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CAGLIARI. Zack. Il referendum per dire no al Ppr non si farà. Richesta bocciata per la seconda volta. Piange, la Cdl, furiosa contro i vincoli del piano urbanistico. «E’ inammissibile», decreta l’Ufficio regionale che deve valutare se è il caso di ricorrere alla consultazione popolare per cancellare una legge. Vanno in fumo 24.139 firme: tante ne aveva raccolte in un paio di settimane il centrodestra capitanato da Mauro Pili che proprio ieri sera - sentendo odore di bruciato - si è autoconsegnato al direttore del carcere di Buoncammino per protestare contro quello che lo stesso deputato definisce «il bavaglio dei sardi». Renato Soru non commenta, neanche sotto tortura, ma non è peregrino ipotizzare che ieri sera il governatore abbia brindato.

La ghigliottina sulla seconda richiesta di referendum sul Piano paesaggistico è stata azionata ieri pomeriggio, poco prima delle cinque.

Sotto la presidenza di Gian Luigi Ferrero, i componenti Vincenzo Amato, Silvio Ignazio Silvestri, Enrico Passeroni e Fulvio Dettori, con l’assistenza del segretario Carlo Sanna, l’Ufficio regionale ha ritenuto di non dover ammettere la richiesta di referendum abrogativo della delibera varata dalla giunta regionale il 5 settembre dell’anno passato, quella con cui è diventato operativo il Piano paesaggistico regionale.

Da che cosa è originata l’inammissibilità? La spiegazione è contenuta in una decina di pagine in cui si fa un diretto riferimento a un orientamento della giurisprudenza in materia di referendum. Senza usare termini giuridici, la sostanza del rifiuto è abbastanza semplice. Si parte dall’assunto che il Piano paesaggistico «è un atto particolarmente articolato, che contiene disposizioni eterogenee e in gran parte differenziate, senz’altro non riconducibili a un unico principio ispiratore».

Ebbene, secondo le argomentazioni dell’Ufficio regionale, «la richiesta di referendum non può essere ammessa in quanto essa si ricollega alla delibera della giunta nella sua totalità, fatta attraverso un quesito unitario nonostante la pluralità e non omogeneità della materia in discussione». E ancora: «Il cittadino si troverebbe nell’impossibilità di esprimere liberamente il suo voto su argomenti e disposizioni del tutto diversi». Insomma, i componenti dell’Ufficio sono convinti che non si possa - con un «sì» o con un «no» (queste sono le uniche opzioni) - valutare nel suo complesso una normativa così complessa e articolata come il Piano paesaggistico.

«Il quesito - si argomenta ancora da parte dell’Ufficio del referendum - non consente di differenziare la valutazione sull’abrogazione o la conservazione della disciplina sulla fascia costiera, sulle aree naturali, sulle aree agro-forestali, sul sistema dei parchi» e via elencando.

A corredo del parere negativo, l’Ufficio presieduto da Gian Luigi Ferrato infine precisa che «l’accertata inammissibilità della richiesta referendaria comporta che non si deve provvedere agli ulteriori adempimenti imposti dalla legge regionale nuero 20».

Quest’ultima, ha tutta l’aria di un’ulteriore mazzata nei confronti del centrodestra che, all’inizio del 2007, per impulso di Mauro Pili ma anche dell’intero gotha della Cdl sarda, aveva deciso di riorganizzare una raccolta di firme per abolire la legge sul Ppr, definito a più riprese uno strumento che «blocca lo sviluppo della Sardegna, e favorisce importanti speculazioni immobiliari». Pili e soci avevano comunciato a girare la Sardegna e in un paio di settimane avevano raccolto oltre 24mila firme. Il numero minimo era di diecimila, ma, dopo la bocciatura di una prima richiesta di referendum, la Cdl aveva pensato bene di prendersi il sicuro, anche in previsione di quanto poi avrebbe previsto la Statutaria che ha innalzato il tetto a 15mila firme. Lo scorso 6 febbraio, poi, una folta delegazione dei partiti d’opposizione aveva depositato nella cancelleria della Corte d’Appello di Cagliari 24 faldoni azzurri contenenti ognuno mille firme. Subito dopo, in una conferenza stampa, gli esponenti dell’opposizione non si erano risparmiati nel contestare in maniera ancora più feroce la politica urbanistica, caratterizzata da vincoli bloccasviluppo, della giunta.

Non è azzardato, dopo quest’altra bocciatura, prevedere che da oggi, convinta che il referendum avrebbe cassato il Ppr, si mobiliti un’altra volta. E magari segua l’esempio di Mauro Pili, autorinchiusosi a Buoncammino.

CAGLIARI. «La tutela del territorio non blocca le attività economiche e, anzi, garantisce sviluppo e occupazione». Lo ha detto il vice premier Francesco Rutelli nel firmare ieri, con Renato Soru, il protocollo d’intesa sul Piano paesaggistico. Nella sua qualità di ministro dei Beni culturali Rutelli ha assicurato «collaborazione con lealtà e amicizia». E come ministro del Turismo ha affermato che è la strada giusta «per allungare la stagione». Prima di inaugurare a Villanovaforru la mostra precolombiana, Rutelli ha anche «approvato» le scelte della Regione su Tuvixeddu.

Accompagnato dal deputato Paolo Fadda e perennemente circondato dai dirigenti e consiglieri regionali della Margherita, Rutelli è stato protagonista di cinque ore sarde particolarmente intense prima di rientrare nella capitale per l’incontro del governo Prodi con la Chiesa. Proprio in vista del delicatissimo appuntamento, il vicepremier, pur con cortesia, ha accuratamente evitato di rispondere alle domande dei giornalisti sulla situazione politica italiana: «Oggi, per fortuna, qui parliamo di cultura».

L’arrivo poco prima delle 10 nella presidenza della Regione, dove ad attenderlo c’erano Renato Soru e gli assessori Gian Valerio Sanna e Luisanna Depau. Dopo un breve incontro nell’ufficio del presidente, la cerimonia della firma si è svolta davanti a giornalisti e telecamere, in sala giunta. Il protocollo d’intesa ha diversi obiettivi: semplificare le procedure di cui sono responsabili gli uffici nazionali e quelli regionali (non più semplicemente delegati dallo Stato), prevedere forme di collaborazione attiva, programmare verifiche e aggiustamenti alle normative.

Il presidente Soru ha sottolineato «con orgoglio» che la Regione sarda «è la prima ad avere approvato il Piano paesaggistico e quindi la prima a firmare l’intesa». Rutelli non ha certo faticato a dargli atto di un lavoro «denso e importante che ha impresso una svolta nella tutela del paesaggio». E’ «una sfida straordinaria e coraggiosa», anche «per situazioni pregresse che hanno compromesso lunghi tratti di costa». A questo proposito, auspicando che la svolta avvenga anche nelle altre zone del Paese, Rutelli ha affermato che «in Italia si discute molto di opere pubbliche per la grande viabilità, mentre su quelle dovremmo essere più veloci per essere più cauti sulla cementificazione».

Che non riguarda solo le coste, come ha fatto notare lo stesso Soru citando il caso cagliaritano dei colli di Tuvixeddu e Tuvumannu. Rispondendo una domanda su dilemma tutela-lavoro a proposito del rischio licenziamenti per il blocco dei cantieri edili, Rutelli ha detto che «si possono trovare giuste soluzioni con espropri e compensazioni». E ha citato la storia dei «sassi» di Matera: «Quarant’anni fa erano il simbolo di un’arretratezza millenaria, tanto da essere scelti da Pier Paolo Pasolini come scenario fedele della Palestina di Gesù Cristo, oggi quelle case salvate e risanate valgono quattromila euro a metro quadro e nel centro abitato ci sono ancora i residenti, che hanno trovato occasioni di lavoro». Per dire che «la tutela porta anche vantaggi economici». Soru ha quindi voluto chiarire: «La necropoli punica è come la reggia di Barumini: non si può consentire che venga coperta da palazzi. E poi non blocchiamo tutto, i lavori nella vasta area riprendono, abbiamo detto no solo alla costruzione di alcuni edifici».

Il passo al programma sul turismo è stato breve: «L’Italia non è solo Roma, Firenze e Venezia, diciamo no al turisdotto che collega frettolosamente e superficialmente questi tre centri per vedere pochi monumenti e andare via. L’Italia, e la Sardegna in particolare, ha enormi potenzialità nei suoi edifici, nei suoi monumenti e nel suo territorio». Quindi «tutela e valorizzazione» sapendo che «si può trasformare il territorio con interventi mirati».

Prima del trasferimento a Villanovaforru, Rutelli ha dedicato dieci minuti alle associazioni ambientaliste sul caso Tuvixeddu-Tuvumannu. Particolarmente felice Vincenzo Tiana (Legambiente), che ha consegnato un dossier al vicepremier. «Il suo sostegno - ha detto Tiana - può essere decisivo».

Nel Museo del Territorio, tra Villanovaforru e Villaurbana, dove ha inaugurato una mostra precolombiana di grande suggestione, Rutelli ha detto di essere rimasto «affascinato dalle colline delle Marmilla». Dove hanno messo gli occhi operatori italiani (tra cui l’ex dirigente Fiat Paolo Fresco) e irlandesi vogliono realizzare centinaia di residenze di lusso e campi da golf. L’occasione ha consentito al vicepremier e ministro di sottolineare l’importante del rapporto tra il turismo e la cultura: «L’Italia e la Sardegna - ha ribadito - non possono non puntare sulla qualità». L’accento è stato messo non solo sul Museo (volàno autentico dello sviluppo di questa zona) ma anche sul recupero dei centri storici avviato venticinque anni fa da quattro sindaci-pionieri, tra i quali soprattutto Giovanni Pusceddu, del Consorzio Sa Corona Arrubia.

A Villanovaforru Rutelli è stato raggiunto dai parlamentari nuoresi Antonello Soro, che per primo gli aveva parlato del Museo del Territorio, e Salvatore Ladu. C’era anche tutto il gruppo della Margherita in Consiglio regionale, convocato da Antonio Biancu per una riunione con il leader nazionale. L’appuntamento politico, in vista dei congressi, è invece saltato a causa del poco tempo a disposizione.

Ed è stato parzialmente sacrificato anche il pranzo ufficiale nel rifugio della seggiovia. Rutelli ha fatto appena in tempo ad assegiare gli antipasti e un primo di «lorighittas» perché a un certo punto è stato prelevato dall’infaticabile Paolo Fadda: «Ci aspettano qui vicino, a Collinas, per farti vedere il presepio artistico. E’ bellissimo, non l’hanno disfatto per te. Ci vorranno cinque minuti in tutto». Rutelli, che da buon romano ha la passione del presepe, non si è fatto pregare. La visita nel piccolo paese in festa è durata un po’ di più. Quindi la frettolosa partenza per Roma, a parlare (purtroppo o per fortuna) di politica.

Postilla

È utile precisare il protocollo firmato dal Ministro e dal Presidente non ha ancora gli effetti di quello di cui all’articolo 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e in particolare non provoca gli snellimenti procedurali annunciati da Rutelli. Infatti l’intesa di cui alla legge deve essere firmata anche dal Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, e gli snellimenti procedurali vi saranno quando i comuni avranno adeguato i loro strumenti al PPR, esteso all’intero territorio regionale. Una intesa, quindi, eminentemente politica, come quelle firmate con la Toscana e con il Friuli – Venezia giulia.

Con una sola differenza, peraltro rilevante: in Sardegna il PPR c’è, ed è vigente: per ora, almeno per gli ambiti costieri. E la sua tutela è immediatamente operante.

CAGLIARI. Dopo la strada da 31 milioni di euro che doveva attraversare il valico nella necropoli di Tuvixeddu sull’asse ovest-est e arrivare fino alla sopralevata per l’aeroporto, la Regione cancella con una delibera un filare di palazzi di cinque piani progettati lungo la via Is Maglias per un totale di 75 mila metri cubi. Lo strumento per arrivare al risultato di lasciare a Cagliari quel che resta della sua caratteristica di «città di pietra e di acqua» saranno gli espropri, possibili secondo l’articolo 96 del codice per i beni culturali varato dal ministro Urbani. I soldi per l’operazione verranno ricavati dalla Finanziaria di quest’anno dove, annuncia l’assessore ai Lavori pubblici Carlo Mannoni, sarà previsto un fondo «per gli oneri relativi agli espropri ex articolo 96». Inoltre «al momento della contrattazione, la giunta può proporre degli scambi». Dalla lettura della delibera si comprende che non è un intervento cieco: la difesa dal cemento del costone sopra la via Is Maglias e del varco conosciuto come canyon, suggestiva risultanza dell’attività di cava, è uno dei tasselli del «parco di Karalis», l’operazione ambientalista promossa con il piano paesistico regionale. La delibera mette ancora una volta in chiaro la volontà della giunta regionale di rileggere l’accordo di programma firmato nel 2000 tra Coimpresa (la ditta titolare della lottizzazione), il Comune e la Regione secondo la formula del piano integrato d’area (pia) «Cagliari 17 - Sistema dei colli». Come è noto, la giunta è andata oltre ogni aspettativa ecologista: finora le costanti polemiche sulle costruzioni a bordo di necropoli contestavano la quantità di volumetrie e in qualche caso la loro posizione ma sempre in relazione alla presenza di tombe. Mai l’estetica e, men che meno, i 23 ettari di parco. Nella delibera varata in questi giorni si rintracciano accenti perfino appassionati nel descrivere l’immenso torto che verrebbe arrecato alla straordinaria necropoli di Tuvixeddu se il parco sarà quello attualmente in cantiere e le costruzioni quelle progettate. Gli espropri possibili con la delibera 5/23 del 7 febbraio 2007 intendono impedire quel che è successo giù sul lato della necropoli che degrada verso Sant’Avendrace: l’accesso naturale della città bassa è ormai sigillato dal cemento. La delibera cerca di rimediare anche a questo suggerendo l’acquisizione di una porzione del viale Sant’Avendrace, dal numero civico 35 al 55. Nella fascia alta l’accesso a Tuvixeddu, adesso, è quasi tutto libero. Salvo la cresta delle palazzine dei Punici costruite in cima al costone su viale Merello via Is Maglias a un passo dal ripetitore, il versante del colle su quest’ultima via è libero: secondo la giunta regionale deve restarlo perché «è tuttora l’accesso all’antica e ancora possibile percezione panoramica che dal colle guarda verso Santa Gilla, il mare, i monti del Basso Sulcis fino ad abbracciare la dimensione spaziale del Golfo degli Angeli...». Lunedì prossimo la commissione regionale del paesaggio si riunisce per decidere l’estensione del vincolo paesaggistico: si dirà nel dettaglio ciò che si può fare e ciò che sarà vietato. Ma la delibera della giunta fa proprie alcune osservazioni degli esperti (citandoli) della stessa commissione. In sostanza, secondo archeologi e paesaggisti nei 23 ettari del parco in cantiere «il sistema ambientale preesistente a seguito dei lavori oggi sospesi risulta del tutto stravolto». La sommità del colle è più alta di tre metri; la vegetazione originaria è quasi scomparsa; le strade interne sarebbero sproporzionate; aiuole e robusti muri di contenimento, anche se ospiteranno essenze mediterranee, «artificializzano un luogo in gran parte naturale o seminaturale», in favore di «uno scenario da giardino pubblico, gradevole, attraente, consumabile... a detta degli esperti l’impressione è che alla base vi sia un’idea non condivisibile: quella di bonificare e abbellire il contesto della necropoli, come se lo si ritenesse inespressivo, difettoso sul piano formale ed estetico».

Il soprintendente ai beni archeologici di Cagliari e Oristano, Vincenzo Santoni, in viaggio tra Sassari e Cagliari ieri ancora non conosceva la delibera e ha tagliato corto: «Vedremo». La situazione è delicata anche per il suo ufficio, visto che l’accordo del 2000 aveva il benestare della sua soprintendenza e difatti avrebbe chiesto un parere legale sulle indicazioni della Regione.

Plauso incondizionato da Gruppo di intervento giuridico e Amici della Terra che, per mano del presidente Stefano Deliperi, scrivono: «finalmente viene messa in primo piano la salvaguardia della più importante area sepolcrale punico-romana del Mediterraneo».

Il giornale mi mandò in Sardegna, per una inchiesta sui porti, nel 1960. Avevo 24 anni, l’Italia appariva ancora, in tanti posti, integra e bellissima. Non ero facile agli stupori. Tuttavia quella terra segreta e intatta, quei paesaggi antichi e quasi del tutto intoccati mi emozionarono, mi entrarono dentro in modo tutto speciale. Certo, il sottosviluppo lo si respirava. A Sassari non c’erano neppure dei veri taxi alla stazione, ma soltanto moto-taxi. Andando verso Cagliari, sulla Carlo Felice, incontrammo qualche rara vettura e pochi camion. A Macomer c’erano donne in costume tradizionale in strada e certo non aspettavano noi, sparuti turisti di passo. Poi è successo quello che è successo, travolgendo spesso piani e tutele.

“Abbiamo costruito villaggi fantasma e reso fantasmi i nostri paesi”, ha commentato amaro il governatore Renato Soru lanciando una sorta di nuovo “manifesto” programmatico per la sua isola. In base al quale si vuole dare precedenza assoluta alla salvaguardia delle coste e al restauro, recupero, riqualificazione di quanto già stato costruito.

“C’è qualcosa di molto triste e perfino drammatico nei villaggi vacanze”, osserva un fine intellettuale sardo, Giorgio Todde, “c’è qualcosa che lascia inebetiti nella vita sintetica del villaggio dove si mangia si dorme, si balla, si nuota in piscine irreali, poi si mangia di nuovo, si dorme di nuovo in un ciclo rotondo e animale di cibo, deiezione e sonno”. Dal quale la Sardegna vera è esclusa, là, fuori dal recinto..

A questo punto dovrei indicare le zone dell’isola che ancora si presentano integre a chi vi risiede o a chi vi si reca in viaggio, in vacanza. Il ventaglio della scelta, nonostante tutto, è ampio. Volete, miracolosamente, una grande area a pochi minuti dal traffico di una città come Cagliari? C’è il promontorio di Sant’Elia. Oppure, ad un passo dalla città, il parco della laguna di Molentargius e quello della Sella del Diavolo. Natura, storia, archeologia, lì c’è tutto, in modo affascinante. Anche il Sinis vanta ambienti e paesaggi strepitosi, come del resto la zona attorno a Bosa. All’interno poi ci sono il Gennargentu o il Supramonte. Ma, se vogliamo restare sul mare, scegliamo allora la Costa Verde nell’Iglesiente, detta anche il Sahara d’Italia per l’ampiezza inusitata degli arenili e delle dune che li proteggono. Anche 3.000 ettari ininterrotti.

Sulla Costa Verde si possono meglio capire quante risorse conservi questa grande isola (in passato molto spesso colonizzata da questo o quel popolo e però rimasta fieramente se stessa) e quanti rischi essa corra tuttora. Siamo in un distretto minerario che nell’Ottocento ha attratto, fra Montevecchio, Ingortosu, Funtanazza, Piscinas, Naracauli, Scivu, Pistis, investitori da mezza Europa, per il piombo e per lo zinco (oggi esauriti). Investitori professionali, francesi, belgi, inglesi come lord Brassey, a lungo titolare della “Pertusola”. O improvvisati come uno dei romanzieri europei più amati, Honoré de Balzac, sempre in caccia di febbrili speculazioni regolarmente finite male.

In questa costa sud-occidentale dell’isola, che si apre con la località, anch’essa mineraria, di Arbus, ci sono dune di una vastità e di una bellezza abbaglianti, dune le quali penetrano anche per 2 chilometri nel retroterra dove vigoreggia la macchia mediterranea, col lentischio, il corbezzolo, il ginepro, il cisto. E poi, dovunque, pini e pinastri. Migliaia di ettari di dune, altrove distrutte e cementificate. Chilometri e chilometri di arenili incontaminati da interventi dell’uomo.

Dietro il mare verde, dietro queste dune imponenti, dietro la macchia mediterranea, regno del cervo sardo, nell’interno i villaggi dei minatori, le ville liberty, spesso in granito, dei dirigenti, tutto ciò che ha fatto di questi luoghi una comunità di lavoro, con l’epos unico delle miniere. A Montevecchio le gallerie si inoltrano per un centinaio di chilometri, con pozzi fino a 350 metri di profondità. Altre gallerie perfino a picco sul mare, a Porto Flavia, una costa di roccia alta e accidentata. Su tutto domina il Monte Arcuentu che è come una fortificazione naturale di basalto dovuta a remote eruzioni vulcaniche.

Ne parlo con una certa apprensione. Nella Sardegna investita dal “boom” del cemento turistico si è molto costruito – prima del decreto salva-coste votato dalla Giunta Soru nel 2005 e che preservava una fascia di 2 chilometri – e si è costruito, “normalmente”, a 200 o 300 metri dal mare. Con prezzi d’acquisto che nella scorsa stagione oscillavano fra i 1.300-1.600 euro al mq di Muravera, entrata da poco nel business, e i 2.500-4.000 di Golfo Aranci. Anche se nella prima località c’erano ancora – e risultavano gradite – non poche case del vecchio paese. Ecco tornare il discorso iniziale del governatore-imprenditore Renato Soru e del Piano Paesistico Regionale (di cui si parla qui sotto): non più villaggi turistici aperti pochi mesi l’anno, e che intanto si “mangiano” natura e paesaggio, ma paesi antichi o vecchi che siano sempre più intensamente vissuti. Da tutti.

IL PIANO SALVACOSTE

Renato Soru, presidente della Regione Sardegna, è balzato agli onori della cronaca per la polemica sulla tassa sul lusso (megayacht, seconde case) con Flavio Briatore, manager della scuderia Renault in FormulaUno, proprietario del Billionaire di Porto Cervo. Al governatore sardo si deve il più grande piano paesaggistico mai disegnato in Italia: tutelerà 1.731 Km di coste e il loro entroterra. Un piano impostato, nelle linee-guida, da un comitato di esperti coordinati da Edoardo Salzano (titolare, fra l’altro, dell’utilissimo sito di paesaggio e ambiente, eddyburg.it) e realizzato però dagli uffici tecnici regionali. “Conservare e gestire responsabilmente il paesaggio, prodotto del millenario lavoro dell’uomo su una natura difficile, significa conservare l’identità di chi lo abita. Un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità né memoria”. Ecco la filosofia del PPR.

Di qui le linee-guida: priorità alla preservazione delle risorse paesaggistiche, al loro ruolo strategico sul piano culturale, alla riqualificazione e al recupero dell’esistente, a forme di sviluppo fondate su di una nuova cultura dell’ospitalità “sottratta alle ipoteche dello sfruttamento immobiliare ed agli effetti devastanti della proliferazione delle seconde case e dei villaggi turistici isolati”.

Una precisazione

Le linee guida per il Piano paesaggistico regionale sono state elaborate dalla Giunta regional; ad esse il Comitato scientifico ha suggerito alcune limitate integrazioni, collaborando poi al lavoro dell’Ufficio di piano (e.s.).

Firmato il provvedimento di sospensione dei lavori in corso nel colle di Tuvixeddu-Tuvumannu, che inibisce l'inizio di qualsiasi attività e sospende quelle in corso. La necropoli fenicio-punica più importante del Mediterraneo protetta dal Piano paesaggistico.

Cagliari, 12 gennaio 2007 - Ieri sera il direttore del servizio dei Beni culturali dell'assessorato alla Pubblica istruzione ha firmato un provvedimento che inibisce "tutti i lavori, riferibili ad opere pubbliche o opere a carattere privato, comunque capaci di recare pregiudizio al paesaggio nella zona del colle di Tuvixeddu – Tuvumannu nel Comune di Cagliari".

L'area è quella delimitata dalla deliberazione assunta nella seduta del 16 ottobre di dieci anni fa, 1997, della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali di Cagliari e che va dal viale Sant' Avendrace, all'altezza della via Montello, si prosegue lungo lo stesso viale sino all'incrocio tra viale Trento e viale Trieste, si segue in viale Trento e quindi svolta in viale Merello che si percorre sino a piazza D'Armi. Dalla piazza D'Armi, si scende lungo via Is Mirrionis sino all'incrocio con via

Timavo che si percorre sino alla via Monte Santo, si segue la via in direzione Est sino a via Argonne, si prosegue quindi lungo la via Argonne in direzione Sud, si svolta a destra in via Col

d'Echele che si percorre per un brevissimo tratto per svoltare a sinistra e immettersi nella via Is Maglias all'altezza del distributore, si segue la via Is Maglias per un breve tratto e si svolta in via Asiago, si percorre questa via, quindi la via Montello, sino a incrociare il viale Sant'Avendrace nel punto di partenza.

Nella determinazione del direttore di servizio è scritto che "sono fatti salvi gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria regolarmente autorizzati dalle autorità competenti ed insistenti sulla stessa area".

Il provvedimento, ai sensi del comma 3 dell'art. 150 del D. Lgs 22.1.2004 n. 42, ha efficacia per il periodo di novanta giorni a decorrere dalla data di notifica al Comune di Cagliari, che provvederà per quanto di competenza.

L'atto firmato dal direttore di servizio e trasmesso all'assessore ad interim Carlo Mannoni, fa riferimento in particolare al Piano paesaggistico regionale, le cui norme tecniche di attuazione "al fine di tutelare e valorizzare il territorio della Regione, individua alcuni sistemi storico-culturali che rappresentano le più significative relazioni sussistenti tra viabilità storica, archeologia ed altre componenti di paesaggio aventi valenza storico culturale". Nel contesto di tali sistemi storico culturali trova collocazione quello relativo al "Sistema dei Colli" di Cagliari, comprendente, tra l’altro, il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu ritenuto dallo stesso Ppr area di notevole interesse pubblico e perciò "funzionale alla predisposizione di programmi di conservazione e valorizzazione paesaggistica" e che la scheda d'ambito "Ambito n. 1 Golfo di Cagliari" dà gli indirizzi per la predisposizione dei programmi di conservazione e valorizzazione paesaggistica del colle di Tuvixeddu-Tuvumannu.

Il lavori in corso a Tuvixeddu-Tuvumannu, "cospicui interventi, sia a carattere pubblico che privato, per l'incidenza sulla morfologia del sito e per la loro collocazione a ridosso della necropoli fenicio-punica e della vasta area storica e monumentale del colle, sono capaci di pregiudicare il bene paesaggistico tutelato dal Ppr, limitando la possibilità della Regione di intervenire con le previste misure di recupero e riqualificazione".


Nell’articolo di Simonetta Sotgiu (dell’11 ottobre) sembra che si voglia affermare che la tutela del piano paesaggistico regionale «non può includere la tutela indifferenziata di un’intera zona artificialmente considerata omogenea, quale la zona costiera presa in considerazione dal piano regionale», ciò perché in contrasto con l’articolo 136.

Se è così, allora la signora Simonetta Sotgiu, che è Consigliere di cassazione, ha considerato solo alcuni articoli del Codice del paesaggio. Ha considerato solo l’articolo 136, che definisce beni paesaggistici i beni già vincolati ai sensi della legge del 1939. Ha dimenticato che esiste anche l’articolo 143, che inserisce tra i beni da tutelare anche quelli appartenenti alle categorie enumerate fin dalla legge Galasso (1985). E ha dimenticato di riflettere sull’articolo 143 che detta i contenuti del piano paesaggistico. Quindi ignora che la legge prescrive che il piano provveda: alla «tipizzazione e individuazione [...] di immobili o di aree diversi da quelli indicati dagli articoli 136 e 142, da sottoporre a specifica disciplina di salvaguardia e utilizzazione». Così come ignora che il medesimo articolo prescrive che il piano è tenuto alla «individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione».

Simonetta Sotgiu sostiene inoltre che è sbagliato il divieto delle «costruzione di edifici che non siano strettamente collegati alla coltura dei fondi agricoli, incidendo sostanzialmente, con un vincolo legale, sul diritto di proprietà», poiché “le colture della Sardegna non richiedono, né storicamente, né all’atto pratico” la «presenza dell’uomo sulla terra». Se così fosse, allora la Regione, avendo legittimamente considerato (articolo 143) il territorio agricolo un bene paesaggistico, avrebbe dovuto vietare ogni edificabilità, e non solo quella collegata alla coltura dei fondi.

Le incongruenze dell’articolo non si fermano qui, ma il ragionamento condurrebbe a debordare dallo spazio riservato a una pur lunga chiosa.

Nei giorni di sciopero dei giornalisti, ho appreso da un telegiornale locale che a Cagliari era in corso di svolgimento un convegno sulla pianificazione urbanistica, la tutela dell’ambiente e il riparto delle competenze tra Stato, Regioni ed enti Locali, organizzato dalla Regione e dal Tar Sardegna. Fra i partecipanti e relatori, oltre ai magistrati del Tar di Cagliari e di altri Tar, anche il presidente del Consiglio di Stato, alcuni professori di diritto amministrativo e, naturalmente il presidente Soru e il suo assessore all’Urbanistica.

Poiché mi è parso singolare che, in pendenza dei termini di impugnazione del Piano paesaggistico regionale (che scadranno ai primi di novembre) il Tar Sardegna, che potrebbe essere chiamato a decidere eventuali ricorsi, sieda allo stesso tavolo di una delle (eventuali) parti in causa - la Regione, finanziatrice del convegno - e non conoscendo peraltro gli esiti di tale convegno al quale i molti interessati (Comuni e Province in primo luogo) non erano presenti, vorrei fare qualche osservazione tecnica sul contenuto del Piano, perché sia chiaro che non è tutto oro quello che luce.

Ho già avuto modo di dire che le leggi regionali, anche se emanate da Regioni a statuto speciale e con competenza primaria in alcune materie, non debbono infrangere i principi posti dalle leggi-quadro dello Stato. E infatti la legge regionale sarda n. 8 del 2004, con cui è stato avviato il Piano paesaggistico, si è correttamente richiamata all’art. 135 del Codice Urbani sui beni culturali e del paesaggio, affermando di voler attuare quanto in esso disposto.

Ma il risultato mi sembra che si discosti in parte dall’impianto e dalla «ratio» della legislazione nazionale. Infatti l’art. 136 del Codice Urbani dispone, oltre alla protezione dei beni archeologici e culturali in senso stretto, nonché delle bellezze panoramiche tali da poter costituire «un quadro», anche (lett. a), la tutela «di cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale e di singolarità geologica»: tale unico paragrafo può quindi richiamarsi la salvaguardia delle coste stabilita dal Piano paesaggistico sardo.

Tale norma tuttavia, stante l’inciso «cospicui caratteri di bellezza naturale», non può includere la tutela indifferenziata di un’intera zona artificialmente considerata omogenea, quale la zona costiera presa in considerazione dal piano regionale, perché, se la «bellezza naturale» da ammirare è ammissibile a distanza ravvicinata dal mare, non sembra in ogni e qualunque caso ravvisabile per la profondità di due chilometri dalla costa (e addirittura fino a cinque), cioè per zone di anonima campagna dalle quali il mare non è visibile forse neppure con potentissimi cannocchiali. La tutela del paesaggio, nello spirito dell’art. 136 della legge statale, non sembra dunque possa essere indiscriminatamente esteso, in sede locale, soltanto in funzione dei chilometri, al di fuori di qualsivoglia coinvolgimento «estetico» del territorio vincolato, che deve piuttosto essere valutato caso per caso, e non con una irragionevole fascia unica.

Il piano afferma poi enfaticamente di voler tutelare le colture storiche e tradizionali, e, in questo contesto, vieta la costruzione di edifici che non siano strettamente collegati alla coltura dei fondi agricoli, incidendo sostanzialmente, con un vincolo legale, sul diritto di proprietà.

Ciò sarebbe ragionevole se la Sardegna fosse costellata, come la pianura padana, di fattorie e campi intensamente coltivati, che richiedono la presenza dell’uomo sulla terra. Ma le colture della Sardegna non richiedono, né storicamente, né all’atto pratico, tale presenza.

In particolare la coltura dell’ulivo, prevalente nel sassarese, ha necessità di poche giornate lavorative, di solito una ventina al massimo fra aratura, spollonatura, irrorazioni medicinali, raccolta; analogamente nessuna presenza colonica è richiesta per i sughereti galluresi, sfruttabili ogni sette-dieci anni, ma tutti i proprietari di appezzamenti grandi e piccoli hanno sempre cercato di avere una casa nella loro terra per l’uscita di fine settimana. Quanto a pastori e allevatori, gli stessi vengono relegati entro muretti a secco - luoghi ideali di aggressioni - e su strade polverose (vietatissimo l’asfalto), allorché è notorio che solo la intensificazione e il miglioramento del sistema viario è fonte di civiltà e di ricchezza. Non a caso l’Impero Romano ha costruito strade e strade, che ancora esistono.

Le incongruenze non si fermano qui, ma lascio ad altri rilevarle. Mi limito ad osservare che la minacciata espropriazione di terreni costieri comunque vincolati non mi sembra prospettabile, perché la relativa previsione contenuta nella legislazione nazionale riguarda esclusivamente i beni considerati nella prima parte del Codice (archeologici o culturali in senso stretto), alla cui miglior fruizione da parte del pubblico è finalizzata, mentre la stessa previsione non è riportata per i beni paesaggistici considerati nella seconda parte, per espropriare i quali dovrebbe comunque essere progettata un’opera pubblica (l’espropriazione di un bene privato è sempre finalizzata alla costruzione di un’opera pubblica), e ciò sarebbe incompatibile con l’assoluta inedificabilità degli stessi, per i quali non può essere certamente ipotizzata la destinazione ad usi civici, cioè a una sorta di diritti parafeudali per la cui «liquidazione» lavorano appositi commissari, proprio con il fine di estinguerli definitivamente. E non certo di crearne di nuovi.

Postilla

Meglio la legge leggerla tutta

Nell’articolo sembra che si voglia affermare che la tutela del piano paesaggistico regionale “non può includere la tutela indifferenziata di un’intera zona artificialmente considerata omogenea, quale la zona costiera presa in considerazione dal piano regionale”, ciò perché in contrasto con l’articolo 136.

Se è così, allora la signora Simonetta Sotgiu, che è Consigliere di cassazione, ha considerato solo alcuni articoli del Codice del paesaggio. Ha considerato solo l’articolo 136, che definisce beni paesaggistici i beni già vincolati ai sensi della legge del 1939. Ha dimenticato che esiste anche l’articolo 143, che inserisce tra i beni da tutelare anche quelli appartenenti alle categorie enumerate fin dalla legge Galasso (1985). E ha dimenticato di riflettere sull’articolo 143 che detta i contenuti del piano paesaggistico. Quindi ignora che la legge prescrive che il piano provveda: alla “tipizzazione e individuazione […] di immobili o di aree diversi da quelli indicati dagli articoli 136 e 142, da sottoporre a specifica disciplina di salvaguardia e utilizzazione”. Così come ignora che il medesimo articolo prescrive che il piano è tenuto alla “individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione”.

Simonetta Sotgiu sostiene inoltre che è sbagliato il divieto delle “costruzione di edifici che non siano strettamente collegati alla coltura dei fondi agricoli, incidendo sostanzialmente, con un vincolo legale, sul diritto di proprietà”, poiché “le colture della Sardegna non richiedono, né storicamente, né all’atto pratico” la “presenza dell’uomo sulla terra”. Se così fosse, allora la Regione, avendo legittimamente considerato (articolo 143) il territorio agricolo un bene paesaggistico, avrebbe dovuto vietare ogni edificabilità, e non solo quella collegata alla coltura dei fondi.

Le incongruenze dell’articolo non si fermano qui, ma il ragionamento condurrebbe a debordare dallo spazio riservato a una pur lunga postilla.

Se noi tutti sapessimo interpretare, senza mediatori, le vicende legate governo del territorio – spesso rese ad arte di difficile comprensione – le nostre città, i nostri paesaggi sarebbero migliori. Edoardo Salzano, grande urbanista, ha pubblicato di recente un libro ( Ma dove vivi? edito da Corte del Fontego) “scritto per spiegare l’urbanistica al popolo “ – dice scherzando. Questa necessità è indicata da molti, specialmente da chi si occupa di scelte partecipate, come condizione indispensabile per impedire che le strumentalizzazioni di parte prevalgano sulla verità.

Così non solo è apparsa oscura ai più, ma è stata del tutto capovolta dai detrattori la realtà dei fatti dopo il pronunciamento del Tar sul piano paesaggistico sardo.

Per via delle recenti sentenze, che chiunque può leggere integralmente nel sito web del Tribunale amministrativo, non c’è la sbandierata liquidazione dei principi essenziali del Piano, come è stato detto, ma solo alcune puntualizzazioni (non sempre da un particolare, pure interessante, proviene una visione generale del mondo). E la cancellazione di un comma non modifica di molto, almeno nell’ ultima questione in causa, le disposizioni di un intero articolo, tanto meno incide sulla struttura complessa di un piano.

Alle molteplici richieste dei ricorrenti di annullamento di norme fondanti dello strumento di pianificazione ( e di fasi del processo decisionale), i giudici hanno risposto con puntuali osservazioni, attraverso un’accurata lettura dello strumento, pure con espressioni di apprezzamento del lavoro svolto e degli esiti “riversati nella documentazione (relazioni tecniche, cartografie, relazione generale) allegata al piano paesaggistico, e sono – scrivono i giudici – la oggettiva dimostrazione dello svolgimento di uno studio approfondito e dettagliato del territorio sardo mai in precedenza condotto con tanta accuratezza e specificità”. Basterebbe questo autorevole riconoscimento per dire della qualità del Ppr, solido proprio perché costruito sulla fondata premessa della ricognizione dei beni paesaggistici.

La sostanza del progetto del governo regionale è (ancora) ben ferma nei suoi fondamenti.

Stupisce però che nelle reazioni e nei commenti, volti a enfatizzare dettagli suggestivi, non ci sia traccia del principale argomento sollevato continuamente, non solo dalle opposizioni, nel corso del processo di formazione e approvazione del Ppr. I dubbi espressi sulla potestà della Regione di dettare norme impegnative per i comuni sardi hanno occupato per mesi le pagine dei giornali: una discussione protratta nonostante l’aspetto fosse già stato chiarito dalla Corte con la sentenza n. 182 del 2006. E comunque anche su questo slogan – “l’ autonomia comunale prevaricata” – il Tar ha fatto chiarezza.

Non stupisce l’aggressione ai contenuti del piano paesaggistico e delle disposizioni normative a monte. Era prevedibile. Continuerà, e non sarà agevole difendere i risultati. Nonostante i riconoscimenti di prestigiosi organismi internazionali sulla svolta della Regione nella tutela dei suoi luoghi, c’è in Sardegna una linea distruttiva (e demagogica) di ogni impegno a presidio del paesaggio. L’insuccesso della marcia su Cagliari, organizzata dai promotori del referendum per abrogare la legge “salvacoste”, non ammette però sottovalutazioni. Gli avversari sono determinati (e gli alleati non sempre adeguatamente motivati). E’ chiaro –questo è il punto – che l’attacco ai programmi di tutela del paesaggio costiero dell’isola non è nell’interesse delle comunità locali, come vorrebbero farci credere, ma a sostegno degli interessi di pochi a trasformare in merce luoghi preziosi, specialmente per le generazioni future. La rendita ( e che rendita!) è il motore vero delle manifestazioni contro il piano.

Come scrive il ministro Rutelli (“La Repubblica” del 15 novembre) tra i nemici del paesaggio c’è “la crescita formidabile dei valori immobiliari che rende remunerativo qualsiasi intervento edificatorio in ogni angolo del paese”. Nelle coste sarde questi valori sono più elevati (sono i nostri bei paesaggi che fanno il prezzo!), e qui le iniziative di “costruttori e developer” –Rutelli definisce in modo elegante i palazzinari – sono evidentemente più incentivate. Se si fa un po’ di attenzione non è difficile individuare le vere ragioni degli oppositori al Ppr.

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