loader
menu
© 2024 Eddyburg

Un lettore mi fa notare che la mia presa di posizione contro il ritorno italiano al nucleare (Repubblica del 17 e 21/3) mal si concilia con i precedenti articoli avversi alle «due fonti alternative fondamentali, l’eolico e il fotovoltaico». Ma allora, si chiede il lettore, dovremmo tornare al Medioevo? Cercherò di dissipare questo dubbio ma per l’immediato vorrei segnalare una preoccupazione ben più incombente. E, cioè, la ripresa della campagna per un ristabilimento pieno degli incentivi da parte, tra l’altro, di gruppi mafiosi più volte finiti tre le maglie della Giustizia e di politici che hanno fatto dell’ecologia uno strumento di influenze e tangenti. Ora gli incentivi per i due settori sono stati in Italia i più alti del mondo e i più dannosi per l’ambiente e il paesaggio. Tocco solo due punti: I) l’eolico è sostenibile, pur sempre con incentivi, se il vento spira quasi sempre e spira forte. In proposito i calcoli internazionali danno un limite minimo di funzionamento che si aggira mediamente sulle 2000 ore/anno per assicurarne una convenienza relativamente economica. Su questo plafond si basano i parchi eolici degli altri Paesi, mentre da noi i venti sono assai meno impetuosi ed hanno finora dato prova di poter spirare come dolci zefiri per 1.252 ore/anno in rapporto alla potenza installata. Un vero fallimento ma non per gli installatori, i gestori e soprattutto i «facilitatori», come vengono denominati i promotori-faccendieri che spesso perfezionano fino alla virgola il dossier per le autorizzazioni, costruzioni, incentivi, tangenti sottostanti incluse e che intascano il pattuito e rivendono l’affare ad altri.

La convenienza per tutti era fin qui assicurata dalla dimensione, la più alta del mondo, degli incentivi, rimborsi, certificati verdi e quant’altro.

Tremonti, dunque, non poteva certo tagliare scuola, cultura e spesa sociale lasciando indenne quest’orto protetto. Se una critica può esser mossa, tale da richiedere una modifica, riguarda la retroattività di taluni provvedimenti che colpiscono proprio alcune industrie del fotovoltaico che avevano agito secondo le direttive già impartite. Comunque, contro la potatura eolica, si leva ora il coro delle proteste trasversali che mette assieme «volenterosi» dei diversi schieramenti politici e qualche organizzazione ecologista «embedding». II) Per il fotovoltaico il discorso è diverso. A parte il costo altissimo di questa tecnologia, va considerato il disastro paesaggistico di migliaia di ettari di terreni agricoli ricoperti da praterie di specchi fotovoltaici (altra cosa sono i pannelli solari per l’acqua calda nelle abitazioni). Per contro grandi impianti fotovoltaici possono venire istallati senza danno sui tetti di capannoni, edifici industriali, strutture pubbliche e private con coperture adatte (stazioni, autorimesse, ecc.) e quant’altro non rovini il paesaggio. La priorità della salvaguardia deve, invece, essere assicurata per i terreni agricoli che fanno parte inscindibile del patrimonio ambientale.

Vi è, inoltre, da notare che appare assurdo concentrare gli sforzi solo sulle fonti rinnovabili elettriche quando l’elettricità rappresenta il 30% del contenuto energetico delle fonti primarie (per questo anche l’uso del nucleare avrebbe un effetto assai relativo sui consumi totali che potrebbe in gran parte essere sostenuto da usi energetici efficienti) mentre l’energia termica copre il 39,4 %. (e i carburanti il 22,2). Per contro è stato calcolato che le rinnovabili termiche possono dare ben il 49% dell’energia rinnovabile (attraverso la geotermia, i pannelli solari, pompe di calore, biomasse, caldaie a condensazione), valendosi di tecnologie italiane di avanguardia, e facendo parte integrante dei progetti di riqualificazione del tessuto residenziale e dei piani di efficienza industriale. Infine offrono opportunità per centinaia di migliaia di nuovi posti.

Eppur esse non sono state neppure individuate come tipologia dall’assurdo sistema di incentivazioni messo in piedi dai nostri governi.

I due colpi, il sisma e le onde di tsunami, che in rapida successione si sono abbattuti venerdì scorso sul Giappone sono stati senza dubbio alcuno fuori dall’ordinario. Il terremoto di magnitudo 9,0 è il più forte mai registrato nell’arcipelago nipponico e il quinto per potenza mai registrato al mondo. Lo tsunami, con onde alte fino a 10 metri, è avvenuto sottocosta e in pochi attimi ha raggiunto e devastato un territorio pianeggiante.

Le perdite umane sono state alte: si parla di migliaia di morti. Ma gli esperti non hanno dubbi: in qualsiasi altra parte del mondo, con analoga intensità abitativa, sarebbero stati ben maggiori. Basta ricordare che proprio lo scorso anno ad Haiti un terremoto di magnitudo 7,0 – di due ordini di grandezza meno potente – e senza tsunami ha causato quasi 300.000 morti. Pur nella tragedia, il Giappone ha dimostrato che per capacità tecnologica e cultura della prevenzione non ha pari al mondo.

Tuttavia oggi il mondo è col fiato sospeso a causa di un effetto secondario del terremoto e dello tsunami: la crisi del sistema nucleare. Non il collasso, si badi bene. Perché nessun dei 55 reattori che costituiscono il sistema nucleare giapponese è collassato e tutti quelli a rischio sono stati spenti automaticamente non appena è stata registrata la scossa sismica. Ma una crisi del sistema, quella sì c’è stata. Il sistema ausiliario di refrigerazione non ha funzionato bene, soprattutto (ma non solo) in alcuni reattori della centrale di Fukushima. Provocando una crisi seria: perché già oggi, mentre la situazione è ancora in evoluzione e minaccia di peggiorare, quello ai reattori giapponesi è considerato il più grave incidente della storia del nucleare civile dopo Chernobil. L’ISPRA, l’Ente pubblico di ricerca italiano che si occupa di ambiente e anche di sicurezza nucleare, classifica l’incidente di Fukushima al livello 5 della scala INES (International Nuclear Event Scale), che va da 1 a 7. Le autorità nucleari francesi lo classificano, addirittura, al livello 6.

Le notizie sono ancora frammentarie. Non sappiamo se c’è stata, in qualcuno dei reattori, fusione del nocciolo. Non sappiamo se i giapponesi riusciranno a refrigerare i reattori surriscaldati. Sappiamo però che ci sono state diverse esplosioni, di natura chimica, che hanno provocato emissioni, più o meno controllate, di nubi definite nocive dal governo giapponese.

Non conosciamo né la quantità né la natura della radiazione liberata nell’ambiente. Sappiamo però che il governo di Tokio ha deciso di evacuare l’area intorno alla centrale per un raggio prima di 10, poi di 20, poi di 30 chilometri.

Non conosciamo ancora le cause precise della crisi del sistema ausiliario di refrigerazioni in così tanti reattori. E solo una conoscenza dettagliata potrà trasformarsi in una spiegazione significativa. Tuttavia una cosa è certa: il sistema nucleare giapponese – o, almeno, una parte di esso – non è stato progettato e realizzato per sopportare i due terribili colpi: il terremoto di altissima intensità e l’arrivo in tempi rapidissimi delle terribili onde di tsunami.

Bisogna capire se l’imprevisto è risultato tale perché imprevedibile. Oppure per carenze di progettazione. Il nodo non è da poco. Perché, in ogni caso, propone domande cui non è semplice rispondere.

Poniamo che il doppio colpo imprevisto in Giappone fosse imprevedibile. Questo non ci deve portare a rivedere profondamente i fondamenti teorici su cui costruiamo i nostri sistemi di prevenzione del rischio? Se, al contrario, il grave incidente è stato tale per colpa oggettiva dei progettisti (era prevedibile e non è stato previsto) nel paese a elevatissimo sviluppo tecnologico e a elevatissima cultura della prevenzione, non è il caso di rivedere in profondità il modo in cui mettiamo in pratica i fondamenti teorici della prevenzione del rischio?

Rispondere a queste domande viene prima della domanda che oggi campeggia sulla prima pagine e persino sulle agende delle cancellerie di : nucleare sì o nucleare no?

ROMA— L’allarme per la paura di una eventuale fuga radioattiva dalla centrale nucleare di Fukushima, in seguito al terremoto in Giappone, riapre in Italia la polemica sul nucleare. «Occorre riflettere sull'apocalisse che è avvenuta in Giappone— ha commentato Leoluca Orlando dell’Italia dei Valori —. Quanto sta accadendo è la testimonianza del pericolo del nucleare, energia ormai obsoleta» . Antonio Di Pietro ha aggiunto: «Diciamo no alle 13 centrali nucleari che il governo Berlusconi vuole aprire. Un errore tagliare sulle rinnovabili per tornare al nucleare» .

L’Italia dei Valori è tra i promotori del referendum contro la riapertura delle centrali nucleari, fortemente criticate anche dai Verdi di Angelo Bonelli, da Legambiente e Wwf e dal governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia. Per Bonelli «l'emergenza atomica giapponese deve far riflettere sulle parole di chi, in Italia, con troppa superficialità, dice che il nucleare è sicuro» .

Ma Cnr, Enea e Forum nucleare italiano assicurano invece che non ci sarà l’effetto Chernobyl. «Le centrali nucleari sono sicure. Chi è contrario è fermo a una vecchia mentalità ideologica che si basa su presupposti sbagliati» , spiega l’oncologo Umberto Veronesi da poco nominato direttore dell’Agenzia per la sicurezza nucleare. «Le fughe radioattive mi sentirei di escluderle. Nella peggiore delle ipotesi si tratta di materiale contaminato da radiazioni ma non ci sarà il cosiddetto "effetto Chernobyl"» ha spiegato Valerio Rossi Albertini del Cnr.

«Ci fa piacere che il Cnr escluda un effetto Chernobyl— ha replicato il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza —. Ma questo non ci tranquillizza, anche il rilascio di piccoli contaminanti mette a repentaglio la salute umana. Ci auguriamo fortemente che il governo riveda il suo masochistico programma nucleare» . Paolo Clemente, responsabile del laboratorio rischi naturali dell’Enea, spiega che nelle centrali nucleari «i sistemi di sicurezza si spengono automaticamente. E così è accaduto in Giappone. Solo in uno, questo meccanismo non ha funzionato a regola d'arte» . Ma secondo Alfiero Grandi, presidente del comitato «Sì alle rinnovabili No al nucleare» , anche un solo caso è pericoloso.

Postilla

Nel dibattito sull’energia appare poco la questione di fondo: davvero serve produrre tutta l’energia che dicono? E per che cosa? Tanti hanno dimostrato il consumo crescente di energia serve solo a mantenere in piedi un sistema economico folle, perverso e disumano, basato sulla produzione di merci sempre più inutili, che devono essere prodotte in grande quantità solo per poter far camminare la macchina della produzione, ma che hanno così poca utilità per lo sviluppo dell’uomo (quello vero) che quelli che comandano hanno fatto diventare stupidi tutti a furia di imbonimenti pubblicitari. Gli studiosi seri lo dimostrano da almeno mezzo secolo, eppure chi controlla l’informazione (e costruisce e alimenta l’ideologia dominante) è riuscito a cancellare questa verità dal mondo delle idee che hanno diritto di circolazione.

Nella retorica generalmente barocca di Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia e leader di "Sinistra, Ecologia, Libertà", in questo modo "si spegne il sole per favorire il nucleare". Ovvero, "il governo uccide il fotovoltaico". E verosimilmente non è facile coniare una sintesi più efficace, per riassumere e denunciare gli effetti perversi del decreto legislativo contro le energie rinnovabili.

Con il provvedimento predisposto dal ministro Romani, non si rischia di bloccare soltanto i finanziamenti e quindi gli investimenti a favore di un pilastro portante della "green economy", quanto l´intero sviluppo economico dell´Italia a cui il suo stesso dicastero è intitolato, compromettendo la credibilità istituzionale e l´affidabilità del nostro Paese come dimostra anche la protesta dell´Associazione delle banche internazionali. Tanto più nel momento in cui le tensioni planetarie, a cominciare dalle forti turbolenze nella Libia di Gheddafi, spingono al rialzo il prezzo del petrolio e ripropongono il problema della nostra dipendenza energetica dall´estero.

Il decreto contro il sole e contro il vento non fa che confermare, dunque, i sospetti e le preoccupazioni del fronte ambientalista che fin dall´inizio aveva individuato nel rilancio del programma nucleare il pericolo di uno stop alle rinnovabili. Un´inversione di tendenza che in realtà rivela una sorta di scambio occulto fra scelte e strategie alternative, interessi e capitoli di spesa. E naturalmente anche fra le rispettive lobby, quella dei pannelli fotovoltaici o delle pale eoliche e quella ben più potente e aggressiva dell´atomo.

Alla base di questa opzione, non c´è infatti un´economia di mercato con le classiche regole della domanda e dell´offerta. C´è piuttosto un´economia di Stato, destinata in entrambi i casi a essere sostenuta o assistita – almeno per lungo tempo – dagli incentivi e dai finanziamenti statali. Ma c´è soprattutto – o meglio, dovrebbe esserci – l´interesse pubblico, l´interesse generale, l´interesse comune dei cittadini.

Quali sono, precisamente, questi interessi? Quello economico e quello ambientale. Lo sviluppo e l´indipendenza energetica. La sicurezza e la salute. E ciascuno di noi è libero di stabilire la gerarchia che preferisce, tenendo conto dei costi e dei benefici, dei vantaggi e dei rischi.

Quello che non si può fare è propalare notizie false e tendenziose; lanciare allarmi o peggio ancora ricatti mediatici sui costi dell´energia verde; oppure "raccontare frottole", come contesta apertamente il senatore Francesco Ferrante (Pd) al presidente del Consiglio, a proposito del peso delle rinnovabili sulle bollette. A parte l´Iva che nel 2010 ha gravato da sola per un miliardo di euro, come se si trattasse dell´acquisto di un bene o servizio, il responsabile delle Politiche per l´energia del Partito democratico ricorda polemicamente che gli utenti italiani continuano a pagare sull´elettricità 300 milioni di euro all´anno per il nucleare che non esiste più nel nostro Paese dal 1987; oltre 1,2 miliardi per il famigerato "CIP 6" che, invece di essere destinato effettivamente a incentivare le fonti alternative, s´è risolto in un regalo ai petrolieri; e più di 355 milioni in agevolazioni alle Ferrovie dello Stato.

Al contrario poi di quanto tenta di accreditare la propaganda governativa, l´atomo non assicura affatto l´indipendenza energetica: per il semplice motivo che per produrre il nucleare occorre l´uranio e l´Italia non possiede notoriamente giacimenti di tale combustibile. Resta infine, come una maledizione biblica, la questione tuttora irrisolta dello stoccaggio e smaltimento delle scorie radioattive.

La verità è che a tutt´oggi l´energia nucleare è ancora troppo cara e troppo rischiosa. Per paradosso, considerando gli investimenti necessari e appunto i finanziamenti statali, all´Italia costerebbe di più produrla in proprio che continuare a importarla dalla Francia. E ragionevolmente non c´è neppure da temere che questa decida all´improvviso d´interrompere le forniture: si tratta infatti di una produzione a ciclo continuo che non può essere ridotta o sospesa ed essendo in esubero, rispetto al fabbisogno nazionale francese, non troverebbe altri sbocchi sul mercato.

A tagliare definitivamente la testa al toro, il fattore tempo. Per costruire una centrale nucleare, occorrono almeno 10-15 anni. L´Italia non potrebbe permettersi di aspettare tanto, anche per non rischiare di essere condannata a pagare le pesanti sanzioni previste per chi, secondo il Protocollo di Kyoto, non rispetta il cosiddetto "pacchetto clima" varato dall´Unione europea e già approvato anche dal nostro Parlamento, con la formula "20-20-20": vale a dire, 20% in meno di emissione di gas-serra, 20% di risparmio energetico e 20% in più di fonti rinnovabili, entro il 2020. Meno di dieci anni. E per rispettare quella scadenza, bisogna cominciare a lavorare subito.

Alle volte anche le denunce giornalistiche servono. Vedi, ad esempio, la campagna che da anni sosteniamo su Repubblica, sia contro le truffe che, grazie agli eccessivi incentivi, si accompagnano al proliferare degli impianti eolici, sia contro la devastazione del paesaggio agricolo in seguito alla messa in opera su troppo vaste estensioni di terreno di pannelli fotovoltaici (nella sola Toscana vi sono richieste in tal senso per 4000 ettari). Ora il governo, sotto impulso di Tremonti, interessato a stringere i cordoni della borsa, ha approfittato del passaggio della legge di recepimento delle direttive europee in materia di fonti energetiche rinnovabili per inserirvi anche una revisione del sistema degli incentivi. Le lobby che si erano già attivate per impedire la riforma dei certificati verdi, si sono subito messe all’opera per mantenere le loro posizioni di privilegio, mentre, avvalendosi dell´anno a disposizione, prima che la nuova legge sia operativa, i loro referenti, mafiosi e no, si apprestano ad una corsa sfrenata alle nuove installazioni per acquisire i diritti vigenti prima che decadano. Per bloccare questa più che probabile scorribanda, le principali associazioni ambientalistiche, con alla testa Italia Nostra, hanno chiesto una moratoria di tutte le autorizzazioni per i nuovi impianti fino a quando la riforma non sarà pienamente operativa.

In questa rubrica, quasi sempre ipercritica verso politici e amministratori, mi sia consentito una volta tanto indicare positivamente l’operato del presidente della Giunta toscana, Enrico Rossi, che già porta a suo vanto dieci anni di assessorato alla Sanità, impiegati per rendere la rete asl la più efficiente d’Italia. Eppure anche qui l’attacco speculativo stava prendendo piede e qualche tempo fa denunciammo che la Maremma, comprese le zone archeologiche di Populonia e Baratti, era minacciata da ampi insediamenti di energia solare. Ora mi è pervenuta una nota informativa di pugno di Enrico Rossi, che annuncia due provvedimenti urgenti a difesa del suolo. Il primo, preso dopo i recenti dissesti idrogeologici e franosi in varie zone della Toscana (Massa Carrara, Lucca, gli argini del Serchio e dell´Ombrone), impone nei territori a rischio, per otto mesi-un anno, il blocco di ogni edificazione per procedere alla loro messa in sicurezza, alla verifica degli strumenti urbanistici e al loro eventuale adeguamento e altrettanto per i piani di protezione civile.

L´altra decisione combina insieme tre fattori fondamentali per lo sviluppo della Toscana: l´incentivazione della produzione di energie alternative, le produzioni agricole di qualità e la tutela del paesaggio. «Abbiamo deciso – mi scrive Rossi – di consentire l´installazione di impianti fotovoltaici sul territorio, ma di evitare le distese di pannelli nelle aree di pregio, come i siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell´Unesco (tra cui la Val D´Orcia), quelle di notevole interesse culturale, quelle vincolate, le zone all´interno di visuali o panorami la cui immagine è storicizzata, zone contigue a parchi archeologici e culturali, le aree naturali protette, le zone umide e anche aree classificate a rischio idraulico e geomorfologico o interessate da interventi di messa in sicurezza. Paesaggio e agricoltura di qualità sono il biglietto da visita della Toscana nel mondo, una delle maggiori attrattive del turismo nella nostra regione e una delle principali voci dell´export agroalimentare. Incentiviamo l´uso delle energie alternative ma certamente esse debbono essere compatibili con il nostro territorio e le sue produzioni di qualità». Mancano due cose da questi lodevoli impegni di buona volontà: la loro rapida traduzione in legge regionale per renderle esecutive; e un’analoga moratoria, accompagnata da una stretta regolazione per l´eolico visto che anche in Toscana vi sono decine di impianti di enormi dimensioni in attesa della Via (Valutazione d´impatto ambientale).

Dopo oltre vent’anni di silenzio ritornano. Per farsi sentire non badano a spese. I colossi dell’energia hanno infatti deciso d’investire 6 (sei) milioni di euro in una grande e suadente campagna pubblicitaria a favore del nucleare . (La fonte è il Sole 24 ore. ) In questi giorni sugli schermi televisivi appare una partita a scacchi. Primissimo piano sulla scacchiera e sulle mani che muovono i pezzi. I due interlocutori accompagnano ogni mossa con una affermazione. Dice uno dei giocatori: “Sono contrario all’energia nucleare perché mi preoccupo dei miei figli.” Talmente generico che appare quasi come un pregiudizio. Facile la replica del secondo scacchista che afferrando il cavallo afferma : “Io sono favorevole: anche loro avranno bisogno di energia e tra 50 anni non potranno più contare solo sui combustibili fossili.” Possiamo forse negare che il petrolio è in via di esaurimento? Commovente: si prodigano per il futuro dei nostri figli. Naturalmente gli spot televisivi sorvolano sui problemi della sicurezza e minimizzano il non risolto problema dello smaltimento definitivo delle scorie, lungamente e altamente radioattive. Eppure non c’è un solo sito sicuro e funzionante in tutto il mondo e gli USA hanno abbandonato, dopo anni d’inutili esperimenti, costati 8 miliardi di dollari, il deposito di Yucca Mountain in Nevada.In questo spot non viene toccato il tema dei costi. Forse perché autorevoli studi, come il recente rapporto del MIT, Massachustts Insitute of Tecnology, valutano il costo dell’elettricità da nucleare maggiore di quello prodotto sia dal gas che da fonti rinnovabili. Non è un caso che il 61% della nuova potenza elettrica installata in Europa nel 2009 è rappresentata da impianti alimentati da fonti rinnovabili. Ma, non possiamo certo pretendere che queste informazioni ci vengano fornite da chi punta a fare affari con il nucleare. Domandiamoci piuttosto perché sentono il bisogno di convincerci sulla bontà di un ritorno al nucleare nel nostro paese. Non si sentono al riparo dalle decisioni già assunte dal governo?

Tre notizie sembrano preoccupare realmente la lobby dell’atomo. La prima. Ieri (21 dicembre) sono state consegnate alla Camera dei deputati le firme a sostegno della proposta di legge d’iniziativa popolare“Sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili per la salvaguardia del clima”.Decine di migliaia di firme, di cui oltre 8000 di cittadini del Veneto, per dire no al nucleare e si alle energie rinnovabili. Un’occasione per il tanto vituperato parlamento di recuperare credibilità affrontando i problemi veri sollevati dai cittadini. La seconda. La recente delibera del governo non convince le Regioni che si riservano un diritto di veto, territorio per territorio,sul nostro “rinascimento atomico”. La terza. L’appello di 200 imprenditori guidati dal vice Presidente di Confindustria Pistorio, contro la follia del nucleare. In particolare questi ultimi sostengono che non si possono sommare tutti gli investimenti possibili, occorre scegliere. Non ci sono soldi per investire su tutto. L’appello recita “Lo scenario prospettato dal Governo, 25% di elettricità atomica e 25% di rinnovabili al 2030, comporterebbe una enorme distrazione di risorse a discapito delle nuove energie (efficienza energetica e rinnovabili). La costruzione delle centrali nucleari interesserebbe, peraltro, una piccola minoranza di società italiane, mentre larga parte degli investimenti finirebbe all’estero. Nella migliore delle ipotesi, quando fra 10-12 anni si iniziasse a generare elettricità nucleare, se ne avvantaggerebbero pochi comparti industriali energivori e sarebbe lo Stato, attraverso la fiscalità generale, o gli utenti attraverso l’aumento delle bollette, a cofinanziare il nucleare. Questo perché il costo delle nuove centrali è estremamente oneroso”. In sostanza la scelta nucleare determinerebbe, necessariamente, una sottrazione di intelligenze, di risorse economiche, per giunta durante la peggiore crisi degli ultimi due secoli, rispetto ai più promettenti settori dell’efficienza e delle rinnovabili che saprebbero attivare, come in parte stanno già facendo, ricadute economiche e occupazionali immediate.

Considerato anche il limitato consenso nel Paese, pensiamo che il progetto nucleare si arenerà, ma avrà fatto perdere all’Italia tempo e ricchezze. Per questa ragione ci siamo rivolti al Parlamento con una proposta di legge che si propone non solo l’obiettivo di bloccare il tentativo di tornare al nucleare in Italia ma anche e soprattutto quello di mettere ordine nelle scelte degli investimenti, occupazionali, ambientali e di tutela della salute che sono il risultato di un’azione coerente di salvaguardia del clima, almeno per la parte che dipende da noi. Ci rivolgiamo però anche al Presidente Zaia perché anche nel Veneto, come sta facendo per esempio l’Emilia Romagna, si adotti un Piano energetico regionale improntato all’efficienza energetica: un piano di riqualificazione energetica degli edifici che ne riduca i consumi di elettricità e calore e sposti le attività del settore edile verso la manutenzione e riqualificazione del già costruito abbandonando la cementificazione del territorio (le recenti alluvioni non hanno insegnato nulla?); un piano per sottoporre il Veneto ad “una cura del ferro” per spostare la mobilità delle persone dalla gomma al ferro, metropolitana di superficie e tram, e al cabotaggio sulle autostrade del mare e le idrovie, concentrando in questa direzione gli investimenti anziché su strade e nuove devastanti autostrade.

E poi serve una più attenta pianificazione per l’installazione delle fonti rinnovabili (solare termico e fotovoltaico) privilegiando l’istallazione sui capannoni e le case ed escludendo i terreni agricoli e ancora, mini impianti geotermici, eolici e idroelettrici su piccoli salti.

Pensate forse che questo sia il programma dei soliti ambientalisti sognatori che, come ironizza Tremonti, “si trastullano con i mulini a vento”? Allora vi consiglio per le vacanze natalizie una interessante lettura che vi spiazzerà. Si tratta delle “Proposte di Confindustria per il Piano Straordinario di Efficienza Energetica 2010”. Lo studio, ricco di analisi di dettaglio, giunge alle seguenti conclusioni di sintesi: “Il complesso delle misure di efficienza energetica nei vari settori industriali porterebbe ad un risparmio potenziale del nostro paese nel periodo 2010 – 2020, pari a oltre 86 Mtep di energia fossile, per raggiungere la quale si attiverebbe un impatto socio-economico pari a circa 130 miliardi di euro di domanda, un aumento della produzione industriale di 238,4 miliardi di euro ed una crescita occupazionale di circa 1,6 milioni di unità di lavoro standard”. Dunque unmilioneseicentomila posti di lavoro contro i diecimila propagandati dai promotori del nucleare. Per giunta con un effetto positivo sul bilancio statale. Non è materia sufficiente per aprire un dibattito pubblico?

L’autore è responsabile del dipartimento Ambiente e territorio della CGIL Veneto

SIENA. La ricerca di petrolio e di idrocarburi come il metano, dopo l'approvazione della legge 30 luglio 2010, n. 122, è ripartita velocissima in Italia e il Ministero dello Sviluppo Economico è stato lesto a concedere e far approvare dagli enti locali tanti dei permessi di ricerca richiesti. Si stima che oggi siano in azione 700 trivelle e che in 100 nuove aree di perforazione stiano per cominciare i lavori! Si pensa sempre che il problema sia per gli altri, ma da giugno è attiva la concessione che riguarda l'area del fiume Bruna nel comune di Roccastrada per la ricerca di metano e petrolio. Quindi la probabilità di vedere pozzi estrattivi tra la Maremma e il Chianti è molto più alta di quello che ci si può immaginare. Le stime petrolifere affermano che

Nel sottosuolo italiano si possono nascondere cento milioni di tonnellate di petrolio, a grande profondità, circa 800-1200 metri, una goccia (4 per cento) nell'oceano del fabbisogno nazionale, ma che sembra far gola lo stesso.

Ora non vi è senese che, andando in giro nel mondo, non sentisse ovunque magnificare la bellezza della nostra terra. In effetti, se la guardiamo con occhi diversi dai nostri che vivendoci tutti i giorni non sappiamo apprezzarne la specificità, il territorio della nostra provincia è il risultato miracoloso della forza della natura e di un sapiente intervento dell'uomo nel piegarla alle proprie necessità. Una sequenza di pozzi petroliferi tra Castellina in Chianti e San Giovanni d'Asso, solo per citare due comuni che hanno dato parere positivo alla richiesta d'esplorazione del sottosuolo a una società australiana (che risulta non avere dipendenti), che potrebbe avere effetti devastanti per inquinamento e modifica della morfologia del territorio è l' immagine che presto si presenterà agli occhi dei turisti di tutto il mondo. Perché dal 4 agosto 2010, la società Heritage Petroleum ha presentato alla Provincia di Siena anche la documentazione per il VIA sulla istanza denominata "Cinigiano", oltre a quella già raccontata su questo quotidiano on line nel precedente articolo denominata "Siena", e l'iter burocratico si avvia, nel silenzio dei media, alla sua approvazione.

Come si fa la ricerca di idrocarburi? Si provocano delle esplosioni e si studia la generazione e il moto delle onde rifratte e riflesse, misurandole con degli strumenti chiamati geofoni. Individuato il giacimento, si crea un pozzo esplorativo che nel nostro caso dovrebbe essere di rilevanti dimensioni dovendo trivellare per almeno 1000 metri di profondità. Potrebbero interferire con le falde acquifere termali, per esempio, di rilevante importanza nella nostra provincia, da Rapolano a Bagno Vignoni. La gestione dei rifiuti e del materiale di risulta come i fanghi oleosi potrebbe essere importante, come il ripristino degli ambienti inquinati dai pozzi.

Ma agli australiani, se non per imposizione, potrebbe non interessare tutto ciò (non sono interessati nemmeno alla propria terra – cfr. Diamond “Collasso”), e in poco tempo potrebbe essere devastato un territorio costruito più o meno sapientemente in secoli dall'uomo. E non dimentichiamoci che al largo dell'isola d'Elba, in una delle zone più protette dal punto di vista ambientale, c'è una istanza per trivellazioni marine, proprio davanti alle coste in cui andiamo ogni estate a fare il bagno...

Lexdc Siena, da il cittadino online

Non era difficile essere profeti di disgrazia a proposito della ricerca di idrocarburi nel Golfo del Messico. Gli standard di sicurezza non sono, di fatto, rispettati dal 1979, anno del primo grave incidente, e ancora non è stata nemmeno affrontata la situazione derivata dalla falla della Deepwater Horizon, quando un nuovo incidente, i cui contorni sono singolarmente ancora incerti, riapre una questione che deve trovare una risposta definitiva.

È possibile trivellare allegramente tutta la crosta terrestre senza pagare un prezzo ambientale elevato? A questa domanda abbiamo risposto affermativamente per oltre un secolo, ma invece di approfittare della seconda tecnologia al mondo per investimenti e innovazione (prima del petrolio c’è solo l’industria delle armi) al fine di lavorare in condizione di «safety first», abbiamo abbassato i livelli di sicurezza. Un tempo un incidente in fase di trivellazione o produzione era piuttosto raro, oggi rischia di diventare frequente, non esattamente a causa della crisi economica, visto che il margine di profitto sugli idrocarburi è talmente enorme da non mandare ancora fallita la Bp, pure se si dovrà impegnare per mezzo secolo al ritmo di qualche miliardo di dollari all’anno, se vuole riportare la vita nel Golfo.

Ma questa situazione è figlia dell’attuale grado raggiunto dall’esplorazione petrolifera mondiale: la maggior parte dei grandi giacimenti è stata scoperta negli Anni Settanta e, se si vuole ancora esplorare, restano due frontiere, i Poli e le profondità oceaniche. Per ragioni di carattere ambientale e scientifico l’Antartide è off-limits, protetta da un trattato del 1959 che vacilla ma ancora tiene. L’Artico è oggetto di appetiti, ma, per ora, i costi sono troppo elevati. Restano i fondali oceanici, anche a profondità di qualche migliaio di metri, target un tempo impossibile per via delle difficoltà tecniche, oggi reso possibile dall’aumento dei ricavi. Che si tratti dell’Oceano Atlantico o del Mediterraneo, assistiamo a una fiorire di permessi di esplorazione senza eguali, anche alle nostre latitudini (quasi 40.000 kmq di nuove richieste fatte da ditte non meglio conosciute che comprano permessi di ricerca in Adriatico e nel Tirreno settentrionale, mettendo nel mirino addirittura il santuario dei cetacei). In vista di un rincaro dei prezzi la corsa al nuovo giacimento continua, sperando di compensare i costi con un barile a più di 100 dollari.

Nel 2009 la produzione italiana di petrolio offshore è stata 525.905 tonnellate: 353.844 in Zona B (Adriatico centrale) e 172.061 in Zona C (Tirreno meridionale e Canale di Sicilia) ma Legambiente fa notare che nei primi due mesi del 2010 la produzione è aumentata in totale di quasi il 35%, passando da 83.882 tonnellate a 113.136. Nello specifico è stata registrata una flessione dell’8% in Zona B (passando dai 58.020 tonnellate del 2009 alle 53.470 del 2010) e un notevole aumento pari al 130% in Zona C (passando dai 25.863 tonnellate del 2009 alle 59.666 del 2010). In Zona B il petrolio si estrae da 5 piattaforme e da un totale di 35 pozzi, in Zona C il greggio si estrae da 4 piattaforme e da un totale di 41 pozzi. Tutto questo grazie alle semplificazioni della normativa approvate dal governo e a un prezzo del barile a livelli sempre più elevati, fino a rischiare l’ubicazione in aree di elevato pregio ambientale.

È vero che sono ancora più gravi i problemi che provocano le petroliere, ma l’incidente di aprile e quello di ieri stanno cambiando le statistiche: forse ancora non sono così frequenti, ma i danni che provocano sono micidiali. Il presidente Obama aveva minacciato una moratoria alle perforazioni nel Golfo del Messico: deve ora essere conseguente a questa sua estrema decisione, così come si dovrebbe fare immediatamente nei nostri mari, dove un incidente avrebbe conseguenze ancora più gravi per via delle dimensioni ridotte. Le piattaforme internazionali non sono protette da convenzioni come l’Iopc (International Oil Pollution Compensation), forse perché troppo onerose: fatto sta che il prezzo lo paga poi comunque la collettività.

Gli idrocarburi sono stati un regalo avvelenato del nostro pianeta, una specie di cavallo di Troia che non abbiamo potuto esimerci dall’accogliere. Ma all’inizio del terzo millennio sarebbe ora di rispedirlo indietro e tentare altre strade.

PALANZANO (PARMA) - Raccontano, su queste montagne, che il Marino, il vento che arriva dal mare, è prezioso come la nebbia attorno al Po. «La nebbia è indispensabile per i culatelli di Zibello. Il Marino raccoglie invece i profumi dei castagni e li porta negli stabilimenti di stagionatura dei prosciutti. É per questo che sono speciali». Il vento del mare oggi rischia però di portare verso la valle ben altri odori: polveri sottili, Pm10, monossido di azoto, ceneri uscite da nuove centrali a biomassa e a biogas che stanno spuntando come funghi poco sotto il crinale dell’Appennino. «Qui da noi - dice Franco Ferrari, presidente di un comitato di protesta nato a Palanzano - abbiamo solo tre tesori: l’aria, l’acqua, la natura. Ma c’è chi vuole fare soldi in fretta e rischia di rovinare tutto».

Le alte valli Parma, Cedra ed Enza sono la porta d’ingresso, dalla parte dei monti, della food valley più famosa d’Italia: quella del Parmigiano reggiano e del prosciutto. «Noi non siamo - racconta Maria Carla Magnani, che presiede un altro comitato a Corniglio - contro il progresso e tanto meno contro imprese che diano lavoro. Ci sono centrali a biomasse o biogas che funzionano benissimo, ad esempio in Trentino Alto Adige, ma quelle sono state studiate bene e hanno un impatto positivo sul territorio. Sono progettate e gestite dai Comuni o comunque da enti pubblici. Da noi ci sono invece solo imprese private che provocherebbero soltanto devastazione».

Si incontrano i piccoli dei caprioli e dei cervi, sulle strade di Vaestano. In questa frazione di Palanzano - quaranta abitanti d’inverno, centinaia in estate - si vogliono costruire due impianti. «Si tratta di due centrali - dice Franco Ferrari - entrambe con una potenza di 999 kw l’una. Questo perché, per una potenza inferiore ai 1.000 kw, non servono autorizzazioni provinciali o regionali: basta una Dia, dichiarazione inizio attività, consegnata al Comune. Ambedue gli impianti sono sproporzionati. La centrale a biogas, per funzionare, dovrebbe usare 300 tonnellate di liquami di stalla al giorno, ma qui a Palanzano sono rimaste tre o quattro stalle e la più grande, con 150 vacche, ha già un impianto a biogas che funziona benissimo. I liquami dovrebbero essere dunque raccolti in un raggio di cinquanta chilometri, anche in provincia di Reggio Emilia.

Una via vai di cisterne, anche perché il residuo solido - pari al 60 - 80% del totale - viene riconsegnato ai produttori. Il residuo così trattato è difficilmente utilizzabile. A Pilastro di Langhirano i coltivatori hanno protestato perché il residuo di un’altra piccola centrale danneggia il foraggio destinato alle vacche del parmigiano. E non abbiamo notizie sugli impianti di depurazione. Perché fare una centrale così in una località, Nacca, dove c’è una sola strada larga due metri e mezzo, praticamente un senso unico?».

Anche la biomassa crea problemi. «Serve la legna dei boschi ma qui nessuno ha interpellato i proprietari. Il rischio è che il cippato arrivi da fuori, il porto di La Spezia non è così lontano. A volere la centrale è un Consorzio volontario di agricoltori locali, che ha una sede presso un commercialista ma non ha capitale sociale. Eppure è previsto un investimento di almeno 6 milioni di euro. Il rischio è evidente: si ottengono le autorizzazioni, si parte in qualche modo, si costruisce e poi arriva chi è in grado di pagare davvero l’investimento. E’ per questo che abbiamo raccolto 1.400 firme - fra i residenti e chi è nato qui poi è andato a studiare e lavorare lontano ma non ha lasciato la propria casa di montagna - e le abbiamo consegnate al sindaco Giorgio Maggiali. Per ora non abbiamo avuto risposte esaurienti».

Anche a Corniglio il comitato Pro Val Parma ha fatto conti precisi. «Per alimentare la "nostra"centrale a biomassa - racconta la presidente Maria Carla Magnani - servono 13.000 tonnellate di cippato (legna tritata) all’anno, con uno stoccaggio di 100.000 tonnellate di legname. Per questo sarebbero necessari 100.000 chilometri quadrati di bosco e noi ne abbiamo diecimila, il 40% dei quali inaccessibili e 1.800 demaniali perché dentro a un parco. I rimanenti 4.200 ettari in cinque o sei anni verrebbero rasi al suolo per dare da mangiare alla centrale. Questo ovviamente non è possibile. E allora, per alimentare l’impianto, dovranno arrivare centinaia di Tir da lontano. La stessa stazione di stoccaggio è prevista a Villafranca Lunigiana, più di quaranta chilometri di strade di montagna».

Un investimento di 5 milioni di euro, da parte di una Sas con 10.000 euro di capitale, costituita all’inizio del 2010. «La nostra paura è che dentro al cippato possa finire di tutto, anche le porcherie e che una volta avviata la centrale possa trasformarsi in un inceneritore mascherato. Anche noi abbiamo pronte 1.500 firme di protesta. Sappiamo che verranno prodotte 260 tonnellate di ceneri all’anno. Dove andranno a finire?». Tante domande ancora senza risposta e una paura: che il Marino possa essere cancellato dal profumo dei soldi.

Il nucleare è cosa buona e giusta. L’undicesimo comandamento suonerebbe così, secondo l’opuscolo dalmessianico titolo Energia per il futuro:quarantasette pagine di omeliaincondizionata a favore dell’energiadell’atomo, confezionate dallaMAB.q– agenzia che cura la comunicazionedell’Enel – e distribuite urbiet orbi in allegato con i periodici ufficialidi diverse diocesi italiane, daOristano a Trento, da Agrigento a Padova.

La benedizione atomica, si legge nell’opuscolo, arriverebbe proprio dal Pontefice il quale «ha auspicato l’uso pacifico della tecnologia nucleare ». Nessun dubbio: qualche riga più in là emerge ancora più netto l’orientamento della Chiesa, «la cui posizione ufficiale in materia è stata espressa dal cardinale Renato Raffaele Martino, presidente emerito del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace: “La Santa Sede è favorevole e sostiene l’uso pacifico dell’energia nucleare, mentre ne avversa l’utilizzo militare”».

Seguono quaranta e più pagine di spot cuciti addosso all’idea che l’atomo sia una scelta salvifica: pulita, sicura, poco costosa, capace di rinfilare l’Italia dentro i tetti fissati dal protocollo di Kyoto. Peccato che se e quando si metteranno in moto i reattori nucleari, l’Italia sarà già in ritardo per il rispetto degli accordi sul clima. Matant'è: quale sponsor migliore, per l’atomico made in Italy, di un viatico religioso? SCOPRI LO SPONSOR I giornali delle diocesi prendono le distanze dai contenuti: nonsono stati loro a redarre l’opuscolo, si sono limitati a ospitarlo come una pubblicità, anche se in nessuna pagina sta scritto che si tratta di un’inserzione a pagamento e men che meno da chi è finanziata. Per capire chi in realtà abbia firmato questa operazione di sdoganamento catto- nucleare, facendola passare per un’obiettiva e asettica informazione, bisogna scivolare fino all’ultima pagina.

Qui, nel retrocopertina, si scopre che a curare la pubblicazione è stata tale MAB.q, ermetica sigla dietro cui si nasconde l’agenzia di comunicazione di Egidio Maggioni, responsabile del Centro Tv Vaticana, che nel suo portafoglio clienti vanta un intero filone religioso – Radio Vaticana, Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport, Teleradio Padre Pio, Azione Cattolica, Comune di Lourdes – ma anche nomi di peso come Fondazione Cariplo, Regione Lazio ed Enel. Enel, appunto, che della torta nucleare si accaparrerà una fetta consistente: suoi quattro degli otto reattori che sorgeranno in Italia. L’Ente nazionale energia elettrica nell’opuscolo figura più o meno come una comparsa nei titoli di coda, sfuggente, pressoché invisibile: risulta aver messo a disposizione solo il suo archivio fotografico ed offerto la collaborazione di un suo esperto, ma è intuibile chi abbia ispirato il progetto, attraverso il suo braccio operativo Sviluppo Nucleare Italia. Ed è intuibile che MAB.q sia l’anello di congiunzione tra l’Enel e la Chiesa. Del resto, quando Radio Vaticana aprì le porte alla pubblicità, è stato proprio il gigante dell’energia elettrica l’inserzionista di punta.

Quanto abbia fruttato l’allegato ai periodici diocesaninon è dato sapere: alcuni di loro, di fronte alle proteste dei lettori, si sono affrettati a prendere il largo dai contenuti e a giustificare la scelta con le difficoltà economiche causate dall’abolizione delle tariffe postali agevolate per la stampa. Nessuna smentita o distinguo sono arrivati invece dal Vaticano, a cui non potrebbe essere sfuggita una strumentalizzazione, se di questo si trattasse, delle parole del Papa, a cui viene attribuita una netta posizione pro-nucleare. Singolare, e chissà quanto casuale, è poi notare che nella geografia scomposta della distribuzione del libretto compaiano alcuni fra i territori più accreditati per l’installazione delle centrali come Oristano, che si candida a ospitare un impianto nella piana di Cirras, e Agrigento, dove designato sarebbe il centro di Palma di Montechiaro. Qui, semmai dovessero sorgere, i reattori saranno avviati con tanto di aspersione dell’acqua santa.

Firmate la petizione di eddyburg.it IL TERRITORIO DEL NUCLEARE

Una Regione buttata al vento. Trasformata in una selva di pale eoliche alte cento metri, che stanno crescendo sui crinali, intorno ai borghi medievali, a pochi metri da tesori archeologici come Pietrabbondante e Sepino. Sull’utilità dell’eolico si può discutere. Ma qui si sta stravolgendo il paesaggio di una terra. Andate in Molise, consultate le carte ufficiali, le denunce di Italia Nostra, Wwf, Via col vento e delle associazioni degli abitanti: ci sono progetti per tremila pale. Una ogni chilometro quadrato. “In tutto 187 impianti, alcuni anche di venti “mulini” alti come grattacieli di centocinquanta metri. Su 136 comuni della Regione, ben 96 presto potrebbero essere invasi. Per gli altri 40 la sorte non sarà molto diversa: saranno assediati dai colossi del paese accanto. Senza contare i 3 impianti off shore che potrebbero nascere davanti alle spiagge di Termoli. Il Molise produrrà più energia eolica della Sicilia, sei volte più estesa”, racconta Giuseppina Negro del Wwf Molise. Un assalto silenzioso. Il Molise è terra splendida, ma remota, dimenticata dalla politica e dai giornali. Governata da Angelo Michele Iorio, governatore e senatore Pdl, famoso per una polemica su parenti e amici negli ospedali di mezza regione (Iorio detiene la delega all’Energia dopo la polemica rinuncia dell’assessore Franco Marinelli).

Il business

Qui si sono date appuntamento decine di società pronte a realizzare impianti. Ci sono colossi del settore, ma anche imprese con una manciata di addetti, molte con sede in Campania. Un dettaglio che ha fatto rizzare le antenne all’Antimafia: “La maggioranza delle società saranno sicuramente a posto – commenta un investigatore – ma l’eolico, proprio in Campania, è uno dei business preferiti da imprese in odore di camorra”.

Intanto la gente del Molise combatte da sola: manifestazioni e cortei. Fuori dalla Regione, però, nessuno ne parla. Allora eccoci a Pietrabbondante. Alzi la mano chi la conosce. Eppure qui si trova uno dei più straordinari anfiteatri del nostro Paese: un semicerchio di pietra costruito dai Sanniti nel II secolo avanti Cristo. In queste giornate di inizio estate a salire fin quassù, a mille metri, sembra di volare: davanti hai tutto il Molise. A Est le montagne che si sciolgono in colline verso l’Adriatico. A Ovest il chiarore del Tirreno. Intorno i crinali. Lo stesso paesaggio che aveva negli occhi Francesco Jovine quando negli anni Quaranta scrisse il suo Viaggio nel Molise: “Di qui si vede tutta la vallata, ampia, austera, solitaria, a boschi, a macchie, a burroni, a botri. Terra varia, tormentata da rocce, da valloni, da frane, ma tutta coltivata con sapienza antica; quella stessa che conoscevano i Sanniti”.

Sfregio all’ambiente

Pietrabbondante era la città sacra dei Sanniti. All’estero sarebbe una meta per milioni di turisti. Ma il teatro è coperto di erbacce. Intorno, come funghi, decine di pale. L’ultima sberla potrebbe arrivare nei prossimi giorni: il Tar si deve pronunciare sul ricorso contro un impianto da 13 pale a un chilometro dall’anfiteatro.

Immaginate se fossimo vicini al teatro di Taormina. Un’insurrezione. Qui tutto avviene nel silenzio. Michele Petraroia, consigliere regionale del Pd, da anni lancia appelli che cadono nel vuoto: “Ma da soli non abbiamo la forza per fermare l’invasione. Purtroppo che cosa si celi spesso dietro gli investimenti nell’eolico sta emergendo dalle inchieste in mezza Italia”.

Giovanni Tesoni, il sindaco di Pietrabbondante (centrodestra), si è arreso: “Ho detto sì all’impianto”, esordisce. Aggiunge: “Sarei contrario, queste rovine mi stanno a cuore… da bambino ci venivo a giocare”. Allora? “Dall’anfiteatro vedi decine di pale nei comuni vicini. Il danno è fatto. E poi le casse del Comune sono vuote. O costruiamo gli impianti o tagliamo i nostri boschi, non abbiamo altre entrate. Le rovine portano ventimila persone l’anno, 50 mila euro, ma il Comune non vede un centesimo. Vanno tutti allo Stato che qui fa lavorare sei persone, ma non tagliano nemmeno le erbacce”. Il noto archeologo Adriano La Regina, dopo essersi battuto per Roma, è una delle poche voci a difesa del Molise (l’altra è quella Vittorio Sgarbi): “Il Sannio è una terra straordinaria. Rischia di perdere una ricchezza molto maggiore di quella dell’eolico. A Pietrabbondante non ci sono solo il teatro e il tempio. Sulla montagna ci sono fortificazioni sannitiche. Proprio lì è previsto il nuovo impianto”, spiega La Regina.

Non basta. “Non abbiamo nemmeno i soldi per altri scavi”, allarga le braccia Tesoni. Già, i resti dei Sanniti emergono ovunque. Seguite Giulio, cercatore di funghi di Frosolone, vi porterà a Civitanova del Sannio. “Una mattina mentre andavo a porcini mi sono trovato davanti questi massi”, racconta. Dalla vegetazione emerge un enorme muro. È un forte dei Sanniti, roba di duemilacinquecento anni fa.

Addio limiti

Questo è il Molise. Come a Sepino. La Regina lo descrive così: “È una città romana perfettamente conservata: mura, torri, porte. Sul teatro si sono inseriti i palazzi del Settecento, sembra un piccolo teatro di Marcello (a due passi dal Campidoglio, a Roma, ndr) in mezzo ai campi”. Ma Sepino la sua battaglia l’ha appena persa: il Consiglio di Stato ha dato il via libera a un impianto di 18 pale. È la legge regionale a permetterlo. “All’inizio – racconta Giuseppina Negro – era stato previsto un limite di distanza per gli impianti, ma il Governo ha impugnato la legge… strano, soltanto quella del Molise”. Così sono arrivate le nuove linee guida: “E addio ai limiti previsti”.

Ma non ci sono soltanto i siti archeologici. San Pietro Avellana, Macchiagodena, Guglionesi, Riccia, San Martino in Pensilis, succede dappertutto. Come sui pascoli selvaggi di Acqua Spruzza a Frosolone. Siamo a milletrecento metri, su un altopiano popolato da cavalli allo stato brado e mucche. Camminando in mezzo a papaveri e ginestre all’inizio non te ne accorgi, poi ecco quel rumore continuo, martellante. Decine di pale eoliche prendono a sberle l’aria. Questa diventerà la colonna sonora nella vita della gente del Molise. A tutte le ore, ogni giorno dell’anno. Roba da impazzire. Se anche ti tappi le orecchie le hai davanti. Ovunque tu vada non potrai scappare.

Era stato il fiore all'occhiello del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dell'ex ministro per lo Sviluppo Economico Claudio Scajola. Il percorso intrapreso non sembrava ammettere sbandate, deviazioni o rallentamenti: il ritorno dell'energia nucleare in Italia era un obiettivo primario ed imprescindibile dell'agenda di governo, anche a fronte della scarsissima popolarità (e dei numerosi timori) che questa "tecnica energetica" riscuote ancora oggi in Italia.

Tre giorni fa la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza numero 215 del 9 giugno 2010, con la quale la Corte Costituzionale ha decretato un vero e proprio stop alla corsa all'atomo del governo italiano.

La legge incriminata è la numero 102, del 3 agosto 2009, conversione del decreto-legge numero 78. Con essa, all'articolo 4, il governo apriva alle procedure d'urgenza per la costruzione di nuove infrastrutture per la produzione di energia elettrica, da leggersi più comunemente come "nuove centrali nucleari".

Il governo aveva piena potestà esclusiva in materia di trasmissione e distribuzione e competenza congiunta con le regioni per quanto concerne la produzione e, quindi, la collocazione dei nuovi impianti.

Le nuove centrali rientravano in un piano di urgenza "in riferimento allo sviluppo socio-economico" (non a caso la legge in questione è il famoso "pacchetto anti-crisi") e si stabiliva la loro edificazione per mezzo di capitali "prevalentemente o interamente privati".

Ai fini di attuazione, il governo istituiva la figura di uno o più Commissari straordinari del governo, con poteri esclusivi e totali in tema di nuovi impianti energetici, al punto tale da poter scavalcare tutti gli enti coinvolti (a partire dai comuni e dalle regioni) per la scelta delle nuove sedi nucleari nazionali.

E' stato proprio il mix tra "ragione d'urgenza" ed "utilizzo di capitali privati" e la privazione dei poteri decisionali delle regioni in materia ad aver condotto la Corte Costituzionale a cassare l'intero articolo, nei commi che vanno dall'1 al 4.

Secondo quanto stabilito dalla suprema corte di giustizia italiana, "trattandosi di iniziative di rilievo strategico, ogni motivo d’urgenza dovrebbe comportare l’assunzione diretta, da parte dello Stato. Invece la disposizione impugnata stabilisce che gli interventi da essa previsti debbano essere realizzati con capitale interamente o prevalentemente privato, che per sua natura è aleatorio, sia quanto all’an che al quantum".

Inoltre, per quanto concerne la depotenziazione delle regioni in materia, la Corte Costituzionale afferma che "se le presunte ragioni dell’urgenza non sono tali da rendere certo che sia lo stesso Stato, per esigenze di esercizio unitario, a doversi occupare dell’esecuzione immediata delle opere, non c’è motivo di sottrarre alle Regioni la competenza nella realizzazione degli interventi".

E conclude deliberando che "i canoni di pertinenza e proporzionalità richiesti dalla giurisprudenza costituzionale al fine di riconoscere la legittimità di previsioni legislative che attraggano in capo allo Stato funzioni di competenza delle Regioni non sono stati, quindi, rispettati".

Quanto stabilito dalla Consulta, ancora una volta nel silenzio quasi tombale della stampa nazionale, apre ad una vera e propria svolta in termini energetici e ostruisce, di fatto e sin da adesso, un percorso accelerato verso la creazione di nuove centrali nucleari.

Le procedure d'urgenza, che consentirebbero nell'ordine di 10-15 anni, di avere energia nucleare operativa in Italia, confliggono con la necessità imprescindibile del governo di attribuire i costi di produzione degli impianti ai singoli privati. E l'automatico decadimento delle ragioni d'urgenza, ipso facto, determinano il ripristino automatico della facoltà degli enti locali, ed in particolar modo delle regioni, di appoggiare o rigettare integralmente le scelte operative e territoriali dell'esecutivo nazionale.

Per un governo ancora privo di ministri deputati alla gestione delle questioni energetiche (dalle dimissioni di Claudio Scajola l'interim delle Attività Produttive è ancora nelle mani del premier Berlusconi), non si prospettano tempi facili. Il nucleare italiano è ad un passo dalla morte prima ancora della sua nascita. La battaglia dei governatori Vendola, Errani e Lorenzetti contro il nucleare italiano sembra aver portato ad una prima, gigantesca e, forse per gli stessi ricorrenti, insperata vittoria.

Nota

L'informazone è tratta dal blog di Alessandro Tauro. La sentenza della Corte (scaricabile qui di seguito) naturalmente non sfiora neppure tutte le argomentazioni contrarie e a nostro parere indiscutibili, così come le abbiamo esposte nell'appello Il territorio del nucleare, al quale continuiamo a chiedervi di aderire (f.b.)

Mentre il colosso dell´energia Bp si avvia a gestire nell´Atlantico un'altra settimana del più enorme disastro ecologico della storia, il pozzo petrolifero continua ad espellere greggio e ad immetterlo nell´ambiente. L´operazione Top kill, che avrebbe dovuto soffocare la falla, per ora non ha risolto la situazione. 
La Casa Bianca, com´è noto, è intervenuta direttamente nella persona del presidente Barack Obama. Egli, in pesante crisi di consensi, ha assunto un atteggiamento laconico, con cui si è sobbarcato con piglio deciso la responsabilità politica dell´accaduto, prendendo perfino un´aria pensosa, quando si è chinato a raccogliere sulla spiaggia un brandello oleoso, simbolo inquietante di un disastro ambientale che ha ormai sovrastato tutte le cognizioni e le capacità di controllo tollerabili.


Non è difficile immaginare come andrà a finire la cosa. Nonostante le preoccupazioni forse eccessivamente apocalittiche di Carol Browner, responsabile dell´ambiente dell´amministrazione americana, sicuramente il rimedio alla fine in qualche modo arriverà. E anche qualora dovesse essere auspicabilmente prima anziché dopo, il danno all´ecosistema si è già consumato irreparabilmente. 
Lasciando un momento sullo sfondo però le soluzioni concrete, è quanto mai utile indugiare a riflettere un momento sulle ragioni che hanno reso possibile non tanto il verificarsi del fenomeno, quanto l´esistenza generale di un sistema economico di tal fatta, il quale inevitabilmente potrebbe portare in futuro qualsiasi Paese a trovarsi in situazioni simili se non peggiori dell´odierna.


Tanto per cominciare, l´accaduto ha qualcosa in sé d´istruttivo e di paradossale. E non si tratta dello scontato valore della retorica ambientalista, ma esattamente del suo contrario. I rischi, in effetti, che possono derivare alla natura dalle imprese industriali rivelano direttamente che l´ecologismo non è che un escamotage per sollevare un problema reale dal lato sbagliato, senza indicare e affrettare alcun tipo di soluzione vera e duratura che non sia il successo politico di qualche romantico venditore di sogni. 


Mi spiego. Fermo restando il rispetto che si deve per qualunque idealismo, non mi sembra che le tante campagne fatte da eminenti personagi "verdi" in tutto il mondo siano servite a qualcosa fin ora, quando solo nel Golfo del Messico vi sono più di tremila pozzi attivi, affini, per non dire uguali, a quello danneggiato, che continuano ad estrarre petrolio nelle stesse condizioni di sicurezza assicurate da Bp. La marea nera che si espande, insomma, è il simbolo epocale dell´impotenza della politica, nonché l´emblema di quanto diverso sia il problema ecologico nelle sue cause e nei suoi effetti dalla politica ambientale che si continua ad ostentare.


L´interrogativo da porsi, in altre parole, è se abbia senso collocare solo a livello di consenso pubblico emozionale la questione dell´ambiente, quando la più grande e consolidata democrazia del mondo si trova inerte davanti all´onnipotenza delle multinazionali che lavorano l´olio nero. Il punto in questione, in questo caso, è evidente. La democrazia mostra il suo volto oscuro, incancellabile e disumano che, alle volte almeno, si chiama plutocrazia. Dove, cioè, gli interessi economici hanno un´influenza tanto grande, la democrazia finisce per divenire il ricettacolo degli utili micidiali e spregiudicati di colossali industrie petrolifere. Tanto che l´assunzione di responsabilità di Obama è parsa, in fin dei conti, di una debolezza estrema. Se non esiste a monte la forza di imporre e garantire dei criteri ambientali validi per tutti, certamente è impossibile farlo a valle, quando ormai il disastro si è consumato e la Bp si mostra pronta a pagare, senza batter ciglio, una somma pari al debito pubblico italiano pur di risolvere l´intoppo.


Il problema ecologico, in definitiva, insieme alle molte altre questioni cruciali per la sopravvivenza complessiva del genere umano, non può essere il vessillo di movimenti minoritari che speculano sulla cattiva coscienza di tutti noi, ma deve diventare la parte preminente di una nuova agenda etica dell´umanità.
L´alternativa è quanto mai chiara. O gli organismi internazionali, preposti all´elaborazione di regole valide per tutti, saranno in grado in futuro di stilare una tavola dei principi etici che devono indirizzare ovunque i comportamenti di tutti gli operatori economici, oppure ci troveremo sempre davanti a democrazie fragili che non riescono a vincere la tendenza sovrana degli interessi globalizzati delle grandi corporation. 


E non si dica che quanto diciamo sia un´utopia impossibile da realizzare. Gli Stati Uniti per decenni hanno fatto prevalere sul mondo intero i loro obiettivi - quasi sempre giusti, per fortuna - governando le Nazioni Unite con il proprio prestigio e la propria influenza politica e militare. Oggi, purtroppo, è giunto il momento in cui i pericoli ecologici e umanitari impongono la condivisione di criteri antropologici ed etici in grado di garantire la sopravvivenza umana degli ecosistemi del pianeta, ben al di sopra cioè delle rendite economiche di qualche oligarchia.
Ed è proprio questo il nodo che Obama deve sciogliere: cambiare la politica, oppure rassegnarsi ad essere un gracile strumento, trascinato dalle onde del potere. Non è possibile, d´altronde, che il mercato vada avanti ad incrementare interessi e profitti dappertutto, mentre l´etica conti solo durante le campagne elettorali, per poi rimanere relegata nelle soffitte delle cancellerie tra le inutili scartoffie burocratiche. 


In ultima istanza, l´ecologia è un valore solo se diviene parte fondamentale di un discorso etico universale, il cui compito è proteggere la qualità intrinseca della vita umana dai falsi ambientalisti di facciata e dagli opulenti egoismi di una planetaria casta di speculatori.

Andare a caccia di petrolio tra i vulcani è l'ultima frontiera delle corporation. La missione della San Leon Energy, compagnia irlandese con sede in Italia (in provincia di Lecce e a Roma) punta dritto ai giacimenti del canale di Sicilia, con una concessione ministeriale che lascia carta bianca per una porzione di 482 chilometri quadrati. Che in quei fondali ci siano cospicue riserve di gas e petrolio è noto da almeno 45 anni, quando le ricerche targate Eni individuarono il tesoro sommerso. Quel che allora non si conosceva era la presenza, in quei banchi sottomarini, di un gigantesco vulcano in attività: l'Empedocle, la cui posizione è a poche miglia dalla costa e il cui fermento è certificato dagli studi dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e dalle ricerche di Mimmo Macaluso, partite all'analisi dell'isola Ferdinandea, un piccolo cono di terra che affiora periodicamente per poi scomparire.

L'isolotto è una delle bocche del gigante sommerso. Che qualcuno tentasse di mettere le mani sul petrolio del Canale di Sicilia sembrava impossibile, proprio alla luce della presenza di vulcani in attività. A Sciacca se ne sono accorti quasi per caso. Un foglio di carta appeso all'albo pretorio comunale annunciava per fine maggio il termine utile per presentare le osservazioni contro la richiesta di autorizzazione formulata dalla società irlandese. I documenti presentati dalla San Leon Energy spiegano che le ricerche petrolifere verrebbero effettuate a meno di due chilometri della costa, in un'area dove non solo si trovano straordinari siti archeologici, aree marine protette e riserve naturali, ma soprattutto ci sono i vulcani attivi e un rischio sismico.

Il programma della compagnia irlandese prevede una fase di ricerca e due campagne di trivellazione. La ricerca, secondo i documenti, verrebbe effettuata con uno strumento che si chiama Air Gun, una sonda che spara colpi di aria compressa e crea onde sismo-elastiche. Se i dati relativi alla descrizione dell'area sono grossolani e inadeguati, non migliore l'analisi del rischio relativa al sistema di prospezione sismica. Gli scienziati la chiamano subsidenza antropica ed è il rischio sismico connesso alle campagne di ricerca del petrolio.

Il documento che ha consentito alla San Leon Energy la concessione del ministero dello Sviluppo economico è d'altra parte ricco di incongruità e stranezze. La descrizione delle marinerie costiere del versante sud della Sicilia e delle loro attività è davvero bizzarra. Nelle tabelle tecniche è scritto che a Sciacca, una delle principali sedi della pesca siciliana, esisterebbero solo tre pescherecci attivi nella pesca a circuizione, per poi sostenere che "il traffico marittimo per le motonavi di appoggio e rifornimento sarà limitato a un passaggio giornaliero da e verso il porto di approdo più vicino (presumibilmente Ancona)". Citare Ancona nella relazione dedicata alle ricerche del canale di Sicilia potrebbe significare che la San Leon Energy abbia interessi anche in Adriatico. E in effetti Finbarr Martin Bryant, il legale rappresentante della San Leon Energy, è anche al vertice della Petroceltic Elsa, altra società dublinese. E la Petrolceltic ha le concessioni per le ricerche nell'Adriatico. Entrambe le società, la San Leon e la Petroceltic, hanno sede al numero 6 di Northbrook road a Dublino. Una coincidenza?

Dopo l'addio di Scajola Tremonti ha spolpato all'osso il ministero per lo Sviluppo. La metà dei tagli ai vari dicasteri è infatti piombata su via Molise. Una resa dei conti economica ma soprattutto politica, visto che allo Sviluppo insieme a Romani sono rimasti due ex An come il finiano Urso (viceministro) e Saglia. Del tutto ignari - pare - della scure da un miliardo che si stava per abbattere sul loro portafoglio.

Tra i tagli decisi da Tremonti ce n'è uno che non migliora il bilancio dello stato e sega completamente una delle gambe su cui si regge il sistema di incentivi alle energie rinnovabili. In poche righe (art. 45), il decreto abolisce l'obbligo da parte del Gestore dei servizi energetici (Gse) di acquistare i «certificati verdi» in eccesso sul mercato elettrico.

Una norma anodina che però taglia all'improvviso e retroattivamente oltre mezzo miliardo di incentivi annui destinati a chi produce energia pulita da sole, vento, biomasse, acqua, etc. «In un colpo colpo e senza nessun beneficio per le casse dello stato - attacca Angelo Bonelli dei Verdi - si cancellano le certezze di chi investe nel futuro e si affonda un comparto come quello delle rinnovabili su cui altri paesi investono per creare migliaia di nuovi posti di lavoro».

Il meccanismo, introdotto da Bersani nel 2008, era fatto così: per i suoi impegni europei l'Italia è obbligata a produrre una quota di energia «pulita». Le aziende che non lo fanno perché bruciano petrolio, carbone o gas devono comprare i «certificati verdi» dalle aziende «pulite» come compensazione antiCO2. A fine anno, se si verificano disallineamenti tra domanda e offerta, il Gse interviene per comprare le quote di energia verde in eccesso garantendo stabilità e sviluppo al sistema. I costi finali venivano poi girati sulle bollette dei cittadini in una parte della tariffa A3 pari a circa 7 euro a famiglia all'anno. Il Gse nel 2009 ha acquistato «certificati verdi» in soprannumero per 630 milioni di euro. La stima per il 2010 - causa crisi e calo dei consumi elettrici - è calata a circa 550 milioni.

Al Gestore - che fa da mediatore in questa partita di giro «virtuosa» tra consumatori e aziende - ufficialmente non commentano le decisioni del governo. Ma negli uffici si fa notare che le domande per l'acquisto dei certificati sono già state presentate quasi tutte il 30 marzo scorso e quindi non è chiaro che fine faranno dopo il decreto e l'iter parlamentare.

Per le associazioni di categoria (Anev, Aper, Fiper, Agroenergia) si tratta di un colpo mortale che destabilizza investimenti e piani industriali già in via di sviluppo. Nel solo eolico - denuncia l'Anev - sono impiegati 25mila lavoratori (+5mila in un anno critico come il 2009). Intere aziende, prive di certezze industriali e di incentivi già stabiliti, potrebbero finire in bancarotta. Simone Togni, segretario generale dell'Anev, sottolinea che «l'Italia deve rispettare impegni europei molto precisi» e dunque deve garantire la produzione di energia rinnovabile. Energia che per gli stessi meccanismi dei certificati verdi, a regime «può abbassare le tariffe».

Secondo il Gse la quota effettiva di elettricità rinnovabile è il 18% del totale (il 23% non normalizzato). «La verità - spiegano sempre dal Gestore - è che dovremmo almeno raddoppiare la produzione per portare la quota al 28-35% in modo da assicurare gli obiettivi europei anche quando ci sarà la ripresa e l'aumento dei consumi».

Che al governo Berlusconi non piaccia la green economy è un eufemismo. Nucleare a parte, il sistema è abbandonato a se stesso. Il riordino degli incentivi (a partire dal conto energia per il fotovoltaico) è atteso da più di un anno. Mentre entro giugno il nostro paese presenterà a Bruxelles il «piano d'azione» che la comunità europea chiede a tutti i paesi per rispettare l'obiettivo del 20% di energia pulita entro il 2020. «I tagli alle rinnovabili e le polemiche sugli incentivi servono solo a rendere più 'digeribile' la scelta del nucleare», critica Roberto Della Seta, Pd ed ex Legambiente. Nel 2009 (dati Terna) il 16,3% dell'energia verde italiana è stata prodotta dai fiumi (idroelettrico), seguono biomasse (2,6%), eolico (2,4%), geotermico (1,8%) e fotovoltaico (0,2%).

«Chi semina vento raccoglie milioni» titolavo l’anno scorso una mia rubrica sulle lucrose speculazioni facilitate dalla installazione senza limiti e con fragilissime regole delle torri eoliche in quasi tutte le regioni italiane.

Che non avessimo tutti i torti lo hanno provato, da allora ad oggi, i numerosi provvedimenti giudiziari, con arresti, denunce e provati coinvolgimenti della criminalità organizzata che hanno colpito l´imprenditoria ambigua, fiorita ai margini di industrie di assoluto rispetto, grazie ad un sistema di incentivi considerato il più alto del mondo. Il che suscita una propensione al lucro illecito che infetta in modo trasversale amministrazioni di colore opposto. Se appena ieri è stato il centrodestra ad essere investito in Sardegna dall’autorità giudiziaria per i parchi eolici anche off shore in via di realizzazione, recentemente è qualche ex assessore della giunta Lojero in Calabria ad essere chiamato a render conto di una tangente di 2 milioni e 400mila euro per facilitare l’installazione del parco eolico di Isola Capo Rizzuto «di interesse delle multinazionali amiche», secondo una testimonianza raccolta dall´autorità giudiziaria. Dabbenuomini della politica e professionisti del malaffare non correrebbero certi rischi se i margini di profitto assicurati dietro l´usbergo santificante dell´energia pulita non fossero altissimi. Se, però, torno a richiamare l´attenzione dei lettori sull´argomento non è solo per sottolineare la deriva criminale che ne è scaturita ma per dare notizia di un recentissimo dossier (3 maggio 2010) su «L´eolico in Italia» che fornisce un quadro strutturale aggiornatissimo, anche sul piano delle varie situazioni regionali.

Il dossier è a cura degli Amici della Terra, Italia Nostra, Altura, Cnp, Mountain Wilderness, Lipu Puglia, Ola e il contributo di comitati e associazioni ambientaliste di tutte le regioni italiane. La cosa più nuova che vi abbiamo scoperto è che «gli incentivi possono essere riconosciuti anticipatamente ai titolari degli impianti anche su stime previsionali per l’anno successivo, effettuando un conguaglio a chiusura d’anno con i dati reali di produzione. È evidente che per il gestore della centrale eolica questo si traduce in un ulteriore vantaggio non trascurabile, paragonabile all’accesso al credito agevolato. È altrettanto palese come la stessa società abbia tutto l’interesse a sovrastimare le previsioni di produzione per lucrare sulla disponibilità per circa un anno della differenza di importo, utilizzabile eventualmente per altri investimenti: un prestito a tasso zero. Nessun altro imprenditore potrebbe vantare simili agevolazioni finanziarie. Ancor più per l’eolico off-shore (in alto mare), l’incentivazione è stata maggiorata di un ulteriore 50% rispetto all´eolico a terra, sebbene progetti di questo tipo fossero già stati proposti, e quindi ritenuti remunerativi, prima di tale incremento».

C’è da chiedersi come sia possibile in un periodo di lacrime e sangue, mentre le università sono allo stremo e la Finanziaria taglia a destra e a manca e vengono chiuse perché non c’è più un euro prestigiose istituzioni culturali, e le aziende languono per i ritardati pagamenti dello Stato, che nessuno proponga una riduzione degli assurdi sprechi per l’eolico. Non sarebbe ora di porre un freno? Di definire il mai varato Piano energetico nazionale con norme ferree e programmazione certa? A fine 2009 già scempiavano il paesaggio italiano 4400 torri con una produzione, seppur di scarsa qualità ed efficienza pari al 2% del fabbisogno elettrico (il più delle volte l´imprevedibilità dei venti impone di tenere una riserva "calda", cioè in funzione, di energia tradizionale, con ulteriori costi per far fronte alla domanda), a sua volta corrispondente a una frazione infinitesimale, lo 0,6%, del fabbisogno energetico.

Quanti "anemoni" ci sono dietro questa follia? Comunque nel 2003-2004 le agevolazioni ammontavano a 211 milioni, nel 2007 a 450. Negli anni seguenti si presume un incremento esponenziale.

Il fotovoltaico è diventato una delle tecnologie portanti del nuovo modello energetico che si sta affacciando grazie alla terza rivoluzione industriale, la "rivoluzione verde". Vi sono tuttavia crescenti perplessità sul suo uso intensivo e centralizzato, che coinvolge molti terreni agricoli d´Italia e d´Europa.

Se si configura secondo il modello energetico cui siamo stati abituati, il fotovoltaico rischia infatti di fare danni quali erosione dei suoli, perdita di fertilità, di terreni agricoli, di biodiversità, cibi e sovranità alimentare.

Sia chiaro: il fotovoltaico rimane centrale nella rivoluzione energetica, bisogna soltanto fare in modo che non comprometta altre risorse utili e sfrutti invece la miriade di spazi a lui più adatti. Sono questioni che vanno prese seriamente come dimostra uno studio scientifico dell´Arpa Puglia inviato alla Regione il 2 marzo scorso. Nel 2009 la stima dell´Arpa è che siano stati installati in Puglia impianti fotovoltaici per 738 MW, impegnando una superficie agricola di circa 2.214 ettari, mentre nei primi due mesi del 2010 sono giunte richieste d´installazioni a fronte di altri possibili 1217 ettari rubati all´agricoltura: un vero boom, giustificato dallo sforzo dell´amministrazione di portarsi avanti nel raggiungimento del famoso obiettivo 20-20-20 (la riduzione del venti per cento delle emissioni di CO2 e l´implementazione del 20 per cento dell´energia totale prodotta da fonti rinnovabili entro il 2020). Sforzo apprezzabile ma che in questo caso merita cautela: questi impianti hanno un impatto ambientale da tenere assolutamente in considerazione se, come sta avvenendo, sono fortemente concentrati in alcune aree.

Con distese enormi di pannelli fotovoltaici i suoli sottostanti perdono permeabilità; l´attività biologica tende a morire dando luogo a fenomeni di desertificazione che ne decreterebbero l´infertilità e aumenterebbero il pericolo di alluvioni. Inoltre non si può calcolare che succederà quando tutti questi pannelli andranno smaltiti.

Si tenga poi conto che le reti energetiche che abbiamo non sono ancora pronte a tali incrementi: basti il dato che in Puglia le perdite di energia per trasmissione sulla rete ammontano a circa il 70 per cento dell´energia prodotta da fonti rinnovabili.

"Andiamoci piano con i pannelli", verrebbe da dire, ma il problema vero non sono i pannelli: è una visione che risente ancora della vecchia logica centralistica delle energie fossili, secondo cui bisogna "concentrare" in poche centrali la produzione, quando invece le fonti del 20-20-20 (il sole, il vento, l´acqua, la biomassa) sono per loro natura distribuite e non concentrate come l´uranio, il gas, il carbone o il petrolio.

Questa idea che le energie rinnovabili vadano raccolte in "grandi centrali" anziché in milioni di piccole installazioni distribuite, è l´ibrido per cui le energie del futuro andrebbero prodotte secondo le logiche del passato. Ciò provoca l´equivoco di fondo secondo cui l´energia rinnovabile sarebbe "sostenibile" per definizione, mentre non è così. Se si creano dei danni ambientali, anche il fotovoltaico (e qualunque altra tecnologia rinnovabile) diventa "insostenibile".

In realtà c´è un modo sostenibile di inserire il fotovoltaico nel mix energetico e nel contesto agricolo. Per farlo bisogna privilegiare l´autoconsumo e la produzione più distribuita possibile. In pratica questo si traduce con politiche mirate a portare il fotovoltaico sui tetti in ambito urbano e industriale - e in luoghi abbandonati, come capannoni o strade dismesse - mentre per quanto riguarda l´ambito agricolo, a seguire regole che lo rendono compatibile con la sovranità alimentare del territorio e la produzione locale del cibo.

Esistono oggi tecnologie come il fotovoltaico su serra; quello per azionare pompe irrigue e sistemi di refrigerazione o altri consumi legati alla trasformazione: sono sostenibili. Per quanto riguarda i terreni coltivati poi, nulla vieta di utilizzare pannelli montati su piloni abbastanza alti da permettere la coltivazione dei prodotti nella terra sottostante.

All´impiego in aree agricole bisogna però aggiungere le enormi potenzialità in ambito urbano e industriale: da uno studio condotto in Sicilia, emerge che anche utilizzando soltanto il 6,5 per cento delle superfici disponibili su fabbricati sia residenziali, sia industriali nella regione, si potrebbe ottenere una potenza superiore a quella complessiva già installata su tutto il territorio nazionale.

Un modello distributivo di questo tipo, oltre a permettere un´integrazione nel tessuto urbano, industriale e rurale, garantisce anche un altro enorme vantaggio: la redistribuzione della ricchezza prodotta dall´energia. Si darà lavoro a migliaia di piccole e medie aziende installatrici e se ne creeranno di nuove; ma anche il cittadino, il piccolo imprenditore e chiunque disponga di una superficie adatta, potranno godere del reddito supplementare ventennale garantito dall´incentivo statale.

La sfida futura per i governi sarà quella di promuovere un modello distribuito: le regioni che per prime lo implementeranno permetteranno a tutti, e non solo ai grandi gruppi finanziari e alle banche, una reale uscita dalla crisi e una crescita duratura e legata alle risorse del territorio, a sistemi di economia locale.

c.petrinislowfood.it

Immaginerò di essere un inviato francese in Italia per le elezioni regionali. Il fatto è che durante una sua trasferta in Francia, qualche tempo fa, Berlusconi fece delle spese. Comprò delle piccole sculture in bronzo, dei cosmetici, se non sbaglio, e quattro centrali nucleari.

In Italia sarebbe stato macchinoso, e per di più c’era stato il referendum del 1987, e l’80 per cento di No. Poi perfezionò quel suo acquisto privato firmando a Roma un contratto con Sarkozy. In Italia l’ostilità di principio al nucleare era naturalmente diminuita rispetto ai giorni di Chernobyl, ma le obiezioni di merito erano caso mai rincarate. Una spesa colossale – caricata, chiacchiere a parte, sul denaro pubblico; tempi lunghissimi per una quota molto bassa – chiacchiere a parte, il 4,5% dei consumi finali di energia; militarizzazione dei siti e pacchia di ecomafie; preoccupazioni insuperate sulla sicurezza e soprattutto la certezza di non sapere che cosa fare delle scorie, comprese quelle del nucleare già dismesso.

Una spesa simile sarebbe andata a scapito delle energie rinnovabili. Ma un’obiezione di fatto soverchiava le altre: dove sarebbero state piazzate le centrali? Potete scommettere che neanche l´amministratore delegato dell’Enel – cioè la persona più affezionata al balzo in Borsa garantito dal programma nucleare – accetterebbe una centrale nel proprio giardino, nemmeno sotto tortura. Infatti, in una trasmissione televisiva del dicembre scorso, l’amministratore delegato, che dev’essere un umorista e un tecnico della trasparenza, dichiarò di sapere dove sarebbero state situate le centrali, ma non lo avrebbe rivelato nemmeno sotto tortura. La tortura da noi non esiste, non ai piani alti, e così il governo tacque a sua volta sul sito delle centrali a venire. In verità, per fare le cose in regola, votò in agosto una legge che rinviava di sei mesi la comunicazione dei siti designati: solo che i sei mesi scadevano alla fine di febbraio, e le elezioni regionali, mannaggia, erano alla fine di marzo. Dunque: acqua in bocca.

Nel frattempo, come succede per i nostri segreti di Pulcinella, l’elenco dei siti era stato reso pubblico da fonti benemerite. Bene: l’inviato francese che deve riferire in patria dello stato dell’affare ha preso nota. Una centrale a Chioggia? «Sì al nucleare, ma niente centrali in Veneto», ha proclamato il candidato Zaia. A Fossano e Trino? «Il nucleare è la soluzione –ha detto il leghista Cota – ma mai in Piemonte». Formigoni ha chiarito di essere per il nucleare, ma non in Lombardia, e «non in questo momento». Magari a Palma di Montechiaro, in Sicilia? «Ci batteremo a costo di barricarci per impedirlo», ha avvisato Lombardo. A Oristano? «In Sardegna non c’è posto per le centrali», ha tagliato corto il governatore Pdl Cappellacci. Latina, Montalto? «Nel Lazio non ce n’è bisogno», ha assicurato la Polverini. Forse a Mola di Bari, Nardò, Manduria? «Sono favorevole al ritorno al nucleare», ha detto il candidato Pdl Palese. Ah, ecco. «Però non in Puglia!» Ah, appunto. L’abruzzese Chiodi è stato laconico: «Sono favorevole, ma non in Abruzzo». Ci mancherebbe altro. Non cito i governatori e i candidati del centrosinistra perché grazie al cielo non uno di loro è favorevole al ritorno al nucleare. Che cosa scriverà dunque l’inviato francese? Il quale peraltro non avrà mancato lo spettacolo del coro dei candidati in piazza San Giovanni, nel quale si giurava fedeltà al patto di governo, che contiene il ritorno al nucleare. Potrebbe pensare allora che governatori e candidati tirano l’acqua al proprio mulino, ma Berlusconi tiene dritta la barra.

Ma ecco che Berlusconi, passando dalla Puglia, ha detto anche lui che il nucleare è bello, ma in Puglia no, e l´avrebbe detto in qualunque regione si fosse trovato a passare, così come è pronto a dire in Israele il contrario di quello che dirà a Ramallah fra mezz’ora, e Dio non voglia che passi da Teheran. In un tale imbarazzo, e volendo magari andare incontro alle aspettative dell’Edf, che ha venduto a Berlusconi le centrali in cambio della fontana di Trevi, l’inviato francese potrà riferire enigmaticamente che l’Italia è pronta per il nucleare, con l’eccezione delle sue regioni. Guardate che ci siamo arrivati davvero, visto che si è proposto di costruire le centrali nucleari italiane in Albania.

Questa incredibile pagliacciata avrebbe meritato di coprire ed esaurire un’intera campagna elettorale. Neanche tanto sul sì o il no al nucleare, quanto sui farseschi sotterfugi di una politica che compra le centrali come fossero popcorn, le tiene chiuse nel sacchetto, e poi si ingegna a farle ingoiare ai cittadini, a partire da lunedì pomeriggio. In tutto l’Occidente sono in costruzione due soli impianti nucleari, uno in Francia e uno in Finlandia, con la tecnologia francese scelta dall’Enel e dal governo italiano. L’impianto finlandese avrebbe dovuto essere consegnato un anno fa, si parla ora del 2012 e i costi sono già aumentati del 60 per cento. I sistemi di questi impianti sono stati messi in mora dalle agenzie per la sicurezza nucleare francese, britannica e finlandese.

Nel 2008 per la prima volta gli investimenti privati negli impianti di energia rinnovabile nel mondo hanno superato quelli per tecnologie a combustibili fossili. Da noi, Verdi, Democratici, Radicali, Sinistra, hanno elaborato programmi importanti, e valorizzato le esperienze di riconversione ecologica dell’economia italiana e di conversione dei consumi e delle aspirazioni. «Con la sua piccola e media impresa, con il patrimonio storico di saperi e di tradizioni artigianali, con la varietà produttiva mai completamente domata dagli imperativi della grande industria, il nostro è un Paese d’elezione della green economy». Ma il governo italiano è l’unico che non si sia proposto di affrontare la crisi puntando sull´economia verde. Ermete Realacci, responsabile per il Pd della green-economy, cita la sentenza di Berlusconi all´inizio della crisi: «Occuparsi di ambiente in un momento di crisi è come fare la messa in piega quando si ha la polmonite». Ognuno parla di quello che sa: economia di parrucchieri.

A Urbania, l’antica Casteldurante del Ducato di Urbino, si è votato domenica sull’installazione di 24 pale eoliche, alte 120 metri, sui monti soprastanti: clamorosamente l’81 % degli elettori ha votato “no” dopo un dibattito vivo, ricco di informazioni. Le obiezioni che hanno fatto breccia: si tratta di paesaggi molto belli e integri dove turismo e agriturismo cominciano a rendere, di terreni franosi, di un ecosistema assai delicato, popolato da specie animali e vegetali pregiate e così via. Un voto contro l’eolico? No, un voto per un eolico pianificato in modo attento, da installare dove vi siano le condizioni ambientali e paesaggistiche, fuori dalle zone tutelate. Un segnale preciso rivolto ai politici marchigiani, in generale a istituzioni che riluttano ormai a pianificare anche l’uso dei beni irriproducibili dando via libera al business speculativo.

L’eolico ha conosciuto una diffusione sregolata. I megawatt di potenza eolica installata sono 4.850 (1.114 soltanto nel 2009). Ottenuti però con un numero assai elevato di pale gigantesche (100-120 metri), soprattutto nel Sud dove cominciano a levarsi proteste, richieste di moratoria. Tale diffusione è avvenuta ovunque i Comuni più indebitati si rendessero disponibili alle proposte, lì per lì allettanti, di procacciatori di affari e di aziende. Salvo pentirsi perché il rumore e il movimento delle pale fa fuggire animali, insetti e... turisti. Spesso residenziali, magari stranieri (anche dai monti di Urbania hanno minacciato di andarsene). Diano le Regioni il buon esempio creando tavoli comuni con le associazioni, a cominciare dagli agricoltori.

Fra l’altro, in Italia, i venti non sono forti, né, soprattutto, costanti. La loro intensità – a parte alcune zone di Sicilia e Sardegna – è la metà circa di quella misurabile in Danimarca, in Scozia o in Irlanda. Tante pale e poca energia. Bisogna quindi studiarne, con le Soprintendenze, la compatibilità con paesaggi spesso arricchiti da colture di pregio. Nel caso di Scansano (Grosseto), patria del vino Morellino, il parco eolico, poi bocciato, a cose fatte, dal Tar su ricorso di un grande produttore vinicolo, era chiaramente fuori posto. Non lo sarebbe stato nel paesaggio industriale di Piombino o di Livorno. Non lo sarà nel porto di Savona dove la locale Autorità progetta di rendersi con l’eolico autonoma per una serie di consumi. Non lo sarebbe nelle zone industriali attive o dismesse. Problemi che si pongono, sia pure in minor misura, per il fotovoltaico (ben più adatto a noi) se gli impianti maggiori non verranno sottoposti a pianificazione. La potenza installata è di oltre 800 megawatt, raddoppiata in un anno, sia pure con incentivi. Bisogna continuare, e però pianificando con rigore. Non dobbiamo giocarci il Belpaese. Valore “in sé” , ma pure economico

In un documento anti-centrale nucleare, quindici regioni italiane lamentano, rispetto alla delega del governo per la localizzazione dei siti «l’ennesimo vulnus al principio di leale collaborazione» e chiedono «intese più forti». Questo il risultato raggiunto da una riunione degli assessori regionali all’Ambiente, che si è svolta ieri a Roma.

La legge (approvata a fine luglio, la 99/2009) sul ritorno al nucleare è stata impugnata da 11 regioni per «incostituzionalità». E - riferiscono gli assessori - «da una lettera che il ministro Fitto ha inviato alla presidenza del Senato il 28 dicembre scorso» per accompagnare lo schema di decreto attuativo del provvedimento, si evince come «non venga preso in considerazione» il parere degli enti locali.

Il documento anti-centrale è stato formulato dalle stesse 11 Regioni (oltre alla Toscana, Basilicata, Calabria, Emilia-Romagna, Umbria, Lazio, Puglia, Liguria, Marche, Piemonte, Molise) che hanno impugnato la legge sul ritorno al nucleare ma il documento ha poi ricevuto il sostegno anche da parte di Veneto, Campania, Sardegna e Sicilia, arrivando così a un totale di 15 regioni. Per gli assessori «il decreto non è assolutamente coordinato con la normativa vigente».

Eccesso di delega.

Le Regioni lamentano che per l’autorizzazione, la localizzazione e la realizzazione degli impianti nucleari si ricorra a «una mera intesa di Conferenza unificata invece di intese più forti con le Regioni interessate territorialmente». Si parla anche di «un eccesso di delega» relativamente «alle procedure autorizzative oltre che al quadro pianificatorio strategico nazionale che esclude le Regioni e il loro piani energetici». Inoltre, il Consiglio dei ministri potrebbe superare «il diniego regionale all’intesa mediante una deliberazione motivata».

Piano energetico.

Il Piano energetico serve, si dice, «a capire dove si vuole andare e in che modo». Secondo l’assessore del Lazio, Filiberto Baratti, è «folle procedere verso il nucleare senza un Piano».

Deposito scorie.

Si parla delle «scorie che ci saranno senza pensare a quelle pregresse presenti sul territorio dall’86» che avrebbero bisogno dell’individuazione di un deposito nazionale.

Vas.

In quanto alle procedure di impatto ambientale e strategico, «si nota che la procedura Vas prevista dal decreto, non tiene conto della localizzazione degli impianti, limitandosi a essere una procedura autorizzativa solo su parametri».

Agenzia nucleare.

Il ruolo dell’Agenzia risulta «ambiguo, essendo di fatto l’unico ente cui tutti i diversi enti competenti rilasciano le singole autorizzazioni.

Misure compensative.

Lo schema, si legge nel documento, «non individua le Regioni tra i destinatari delle misure compensative né prevede che le Regioni abbiano la competenza a effettuare l’attività programmatoria, di indirizzo e di verifica. Questo, rivelano gli assessori, crea «un corto circuito istituzionale» in cui non solo «non si rispettano più le regole ma il governo non rispetta nemmeno le sue stesse leggi».

Avete presente il finale di certi film western in cui il vecchio sceriffo salta sull´ultima diligenza, per affrontare le incognite e i pericoli di un viaggio avventuroso, mentre sta arrivando in città la prima scoppiettante automobile? Ecco, la scena assomiglia a quella che stiamo vivendo in questo momento in Italia, dopo il rilancio del nucleare e l´approvazione dei due decreti legislativi varati ieri dal Consiglio dei ministri.

Una «revanche tricolore», è stata definita con qualche accento di trionfalismo, vale a dire una rivincita. Ma alla fine in realtà potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro, se non proprio una sconfitta o addirittura una disfatta.

Il fatto è che - a più di vent´anni di distanza dal referendum popolare con cui la grande maggioranza degli italiani bloccò lo sviluppo dell´energia nucleare - il governo italiano rischia adesso di adottare gli impianti di terza generazione, considerati tuttora troppo costosi e insicuri, mentre stanno per arrivare sul mercato quelli di quarta generazione che dovrebbero invece affrontare alla radice il problema della sicurezza e in particolare delle scorie radioattive, favorendo perciò l´abbattimento dei costi. Al di là di qualsiasi pregiudizio ideologico, dunque, oggi la questione è essenzialmente economica: non è più una "guerra di religione", bensì una guerra di cifre e di soldi.

Si dice: l´Italia deve ridurre la dipendenza energetica dall´estero, causata dalle forti importazioni di petrolio e di gas. Giusto. Ma la verità è che il nostro Paese non ha neppure giacimenti di uranio e deve procurarselo altrove. E lo stesso uranio, come il petrolio e tante altre risorse naturali, è comunque in via di esaurimento. Si dice ancora che l´uranio, rispetto ai combustibili fossili, è più economico. Vero. Ma non si tiene conto, o non si tiene conto abbastanza, che l´energia nucleare costa molto di più per la costruzione delle centrali e appunto per lo stoccaggio e lo smaltimento delle scorie. Poi c´è la questione delle fonti rinnovabili, a cominciare dal sole e dal vento, prodigate generosamente da madre natura. Negli ultimi tempi, la lobby filo-nucleare ha promosso la tesi che l´energia atomica e quella "verde" non sono alternative, anzi sono compatibili, vanno sviluppate entrambe. Bene. Ma di fatto l´enorme investimento che occorre per il nucleare minaccia di sottrarre troppe risorse alle rinnovabili che vanno comunque incentivate.

Alla luce di tutte queste considerazioni, allo stato degli atti il decreto legislativo predisposto dal governo non offre elementi rassicuranti in ordine alla localizzazione dei siti nucleari e nemmeno in ordine ai costi di costruzione e gestione delle centrali. E sono proprio i due punti su cui s´incardinano le resistenze degli ambientalisti e di buona parte dell´opposizione.

In base alla "legge sviluppo" approvata a metà agosto, l´elenco dei siti avrebbe dovuto essere già stilato entro sei mesi. E invece viene ulteriormente rinviato, con ogni probabilità per evitare un boomerang elettorale alle prossime regionali di primavera. Tanto più che le Regioni, a dispetto della propaganda sul federalismo, non verranno né interpellate né consultate.

Quanto ai costi, a parte l´incertezza che pesa da sempre e ovunque su questo capitolo, il provvedimento contempla sia un meccanismo di compensazione a favore dei Comuni che accetteranno di ospitare le centrali sia una campagna d´informazione promozionale. Da una parte, insomma, c´è la cosiddetta "monetizzazione del rischio"; dall´altra, un "battage" pubblicitario, presumibilmente a colpi di spot in tv, per convincere i cittadini ad acquistare il prodotto, come se si trattasse di un fustino per la lavatrice o di una nuova bibita ipocalorica. Con il consenso, si tende a comprare così anche la sicurezza, la salute, la vita.

Il culmine del paradosso è che l´Italia sta imboccando la "via francese" al nucleare proprio nel momento in cui Oltralpe 18 centrali sono bloccate per guasti o incidenti e la Francia è costretta a importare energia dall´estero. Nel frattempo, la fredda Germania continua a produrre più energia solare di noi. E l´Umpi, una piccola azienda di Cattolica che ha sviluppato brevetti e tecnologie per il risparmio energetico nell´illuminazione stradale, ap-plica già questi sistemi a oltre centomila punti luce in Arabia Saudita e illumina perfino La Mecca.

La preoccupazione per l'invasione di torri eoliche nel mare sardo cresce. Insieme alla mobilitazione al di là degli schieramenti politici. Una circostanza inedita e apprezzabile che però rimarca incoerenze e sorprendenti parzialità nel dibattito. Stupisce infatti che l' apprensione sia tanto circoscritta. Infatti l'allarme riguarda i guasti nell'orizzonte sul mare e non considera che su molte alture della Sardegna senza mare è in atto da qualche tempo una analoga temibile incursione, mentre si annunciano nuove corse all'oro-vento. Così i crinali della Sardegna meno visitata sarebbero destinati ad accogliere ciò che altrove scandalizza? Perchè?

Le ragioni di questa distrazione dovrebbero essere indagate con attenzione. Per quanto si capisca il senso della predilezione per il valore superiore (?) attribuito ai luoghi delle vacanze al mare.

D'altra parte le preoccupazioni espresse dalla Regione per il panorama ferito guardano solo qui e al potenziale danno per il turismo.

Si assume il punto di vista selettivo del turista balneare ( che difficilmente andrà a Buddusò) dalla spiaggia verso l'acqua, e che si immagina indifferente al paesaggio che gli sta alle spalle aggredito soprattutto da brutte case purtroppo destinate a crescere.

E la politica, con poche eccezioni, non corregge lo sviamento ma assume quest'ottica in maniera elusiva.

Fa benissimo però l'on. Mauro Pili a indagare sul mondo degli affari eolici, a guardarne con cura i retroscena. Ma, si converrà, è un'ottica parziale che appunto coglie una delle minacce che riguarda il paesaggio dell'isola.

Servirebbe uno sguardo ampio, dal mare alle terre sul mare e non solo. Per due ragioni. La prima è che il paesaggio della Sardegna ha un senso unitario, come si è detto spesso. La seconda è che non da oggi si parla di investimenti sporchi nell'invadente edilizia per le vacanze, con danni imponenti a luoghi bellissimi. Da molto tempo gli inquirenti raccontano di movimenti sospetti di denaro nelle coste che alimentano un variegato mercato immobiliare; “ma sinora non siamo riusciti a capire - ha spiegato di recente un magistrato ai giornali - da dove arrivano i capitali. E siccome il presupposto fondamentale è che si individui la fonte, e la fonte è all’estero, per ora non abbiamo chiuso il cerchio”. Ecco, penso che allungando la vista si potrebbe dargli una mano.

Le coste del Mezzogiorno sono sotto attacco. Centinaia e forse migliaia di torri eoliche, se i progetti non verranno bloccati, le deturperanno, dal mar di Sardegna a quello di Sicilia mentre in Adriatico, a quanto finora ne sappiamo, l’aggressione off shore sta per colpire la costa molisana. Per aver denunciato i due primi insediamenti – quello molisano e quello sardo sulla costa del Sinis (Oristano) – sono stato gratificato di una lettera d’insulti, in cui mancava solo l’attribuzione di "farabutto" per raggiungere lo stile adeguato ai tempi correnti. La lettera porta la firma del signor Simone Togni, segretario della associazione nazionale energia del vento (Anev), una specie di Confindustra delle imprese eoliche.

Lasciando da parte le ingiurie e i dati di fonte Anav (quelli nostri, sul costo addossato ai consumatori, sono dell’Autorità pubblica dell’Energia e dell’Eurostat che valutano l’incentivazione in 7 miliardi di euro al 2020, la più alta d’Europa) val la pena segnalare le più eclatanti incongruenze della presunta smentita, laddove accusa di «approccio prevenuto l’intero articolo», che sarebbe, quindi, «destituito di fondamento» poiché il sottoscritto parla di «un progetto che non conosce, in quanto non ancora pubblico». E, a suffragio di questo innovativo principio sulla libertà d’informazione, lecita solo se certificata dal timbro pubblico, il segretario dell’Anav, aggiunge che neppure lui conosce di cosa si tratti visto che la società che ha firmato il progetto (con sede nel Liechtenstein, ndr) «non è nostra associata». Quindi non può esistere? E contro chi sta protestando la Regione sarda che si vede sottratto il potere di decidere, visto che il mare territoriale non rientra nelle sue competenze esclusive ma ricade sotto la giurisdizione di un organo governativo, il Demanio marittimo, dipendente dal ministero delle Infrastrutture e Trasporti? Il quale, assieme al ministero dell’Ambiente, regge la trafila delle autorizzazioni off shore.

Ma il Togni, oltre a non sapere, per sua esplicita ammissione, di cosa parla, non conosce neppure il condizionale, come si evince dall’interpretazione di una mia frase a proposito del progetto molisano, laddove affermavo che «sarebbe questa (se venisse realizzata, ndr) la seconda centrale eolica installata in Italia».

«Cosa falsa – tuona l’incauto – in quanto nessuna centrale eolica è mai stata installata». Ma vengo ai meriti involontari della lettera dell’Anav che mi ha spinto ad aggiornare le informazioni. La prima riguarda l’assedio eolico alle, finora splendide, coste sarde. Ebbene di progetti in corso non ve ne è uno solo ma già quattro: oltre a quello (80 torri) sulla costa del Sinis (Oristano), ve ne sono due nel Golfo degli Angeli, tra Cagliari e Sarroch, con 70 torri ed uno davanti a Sant’Antioco nel golfo di Palmas con previste 30 pale. Tutto avviene al di fuori di ogni progettazione globale e senza alcuna trasparenza, tanto che una parlamentare dell’Isola, l’on. Caterina Pes, ha rivolto una interrogazione al ministro delle Infrastrutture, Matteoli, per conoscere quanti progetti esistano per i mari della Sardegna, stando che alcune voci non controllate parlano addirittura di parchi eolici off shore per 40.000 MW, con molte migliaia di aerogeneratori. Anche le coste siciliane sono appetite dai "palazzinari del vento": un progetto si affaccia addirittura sulla Valle dei Templi e un altro su Mazara del Vallo (Trapani).

Torno, infine, sul Molise (Petacciato-Termoli). Qui la minaccia è più vicina. Il decreto anti-crisi ha inserito il progetto tra le grandi opere di interesse economico nazionale. Il 14 settembre il ministero dell’Ambiente ha emesso un decreto che sblocca la Valutazione d’Impatto Ambientale. Voglio almeno sperare che Stefania Prestigiacomo non sia informata che le cantierizzazioni e le installazioni a terra incombono su un territorio particolarmente tutelato dall’Ue in quanto zona Sic (Sito d’interesse comunitario), per le sue particolari qualità naturali.

La leggenda del santo nucleare. Se dovessi scriverei un libro su quello che si dice lo intitolerei così. Ne sento di tutti i colori: che permette di combattere l’effetto serra, che è diventato sicuro, che è illimitato, che è conveniente. Un elenco di fesserie che andrebbero smontate una per una». Non ha dubbi Vincenzo Balzani, docente all’Università di Bologna e candidato al Nobel per la Chimica: le informazioni che girano sul nucleare sono inutili perché incomplete.

«Partiamo dai soldi: nessuno sa dire quanto costi davvero una centrale. E le cifre che girano sono tutte sbagliate. In questo campo c’è una lunghissima tradizione di preventivi sbagliati: solo per la costruzione si registrano sforamenti puntuali del 200 o anche del 250%, mica bruscolini».

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il pagare, lo sappiamo. Ma non mi dirà che i problemi del nucleare sono i preventivi sbagliati?

«Siamo solo all’antipasto. Passiamo alle scorie: quanto costa lo spostamento, lo stoccaggio, il portarle all’estero per trattarle e riportarle in Italia per conservarle? Il tutto con personale specializzato e strutture adeguate».

D’accordo, costruzione e scorie...

«Il piatto forte è il sacro mistero dello smantellamento: una centrale, in genere, dura 40-50 anni, poi va chiusa. E qui iniziano i dolori. Perché la centrale, che nel frattempo ha trattato e prodotto materiale radioattivo per mezzo secolo, non può essere smantellata dall’oggi al domani, va lasciata in uno stato di quiescenza: non funziona più, ma non può essere toccata per altri 50-100 anni. Solo allora si procede allo smantellamento, sperando nel frattempo di avere trovato un luogo dove mettere le scorie prodotte. Come dire: i genitori si fanno una bella centrale, si godono l’energia e il conto ambientale e di gestione lo lasciano ai figli. Un bell’approccio non le pare?».

Restiamo ai costi.

«È semplice: tra costruzione, smantellamento e gestione scorie nessuno sa davvero quale sarà il costo finale dell’operazione. In ogni caso, per le quattro centrali di cui si parla in Italia è lecito aspettarsi una spesa complessiva di almeno 40-50 miliardi di euro. Problemi esclusi».

Sta dicendo che il nucleare non conviene?

«Dal punto di vista finanziario si tratta di un’operazione pericolosa, perché costosa, a lungo termine e con troppe incognite. Vista la fatica per trovare i soci della nuova Alitalia, siamo sicuri che in Italia ci sia qualcuno disposto a mettere soldi in una operazione di cui si conosce l’inizio ma non la fine?».

C’è sempre lo Stato...

«È quello che temo. Perché alla fine i cittadini pagheranno due volte: prima le tasse, poi la bolletta. Non mi sembra giusto».

Continuiamo con le leggende.

«Il sito unico in profondità: viene presentato come la soluzione di tutti i mali. Si tratta di un luogo sotterraneo in cui radunare i rifiuti radioattivi. Si era persino individuato il posto, Scanzano Jonico, poi tutto fu annullato dopo le proteste della popolazione. Quello che nessuno dice è che gli Stati Uniti, dopo aver speso inutilmente 100 miliardi di dollari, hanno cancellato un progetto simile che prevedeva la costruzione di un sito in profondità sotto la Yucca Mountain, nel Nevada: troppo complicato e troppo costoso. Va bene che siamo il Paese di Leonardo e Galileo, ma siamo sicuri, oggi, di poter far meglio degli Stati Uniti? Mettiamoci una mano sulla coscienza: il nucleare non è alla nostra portata».

Leggende o no, l’Italia compra energia dalla Francia, che ha le centrali proprio al di là delle Alpi. Non le sembra un’ipocrisia dire no al nucleare in questo modo?

«Anche qui l’informazione è zoppa. La Francia si è dotata di centrali nucleari perché voleva l’atomica. E vi si è buttata a capofitto. Nemmeno loro però sanno quanto costi questo lusso, tanto c’è lo Stato che paga. E sul fatto che noi compriamo energia da loro è più corretto dire che è la Francia ad essere costretta a venderla. Le centrali devono funzionare senza sosta, solo che di notte, quando si abbassano i consumi, si ha un eccesso di energia che deve essere smaltita. Ecco allora che di notte i francesi ci girano energia, ovviamente a prezzi vantaggiosi».

Altre leggende?

«Che bisogna passare al nucleare perché il petrolio sta per finire. Un’autentica fesseria: anche l’uranio è una risorsa limitata. Se tutto il mondo, oggi, andasse a nucleare, ci sarebbe uranio per soli sette-otto anni. Parlare del nucleare come energia del futuro è un po’ azzardato, non le pare?».

E qual è l’energia del futuro?

«Quella che non si usa. Nel senso che dobbiamo imparare a risparmiare e, nel contempo, ad aumentare l’efficienza. Lo sa che nei Paesi sviluppati il 50% dell’energia viene banalmente sprecata? Il guaio è che il nucleare ti illude di avere tutta l’energia che vuoi: altro che risparmio, è la cultura dello spreco».

Proprio come il petrolio.

«Il petrolio è destinato a finire, dobbiamo imparare ad uscirne. E questo significa, come ho detto, risparmiare e aumentare l’efficienza ma anche puntare, con decisione, sulle energie rinnovabili, come eolico e solare. E quando parlo di Sole non intendo solo il fotovoltaico: c’è anche quello termodinamico di Rubbia che abbiamo gentilmente regalato a Paesi come la Spagna e la Germania. Questo non vuol dire cancellare del tutto il petrolio o il gas, ma che bisogna utilizzarli solo dove servono davvero, ad esempio nei trasporti, quello aereo in particolare».

Effetto serra.

«È indubbio che il nucleare, non producendo anidride carbonica non contribuisce alle dinamiche che portano al riscaldamento globale. Peccato che per combattere l’effetto serra dovremmo convertire in nucleare tutta la produzione energetica inquinante. Tanto per essere chiari significherebbe costruire 2500 centrali da 1000 megawatt: una a settimana da qui al 2050. Impensabile, ovviamente».

Sicurezza.

«Le centrali di quarta generazione esistono solo sulla carta. Dicono che saranno pronte fra 30-40 anni, ma si tratta solo di ipotesi. Lo stesso per la fusione: in teoria è il nucleare pulito, nella pratica è un terno al lotto: nessuno è mai riuscito a ottenere più energia di quella immessa nel sistema. Anche qui, siamo solo nel campo delle ipotesi. E intanto il mondo consuma».

È preoccupato dalla decisone del governo?

«Personalmente credo che non riusciranno a riportare l’Italia nel nucleare: non ci sono le risorse finanziarie. Il pericolo che vedo, piuttosto, è iniziare progetti costosi e inutili, che non verranno mai realizzati. Come il Ponte sullo Stretto. E questo solo perché si parla senza conoscere la realtà. Un po’ triste per un Paese moderno».

© 2024 Eddyburg