loader
menu
© 2024 Eddyburg


Carissimo, parto in questi giorni per un'impresa di esito incerto: raggiungere gruppi di rifugiati nei dintorni di Roma, portare loro armi e istruzioni. Ti lascio questa lettera per salutarti nel caso che non dovessi tornare e per spiegarti lo stato d'animo in cui affronto questa missione. I casi particolari che l'hanno preceduta sono di un certo interesse biografico, ma sono troppo complicati da riferire: qualcuno degli amici che è da questa parte vi potrà raccontare come nella mia fuga da Roma sia arrivato nei territori controllati da Badoglio, come abbia passato a Brindisi dieci pessimi giorni presso il Comando Supremo e come, dopo essermi convinto che nulla era cambiato fra i militari, sia riuscito con una nuova fuga a raggiungere Napoli.

qui mi è stato facile fra gli amici politici e i reduci dalla emigrazione trovare un ambiente congeniale e ho contribuito a costituire un Centro italiano di Propaganda che potrebbe avere una funzione utile e che mi ha riportato provvisoriamente alle mie attività normali e a un ritmo di vita pacifico. Ma in tutto questo periodo è rimasta in sospeso la necesità di partecipare più da vicino a un ordine di cose che non giustifica i comodi metodi della guerra psicologica; e l'attuale irrigidirsi della situazione militare, la prospettiva che la miseria in cui vive la maggior parte degli italiani debba ancora peggiorare hanno ancora reso più urgente la decisione. Così, dopo il fallimento, per ragioni indipendenti dalla nostra volontà, di altri progetti più ambiziosi ma non irragionevoli, ho accettato di organizzare una spedizione con un gruppo di amici. E' la conclusione naturale di quest'ultima avventura, ma soprattutto il punto d'arrivo di un'esperienza che coinvolge tutta la nostra giovinezza.

In realtà la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c'è possibilità di salvezza nella neutralità e nell'isolamento. Nei più deboli questa violenza ha agito come una rottura degli schemi esteriori in cui vivevano: sarà "la generazione perduta", che ha visto infrante le proprie "carriere"; nei più forti ha portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati su cui crescerà la nuova esperienza. Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei duscusso i problemi dell'ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell'uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l'incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbe contato per me più di ogni partito o dottrina.

Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto politico, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo. Pur sentendomi sempre più vicino a loro, non so se mi sarei deciso a impegnarmi totalmente su quella strada; c'era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d'indifferenza e di spirito critico per sacrificare tutto questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il tereno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile.

Credo che per la maggior parte dei miei coetanei questo passaggio sia stato naturale: la corsa verso la politica è un fenomeno che ho constatato in molti dei migliori, simile a quello che avvenne in Germania quando si esaurì l'ultima generazione romantica. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo. Una società moderna si base su una grande varietà di specificazini, ma può sussistere soltanto se conserva la possibilità di abolirle a un certo momento per sacrificare tutto a un'unica esigenza rivoluzionaria. E' questo il senso morale, non tecnico, della mobilitazione: una gioventù che non si conserva "disponibile", che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell'utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento. Questo vale soprattutto per l'Italia. Parlo dell'Italia non perché mi stia più a cuore della Germania o dell'America, ma perché gli italiani sono la parte del genere umano con cui mi trovo naturalmente a contatto e su cui posso agire più facilmente. Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze rivoluzinarie di prim'ordine: filosofi e operai che sono all'avanguardia d'Europa. L'Italia è nata dal pensiero di pochi intellettuali: il Risorgimento, unico episodio della nostra storia politica, è stato lo sforzo di altre minoranze per restituire all'Europa un popolo di africani e di levantini. Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: toca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d'emergenza. Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte. Vent'anni fa la confusione dominante poteva far prendere sul serio l'impresa di Fiume. Oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso. Quanto a me ti assicuro che l'idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l'unica possibilità aperta e l'accolgo.

Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza è che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il dovere di lasciare che i morti seppelliscano i morti. Anche per questo ho scritto a te e parlato di cose che forse ora ti sembrano meno evidenti ma che in definitiva contano più delle altre. Mi sarebbe stato difficile rivolgere la stessa esortazione alla mamma e agli zii, e il pensiero della loro angoscia è la più grave preoccupazione che abbia in questo momento. Non posso fermarmi su una difficile materia sentimentale, ma voglio che conoscano la mia gratitudine: il loro affetto e la loro presenza sono stati uno dei fattori positivi principali nella mia vita. Un'altra grande ragione di felicità è stata l'amicizia, la possibilità di vincere la solitudine istituendo sinceri rapporti fra gli uomini.

Gli amici che mi sono stati più vicini, Kamenetzki, Balbo, qualcuna delle ragazze che ho amato, dividono con voi questi sereni pensieri e mi assicurano di non avere trascorso inutilmente questi anni di giovinezza.

Ultime lettere della Resistenza italiana, con le biografie dei partigiani uccisi, le trovate nel sitowww.resistenzaitaliana.it

Chi ha paura del 25 aprile

Da la Repubblica

MI È rimasta impressa nella memoria l´angoscia di quel 25 aprile del ´45; il pensiero di poter morire in quell´ultimo giorno di guerra dopo essere scampato ai venti mesi della lotta partigiana, e di non poter rifiutare quell´ultimo rischio proprio per quei venti mesi, proprio perché non potevo mancare il giorno della loro fine, della liberazione. E mentre nei venti mesi avevo vissuto in una assurda certezza di immortalità, nella certezza di essere padrone del mio destino in quel 25 aprile sentii d´esser affidato al caso, trascinato da eventi incontenibili.

Perché militarmente il 25 aprile del ‘45, l´insurrezione, la liberazione fu questo: una corsa dietro eventi in certo senso accaduti prima di accadere, previsti nel loro succedersi caotico, lo sfondamento della linea Gotica da parte degli alleati, la rotta dei tedeschi e dei fascisti, la resa dei conti, la corsa fra la gioia e l´angoscia dalle montagne della Val Maira, a Savigliano, a Cuneo, a Torino fra sparatorie improvvise come temporali d´estate, cadaveri di fascisti nelle acque del Po, una colonna di carri armati tedeschi che gira a vuoto fra il basso Piemonte e il Canavese, sparando qualche cannonata sulle cascine, dovunque le casualità e i rischi di un epilogo convulso. E per tutti i decenni seguenti i discorsi inutili sull´importanza militare di un evento, la liberazione, l´insurrezione che era invece totalmente politica, già dentro quell´indimenticabile esperienza che fu la nascita, la fabbrica di una democrazia.

Il revisionismo storico in corso da mesi ha scarsa memoria ed è dominato da un´ossessione sadica. Non vede altro che cadaveri, comunismo in agguato, reciproche congiure, ma la storia di quando si è giovani è giovane, fiduciosa, con le speranze e le illusioni dei giovani. Metà delle case di Torino, di Milano, delle grandi città erano macerie, i macchinari della Fiat erano ancora nascosti in campagna o nei sotterranei, si viaggiava sui carri merci o sui camion a carbonella, gli eserciti stranieri ci occupavano con i loro carri armati grandi come palazzi, decidevano sulla nostra sussistenza e sulla nostra indipendenza, eppure non c´è mai stato da noi un più grande, un più illimitato, un più trascinante senso di libertà, di ottimismo.

Il giorno dopo passai a casa mia a Cuneo per salutare i miei. Ricordo che mio padre, preside di una scuola tecnica presso le officine ferroviarie di Savigliano, mi confidava la sua paura dei comunisti che avevano occupato la fabbrica e issate le bandiere rosse. E io non capivo perché mai i comunisti dovessero far paura e considerare nemico un professore di matematica che faceva il preside a mille lire al mese e girava con un regolo calcolatore nel taschino di un abito grigio, comprato fatto nei magazzini generali. Dopo mesi di guerra in comune, di nemico comune, quei comunisti non ci facevano paura. C´era meno paura del comunismo allora, che stava formandosi da noi il partito comunista più forte di Europa, che c´erano Stalin, l´Armata rossa, il mito della rivoluzione, la classe operaia e i vecchi compagni del "pugno di ferro" che oggi che il Partito comunista non c´è più, e che alla classe operaia hanno tagliato unghie e denti...

La democrazia che in quel 25 aprile tornava a vivere nelle nostre città a pezzi, nelle nostre strade piene di buche, nei nostri negozi semivuoti non era qualcosa di artificiale, era un bene ritrovato e fortemente condiviso e noi eravamo fermamente convinti che questa volta sarebbe durata in eterno. Era in corsa una resa dei conti anche feroce, ma fisiologica, come una gran febbre che ci avrebbe fatto guarire dal passato e vedo che oggi a sessanta anni di distanza il revisionismo storico se ne occupa con ossessione, come avesse trovato il segreto di quel partigianato che proprio non gli va giù. Ma noi partigiani della montagna, la spina dorsale della resistenza, non ce ne occupavamo, noi eravamo già nella stagione in cui si fabbrica la democrazia, si studia la democrazia, si scoprono i sindacati, le commissioni interne, le migrazioni interne, un Paese di diversi ma uniti, di cittadini responsabili e solidali.

Le riflessioni amare su questo 25 aprile di sessanta anni dopo vertono sulla fine di quella voglia comune di andare avanti, di fare del nostro un Paese civile e giusto a misura della Costituzione che allora avevamo pensato e votato, assieme in una Italia unita nonostante e forse per merito di una guerra in parte civile. E siamo ancora qui, in questo strambo Paese a resistere questa volta ad assurdi ritorni al passato a penose equiparazioni nel peggio, a un populismo truffaldino, ai trionfi delle mafie.

Salò, una Legge contro la Storia-Appello degli storici

L’appello di numerosi storici italiani contro la legge sullo status di militari combattenti ai seguaci della Repubblica sociale italiana

La maggioranza parlamentare di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi ha portato in parlamento e sta per approvare il disegno di legge n.224, presentato dai parlamentari di Alleanza Nazionale, che in soli due articoli rovescia il senso della Resistenza e della contrapposizione tra i giovani che scelsero di lottare contro i tedeschi occupanti, il terrore nazista e i fascisti della «repubblica sociale» e quelli che all`opposto decisero di arruolarsi nelle file dell`esercito di Salò e combatterono per venti mesi contro i partigiani e gli alleati angloamericani.

disegno di legge stabilisce che ai soldati e agli ufficiali che militarono nell`esercito della «repubblica sociale italiana» deve essere riconosciuto lo status di militari combattenti equiparato a «quanti combatterono nei diversi paesi in conflitto durante la seconda guerra mondiale».

Si mette così sullo stesso piano la scelta di chi ha lottato e versato il proprio sangue per costruire in Italia la democrazia parlamentare e la giustizia sociale, e quella di chi non solo non ha rinnegato gli obiettivi politici e ideologici della dittatura fascista, ma ha ritenuto di poter condividere la visione hitleriana e razzista dell`Ordine nuovo nazista, simboleggiato dall`orrore di Auschwitz.

È il primo passo per ottenere che ai fascisti di Salò vengano concesse medaglie al valor militare e decorazioni per la battaglia sostenuta con i nazisti contro l`indipendenza nazionale dell`Italia, contro la democrazia e la libertà.

Invitiamo l`opposizione parlamentare e l`opinione pubblica democratica del nostro paese a reagire con tutti i mezzi per impedire che questo rovesciamento di valori sia sancito dal Parlamento e diventi legge dello Stato. Qui non si tratta, come é giusto, di rispettare i caduti di ogni colore, ma di difendere i valori della Resistenza e della lotta di Liberazione e i principi fondanti della Repubblica e della Costituzione contro una maggioranza che vuole sradicare le basi stessi della nostra convivenza civile e della nostra identità democratica.

Hanno già aderito all`appello

Daniela Adorni, Aldo Agosti, Bruno Anatra, Massimo Baioni, Francesco Barbagallo, Ornella Bianchi, Bruno Bongiovanni, Camillo Brezzi, Franco Carboni, Sandro Carocci, Carlo Felice Casula, Enzo Cervelli, Enzo Collotti, Pietro Corrao, Claudio Della Valle, Giovanni De Luna, Giancarlo Jocteau, Maria Ferretti, Vincenzo Ferrone, Roberto Finzi, Massimo Firpo, Patrizia Gabrielli, Marco Galeazzi, Benedetta Garzarelli, Raffaele Licinio, Fiamma Lussana, Sergio Luzzatto, Luisa Mangoni, Aldo Mazzacane, Brunello Mantelli, Guido Melis, Giovanna Merola, Giovanni Miccoli, Giovanni Murgia, Claudio Natoli, Adolfo Pepe, Rossano Pisano, Giuliano Procacci, Leonardo Rapone, Giuseppe Ricuperati, Maurizio Ridolfi, Giuseppe Sergi, Simonetta Soldani, Gianfranco Tore, Francesco Tuccari, Rosario Villari, Giovanni Vitolo, Albertina Vittoria

Chi vuole aderire all`appello può scrivere a Nicola Tranfaglia, Dipartimento di Storia, Università di Torino, via S. Ottavio 20 (email nicola.tranfaglia@unito.it).

A metà degli anni, novanta una giovane laureanda in storia, Vera Costantini, militante di Rifondazione, discutendo di politica se ne è uscita all’improvviso – una espressione quasi invidiosa – con un “fortunato te che hai fatto la Resistenza”[1]. Ho rimuginato nel tempo questa frase per una certa sua ambiguità – è proprio “fortuna” partecipare ad una lotta armata, per quanto la scelta sia volontaria? – ma insieme anche per la voglia che esprime di essere partecipe di processi storici fondanti, in critica aperta al tronfio pret-à-porter politico attuale. E alla fine anch’io debbo riconoscere di essere stato “fortunato” per aver partecipato alla Resistenza. Il primo salto, o passaggio, esistenziale e formativo è stato per me nella scuola, ma quello decisivo – ha dato il senso ai miei anni giovanili – si è attuato proprio nella Resistenza a cui è seguta naturaliter la “scelta di vita” nella militanza a tempo pieno nel Pci che poi ha dato significato a tutta la mia esistenza, anche quando ho partecipato, sin dagli anni sessanta e da sinistra, alla ricerca critica interna.

Mi sono deciso a scrivere ora queste note strettamente autobiografiche – cronaca[2] più che storia – perché alcuni amici, in particolare Mario Isnenghi, mi hanno fatto una certa pressione e anche perché, di questi tempi in cui la memoria fa troppo difetto per i miei gusti, mi pare giusto testimoniare su quello che, negli anni giovanili, mi ha animato e indotto ad agire. Rammento bene che una volta – a Turcato che mi mostrava una ennesima versione di uno dei suoi scritti memorialistici sulla Resistenza veneziana – ho chiesto se non gli sembrasse finalmente giunto il momento di por fine a tale tipo di scrittura per cominciare ad occuparsi invece di ricerca storica più approfondita e che mi ha risposto che anche la sua era ricerca storica, che anzi tale ricerca cominciava proprio da lì: non aveva tutti i torti e la mia tardiva ammenda, almeno in parte, s’invera in questo testo autobiografico. L’ho scritto poi anche perché i miei nipoti Federico e Donata, quando avranno qualche anno di più, possano leggere pagine dirette del loro nonno di quando era studente e partigiano.

L’arresto

Il 10 aprile 1944 – un lunedì di Pasqua – sono stato arrestato dalla Guardia nazionale repubblicana (Gnr): nel pomeriggio un milite in borghese è venuto a casa mia, a S. Elena, invitandomi ad andare subito con lui in caserma per “chiarimenti”. Non si atteggiava a duro: non ha risposto negativamente alla mia richiesta di passare da un amico per ragioni di scuola: volevo informare Eugenio Pignatti – facevamo insieme attività propagandistica – della cosa capitatami per metterlo in guardia. Ma a casa sua mi hanno detto che era stato prelevato la mattina (ma nessuna della famiglia era venuto ad avvisarmi) e la stessa sorte, saprò dopo, era capitata anche a Cesare Dal Palù e ad Alberto Capisani, sempre del nostro giro di studenti. Era così evidente che non si trattava tanto di un “chiarimento”, ma di un problema ben più serio.

Abbiamo attraversato tutta la città a piedi sino ad una caserma all’Angelo Raffaele, il milite sempre bonaccione. La Riva degli Schiavoni era inondata di sole, c’era molta gente per il giorno di festa. Ho pensato di fuggire nella confusione – vi era più di una possibilità – ma ho riflettuto anche che non avrei saputo dove andare: eravamo senza piani di fuga, anche per andare in montagna (erano saltati i contatti dell’autunno precedente attraverso cui avevamo mandato gente nelle formazioni, fra cui anche un mio amico). La clandestinità totale – al momento e in città – mi sarebbe stata praticamente impossibile per mancanza di un rifugio e di collegamenti per cui la prospettiva avrebbe potuto essere anche peggiore.

Ero in un momento di passaggio nella mia partecipazione alla Resistenza: dal gruppo di studenti con cui avevo operato sinora, ma con il limite dell’improvvisazione e della faciloneria, all’organizzazione comunista, con Giuseppe Turcato. Un mese prima, ai primi di marzo, gli avevo chiesto infatti di aderire al Pci: se ci dovevano anche essere tempi d’attesa per via della candidatura che tutti i nuovi dovevano fare – così erano le regole –, limitato era stato pure il periodo per inserirmi nel nuovo contesto. Non mi sembravano possibili, dunque, vie di fuga in queste condizioni. Tuttora resto convinto di non aver ragionato male, anche col senno di poi.

All’Angelo Raffaele – senza chiedermi o dirmi nulla – mi hanno messo in una cella non molto grande, con un tavolaccio che occupava metà dello spazio: avevo freddo e facevo fatica a deglutire, ho dormito poco. Alla mattina presto – ma non avevo orologio – è venuto uno in borghese a prendermi. Saprò dopo che si trattava di Ernani Cafiero ‑ scherano di Waifro Zani, l’ufficiale della Gnr addetto agli interrogatori degli antifascisti, entrambi condannati a morte, dopo la Liberazione, dalla Corte d’assise straordinaria di Venezia [3] ‑: aveva una rivoltella in mano (se ricordo bene una P 38 tedesca), allo scoperto, e mi ha detto freddamente “attento che sparo, senz’avviso” [4]. Mi ha condotto, sempre a piedi, a Ca’ Giustinian, sede della Gnr dove Zani aveva il suo ufficio. Ho il preciso ricordo di aver visto, durante il tragitto, sui muri, i manifesti di Ossessione di Luchino Visconti al San Marco (o al Rossini): ne avevo sentito parlare da alcuni miei amici come di un film assolutamente da vedere. Intanto, di passaggio, in una stanza avevo intravisto Pignatti, ma non ho potuto parlargli. Al mio turno, Zani – una rivoltella sul tavolo – ha cominciato l’interrogatorio.

Durante la notte avevo pensato a questa evenienza e al come dovevo o potevo farvi fronte. Saprò solo dopo che nell’organizzazione comunista il metodo era quello – per principio – di negare tutto, anche l’evidenza: ma allora nessuno me l’aveva detto e io non avevo la minima idea di cosa significasse la militanza comunista, il tribunale speciale, le condanne a vent’anni o trenta, il confino, la domanda di grazia come resa. Mi sono arrangiato come ho potuto, senza esperienza alcuna che si congiungeva ad una certa qual fierezza giovanile per l’attività svolta nella mia scuola – al ‘Benedetti’, il liceo scientifico veneziano – dove tutti sapevano come la pensavo. Ero stato uno dei promotori – improvvisatomi sul momento, come gli altri – subito dopo l’8 settembre, all’arrivo dei tedeschi a Venezia, di una manifestazione studentesca in campo S. Giustina, nel primo pomeriggio, durante la quale abbiamo cantato a squarciagola “Va fuori stranier” e gridato slogan contro nazisti e fascisti. Verso sera, in piazza S. Marco, abbiamo visto un gruppetto di ufficiali tedeschi in divisa che ammiravano la Torre dell’orologio: senza premeditazione – sospinto irrazionalmente al gesto – ho sputato sulla punta degli stivali di uno di loro. L’ufficiale ha avuto come un gesto di stupore ed io, subito, riconquistata la ragione, me la sono data a gambe nel dedalo di calli e callette. A scuola, reagivo d’istinto ai predicozzi fascisti del professore di disegno: spaccavo la matita, tossivo forte o guardavo per aria. Ero cioè consapevole dei miei comportamenti: non li potevo negare e qualcosa loro certamente sapevano, se mi avevano arrestato.

Anche perché, a fare il mio nome e quello degli altri, come saprò subito dopo, era stato Pignatti: i suoi poi hanno tenuto a spiegarmi che lo aveva fatto, su loro insistenza, perché era molto ammalato e non poteva assolutamente passare neanche un giorno in carcere e infatti è morto qualche anno dopo la Liberazione, credo proprio di tubercolosi. Eugenio era un giovane disponibile e colto, amante della musica: a casa sua ho ascoltato i primi dischi di musica classica. Aveva una particolare passione per un pezzo suonato da Menuhin che abbiamo ascoltato molte volte ma di cui poi non ricordavo più né autore né titolo. Qualche anno fa – verso la fine degli anni novanta – una mattina a Radio3, inopinatamente ho risentito e immediatamente riconosciuto con qualche emozione quel pezzo – un concerto di Max Bruch – di cui mi sono subito procurato il CD [5] per poterlo riascoltare per la musica, per il violino superbo ma anche per un ripercorso di memoria.

A Pignatti non gliene abbiamo mai voluto: anche lui era alle sue prime prove, senza esperienza e in una condizione di gran lunga peggiore delle nostre. Non era del nostro gruppo originario, ma inserito più tardi con altri che poi hanno anche subito l’intrusione di una spia di Zani – Sudessi, un giovane di cui non ricordo il nome e che abitava dietro la Toletta, fra l’Accademia e S. Barnaba – che, poco furbescamente dal suo punto di vista, li aveva subito denunciati senza tentare di scoprire di più sulla rete. Questo Sudessi l’ho poi ritrovato in carcere, dove si era fatto rinchiudere per continuare a fare la spia sperando di giocare sull’ingenuità e inesperienza dei giovani, ma senza concludere nulla, ché tutti comunque erano stati messi subito sull’avviso.

In questa condizione ho cominciato con lo spiegare a Zani – del resto con molta ingenuità, un po’ finta e un po’ no – che non tutti la potevano pensare allo stesso modo, che molti studenti erano contro i tedeschi per tradizione e, in breve, che avevo solo distribuito dei volantini con due persone (che sapevo già essere al sicuro). Naturalmente quel poco non l’ho detto di colpo, ma nel corso di tre interrogatori, ogni volta aggiungendo qualche particolare, più o meno inventato o adattato sul momento: hanno fatto i controlli, hanno riscontrato che queste due persone esistevano ma non erano a Venezia. La loro spia non aveva poi saputo portare nulla di significativo anche perché, in definitiva, non avevano grandi mezzi d’indagine né le tecniche adatte. Zani voleva farmi dire qualcos’altro, ma io avevo detto tutto quello che potevo dire senza danneggiare altri e non insistette molto, ché probabilmente pensava – non a torto in quel momento ‑ che non saremmo stati in grado di fare di più. Mi hanno così portato a S. Maria Maggiore, cella n. 91 dove, dopo qualche settimana, mi hanno consegnato una carta in cui mi si comunicava che ero stato condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello stato a due anni di carcere per “propaganda e associazione sovversiva” insieme a Dal Palù e Capisani [6].

Cominciava così la mia vita di carcerato, dopo le formalità dell’entrata: le impronte digitali, la consegna della cintura dei pantaloni e delle lacci della scarpe e l’assegnazione di gavetta e cucchiaio, oltre che di una coperta e di due lenzuola. Quando mi hanno chiuso in cella, sbattendo violentemente la porta e inchiavardandola da fuori con i catenacci – il senso fisico della separazione – rimasto solo, sulla branda, sono esploso in un pianto convulso: era solo un’esplosione delle tensioni, uno sfogo per la paura e la situazione nuova. Avevo diciannove anni e non ero mai rimasto fuori di casa: non tanto paradossalmente, alla fine, questo sfogo ha funzionato come superamento del momento di crisi aiutandomi ad affrontare la situazione con la dovuta fermezza. Ne ho passate molte, in carcere, ma non ho più pianto se non quando, dopo la Liberazione, ho assistito, nel cimitero di S. Michele, alla riesumazione dei corpi dei 13 di Ca’ Giustinian per essere ricomposti, trasportati e sepolti con una grande cerimonia popolare nel cimitero di S. Donà di Piave, in una apposita tomba collettiva.

Anzi, per molti versi, in carcere mi sono indurito. Addirittura ho fatto un passo per me importante: sono entrato cattolico e praticante e ne sono uscito ateo. Il cappellano di S. Maria Maggiore, don Marcello Dell’Andrea, era una amabilissima persona, antifascista convinto, ci aiutava in tutto, comprese le comunicazioni con l’esterno rischiando grosso e senza mai chiederci nulla in cambio, tanto meno sul piano religioso, e il parroco di S. Elena mi mandava i mozziconi delle candele della sua chiesa perché potessi leggere la sera, visto che chiudevano presto la luce, anche lui senza chiedermi nulla, ed io ho avuto sempre molta riconoscenza per questa loro solidarietà concreta. Ma a dio non credevo più: per me non aveva proprio più senso, per come andava il mondo e soprattutto per bisogno di razionalità. Non è stata un’abiura, ma un abbandono tranquillo, quasi scontato. Me ne è rimasto anche un ricordo materiale: in una delle prime celle ho trovato un crocefisso – quelli soliti di legno e in lega di una volta, sui venti centimetri – che poi mi sono portato dietro e nel cui rovescio scrivevo man mano, a penna con inchiostro, il numero della cella: Alla fine la scritta è risultata così:

W L’Italia / Arrestato politico 10/4/44 / celle 91 – 66 – 60 – 62 – 110 – 101 – T 13 – 130 – 163 – 13 – 165 – 158 / S. Maria Maggiore – Carcere di Venezia – Trovato nella cella n. 66 / Portato nelle celle n. 66 – 60 – 62 – 140 – 101 – T 13 – 130 – 163 –73 – 165 – 158 – 4 [7].

Quando sono uscito me lo sono portato a casa e l’ho riposto per poi dimenticarmene completamente. Due anni fa, sgomberando la casa dopo la morte di mia madre, l’ho ritrovato nel fondo di un cassetto della mia vecchia scrivania di studente, e ho provato una certa emozione rivedere quella fila di numeri di celle praticate a S. Maria Maggiore. Non l’ho buttato via, come per istinto stavo per fare, e lo conservo tuttora come una doppia memoria, del carcere e della ex fede.

Sono arrivato a S. Maria Maggiore nel primo pomeriggio: non avevo fame, anche se erano quattro giorni che non avevo praticamente toccato cibo (mi avevano dato qualche pezzo di pane in un passaggio che mi avevano fatto fare nella caserma ai Gesuiti). Solo la mattina dopo un bicchiere di brodaglia nerastra come caffè e verso mezzogiorno pane e una specie di minestra di rape. I primi giorni li ho passati in isolamento – solo in una cella, cinque passi per tre – senza neanche un libro o un giornale e senza un pezzo di carta e una matita: in pura contemplazione dei muri, delle inferriate e della bocca di lupo, dal di sotto per poter vedere una sottilissima striscia di cielo. Con la sola compagnia delle cimici. Alla mattina – unica forma di socializzazione carceraria e di movimento fisico – c’era un’ora di aria nei cortiletti insieme a gruppi di altri detenuti, frammischiati fra comuni e politici (allora non era fatta distinzione: per l’autorità si trattava in ogni caso di criminalità comune).

Ė stato in una di queste prime mattine di aria che ho incontrato Francesco Biancotto – un operaio diciottenne – in carcere da gennaio con un gruppo di partigiani di S. Donà di Piave imputati di azioni di sabotaggio. Mi ha avvicinato – probabilmente mi avrà visto un po’ stordito – e mi ha offerto una sigaretta e, per accenderla, ha preso un fiammifero da una scatoletta di svedesi mostrandomi, sotto, disegnata una falce e martello. Sono stato impressionato ma anche rallegrato: non mi sentivo più solo e ho fumato così la mia prima sigaretta e non ho più smesso per vent’anni, con più di qualche conseguenza nefasta. Poi anche da casa me ne hanno portato senza farmi tante prediche, ma anche il Cln – attraverso il cappellano – ci ha fatto pervenire del tabacco (immagino sia stato per iniziativa di Turcato), ma poi sono arrivato anche a fumare la paglia del materasso avvolta in carta da giornale (come, del resto molti altri) diventando un esperto arrotolatore di sigarette con le dita. Qualche settimana dopo, finito l’isolamento e non ricordo proprio come, mi sono ritrovato in cella con Biancotto e con Gianfranco Gramola, uno studente di Schio all’Accademia delle belle arti, allievo di Elena Bassi, arrestato per le stesse mie ragioni. Un piccolo sodalizio che ricordo ancora con suggestione.

Ma quell’isolamento non mi pesava: a distanza di tanti anni non ricordo come avvenne, ma nel tempo ho interiorizzato che mi è servito a fare un po’ di conti con me stesso. Mi trovavo molto cambiato, per certi aspetti non mi riconoscevo quasi più rispetto a solo qualche anno prima. Praticamente ero in carcere quasi per mia scelta: non che lo avessi cercato, ovviamente, ma avevo messo in conto che mi poteva capitare qualcosa, anche se certe efferatezze di repubblichini e nazisti dovevamo ancora conoscerle.

Stavo facendo l’ultimo anno di liceo scientifico, al Benedetti di Venezia: avevo imparato a leggere e a studiare piuttosto seriamente. Stimavo moltissimo alcuni professori che mi avevano aperto gli occhi in tutti i sensi. Guardavo ora gli avvenimenti terribili del fascismo/nazismo e della guerra sentendomi fortemente coinvolto e in dovere di fare qualcosa per la “libertà”. Avevo imparato ad assaporare questa parola, a declinarla nei vari significati, ne cominciavo a capire gli aspetti concreti nei diritti inalienabili che ci erano stati strappati a forza e di cui bisognava riappropriarci: un “noi” collettivo di cui non mi chiedevo come e da cosa potesse originarsi, ma che avvertivo necessario come l’aria e di cui percepivo in qualche modo il suo farsi in atto. Avevo avuto anch’io la mia passioncella per Croce e il “liberalismo” come traslazione politica della libertà, come “fondamento morale di tutti i programmi”, ché ne avevo potuto leggerne qualcosa alla Marciana o alla Querini ( La teoria della libertà del 1939 e il classico La storia come pensiero e come azione del 1938): soprattutto ai tanti giovani di scarse letture storiche e politiche come ero io, nel deserto del fascismo, in quei primi anni quaranta Croce appariva come “il faro della libertà”. Appunto, fantasticherie giovanili in mancanza d’altro in grado di fare i conti con la complessità sociale e storica, come comincerà ad apparirmi il problema solo pochi mesi dopo: il passaggio da “La storia come storia della libertà” [8] a “La storia […] è storia di lotte di classi” [9] mi è stato naturale, tutt’altro che difficile.

[1]

Uso Resistenza (al fascismo e al nazismo) con la R maiuscola per distinguerla dalla resistenza – per fare un esempio – del ferro da stiro Del pari, uso Liberazione con la L maiuscola per indicare specificamente il giorno della liberazione dai fascisti e tedeschi.

[2] Per tracciare un quadro autobiografico più contestualizzato, nel presente testo ho citato alcuni episodi già raccontati nella mia Introduzione a G. Turcato, Frammenti autobiografici, in “Venetica”, a. XIV, terza serie, n. 3, Cierre, Verona 2000, pp. 143-187 o ricordati nel mio intervento in occasione dell’”Omaggio a Francesco Semi” all’Ateneo Veneto (18 dicembre 2000), ma non pubblicati. Chiedo venia per tali inevitabili ripetizioni.

[3] M. Borghi – A. Reberschegg , Fascisti al la sbarra. L’attività della Corte d’Assise Straordinaria di Venezia(1945/47),Comune di Venezia, 1999, pp. 108-110.

[4] Solo più tardi capirò quanto questo avvertimento fosse per niente astratto: infatti Cafiero, in gioventù era stato uno squadrista dei “Cavalieri della morte”, comandati da Gino Covre, arrestato e accusato, insieme ad un suo ‘collega’, per l’assassino del portuale Bernardo Borile in fondamenta dei Carmini nel maggio 1922 (cfr. G. Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Il Poligrafo, Padova 2001, p. 192) e difeso “sulla stampa oltre che in tribunale” ( ib., p. 194) niente meno che da Piero Marsich; sarà poi anche l’esecutore del colpo alla nuca, oltre che di altri, di G. Tramontin, sfuggito per miracolo alla morte e, per finire, membro del plotone di esecuzione dei 13 a Ca’ Giustinian, come si dirà più avanti e come risulta dalla citata sentenza della Corte d’assise straordinaria di Venezia. Sinistro e a suo modo coerente itinerario di un ‘fascista della “prima ora”.

[5] M. Bruch, Violin Concerto No. 1 in G minor, Op. 26†, violino Yehudi Menuhin, Emi Records Ltd, 1993.

[6]Istituto Veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea (Iveser), Fondo C. Chinello, 6/10/1944, Tribunale speciale per la difesa dello stato, "Estratto di condanna", manoscritto su modulo, B. 1, fasc. 1

[7] Non so ora spiegare la differenza delle due serie di numeri.

[8]B. Croce , La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1943, p. 46.

[9]K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino 1948, p. 94.

Lo avrai camerata Kesserling

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi

non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolato delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli

che ti vide fuggire

ma soltanto col silenzio dei torturati

più duro d'ogni macigno

soltanto con la roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo

su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci ritroverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama ora e sempre

RESISTENZA

Non sarei tornato a parlare della morte di Giovanni Gentile (Repubblica 8 novembre) se questo evento non ricomparisse puntualmente come un ricorrente archetipo negativo dei valori della Resistenza. Ad esempio recentemente sul Corriere della Sera una recensione del libro del postino delle Br, Valerio Morucci, ("La peggio gioventù", ed. Rizzoli) era titolata su cinque colonne: "Moro ucciso come Gentile" creando una equazione immediata tra i partigiani e i terroristi. E se è pur vero che il recensore, Giovanni Bianconi, prendeva le distanze dal paragone di Morucci, è altrettanto rivelatore che egli lo abbia fatto affermando che accettarlo "sarebbe come racchiudere tutta la Resistenza nello sconsiderato omicidio del filosofo". È quanto meno singolare che su quelle stesse colonne non avesse trovato ospitalità la replica inviata al giornale da uno degli ultimi attori e testimoni di quell´evento, Teresa Mattei (che sarà poi la più giovane parlamentare della Costituente), la quale, avendo rivelato al giornale gli autentici retroscena dell´attentato, era rimasta ferita dalle interpretazioni che ne erano seguite da lei giudicati "offensivi e distanti dalla verità".

Inaccettabile, in particolare, le sembrava il paragone avanzato da Sergio Romano, fra l´uccisione del filosofo e l´assassinio dei fratelli Rosselli, avvenuto nel 1937, a opera di sicari del fascismo, in Francia, dove si erano rifugiati. "Come si può mettere sullo stesso piano - scrive nella lettera cestinata - un crimine e una legittima sentenza bellica... eravamo in guerra e di guerra era anche il diritto... la decisione di eliminare Gentile non è stata guidata da ansia di vendetta... ma fu un atto con cui si chiudevano i conti con il maggior responsabile della cultura fascista... Sicuramente le torture efferate e la morte di mio fratello Gianfranco (rinchiuso in via Tasso, n.d.r.), dei suoi compagni e di mille altri, insieme ai proclami di condanna alla pena capitale per i giovani renitenti alla leva di Salò di cui Giovanni Gentile era il più cinico celebratore, così come la conseguente fucilazione sotto i nostri occhi di tanti giovani a Firenze, in Campo di Marte, hanno contribuito a renderci ancor più determinati".

Certo, coloro i quali oggi bollano l´attentato dei Gap fiorentini,(che, a partire dal loro capo, Bruno Fanciullacci, pagarono poi quel gesto con la vita), usano l´argomento che Gentile non fosse da annoverarsi tra i gerarchi più biasimevoli, tanto che alcune volte era intervenuto, nei limiti consentiti e senza, però, mai contestarne la giustezza, per rendere meno aspre le misure di persecuzione contro qualche collega avverso al regime o ebreo. Ciò non pertanto queste attenuanti, riferenti a prima del 25 luglio 1943, non potevano muovere ad alcuna indulgenza dopo l´8 settembre, quando solo i più accaniti filonazisti fra le camice nere avevano seguito Mussolini nel precipizio finale a fianco di Hitler. Lo scontro era ormai definito e definitivo: da un lato gli eserciti che portavano libertà e democrazia, a cui si erano affiancate le formazioni partigiane e i militari agli ordini del legittimo governo italiano, dall´altra le brigate nere, le varie bande di torturatori agli ordini delle SS, i fedeli ausiliari dei responsabili delle camere a gas e dei lager, ispirati dai teorici del razzismo. Il fatto che un filosofo illustre avesse dato loro avallo costituiva un aggravante del collaborazionismo "repubblichino".

In proposito ho ricevuto - dopo il mio primo pezzo - una bellissima lettera di Sergio Lepri, per decenni mitico direttore dell´Ansa e prima ancora, pur provenendo dalla sinistra liberale, portavoce del presidente del Consiglio, Amintore Fanfani. Eccone qualche brano: "All´epoca della morte di Gentile dirigevo a Firenze un foglio liberale clandestino, "l´Opinione". La notizia dell´attentato mi colpì dolorosamente... mi ero laureato in filosofia nel ´40, a vent´anni, e avevo studiato con passione i suoi testi... alcuni storici revisionisti di oggi... non si sforzano, però, minimamente di capire il clima di allora, il contesto storico ed anche emotivo in cui vivevamo, in mezzo a una guerra civile e di liberazione; e ogni giorno c´erano morti, quasi tutti della nostra parte... fu proprio per Giovanni Gentile che molti giovani si schierarono dalla parte sbagliata. Ecco perché Teresa Mattei, la cara Chicchi, nei giorni in cui suo fratello era torturato dai fascisti repubblichini, tanto da portarlo al suicidio, non si oppose alla decisione del suo futuro marito, Bruno Sanguinetti e dei suoi compagni di ispirare un atto clamoroso... ecco perché uno come me provò dolore ma non indignazione per la morte di Giovanni Gentile".

ROMA

«Arrigo Boldrini sottolinea un tema vero, delicato, preoccupante. C’è una spinta in una larga fetta della maggioranza che tende al revisionismo. Questo non è ammissibile». È un appello accorato, quello di Oscar Luigi Scalfaro. Un appello al Parlamento e alle massime istituzioni del Paese per mantenere in vita la memoria della Resistenza. E per ripristinare il contributo statale a sostegno dell’Anpi che si appresta a festeggiare il sessantesimo anniversario della Liberazione. Il presidente dell’associazione dei partigiani, sulle pagine di questo giornale, ha sollevato il problema: il centrodestra ha bocciato al Senato lo stanziamento di 3 milioni di euro per le celebrazioni, e contemporaneamente votato il riconoscimento di «militare belligerante» per gli ex repubblichini di Salò.

«Due episodi a torto considerati minori, ma che hanno un forte valore simbolico e pratico, avvenuti entrambi in Parlamento - spiega Boldrini -. Ecco perché appare difficile non ipotizzare che dietro questi fatti ci sia un preciso disegno politico per farla finita per sempre con il ricordo di pagine storiche che a taluno possono risultare indigeste».

Presidente Scalfaro, Boldrini denuncia le manovre del governo Berlusconi. Sostiene che la Resistenza potrebbe essere cancellata. Come valuta l’improvvisa decurtazione dei fondi assegnati all’Anpi? Corriamo davvero il rischio di un azzeramento del 25 aprile?

Esiste, ed è vero, una spinta sotto traccia, lenta ma forte, da parte della maggioranza che cerca di cambiare la carte in tavola della nostra storia. Non tutta la maggioranza, sia chiaro. C’è, tuttavia, una fetta della coalizione di governo che tende al revisionismo. Questo non è accettabile. Soprattutto a ridosso di un anniversario importante come i sessantanni che ci apprestiamo a celebrare. Una pagina cruciale nel cammino di libertà e democrazia del Paese. Una pagina che segnò la grande resurrezione dell’Italia. Fu la fine della guerra, il ritorno della pace, il ritiro di un esercito occupante che non si era limitato ad una guerra convenzionale, ma aveva massacrato cittadini inermi, facendo scempio del concetto stesso di umanità. I valori della patria non possono, non devono essere logorati. Sarebbe uno stravolgimento imperdonabile.

Non crede che sarebbe necessario ribadire temi quali libertà e democrazia a fronte di una guerra in cui il nostro Paese è coinvolto?

Ne sono convinto, oggi più che mai perché di tratta di un momento storico particolarmente delicato. Sul piano internazionale l’Italia sta offrendo con grande sofferenza il proprio sacrificio di vite umane: militari e civili hanno già perso la vita in una guerra contro una dittatura senza dubbio sanguinaria. Ma l’adesione al conflitto non rispetta lo spirito dell’articolo 11 della nostra Costituzione che andava e va, invece, rimarcato.

Lei presiede anche l’Istituto per la storia del movimento di Liberazione in Italia. Avete in serbo delle manifestazioni per il 2005?

Il nostro progetto è partire ai primi di aprile dalla Puglia, seguendo la linea storica della Resistenza. Un percorso fatto di sangue, morti, torture, miserie ed atti eroici fino a raggiungere Milano dove esplose la Liberazione. Si tratta di un percorso sul filo della memoria e in difesa delle radici storiche del Paese. Stiamo parlando di una delle pagine più importanti della nostra vita. Faccio un appello: non mortifichiamo ciò che di grande, di straordinario e di umano è nel nostro patrimonio. Guai a non difendere il passato. Guai a spegnere i valori che ci guidano, lo spirito della libertà, la Costituzione nata dal sacrificio di molti, dal dolore di un intero popolo.

C’è un altro aspetto denunciato da Boldrini e dall’Anpi, e sottoscritto volontari per la libertà, dall’associazione degli ex deportati politici nei campi nazisti, dai perseguitati politici antifascisti. Riguarda un disegno di legge di An approvato dalla commissione Difesa del Senato che riconosce come legittimi belligeranti gli appartenenti all’esercito della sedicente repubblica sociale italiana. Fatto gravissimo, non crede?

Norme antigiuridiche non possono diventare giuridiche all’improvviso. Così come ciò che era illegittimo non può acquisire legittimità solo perché sono trascorsi molti anni. E’ vero, il tempo è passato, ma la storia non può essere ristrutturata a piacimento da un gruppo di revisori.

Presidente, che memoria conserva delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della Liberazione?

Ero Capo dello Stato e avevo accanto una commissione autorevolissima presieduta dal senatore Gerardo Agostini, e della quale faceva parte lo stesso Boldrini. Ci impegnammo con una somma rilevante perché le celebrazioni fossero degne di un anniversario così importante. Partecipai a tutte le manifestazioni e conservo ricordi emozionanti perché difendere le radici significa difendere il futuro.

Signor presidente del Consiglio,

le parole con cui Ella ha voluto esprimere i suoi giudizi sulla Resistenza e sul ruolo che in essa vi ha svolto la sinistra hanno suscitato in me - e Le assicuro non solo in me - sconcerto e indignazione.

Sì, perché quelle parole sono frutto al tempo stesso di ignoranza e di arroganza. L’ignoranza di chi parla di cose che non conosce; l’arroganza di chi crede che a un presidente del Consiglio tutto sia consentito.

E, invece, chi ha la responsabilità di guidare una nazione ha il dovere di conoscerne la storia e di rispettarla.

Lei non può ignorare - anzi non “dovrebbe” ignorare - che quella Repubblica di cui Ella oggi guida il Governo affonda le sue radici nella lotta antifascista, quando uomini e donne di credo politico diverso, di ogni appartenenza sociale, di sensibilità culturali differenti, si unirono nel comune impegno di liberare l’Italia dal fascismo e dalla guerra catastrofica a cui la dittatura l’aveva condotta.Tra quegli uomini e quelle donne molti erano di sinistra - comunisti, socialisti, azionisti, repubblicani - che fecero fino in fondo la loro parte di combattenti per la libertà.

Mi auguro che Lei non ignori che in calce a quella Costituzione della Repubblica - sì, quella che Lei ha sbrigativamente definito “sovietica” - accanto alle firme di un convinto liberale come Enrico De Nicola e di un cattolico come Alcide De Gasperi c'è la firma di Umberto Terracini.

E non voglio davvero credere che Lei non conosca nomi come Antonio Gramsci, Giacomo Matteotti, i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, Bruno Buozzi, Leone Ginzburg, uomini di sinistra che insieme a tantissimi altri pagarono con la vita il loro coraggio antifascista.

O nomi come Sandro Pertini, Giuseppe Saragat, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Gian Carlo Pajetta, Camilla Ravera, Giorgio Amendola, Carlo Levi, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei, uomini di sinistra che pagarono con l’esilio, il confino, il carcere duro la loro tenace volontà di non piegarsi.Forse, non è inutile ricordarLe che nei giorni di aprile di cinquantotto anni fa Milano - la sua città - prima che arrivassero le truppe alleate fu liberata dai partigiani di Cino Moscatelli, Corrado Bonfantini e Tino Casali. E Milano liberata vide sfilare alla testa dei partigiani, fianco a fianco, cattolici come Enrico Mattei insieme a uomini di sinistra come Riccardo Lombardi, Ferruccio Parri e Luigi Longo. Le potrei ricordare che nell’aprile del ’44 a Torino caddero sotto lo stesso piombo fascista, gridando insieme «viva l'Italia libera», il monarchico generale Perotti, il socialista Erik Giachino e il comunista Eusebio Giambone.

Le potrei ricordare che combattendo a Megolo, nell’alto Piemonte, morirono insieme il cattolico Antonio Di Dio, il raffinato borghese Filippo Maria Beltrami e Gaspare Paietta.

Le potrei ancora ricordare come a Genova i tedeschi del generale Meinhold si siano arresi ai partigiani del cattolico Paolo Emilio Taviani e dell’operaio comunista Remo Scappini. Potrei continuare con mille altri esempi - dalle giornate di Napoli al sacrificio dei fratelli Cervi - di quanto la sinistra abbia contribuito a quel moto nazionale di liberazione democratica che non a caso fu chiamato “Secondo Risorgimento”, riscattando così l’onore dell’Italia infangato dal fascismo e dalle sue avventure di aggressione. Boves, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, le Fosse Ardeatine, il Portico d’Ottavia, la Risiera di San Saba, il Lager di Fossoli sono lì a testimoniare il pesante contributo di dolore e sofferenza con cui questo nostro Paese ha riconquistato la sua libertà.Una storia che appartiene all’Italia e agli italiani. Una storia che Lei non solo dovrebbe avere la sensibilità di conoscere, ma soprattutto di rispettare. Perché lì c’è l’identità democratica e civile dell’Italia di oggi.

E dunque, Presidente, in questo 25 aprile renda onore a chi per la libertà ha pagato con la vita, a chi per la libertà si è battuto, a chi la libertà ha conquistato per ciascuno di noi. Anche per Lei.

Vedi alla Voce Complice

Una pagina di storia da ricordare, oggi che si tenta di accreditare la tesi che “di notte tutti i gatti sono grigi, che fascisti e antifascisti erano uguali, partigiani e repubblichini avevano ragione entrambi. I gatti sono tutti ugualmente grigi solo la notte: nella notte della smemoratezza. Rosetta Loy, su l’Unità del 10 ottobre 2003, ci aiuta a ricordarlo

Viviamo in uno strano tempo dove accadono guerre che avevamo creduto non dover vedere mai più. Solo che oggi vengono addobbate con nomi «soft»: guerra umanitaria, enduring freedom, guerra preventiva, simili a quei belletti spalmati sui defunti perché i parenti possano, in quelle guance dipinte di rosa e in quelle bocche rosse, illudersi sulla rigidità cadaverica. Lo stesso progetto di edulcorazione sembra spandersi come un miele sulla storia alle nostre spalle, o più precisamente su una certa storia che ha marchiato di tragedie l’Italia, e succede sempre più spesso che nei discorsi su Mussolini si rimanga invischiati in una sorta di melassa quasi tornasse l’eco dell’agitarsi dei gagliardetti e la mascherata delle divise, i roboanti proclami del Mare Nostrum. La mia generazione cresciuta fra «Credere Obbedire Combattere», «È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende», «Noi tireremo diritto» con il calce l’inconfondibile firma, ha dovuto faticare non poco per liberarsi dall’apoteosi di una violenza che ci avvolgeva in un tripudio di glorie a venire, e mai avvenute.

Ma abbiamo anche imparato a fiutarne subito l’odore.

La data di oggi porta a riflettere sull’addolcimento che ha ammorbidito anche le «leggi razziali» fasciste, mettendole a confronto con quelle naziste. È una vecchia storia questa di buttare sempre le colpe sulle spalle dei tedeschi. Un velo pietoso viene oggi disteso sulle leggi che difendevano la nostra purezza di «razza ariano nordica» (chissà se ne penserebbe Bossi di un calabrese o un lucano «ariano nordico»), le prime leggi razziali a interessare un paese europeo, dopo la Germania. Esecrabili, anche se non ancora criminali; e arricchite di infiniti codicilli persecutori durante il corso disastroso della guerra. Ma è soprattutto sulle disposizioni adottate dalla Repubblica Sociale dopo l’8 settembre che l’amnesia è totale. Un colpo di spugna è passato sui diciannove mesi in cui la Repubblica di Salò rimase attiva. Eppure il giorno stesso della sua costituzione, il 23 settembre del 1943, quella Repubblica sanciva «la deportabilità degli ebrei di cittadinanza italiana». Una sola frase che equivaleva a una condanna a morte in quanto significava Auschwitz. Ma questo era solo l’inizio: il 10 e l’11 ottobre i quotidiani in edicola informavano gli italiani che tornavano in vigore le norme antiebraiche abrogate dopo il 25 luglio e annunciavano ulteriori misure intese a «mettere definitivamente gli ebrei in condizione di non poter più nuocere agli interessi nazionali» (chissà quale minaccia rappresentavano delle persone in maggioranza private del lavoro, della scuola, e di buona parte dei loro beni). Il 6 novembre Mussolini aveva già sul suo tavolo il progetto di legge «inteso a regolare la questione razziale, appoggiandosi alla legislazione germanica in materia, nota sotto il nome di legge di Norimberga». Progetto trasformato nel «manifesto programmatico» presentato il 14 novembre, alla prima assemblea del nuovo Partito Fascista a Verona, manifesto che al punto 7 stabiliva che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». La stessa assemblea quel giorno dichiarava che il nuovo stato era «programmaticamente antisemita». E con tutta tranquillità il 20 novembre il ministro dell’Interno Buffarini Guidi poteva disporre, con l’ordine di polizia n. 5, l’«arresto di tutti gli ebrei a qualsiasi nazionalità appartengano e il loro internamento in campi provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento appositamente attrezzati».

Sempre quello stesso anno, il 16 dicembre, il Consiglio dei ministri, presieduto da Mussolini, approvava lo schema destinato a diventare decreto legge il 4 gennaio del ’44 che imponeva ai capi delle provincie di procedere «immediatamente alla confisca di tutti i beni di qualsiasi natura (aziende, terreni, fabbricati, crediti vari, valori depositati nelle banche, mobili di arredamento, soprammobili, stoviglie, lenzuola, vestiario ecc.) delle persone di razza ebraica».

Nel marzo del ’44 furono ancora elaborati alcuni progetti legislativi che estendevano la persecuzione a tutte le persone con più di un bisnonno ebreo. Progetti che fortunatamente non fecero a tempo a essere realizzati e l’ordine di arresto (e conseguente deportazione) continuò a colpire «solo» le vittime già individuate, ossia tutti quelli che avevano otto o sette bisnonni ebrei, praticamente tutti quelli che ne avevano cinque, una parte imprecisabile ma consistente di quelli che ne avevano quattro, un ristretto gruppo di chi ne aveva tre o due. Ma lascio qui la parola a Michele Sarfatti il cui libro «Gli ebrei nell’Italia Fascista» raccomando soprattutto a chi è colpito da amnesia o è stato scarsamente informato.

Scrive Sarfatti: «Dal 1° dicembre 1943 i capi delle Provincie della Rsi cominciarono ad allestire i campi di internamento provinciali e i questori a programmare gli arresti. Le operazioni iniziarono presso le abitazioni degli ebrei, perquisite alla ricerca di arrestandi e poi sigillate perché poste sotto sequestro. Gli arresti furono in linea generale attuati da reparti non «specializzati» della polizia ordinaria. Il capo della provincia di Vercelli trovò del tutto ovvio chiedere ai podestà, nella loro qualità di ufficiali di pubblica sicurezza, di collaborare «pienamente con gli altri organi di polizia». Anche da parte italiana, tra i corpi che contribuirono con un apporto specifico all’arresto degli ebrei, vi furono quelli incaricati della sorveglianza al confine con la Svizzera. Fiero dei cinquantotto arresti eseguiti «dai primi di ottobre ad oggi» e dei «rilevanti valori» sequestrati in tali occasioni, il 12 dicembre 1943, il comandante della II legione «Monte Rosa» della Guardia nazionale repubblicana confinaria scrisse al capo della provincia di Como: «È così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica - rifugio di rabbini tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi Fasciste, è ostacolata dalle vigili pattuglie della Guardia Nazionale Repubblicana che indefessamente, su tutti i percorsi anche i più rischiosi con qualsiasi tempo e a qualsiasi ora, con turni di servizio volontariamente prolungati, vigilano per sfatare ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda».

Forse non è inutile ricordare che gli ebrei bulgari furono gli unici, nei paesi alleati dei tedeschi, a non finire in un campo di concentramento perché il Re si rifiutò di firmare l’ordine. Re Boris morì poco dopo in circostanze misteriose, probabilmente ucciso. Ma nessuno dei suoi sudditi fu deportato.

Essi esprimono bene i sentimenti di molti italiani nei confronti della proposta di graziare uno dei responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. 337 persone, scelte a caso nelle carceri romane, furono assassinate in una cava di tufo per vendicare trenta soldati tedeschi uccisi in un attentato a Via Rasella. Aggiungo una lettera che ho mandato a Radio Tre per contestare una sciocchezza detta da una signora a proposito dei “veri colpevoli” della strage nazista, in calce agli articoli

Miriam Mafai Quel diritto a non perdonare

Siamo tutti un legno secco della storta pianta umana: Priebke che passa gli ultimi anni della sua vita nella casa romana del suo avvocato, Adriano Sofri che passa gli anni della sua maturità in una cella del carcere di Pisa, l´ignoto extracomunitario condannato per traffico di droga, la ragazza di Novi Ligure che ha ucciso la madre e il fratellino e che è stata condannata a non so quanti anni di carcere. Legni secchi della storta pianta umana. Ma nessuno, salvo Priebke, ha condotto al macello e macellato, con un colpo alla nuca, non so quanti giovani e meno giovani romani un giorno di marzo del lontano 1944.

Io non ho avuto né parenti né amici seppelliti in quel carnaio. Non sono dunque tra coloro che potrebbero o dovrebbero, secondo Adriano Sofri, perdonare quello che era allora un giovane ufficiale tedesco e che oggi è un novantenne condannato all´ergastolo, e consentirgli di tornare a casa sua, a Barilolce, dove lo aspetta una moglie altrettanto vecchia e malata. Ho visto anch´io i manifesti affissi sui muri di Roma nei quali i promotori di una manifestazione per la grazia a Priebke accostavano il suo nome a quello del detenuto di Pisa. Un accostamento osceno. Ma non riesco, per quanto onestamente mi sforzi, a condividere la posizione di Sofri, quando chiede alla comunità ebraica di Roma di perdonare l´ergastolano, o più precisamente , di «voltare le spalle e il viso alla scena nella quale si consumerà il tempo estremo di uno che si prestò ad essere un odioso nemico». Non faccio nemmeno parte della comunità ebraica di Roma. E non credo che si debba chiedere a questa un atto di generosità o di comprensione. Anche perché tra le vittime delle Ardeatine non c´erano solo ebrei, ma anche ragazzi che, nati e cresciuti a Roma, non sapevano forse nemmeno dove fosse la sinagoga, e ufficiali del nostro esercito che, combattendo contro i tedeschi, pensavano di servire ancora il Re.

A me sembra che nessuno di noi, dei sopravvissuti a quelle tragiche vicende, abbia il diritto di perdonare. Solo le vittime potrebbero , forse, farlo. Ma quelle non ci sono più. Sono state sepolte sotto la calce e il tufo di quella cava a pochi chilometri dal centro della nostra città. Ci sono reati, i delitti contro l´umanità, che non cadono mai in prescrizione. Tra poche settimane , il 20 aprile, sarà celebrato a La Spezia il processo contro gli autori della strage di S. Anna di Strazzena, dove nel maggio del 1944, centinaia di civili vennero trucidati, molti bruciati vivi con i lanciafiamme (non vennero risparmiati nemmeno i bambini, nemmeno le donne in stato interessante) da un gruppo di SS agli ordini di un certo sergente Sontag. Non credo si esprima in questi tardivi processi nessuna volontà di vendetta. Ma un desiderio di verità e di giustizia sì. Ed io credo che questo desiderio di verità e di giustizia non possa, non debba, venir soverchiato dalla pur comprensibile umana pietà di cui si è fatto interprete e portatore Adriano Sofri, l´unico che può farlo con tanta sensibilità, intelligenza, e pudore. Io, lo confesso, non ci riesco. E, da legno secco della storta pianta umana di cui tutti siamo fatti, non credo che questo mio sentimento possa essere considerato alla stregua di una mancanza di umanità, quasi una colpa.

Il nostro mondo è ancora oggi pieno di atrocità consumate a danno di vittime innocenti. Il fatto che tali atrocità vengano ancora commesse non ci esime dal ricercare e condannare i responsabili di quelle commesse nel passato. Al contrario. Se chiedo, sia pure invano, che Pinochet, ormai vecchio e gravemente malato, sia condannato per i suoi delitti, non vedo perché dovrei provare compassione per il vecchio nazista che è stato riconosciuto, e si è ammesso colpevole della strage delle Ardeatine.

Per questo, a differenza di Sofri, ho condiviso la decisione di Walter Veltroni e del prefetto Serra di non concedere una piazza della nostra città a coloro che intendevano manifestare a favore della grazia per il vecchio e non pentito nazista.

Per questo ho apprezzato le parole pronunciate ieri sera dal presidente Ciampi che ancora una volta ha saputo interpretare i sentimenti della maggior parte di questo Paese, cui qualcuno vorrebbe impedire di ricordare il proprio passato, sottoponendolo ad una sorta di lobotomia in virtù della quale nessuno dovrebbe più essere in grado di distinguere le vittime dagli assassini.

Walter Veltroni Priebke, una ferita ancora aperta

Caro Adriano, ho letto il tuo articolo di venerdì su Priebke. L´ho letto con l´interesse e la partecipazione che ho sempre per le tue osservazioni, per i tuoi ragionamenti, per le immagini con cui accompagni spesso il tuo argomentare. Puoi immaginare come mi abbia colpito il tuo disegnare quel «detenuto anziano, grande e pesante, nel pigiama triste del ricoverato» che cade in ginocchio e scoppia in lacrime quando gli dicono che se ne potrà andare a casa, in Calabria, a trascorrere lì il suo ultimo tempo. E puoi anche immaginare, credo, come io sia d´accordo con te, in principio, su un altro tuo ritratto: quello del «legno secco della storta pianta umana» , della comunanza tra simili di cui tutti dovremmo avere di più, sempre, piena consapevolezza.

Proprio qui, però, mi sono fermato un primo momento, nel leggerti. Qui, dove dici anche che «non occorre sapere chi sia, né chi sia stato» , quell´uomo dal triste pigiama d´ordinanza al quale viene concessa la libertà. È vero, è come dice Miriam Mafai: le ragioni di umana pietà per cui a tuo avviso Erich Priebke potrebbe tornare a morire a casa sua, in Argentina, da sua moglie, tu le esponi in tutto il seguito dell´articolo con la sensibilità e l´intelligenza di sempre, e anche con un giusto pudore. Io però proprio su questo punto, vorrei soffermarmi. Qui non c´è, caro Adriano, solo «un ramo secco». Qui c´è una enorme ferita aperta, che attraversa la carne viva, che fa soffrire i cuori e non abbandona, non può abbandonare, le menti. Qui c´è la tragedia di un popolo intero e di una comunità, quella degli ebrei romani, di tutta Roma, che è molto più grande, troppo più grande, di un´aula di giustizia, di un «semplice» delitto e di una sentenza, di una domanda di grazia. E nel caso di Priebke io non riesco - credimi, non riesco - a non pensare a chi sia, e a chi sia stato, quest´uomo. Può darsi sia qualcosa che va al di là delle orribili colpe di cui può essersi macchiato un individuo colpevole non di un omicidio, ma di una strage di innocenti in ginocchio, di bambini e di reclusi a via Tasso; una strage per la quale è scappato, lasciando dietro di sé il dolore inumano di tante famiglie, che hanno il diritto di veder rispettati i loro sentimenti, il loro dolore, e se credono il loro diritto a non perdonare. Può darsi che sì, la Storia arrivi ad essere davvero troppo grande e complessa per un uomo che oggi ha più di novant´anni, e d´altra parte la Storia fu ancora più grande e atroce per chi stava da quest´altra parte, e la vita la perse a venti o trent´anni, preso in un ingranaggio infernale che non aveva voluto, che non comprendeva, che odiava.

Ma è così, e io credo sia davvero difficile, allora, non pensare, dimenticare anche solo per un attimo, a chi è stato Priebke, a cosa furono le Fosse Ardeatine, a cosa sono oggi, simbolo della storia e della vita del nostro Paese, spazio fondamentale di quella memoria collettiva che è elemento costitutivo di una società civile. Quel passato dobbiamo continuare a guardarlo. Dobbiamo starci di fronte, coi piedi ben piantati per terra, accompagnati da chi lo visse e lo subì, tenendo a nostra volta per mano i ragazzi di questa generazione, perché non dimentichino, come abbiamo fatto ad esempio durante il viaggio con i ragazzi delle scuole romane ad Auschwitz, lo scorso ottobre. Io temo, caro Adriano, che non sia possibile e non sia giusto «voltare le spalle e il viso» nemmeno alla scena che vedrà consumarsi il tempo estremo di quest´uomo di novant´anni, perché a sua volta - ripeto, forse al di là del suo stesso essere uomo - egli è un simbolo di qualcosa di troppo grande e atroce, davvero di «un delitto contro l´umanità che ha colpito profondamente i sentimenti del popolo italiano», come ha voluto sottolineare il presidente Ciampi. È una ferita aperta, troppo profonda. Lo capisci dal dolore ancora vivo dei parenti, lo senti dalle loro parole, lo vedi dai loro sguardi quando ogni 24 marzo in un silenzio doloroso e irreale vengono letti, uno per uno, i nomi delle 335 vittime. È lo stesso sguardo di chi pensa o torna a Marzabotto e a Sant´Anna di Stazzema, ad Auschwitz e a Dachau. Di chi ogni 16 ottobre si ritrova al Portico d´Ottavia, nel cuore del Ghetto di Roma. Tutti questi nomi sono simboli incancellabili. Ma anche le persone che vollero e permisero questo sono destinate a portare un macigno più grande delle loro spalle di uomini, e sono un simbolo. Non ha avuto torto Simon Wiesenthal a ricercare, per tutta la sua vita, questi simboli. Non ha torto il Tribunale penale internazionale a processare gli uomini che sono simbolo di Trnopolje, dei campi di detenzione di quei Balcani che conosci così bene, che hai raccontato come pochi. La giustizia non deve essere mai accanimento, non deve essere inumana, deve saper guardare alle persone che con il tempo possono non essere più le stesse, deve avere come obiettivo non la segregazione in sé ma il recupero e il reinserimento nella società. Su questo sai come la penso, ne abbiamo parlato tante volte, anche per cose a cui teniamo entrambi, e tu - come posso dire - con qualche motivo in più rispetto a me. Nel caso di Priebke, però, ha ragione Tullia Zevi: siamo di fronte a un uomo che non ha mai dato segni di pentimento o di ravvedimento, né di pietà verso le vittime del nazismo. E poi stiamo parlando di una persona che non è in carcere, che sta trascorrendo la detenzione in una abitazione privata. E´ per questo, caro Adriano, che voglio dirti per prima cosa che trovo odiosi quei manifesti che accostano il tuo nome a questa vicenda, perché la tua libertà, che io spero e sollecito, nasce in primo luogo dalla grandezza del tuo comportamento in questi anni difficili. E poi voglio dirti che è per tutto questo che non ho ritenuto di poter limitarmi a «un´alzata di spalle» quando si è trattato di decidere se concedere o no l´occupazione del suolo pubblico ai sostenitori della grazia per Priebke. Non so se conosci personalmente Piero Terracina, certo avrai letto di lui, e le sue testimonianze di ragazzo rinchiuso ad Auschwitz e tra i pochi ad essere tornato. Bene, ti assicuro che Piero è una persona di profonda umanità e apertura, privo di qualsiasi spinta vendicativa anche verso chi allora fu suo carnefice, portandogli via tutta la famiglia, nessuno escluso. Mi è stato di conforto, allora, il modo in cui ha condiviso le decisioni che abbiamo preso, senza impedire il diritto di esprimere le proprie opinioni ai sostenitori della grazia, ma anche senza concedere - e in questo apprezzo la sensibilità dimostrata dal Prefetto Serra - l´avallo ufficiale delle istituzioni a una manifestazione che avrebbe offeso la comunità ebraica, tutta Roma e per primi i parenti delle vittime. Il Ghetto di Roma, dal quale furono strappate in una notte più di mille persone, è ancora oggi un luogo che trasuda dolore e grida, smarrimento e pianto. Non c´è equilibrio fra 335 morti innocenti e un uomo che è fuggito e non ha mai riconosciuto l´orrore assoluto del proprio comportamento. Almeno la memoria, quell´equilibrio deve salvaguardarlo.

Edoardo SalzanoLettera a Radio Tre, Prima Pagina

Caro Calabresi,

Una signora, ieri, ha detto che il responsabile della strage delle Fosse Ardeatine è chi ha compiuto l'attentato di via Rasella e non si è consegnato quando ha saputo che 335 persone sarebbero state uccise. Nella risposta lei non ha citato un fatto decisivo ai fini di ogni giudizio. Cioè che della strage delle fosse Ardeatine si è data notizia quando il crimine era già stato compiuto. Qualunque storia di quegli anni lo sottolinea, e così lo ricorda chi - come me - in quegli anni era a Roma e ha ancora presente il titolo del Messaggero di allora.

La strage fu conclusa alle ore 19 del 24 marzo, e la notizia dell'avvenuta esecuzione avvenne il giorno successivo, 25 marzo, alle ore 12. Il titolo e il sommario del Messaggero informavano dell'avvenuto attentato, della decisione di fucilare "dieci comunisti badogliani" per ogni soldato tedesco ucciso, e dell'avvenuta esecuzione: "l'ordine è già stato eseguito".

Grazie dell'attenzione

© 2024 Eddyburg