornata

TERZA GIORNATA, 15 SETTEMBRE

09.30 Mauro Baioni. Attorno a Firenze. Riflessioni a partire dal consumo di suolo

10.00 Roberto Vezzosi. Il primato apparente dell'urbanistica toscana.

10.45 discussione

11.30 pausa caffé

12.00 Lorenzo Venturini. Il parco della piana.

12.45 discussione

14.15 pausa pranzo

15.45 partenza da Villa Mussolini per la visita ai luoghi: Montefiore Conca e l’ex Ghigi a Morciano.

21.00 cena all’agriturismo I Muretti

23.30 rientro in albergo

Nella giornata conclusiva (introdotta da Edoardo Salzano), tireremo le fila delle riflessioni compiute non solo nelle due edizioni della scuola dedicate al tema “urbanistica ed economia”, ma nell’intero ciclo delle sette edizioni, il cui svolgimento è collegato da un filo rosso che oggi possiamo riconoscere. Ci soffermeremo in particolare sulla nuova domanda di pianificazione che emerge dalle tensioni della società civile riguardanti l’ambiente e la salute, l’equità e la possibilità di accesso ai beni comuni, la vivibilità della città e la difesa degli spazi pubblici, il riconoscimento del paesaggio come “eredità da preservare” e come “componente essenziale del contesto di vita”, la ricerca di nuovi stili di vita solidali.

La nostra tesi, che è emersa dal lavoro preparatorio e che lo svolgimento della scuola potrà confermare o smentire, è che emerga dalla società una nuova domanda di pianificazione: emerge cioè la sollecitazione a superare la frammentazione e la separatezza tra le iniziative di resistenza al saccheggio del bene comune territorio e a dara coerenza e sistematicità non solo all’azione di contrasto, ma anche – e forse soprattutto – a quella di proposta.

Una nuova domanda DI pianificazione, ma anche nuove domande ALLA pianificazione. Questa infatti deve essere qualificata. Anche la strategia di saccheggio, la strategia di creazione della “città della rendita” è una pianificazione. Occorre perciò precisare quale è la pianificazione necessaria se si vuole costruire invece la “città dei cittadini”.

Una risposta può venire solo se, uscendo dal guscio dei tecnicismi e dei linguaggi per addetti ai lavori, riusciamo a comprendere e a comunicare quali siano i connotati della nuova città, alternativa rispetto a quella che abbiamo finora cercato di comprendere, denunciare e contrastare, quali siano gli attori che devono partecipare alla sua costruzione e gestione. Ci proponiamo in quella conclusiva di individuare, se non le caratteristiche di un nuovo progetto di città, almeno i principi ai quali la ricerca deve essere orientata. Li troveremo sia nel bagaglio della migliore cultura urbanistica e delle esperienze recenti che ad essa si ispirano, sia nei tentativi che emergono da sponde appartenenti ad altri saperi, esperienze, storie, che condividono con noi una visione della città come sintesi di spazi fisici, società e governo: urbs, civitas, polis.

Al termine dell’intervento introduttivo si aprirà la discussione con un gruppo di amici e collaboratori di eddyburg (tra i quali Giovanni Caudo, Vezio De Lucia, Chiara Sebastiani, Walter Tocci), e con i docenti e studenti della scuola che vorranno intervenire.

A conclusione della giornata ci proponiamo infine di scambiare qualche idea con chi sarà rimasto per proporre nuove modalità di organizzazione e svolgimento delle attività di eddyburg.

Programma

09,30 Intervento introduttivo di Edoardo Salzano

10,30 Interventi di Giovanni Caudo, Vezio De Lucia, Chiara Sebastiani, Walter Tocci

11,30 pausa caffè

12,00 Interventi dei docenti e degli studenti

13,30 Conclusioni del dibattito, e idee per il futuro della scuola

14,00 buffet sul prato del Castello

Quest'anno Mauro e Ilaria hanno scelto, come gadget per gli studenti e docenti, una maglietta con il logo della scuola. Paula De Jesus ha fotografato chi è pazientemente rimasto fino alla fine. Qui sotto potete scaricare un file .pdf nel quale vedete le immagini un po' meglio che nel web. In fondo anche la maglietta a distanza ravvicinata, con un modello (senza testa) raccattato il giorno dopo.

Intanto Giorgia Boca sta raccogliendo le foto per inserirle in picasa, il cui indirizzo sarà comunicato a chi è indirizzato. E Paula sta preparando un filmato.

Premessa. La crisi

Non è più solo dalla sponda più radicale che si parla della situazione attuale come di una crisi DEL sistema, e non di una crisi NEL sistema. Sebbene il sistema capitalistico abbia conosciuto altre crisi e ne sia sempre uscito (è stato paragonato a Proteo, il dio marino che continuamente sfugge agli importuni trasformandosi), ci sembra che la crisi attuale abbia alcuni connotati particolari:

- il sistema sopravvive solo bruciando risorse ormai vicine all’esaurimento, da quelle ambientali a quelle umane;

- le sue contraddizioni non sono esportabili all’esterno del suo core (la società nord-atlantica), ma colpiscono il suo stesso bacino sociale;

- le misure adottate dai governanti attuali sono tali da aggravare la crisi anziché mitigarne gli effetti.

A noi questa crisi non c’interesse solo in quanto cittadini (dell’Italia, dell’Europa e del mondo), ma anche per le fortissime connessioni che ha con il territorio: con l’habitat dell’uomo, che è il nostro riferimento culturale e pratico. Così come è in riferimento al territorio e alle sue trasformazioni che ci hanno interessato gli altri temi che abbiamo discusso nelle sette edizioni della scuola, che Mauro Baioni ha riepilogato nel suo di apertura di questa edizione.

Il nostro riferimento è il territorio: l’habitat dell’uomo

Credo che sia utile precisare che cosa intendiamo per città e per territorio. Noi consideriamo la città – una delle più significative invenzioni della storia dell’uomo – l’habitat che l’uomo si è costruito nel corso di millenni di storia. L’habitat dell’uomo, anzi – e la precisazione è importante – della società. La “città è la casa della società”, ho insegnato per un paio di decenni ai miei studenti.

É un habitat del quale individuiamo un triplice aspetto, cui alludono le tre parole connesse alla sua definizione: urbs, civitas, polis. La città come insieme di spazi fisici organizzati. La citta come società che ha costruito la sua “casa”. La città come governo sociale delle sue trasformazioni fisiche e funzionali.

Nei secoli a noi più vicini questo habitat ha cambiato configurazione. Città e campagna erano stati fino ad allora due realtà separate, quasi contrapposte. Con la rivoluzione borghese e l’affermazione del sistema capitalistico la configurazione è cambiata. Le esigenze he la città soddisfaceva, le sue funzioni, hanno interessato parti via via più consistenti della superficie del pianeta. Per varie ragioni e con vari strumenti le caratteristiche della vita urbana si sono estese via via all’intero territorio. E oggi possiamo dire che è l’intero territorio che è divenuto “la casa della società”.

Naturalmente questo non è l’unico modo in cui si può vedere il territorio, non è l’unico punto di vista necessario. Ma direi che è quello proprio a chi si occupa di urbanistica.

Sette edizioni della scuola di eddyburg

Nella sua introduzione alla VII edizione della scuola Mauro Baioni ne ha ricordato le intenzioni, i temi e lo svolgimento. É stata una ricapitolazione utilissima, anche perché per noi la storia (anche quella minima delle nostre vicende) è sempre il punto di partenza per vivere consapevolmente il presente e guardare il futuro. E per il nostro lavoro questo è vero soprattutto oggi, dato che questa è l’ultima edizione della Scuola di eddyburg così come l’avete conosciuta: è troppo impegnative e costosa per quei pochi che ci lavorano perché si possa continuare così. Dovremo cambiare formato – ma di questo parleremo più avanti.

Non posso però mancare di ringraziare, a nome di voi tutti, i due cirenei di questa vicenda: Mauro Baioni e Ilaria Boniburini, che con il loro lavoro, sacrificando molto della loro vita privata e di quella professionale, hanno consentito di condurre questa esperienza sforzandosi continuamente di migliorare la qualità del servizio che la scuola rende ai suoi utenti e di contenerne i prezzi.

Insieme a loro, devo ringraziare i numerosi docenti che ci hanno aiutato nell’ambito delle loro competenze, rinunciando a ogni compenso e donandoci il tempo prezioso dei loro saperi.

Infine, a nome di tutti quelli che hanno lavorato per produrre le 7 edizioni della scuola di eddyburg, vorrei ringraziare gli studenti che con il loro interesse, i loro interventi, i loro multiformi apporti hanno arricchito ciascuno di noi.

Dall’analisi alla proposta

Tutto il percorso settennale della scuola ci ha fatto lavorare nel campo della condizione attuale della città, svelando le caratteristiche di fondo di quella che abbiamo definito “la città del neoliberismo”. É questa città che costituisce oggi il problema, il nostro problema. E oggi vogliamo guardarla secondo un approccio polarizzato non tanto sul comprendere che cosa essa è per denunciarlo, ma sul ragionare come, su quali basi, è possibile costruire un’alternativa alla “città della rendita”: costruire una “città dei cittadini”, un habitat per gli abitanti del mondo di oggi e di domani.

Come urbanisti ci siamo posti una domanda che mi sembra cruciale. Sono trent’anni almeno che il neoliberismo è diventato l’ideologia dominante e ispira le politiche economiche, sociali e urbane in tutto il mondo. Sono vent’anni almeno che in Italia, dopo aver dileggiato l’”urbanistica autoritativa”, la si è sostituita con le pratiche dell’”urbanistica contrattata”.

Sono trascorsi insomma alcuni decenni da quando si è abbandonata la pianificazione pubblica, esercitata in funzione dell’interesse generale, sostituendola con modalità inventate in nome della liberalizzazione, della privatizzazione, dell’aziendalizzazione dei processi di decisione e attuazione delle trasformazioni del territorio.

Sono trascorsi alcuni decenni, eppure il disagio delle cittadine e dei cittadini è aumentato, i problemi nodali (la casa, i trasporti, l’ambiente e la salute, l’equità) sono diventati via via più gravi. E accanto a questo, mentre si intravede un fiume di ricchezza scorrere nei canali degli interessi privati leciti e illeciti, si scoprono deficit impensabili nelle risorse da destinare alle esigenze collettive.

Un nuovo paradigma

Il nostro campo di lavoro (il territorio) ci è sembrato rappresentare con rara efficacia i danni provocati dal neoliberismo all’insieme delle condizioni di vita e alle prospettive della società planetaria. Occorreva analizzarlo ancora meglio, poiché solo da un’analisi corretta (che non si fermi alla denuncia, ma sappia individuare ed esplorare le cause profonde) può nascere un insieme efficace di proposte.

Il lavoro che abbiamo compiuto in questi mesi è stato quello di comprendere meglio qual è il paradigma, qual è l’insieme di valori, principi, regole, interessi, condizioni che determina la configurazione attuale della città. Era ed è – lo abbiamo compreso ancora meglio in questa giornate – il paradigma della crescita indefinita della produzione di merci indipendentemente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società, il paradigma che ha assunto come parametro di valutazione dominante lo “sviluppo”, in quel suo significato schiacciato sulla dimensione economica, propria a questa particolare economia nella quale viviamo.

Mi riferisco spesso alla “economia data”, per alludere al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile. A mio parere è un’economia che va radicalmente trasformata, come molte altre cose ad essa legata. Ma è quella nel cui ambito viviamo, e che dobbiamo conoscere nelle sue caratteristiche, conseguenze, mutazioni. Se almeno vogliamo comprendere ciò che accade e in che modo possiamo agire per comprendere il mondo e contribuire a trasformarlo.

Questa economia (l’economia del capitale) ha avuto una profonda mutazione negli ultimi decenni. Noi abbiamo cominciato a registrarne gli effetti nella seconda edizione della scuola, quando Giovanni Caudo ci parlò delle trasformazioni sottese alla questione della casa. Se ascoltiamo le analisi più acute del capitalismo di oggi (mi riferisco ad esempio a quella di Luciano Gallino, riassunta nel suo Finanzcapitalismo) scopriamo siamo passati a una finalizzazione dell’economia ancora più devastante per l’uomo di quanto quel sistema non fosse già nelle sue precedenti mutazioni. Dopo la fase che possiamo sintetizzare nella riduzione dei “beni” a “merci”, siamo passati dall’assunzione delle ricchezza monetaria come unica finalità dello “sviluppo”. Il ciclo dell’economia non è più Merce1>Danaro>Merce2, (dove Merce2 è maggiore di Merce1 e Danaro è l’intermediario), ma Danaro1>Danaro2, dove la ricchezza e il potere dei più ricchi e potenti è l’unica finalità dell’economia, dunque della politica, dunque della società.

In altri termini, il meccanismo economico che governa le nostre vite non ha più, come centro del suo ciclo, la produzione industriale di oggetti e servizi utili, o resi utili mediante i meccanismi dell’induzione del consumo. Il danaro non è più l’intermediario per la trasformazione delle merci in un nuovo insieme di merci vendibili a un prezzo più alto di quello delle merci acquistate, ma è la finalità dell’esercizio del potere economico. Poiché attraverso la finanza si è scoperto, e largamente praticato il sistema di trasformare il denaro in più-danaro semplicemente attraverso due strumenti: il saccheggio delle risorse disponibili (dai beni comuni a tutto ciò che è trasformabile in merce), e l’incremento forzoso dell’indebitamento delle famiglie e degli stati.

L’urbanistica finanziarizzata

Nell’ambito in questa mutazione del sistema capitalistico anche il modo di sfruttare il territorio è modificato.

Una volta il territorio era adoperato per le utilizzazioni agro-silvo-pastorali e per quelle urbane. Poi è stato adoperato per queste, cui si è aggiunta la produzione di incrementi della rendita fondiaria (poi immobiliare). Poi è diventata centrale la produzione di incrementi della rendita immobiliare derivante dalla urbanizzazione e costruzione di edifici: è la fase nella quale i poteri dominanti hanno avuto come loro strumento l’ urbanistica contrattata.

Oggi siamo passati a una fase ulteriore. Il suolo è diventato portatore di qualcosa – chiamiamoli “crediti edificatori” – che è qualcosa di simile a un titolo di credito: un certificato corrispondente a un valore commerciabile. Non importa se su quel terreno verrà realmente edificato quell’edificio cui il titolo allude: intanto ha un valore di scambio corrispondente alle rendita percepibile dall’utilizzazione edilizia di quel suolo. Ti dicono che crescerà di valore. Tu aspetti che aumenti e lo rivendi. Il nuovo acquirente aspetterà un po’ anche lui, e lo rivende a sua volta. Finchè il valore della rendita sale.

Se si guarda agli incrementi di valore delle aree negli ultimi si scopre l’entità degli affari che sono stati fatti. Il mercato dei “crediti edificatori” è più attivo che mai. Richiama Investimenti da canali spesso oscuri. L’utilizzazione edilizia non è negli obiettivi concreti degli utilizzatori odierni dei “crediti edilizi”, ma lo diventerà quando si sarà giunti all’utilizzatore finale, quando la bolla sarà esplosa.

La settima edizione della scuola

Sulla base del lavoro svolto, l’obiettivo che ci siamo proposti nella VII edizione della scuola (nella sua preparazione e nel suo svolgimento) è stato in primo luogo quello di individuare un paradigma alternativo, capace di costituire l’insieme di riferimenti sulla cui base definire il progetto di una nuova città. Lo abbiamo individuato nel paradigma dei beni comuni, come alternativa concettuale e politica a quello, oggi dominante, della crescita indefinita e dello “sviluppo”, e come parola d’ordine potenzialmente egemonica «per trasformare la società e l’habitat dell’uomo in funzione del benessere materiale e immateriale degli abitanti di oggi e di quelli che devono venire, tendendo conto della limitatezza delle risorse naturali e della conoscenza umana, della diversità delle culture e della dignità che ognuna di queste possiede e della prevalenza dei valori di rispetto, uguaglianza e pace».

A questo tema questo è stata dedicata la prima giornata, in cui Ilaria Boniburini ha introdotto e coordinato gli apporti di studiosi di varie discipline, che hanno gettato sul campo del territorio fasci di luce provenienti da altre sorgenti.

Nella seconda e nella terza giornata Mauro Baioni ha esaaminato, con la collaborazioni di altri amici vecchi e nuovi della scuola di eddyburg, alcune esperienze concrete per verificare quali problemi, esigenze, soluzioni possibili nascano nella realtà e possano fornire indicazioni per il futuro.

Punti fermi

Sulla base del lavoro svolto nelle prime tre giornate della scuola credo che possiamo convenire su alcuni punti fermi, che riassumo molto sinteticamente:

- la crisi che attraversiamo è davvero profonda, non se ne esce con i pannicelli caldi, essa investe pienamente la città quale la intendiamo (l’habitat dell’uomo, la sintesi tra spazi, società e politica) in tutte le sue dimensioni: dall’organizzazione complessiva della società e della città, ai modi di pensare e di vivere;

- la crisi è il prodotto del dominio di un paradigma (quello della crescita indefinita e di uno “sviluppo” ridotto all’accumulazione di danaro e di potere), ormai divenuto mortifero;

- uscire durevolmente dalla crisi comporta la laboriosa costruzione dell’egemonia di un nuovo paradigma, che possiamo riconoscere in quello del “bene comune” e – per quanto riguarda il nostro specifico campo – del “diritto alla città” e della “città come bene comune”.

Possiamo anche affermare che la crisi ha accentuato un disagio umano e sociale che già esisteva, che è generato dalle pratiche trentennali del neoliberismo, e che ha provocato migliaia di episodi di resistenza e di contrasto ancora frammentati e dispersi, ma estesi in moltissime parti del mondo, anche in quelle che sono state storicamente privilegiate dal paradigma della crescita. E che dalla presa di coscienza di tale disagio si può partire per un futuro migliore.

Di quale “pianificazione” parliamo

Affermare, come fatto poc’anzi, che l’abbandono della pianificazione territoriale e urbanistica come l’abbiamo conosciuta ha generato mostri non significa necessariamente affermate che quella pianificazione sia oggi sufficiente, né tanto meno che ogni pianificazione sia idonea a realizzare la “città dei cittadini”.

In termini abbastanza neutrali possiamo dire che la pianificazione territoriale ed urbanistica è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

In funzione di determinati obiettivi: qui è il nodo della questione. Poiché gli obiettivi sociali della pianificazione sono mutevoli nel tempo, e lo sono stati nella storia che è alle nostre spalle.

La pianificazione urbanistica moderna è nata per mettere ordine nelle città e per regolare, secondo un disegno unitario, la loro espansione e trasformazione. è nata, agli albori del XIX secolo, per affrontare problemi che la somma delle decisioni individuali non poteva risolvere. è nata per costituire un contrappeso all’invadenza dell’individualismo e correggerne taluni effetti. Fin dall’inizio del suo percorso, essa è stata finalizzata al raggiungimento di obiettivi d’interesse generale: naturalmente, d’interesse generale dei gruppi sociali, delle “classi”, che governavano la città o ne influenzavano il governo.

All’inizio della vicenda della pianificazione la società ha chiesto ai suoi tecnici di risolvere tre problemi: rendere più efficiente il funzionamento cinematica della macchina urbana, migliorare le condizioni igieniche, e regolare i valori immobiliari in modo da dare certezza di lucro agli investimenti patrimoniali. Questi obiettivi erano perseguiti in modi differenziati nelle diverse parti della città, con una vera “zonizzazione sociale”: qui i ricchi e i potenti, là i benestanti, altrove gli operai e l’”esercito di riserva”.

I risultati delle lotte sociali e i margini di ricchezza consentiti dallo sfruttamento (in patria e nelle colonie) condussero al manifestarsi di altri obiettivi. Diventarono obiettivi della pianificazione i diversi elementi del welfare state: l’edilizia civile a basso costo, le attrezzature sociali e sportive, quelle assistenziali e scolastiche, i collegamenti efficienti casa-lavoro.

In questo quadro in Italia, riprendendo nel secondo dopoguerra alcuni dei germi gettati nel primi decenni del secolo XX e sviluppandone altri, si giunse a porre al centro della pianificazione urbana le grandi questioni del diritto alla casa come servizio sociale e delle adeguate dotazioni di aree da destinare a spazi e attrezzature pubbliche, gli standard urbanistici.

Negli anni a noi più vicini si è manifestato, come nuovo obiettivo sociale, quello della tutela del territorio nelle sue caratteristiche fisiche e culturali e nei suoi equilibri ecologici. Ciò ha dato luogo a un accentuato interesse sia al funzionamento della città sia, e soprattutto, alle condizioni dei territori extraurbani.

Io credo che è da qui che occorre ripartire: dagli obiettivi del welfare state e dell’ambientalismo. Per interrogarsi poi su quali siano gli ulteriori obiettivi che, integrando o modificando quelli della nostra tradizione, possano qualificare oggi e domani una pianificazione adeguata al compito di costruire la città del bene comune.

Alla nostra ulteriore riflessione devo allora porre allora alcune domande, sulle quali avanzerò risposte che sono del tutto personali ed esplorative, e che vogliono stimolare a un dibattito che proseguirà oggi e in futuro, in ulteriori iniziative di eddyburg e della sua scuola.

1a domanda.

Possiamo affermare che sta emergendo

una nuova domanda di pianificazione?

Mi domando e vi domando (la mia risposta è abbastanza ottimistica) se possiamo affermare che in strati sempre più vasti della “società critica” si sta comprendendo che non ci si oppone ai mille episodi di sfruttamento, deterioramento, degradazione, distruzione delle diverse componenti del “bene comune città”, se non si riesce

- a definire un progetto alternativo,

- a individuare attori, metodi e strumenti che siano capaci di realizzarlo tenendo conto del carattere olistico del territorio.

Mi domando ancora se si sta comprendendo anche che il dispositivo necessario per progettare e realizzare la “città dei cittadini” deve essere necessariamente manovrato da un potere che sia democratico nel senso di esprimere la priorità dell’interesse generale su quello dei singoli interessi coinvolti, di esprimere la volontà e le esigenze della stragrande maggioranza della popolazione attuale e futura del pianeta e non quelle dei portatori d’interessi specifici e parziali.

Mi domando infine se la cultura urbanistica (cui indubbiamente va il merito di aver “inventato” la pianificazione come strumento olistico dell’interesse generale) abbia fatto tutto il lavoro necessario per far comprendere:

- a che cosa la pianificazione possa e debba servire,

- in che modo si riconosca quali siano i gruppi sociali premiati e quelli penalizzati dalle scelte

- quali siano i reali avversari di una pianificazione nell’interesse comune e come vadano combattuti.

2a domanda.

Possiamo affermare che sta nascendo

un nuovo progetto di città

alternativo rispetto alla “città della rendita”?

A me sembra che, sebbene non siano ancora chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, comincino forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione, le esigenze che l’habitat dell’uomo deve assicurare.

Sforzi significativi (naturalmente suscettibili di valutazioni critiche ma condivisibili nelle linee di tendenza che indicano) sono rinvenibili in altri territori culturali (come quello del movimento di “Decrescita”) o in esperienze disciplinarmente più vicine a noi (come la scuola territorialista). Esigenze ed esperienze interessanti sono anche quelle emerse nelle due ultime giornate di questa scuola.

Per contribuire a una loro definizione esporrò una mia ipotesi, riassumendoli in 5 questioni: il rapporto città-campagna, gli spazi per la collettività, l’abitazione, l’equità, la partecipazione.

Il rapporto città-campagna.

Le rivendicazioni che nascono dalla società civile costituiscono una critica al modo in cui si è trasformato il rapporto tra città e campagna, tra territorio urbano e territorio rurale, e una pressante richiesta di ricostituire un equilibrio (meglio, di costituire un nuovo equilibrio) tra i due termini.

Il modello di città la cui domanda nasce da quella critica deve consentire la vicinanza, alle varie scale (di paese e quartiere, di città, di area vasta, di regione…), tra l’urbanizzato (=prevalentemente artificializzato) e il rurale (=prevalentemente naturale).

Deve consentire un’alimentazione sana e una filiera corta tra la produzione e il consumo, aria pulita, luce e sole, libera fruizione di spazi di ricreazione e distensione, di bellezza, di storia, d’identità.

Ma è la stessa quantificazione e localizzazione delle eventuali nuove aree da urbanizzare che deve tener conto di un corretto rapporto con la natura.

Se la terra non è solo l’habitat dell’uomo di oggi ma anche di quello di domani e di dopodomani; se la terra ha, come sua funzione essenziale, quella di garantire un’alimentazione sana degli abitanti del pianeta, allora la terra libera, integrata nel ciclo biologico del pianeta, è di per sé un valore.

Sacrificarne una porzione è una perdita per la qualità complessiva della vita dell’umanità. Quindi ciò va evitato per quanto possibile (ove non lo sia in vista di altri e superiori valori) e va compensato con equivalenti restituzioni di naturalità.

Ridurre il consumo di suolo non significa quindi soltanto organizzare meglio le nuove espansioni sul territorio. Significa innanzitutto misurare rigorosamente quali siano le eventuale nuovi espansioni del suolo già sottratto al ciclo biologico che sono necessarie per fini non soddisfacibili altrimenti.

E’ certamente un portato dell’urbanistica del neoliberismo, dell’urbanistica contrattata e poi dell’urbanistica finanziarizzata, il fatto che dai corsi di progettazione urbanistica sia scomparso l’argomento del “calcolo del fabbisogno”, magari sostituito da corsi di perequazione

La città pubblica.

Gli spazi, i servizi e le funzioni comuni attorno ai quali è nata e si è organizzata la città nella storia hanno ricevuto, nei decenni dell’affermazione del welfare state, un consistente accrescimento qualitativo e quantitativo. Ai luoghi classici della città premoderna si sono aggiunti quelli destinati alle esigenze della salute, dello sport e della ricreazione, della cultura, realizzati per una cittadinanza sempre più vasta e sempre più cosciente dei propri diritti.

É cresciuta insomma la consapevolezza della necessità di una vasto e articolato insieme di spazi, servizi, attrezzature, indispensabili integrazioni della vita che si svolge nell’ambito dell’alloggio (e del luogo di lavoro).

Nella “città della rendita” stiamo vivendo la riduzione degli spazi pubblici, la loro privatizzazione, la risposta con servizi privati (a pagamento) di esigenze che nella città del welfare erano soddisfatte con servizi pubblici: dalla salute alla scuola, dallo sport all’assistenza.

É anche dal disagio provocato dalla perdita di una dotazione urbana sentita come un bene essenziale, che nasce la domanda di una più ricca presenza di attrezzature e servizi, spazi e reti, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli. E alle esigenze del passato nuove esigenze si aggiungono, completandole e integrandole: che le dotazioni comuni e pubbliche non solo siano funzionali alle esigenze che devono soddisfare, ma posseggano almeno tre ulteriori requisiti: che siano risparmiatrici d’energia e di altre risorse naturali e non peggiorino la qualità di quelle impiegate; che siano dotate di una riconoscibile bellezza, ottenuta come risultato dell’insieme e non dal singolo oggetto; che siano utilizzabili da tutti, senza discriminazioni tra ricchi e poveri, giovani e anziani e bambini, uomini e donne, cittadini e forestieri. Che siano, insomma, ecologiche, belle, eque.

L’abitazione.

Nell’ambito della “citta pubblica” un ruolo particolare ha svolto l’abitazione: perché la forma, e lo stesso funzionamento, degli spazi pubblici sono definiti dal modo in cui gli edifici destinati alla residenza sono organizzati sul territorio; perché, da quando la polis ha applicato una dose di giustizia sociale nell’amministrazione urbana, il “pubblico” si è fatto carico di fornire un alloggio a chi non aveva i mezzi per ricorrere al mercato .

Nei tempi più vicini, soprattutto in Italia, l’abnorme lievitazione della rendita urbana ha reso i prezzi delle abitazioni incompatibili con i redditi di un numero crescente di famiglie. Ecco allora che è rinata in questi anni una vertenza che aveva divampato negli anni 60: quella della “casa come servizio sociale”. Con questo slogan non si chiedeva allora, e non si chiede oggi, che l’uso degli alloggi sia garantito a tutti come lo è un servizio pubblico, come ad esempio il servizio sanitario o quello scolastico, ma che il prezzo per l’uso delle abitazioni sia regolato da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Oggi la questione della residenza si pone sotto un quadruplice aspetto: quelli del costo, della localizzazione, della tipologia d’uso, dell’espulsione. É vasta la consapevolezza (almeno nella “società critica” della necessità: di ridurre fortemente l’incidenza della rendita urbana sul costo complessivo dell’alloggio; di realizzare alloggi solo là dove esiste una domanda reale non soddisfacibile utilizzando il patrimonio edilizio esistente; di localizzarli solo là dove un efficiente sistema di servizi pubblici può collegare la residenza alle altre funzioni della vita quotidiana; di offrire un ampio stock di alloggi in affitto; di ostacolare gli interventi di “riqualificazione” che comportino modifiche nelle condizioni economiche d’accesso.

Una città equa.

Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.

Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.

Questo obiettivo non è mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni.

Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più. Forse è per questo che i conflitti che nascono nella società per la realizzazione di un assetto migliore, più vivibile e amichevole del territorio, sembrano intrecciarsi strettamente quelli che si pongono in modo esplicito l’obiettivo di una migliore equità

La partecipazione.

Il “diritto alla città”è uno slogan e un’esigenza storicamente legato alla stagione del 1968, oggi è riemerso nei movimenti urbani, in Italia come negli altri paesi. In un contesto per molti aspetti diverso.

Ma già nell’impostazione di Lucien Lefebvre è un diritto che si concreta in due aspetti: 1) il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare (a partire dalla possibilità di incontro e di scambio, di utilizzare le dotazioni comuni, di abitare e muoversi destinando a queste funzioni risorse commisurate ai redditi), ed è di questo aspetto ci siamo finora riferiti; e 2) il diritto a partecipare al governo della città, ad esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.

Non contesto della città di oggi questo secondo aspetto del diritto alla città esso assume una valenza diversa. Si accompagna – nella percezione della “società critica – alla consapevolezza del fallimento della politica dei partiti e delle istituzioni nel loro ruolo di interpreti della società nel suo insieme, e del suo appiattimento a mero strumento del potere del finanzcapitalismo.

Come ormai chi frequenta la scuola da qualche tempo sa bene, e come Ilaria ha ricordato all’inizio di queste giornate, le parole della contestazione vengono catturate da chi della contestazione è oggetto: vengono interpretate in un significato capovolto o travisato, e così restituite al popolo perché tutto sembri cambiato mentre tutto è rimasto come prima. Anche “partecipazione” è una parola da adoperare con attenzione: una parola da qualificare, come del resto moltissime altre.

Ciò che voglio sottolineare è che la possibilità di costruire una “città dei cittadini” è fondata sulla possibilità di coinvolgere la cittadinanza attiva (ma tendenzialmente tutti gli abitanti) a partecipare al governo della città fin dai primo momenti della sua progettazione, ad esprimere le esigenze ed esprimersi sulle scelte, per orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.

Questa esigenza pone problemi complessi. Due mi sembrano particolarmente rilevanti: la capacità delle persone di scegliere tra alternative diverse, la capacità di pensare e agire (quindi partecipare) alle diverse scale alle quali i problemi del territorio si pongono.

La prima. Il “cittadino governante” (per richiamare il nome di una bella esperienza dei cittadini del comune di Giulianova) deve comprendere che c’è un conflitto tra l’avere l’automobile sotto casa e vivere in un quartiere sano e bello; deve comprendere che, nella distribuzione delle risorse comunali, le sue esigenze come maschio adulto e dotato di un reddito adeguato sono diverse da quelle della donna o del bambino o dell’anziano o del povero, ma che fra tutte bisogna stabilire delle priorità. E deve saper scegliere.

La seconda. Mille ragioni militano a favore del “locale” come punto di partenza di un’azione di rinnovamento profondo della città e della società. Ma sarebbe assolutamente da perdenti chiudersi nel localismo. I fenomeni che accadono nell’habitat dell’uomo rispondono ad azioni e a poteri che si sviluppano a scale diverse, e la democrazia – la nuova democrazia – deve saper pensare agire, partecipare, a tutte le scale

3a domanda.

Quali attori e quali risorse

per costruire la “città dei cittadini”?

Se vogliamo contribuire a modificare la realtà che non ci piace, è certamente necessario tracciare immaginari, scenari, visioni, definire principi e indirizzi, disegnare o raccontare progetti. É necessario, ma non è sufficiente. Costruire un habitat dell’uomo adeguato alle necessità e alle esigenze di oggi richiede attori e risorse. Su che cosa possiamo contare, oggi che gli attori tradizionali (i partiti, le istituzioni, la stessa società) sembrano ingoiati dal ventre possente dell’ideologia e dalla prassi del neoliberismo?

Discorso arduo, reso ancora più arduo per noi dal fatto che è radicalmente mutato il rapporto, essenziale per la pianificazione anche su questo terreno, tra pubblico e privato. Il “pubblico”, una volta sperata espressione dell’interesse generale, è stato colonizzato dal “privato”, di cui è divenuto strumento. Testimonianze sempre più ricche ne troviamo guardando alla realtà (come abbiamo fatto nell’analizzare le vicende dell’area milanese e di quella fiorentina).

Sempre più vasto appare il ruolo di quello che una volta si chiamava “parastato”, una volta costituito dalle appendici ed emanazioni del potere pubblico, Oggi il “parastato” è rappresentato da una miriade di strutture pagate dal “pubblico”, che decidono per conto del “pubblico”, e che esprimono interessi non solo criticabili perché settoriali, ma perché sono ormai divenuti espliciti strumenti degli interessi privati. I loro principali campi d’azione sono le infrastrutture, gli appalti pubblici, le operazioni immobiliari. Uno degli strumenti più efficacemente perversi è quello del “commissario straordinario”, che eddyburg ha puntualmente denunciato in tutte le occasioni in cui questa fattispecie si è manifestata: dal dopoterremoto all’Aquila allo scandalo del Lido di Venezia.

Quali attori

Anche a proposito di questa domanda espongo qualche idea da discutere. Ma soprattutto qualche problema sul quale è necessario riflettere e discutere.

Primo problema relativo agli attori. Rilevante è certo il ruolo del “terzo settore”, quello che da qualche decennio si colloca tra le due dimensioni (e poteri) dello Stato e del Mercato. É lo spazio sociale nel quale si colloca quell’insieme di forze disperse che ho definito “società critica”. Ma nel Terzo settore non ci sono solo i comitati e le reti: ci sono anche i cavalli di Troia del Mercato, e i raccomandati dello Stato.

Secondo problema. Restando nell’ambito della “società critica”. É noto il dibattito sulla necessità e sulla difficoltà di superare la dispersione e frammentazione dei gruppi e delle iniziative, e di far emergere una realtà pienamente politica, capace di strutturarsi e agire con continuità a tutti i livelli necessari. Problema aperto, quanti altri mai.

Terzo problema. In che modo è possibile riconquistare il terreno delle istituzioni – a partire da quelle del potere locale, ma aspirando ad una dimensione più vasta. Secondo me è un passaggio necessario per riacquistare la capacità di avere una visione (e uno strumentario) multiscalare, entrambi indispensabili per contrastare efficacemente quelli del neoliberalismo.

La debolezza delle reazioni critiche suscitate dalla decisione di abolire sic et simpliciter le province senza aver prima costruito una sufficiente proposta per la dimensione territoriale dell’area vasta è indicativo dei ritardi, delle incomprensioni (e dell’ignoranza diffusa) sulle questioni concrete del governo del territorio.

Le risorse

Anche per riconquistare le istituzioni una questione decisiva è: quali risorse? La città pubblica, componente essenziale della “città dei cittadini”, costa. É necessario molto lavoro per costruirla, e forse ancora di più – nel nostro disgraziato paese – per partire dalla trasformazione della città esistente. E il lavoro va retribuito. Dove prendere le risorse necessarie, in primo luogo per liberare i comuni tendenzialmente virtuosi dal ricatto “o ci aiuti a fare affari o crepi”.

Su questo terreno ci sono molte risposte, la maggior parte delle quali ragionevoli e percorribili da una volontà poliitica finalizzata al bene comune. Mi limito a elencare i temi, le voci delle entrate di un possibile bilancio virtuoso.

In primo luogo, le spese per la guerra. Le proposte del governo italiano (e degli altri paesi nordatlantici) alla crisi avrebbero richiesto un forte rilancio della tensione del pacifismo. La partecipazione anticostituzionali dell’Italia alle guerre in corso nel mondo non genera benefici e determina spese colossali. Abbiamo registrato subito, su eddyburg, la proposta di Alex Zanotelli e chiesto l’intervento di Carla Ravaioli, storica sostenitrice della necessità del disarmo proprio per ragioni di riduzione del danno ambientale e di recupero di risorse impiegabili per una società migliore.

Seconda voce, il risparmio delle risorse impiegate male per iniziative pubbliche (a tutti i livelli) non prioritarie, oppure inutili e dannose, oppure affaristiche, oppure addirittura ruffaldine. Paolo Berdini ne ha fatto un sommario elenco sul manifesto di domenica scorsa (lo trovate anche su eddyburg). Quante spese inutili genera l’ideologia della “competizione tre città”, e quante la pratica degli appalti all’italiana, ivi compresa la “finanza di progetto”?

Terza voce, l’acquisizione degli incrementi delle rendite immobiliari derivanti da scelte e investimenti pubblici. La rendita immobiliare non si può eliminare dal calcolo economico, ma si può certamente sia ridurne l’incidenza (Vezio De Lucia lo ricorda spesso) sia spostarne i benefici dal privato al pubblico. Nella discussione sulla crisi è stata avanzata da più parti la proposta di una tassa patrimoniale, destinata a colpire le rendite finanziarie e quelle immobiliari, ma mi sembra che l’esito sia stato modestissimo: nella quantità del prelievo e nell’eccezionalità dell’imposizione.

La città, e anche…

Spero che il dibattito di oggi, e quello che proseguirà dopo la scuola, permetterà di dare risposte più convincenti e ricche alle tre domande che ponevo. Per concludere vorrei innanzitutto porre a noi tutti (e in particolare a noi urbanisti) un’avvertenza.

Incorreremmo nell’errore tipico delle discipline separate dagli altri saperi e rinchiuse nella propria tecnicità se trascurassimo il fatto che la nuova domanda di pianificazione dell’habitat dell’uomo non nasce sola. Essa è componente di una più ricca domanda di cambiamento, che concerne tutti gli aspetti della vita sociale: dalla politica all’etica, dall’economia all’antropologia.

In effetti, affrontare in modo risolutivo quei temi che ho indicato presuppone o postula la costruzione di una società interamente diversa da quella attuale, a partire dalla sua dimensione strutturale, dalla sua economia. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) che riesce a sopravvivere, da una crisi all’altra, solo erodendo ancora di più gli scarsi margini delle risorse naturali del pianeta, accrescendo le diseguaglianze, cancellando via via le conquiste raggiunte nell’evoluzione di una civiltà. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) nella quale il lavoro – lo strumento che l’uomo ha per conoscere e governare il mondo – sia ridotto a componente marginale della vita economica e sociale. Non possono essere risolte nell’ambito di una società nella quale la formazione sia diretta all’apprendimento delle tecniche necessarie per far andare avanti un sistema economico obsoleto, divenuto disumano, anziché nell’esplorare le vie dell’ancora sconosciuto e del possibile.

É in relazione a questi temi che dobbiamo secondo me domandarci che cosa possiamo fare per contribuire alla formazione di una società e una città costruite sulla base del paradigma dei beni comuni. Sono convinto che abbia affermato una grande verità Giovanna Ricoveri quando ha detto che occorre essere utopici nel progettare il futuro e realisti nell’agire. Sono convinto che la trasformazione deve essere profonda, e cambiare nella sua radice la struttura della società attuale. Occorre una rivoluzione, cioè un cambiamento profondo e radicale del sistema dato.

Ma rivoluzione non significa necessariamente sommovimento violento, né conquista di bastiglie o palazzi d’inverno. Significa anche conquistare progressivamente e gradualmente trasformazioni parziali collocate in una strategia unitaria, ciascuna delle quali contribuisca a modificare non solo le condizioni della società, ma anche i rapporti di potere. Le modifiche che la realtà ci consente di compiere oggi sono modifiche parziali. Ma un conto è considerarle una tappa in un percorso verso un’utopia, un altro conto considerarle come traguardi sufficienti in se stesse.

Che fare?

Una domanda circola – mi sembra – tra i diligenti e appassionati frequentatori della scuola, dopo i tre giorni in cui si è ragionato su grandi cose e grandi problemi: molto più grandi di noi. Che cosa possiamo fare noi, in che direzione dobbiamo spingere il nostro impegno di cittadini e di operatori o studiosi della città? In che modo possiamo contribuire a far sì che anche le nostre azioni concrete spingano nella direzione giusta – concorrano alla costruzione della “città dei cittadini” e all’inveramento del paradigma dei beni comuni?

Io parto da una considerazione. Il compito di assumere le decisioni sul destino del territorio, di formare e trasformare l’habitat dell’uomo, è responsabilità della politica.

Abbiamo visto che i due elementi su cui sembra reggersi la politica oggi siano in crisi profonda. Non hanno giustamente più credito i partiti politici (quale più e quale meno, ma tutti), quasi senza eccezione asserviti all’ideologia della crescita e dello “sviluppo”, schiacciati sugli interessi del sistema economico dato. Vivono vita per molti aspetti precaria la maggior parte delle istituzioni, e in particolare quelle cui spetta la responsabilità di decidere sul territorio: colonizzate dagli stessi virus che hanno inquinato la politica dei partiti, travolte dalla “città della rendita” (spesso realizzata con la loro diretta complicità) o strangolate dalla crisi della finanza locale.

Continuo a sostenere che gli unici elementi di speranza li vedo in quella parte della società civile che ho definito la “società critica”: il mondo dei comitati, delle associazioni e dei gruppi di cittadinanza attiva che contrastano il saccheggio del territorio e degli altri beni comuni, il popolo delle “onde” che si sollevano per protestare contro le condizioni cui è ridotta la scuola, per il ruolo cui sono sempre più condannate le donne, per l’annientamento cui si sta procedendo nei confronti dei diritti del lavoro, il bacino ancora più vasto costituito da quelle decine di milioni di persone che hanno votato per combattere la privatizzazione dell’acqua e la minaccia nucleare alla salute del genere umano.

«Restituire lo scettro al principe»

Credo che per conquistare la politica si debba operare un rovesciamento: partire dal basso anziché dall’alto, dal cittadino anziché dal Palazzo. Nelle costituzioni dei paesi democratici la sovranità è del popolo. Un libro del politologo Gianfranco Pasquini si chiama «Restituire lo scettro al principe». Il “principe” non ha più fiducia su chi ha delegato ad utilizzare in suo nome lo scettro, il potere. Occorre ripartire dal principe, dal cittadino. Del resto, cito spesso il pensiero di Lorenzo Milani secondo il quale affrontare insieme un problema comune è la politica.

Partiamo dal cittadino. Ma il cittadino non conosce tutto. I problemi di oggi – e in particolare i problemi del territorio, le soluzioni possibili, i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna delle soluzioni (e i danni provocati dalle soluzioni proposte nell’ambito del mainstream) – non solo sono complessi in sé, e richiedono spesso apporti specialistici per essere compresi, ma sono anche nascosti, dissimulati, travisati dalle parole adoperate da chi li espone e ne propone le soluzioni.

Ecco allora un grande campo di lavoro per chiunque sia un intellettuale e abbia le conoscenze specialistiche uili a comprendere, criticare, proporre. Noi che sappiamo, dobbiamo spiegare. Imparare a usare un linguaggio semplice, abbandonare il gergo delle nostre “discipline” per spiegare, argomentare, convincere. É quello che tentiamo di fare con la scuole di eddyburg. E giustamente Ilaria diceva: è necessario che nascano 1000 scuole di eddyburg.

Dobbiamo aiutare – con il sapere e il saper fare che deriva dal nostro mestiere, dei nostri mestieri – chi vuole cambiare.

Naturalmente non solo con l’esercitare una sorta di “assistenza tecnica” alle componenti della “società critica” e aiutandoli a comprendere che cosa c’è dietro alle scelte sbagliate e ad opporvisi, ma anche tentando operazioni mirate a formulare progetti capaci di camminare nella concretezza delle trasformazioni del territorio, e costruendoli insieme agli attori sociali interessati. Per esempio, quale campo di lavoro si aprirebbe se volessimo affrontare i problemi della mobilità, o quelli dell’organizzazione territoriale dei servizi e degli spazi pubblici, o quelli della riduzione del consumo di suolo e della difesa dell’agricoltura, trovando alleanze nel mondo del lavoro, o in quello della scuola e delle donne, o in quello degli agricoltori, e magari trovando il sostegno di gruppi di cittadinanza attiva aiutandoli a trovare risposte “in positivo” sugli argomenti delle loro proteste.

Ho accennato ad alcune di queste possibilità in un eddytoriale (il n. 144) che è tra le carte che vi abbiamo distribuito. Continuiamo a ragionarci insieme, e orientiamo anche in questa direzione le prossime iniziative che proporremo come Scuola di eddyburg. Proporremo un nuovo formato, più flessibile, più snello, e più continuo. Forse, dalla scuola estiva alla scuola permanente.

NotaGli altri materiali del corso sono inseriti nelle due cartelle qui. I testi delle lezioni saranno aggiunte via via che saranno pronte

MODALITÀ DI ISCRIZIONE ALLA SCUOLA

Quest'anno l'iscrizione alla scuola e la sistemazione alberghiera sono distinte. I prezzi sono, come sempre, ridotti al minimo, dato il carattere volontaristico che contrassegna la scuola.

La quota d'iscrizione alla scuola è di 370€ + 20% iva per un totale di 444€ e dà diritto di fruire delle attività didattiche, dei materiali didattici, dei pasti non compresi nella quota di sistemazione alberghiera, di partecipare alla visita ai luoghi con cena in agriturismo e a tutte le altre attività organizzate dalla scuola. Le amministrazioni e gli istituti universitari sono esenti Iva.

La sistemazione alberghiera presso l'hotel convenzionato Cavallino Bianco *** dal 13 sera (cena inclusa) al 17 mattina, comprende 4 notti, colazioni e pasti, ed è gestita dall'azienda Promohotels. Costituisce quota a parte (di 145 € per sistemazione in camere multiple o di 185 € per sistemazione in camera singola).

La prenotazione della camera deve effettuarsi tramite l'apposita «scheda di prenotazione alberghiera» allegata, da spedire a Promohotels via email a:
eventi@promhotelsriccione.itoppure tramite fax 0541 601775 accompagnata da una caparra confirmatoria pari al 30% del totale della prenotazione. Le condizioni del trattamento, ulteriori informazioni e modalità di pagamento sono illustrate nella scheda stessa.

E’ ammesso alla scuola un numero massimo di 40 partecipanti. La selezione verrà effettuata sulla base della data di spedizione del modulo di iscrizione e della scheda di prenotazione alberghiera. Parteciperanno i primi quaranta richiedenti che si saranno iscritti secondo le modalità sotto riportate. In caso di richieste in esubero verrà compilata una lista di riserva.

Sono disponibili 15 posti a quota ridotta per partecipanti junior, ovvero studenti e giovani urbanisti ‘precari’ under 35 che provvedono personalmente alle spese di iscrizione alla scuola. La domanda di ammissione ai posti riservati ai partecipanti junior deve essere inoltrata tramite email a Ilaria Boniburini (info@zoneassociation.org) specificando le ragioni di tale richiesta.

Per iscriversi alla scuola occorre:

1. Compilare e inviare il «modulo di iscrizione alla scuola» (scaricare il modulo qui sotto) via mail a:

Ilaria Boniburini - Zone onlus, Email:
Info@zoneassociation.org

2. Pagare la quota di iscrizione alla scuola entro il 28 agosto 2011 mediante bonifico bancario in favore di ZONE ONLUS VENEZIA, CC Banco Posta N. 1425844, IBAN: IT18 A0760102000000001425 844 oppure tramite bollettino postale sul conto corrente postale 1425844 intestato a Zone Onlus Venezia. Specificare la causale «scuola di eddyburg 2011». Gli Enti pubblici hanno la possibilità di iscrivere i loro dipendenti, senza pagamenti anticipati, purché alleghino alla domanda di iscrizione la determina dirigenziale che stabilisce il relativo impegno di spesa e di pagamento entro l'anno corrente.

3. Compilare e inviare la «scheda di prenotazione alberghiera» (scaricare il modulo qui sotto) entro il 28 agosto 2011 seguendo le istruzioni specificate sulla scheda di prenotazione alberghiera.

In mancanza dell'ottemperamento a queste istruzioni entro il 28 agosto, sarà facoltà degli organizzatori annullare l’iscrizione.

1. Sette anni di scuola

La scuola di eddyburg è nata nel 2005 come estensione concreta del sito, con l'intenzione di coagulare e condividere le riflessioni sulla città e la società, sull'urbanistica e la politica.

La sua prima ideazione è scaturita dalla constatazione che, tanto nei corsi professionali, quanto nella formazione universitaria, mancasse qualcosa. Che fosse possibile e necessario:

- proporre un'analisi critica, non limitata ad una mera e compiaciuta descrizione del mondo e dei suoi cambiamenti, ma intesa come la necessaria premessa per agire attivamente;

- esprimere un punto di vista motivatamente orientato, senza paura di apparire schierati e rifuggendo ogni atteggiamento pseudo-neutrale (nei fatti, conformista o complice), dedicando la necessaria attenzione alle parole, alle storie, alle descrizioni;

- proporre una decisa azione di contrasto alle tendenze dominanti, fondata sulla riaffermazione del perimetro di valori, concetti e strumenti che, a nostro avviso, concorrono a sostanziare la pianificazione territoriale e urbanistica.

Per sostanziare le argomentazioni e per arricchirle, abbiamo fatto della scuola un luogo di ascolto e di confronto con un ampio gruppo di persone, diventate amici e frequentatori duraturi: storici ed esperti delle discipline umanistiche e delle scienze sociali (economisti, sociologi, antropologi, letterati), esperti delle discipline scientifiche (geologi, agronomi, ingegneri ambientali) animatori e aderenti di associazioni e movimenti, funzionari della pubblica amministrazione, politici e amministratori fuori dal coro.

Ma soprattutto, abbiamo dedicato uno spazio e un’attenzione specifica, nelle prime giornate della scuola, alle “parole della città”, per comprendere la loro ambiguità, per disvelare l’appropriazione e l’uso distorto dei termini da parte dell’ideologia dominante, le potenzialità di un diverso impiego a fini della rinascita di un pensiero critico e della costruzione di prospettive alternative.

Nel nostro specifico, ci è sembrato necessario:

- denunciare lo snaturamento dell'urbanistica, determinato dall'assunzione di una punto di vista prettamente mercantilistico nella definizione delle scelte;

- evidenziare la degenerazione determinata nell’ultimo quindicennio dalle iniziative del governo e di molte amministrazioni regionali, nel loro complesso convergenti verso lo smembramento e smantellamento del ruolo e degli strumenti pianificazione territoriale e urbanistica;

- riportare l'attenzione sul lato oscuro delle trasformazioni della città e del territorio, sottaciuto o sottovalutato da una parte non trascurabile degli urbanisti, dedicando le giornate centrali all’illustrazione di “casi” finalizzata a capire perché e sotto quali aspetti ‘i conti non tornano’, valutando e comparando tra loro non tanto modelli astratti, quanto piuttosto le opzioni in gioco e gli esiti delle trasformazioni;

- allo stesso tempo, illustrare una serie di buone pratiche che, per quanto minoritarie e precarie, restituiscono un ventaglio d’iniziative possibili, molto più ampio di quanto solitamente si ritiene. Piani e politiche di gestione dei parchi (in particolare di parchi agricoli e periurbani), di recupero e cura del paesaggio, piani regolatori, piani per la mobilità e l’ambiente urbano, politiche per la casa e per i servizi coniugate alla rigenerazione di aree dismesse, pratiche di difesa, riconquista e gestione degli spazi pubblici: il catalogo di iniziative mostrato alla scuola è più ampio di quanto si potrebbe pensare.

2. I temi trattati

Ogni anno la scuola è stata organizzata attorno ad un tema specifico. Tuttavia, rilette in prospettiva, le sette edizioni costituiscono altrettanti passaggi di un ragionamento che si è ampliato, fino a investire, nelle ultime due edizioni, i “fattori strutturali”, ovverosia il rapporto tra economia e territorio. Può essere utile riepilogare, molto brevemente i temi delle sei edizioni precedenti.

2005. Lo sprawl urbano e il consumo di suolo sono stati il primo argomento trattato, nel 2005. Da lì è nata una proposta di legge urbanistica, fortemente centrata su questo obiettivo, che è stata ripresa nel lavoro parlamentare e politico. Ed è da quella proposta che è nato un interesse per la questione che ha connotato il dibattito anche in altre sedi. Abbiamo insomma contribuito a far emergere una questione centrale, per la qualità del territorio e della vita che su di esso si svolge, fino ad allora largamente trascurata in ogni sede.

2006. Il governo pubblico della città è stato il tema dell’anno successivo: le sue finalità, i suoi strumenti, i suoi modi. Le domande che hanno costituito la traccia della Scuola sono state: come costruire una città vivibile, una città amica delle donne e degli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento? A queste domande si è tentato di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano.

2007 La terza edizione della scuola è stata dedicata a un tema già da tempo all’ordine del giorno: il paesaggio. A differenza delle numerose iniziative che altri, in questi stessi anni, hanno dedicato all’argomento, nella scuola ci siamo riferiti a un aspetto secondo noi particolarmente rilevante: il paesaggio e i cittadini - parole, istituzioni, società. Non esiste infatti speranza di mantenere viva (e per ciò in primo luogo far sopravvivere) le qualità e le testimonianze che i nostri progenitori, la loro cultura, la loro azione hanno sedimentato nel territorio se non si individuano in modo corretto i soggetti che a tale compito devono accingersi. E se in primo luogo non ci si mette d’accordo sulle parole attraverso le quali essi si esprimono.

2008. Il tema della quarta edizione è stato che fare per rendere le città più vivibili. Partendo dalla riflessione sulle parole della città abbiamo compreso meglio in che modo le nostre piccole storie si pongano nell’ambito del conflitto tra due concezioni e due strategie: quella della città come merce, tipica del neoliberalismo e caratterizzata dal vedere la città come una macchina fatta per arricchire, e quella della città come bene comune, come costruzione collettiva finalizzata ai bisogni delle persone che vi abitano e lavorano.

2009. Città e spazi pubblici: declino, difesa, riconquista è stato il titolo della quinta edizione. Abbiamo ragionato sui cambiamenti che nella società e nella città hanno determinato il declino dello spazio pubblico, abbiamo posto il tema del “diritto alla città”, e abbiamo discusso su alcuni momenti della storia del nostro paese in cui urbs, civitas e polis si sono incontrate attorno ai temi della “città pubblica”. Comprendere le ragioni fondamentali del declino ci ha aiutato a precisare il senso delle vertenze aperte per resistere e difendere lo spazio comune e i temi da affrontare per riconquistarlo.

2010-2011. Infine, è sembrato necessario affrontare da vicino il rapporto tra urbanistica ed economia, tema al quale abbiamo dedicato le due ultime edizioni. Nella sesta ci siamo focalizzati sulla questione dell’appropriazione della rendita immobiliare: un problema cruciale dell’urbanistica moderna da quando essa è nata, e cioè dalla rivoluzione liberale e dall’affermazione del sistema capitalistico-borghese. Problema che da sempre costituisce il cruccio degli operatori della città in nome dell’interesse generale, che ha assunto nella società neoliberista connotazioni del tutto particolari. Quest’anno affrontiamo il nodo cruciale di questa fase storica, individuato appunto titolo: “Oltre la crescita, dopo lo ‘sviluppo’”. Sviluppo è un termine che adoperiamo sempre tra virgolette, quando vogliamo rilevare la deformazione del concetto che è stata compiuta schiacciandolo sull’unica dimensione dello sviluppo economico finalizzato alla produzione di merci.

Assieme a Edoardo Salzano (cui sono affidate, nella quarta giornata, le conclusioni di questa edizione e del ciclo settennale sopra descritto) e a Ilaria Boniburini, con i quali ho condiviso lo sforzo di ideazione e di organizzazione materiale della scuola, voglio:

- ringraziare, non senza commozione, i sessanta docenti che ci hanno donato il loro apporto (in senso letterale, poiché non hanno percepito alcun compenso), e i circa 200 partecipanti (provenienti da tutte le regioni d’Italia, con la sola esclusione della piccola Valle d’Aosta) che con la loro presenza hanno reso viva e vitale la scuola;

- confermare sin d’ora il nostro impegno a proseguire, seppure con modi e strumenti differenti, la riflessione critica sulle trasformazioni in atto e la paziente ricerca di proposte utili per fare della città e del territorio un buon posto per vivere.

Gli spazi pubblici: declino, difesa, riconquista

Il programma delle V edizione della Scuola estiva di pianificazione di eddyburg. In calce i moduli per l’iscrizione

Premessa

Mai come in questo momento, l’attenzione allo spazio pubblico della città travalica gli aspetti tecnici e progettuali per acquistare un significato più ampio. Il progressivo declino dell’uomo pubblico ha fatto smarrire la consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune. Intendere la “città come bene comune” significa pensare la città come il luogo dove le esigenze e i bisogni dei suoi abitanti sono garantiti, dove è possibile accedere senza difficoltà ai servizi essenziali, dove è piacevole incontrarsi, dove le iniziative culturali consentono di emanciparsi dal pensiero unico ed elaborare un pensiero critico. Significa riconoscere l’esistenza di un “diritto alla città”, oggi non garantito. Richiede uno sforzo di pianificazione affinché le attrezzature di interesse collettivo siano previste in quantità adeguate e localizzate in modo opportuno. Comporta un investimento collettivo, affinché siano gestite con cura e continuità nel tempo, senza che ciò significhi piegare a logiche finanziarie ciò che deve misurarsi in termini di equità, benessere e felicità.

Eddyburg ha una visione molto ampia dello spazio pubblico nella città e una percezione molto viva dei rischi che esso corre. Per noi lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, si estende all’insieme dei luoghi finalizzati alle necessità comuni, e permea l’intera concezione della “città come bene comune”. La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha avuto un suo momento significativo, in Italia, nella faticosa conquista degli “standard urbanistici”, ma vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze; del resto, fin dagli anni sessanta la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”.

Attualmente gli spazi pubblici sono a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione. Il loro deperimento ha una matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; ha la sia matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove. Questo rischio va contrastato con forza, indirizzando l’attenzione non soltanto verso le attrezzature e i servizi di prossimità, ma allargando lo sguardo ad una gamma più vasta di esigenze: la ricreazione nei grandi spazi naturali, il godimento dei patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sui territori, le attrezzature utilizzabili solo in una dimensione di area vasta.

Schema del programma

Nella V edizione della Scuola estiva di eddyburg intendiamo affrontare il tema degli spazi pubblici:

nella prima giornata, affidandoci all’intelligenza e alla sensibilità di alcune persone che – nei rispettivi campi professionali – hanno saputo descrivere con acutezza i cambiamenti che nella società e nella città hanno determinato il declino dello spazio pubblico e che possono aiutarci a definire e sostanziare il “diritto alla città”;

- nella seconda giornata, attraverso il racconto di tre momenti della storia urbanistica del nostro paese in cui si è cercato di fare incontrare urbs, civitas e polis a partire dalle questioni della “città pubblica”;

- nella terza giornata, attraverso una riflessione a tutto tondo sugli “standard urbanistici” e sul modo in cui si possono arricchire (e non derogare!) le indicazioni del decreto del 1968, tuttora il principale strumento di garanzia della città pubblica;

- nella giornata conclusiva attraverso un convegno pubblico, nel quale saranno invitati gruppi e associazioni impegnati direttamente nella difesa degli spazi pubblici.

La prima sessione: parole chiave

Come di consueto la premessa della prima sessione, coordinata da Edoardo Salzano, sarà costituita dall’analisi di alcune parole chiave, che saranno proposte da Ilaria Boniburini. Questa volta le parole avranno il loro titolo nel rapporto tra Spazio e Potere, e forniranno elementi di riflessione sui lemmi compresi in queste espressioni: Città e potere; Spazio/Sfera pubblico e privato; Diritto alla città.

Che cosa significa la rottura dell’equilibrio tra la componente privata e la componente pubblica della personalità umana? Come si è prodotta e che cosa ha comportato e comporta nell’uomo e nella società? La sociologa Antonietta Mazzette ci guiderà alla comprensione di questo tema.

In che modo le trasformazioni recenti della società e le nuove ideologie influiscono sull’uso dello spazio? Determinano o meno un diverso rapporto nella città tra spazio pubblico e spazio privato, e nella stessa configurazione dell’uno e dell’altro, e se si in che senso? Come le trasformazioni dello spazio della città retroagiscono sulla società? L’urbanista Paola Somma, proseguendo la comunicazione svolta nella precedente sessione della Scuola di eddyburg, di sviluppare questo tema.

Dopo aver esaminato la questione dello spazio pubblico in termini generali e in riferimento alle tendenze della società del nostro tempo, nella seconda parte della sessione, vogliamo approfondire l’analisi in riferimento alla concreta situazione. Nello specifico delle nostre città in che modo lo spazio del quotidiano viene usato? La sociologa, Elisabetta Forni, affronterà il tema dal punto di vista della società. L’urbanista Giovanni Caudo ci aiuterà a ragionare partendo dai risultati di una ricerca sul modo in cui sono fruiti gli spazi pubblici a Roma.

La sessione durerà l’intera prima giornata. Alcuni spazi di adeguata ampiezza saranno riservati alla discussione.

Seconda sessione: tre vicende esemplari

La seconda giornata, coordinata da Giovanni Caudo, è centrata sul racconto di tre vicende urbanistiche particolarmente significative che hanno avuto come protagonisti gli spazi pubblici:

- dal movimento femminile alla consulta dell’Emilia Romagna: nascono gli standard urbanistici; la politica (la sinistra, quantomeno) comprende l’importanza del tema degli spazi pubblici e lo fa proprio, nell’amministrazione prima e nella legislazione subito dopo (Edoardo Salzano, Marisa Rodano);

- la lezione urbanistica di Roma capitale: i fori e l’Appia; Petroselli e Cederna, intellettuali di avanguardia, hanno una prodigiosa intuizione sul valore ‘sociale’ della fruizione collettiva del patrimonio culturale, ma la sinistra questa volta non segue (Vezio Emilio De Lucia);

- in difesa di Macrico, Caserta: i cittadini si mobilitano per riconquistare lo spazio pubblico; la politica, anche a sinistra, è pressoché scomparsa e alcuni gruppi di cittadini si fanno diretti portavoce dell’esigenza di considerare la “città come bene comune”, a partire dalla difesa degli spazi pubblici (Maria Carmela Caiola).

Terza sessione: i nuovi standard urbanistici

Il dibattito disciplinare è appiattito sul problema dell’acquisizione dei suoli e l’opinione prevalente concorda sulla necessità di barattare metri cubi e attrezzature. Le cose stanno davvero così? A partire da una panoramica critica delle leggi regionali, di alcune esperienze concrete e di ricerche in atto nella terza giornata, coordinata da Mauro Baioni, si vuole proporre un modo differente di guardare agli spazi pubblici, ragionando attorno alle seguenti questioni aperte.

Se puntiamo all’arresto della crescita infinita delle città, come innalzare la qualità degli insediamenti esistenti? Oltre ad acquisire suolo pubblico, di quali aspetti dobbiamo farci carico? Che cosa costituisce il “sistema delle qualità”di un insediamento e in che modo possiamo restituire agli spazi pubblici la pienezza della loro funzione?

Nella città dello sprawl dobbiamo rassegnarci all’idea che lo spazio pubblico è surrogato dai mall commerciali o dai parchi di divertimento? La gestione condivisa dei servizi pubblici può essere un fattore decisivo per promuovere il coordinamento dei comuni? Possiamo ampliare il concetto di spazi pubblici e individuare nella fruizione dei beni culturali e ambientali un elemento peculiare per sostanziare la ‘dimensione pubblica’ della città in Italia? Che cosa possono fare le provincie?

A queste domande si cercherà di rispondere attraverso i contributi di Maria Cristina Gibelli, Giorgia Boca, Mauro Baioni e di funzionaridi amministrazioni pubbliche dell’area bologneseimpegnate nella pianificazione degli spazi pubblici (tra cui Maurizio Sani, Barbara Nerozzi, Graziella Guaragno, Elettra Malossi).

Convegno conclusivo

Negli anni del welfare urbano gli spazi pubblici hanno costituito l’obiettivo di significative lotte sociali, spesso coronate da successo. Oggi essi sono l’oggetto di fenomeni preoccupanti di degradazione, esclusione, commercializzazione, privatizzazione. Ma sono anche sempre più spesso l’obiettivo di azioni sociali per la loro difesa. In Italia e in Europa cresce il numero dei comitati, dei gruppi, delle associazioni, spesso tendenti ad aggregarsi in reti più ampie, per la loro difesa e promozione. Tra essi è presente, da alcuni anni, una Rete delle camere del lavoro – Cgil che è diventata protagonista, a livello nazionale e internazionale, della riflessione sull’attuale condizione urbana e, in molte città italiane, di azioni di stimolo e collaborazione per una migliore vivibilità ed equità per tutti gli abitanti.

Questa azione collettiva può costituire oggi il motore necessario per un rinnovamento del governo del territorio, può indurre gli amministratori a porre obiettivi giusti alla pianificazione territoriale: questa è la speranza nella quale anche noi scommettiamo. È allora utile consolidare il ponte tra persone, gruppi e interessi diversi, stimolare la conoscenza e il dialogo, la condivisione di competenze e esperienze, esigenze e bisogni diversi. In particolare, ci proponiamo di coinvolgere coloro che si mobilitano in difesa del territorio, delle città e degli spazi pubblici, in una iniziativa che da qualche tempo eddyburg, in collaborazione con altre associazioni, ha avviato: un progetto per la costruzione di una mappa degli spazi pubblici e, parallelamente ad essa, di una mappa degli spazi a rischio e dei conflitti per la loro difesa, o riconquista, o conquista.

Per affrontare questi temi, nella giornata conclusiva la scuola si apre all’esterno. In un convegno pubblico, organizzato con la Camera del lavoro territoriale – Cgil di Padova e con Legambiente Padova, oltre a rendere pubbliche le conclusioni delle tre giornate della scuola, si presenteranno e discuteranno i progetti e si scambieranno informazioni e proposte di iniziative con i rappresentanti di reti, comitati, associazioni, gruppi che interverranno alla manifestazione. (Vedi il programma del convegno)

Attività collaterali

Come ogni anno, la scuola non si esaurisce in una serie di comunicazioni frontali, ma prevede spazi organizzati di discussione (durante la prima giornata e il pomeriggio di venerdì), una visita al territorio (nel pomeriggio della seconda giornata, attraverso la collaborazione delle associazioni culturali Frammenti e di Antiruggine), una sessione conclusiva in cui far confluire le riflessioni maturate durante il corso delle giornata e la possibilità per gli studenti di condividere con i docenti anche i momenti liberi delle giornate.

Aspetti organizzativi

Sede

Sede della scuola è il centro storico di Asolo (TV), posto su un colle aguzzo tra Bassano del Grappa e Valdobbiadene. Le lezioni si terranno presso l’Istituto delle suore Dorotee di Asolo, dove si potrà soggiornare usufruendo di condizioni agevolate per gli iscritti alla scuola.

Chi desidera ulteriori informazioni sulla sede puà consultare

il sito dell’Istituto

e il sito del

Comune di Asolo

Periodo di svolgimento

La scuola si terrà dal 9 al 12 settembre 2009

Iscrizioni e aspetti logistici

Le iscrizioni e l’organizzazione degli aspetti logistici sono gestiti dall’associazione ZONE onlus, di cui la Scuola è attività. Sarà ammesso un numero massimo di 40 studenti.

Informazioni e documenti

Sul sito eddyburg.it è aperta una cartella dedicata alla V edizione della scuola, dove sono via via pubblicati il programma definitivo e i materiali di riferimento relativi agli argomenti trattati nelle lezioni.

Generalità

La Scuola estiva di pianificazione (Scuola di eddyburg) si svolge una volta all’anno, nel mese di settembre, e consiste in una serie di lezioni, discussioni e lavori di gruppo nei quali si incontrano i docenti invitati da eddyburg.it, che offrono gratuitamente la loro collaborazione, e un gruppo di studenti, da 30 a 40 per anno, i quali soggiornano nella sede prescelta. La spesa sostenuta dagli studenti comprende il vitto, l’alloggio e una parte dei materiali didattici, nonché una quota della spesa sostenuta dalla Scuola per il noleggio e l’attrezzatura dei locali e le altre spese connesse. Ad alcuni partecipanti junior è offerta la possibilità di pagare una quota ancora inferiore.

Obiettivi

L’obiettivo primario è quello di integrare l’attività formativa fornita dal sito eddyburg.it mediante l’approfondimento di un tema scelto, volta per volta, in relazione al suo interesse, utilizzando le conoscenze e le esperienze dei docenti universitari e di altri esperti che fanno riferimento a eddyburg.it, ne condividono i principi e sono disposti a contribuire volontariamente alle sue attività. Altri obiettivi sono quello di utilizzare l’approfondimento degli argomenti trattati e il dialogo con gli studenti per fornire nuovo alimento al sito, nonché quello di allargare il numero delle persone legate a eddyburg.it da rapporti di condivisione e collaborazione.

Attività svolta

La prima edizione della Scuola di eddyburg (2005) ha avuto come tema “ Il consumo di suolo”.Essa si è svolta nella sede (centro culturale e foresteria) del Parco archeo-minerario di San Silvestro, nel sistema di parchi della Val di Cornia. È stato sponsorizzata dagli enti locali protagonisti del sistema di parchi e dalla Parchi Val di Cornia s.p.a, che ha organizzato l’iniziativa. Il tema è stato affrontato nei suoi molteplici aspetti e ha dato luogo successivamente a una serie di iniziative grazie alle quali il tema dello sprawl urbano e del consumo di suolo è finalmente divenuto un tema all’attenzione delle forze politiche e sociali e della cultura nazionale. Dalla Scuola, e in particolare dalle lezioni di De Lucia e Scano, è scaturita un’iniziativa di opposizione alla proposta di “Legge Lupi” per il governo del territorio e per la formazione di un progetto legislativo coerente con l’impostazioni di eddyburg.it. I materiali prodotti, tempestivamente inseriti nel sito, hanno poi dato luogo a una pubblicazione edita da Alinea ( No Sprawl, a cira di M.C. Gibelli ed E. Salzano).

La seconda edizione (2006) si è svolta nello stesso sito, con gli stessi sponsor e organizzazione. Il tema è stato “ La costruzione pubblica della città”. Ecco le domande che hanno costituito la traccia della Scuola: come costruire una città vivibile, una città amica delle donne e degli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento? A queste domande si è tentato di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano. I materiali prodotti, tempestivamente inseriti nel sito, hanno dato luogo a una pubblicazione edita da Alinea (La costruzione della città pubblica, a cura di M. Baioni).

La terza edizione della Scuola (2007)si è svolta a Corigliano d’Otranto, nello splendido castello de’ Monti, appena restaurato e attrezzato come centro culturale. Dedicata al tema " Il paesaggio e i cittadini: parole, istituzioni, società", essa è stata sponsorizzata dal Comune di Corigliano d’Otranto e dalla Regione Puglia. I temi affrontati sono stati le parole del paesaggio, il quadro normativo della pianificazione paesaggistica l’attuazione del Codice nelle regioni, il piano paesaggistico regionale della Sardegna e la politica del territorio in Puglia.

La quarta edizione (2008) è stata dedicata al tema “ Ma dove vivi? Che fare per rendere le città più vivibili". Essa si è svolta nel Centro di spiritualità delle Suore Dorotee dove hanno trovato posto sia le attività didattiche che l’alloggio e i pasti di studenti e docenti. A una prima giornata, dedicata alle parole della città e ad affrontare il tema dal punto di vista di discipline ed esperienze centrate sugli aspetti sociali, sono seguite tre giornate di analisi critica di alcuni casi di riqualificazione e rigenerazione urbana (Bologna, Cosenza, Torino, Napoli), precedute da due lezioni di carattere generale sul quadro italiano e su quello europeo. Ha dato origine alla pubblicazione, curata da Ilaria Boniburini per i tipi di Alinea: Alla ricerca della città vivibile.

La quinta edizione (2009) è stata incentrata sugli spazi pubblici. Si è svolta, come l’anno precedente, ad Asolo. I temi trattati hanno riguardato le modificazioni nel rapporto tra spazio pubblico e privato determinate dalle trasfor-mazioni della società e dal peso dell’ideologie dominanti, gli standard urbanistici e la piani-ficazione degli spazi pubblici in alcune esperienze italiane. Nella giornata conclusiva, in un conve-gno aperto a tutti organizzato a Padova con Cgil e Legambiente, sono state raccolte le testimo-nianze di comitati, associazioni e gruppi di cittadini che, in molte parti d’Italia, si stanno mobili-tando a difesa del territorio e degli spazi pubblici.Ha dato origine alla pubblicazione, curata da Fabrizio Bottini per i tipi di Ediesse: Spazio pubblico: declino, difesa, riconquista.

La sesta edizione (2010), prima di un ciclo biennale dedicato al rapporto tra urbanistica ed economia, si è svolta, presso la sede del Parco Metropolitano delle Colline di Napoli. Il tema specifico è stato l’analisi della rendita urbana, dei meccanismi attra-verso i quali si forma, degli effetti negativi che produce sulla città e degli strumenti possibili per contenerli.

Docenti

Nelle sei edizioni della scuola, hanno contribuito come docenti:

Giovanni Azzena, Mauro Baioni, Paolo Baldeschi, Angela Barbanente, Lorenzo Bellicini, Paolo Berdini, Maria Berrini, Piero Bevilacqua, Giorgia Boca, Ilaria Boniburini, Fabrizio Bottini, Maria Carmela Caiola, Roberto Camagni, Giovanni Caudo, Piero Cavalcoli, Gabriella Corona,Ilda Curti,Stefano De Caro, Vezio De Lucia, Francesca De Lucia, Antonio di Gennaro, Alfredo Drufuca, Maria Cristina Gibelli, Maria Pia Guermandi, Fernando Fava, Elisabetta Forni, Dario Franchini, Georg Frisch, Roberto Giannì, Chiara Girotti, Graziella Guaragno, Gianni Lanzuise, Elettra Malossi, Oscar Mancini, Anna Marson, Antonietta Mazzette, Barbara Nerozzi, Giancarlo Paba, Dario Predonzan, Gabriele Rabaiotti, Raffaele Radicioni, Carla Ravaioli, Serena Righini,Marisa Rodano, Sandro Roggio, Maurizio Sani, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Paola Somma, Pierluigi Sullo, Giancarlo Sgubbi, Giancarlo Storto, Giorgio Todde, Massimo Zucconi.

Qui di seguito è disponibile il volantino che illustra finalità, contenuti e organizzazione della scuola

L’indebolimento del tessuto sociale e, ancor di più, della classe dirigente (pubblica e privata) hanno un ruolo tutt’affatto marginale nel mancato contrasto all’appropriazione privata della rendita.

Fabrizio Bottini, tornando alle radici dell'urbanistica contemporanea con un caso storico emblematico, ci parla della città come “costruzione collettiva” "Sono gli uomini a fare le città, poi sono le città a fare gli uomini", si afferma in un sussidiario per le scuole, con il quale i principali rappresentanti dell'economia cittadina di Chicago vogliono spiegare ai ragazzi l'importanza delle decisioni sull'assetto della città.

L’intervento di Bottini, in apparenza lontano nel tempo e nello spazio, è prezioso per non dimenticare che:

- la città è una costruzione collettiva;

- la città è tale quando è capace, attraverso i suoi amministratori e i suoi abitanti, di riflettere su se stessa e agire di conseguenza.

In calce le slide della presentazione.

Nel sito Mall alcuni estratti del manuale, tradotti e presentati da Fabrizio Bottini.

Le cronache abbondano di episodi che testimoniano il legame tra corruzione e affermazione della criminalità organizzata nelle regioni del Nord. È importante interrogarsi sulle falle del sistema che agevolano questo perverso connubio, al di là delle responsabilità penali delle persone coinvolte. L’entità del giro di affari nell’edilizia e la presenza di meccanismi ancora troppo opachi, tanto nella formazione delle scelte quanto nei successivi controlli, costiuiscono un formidabile “brodo di coltura” nel quale si ramifica e consolida la criminalità.

Nella seconda giornata, Serena Righini ha presentato il suo lavoro di tesi, incentrato su questo tema. Qui di seguito riportiamo il testo, appositamente scritto per eddyburg. In calce sono scaricabili le slide della presentazione.

Negli ultimi mesi sono state numerose le inchieste e le indagini condotte dalla Magistratura e dalle Forze dell’Ordine che hanno svelato, anche in territori fino a poco tempo fa considerati off-limits per la criminalità organizzata, importanti operazioni e trasformazioni urbanistiche che vedono coinvolti, in intrecci poco trasparenti, cosche mafiose ed esponenti del mondo istituzionale.

Spesso il nesso tra criminalità organizzata e territorio viene circoscritto al fenomeno dell’abusivismo edilizio tralasciando di analizzare in che modo i processi decisionali possono venire alterati dalle pressioni della criminalità organizzata che, in questo modo, può orientarli a proprio vantaggio, compromettendo la competitività e lo sviluppo del territorio. Infatti appare sempre più evidente come il pesante condizionamento esercitato dalla mafia sulle scelte di pianificazione sia spesso la causa dello stravolgimento di un ordinato sviluppo urbanistico, che viene così scavalcato da interessi di tipo criminale che sono di ostacolo a una gestione del territorio che abbia come obiettivo il perseguimento dell’interesse collettivo. Alcuni fenomeni che, seppure non imputabili esclusivamente all’agire mafioso, sono influenzati negativamente da eventuali infiltrazioni, sono tipicamente quelli legati alla sovraproduzione edilizia (fenomeno che può essere ricondotto alla necessità di investire e riciclare i proventi di altri traffici illegali nell’attività edilizia da parte delle cosche), ma anche alla cosiddetta “ecomafia”, settore che comprende i reati ambientali, perpetrati in particolare negli ambiti del movimento terra e del ciclo di gestione dei rifiuti, notoriamente caratterizzati da una forte presenza mafiosa.

La relazione tra criminalità organizzata e pianificazione, nella realtà del nord Italia, può essere ricondotta a un approccio tipicamente speculativo nella gestione del territorio che si collega anche al fenomeno della corruzione, coinvolgendo parti sempre più estese sia della componente politica che di quella gestionale e amministrativa di molti enti locali.

Il contesto del nord Italia presenta, a tal proposito, alcune caratteristiche che sembrano favorire le infiltrazioni degli interessi criminali nella gestione del territorio. Da circa un decennio la Regione Lombardia ha avviato un processo di riforma urbanistica che, in nome della semplificazione e dell’efficienza, ha introdotto procedure di pianificazione e programmazione sempre più de-regolative. Il nuovo sistema lombardo di “pianificazione negoziata” è imperniato su un modello di partnership pubblico-privato che priva le strutture pubbliche degli strumenti non solo di controllo ma anche di guida delle scelte strategiche; non prevede criteri oggettivi e prestazionali che regolino la contrattazione e consente, in questo modo, processi decisionali opachi e criteri di valutazione molto discrezionali.

Lo strumento paradigmatico di questa stagione urbanistica lombarda è il Piano Integrato d’Intervento con il quale le Amministrazioni Comunali, previa adozione di un Documento d’Inquadramento (che indica gli obiettivi che si intendono raggiungere e che comunque è modificabile in ogni momento), possono indirizzare le proprie scelte di sviluppo a seconda delle opportunità – o delle proposte – che il contesto immobiliare offre loro.

È facile comprendere, a questo punto, come il contesto lombardo, nonostante alcune ancora forti resistenze soprattutto di carattere propagandistico volte a tutelare l’immagine della “Milano capitale morale d’Italia”, offra ampi varchi per le infiltrazioni criminali.

E forse non è un caso se dalle indagini della Direzione Investigativa Antimafia emerge come nell’ultimo decennio si sia progressivamente diffusa e radicata la presenza della malavita organizzata al nord, fenomeno peraltro dimostrato anche dalle classifiche annuali redatte da Legambiente sui reati ambientali, nelle quali la Lombardia guadagna posizioni ogni anno, e dai dati relativi alle operazioni antiriciclaggio che, nel 2009, hanno visto localizzate nel nord Italia circa la metà di segnalazioni registrate nell’intera penisola.

Nonostante questi dati non lascino dubbi, la percezione mafiosa sul territorio lombardo resta ancora molto bassa. Le attività criminali compaiono raramente sotto i riflettori e non provocano allarme sociale, raramente ricorrono alla violenza, mai alle stragi; piuttosto si presentano con una nuova generazione di “mafiosi con le scarpe lucide”, sempre più inseriti nei settori vitali dell’economia nei quali si presentano con formule e operazioni finanziarie molto avanzate, ricorrendo al decisivo supporto della cosiddetta “zona grigia”.

Società intestate a prestanome che, tramite la corruzione di esponenti politici e di tecnici, si aggiudicano appalti per la realizzazione di opere pubbliche oppure ottengono i permessi per la realizzazione di operazioni immobiliari, anche in difformità con gli strumenti urbanistici vigenti, rappresentano quello che la magistratura definisce un “sistema consolidato e capillare”, nel quale non sempre è di immediata definizione il confine che separa una realtà mafiosa da pratiche speculative e di corruzione prive però di fini criminali.

Un caso di speculazione e corruzione: le inchieste Parco Sud e Parco Sud II

Le inchieste della Magistratura, Parco Sud e Parco Sud II, che hanno interessato il comune di Trezzano sul Naviglio, consentono di comprendere molto bene i meccanismi che portano l’alterazione dei processi decisionali, e quindi delle scelte amministrative, a tutto vantaggio degli interessi criminali nei territori dell’hinterland milanese. Trezzano è un paese di circa 20.000 abitanti, localizzato nella periferia sud occidentale di Milano; circa un anno fa è balzato agli onori della cronaca in seguito all’arresto di numerosi esponenti del clan ‘ndranghetista dei Barbaro-Papalia e a quello dell’ex sindaco, oltre al coinvolgimento di alcuni consiglieri e del responsabile dell’ufficio tecnico comunale.

Qui è stato proposto, e approvato, un piano di Lottizzazione che interessa un’area a margine del tessuto urbanizzato, localizzata in prossimità del limite del Parco Agricolo Sud Milano, nonostante alcuni vincoli urbanistici - dettati dalla presenza di due pozzi idrici e di un corso d’acqua con relative fasce di rispetto - imponessero importanti limitazioni edificatorie.

Nell’istruttoria della pratica questi vincoli sono semplicemente omessi dalla cartografia e dagli estratti di Piano Regolatore; non viene redatta la relazione idrogeologica che avrebbe dovuto attestare la compatibilità tra il progetto e la vulnerabilità delle risorse idriche sotterranee; non vengono rispettate le distanze dai pozzi di captazione né dal corso d’acqua.

Confrontando l’assetto planimetrico del progetto con i vincoli esistenti è evidente come la situazione progettuale del Piano di Lottizzazione sia molto diversa da quella legale e si può facilmente comprendere che il rispetto della normativa vigente avrebbe comportato uno sfruttamento edificatorio ridotto e quindi minori introiti economici da parte dell’operatore immobiliare vicino al clan ‘ndranghetista.

Ri-regolazione e trasparenza per costruire vantaggio sociale

Ai fini della tutela della legalità, se da un lato appare sempre più anacronistico insistere esclusivamente sul potenziamento delle forze dell’ordine e sull’azione repressiva, dall’altro la ricerca di nuovi strumenti che, anche nel campo urbanistico, siano in grado di ostacolare gli interessi della criminalità organizzata, rischia di diventare un mero esercizio tecnico che, in assenza di un serio intervento sulla trasparenza dei processi decisionali e sul coinvolgimento di tutte le componenti sociali, appesantirebbe ulteriormente l’apparato normativo senza apportare reali contributi e benefici.

L’attivazione di processi di pianificazione maggiormente integrati e partecipati può essere efficace solo se accompagnata da un ripensamento circa le funzioni e il ruolo dell’amministrazione pubblica. Per poter diventare strumenti efficienti per la tutela degli interessi collettivi nei processi di governo del territorio le diverse proposte - politiche attive, standard più esigenti, valutazioni ambientali strategiche - hanno bisogno di un attore pubblico che sia in grado di rappresentare la propria visione strategica e il proprio progetto di territorio inserito in una prospettiva di lungo periodo, all’interno della quale collocare le singole scelte decisionali, che solo in questo modo non sarebbero più dipendenti da proposte e offerte immobiliari estemporanee.

Inoltre il soggetto pubblico deve saper costruire, attorno alle proprie scelte politiche, il maggior livello possibile di consenso sociale. Consenso sociale che non deve essere perseguito tramite il soddisfacimento degli interessi più forti, siano essi di natura più o meno lecita, quanto tramite l’elaborazione di uno scenario di sviluppo locale il più largamente condiviso.

Infatti qualsiasi seria strategia di contrasto non può che agire nella direzione della trasparenza per tutelare gli interessi della collettività e per rompere quegli intrecci che le organizzazioni criminali stringono con il mondo politico e istituzionale e che consentono una gestione del territorio troppo spesso asservita a interessi di dubbia legalità

Nella prima e nella seconda giornata della scuola di eddyburg abbiamo affrontato, da un punto di vista teorico e storico, le nozioni fondamentali relative alla rendita urbana, focalizzando le conseguenze negative del rapporto degenerato tra i percettori delle rendite e i decisori pubblici. Nella terza giornata proviamo a sviluppare in positivo il ragionamento, a partire da due domande:

- quali strumenti consentono di “contrastare la rendita”, così come scritto nel titolo della scuola?

- verso quali obiettivi e finalità concrete (quale tipo di città) possiamo orientare le trasformazioni urbanistiche, se ci liberiamo del peso eccessivo della rendita?

Per provare a rispondere, riprendiamo alcune indicazioni emerse nella prima giornata.

Salzano e Camagni hanno spiegato i modi in cui si forma la rendita urbana e come essa, negli ultimi 20 anni, si sia trasformata, accresciuta e redistribuita (in quel circolo perverso che ha determinato la “bolla immobiliare”); questa mutazione ha rinsaldato il blocco edilizio rendendo assai problematica la separazione tra profitto capitalistico e rendita, sia per la coincidenza dei soggetti (gli stessi soggetti che producono beni investono nel mattone), sia per l’amplissima base proprietaria che alimenta questo meccanismo (un mondo di piccoli proprietari sostiene sulle proprie spalle, senza rendersene conto, il gigante economico).

Le politiche economiche nazionali incidono sui meccanismi di redistribuzione del sovrappiù che si realizza sul territorio e sulle possibilità di destinarlo ad investimenti duraturi. Una parte dei problemi attiene a questioni direttamente pertinenti al nostro ambito di intervento ed è su queste ultime che ci vogliamo concentrare.

Molto schematicamente, possiamo focalizzare il nostro ragionameno su tre punti:

a. le decisioni e gli interventi sulla città producono rendita ; quest’ultima è ineliminabile nell’attuale sistema economico sociale, ma non incomprimibile; proprio perché consapevoli di questo, abbiamo una grande responsabilità con i piani urbanistici; questi ultimi possono essere concepiti come strumento per produrre rendita (o, più precisamente, investimenti immobiliari), oppure come strumento per rispondere ad una domanda sociale; la differenza non è (solo) etica, ma attiene alle conseguenze sulla qualità della città, della società e dell’economia. A Bagnoli le scelte del PRG (basso indice di edificabilità e consistenti opere pubbliche) hanno determinato un ‘riposizionamento’ verso il basso dei valori immobiliari dell’area nei libri contabili della proprietà. Il minusvalore registrato coincide con la quota di rendita ritenuta inessenziale o dannosa per la collettività. Il caso di Milano è, per ragioni opposte, altrettanto emblematico. Il nuovo piano è palesemente inadeguato a fornire risposte a domanda sociale, ma perfettamente congegnato per produrre rendita: generano metri cubi le aree verdi del parco sud, si prevedono densità elevate all'interno della città (anche sulle aree pubbliche dismesse), è consentita una massima flessibilità per le destinazioni d’uso, come se fossero interscambiabili. In che modo il piano interagisce con la domanda di spazi, effettiva o drogata dalle aspettative che si formano al momento stesso delle decisioni di piano? A quali segmenti intende dare risposta, con quali obiettivi, in termini di ricadute sociali ed economiche? Quale "filosofia" esprime? Se il piano è lo strumento attraverso il quale rendere pubblico questo bilancio tra domanda e offerta, affinché sia verificato e valutato dai cittadini per essere poi assunto dall’amministrazione, ci rendiamo conto dell’importanza che assumono le scelte urbanistiche.

b. Di questa deriva non sono unici responsabili gli enti locali male amministrati: in nome della scarsità di risorse pubbliche, le politiche statali giustificano e incentivano la svendita del territorio e la consegna agli immobiliaristi di decisioni che spetterebbero agli enti locali e allo stato. Con ciò alimentando la rendita e la forza degli immobiliaristi, anziché contrastarle, e - conseguentemente - producendo una città più ingiusta e più brutta. Affinché si possano sviluppare le politiche urbanistiche che riteniamo virtuose (ambientalmente, socialmente ed economicamente) occorre pretendere – a scala nazionale e regionale – modifiche alle leggi e alle politiche di finanza, affinché sia ricostituito un quadro accettabile nel quale le amministrazioni locali possano muoversi. L’esempio mirabile della costituzione spagnola indica la direzione da perseguire nel riequilibrare il quadro giuridico, oggi troppo incerto e sbilanciato a favore degli interessi singoli rispetto a quelli collettivi. Né i silenzi, né le ambiguità possono essere accettabili: socializzare la rendita deve essere ritenuto un diritto per i cittadini e un dovere per le amministrazioni locali. Al contempo, i meccanismi di finanziamento delle politiche locali devono essere profondamente rivisti: da un lato, si tratta di rivedere oneri di urbanizzazione, contributi di miglioria, oneri ‘ambientali’, affinché le trasformazioni si facciano carico di una quota di investimenti pubblici strettamente correlati; dall’altro occorre trasferire risorse alle politiche territoriali e urbane, argomento che riprenderemo;

c. una volta ridefinita la cornice, occorre attrezzarsi per valutare le proposte dei privati sulla base di criteri qualitativi e non su aspetti meramente finanziari (i nuovi quartieri che Maria Cristina Gibelli ed io mostreremo sono radicalmente differenti – nell’organizzazione, nella forma e nelle funzioni – dagli ammassi di condomini, palazzine e capannoni che vengono proposti dagli immobiliaristi nostrani) o meramente formali (i nostri uffici tecnici che cosa valutano, oltre alla conformità giuridica? Fino a che punto, quest’ultimo profilo assorbe tutti gli altri?); una quota della rendita può essere socializzata; lo dimostrano gli esempi che faremo, tutti basati su un rapporto pubblico-privato ricondotto entro un alveo di ragionevolezza: se il piano risponde ad una domanda sociale, è all’amministrazione pubblica che competono le decisioni urbanistiche; fermo restando il profitto del privato nel costruire e rivendere, le rendite possono essere socializzate almeno in parte (attraverso opere pubbliche e realizzazione di edilizia sociale/innovativa…) stabilite mediante accordi e convenzioni; gli esempi che porteremo mostrano che è possibile muoversi in questa direzione (come illustrato da Camagni nelle edizioni passate della scuola, gli oneri accollati ai “developer” a Milano ammontano a meno di 1/10 del valore di mercato, mentre nel modello So.bon ammontano a 1/3);

d. la pretesa che la costruzione della città possa essere interamente delegata al settore immobiliare (project financing) è illusoria; le città richiedono certamente investimenti privati, ma anche una mole consistente e prolungata nel tempo di investimenti pubblici (nelle infrastrutture, nelle reti, nella gestione delle attrezzature, nelle politiche per le persone e i luoghi – cfr. libro Spazi pubblici). Pur rinviando alla prossima edizione della scuola una trattazione più approfondita di questo argomento, dobbiamo (1) togliere alibi alla speculazione edilizia (cfr., nelle letture, i commenti al PTR del Veneto), (2) porci il problema della quantità di risorse e della loro allocazione, ovverosia pretendere maggiore attenzione verso le politiche per le città (altro che chiacchiere sul federalismo) e prendere atto dell’avvenuta “rivoluzione urbana senza un’adeguata rivoluzione istituzionale” (la dilatazione e coalescenza degli insediamenti causa una duplice debolezza, tanto delle iniziative dei comuni maggiori quanto dei tentativi di promozione dell’intercomunalità basati esclusivamente su approcci volontaristici ; la capacità dei nostri territori di esprimere ‘strategie territoriali’ di medio periodo è molto bassa… ecc.).

Quali strumenti consentono di “contrastare la rendita”? Verso quali obiettivi e finalità concrete (quale tipo di città) possiamo orientare le trasformazioni urbanistiche, se ci liberiamo del peso eccessivo della rendita?

Per rispondere a queste domande abbiamo chiesto a Maria Cristina Gibelli di evidenziare le condizioni e gli strumenti entro i quali l’iniziativa privata e il partenariato pubblico-privato posso essere orientati al raggiungimento di obiettivi di interesse generale: riqualificazione delle città, promozione di vivibilità e urbanità, all’attenzione all’ambiente, incremento della coesione sociale.

Nel primo intervento l’attenzione è focalizzata sui modi in cui, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, in Europa, il partenariato pubblico-privato è stato orientato al raggiungimento di obiettivi di rigenerazione economica e fisica, coesione sociale, promozione di vivibilità e urbanità, attenzione all’ambiente.

Nel secondo intervento sono illustrati e commentati criticamente alcuni esiti concreti del partenariato pubblico-privato in Francia, Spagna e Germania, caratterizzati da regia pubblica, trasparenza dei processi e del “quadro contrattuale”, benefici collettivi concretamente valutabili.

In calce le slide delle due presentazioni.

Come sarà la città “resiliente”, ovverosia capace di adattarsi alle condizioni del futuro, in uno scenario post-petrolifero? Piste ciclabili e strade libere dalle auto collegano le case-solari ai negozi, alle aree verdi e ai servizi, oppure ad una fermata del tram per raggiungere un posto più lontano in città. Davanti alla scuola i genitori aspettano in bici o a piedi i loro figli, e non rinchiusi nelle loro auto. È presente un negozio dove gli agricoltori del posto vendono prodotti biologici… Uno stereotipo? Un’utopia? Non esattamente, dato che stiamo descrivendo il quartiere Vauban a Friburgo.

Il quartiere Vauban di Friburgo costituisce un esempio di straordinario interesse. Proprietà pubblica dei suoli, regia complessiva del processo di attuazione (dall'ideazione alla realizzazione), socializzazione degli incrementi di valore del suolo derivanti dall'urbanizzazione, trasparenza dei processi e ampio spazio alla partecipazione, inquadramento delle realizzazioni all'interno di politiche urbanistiche e ambientali unitariamente concepite...

Questi e altri requisiti, peraltro condivisi in molte esperienze di rinnovo urbano e di realizzazione di nuovi insediamenti promosse nel nord Europa, sembrano indispensabili per assicurare che le operazioni di trasformazione delle città assicurino vantaggi per gli abitanti futuri e per tutti i cittadini, e non rappresentino mere occasioni di valorizzazione immobiliare.

In calce le slide di Mauro Baioni.

L'espansione delle città viene sollecitata dai proprietari dei suoli, che si avvantaggiano degli straordinari incrementi di valore connessi con il cambio delle destinazioni d'uso. Riconnettere le scelte della pianificazione ad un’analisi della domanda è il primo passo, fondamentale, per impedire che i percettori della rendita decidano a loro esclusivo vantaggio le sorti della città e del territorio.

Georg Frisch, parlando del PTC di Caserta, ci dimostra - dati alla mano - in che modo la domanda di spazi (se non è artificiosamente sostenuta) può trovare risposte adeguate nella città esistente, senza consumare suolo ulteriore e incentivando la riconversione di aree e di edifici dismessi per destinarli a nuove funzioni. L’arresto della crescita urbana, e della deriva infrastrutturale ad essa strettamente legata, può diventare un obiettivo concreto e praticabile. Nel caso particolare della provincia di Caserta, costituisce un'occasione per il riscatto di un territorio divenuto emblema dei mali peggiori del nostro paese.

In calce le slide della presentazione.

Nell'ambito della prima parte (La rendita) della lezione di Edoardo Sazano (vedi testo) Roberto Camagni ha inserito una serie di commenti, precisazioni e approfondimenti relativi alla rendita urbana, focalizzando l'attenzione sulle conseguenze negative del rapporto degenerato tra i percettori delle rendite e i decisori pubblici.

Gli argomenti trattati sono stati soprattutto:

- La rendita in generale e le condizioni per la sua formazione.

- La rendita urbana, sua ineliminabilità e suo carattere di “reddito non guadagnato” e residuo (non costo) di produzione.

- I meccanismi di formazione della rendita fondiaria in relazione agli interventi pubblici.

- Gli effetti della rendita, della sua mancata socializzazione e della “sottocapitalizzazione” delle città.

- La rendita oggi, il rapporto tra rendita e potere, il finanziamento dei beni pubblici e la tassazione delle rendite.

Camagni ha utilizzato le slides scaricabili qui sotto.

Nell'ambito della lezione a due voci con Piero Bevilacqua, De Lucia ha contribuito a illustrare, le ragioni per le quali la rendita immobiliare è così forte in Italia e le ragioni del consolidamento del cosiddetto “blocco edilizio”, sottolineando le conseguenze della cattura del decisore da parte dei percettori delle rendite in termini di equità sia in termini di efficienza (come testimoniano i problemi insoluti della casa, dei trasporti, dell’ambiente e del lavoro). Si è soffernato soprattutto sulle possibilità del potere politico di dminare, o comunque fortemente ciondizionare, l'incremento e la destinazione della rendita immobioare, riferendosi soprattutto alla fase del fascismo e a quella degli "anni della speranza" (anni 60 e 70 del secolo scorso).

Di seguito una nota su alcuni argomenti trattati, con una bibliografia essenziale.



Appunti per l’intervento alla scuola di eddyburg

sulla rendita fondiaria

La rendita fondiaria quale fattore decisivo della condizione urbana si manifesta pienamente, secondo me, dopo la seconda guerra mondiale mentre, durante il fascismo, era controllata dal potere politico (cfr. P. e R. Della Seta). Non si deve peraltro trascurare che, fino al fascismo, era stata modesta l’espansione urbana e quindi era limitato il campo di applicazione della rendita.

Non disponiamo di dati ufficiali ma penso che debba ritenersi corretta la stima che solo il 10 per cento dello spazio attualmente urbanizzato lo fosse già prima della seconda guerra mondiale (quello più o meno corrispondente ai nostri centri storici)

Nell’immediato dopoguerra, la rendita – ogni forma di rendita – si dilata in tutte le direzioni e sono inesistenti, o comunque inefficaci le azioni di contrasto della pubblica amministrazione. Che, anzi, non di rado, consapevole o meno, agisce a sostegno dei percettori di rendita. Il caso probabilmente più clamoroso è quello dell’Ina-casa, ente che peraltro, fece fronte con efficienza e tempestività (e spesso anche con ottime soluzioni architettoniche) al suo compito istituzionale di costruire alloggi di carattere popolare. Chiarissima in proposito è la descrizione che I. Insolera e G. Marcialis fanno degli interventi Ina-casa sulla via Tuscolana a Roma nei primi anni Cinquanta.

La necessità di un deciso intervento della mano pubblica per abbattere la rendita e realizzare così una consistente riduzione del costo degli alloggi si manifesta con evidenza all’inizio degli anni Sessanta, in occasione dei primi governi di centro sinistra. Ma i risultati sono deludenti, ed è nota la drammatica vicenda del ministro Sullo (E. Salzano).

La riforma del regime dei suoli che non era riuscita a Fiorentino Sullo, anche perché non sostenuta dal consenso popolare, approda invece a concreti risultati nel corso degli anni Settanta, a seguito dei grandi movimenti di lotta per la casa e per una più civile condizione urbana che si erano sviluppati a partire dalla fine degli anni Sessanta. Ma dura poco …

Sono convinto che, dopo l’assassinio (politico) del ministro Sullo, continua ad agire una sorta di sindrome Sullo che induce i politici italiani di ogni schieramento a rifuggire dalle posizioni di autentico contrasto alla rendita. Secondo Antonio Cederna e altri studiosi, la strategia della tensione, che ha inizio con le bombe di piazza Fontana del dicembre 1969, è una risposta al grande sciopero nazionale per la casa del 19 novembre 1969.

Comunque, alla fine degli anni Settanta, il quadro legislativo italiano in materia di urbanistica e di politica abitativa è sicuramente soddisfacente.

Ma proprio all’inizio del nuovo decennio ha inizio la controriforma. La rendita, a mano a mano, recupera le posizioni perdute, soprattutto attraverso:

- nuovi istituti fondati sulla deroga agli strumenti urbanistici

- la crescita vertiginosa dell’abusivismo che devasta le regioni meridionale (tre condoni in 18 anni)

- la scomparsa dell’edilizia pubblica.

Una delle forme più vistose di arretramento della politica urbanistica è il nuovo piano regolatore di Roma, approvato nel 2008 totalmente asservito alla rendita fondiaria, soprattutto attraverso l’invenzione dei diritti edificatori.

Eppure non è impossibile operare scelte in controtendenza, come nel caso del progetto Bagnoli (V. De Lucia).

Bibliografia minima



- Italo Insolera e Giusa Marcialis, L’azione privata, nel numero monografico 100-1002, dicembre 1971, di «Centro sociale», dedicato a La politica della casa in Italia.

- Italo Insolera, L’urbanistica, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti, Einaudi, Torino, 1973, in particolare: Il meccanismo della rendita fondiaria, pp. 436 sgg. e Fine e continuità dell’urbanistica fascista, pp. 480 sgg.

- Piero Della Seta, Roberto Della Seta, I suoli di Roma. Uso e abuso del territorio nei primi cento anni della capitale, Editori Riuniti, Roma, 1988, in particolare: Il piano regolatore del 1909, la tassa sulle aree fabbricabili, le demanializzazioni, pp. 95 sgg. e Il decreto legge 6 gennaio 1941, n.2 e il principio dell’esproprio generalizzato, pp. 129 sgg.

- Vezio De Lucia, La legge urbanistica del 1942, in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Roma, 2001.

- Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica, Editori Laterza, Roma – Bari, 1998.

- Vezio De Lucia, Le mie città, Diabasis, Reggio Emilia, 2010.

- Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, Milano, 2010, in particolare pp. 155 sgg.

L’inverno del 1969, con il grande sciopero nazionale (19 novembre) e l’attentato di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre), è uno dei momenti cruciali della storia del secondo dopoguerra del nostro paese. Nella grande manifestazione viene ribadito con forza il diritto alla casa e si chiede una riforma urbanistica che sottragga le scelte urbanistiche alla speculazione. Il movimento studentesco e quello operaio sembrano, per un attimo, in grado di unire le forze per rivendicare un paese differente, più democratico e giusto. Di lì a qualche tempo sarà approvata la legge sulla casa, ma il profondo rinnovamento richiesto da studenti, intellettuali e mondo operaio verrà impedito con tutti i mezzi, compresi quelli sanguinari.

Le ragioni dello sciopero e il contesto, nazionale e internazionale, sono tratteggiati nello scritto di Oscar Mancini, dirigente sindacale Cgil, che riportiamo di seguito.

Il “biennio rosso” 1968-69

e lo sciopero nazionale per la casa



Lo sciopero generale del 19 novembre ’69 giunge al culmine dell’autunno caldo. Anzi, di una stagione politica, quella del “biennio rosso” 69/69, nella quale irrompono sulla scena le classi subalterne e le nuove generazioni e, qualche anno dopo, una straordinaria rivoluzione femminista.

Un periodo di eccezionale fermento sociale, la più grande stagione di azione collettiva nella vita della Repubblica durante la quale cambiano i rapporti di forza tra le classi sociali e le “opinioni” cambiano i “costumi” degli italiani.

Insomma, l’Italia diventò più libera rispetto al passato. La campagna di deprezzamento, svalutazione quando non di vera e propria denigrazione del 68/69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni ed è funzionale alla liquidazione di conquiste storiche: dal welfare alla privatizzazione dei beni comuni, dal contratto nazionale di lavoro al diritto di sciopero secondo la nuova/vecchia dottrina liberista di Marchionne/Sacconi.

Il movimento del ”biennio rosso” trae origine da cause che possiamo definire”interne” nel senso che rappresentano una peculiarità del nostro paese ma anche da una “matrice esterna”, nel senso che il “68” italiano partecipava ed interagiva con un più generale movimento su scala internazionale che vedeva mobilitarsi la gioventù studentesca di numerosi altri paesi all’est come all’ovest.

Cause “interne”



Il secondo dopoguerra fu un periodo di grandi cambiamenti. L’Italia compì il passaggio da Paese agricolo a Paese industriale e milioni di contadini poveri emigrarono al Nord e all’estero.

Nel ventennio 1951/71 la distribuzione geografica della popolazione italiana subì uno sconvolgimento. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963. Gli anni del cosiddetto “boom economico”. La tendenza migratoria si bloccò brevemente a metà degli anni 60, ma riprese fortemente negli anni 1967/71. In tutto, tra il 1955 e il 1971, 9.140.000 italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali. Le città del triangolo industriale furono naturalmente quelle che esercitarono una maggiore attrazione per questi migranti determinando un massiccio esodo dal mezzogiorno.

Questo flusso improvviso trasformò le grandi città italiane che crebbero a dismisura senza un corrispettivo sviluppo dei servizi. Scuole, ospedali, case, trasporti, tutti beni di prima necessità, restarono parecchio indietro rispetto alla rapida crescita dei consumi privati.

Infine, il “miracolo” accrebbe in modo drammatico il già serio squilibrio tra Nord e Sud.

Per rendere emblematicamente l’idea di quanto drammatico fosse il problema della casa Paul Ginsborg racconta la storia di Antonio, secondo di cinque figli di una famiglia di Bronte, un paese della Sicilia.

Trasferitosi dapprima in Toscana dove lavora in miniera approda a Milano dove trova ospitalità da un cugino con il quale condivide l’unico letto in una piccola stanza così descritta: “con una sola finestra, i vetri rotti, sostituiti da cartone. Accesa la luce, la lampadina era così piccola che la stanza rimaneva in penombra”.

Appena si sentiva pronto, e dopo aver risparmiato un po’ di denaro, l’immigrato chiamava la famiglia a raggiungerlo. Spesso lasciava a casa, in campagna, i propri genitori e li andava a trovare d’estate.

Per la famiglia arrivata al Nord iniziava subito il dramma di trovare una casa dove sistemarsi.

Le città settentrionali erano assolutamente impreparate per u n afflusso così massiccio e le famiglie erano pertanto costrette a vivere, proprio negli anni del “miracolo”, in condizioni estremamente precarie. A Torino, i nuovi abitanti della città, trovarono alloggio negli scantinati e nei solai del centro, negli edifici destinati alla demolizione, in cascine abbandonate dell’estrema periferia.

Ovunque si verificarono atteggiamenti razzisti, e spesso gli appartamenti non venivano dati in affitto ai meridionali, costretti così a vivere quattro/cinque persone per stanza, in un’unica camera divisa da tende e vecchie coperte. Gabinetti e lavandini si trovavano nei corridoi ed erano in comune per una decina di famiglie, almeno 40/50 persone.

Benché quello della casa fosse il problema più drammatico non era l’unico. L’assistenza sanitaria era inadeguata, e nelle scuole i bambini erano costretti ai doppi e tripli turni. Queste condizioni favorirono l’emergere di un diffuso razzismo verso non solo i “terroni”ma anche verso i veneti “polentoni”.

In una prima fase anche il lavoro era elemento di divisione. Molti immigrati trovavano lavoro attraverso pseudo-cooperative che rifornivano le fabbriche di manodopera a basso costo. Si trattava di uno dei classici sistemi per dividere i lavoratori, dal momento che gli operai settentrionali vedevano minacciato il loro potere contrattuale da questi “terroni” che facevano lo stesso lavoro per solo un terzo del loro salario. Quando queste sedicenti cooperative, in seguito ad una lotta sindacale, furono messe fuorilegge e nel tempo si unificò il mercato del lavoro la fabbrica divenne uno straordinario luogo di socializzazione e di costruzione di quella forte solidarietà di classe che diede origine alle lotte dell’autunno caldo.

Anche perché, all’interno delle fabbriche, nel frattempo, molte cose erano mutate. La grande ristrutturazione, seguita alla crisi del 64/65 aveva portato ad una maggiore meccanizzazione, all’uso diffuso della catena di montaggio e all’applicazione tayloristica del lavoro: quindi mansioni parcellizzate e aumento dei ritmi di lavoro.

“L’operaio massa divenne così” divenne così il soggetto sociale centrale del biennio rosso che prese avvio il 19 aprile 1968 a Valdagno con l’abbattimento della statua del Conte Marzotto.

Le basi materiali dell’esplosione della protesta nelle Università devono essere invece rintracciate nelle riforme degli anni sessanta.

Con l’introduzione della scuola media dell’obbligo, per la prima volta si era creato un sistema di istruzione a livello di massa che apriva nuovi orizzonti a migliaia di ragazzi dei ceti medi e della classe operaia. L’accesso alle facoltà scientifiche era stato aperto anche agli studenti provenienti dagli istituti tecnici.

In poco tempo la popolazione universitaria quasi raddoppiò entrando in un sistema che era già in avanzato stato di disfunzione.



La “matrice esterna”



Il movimento che nel sessantotto si sviluppò su scala internazionale puntava a sovvertire valori ormai in crisi, propri dell’equilibrio del secondo dopoguerra, che aveva sorretto le motivazioni della guerra fredda e del rapporto tra il Nord e il Sud del pianeta.

Pensiamo al processo di decolonizzazione e alla guerra di liberazione condotta dai Vietcong, i quali, proprio il 31 Gennaio del ’68, primo giorno del Tet, il capodanno buddista, iniziarono un’offensiva che li porterà fino ad assediare l’ambasciata statunitense a Saigon.

Per darvi un’idea del clima di quegli anni, consentitemi un ricordo personale. Il 27 Febbraio del ’69 la visita in Italia del presidente Statunitense Richard Nixon, responsabile dei bombardamenti al napalm contro la popolazione vietnamita, provoca grandi manifestazioni a Roma al grido “ Nixon boia go home “ e “ la Nato sarà il nostro Vietnam “.

Ho ancora negli occhi i caroselli delle camionette della polizia lanciate contro di noi in piazza Esedra, l’emozione per la morte dello studente Stefano Congedo che precipita da una finestra di Magistero nel tentativo di sfuggire ai fascisti e l’arresto, che anch'io subii a notte fonda, insieme ad altri 200, su un tetto di fronte a Palazzo Chigi dove ci eravamo rifugiati per sfuggire alle manganellate dei poliziotti.

Alcuni storici sostengono che “l’autunno caldo” è figlio del “Maggio” Francese e che esiste una “ liaison” tra il “Maggio ‘68” e la “Primavera di Praga”. Ma tutti sappiamo che queste due storiche pietre miliari durarono appena “l’espace d’un matin”.Entrambe crollarono sotto gli attacchi della polizia e l’invasione dei carri armati Sovietici, condannata non solo dalla C.G.I.L. ma anche dal PCI.

Cosicché il generale De Gaulle poté dichiarare. “La chienlit est finie” ( la baraonda è finita) e il Rude Pravo poté scrivere: ” L’ordine regna a Praga”. In sostanza quegli eventi furono bloccati e finirono non soltanto troppo presto ma troppo male.

Questo non fu il caso dell’autunno caldo Italiano che non chiuse ma piuttosto aprì un periodo di profondi cambiamenti nel sistema sociale italiano, una nuova era per un’intera generazione di giovani, di lavoratori, d’intellettuali.

Perché in Italia il processo sociale e l’ondata politica che partirono con il ‘68/’69 furono così lunghi? Essi, infatti, scavarono in profondità lasciando un’eredità importante che si proietterà nel corso di tutti gli anni ’70. La sconfitta sindacale alla Fiat nel 1980 ( anche allora la Fiat) fu un segno che tutta un’era veniva finendo e apriva la strada al rampantismo craxista.

Una ragione non secondaria che spiega la durata è, come scrive Asor Rosa che “solo in Italia – solo in Italia in tutto il mondo – movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente, tendendosi la mano”.

Vi contribuì certamente l’apertura che il PCI, a differenza del PCF, manifestò nei confronti del movimento studentesco. A differenza di Giorgio Amendola che auspicava una “battaglia su due fronti”, contro il potere capitalista e contro l’estremismo studentesco, Luigi Longo – il segretario – riconosceva che il movimento studentesco “aveva scosso la situazione politica ed era stato largamente positivo nell’indebolire il sistema sociale italiano”.

Ma vi contribuì ancor più la CGIL e massimamente i sindacati dei metalmeccanici della FIOM CGIL e della FIM CISL. Un tipico slogan della CGIL durante il 69 era stato: “portare la rivendicazione operaia nel cuore della società”. Sfortunatamente il maggior partito dei lavoratori non portò se stesso nel cuore dello Stato. A impedirlo intervennero le ovvie resistenze in campo moderato ma anche il terrorismo e l’uccisione di Aldo moro per opera delle BR. Un classico esempio di eterogenesi dei fini.

La rivoluzione sociale



Tuttavia pur in un quadro così complesso e contrastato furono anni di autentica rivoluzione sociale. Una grande massa di operai, giovani e in gran parte ex braccianti e contadini poveri pervenivano per la prima volta ad una visione del mondo ed acquisivano una coscienza di classe. Non chiedevano solo più salario, ma esprimevano una domanda nuova di dignità, di libertà della persona, di cultura ( meno ore di lavoro e più formazione).

Grandi furono le conquiste. Il 1969 si apre con due successi storici per il mondo del lavoro: la chiusura della vertenza sulle pensioni e sulle “gabbie salariale”; termina il 21 dicembre con la conquista del contratto dei metalmeccanici dopo un’aspra vertenza durata oltre quattro mesi.

Si sancirono per la prima volta le 40 ore di lavoro, aumenti salariali uguali per tutti, vincoli al lavoro straordinario, diritto di assemblea, riconoscimento dei Consigli di Fabbrica come agenti contrattuali, riduzione delle differenze tra operai e impiegati a partire dal trattamento di malattia etc.

Questo esito era stato preparato da una varietà di lotte in tanti luoghi di lavoro dai contenuti e dalle forme del tutto originali che aveva preso avvio ancora il 19 Aprile del 68 con l’abbattimento della statua del conte Marzotto a Valdagno:

per la difesa della salute contro la monetizzazione dei rischi;

per il riconoscimento di forme di democrazia diretta a livello di unità produttiva: l’assemblea e il Consiglio di Fabbrica eletto su scheda bianca a livello di reparto, di linea, di squadra;

per il controllo degli organici e la riduzione dei ritmi di lavoro;

per aumenti salariali indipendenti dal rendimento e contro il cottimo;

per la settimana di 40 ore;

per la parità di trattamento tra operai e impiegati.

Queste rivendicazioni si accompagnarono comunque a lotte più generali. Dopo i successi conseguiti sulle pensioni e il superamento delle gabbie salariali un’altra grande conquista si realizzò l’anno successivo con l’approvazione da parte del Parlamento dello “Statuto dei lavoratori” (legge 300/70). Per la prima volta, come si disse allora, la Costituzione entrava in fabbrica. La legge tutelava la libertà e la dignità del lavoratore riconoscendogli la libertà d’opinione, la tutela della salute, il diritto al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa e venivano riconosciuti i principali diritti sindacali.

Dovremo invece attendere il dicembre del ’78 per vedere entrare in vigore la legge che istituiva il servizio sanitario nazionale che garantiva per la prima volta in Italia, l’assistenza gratuita e diretta a tutti i cittadini.

La vertenza casa



E’ in questo contesto che il 19 Novembre del ’69 il sindacato – al singolare come si diceva allora per sottolinearne il carattere unitario – cioè CGIL CISL UIL, proclamarono uno sciopero generale con manifestazioni in tutte le province che riscosse un grande successo di partecipazione.

Si avviarono subito complicate trattative con il governo che durarono per tutto il 1970/71.

Le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbanistica erano ben più forti che all’epoca di Sullo e del primo centro-sinistra ma le resistenze alla riforma erano sempre forti.

Che cosa rivendicavano le tre Confederazioni? La piattaforma inviata al governo nel settembre del 69 richiede una “politica organica della casa” fondata su un “consistente e sistematico intervento pubblico” per assicurare “a tutti i cittadini condizioni abitative adeguate ad un livello civile di vita collettiva”. In che cosa consiste un’organica politica della casa? Innanzitutto nella “realizzazione di progetti di urbanizzazione entro cui dovrebbe operare l’ente pubblico per la casa” comprensivi “non solo delle abitazioni, ma dei servizi civili e delle infrastrutture di comunicazione necessarie”. In sostanza i sindacati dei lavoratori con questa piattaforma non intendono che siano soddisfatti soltanto i “meri bisogni abitativi” ma anche quelli più generali che riguardano le condizioni civili, “i grandi servizi pubblici relativi alla scuola, alla salute, all’utilizzazione del tempo libero e alla ricostruzione di un tessuto associativo di vita dei quartieri e delle città”. Non sfugge alle Confederazioni che tale progetto “richiede e pretende l’emanazione di una nuova legislazione urbanistica che deve regolare il regime delle aree urbane attraverso il diritto di superficie e l’esproprio generalizzato”. Vi è dunque la consapevolezza che il diritto alla casa per affermarsi deve “tagliare le unghie alla rendita” attraverso un diverso regime dei suoli e che l’intervento pubblico è indispensabile anche attraverso “una politica sociale della casa che fa gravare una quota del costo delle abitazioni sulla collettività e ne rapporta il prezzo alle disponibilità di reddito dei lavoratori”. Ne consegue che “le abitazioni restano di proprietà dell’ente pubblico che le cede in locazione alle famiglie secondo criteri di politica sociale”. Gli otto punti della dettagliata piattaforma individuano anche obiettivi immediati come “il blocco degli affitti e dei contratti di locazione per un periodo di tre anni” e individua gli strumenti e i criteri per “il reperimento dei mezzi finanziari” attraverso una “riforma tributaria” fondata su un sistema fiscale “realmente progressivo, che colpisca più duramente chi più ha, che non lasci le porte aperte ai grandi evasori, che realizzi cioè il disegno delineato dalla nostra Costituzione”.

E’ dunque una piattaforma, quella al centro dello sciopero generale del 19 Novembre del ’69, fondata su una strategia che ricerca, come si scrisse allora, “soluzioni generali e non particolari condizioni di privilegio corporativo”. In sostanza quello sciopero rivendicava “un diverso sviluppo economico, sociale e politico dell’intera società nazionale”. Per questo ebbe tanto successo.

Le basi del lavoro gettate dal primo gruppo di relazioni (quelle di Somma, Baioni, Marson, Gibelli) sono state davvero utili. Gli interventi delle camere del lavoro si sono riferiti ai temi trattati, sottolineandone questo o quell’altro aspetto sulle base delle concrete esperienze di lavoro. Ringraziamo tutti gli amici ce le hanno svolte e anno lasciato un materiale utile ai partecipanti, e non solo a loro. Per me è stata particolarmente interessante la serie degli interventi delle Camere del lavoro, poercè mi anno dimostrato quali frutti stia cominciando a dare il lavoro avviato dalla CGIL nel 2006, con l’iniziativa del seminario a Montesole. E mi sembra ce dagli interventi siano venute indicazioni sulk lavoro da fare n(sulle difficoltà incontrate, su nuive esperienze di coinvolgimento dei lavoratori e degli altri cittadini e abitanti, di esplorazione delle farie facce dell’organizzazione del territorio, sui conflitti e sui modi di gestirli. Far comunicare tra loro queste esperienze mi sembra un risultato molto utile di incontri come questo.

Naturalmente – e questo lo sapevamo in partenza – non abbiamo affrontato tutti gli argomentoi ce si pongono. E ce n’è uno ce è emerso dal dibattito e sul quale vorrei brevemente soffermarmi. É un tema importante, è un anello necessario nelle trasformazioni del territorio: quelle negative come quelle positive: le Imprese. Evocava il tema Alboresi, nel suo intervento di stamattina, quando parlava della necessità di “coinvolgere le associazioni d’imprese”; e vi accennava Pivanti, quando criticava il ruolo della cooperazione nella contrattazione delle scelte urbanistiche.

Mi veniva in mente un episodio significativo di molti anni fa. Roma, 1970, il sindaco Luigi Petroselli costruì un trasparente accordo con le imprese edilizie della capitale, che accettarono – per dirla schematicamente – di abbandonare la rendita per puntare solo al profitto. Accettarono di impegnarsi in una grande operazione di costruzione di edilizia pubblica e sociale lavorando sulle aree del Peep, previamente espropriate. Erano anni molto diversi da quelli di oggi. Allora erano i fratelli Agnelli, Gianni e Umberto, padroni della Fiat e di molto altro, che dichiararono che occorreva combattere la rendita fondiaria. Avevano compreso che la rendita è letale per la città, aumenta il prezzo della casa, accresce la congestione, incide sul costo della vita dei lavoratori e quindi sollecita fortemente le rivendicazioni salariali: se il salario spinge e devo cedere qualcosa, per non ridurre il profitto devo spingere a ridurre la rendita.

Tempi molto lontani dai nostri. Allora nella sinistra (e non solo) la distinzione tra salario, profitto, rendita era ben chiaro. Così il carattere parassitario della terza componente del reddito, e quindi la necessità di contenerla e ridurne gli effetti. La rendita non può essere eliminata da ciclo economico, dicono gli economisti. Ma può essere ridotta o accresciuta dalle politiche urbanistiche, e si può ottenere che una parte consistente di essa torni alla collettività – le cui decisioni e i cui investimenti la generano. Oggi, anziché proporsi di combattere l’appropriazione privata della rendita e ridurne il peso, la si considera (da parte di tutte le forze politiche dalla destra al centro ex sinistra) come un “motore dello sviluppo”. Ma la tendenza si può invertire, i danni del “briglia sciolta agli immobiliaristi” sono ormai evidenti.

Collegato a questo tema ce n’è un altro che è stato evocato: la questione delle risorse. Ragionare le sulle risorse è certamente necessario. Ma io non accetto che si dica “non possiamo fare i Peep, non possiamo espropriare le aree perché non ci sono risorse”. Non è vero. Le risorse ci sono per salvare le banche (e la cosa può avere una sua ragionevolezza), per realizzare opere inutili o assolutamente non prioritarie (pensiamo al ponte sullo stretto di Messina a livello nazionale, e al veneziano ponte di Calatrava a livello locale). Non è ammissibile che non ci siano per acquisire le aree necessarie per l’edilizia pubblica.

Ma veniamo al punto più importante delle conclusioni di un evento come questo bellissimo convegno (e ringrazio ancora molto tutti quelli che sono intervenuti, e la Camera del lavoro di Venezia che lo ha organizzato). Mi sembra che siano emersi temi da approfondire, con successive iniziative analoghe a questa, e azioni che si possono condurre.

I temi. Oscar Mancini proponeva di lavorare nell’immediato su due argomenti:

1. La casa, che è indubbiamente – oltre che un’emergenza – un nodo rilevante di quel complesso di temi che stanno all’interno di quello del diritto alla città. Quasi tutti gli interventi lo hanno ripreso, avanzando anche proposte interessanti (come quella di rilanciare la cooperazione a proprietà indivisa, come ricordava Pivanti). Nell’approfondire la questione abitativa, come qualsiasi altra questione, continueremo a non perdere di vista l’unitarietà delle questione urbana e delle politiche necessarie per ciascun suo aspetto.

2. I servizi pubblici, questione sollevata tra gli altri da Guietti, che costituisce un aspetto generalmente trascurato delle politiche urbane, e che invece è un tema centrale se si vuole che la città non sia una merce e che l’uguaglianze di tutti gli abitanti sia un requisito fondamentale da raggiungere. La battaglia contro la privatizzazione dell’acqua coglie uno dei settori che si vogliono sottrarre alle regole dei beni comuni, ma non l’unico.

Le azioni. Mi sembra che dagli interventi delle Camere del lavoro siano emerse esperienze di grande interesse, tutte ispirate a una visione nuova del sindacato. Un sindacato che si costituisce come cerniera tra il lavoro e gli abitanti della città e del territorio (Chiloiro). Un sindacato che utilizza i Consigli di zona e la Lega dei pensionati per conoscere il territorio, spiegarlo ai suoi abitanti, agire, mobilitare su di esso, senza timore di affrontare i temi caldi del rapporto tra popolazione indigena e immigrati (Pivanti, Alberini). Un sindacato che pretende di discutere i bilanci comunali e che si attrezza per spiegare ai cittadine quale truffa i governanti compiono quando fanno credere di regalare un nuovo ospedale e nascondono il prezzo che i cittadini pagheranno per la sua realizzazione (Castagna). Un sindacato che sa rivendicare la necessaria coerenza delle azioni sul territorio (Alboresi) e sa che “non c’è idea rifondativa della città se non sostenuta da un’idea di pianificazione contro la deregulation urbanistica” (Castronovi). Un sindacato che perciò non chiede di discutere il piano regolatore per dire la sua su questa o quest’altra previsione (come a Carpi), ma per capire a favore di chi è fatto, per quale tipo di sviluppo è disegnato, quali interessi serve e quali colpisce.

E mi sembra che sia stata giustamente sottolineata dalle esperienze la funzione educativa del lavoro compiuto sul territorio. L’informazione che viene ammannita è deforme, travisa la verità, nasconde le cose, gli interessi, le ricadute delle proposte di governo. Occorre far capire, negli interventi proposti e praticati nella città e nel territorio, chi paga e chi guadagna, come hanno fatto a Padova. Altrimenti chi combatte la mercificazione della città rimane in minoranza. Ferron raccontava che la vicenda della lotta contro la centrale termoelettrica di Montecchio Maggiore, che ha visto la CGIL promotrice del coinvolgimento di larghi strati della popolazione, a indotto i cittadini a cambiare lo sguardo verso il territorio ma supera l’atteggiamento che dal fatalismo (non si possono cambiare le cose), passa alla delega, e poi si trasforma in mugugno.

Il primo obiettivo, immediato, è rendere noto il lavoro che abbiamo fatto, e quello che c’è dietro, che qui è emerso: il lavoro compiuto dalla Camere del lavoro della CGIL. Cominceremo a farlo con gli atti del convegno, che Chiloiro si è impegnato a pubblicare tempestivamente (non appena tutti avranno mandato il testo del loro intervento). Del resto è un modo per raggiungere l’obiettivo che lui stesso proponeva. “fare della CGIL un luogo di riflessione, verifica, critica, proposta per uscire dal neoliberismo, luogo positivo per vivere la cittadinanza in tutte le sue dimensioni”.

A Scandicci, il gruppo industriale Electrolux decide la chiusura del proprio stabilimento. Respinta ogni tentazione di cambiare la destinazione d’uso, il capannone e le aree mantengono il loro valore strumentale per la produzione industriale. Grazie alla azione decisa degli amministratori, dei cittadini e del sindacato si punta ad una riconversione produttiva, salvaguardando gran parte dei posti di lavoro. Un nuovo imprenditore rileva lo stabilimento e, al posto dei frigoriferi, nella fabbrica che ha ripreso a funzionare si producono pannelli solari e fotovoltaici.

A Milano, il gruppo industriale Innocenti-Sant’Eustachio è entrato in crisi diversi anni fa, passando di mano in mano. Nel frattempo i suoli hanno cambiato destinazione e proprietari ed è stata promossa la costruzione di un nuovo quartiere, residenziale, commerciale e direzionale. La fabbrica è diventata un intralcio da rimuovere al più presto: tra rendita immobiliare (certa e consistente) e profitto industriale (incerto e limitato) non c’è partita. Solo la resistenza eroica – davvero non vi sono altri aggettivi per definirla – di quattro operai ha cambiato, per ora, il destino dello stabilimento.

Nelle slide presentate al corso "Ma dove viviamo", organizzato da Cgil e eddyburg.it, sono riassunte le fasi salienti delle due vicende, sulle quali non pare superfluo riflettere, non fosse altro perché – in molte altre parti d’Italia – vicende analoghe si stanno svolgendo senza avere gli onori delle cronache televisive e l’attenzione della stampa nazionale.

A conclusione della V sessione della Scuola di eddyburg (2009), l'11 settembre sono stati premiati Carla Maria Carlini, Oscar Mancini e Maria Paola Morittu.

Il premio è stato assegnato per la continuità, la diligenza e la disponibilità con cui hanno frequentato tutte le edizioni della Scuola estiva di pianificazione, hanno contribuito ad arricchire il patrimonio informativo e a stimolare il pensiero critico dei partecipanti, e hanno promosso la diffusione delle posizioni di eddyburg nelle aree geografiche e culturali frequentate da ciascuno di loro.

Il premio è stato consegnato da Mauro Baioni ed Edoardo Salzano. Qui sotto alcune immagini.


Mauro, Eddy, Oscar


Eddy, Carla, Oscar, Maria Paola



L'espansione delle aree urbane o industriali nella campagna circostante, in modo disorganizzato e privo di qualità. Possiamo tradurre così l'espressione urban sprawl.

Nelle diapositive della prima presentazione effettuata il 29 settembre scorso, attraverso alcune immagini, dati e carte, si illustrano alcune caratteristiche essenziali del disordine urbanistico in Veneto.

Per contrastare il disordine urbanistico, arrestare il consumo di suolo e promuovere la riorganizzazione degli insediamenti esistenti, la pianificazione territoriale provinciale e il coordinamento dei comuni andrebbero rafforzati. La legge urbanistica regionale consentirebbe tutto questo, se solo si volesse seguirne i principi e utilizzarne gli strumenti in modo appropriato.

Nelle diapositive della seconda presentazione, alcuni concetti chiave e i lineamenti essenziali della legge urbanistica regionale del Veneto.

In allegato i due file in formato .pdf compresso (immagini a bassa risoluzione).

In allegato la presentazione della lezione.

In allegato la presentazione, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione).

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