Non è la prima volta che assistiamo all' entusiasmo, sostenuto da soldi pubblici, per fonti di energia etichettate come rinnovabili e pulite. Si scopre poi che inquinano, sottraggono risorse, arricchiscono qualche azienda, impoveriscono la popolazione, ma gli investimenti continuano e neanche la scusa occupazionale è rilevante. Sempre vilipesi sono gli interessi collettivi! (i.b.)
Da molti anni assistiamo alla falsa alternativa tra mantenere produzioni nocive generatrici di occupazione, e l'ambiente. Proprio in questi mesi abbiamo visto la parabola dei movimenti ambientalisti che si sono spesi politicamente per una alternativa all'Ilva di Taranto, alla galleria in Val di Susa per il TAV Torino-Lione, alla trivellazione del TAP a Melendugno e ogni volta che la questione della bonifica dei siti inquinati entrava in conflitto con gli interessi economici si poneva la questione occupazionale come ostacolo insormontabile, irrisolvibile, tutto in carico ai comitati dei cittadini.
La questione è vecchia e databile almeno 40 anni, ovvero dalla bonifica di Seveso. In quel caso l'ICMESA dovette pagare la bonifica del sito inquinato dalla fuoriuscita di diossina e i costi di quell'intervento di ripristino fu presa come base per contabilizzare il danno ambientale e fu evidente che più grande è l'industria inquinante, più grande il territorio inquinato da bonificare, maggiore la quantità di popolazione investita da elementi nocivi, i costi sarebbero stati talmente alti che nessuna impresa sarebbe stata in grado di sopportare il ripristino e le bonifiche. Da quel momento in poi ogni intervento legislativo è stato teso a favorire la socializzazione dei costi ambientali, riconoscendo alcuni buchi normativi per poter permettere alla grande industria la sopravvivenza.
Nel caso della Geotermia Elettrica Industriale della Toscana, monopolio di Enel, ora sappiamo che queste centrali hanno quotidianamente inquinato il territorio. Le centrali geotermiche Flash (con fluidi caldi tipici dell'Amiata) oppure a vapore dominante come quelle di Larderello con i classici soffioni producono e diffondono nell'aria tonnellate di anidride carbonica, metano, boro, acido solfidrico, ammoniaca, mercurio, tallio e arsenico, che ricadono nella Val di Cecina e sul Monte Amiata.
La popolazione investita non è monitorata adeguatamente. Solo negli ultimi anni, dopo infinite richieste alla Regione Toscana, sono saltati fuori i dati di un danno alla salute paragonabile ai siti altamente inquinati come la Val Bormida, Porto Marghera o l'Ilva di Taranto: l'incidenza di alcuni tumori è in alcuni casi superiore a questi siti e fa pensare che siamo di fronte al più grave danno ambientale della storia repubblicana, prodotto da una azienda pubblica, su un territorio vastissimo e su una popolazione tenuta all'oscuro da forze politiche, sindacali e in qualche caso anche ambientaliste.
Dirigenti di Enel Green Power sono sotto inchiesta della magistratura. La Procura della Repubblica di Grosseto ha aperto un fascicolo di indagini, iscrivendo l’Amministratore Delegato di ENEL Green Power, ing. Montemaggi, quale persona informata delle indagini a suo carico, per l’ipotesi di reato di emissioni fuori norma delle centrali di Bagnore di Santa Fiora. Il procedimento è in corso davanti al GIP.
In questa situazione è arrivata la scomparsa degli incentivi alla geotermia nella bozza FER 1 nel passaggio tra Ministero dell'ambiente e MISE. La geotermia non viene più considerata energia rinnovabile e sindaci geotermici, consiglieri regionali, qualche parlamentare, e in testa il Presidente della regione Toscana continuano a dare “ i numeri” del disastro che causerebbe. Eppure il decreto non tocca gli incentivi ex certificati verdi e le tariffe incentivanti degli attuali impianti di produzione geotermoelettrica che ammontano complessivamente a 90 milioni € l'anno. Una enormità, che continueranno a prenderli fino al 2028, dopo quindi la data nella quale si prevede la messa all'asta degli impianti nella liberalizzazione del mercato geotermico previsto dalla legge Scajola; la torta ricca nella quale i dirigenti Enel puntano per accaparrarsi soldi pubblici senza colpo ferire. Gli impianti verranno comprati da multinazionali e Banche e i dirigenti Enel si metteranno alla loro direzione (sono gli unici che conoscono effettivamente ogni impianto e anche il modo di “coltivarlo” efficacemente).
I contributi ai comuni sono 35 milioni € l'anno.
L'azienda elettrica è anche lei in via di privatizzazione; quote consistenti sono già in mano a grandi investitori internazionali che non credono nello sviluppo della geotermia come fonte alternativa (esperimenti tedeschi e cinesi sono fermi al 2014, gli americani, cileni, islandesi e turchi costruiscono centrali solo nelle zone desertiche) a causa degli alti costi di ricerca e trivellazione (oggi a carico dello Stato in Italia con i famosi contributi di Fer ) e con una resa piuttosto bassa della produzione elettrica.
Il 30% del fabbisogno di energia elettrica regionale toscana, non giustifica i soldi pubblici spesi per mantenerla, proprio perché i consumi elettrici sono solo l'8% dei consumi energetici totali. In 10 anni la produzione solare con pannelli in Toscana ha raggiunto la quota del 30%, quando per la geotermia ci sono voluti 40 anni. Si pensa che se gli stessi incentivi si spostassero dalla geotermia al solare e all'eolico, si avrebbe l'80% di energia elettrica prodotta da queste fonti e con l'idroelettrico arriveremmo in pochi anni a non avere bisogno di combustibili fossili per la produzione elettrica. In realtà la geotermia impedisce la transizione energetica per l'interesse di pochi.
La fonte geotermica non è rinnovabile: un pozzo geotermico che emunge fluidi caldi dal sottosuolo ha una vita efficace solo per una decina di anni, poi viene “coltivato” con una miscela di acidi che vengono reimmessi per “spingere” i fluidi profondi verso i pozzi. Questa pratica proibita per gli idrocarburi in Europa è invece altamente praticata dal 1975 proprio in Val di Cecina, una delle cause principali della subsidenza, terremoti e inquinamento di falde acquifere.
Nel 1975 la produzione geotermica aveva subito un declino irreversibile e al calo della produzione si reagì con varie strategie. I pozzi furono portati a profondità di 3000\4000 metri, venne proposta la tecnologia di reiniezione con la stimolazione delle fratture con una miscela di acido cloridrico e acido fluoridrico, misto ad acqua, stimolazione e reiniezione che serve anche a rimuovere fango e detriti (da 10 e 50 tonnellate al giorno per pozzo, dati rilevati da un progetto di trattamento fanghi Ecogest) e mineralizzazioni. Lo stress termico della reiniezione produce una contrazione e un cracking. Non è il fracking, ma gli somiglia tanto.
La reimmissione dei fluidi incontra delle difficoltà proprio nella condensazione dei gas. Sappiamo che una delle difficoltà del circuito chiuso (se no avremmo impianti senza emissioni, i famigerati impianti binari) è proprio la non condensabilità dei gas presenti in Val di Cecina e sull'Amiata. Il fallimento degli impianti binari è solo questione di tempo. Gli esperti ci dicono che si potrebbero nascondere i gas in qualche modo, ma la reiniezione porterà sicuramente a fenomeni tellurici, anche di grossa entità.
I fluidi geotermici non salgono da sé. Specialmente nei pozzi molto profondi si prevedono anche tre pompe in linea. Lascio immaginare il bilancio energetico finale. Mentre nelle centrali flash Enel si può arrivare ad un rendimento del 40%, nelle centrali con reiniezione si parla di 9%. Il bilancio è comunque molto basso.
La vita media delle centrali può essere anche più lunga, ma la coltivazione di un sito è molto breve. In Toscana ci sono 900 pozzi e 36 centrali, ma i pozzi chiusi sono molti di più. Capitolo a parte la chiusura dei pozzi. Possiamo fare una gita nelle campagne toscana a visitare le trivellazioni Eni degli anni 60 che all'epoca era alla ricerca di petrolio. Sono diventate dopo 50 anni, nei quali il cemento si è degradato, dei laghetti di anidride solforosa, cianuro e fanghi caldi. Il danno alle falde acquifere è irreversibile.
Peccato che proprio la falda del monte Amiata risulti scesa di quasi 200 metri se non di più in alcuni punti. Attraverso il sito INGV possiamo monitorare tutti i terremoti i delle zone metallifere toscane, essi coincidono con le centrali. La subsidenza all'Amiata è così evidente che hanno dovuto cambiare strade e ponti, case crepate etc.
Abbiamo le prove che nella Val di Cecina l'arsenico nelle acque potabili potrebbero essere direttamente riferibili alla geotermia. I pozzi profondi producono il mescolamento di acque appartenenti a stratificazioni diverse. La differenza di potenziale elettrico tra acque superficiali e profonde produce arsenico, che rimane localizzato nelle vicinanze del pozzo, ma con il degrado delle cementificazioni e il movimento delle acque sotterranee arriva ai pozzi di sollevamento della piana del Cecina. Non si può dire che il dilavamento diluisca gli inquinanti. Questa mentalità ingegneristica è lontana dalla realtà. Occorre tener conto delle sinergie tra gli elementi e non possiamo essere contenti di una minaccia che porterà conseguenze nel tempo, quando la geotermia sarà archeologia industriale.
Enel da qualche anno ha fatto capire che avrebbe abbandonato il settore, disinvestendo e portando uomini e mezzi finanziari in altri settori. Nei mesi scorsi c'era già stata la sollevazione dei sindaci della Val di Cecina contro la perdita questa fonte di soldi pubblici sulla quale però solo una parte della popolazione ne ha beneficiato.
Questo è stato evidente lo scorso sabato nella quale ex dipendenti Enel, sindacati e apparati di partito con i sindaci in testa hanno dato vita ad una manifestazione SI Geotermia, sulla stessa linea della manifestazione di Torino Si Tav. Il parallelo con le due manifestazioni è evidente: in entrambe chi si oppone al danno all'ambiente e alla salute dei lavoratori viene dipinto come terrapiattista, medioevale, contrario al progresso, mentre difendono un settore industriale che non produce valore da 40 anni e si tiene in piedi esclusivamente con i soldi delle bollette, come per la Tav sappiamo non ripagherà mai i miliardi spesi per una galleria pericolosa e inutile.
L'ambizione della manifestazione era quella di cambiare verso nell'opinione pubblica, ma il territorio è già ampiamente impoverito, desertificato dall'inquinamento e abbandonato dai giovani. Se gli incentivi di Fer 1 non riguardavano le centrali esistenti, i posti di lavoro attualmente presenti nel settore non sarebbero toccati, ci chiediamo perché i sindaci, il presidente della regione, i sindacati hanno allora mobilitato social, giornali e televisioni locali?
Togliere gli incentivi ai progetti progetti pilota gestite da multinazionali petrolifere o dell'acqua , società offshore ucraine, portoghesi, cerchi magici fiorentini e gioiellieri di Arezzo forse ha toccato un nervo scoperto che con l'occupazione e lo sviluppo economico c'entra poco.
Il conflitto ambiente e lavoro nel caso della geotermia quindi non si pone. Un settore che ormai destinato ad una fine ingloriosa, nel quale nessuno vorrà pagare i danni sociali e ambientali, giunto al crepuscolo della sua parabola, difende con i denti le ultime briciole di potere.
Articolo inviato contemporaneamente anche a controlacrisi.org e perunaltracittà.org
Avvenire, 18 gennaio 2018. Prosegue la lottacontro un attentato al paesaggio e alla stabilito geologica dell'intera dorsale appenninica. vedi riferimenti in calce
«Salento, il cantiere contestato: ora la contesa è sull'applicazione del protocollo Seveso per il rischio di incidente rilevante. Ma tutti aspettano l'esito delle urne»
Gli otto chilometri «più lunghi del mondo » iniziano in località San Basilio, nel Comune di Melendugno, e arrivano alla Masseria del Capitano. Siamo in Salento, nel cantiere più discusso d’Italia, il 'cantiere No Tap' recita beffardamente una scritta all’ingresso dell’area presidiata da militari e forze dell’ordine. Gli otto chilometri non si vedranno a occhio nudo, perché saranno interamente realizzati sotto terra; per adesso, a vigilare sul progetto ci sono 40 persone tra ingegneri e operai e il cuore delle operazioni è rappresentato dalle attività di scavo del pozzo di spinta del microtunnel, che procederà in direzione del mare. A mezzo chilometro da qui c’è la spiaggia di San Foca, un piccolo gioiello difeso a spada tratta da ambientalisti e abitanti del posto.
L’impressione è che nei prossimi due anni (il traguardo per il completamento dell’opera è fissato nel primo trimestre 2020) il consorzio di imprese nato con l’obiettivo di portare nel nostro Paese il gas proveniente dall’Azerbaigian, attraverso Georgia, Turchia, Grecia e Albania, dovrà sudarsela, la realizzazione dell’opera. Conquistarsela metro dopo metro, giorno dopo giorno, superando veti, denunce e qualche intimidazione. Troppo alta è l’ostilità della comunità locale, sedimentata in anni di lotte ed equivoci, troppo evidente la distanza tra le parti, troppo diversa la prospettiva in cui due mondi paralleli si muovono.
Ulivi espiantati dal percorso del gasdotto |
Nelle stesse ore in cui la squadra guidata dall’ingegnere Gabriele Lanza, project manager di Tap per l’Italia, coordina gru, camion e macchine per il movimento terra, un gruppo di sindaci concorda a pochi chilometri di distanza, nel centro di Lizzanello, le contromosse per bloccare tutto. «Il mare e la spiaggia di San Foca sono il nostro presente e saranno il nostro futuro. Cosa diremmo sennò ai nostri figli? Che abbiamo tradito la terra in cui siamo cresciuti noi da piccoli?», dice il primo cittadino Fulvio Pedone. Con lui ci sono tra gli altri Marco Potì, sindaco di Melendugno, e Fabio Tarantino, che guida il Comune di Martano, da sempre in prima linea nel fronte 'no Tap'. L’alleato dell’ultim’ora (anche se il corteggiamento dura da tempo) si chiama Michele Emiliano, governatore della Puglia, con cui «si è deciso di fare un pezzo di strada insieme», in nome della totale contrarietà al gasdotto.
I terreni di battaglia sono tanti e tali da far risultare impossibile qualsiasi mediazione, si parli di impatto ambientale o di sicurezza, di condivisione delle scelte con la popolazione, di investimenti e possibili compensazioni per il territorio. La vera contesa adesso è sulla normativa Seveso: va applicato o no all’impianto che sorgerà il protocollo di regole sul rischio di incidente rilevante? Tap dice di no, partendo da una serie di sentenze della magistratura favorevoli all’azienda, e ricordando che la questione riguarda «un impianto di ricezione e misurazione fiscale» del gas immesso, non assoggettabile a criteri di pericolosità. Non un conglomerato industriale, non una piccola Porto Marghera, per intenderci.
Va valutata la qualità dell’impianto, secondo il consorzio, non la quantità di gas che in esso transiterà, come vorrebbero invece i detrattori, secondo cui la differenza potrà essere fatta dai numeri: oltre le 50 tonnellate la direttiva Seveso entra in vigore e Tap ha dichiarato che a regime il quantitativo di metano trattato si fermerà a quota 48,6. Cosa succederebbe, si chiedono però i comitati, se nel computo finale dovesse rientrare anche l’impianto interconnesso della Snam, cui toccherà in un secondo momento collegare il gasdotto con la rete nazionale di distribuzione, a partire da Brindisi? La magistratura si sta muovendo e una decisione è attesa a giorni.
Protesta dei sindaci "no Tap |
In realtà, mentre i lavori nel cantiere procedono secondo la tabella di marcia, il territorio è convinto di avere un asso nella manica: il voto del 4 marzo, con la possibile sconfitta del Pd e dell’attuale maggioranza di governo. Il centrodestra e la strana coppia Cinque Stelle-Liberi e Uguali (che qui vuol dire soprattutto Massimo D’Alema) stanno catturando facili consensi tra i 'no Tap'. «A Lecce noi sindaci abbiamo detto che sfideremo chiunque si candiderà a rappresentarci a Roma, a dire pubblicamente cosa pensa dell’opera». L’azienda per ora osserva con distacco: il traguardo più importante, al momento, è un altro. È lontano 'solo' otto chilometri.
Riferimenti
Alla mega grande opera, che scasserà l'Appennino dal Salento alle Alpi, vedi su eddyburg l'articolo di Ilaria Boniburini: La favola dell'energia pulita e gli affari sporchi dei padroni del TAP
«Défilé di politici, ricchi buffet e vecchie glorie in mostra, da Leonardo a Enrico Fermi. Eppure alla fiera internazionale in Kazakistan siamo l’unico Paese senza un progetto». la Repubblica, 28 agosto 2017 (p.d.)
Intendiamoci, non che altri Paesi abbiano poi fatto tanto meglio. Il padiglione dell’India, per dirne una, sfocia in un mercatino di bigiotterie. Ma da Astana giunge implacabile il messaggio che siamo l’unico Paese del mondo sviluppato a non avere un preciso disegno di politica energetica. Per legge. Lo abbiamo deciso nel 2001 con la riforma del titolo V voluta dal centrosinistra che per inseguire le spinte leghiste ha devoluto troppi poteri alle regioni. Compreso questo: «produzione, distribuzione e trasporto dell’energia». Una prerogativa insensata. Ma impossibile da mettere in discussione, dopo la bocciatura del referendum costituzionale che l’avrebbe riportata in capo allo Stato.
Inutile allora stupirsi se anziché un grande progetto italiano, che non esiste, all’Expo sull’energia ci presentiamo con mandrie di assessori e buffet di prodotti tipici regionali come intermezzo fra le foto di una turbina piemontese e le immagini di un campo eolico siciliano. Mentre le pubblicazioni specialistiche titolano trionfanti: «L’Umbria sbarca ad Astana 2017», «La Liguria protagonista all’Expo di Astana», «Astana Expo, ecco le eccellenze laziali ». E via di questo passo. Soltanto Valle D’Aosta, Abruzzo, Molise, Calabria e Trentino Alto Adige si sono chiamate fuori da questa giostra grottesca e ben più costosa dei 10 mila euro di contributo iniziale uguale per tutti. Ad Astana financo la Confindustria è regionale: Assolombarda.
E siccome un’idea nazionale non c’è, la soluzione per dare un’immagine comunque italiana è l’armamentario delle care vecchie glorie. Antonio Pacinotti, Alessandro Volta, Enrico Fermi, Leonardo da Vinci… L’Eni proietta un filmato su Enrico Mattei, l’uomo che ebbe il coraggio di contrastare le Sette Sorelle e ci lasciò la pelle. Mentre fuori dal padiglione un giovane artista che ha fatto la scuola di Brera, Ottavio Mangiarini, ha la fila incessante di chi vuole il ritratto. Ed è forse l’attrazione più sorprendente. Del resto i visitatori non sono quasi tutte famiglie locali, comitive e scolaresche? Già. Ma siamo sempre l’Italia, ed essere qui è obbligatorio. Anche perché le imprese italiane fanno un sacco di affari. Chiedere per conferma al ragionier Giuseppe Bergamin, la cui azienda veneta Sunglass ha fornito i vetri curvi per l’immensa sfera di cristallo del padiglione kazako. Ragion per cui se c’è qualcuno che con questa storia porta a casa qualcosa di concreto è soprattutto lui.
La Sardegna terra di conquista: per ottenere contributi pubblici e produrre energia da vendere altrove si distruggono risorse dell'agricoltura locale con l'intimidazione e l'esproprio. Resisterà la Regione autonoma? La Nuova Sardegna, 10 settembre 2016
È normale che la Sardegna possa sembrare la terra promessa ai nuovi speculatori dell'energia. Ai quali bastano quelle dei cacciatori di energia due o tre informazioni sull'isola ricattabile: spopolata, povera, in vendita: prezzi stracciati a qualche km dal mare. Ampia scelta di aree e in caso di difficoltà nell'acquisizione, una legge dello Stato (2003) per consentire agli acquirenti di alzare la voce. Pure nella Regione Autonoma. Bentornato Feudalesimo, avrà pensato EnergoGreen. La società decisa a provarci nell'isola, con un nome più domestico – Flumini Mannu –, rassicurante per i sardi notoriamente più indulgenti verso chi esibisce una parentela da queste parti (avranno saputo del successo strepitoso della birra con il marchio QuattroMori ?). Un ufficio a Macomer e via. Dal 2012 a caccia di terre tra le proteste delle comunità locali. Provarci. Come a Decimoputzu ( e non solo) dov'è grande lo sconcerto per l'iniziativa di Flumini Mannu: quando dici “non è possibile!”. Perché non è possibile quella distesa di specchi acchiappasole, circa 270 ettari coinvolti in piena campagna (tre volte i quartieri storici di Cagliari). Quanto basta per sconvolgere un paesaggio e pure il clima dei dintorni.
Ma la vera sorpresa non è un'azienda che fa il suo mestiere, quanto i risvolti della legislazione nazionale: accondiscendente verso questi impianti al punto di consentirne la realizzazione dovunque. Anche nelle zone dove non sono ammessi - in Sardegna come in altre regioni - usi diversi da quelli agricoli. Per cui non conterebbe nulla la pianificazione locale; e neppure il buon senso: la disponibilità di zone industriali dismesse, adatte ad accogliere con qualche accorgimento quelle attrezzature.
Ma c'è di più. Gli impianti alimentati da fonti rinnovabili sono per legge “di pubblica utilità”. E non per il bene dei cittadini preoccupati per i blackout – come verrebbe da pensare. Ma a tutela degli investitori nel caso trovassero resistenze ad acquisire le aree indispensabili per gli insediamenti progettati.
La legge in sintonia con un'altra (del 2001) ammette, e questo è il punto, l' esproprio, pure di suoli agricoli in produzione. A garanzia di un interesse privato e a scapito di un altro ben più conveniente alla comunità. Nel nome di un bisogno fittizio (alla Sardegna non serve altra energia); e per soddisfare una domanda esterna e il business dei contributi statali. Come quando le foreste dell'isola erano combustibile gratuito per alimentare le macchine a vapore in Continente nel clima del lungo Medioevo sardo.
La tecnologia è cambiata ma agli speculatori postmoderni si concedono privilegi da antico regime, quando persa “sa passienzia” si invocava “sa gherra contra de sa prepotenzia”.
Sta in questo solco la minaccia pendente sull'attività di Giovanni Cualbu allevatore, proprietario di parte delle terre ambite, indisponibile a venderle. E tuttavia espropriabili a richiesta di Flumuni Mannu. Una prepotenza autorizzata, denunciano da un po' i comitati per la difesa del territorio. E solo l'idea che possa accadere, sta provocando disorientamento e sfiducia verso le istituzioni nella fase delicata di esame del progetto. D'altra parte le contraddizioni sono nella norma che assegna alla Regione la valutazione d'impatto per impianti fino a 300kw, e allo Stato per gli impianti sopra questa soglia. Per cui Flumini Mannu può tentarci e ritentarci. E sarebbe clamoroso se il giudizio negativo già espresso dagli organi tecnici della Regione – per una centrale sotto i 300kw –, fosse contraddetto dal Ministero dello Sviluppo Economico (nell'indifferenza agli aspetti ambientali?) con un verdetto favorevole allo stesso impianto: riproposto lì e con un po' più di potenza. Ci sarebbe molto da ridire ovviamente, e confidiamo che eventualmente la Regione tenga la schiena dritta, fino in fondo nel confronto con lo Stato – come ha promesso la Giunta regionale. Un valore simbolico la difesa di Giovanni Cualbu. Un messaggio atteso dai comuni che non vogliono restare soli nella lotta contro le nuove e vecchie forme di land grabbing. Le storture si possono correggere. A questo, in fondo, serve la politica.
Double Canyon è l'ultimo impianto nucleare ancora in funzione in California. La sua costruzione fu fortemente contestata, 1900 attivisti vennero arrestati nel 1981 durante una manifestazione di protesta, ma solo dopo Fukushima il fronte dei contrari si è allargato. Ora la Pacific Gas & Electric ha comunicato che allo scadere delle licenze, nel 2024, chiuderà la centrale essendo in grado di offrire "la stessa quantità di energia, a prezzi inferiori agli attuali, utilizzando esclusivamente fonti rinnovabili, eolico e solare". Da un lato la conferma che si possono fare profitti anche senza distruggere il pianeta, dall'altro un precedente per altri stati che stanno valutando l'abbandono del nucleare.
Few nuclear power plants have been as contentious as Diablo Canyon. The plant, which went online in 1985 after years of ferocious opposition, sits on a gorgeous stretch of California coastline, surrounded by several earthquake faults and reliably producing enormous quantities of power - almost a tenth of California’s in-state generation. It also reliably kills enormous quantities of marine life with a cooling system that depends on huge intakes and discharges of seawater. David Brower, the executive director of the Sierra Club, got so angry with the organization when it refused to oppose the plant that he left to establish Friends of the Earth.
Mr. Brower, who died in 2000, would have been pleased with last week’s news. After long negotiations that involved, among others, Friends of the Earth and the Natural Resources Defense Council, the plant’s owner, Pacific Gas and Electric, announced that it would shut down Diablo Canyon when licenses for its two reactors expire in 2024 and 2025 and that it would replace the power with lower-cost, zero-carbon energy sources.
Approvals will be needed from two state agencies, the California State Lands Commission and the state’s Public Utilities Commission. Both should say yes; this is an event of potentially great significance for the future of energy generation in this country and for the health of the earth itself- and not just because a bunch of sometimes quarrelsome forces (unions, environmental groups, the power company) came together to make it happen.
First, the agreement is a recognition by PG&E, which generates a big chunk of its electrical output (and revenues) from Diablo Canyon, that it can provide the same amount of energy at lower costs by investing in wind and solar power and in energy efficiency improvements throughout the system, including its customers. As one negotiator put it, the deal is further evidence that “the age of renewables has arrived” - at least in California, which has long led the nation in energy innovation and last year passed a law requiring state-regulated utilities to get half their electricity from renewable sources by 2030.
Equally important, the agreement could serve as a positive example for other states and nations that may in time need to replace aging nuclear plants without increasing carbon emissions. However old and creaky some of them may be, America’s 99 nuclear reactors produce nearly a fifth of the nation’s power and two-thirds of its low-carbon energy; at a time of mounting fears about climate change, the country would be foolish to shut them down prematurely. When the time comes to retire them, it would be no less foolish to replace their power with anything other than zero-carbon sources like wind, or solar or energy efficiency.
One governor who understands this is New York’s Andrew Cuomo. Mr. Cuomo has proposed an ambitious clean-energy agenda that includes not only substantial investments in wind and solar power, but also subsidies to keep open several upstate nuclear plants that are at risk of closing because of low electricity prices driven by cheap natural gas.
Mr. Cuomo would be happy to close down the Indian Point plant, north of New York City. Indian Point has a terrible track record and last week was forced to shut down one reactor. But losing the upstate plants, he argues, would mean increased reliance on fossil fuels and the greenhouse gas emissions they generate until the day when renewables kick in. A similar drama is playing out in Illinois, where Exelon, a big power producer, has threatened to close down two money-losing nuclear plants unless it gets help from the Illinois legislature.
From a climate perspective, the smart strategy in such cases would be to hold on to the nuclear plants until a California-like transition to greenhouse-gas-free electricity is feasible. Not every state has California’s natural blessings, or its aggressive renewable energy mandates. But its commitment and imagination are worth emulating.
«In attesa di una rivoluzione energetica il Mediterraneo rimane al centro dei grandi conflitti per il controllo del petrolio». Il manifesto, 16 giugno 2016 (m.p.r.)
Legambiente ha pubblicato un breve dossier intitolato Signori della guerra, signori del petrolio, gettando uno sguardo allo scacchiere siriano e mediorientale. Una lettura quanto mai netta e semplice, ma tristemente vera e difficile da contestare, di come da decenni, e forse nel corso dell’ultimo secolo in buona parte di esso, le guerre hanno trovato una loro principale motivazione nel controllo delle risorse dell’oro nero. E’ comunque legittima, e condivisibile, la domanda a cui l’associazione ambientalista cerca di rispondere. Perché da dopo le crisi petrolifere degli anni ’70, e soprattutto negli ultimi venti anni, abbiamo avuto una recrudescenza dei conflitti per il petrolio? La risposta guarda ad un paradosso, ossia che l’utilizzo di petrolio in realtà non sta aumentando significativamente come in passato: solo il 5 per cento in più al 2020 ed un altro aumento analogo fino al 2040, anno in cui le rinnovabili secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia potrebbero superarlo. Quindi, se si vuole, il significativo spostamento verso le rinnovabili negli ultimi anni sta diminuendo l’importanza relativa del petrolio, che finalmente volgerebbe al termine. Allo stesso tempo, però, dopo la sbornia di investimenti in fonti non convenzionali di petrolio e gas, il prezzo del greggio è tornato molto basso e probabilmente rimarrà tale per un po’. Perciò pochi saranno i nuovi investimenti.
L’isola di Bikini è ancora radioattiva, più di quanto previsto. È quindi difficile che gli sfollati possano tornare a casa. L’isola fa parte di un atollo delle Isole Marshall, nel Pacifico. Su questo atollo e su quello di Enewetak gli Stati Uniti hanno condotto tra il 1946 e il 1958 alcuni test nucleari. Dopo aver spostato la popolazione su altre isole, hanno fatto esplodere 67 bombe nucleari. A causa di questi test anche i vicini atolli Rongelap e Utirik, che erano abitati, sono stati contaminati. Gli sfollati hanno provato a tornare a Rongelap in 1957 e a Bikini nel 1968, ma la radioattività era troppo alta.
Un team della Columbia University di New York ha misurato l’effettiva radioattività su sei isole. Sono state studiate Enewetak, Medren e Runit, dell’atollo Enewetak, Bikini e Nam, dell’atollo Bikini, e Rongelap, dell’atollo omonimo. In precedenza ci si affidava a proiezioni basate su dati storici.
Emlyn Hughes e colleghi hanno scoperto che a Bikini la radioattività è superiore a quanto previsto dagli accordi tra Stati Uniti e la repubblica delle Isole Marshall. L’isola non può quindi essere abitata.
Su altre isole la radioattività è invece molto più bassa, sotto le soglie stabilite. In questo caso, secondo i ricercatori, andrebbe calcolata anche l’esposizione dovuta al consumo di alimenti prodotti localmente, come le noci di cocco, prima di autorizzare il ritorno degli sfollati. Due isole probabilmente non saranno più abitabili: quella di Nam, distrutta da un’esplosione nucleare, e quella di Runit, dove è stato costruito un deposito di scorie.
Lo studio, pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, ha considerato la radioattività dovuta al cesio, ma in alcuni casi è presente anche il plutonio.
Articoli di Norma Rangeri, Maria Rita D'Orsogna, Ilvo Diamanti, Marco Bersani, Massimo Franco, Lina Palmerini. Il manifesto, Comune-info, la Repubblica, Corriere della Sera, Il Sole 24 ore, 19 aprile 2016 (p.d., m.p.r.)
Il manifesto
PERCHÉ RENZI NON HA MOLTO DA FESTEGGIARE
Lo scrittore francese, poco noto in Italia, Robert Sabatier, amava gli aforismi. Uno calza alla perfezione con gli ultimi avvenimenti: «C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare».
Possiamo analizzare il voto di domenica sotto diversi punti di vista, e probabilmente capiremmo che la ragione, o il torto, non stanno tutti da una parte. In particolare quando si tratta di argomenti sui quali cade il macigno della strumentalizzazione politica, mettendo in ombra il cuore del problema.
Tuttavia su un aspetto dovremmo concordare in tanti: l’invito a non votare, a non partecipare ad un momento importante, tra i più significativi della vita democratica, rappresenta un vulnus per la stessa democrazia E chi sostiene che altrove la bassa partecipazione elettorale è una cosa normale, forse non si rende conto che in Italia questo comportamento determina un distacco crescente dei cittadini non solo nei confronti delle istituzioni, ma dello stesso vivere civile.
Per noi è stata una bella battaglia, tutta da rivendicare.
Il giovane cinico della politica italiana deve correre ai ripari («chi vota non perde mai») perché il boomerang astensionista domani potrebbe colpire proprio lui.
Nessuno esce vincitore da questa consultazione. Vediamo perché.
Chi ha promosso il referendum sperava davvero di poter dare una scadenza alle trivellazioni (che adesso avranno vita più facile). Così non è stato. E il quorum è rimasto molto lontano.
Chi pensava di usarlo per una spallata al governo – dalla Lega ai 5Stelle – ha perso la partita. Anche perché non l’ha giocata fino in fondo, come avviene per le elezioni politiche e amministrative, quando è in ballo il potere vero.
Gli oppositori di Renzi hanno utilizzato – soprattutto i 5Stelle – soltanto la mano sinistra. Più che essere attori protagonisti si sono comportati da “spalle”, per saggiare il terreno in vista delle prossime battaglie frontali (sui Comuni e sul referendum costituzionale).
Chi predicava l’astensione sa di aver fatto ricorso a un’arma a doppio taglio. Domani la chiamata alle urne sarà complicata, in particolare nei confronti delle persone indecise: volteranno le spalle a chi pensa di usarle solo per il proprio tornaconto.
Infine, chi crede di aver vinto domenica – in primo luogo il presidente del consiglio – raccoglie un risultato miserrimo, perché la frantumazione della sinistra è evidente, perché il Pd è un partito sfasciato, perché gli oltre 13 milioni di votanti per il Sì non faranno sconti a Renzi (che vinse le europee con 11 milioni di voti).
Il premier ha accusato Michele Emiliano, il governatore della Puglia, di aver condotto una battaglia politica a fini personali, come se Emiliano non fosse un rappresentante eletto dal popolo che, come il voto dimostra, lo aveva delegato a condurla (la Puglia, insieme alla Basilicata, ha avuto la più alta partecipazione, in queste terre siamo al 40 e oltre il 50 per cento). Ma a Potenza, a Matera, a Bari, Renzi preferisce Ravenna, che cita come buon esempio di rifiuto del voto. Dimenticando che già alle ultime elezioni regionali, in Emilia Romagna aveva votato solo il 37 per cento. Già allora, a onor del vero, disse che l’astensionismo non era un problema perché l’importante era portare a casa il risultato. In questo bisogna riconoscergli un pensiero coerente.
Domenica nelle urne ha vinto il grande partito dell’astensione, è questa l’unica vittoria (di Pirro) che può intestarsi il gruppo di palazzo Chigi.
Anche se, per recarsi al seggio, il capo dello stato ha atteso la tarda serata, una scelta curiosa da parte di chi, per tenersi fuori dalla mischia, finisce per distinguersi, in negativo, dal voto mattiniero dei due presidenti del parlamento.
E hanno vinto anche i padroni dei pozzi petroliferi, pur ballando sulla graticola per la vicenda della Total e lo scandalo che sta inchiodando persone importanti. Potranno sfruttare le risorse del territorio a loro piacimento – vita natural durante – e senza creare nuova occupazione. Poi, un giorno, sarà lo Stato italiano a doversi accollare i costi per smantellare gli impianti. Tra l’altro chi sostiene che sono stati salvati posti di lavoro sa – o finge di non sapere – che l’esaurimento delle scorte ridurrà sempre di più il numero di impiegati e operai addetti.
La nuova occupazione si crea progettando cambiamenti duraturi nel tempo. Invece, questo tema, molto forte, è passato in secondo piano. Ma resta un problema centrale, italiano e internazionale. Almeno così pensano quei tredici milioni di italiani che hanno votato Sì.
Certamente non sono tutti ambientalisti, altrimenti avremmo già un partito “verde” rilevante. Tuttavia il “messaggio” lasciato nelle urne è ricco di significati, che solo gli azzeccagarbugli della politica non sono in grado di capire, perché si accontentano di raccogliere le briciole del giorno dopo.
Buon per loro. Non per noi.
Comune-info.net
NON CI SIAMO RIUSCITI.
ANDIAMO AVANTI
di Maria Rita D'Orsogna
Il referendum ha portato il tema petrolio in tutte le case. Gli incontri nei quartieri, lo studio del problema, l’informazione on line sono un patrimonio: occorre andare avanti, concessione per concessione, comunità per comunità
Non ci siamo riusciti. Nonostante tutta la nostra buona volontà e il nostro entusiasmo, la macchina del no, dell’astensionismo, dei geologi al soldo delle fossili, dei lobbisti del petrolio hanno avuto la meglio su di noi. Lo sapevamo tutti che non era una partita alla pari fin dal primo giorno: una data a casaccio, la stampa ufficiale contro di noi, poca e cattiva informazione, gli spauracchi immaginari della disoccupazione e delle luci spente, un primo ministro che invita all’astensione. Onore a noi tutti per averci provato e per averci creduto fino all’ultimo voto.
Mi dispiace molto, e per prima cosa voglio ringraziare tutti quelli che si sono adoperati condividendo post su Facebook, promuovendo incontri di quartiere, facendo passaparola. Voglio ringraziare ogni nipote che lo spiegava al nonno perché votare sì, e ogni nonno che ha capito che era importante. Voglio ringraziare tutti quelli che sebbene lontani da comunità trivellate o trivellande si sono presi la briga di studiare, e sono diventati piccoli attivisti. Anche se non ci siamo riusciti è stato lo stesso una bella pagina di democrazia sana, in cui molti si sono sentiti investiti, con il desiderio di poter far qualcosa di buono.
La sconfitta ci insegna che abbiamo ancora tanta strada da fare. Ma non tutto è perduto. Questo referendum ha avuto il merito di aver portato il tema petrolio nelle case degli italiani, e quantomeno il dubbio che le trivelle non siano benessere e non siano ricchezza per l’italiano medio. Purtroppo per noi, ci sono altre concessioni in terra e in mare previste in varie parti dello stivale per i prossimi mesi, per i prossimi anni. Grazie a tutti i dibattiti referendari quelli che avranno la sfortuna di viverci vicino avranno vita più facile nel contrastare questi progetti, se lo vorranno. Sapranno che si può e si deve lottare, anche se si è in pochi, anche se è difficile. Avranno materiale ed esempi. È tutto scritto, documentato, dai pesci ai terremoti. È scomparso il vuoto mediatico che c’era dieci anni fa e questo anche grazie al referendum che ha obbligato stampa e Tv ufficiali a parlarne, seppure spesso in modo distorto.
A suo modo questa sensibilizzazione è già una vittoria. E adesso cosa fare?Occorre andare avanti, concessione per concessione, comunità per comunità. È persa la battaglia, non la guerra, non la storia.
Anche se Matteo Renzi e Claudio Descalzi andranno a brindare, la storia è dalla nostra parte. Cent’anni fa facevamo buchi perché pensavamo che far buchi fosse lo stato dell’arte. Lo stato dell’arte nel 2016, nonostante il referendum, nonostante chi ci governa, non è fare buchi. È fare tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi con le fonti fossili senza trivellare ad infinitum, senza distruggere la vita di nessuno, senza martoriare l’unico pianeta che abbiamo.
Dobbiamo continuare a opporci alla petrolizzazione d’Italia come fatto finora, ogni santo giorno, e cioè dal basso. Dobbiamo continuare a esigere un ambiente e una democrazia pulite, un Italia che guardi alle rinnovabili e al futuro e non alle trivelle e al passato.
Vinceremo. La storia è più grande di Matteo Renzi.
La Repubblica
L’ANALISI DEL NON VOTO
di Ilvo Diamanti
L’obiettivo prioritario della consultazione si è rivelato quello di mettere in difficoltà il premier: rispetto al risultato del 2011 è significativo che l’astensione sia cresciuta nelle “zone rosse”
Si è conclusa la prima tappa della marcia elettorale che ci attende, da qui fino all’autunno. Dopo il referendum sulle trivelle, infatti, all’inizio di giugno avranno luogo le elezioni amministrative, in alcune città fra le più importanti. Roma, Milano, Torino, Napoli. E in altri tre capoluoghi di Regione: Bologna, Cagliari e Trieste. Infine, in autunno si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento una settimana fa. Il premier, Matteo Renzi, ne ha fatto il banco di prova definitivo per il proprio governo, ma, prima ancora, per se stesso. In fondo: per la propria leadership. Ogni passaggio elettorale assume, però, lo stesso significato. Diventa, cioè, una verifica del consenso verso Renzi e la sua maggioranza. Il premier, d’altronde, non ha fatto nulla per evitarlo. Al contrario. Anche questo referendum è stato puntualmente orientato in questa direzione. Non tanto per decidere sulle “trivelle”, ma per esprimere dissenso oppure consenso verso Renzi. Partecipare al voto significava, dunque, sfiduciare Renzi. Al contrario: astenersi – in subordine: votare no – gli avrebbe fornito sostegno. Conferma. Ed è ciò che, in effetti, è avvenuto. Perché oggi, l’unico argomento di cui si discute riguarda Renzi. Non certo le trivelle.
Eppure, se si valutano i risultati con qualche attenzione, l’importanza delle “trivelle” appare evidente. Basta considerare la geografia della partecipazione elettorale. I livelli più elevati di affluenza si osservano, infatti, nelle aree maggiormente interessate al problema. Cioè, alle trivellazioni. In particolare, la Basilicata (l’unica dove sia stato superato il quorum del 50% degli elettori aventi diritto), quindi, la Puglia e il Veneto. Fra le regioni che hanno promosso il referendum, emergono livelli di partecipazione molto elevati anche in Molise e nelle Marche. Tra le altre: in Abruzzo ed Emilia Romagna. In altri termini: lungo la fascia adriatica. Tuttavia, se ragioniamo sull’astensione “aggiuntiva” rispetto al referendum del 2011, che riguardava “l’acqua pubblica”, si delinea una mappa diversa. Con una caratterizzazione politica più specifica.
Anche il referendum del 2011 aveva una connotazione “ambientalista”. Per questo è significativo che il peso dell’astensione, nel referendum sulle trivelle, cresca, in misura particolare, nelle “zone rosse”. Ma soprattutto in Toscana. La Regione di Renzi. E ciò conferma come le “trivelle” e l’ambiente siano divenuti un argomento, in qualche misura, strumentale. Ricondotto progressivamente all’obiettivo prioritario di “trivellare Renzi”. A questo proposito, il verdetto della consultazione appare chiaro. Non solo perché alle urne si è recata una minoranza (benché rilevante): poco meno di un terzo degli elettori. Ma perché è difficile riassumere per intero la partecipazione al voto sotto le bandiere dell’anti-renzismo.
Lo suggeriscono i dati di un sondaggio condotto da Demos circa una settimana prima del voto. Certo, fra gli elettori del M5S e dei partiti a sinistra del Pd la quota di coloro che si dicono certi di votare risulta particolarmente elevata. In entrambi i casi, poco sotto il 50%. Mentre fra gli elettori degli altri partiti l’intenzione di partecipare al referendum appare più ridotta. In particolare, nel Pd non raggiunge il 30%. Per questo è azzardato interpretare l’affluenza degli elettori come un indice di “sfiducia” nei confronti del governo e del premier. D’altra parte, tra coloro che, nei giorni scorsi, si erano detti certi di recarsi alle urne, il grado di “fiducia” nei confronti del governo risulta intorno al 30%. Dunque, meno, rispetto alla media degli italiani (39%). Ma non troppo.
Per questo lascia perplessi la traduzione direttamente politica e “personale” che viene data al risultato del referendum. Non da una parte sola, peraltro. Perché Renzi e, in modo ancor più esplicito, i “renziani” hanno rovesciato, a proprio favore, questa impostazione. Con l’effetto, francamente paradossale, di trasformare l’astensione in consenso. Traducendo il dato della non-partecipazione in una misura del sostegno al governo e al premier.
Ovviamente, questa impostazione rischia di produrre esiti singolari. Trasformando un cittadino, qualsiasi cittadino, interessato a fermare la trivellazione nella costa davanti alla sua città in un anti- renziano, tout-court. E un elettore, anche se ferocemente anti-governativo, ma impossibilitato a partecipare al voto, per motivi di forza maggiore, oppure semplicemente, disinteressato al problema, in un partigiano di Renzi. Ma mi sorprende - e inquieta - che lo stesso premier possa vedere nell’astensione - anche se in un caso specifico come questo - una risorsa. Una fonte di consenso politico. Personale.
Personalmente, osservo con qualche inquietudine questa “deriva” del dibattito politico. Che, peraltro, talora in contrasto con le stesse intenzioni dei protagonisti, trasforma e estremizza ogni confronto in senso “personale” e “referendario”. In altri termini, riassume la nostra vita politica in un lungo referendum pro o contro Renzi. Che si snoderà da qui in avanti. Non solo nei prossimi mesi.
Se questa idea fosse fondata, allora sarebbe meglio non nascondere la testa sotto la sabbia. Perché significherebbe che, con il contributo attivo del fronte anti-renziano, ci stiamo avviando verso un “governo personale” del premier. Come ho già scritto in passato: in un premierato – per non dire in un presidenzialismo – “preterintenzionale”. Al di là delle intenzioni: nei fatti e nella pratica. A maggior ragione se si tiene conto degli effetti di “semplificazione” prodotti, nei processi decisionali, dalla riforma costituzionale e dalla nuova legge elettorale.
Personalmente, non ho pregiudizi. Ma se si va verso una democrazia “immediata” e “personalizzata”, allora, forse, sarebbe meglio tenerne conto per tempo. E orientare in quella direzione la “riforma” della Costituzione. Senza riscriverla e ricostruirla un pezzo dopo l’altro. Una spinta dopo l’altra. Un referendum dopo l’altro. In modo preterintenzionale.
Il boicottaggio del voto è stato tanto manifesto, quanto evidenti sono i poteri forti che sono scesi in campo per il mantenimento dello statu quo. Il presidente del consiglio, dapprima con la definizione della data – nessun accorpamento con le amministrative e indicazione della primissima data utile per abbreviare il più possibile la campagna referendaria – poi con la discesa in campo aperto per l’astensione, si è dimostrato un pasdaran della nuova idea di democrazia autoritaria e plebiscitaria che propone al paese.
I grandi mass media, dapprima con il totale silenzio sul quesito, poi con la denigrazione dello stesso, hanno fatto ampiamente la loro parte. A tutto questo va aggiunto l’evidente obsolescenza della norma che disciplina i referendum, che mantiene un quorum (50% più 1 degli aventi diritto al voto) da missione quasi impossibile e che facilita la strumentalizzazione della disaffezione elettorale per far fallire ogni esperimento di democrazia diretta.
Questo quadro oggettivo non esime, tuttavia, dal valutare il voto del 17 aprile come una sconfitta. Perché, se sono realtà tutti gli impedimenti sopra descritti, è altrettanto vero che, se si decide di sfidare le politiche governative utilizzando lo strumento referendario, si è consapevoli dell’entità della sfida e occorre di conseguenza prendere atto dell’esito.
Ecco perché vale forse la pena provare a fare una riflessione più ampia in merito a quali condizioni rendano praticabile la sfida e a quali invece ne pregiudichino in partenza l’esito.
La prima non può che riguardare la frammentazione sociale che oltre venti anni di liberismo e la crisi sistemica in atto hanno prodotto nel paese: oggi le persone che hanno una visione d’insieme dei problemi sono una minoranza, mentre per la gran parte della popolazione l’isolamento e l’atomizzazione hanno agito in profondità, al punto da renderle disponibili alla mobilitazione solo di fronte ad un attacco diretto ed esplicito alle proprie condizioni di vita.
Se Eugenio Scalfari può scrivere sulla Repubblica che chi non vive nelle regioni direttamente interessate dalle trivellazioni è bene che se ne disinteressi, è perché ha chiara -e la utilizza pro-Renzi- esattamente questa dimensione di frammentazione sociale.
E’ questa realtà a dimostrare, come oggi una prima condizione sine qua non la sfida referendaria diviene impossibile è che l’argomento da sottoporre al voto degli italiani debba o riguardare un tema che incide direttamente sulla vita di tutte e tutti o, in alternativa, diversi temi dirimenti che, nella loro pluralità, mobilitino ciascuno una fetta di popolazione direttamente interessata.
Il primo caso lo si è visto con la straordinaria esperienza del movimento per l’acqua, non a caso l’unico referendum degli ultimi venti anni ad aver raggiunto il quorum; il secondo caso, ancora da verificare nella sua efficacia, è attualmente in corso con la campagna di raccolta firme, avviata da due settimane, sui referendum “sociali”.
A mio avviso, c’è una seconda condizione irrinunciabile per poter mettere in campo la sfida referendaria: la raccolta delle firme fra i cittadini. È l’unico antidoto possibile alla disinformazione dei mass media e consente, nell’anno precedente al voto, una sorta di alfabetizzazione di massa e un processo di motivazione sociale che divengono dirimenti nella successiva mobilitazione per la partecipazione al voto.
Sono entrambe condizioni assenti nel referendum del 17 aprile e, che, a mio avviso, ne hanno determinato l’impossibilità “strutturale” di un esito positivo.Tredici milioni di persone hanno comunque deciso di scendere in campo e di disobbedire all’indifferenza richiesta dal governo e dai poteri forti di questo paese. A mio avviso si parte da lì.
Con una punta di fatalismo, l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi, ha liquidato le polemiche post-referendum commentando: «Il Paese è fatto così». Eppure, nello scontro seguito alla bocciatura del voto sulle trivellazioni, sono emerse due caratteristiche aggiuntive. La prima riflette il modo strumentale col quale la minoranza del Pd ha affrontato il referendum. Ha cercato la saldatura con le opposizioni, sperando di colpire Matteo Renzi e il suo governo, favorevoli all’astensionismo: operazione miseramente fallita. Ma anche il premier, forse, sopravvaluta il proprio ruolo.
Il non voto, che Palazzo Chigi comprensibilmente legge in chiave di partito, avrebbe vinto comunque, visto il tema sul quale si era chiamati a decidere. Anzi, non è da escludersi che la radicalizzazione del confronto abbia portato alle urne più gente di quanta sarebbe andata senza le liti tra Renzi e il fronte antigovernativo. E questo porta alla seconda riflessione, legata allo strumento referendario. Ormai è chiaro che si tratta di un istituto in crisi. Nato all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso per grandi battaglie come divorzio, nel 1974, e aborto nel 1981, ha poi vissuto una rinascita coi referendum elettorali: prima quello di Mario Segni nel 199, poi quelli radicali del 1993.
Sono state le ultime vampate di uno strumento di democrazia diretta, svuotato dall’abuso che ne è stato fatto. E dopo le percentuali bassissime di ieri, appena sopra il 32 per cento, si ripropone il tema di come regolamentarlo. Il tema è quello di conciliare la voglia di cambiare le leggi dal basso, con l’esigenza di non imporre al corpo elettorale di pronunciarsi su temi troppo settoriali e astrusi. Eppure, M5S, di FI e avversari di Renzi nel Pd rilanciano. Puntano a sconfiggere il governo in quello istituzionale di ottobre sulle riforme, tentando una seconda spallata dopo quella appena fallita. Gli oltre 15 milioni di elettori che comunque sono andati a votare sulle trivellazioni vengono presentati come una sorta di avanguardia dell’armata anti-premier. La sconfitta di domenica viene così rimossa e sostituita da una nuova offensiva: confidando magari in un insuccesso del partito del premier alle Amministrative di giugno in grandi città come Milano, Roma e Napoli.
I toni usati dallo stesso Renzi e da alcuni esponenti a lui vicini possono rivelarsi a doppio taglio. La tesi secondo la quale «la demagogia non paga» e che col referendum sono stati buttati 300 milioni di euro, è difficilmente contestabile. Non vedere, però, che in questo modo Palazzo Chigi può esacerbare la minoranza del Pd alla vigilia di elezioni già difficili, è assai rischioso: sebbene gli avversari sottovalutino l’immagine di novità che le riforme, al di là del loro merito, proiettano sul referendum prossimo venturo.
Una prima vittoria contro un grave danno ambientale che è insieme deturpazione del patrimonio comune, omaggio a uno "sviluppo" insensato e violazione dei diritti dei poteri locali. Articoli di Serena Giannico ed Enzo Di Salvatore. Il manifesto, 20 gennaio 2016
LA CONSULTA: «SÌ AL REFERENDUM ANTI TRIVELLE»
di Serena Giannico
«No Ombrina. Via libera al quesito già ammesso dalla Cassazione sulla durata del permesso ai petrolieri. Esultano le nove regioni e le 200 associazioni del fronte No Triv. Battuto il governo che voleva impedire la consultazione. Gli ambientalisti chiedono di fermare le perforazioni fino ad un nuovo Piano energetico nazionale»
Si farà il referendum antitrivelle: esultano 9 Regioni e oltre 200 associazioni di tutta la Penisola. La Corte Costituzionale, infatti, ha dato l’ok all’unico dei quesiti referendari, contro gli idrocarburi, ammesso dalla Cassazione lo scorso 8 gennaio. I giudici hanno deciso, in poco più di tre ore, sulla richiesta di sottoporre alla valutazione popolare il sesto quesito, «quello sul mare».
«I cittadini – spiega in una nota il coordinamento nazionale “No Triv“saranno chiamati a esprimersi per evitare che i permessi già accordati entro le 12 miglia possano proseguire anche oltre la scadenza, per tutta la “durata della vita utile del giacimento”. Rimane fermo il limite delle 12 miglia marine, all’interno delle quali non sarà più possibile accordare permessi di ricerca o sfruttamento. La sentenza della Consulta dimostra come le modifiche apportate dal Governo con la Legge di stabilità – aggiungono — non soddisfacevano i quesiti referendari e, anzi, rappresentavano sostanzialmente un tentativo di elusione».
Tre dei sei quesiti depositati il 30 settembre 2015 sono stati recepiti dalla legge di stabilità, emendata: il parlamento ha modificato le norme su strategicità, indefferibilità ed urgenza delle attività petrolifere, che erano poco garantiste sulla partecipazione dei territori alle scelte. Un altro quesito è stato ora ammesso dalla Corte Costituzionale, mentre sugli ultimi due è stato promosso, da sei Regioni, un conflitto d’attribuzione tra poteri di fronte alla Consulta e nei confronti dell’Ufficio centrale della Cassazione.
I due quesiti riguardano la durata dei permessi e il Piano delle aree che – spiegano i No Triv — obbliga lo Stato e i territori a definire quali siano le zone in cui è possibile avviare progetti di trivellazione. «Si tratta di uno strumento di concertazione che risulta essere fondame ntale soprattutto se con la riforma del titolo V si accentra il potere in materia energetica nelle mani dello Stato». «Sappiamo ora che su uno dei quesiti centrali ci sarà il referendum, a meno che governo e parlamento intervengano sulla materia», afferma l’avvocato Stelio Mangiameli che ha rappresentato i Consigli regionali di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise di fronte alla Consulta. All’ultimo momento, invece, ha battuto in ritirata l’Abruzzo che, con un voltafaccia del presidente della Regione Luciano D’Alfonso (Pd), si è infine schierato contro il referendum e a fianco del governo.
«Le norme precedenti — prosegue il legale — prevedevano, per i titoli già concessi, proroghe di 30 anni, aumentabili di altri 10 e altri 5. Le modifiche introdotte con la legge di Stabilità eliminano la scadenza trentennale e fanno sì che in sostanza non ci sia più un termine. Su questo punto ci sarà il referendum».
«Il fronte referendario è sul 4–2 nella disputa con il premier — dichiara il costituzionalista Enzo Di Salvatore, docente all’università di Teramo, colui che ha materialmente scritto i quesiti -. Il governo voleva far saltare il referendum, visto che i sondaggi davano la vittoria antitrivelle al 67%».
«Il presidente Renzi dev’essere contento perché quando il popolo irrompe sulla scena della democrazia, chi è iscritto al Partito democratico dev’essere contento per definizione»: così il governatore della Puglia, Michele Emiliano -. «Per festeggiare il risultato – dichiara — organizzerei un corteo con le automobili. Qui la campagna per il voto comincia subito». E non risparmia di commentare l’abbandono da parte dell’Abruzzo: «È come quando uno si vende la schedina prima della partita, e poi si ritrova col tredici. Lo dico con affetto nei confronti del mio amico Luciano D’Alfonso, che avrebbe potuto gioire con noi». «Non c’è uno Stato centrale che ama l’Italia e un territorio che la odia. L’interesse strategico di un Paese, con lealtà e trasparenza lo si costituisce insieme. E questo è un passo importante», gli fa eco il presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Piero Lacorazza (Pd).
«Questa sentenza ci dà lo spunto per rilanciare richieste chiare al governo: rigetto immediato e definitivo di tutti i procedimenti ancora pendenti nell’area di interdizione delle 12 miglia dalla costa (a cominciare da “Ombrina”) e una moratoria di tutte le attività di trivellazione off shore e a terra, sino a quando non sarà definito un Piano energetico nazionale»: così Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Touring Club italiano e Wwf accolgono il giudizio della Consulta. «Pur di assecondare le lobby dei petrolieri, l’esecutivo Renzi – attaccano — aveva promosso forzature inaccettabili, come la classificazione delle trivellazioni come “opere strategiche”, dunque imposte. La Corte Costituzionale rimette al giudizio dei cittadini quei meccanismi legislativi truffaldini con cui si è aggirato sino ad oggi un divieto altrimenti chiaro, lasciando campo libero ai signori del greggio fin sotto le spiagge».
UNA PRIMA VITTORIA.
DA BISSARE
di Enzo Di Salvatore
La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il referendum sulle trivellazioni entro le 12 miglia marine, in relazione alla durata dei titoli minerari, come disposta dalla legge di stabilità 2016. Con l’entrata in vigore di quella legge, infatti, l’articolo 6 — precisamente al comma 17 — del Codice dell’ambiente è stato modificato: i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione sono fatti salvi per tutta la durata di vita utile del giacimento. E questo vuol dire che non hanno scadenza certa. Con un duplice effetto: la possibilità di estrarre senza limite temporale; la possibilità che i permessi già rilasciati restino vigenti oltre la durata già fissata dal provvedimento amministrativo. Evidentemente nella speranza che prima o poi la normativa sul divieto entro le 12 miglia marine cambi.
Nonostante le obiezioni mosse dal governo, e sebbene la sentenza non sia stata ancora depositata, la Corte costituzionale avrà certamente ritenuto che una durata «sine die» dei titoli minerari contraddicesse uno degli obiettivi dei promotori, posto già a base di un altro quesito referendario: quello di contenere la durata di tutti i titoli, attraverso il divieto di rilasciare proroghe oltre i sei anni per la ricerca e oltre i trenta anni per l’estrazione. Ma questo solleva ora un problema ulteriore, giacché la Cassazione ha dichiarato chiuse le operazioni referendarie per tutti gli altri quesiti e, dunque, anche per quello sulle proroghe dei permessi e delle concessioni.
È una contraddizione in termini: a seguito delle modifiche del parlamento, infatti, il contenimento della durata dei titoli riguarderà solo i nuovi «titoli concessori unici», ma non anche i permessi e le concessioni, che potranno beneficiare di proroghe ulteriori.
D’altra parte, insoddisfatta resta anche la richiesta referendaria sul piano delle aree; e ciò perché il quesito proposto dalle Regioni presupponeva necessariamente il mantenimento del piano. Ma la legge di stabilità ha abrogato il piano. Questo vuol dire che è sparita la norma sulla quale far votare i cittadini. Per questa ragione, venerdì prossimo nove regioni (eccezion fatta per l’Abruzzo) promuoveranno dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione, allo scopo di recuperare sia il quesito sulle proroghe sia quello sul piano delle aree.
Rispetto a questo scenario, il governo ha davanti a sé due strade: consentire che si vada a referendum (sul quesito sul mare ed eventualmente su quelli relativi alle proroghe e al piano delle aree, qualora il conflitto di attribuzione si risolva positivamente) oppure modificare nel senso voluto dalle Regioni la normativa oggetto di referendum.
Candela è un paesino che lega la Campania alla Puglia. I viaggiatori diretti a Bari lo incontrano alla sommità dell’Appennino, finita la salita dell’Irpinia d’Oriente. Spalanca gli occhi alla Daunia, li dirige sugli ettari di grano del Tavoliere, verso Foggia. A Candela nessuno pensava fino a vent’anni fa che il vento si potesse anche vendere. Il vento qui ha sempre fatto solo il suo mestiere: soffiare. Soffia quasi sempre, anche duemila ore all’anno. Contano le ore coloro che fanno quattrini col vento. Con un anemometro, un’asta lunga, una specie di ago d’acciaio diretto al cielo, si può conoscere se è buono o cattivo, forte o debole. Se soffia come si deve o se fa i capricci. Se è utile a far fare quattrini, dunque.
Arrivarono le aste e con loro particolari personaggi che organizzavano il mercato del vento. Sviluppatori si chiamavano. Sviluppavano il territorio, certo. Gli agricoltori di Candela ne furono lieti, anche il sindaco e tutta l’amministrazione comunale. C’era la possibilità di ottenere qualche migliaio di euro dalla società che avrebbe innalzato le pale eoliche. E soldi per fare una bella festa patronale per esempio e far venire (altrove era già successo) i cantanti di X Factor finalmente! E anche sostenere la squadra di calcio: divise nuove per tutti!
Pure belle sono le pale. Se le vedi da lontano sembrano rosoni d’acciaio o margherite giganti, dipende dai tuoi occhi, da dove le miri. Fanno la loro figura comunque. Ognuno degli abitanti del vento ha una sua immagine da offrire al pubblico dibattito. A un sindaco del Tarantino, per esempio, parevano simili a mulini a vento: “Abbiamo già il mare e avremo i mulini, delle possibili attrazioni per il nostro territorio sempre danneggiato, vilipeso dal nord”.
Le pale eoliche messe una accanto all’altra formano, come ha sempre spiegato Legambiente, un parco eolico. La parola parco dice tutto: significa ambiente tutelato, prati verdi, cielo azzurro, aria pulita. Finalmente il sud non avrebbe insozzato l’aria, anzi l’avrebbe trattenuta e gestita nel miglior modo possibile. Così a Rocchetta Sant’Antonio iniziarono a mettere le pale che pian piano giunsero fino a Candela, poi si volsero verso Monteverde e Lacedonia, paesi limitrofi. Puntarono in direzione di Foggia, cinsero Sant’Agata di Puglia come un pugno stringe una rosa, s’incamminarono verso Lesina, verso il mare dell’Adriatico.
Pale, pale, pale. Un’alluvione di pale che ha conquistato tutto il sud. Loro in cima alle montagne, i pannelli fotovoltaici in terra. Creste d’acciaio in aria, e in basso silicio al posto degli ulivi, come in Salento, silicio invece degli agrumi, come in Calabria. Silicio e non pomodori, o vitigni, o alberi. Silicio in nome dell’energia sostenibile, del Protocollo di Kyoto, delle attività ecocompatibili. In nome del futuro dell’uomo. Conviene dunque partire da qui, dall’Irpinia d’Oriente, epicentro del vento, per illustrare il più straordinario, galattico affare di questo inizio secolo. Per domandare come sia stato possibile costruire una fabbrica di quattrini per pochi intimi, un giro d’affari che nel 2020 toccherà punte multimiliardarie, deviando nelle casse pubbliche qualche spicciolo. L’equivalente di un’elemosina. Come sia potuto accadere che un tesoro collettivo inesauribile è stato ceduto ai privati. Che non una pala, una!, sia veramente e totalmente pubblica. Per volere di chi, grazie a complicità di quali menti, di quali mani, di quali occhi? E in ragione di quale bene comune il bilancio statale ha immaginato di destinare, per sostenere il ciclo vitale dello sviluppo delle rinnovabili, un monte di soldi che, in una puntuale, analitica interrogazione parlamentare al ministro dello Sviluppo economico e a quello dell’Ambiente, la radicale Elisabetta Zamparutti, unica curiosa tra le centinaia di colleghi silenti, stima in circa 230 miliardi di euro. Solo quest’anno, nel tempo feroce della spending review che taglia ospedali e trasporti, trasforma in invisibili gli operai, taglia commesse e finanziamenti e con loro cancella la vita precaria dei precari, si dovranno accantonare altri dieci miliardi di euro da investire nello sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, le cosiddette Fer. Dieci miliardi! Uno sforzo titanico a cui gli italiani sono chiamati a partecipare versando l’obolo in rate bimestrali attraverso un sovrappiù della bolletta elettrica. Si chiamano incentivi. Erano i famigerati certificati verdi sterilizzati da nuove norme, le cosiddette “aste”. E non ha importanza che la soglia di rinnovabile elettrica sia stata raggiunta impetuosamente con otto anni di anticipo.
ORIZZONTE D’ACCIAIO
Candela accoglie i viaggiatori nel grande piazzalediunastazionedirifornimentodicarburante. Il vento spazza l’asfalto. La sosta è obbligata per i bus che collegano l’est con l’ovest del Mezzogiorno. Arrivano le corriere da Napoli. Chi vuole andare a Foggia non conta infatti sul treno, sarebbe una via crucis. Perciò il bus. Il viaggiatore può attenderlo nel bar di antico sapore bulgaro. Una stradina lo costeggia e ci conduce verso Rocchetta Sant’Antonio, sulla linea di confine pugliese. Superata la prima curva, l’orizzonte si fa d’acciaio. Una foresta di tubi e di pale, l’una dietro l’altra a recinto dei crinali delle montagne. L’orizzonte è tagliato dalle eliche, sembra che la terra possa decollare e tutti noi puntare da un momento all’altro verso il paradiso. “I contadini hanno fittato agli imprenditori del vento e si sono rifugiati altrove – dice Enzo Cripezzi, presidente della Lipu Puglia e uno dei maggiori indagatori del fenomeno eolico – Hanno messo in tasca i pochi quattrini, una somma comunque incomparabile rispetto al reddito miserabile dell’agricoltura, e hanno scelto l’abbandono. Sono fuggiti col teso-retto, felici finalmente”. Verso Rocchetta troviamo a far compagnia alle torri una poiana, rapace autoctono, che tenta di fare spuntino con una lucertola e poi compare più in là un biancone. Sono uccelli migratori, profondi conoscitori delle correnti del vento.
Vivono grazie ai vortici depressionari che d’estate li conducono in Italia, in Spagna, nei territori caldi dell’Europa e l’inverno li riportano in Africa dove attendono il nuovo viaggio. Il biancone, della larga famiglia delle aquile, conosce così bene le correnti da superarle aggirando il Mediterraneo, prendendolo ai fianchi: costa ligure, costa azzurra, costa brava, stretto di Gibilterra, infine Marocco. Fanno fatica a superare l’acqua e questi uccelli migratori sono simili – in quanto a viaggi della speranza – agli uomini migranti. Gli umani muoiono sui barconi, gli animali in aria se il loro corpo non resiste alla fatica che la natura impone. Fino a ieri il pericolo era il canale di Sicilia, superato il quale veleggiavano verso la salvezza. Adesso no, le eliche li confondono e li annientano.I nibbi reali, le cicogne nere, specie protetta e rara, possono incappare nelle turbine, ferirsi e morire. Così i falchi, le poiane, e ogni uccello che tenti di attraversare l’Appennino. Effetti collaterali minori, si dirà. E qual è l’effetto visivo, l’impatto ambientale, la forza prepotente e magica di questi spuntoni di roccia che affiorano sui pendii descritti da Gabriele Salvatores nel film Io non ho paura? “La natura non aveva preventivato le pale eoliche – dice Cripezzi – Guardare oggi questo panorama e compararlo con quello di ieri fa venire un’enorme tristezza, un dolore profondo e rabbia”. La stradina si confonde al vecchio tratturo e punta su Monteverde. Il paese che guarda le pale. 850 abitanti, solo un anziano sulla panchina: “A me fanno venire le vertigini. Allora piglio una pasticca e tutto passa”.
DECIDONO LE REGIONI
Non si può dire no al petrolio e affossare l’eolico e il fotovoltaico, certo. Ma si poteva, anzi si doveva gestire il territorio, dividerlo per caratura paesaggistica,garantire alle pale un luogo e al paesaggio la sua identità. Scegliere dove metterle, e come. Preservare il possibile e il giusto. Invece? Invece la legge nazionale delega alle regioni. Lo sviluppo dell’energia è questione loro. E il paesaggio tutelato dalla Costituzione? Problema locale. Le Regioni anziché fare un piano regolatore dei venti e delle pale e promuovere partecipazioni pubbliche allo sviluppo dell’energia pulita, rendendo bene comune, esattamente come l’acqua, il vento e il sole, privatizzano progetti e attuatori. Tutto demandato agli uffici del Via, microscopici controllori della legalità e del paesaggio che col tempo fungono da predellino delle lobbies. “L’Europa ci vieta, per le norme sulla concorrenza, di prendere parte all’impresa”. Un leit motiv non soltanto falso, ma irriconoscente della realtà: non era vero, né poteva esserlo.
Ma era comodo dirlo. Pensate che la signora Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, nel primo semestre di quest’anno ha prodotto circa 230 nomine tra consulenti e consiglieri di amministrazione nelle più diverse e bizzarre diversificazioni merceologiche dell’intervento pubblico. Manca solo l’azienda regionale per la promozione del cioccolato bianco. Tutto si può e tutto si fa, ma l’energia non è un bene pubblico, e lo sfruttamento delle risorse naturali non è questione collettiva. Ricordiamo le parole di sintesi – a proposito della discussione sulla misura degli incentivi da dare ai privati – di Gianfranco Micciché, viceministro al tempo del governo Berlusconi, noto a tutti per le sue battaglie ambientaliste: “Chi tocca il fotovoltaico si propone di far cadere il governo”. E così i raggi del sole si sono trasformati in infiltrazioni private sulla terra. Affari della Sanyo, come a Torre Santa Susanna, in provincia di Brindisi . Decine di ettari di terreno confiscati all’agricoltura sui quali sono stati riposti 33mila moduli solari per farne l’impianto tra i più grandi d’Europa. Finanziamento tedesco e tecnologia giapponese. “Vorrei esprimere le nostre sincere congratulazioni per il completamento di questo progetto e ringraziare Deutsche Bank per averci dato fiducia nella scelta dei nostri moduli solari”, commentò Misturu Homma, executive vicePresident di Sanyo. Giusto. Il sole è italiano, ma non conta, non vale. Non si vende. Si regala. Come pure i terreni. Pochi quattrini e affare fatto. Oggi il ministro dell’Agricoltura, l’unico sensibile al consumo del suolo, propone una moratoria uno stop al consumo del suolo. Il governo ha appena licenziato il disegno di legge. Catania non è stato certo aiutato dal collega dell’Ambiente, il prode Clini. Clini non sa o non ricorda che in Italia esistono circa 13 milioni di abitazioni costruite dopo il 1970, quindi senza particolare tutele. Sui tetti i pannelli e gli ulivi per terra: era più naturale e forse possibile? Possibile senz’altro ma troppo dispendioso per i privati: molto più facile tombare di silicio centinaia di ettari di terreno. Molto più veloce e produttivo.
Sono stati cementificati 750mila ettari di territorio solo nell’ultimo decennio. Una parte poteva essere destinata ad ospitare i pannelli? Macché, troppo complicato. Via col vento e col sole dunque. E via con le imprese.
Il Mezzogiorno è stato spartito in spicchi d’influenza.Ad alcune aziende monopoliste sono stati affidati i lucchetti: la Fortore Energia ha cinto la Puglia, l’Ipvc la Campania, Moncada la Sicilia. In Calabria molte srl, alcune delle quali facenti capo indirettamente alle famiglie più importanti della ‘ndrangheta. La Piana lametina e il Crotonese sono stati assoggettati all’illegalità più clamorosa, plateale. Non c’è pala messa che non sia stata accompagnata da un’inchiesta giudiziaria. Truffa, corruzione, falso. Il trittico dei reati tipici, la serializzazione dell’attività giudiziaria. Energia pulita per mani sporche. Non tutte sporche, naturalmente. E non tutti imprenditori affaristi, naturalmente. Ma di certo tutti hanno goduto di una deregulation mai vista, incredibile solo a pensarci.
Edison, Sorgenia, Green Power, Sanyo e poi olandesi, spagnoli, cinesi. Tutti nel business. Solo privati però, sempre privati. Lo Stato non ha partecipato in nessuna forma, e gli enti locali neanche per sogno hanno accompagnato lo sviluppo eolico con una loro presenza, magari anche minoritaria, nelle società di produzione. In Puglia la fabbrica ideologica di Nichi Vendola, secondo cui l’energia, per il solo fatto di essere rinnovabile e pulita fosse obbligatoriamente da catalogarsi a sinistra, ha permesso a essa di straripare. A nord della regione le pale, a sud i pannelli. Nichi ha chiuso la stalla quando i buoi erano già tutti scappati. La Campania è stata comprata come detto dal signor Vigorito, capo dell’Ipvc, pioniere del vento. Acclamato presidente dell’Anev, l’associazione degli industriali del vento. Associazione “ambientalista” secondo i protocolli in uso per i tavoli del ministero dell’Ambiente. Una benemerita. Nel 2005 Legambiente e Anev hanno sottoscritto un protocollo d’intesa con lo scopo di promuovere l’eolico in Italia. “Insieme organizzano e collaborano”, scrive il sito ufficiale degli imprenditori. Purtroppo nel 2009 il presidente dell’Anev, questa titolata associazione ambientalista, viene arrestato. La Guardia di Finanza sequestra sette “parchi” eolici in diverse regioni e accusa Vigorito…
Era ieri. Torniamo all’oggi. Al 2011 sono state installate 5500 torri eoliche per quasi settemila megawatt di potenza installata. Altrettante sono in arrivo. Tutte concesse a tempo di record. E chi vorrà dedicarsi alla coltivazione del mini eolico (torri alte anche cento metri fino a 1 megawatt) non dovrà neanche attendere la firma: basta la dichiarazione di inizio attività.Sarà zeppo di acciaio anche ciò che ora è libero da impianti. Anche le vostre montagne e i vostri occhi dovranno abituarsi. Serve energia pulita. E che nessuno fiati.
Greenpeace Italia anticipa al Fatto Quotidianoonline il suo rapporto su Enel, basato sulle ricerche della fondazione olandese SOMO e della European Environmental Agency (EEA). Investimenti minimi nelle nuove rinnovabili, sostegno anacronistico al carbone e nucleare all’estero
Un morto al giorno, 366 l’anno per la precisione. Sono quelli riconducibili all’inquinamento prodotto dalle centrali a carbone dell’Enel secondo la proiezione della Fondazione Somo per Greenpeace Italia. Applicando i parametri dell’Agenzia Europea per l’Ambiente alle emissioni in atmosfera delle centrali della compagnia ex pubblica emerge che “le morti premature associabili alla produzione di energia da fonti fossili di Enel per l’anno 2009 in Italia sono 460. I danni associati a queste stesse emissioni sono stimabili come prossimi ai 2,4 miliardi di euro. La produzione termoelettrica da carbone costituisce una percentuale preponderante di questi totali: a essa sono ascrivibili 366 morti premature (75%), per quell’anno, e danni per oltre 1,7 miliardi di euro (80%)”. Un responso implacabile che la Fondazione ha trasmesso all’Enel ricevendo, purtroppo, risposte molto elusive.
“Lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili unito alla perdurante stagnazione della domanda di energia elettrica sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendo a rischio la possibilità di tali impianti di rimanere in esercizio”. L’ha dichiarato un mese fa Paolo Colombo, presidente dell’Enel, seguito a ruota dall’amministratore delegato Fulvio Conti, che ha chiesto di “correggere le forme di incentivi per le fonti rinnovabili” calibrando meglio i sussidi nel prossimo decreto allo studio del governo nazionale, per “dare impulso ad altre filiere”.
Il mondo sta cambiando, la produzione di energia è sempre più diffusa e decentrata, ma l’Enel non vuole mollare: il suo vecchio mondo, quello delle grandi centrali a gas, carbone, uranio, olio combustibile deve essere preservato. “Enel è entrata a gamba tesa sul tema dell’incentivazione alle rinnovabili – ha dichiarato a Repubblica.it il senatore del PD Francesco Ferrante – . Le cose sono due: o si tratta di disinformazione o di una sorta di confessione di chi guarda al passato e ha paura del futuro”.
Per Greenpeace Italia non ci sono dubbi: Enel ha paura delle rinnovabili perché è ancorata al passato o si affida a tecnologie di dubbia efficacia. “Se si eccettua l’idroelettrico, che in Italia è semplicemente un’eredità di investimenti passati e in altre regioni, come in America Latina, è collegato a progetti potenzialmente ad alto impatto ambientale, gli investimenti di Enel nelle rinnovabili sono minimi, specialmente in Italia ed Europa, dove la riduzione delle emissioni di Co2 è affidata al nucleare o a improbabili tecnologie come la cattura e sequestro del carbonio (Carbon Capture Storage o CCS)”, ha dichiarato Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia.
Nel suo rapporto, che ilfattoquotidiano.it ha ottenuto in anteprima, Greenpeace non si limita a puntare il dito, come ha già fatto più volte in passato, sul mix energetico “anacronistico” di Enel, ma analizza per la prima volta i costi esterni delle centrali Enel a carbone e petrolio. “Si tratta dei costi per l’ambiente, l’agricoltura e la salute dei cittadini. Sono voci di costo che non compaiono nei bilanci, perché la società non li paga. A pagare è però l’ecosistema nel suo complesso”.
Greenpeace fa riferimento a un rapporto della fondazione olandese SOMO, che uscirà nei prossimi mesi, e allo studio della EEA (European Environmental Agency), l’agenzia per l’ambiente dell’Unione Europea, uscito nel novembre del 2011. Lo studio dell’EEA individua i 20 impianti di produzione di energia più inquinanti in Europa. In Italia il primato spetta alla centrale a carbone Federico II di Brindisi, gestita dall’Enel, i cui costi esterni (calcolati dall’EEA) ammontavano a 707 milioni di euro nel 2009: una cifra che supera i profitti che Enel ottiene dalla centrale. “E’ un gioco pericoloso, che non vale la candela”, continua Onufrio. “I profitti sono ottenuti con un prezzo altissimo per l’ambiente e la salute”. Greenpeace Italia ha esteso la metodologia utilizzata dallo studio dell’EEA a tutte le centrali a carbone gestite da Enel in Italia ed è arrivata a conclusioni preoccupanti: “I costi esterni delle centrali a carbone sono di 1,7 miliardi di euro – oltre il 40% dell’utile che Enel ha ottenuto a livello consolidato, in tutto il mondo, nel 2011”, si legge nel rapporto. “Se alle attuali centrali si dovessero aggiungere quelle di Porto Tolle e Rossano Calabro – che potrebbero presto essere convertite da olio a carbone – i costi esterni potrebbero toccare la quota di 2,5 miliardi di euro all’anno, suddivisi in costi per la salute, danni alle colture agricole, costi da inquinamento dell’aria e da emissioni di Co2”.
Al termine del rapporto, Greenpeace chiede ad Enel di effettuare al più presto una valutazione dei costi esterni delle centrali a combustibili fossili, riportando i risultati all’interno del bilancio di sostenibilità. Tra i quesiti rivolti ad Enel non mancano i riferimenti al progetto per la centrale a carbone di Galati, in Romania, “in un’area già colpita da decenni di inquinamento dell’industria pesante rumena” e alla centrale Reftinskaya GRES, nella regione di Ekaterinburg, in Russia, che sarebbe stata accusata di “violazioni di norme ambientali” da parte delle autorità locali. Altre domande riguardano i reattori nucleari Cernavoda 3 e 4, che Enel gestisce in Slovacchia e il progetto Baltic NPP a Kaliningrad, in Russia, per la costruzione di un nuovo reattore nucleare.
Alcune delle domande di Greenpeace sono state inoltrate alla società dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Banca Etica) azionista “critico” di Enel dal 2007. Enel sarà tenuta a rispondere entro il giorno dell’assemblea, prevista per lunedì 30 aprile. Tra gli azionisti saranno presenti, oltre alla Fondazione di Banca Etica, anche il vescovo guatemalteco Alvaro Ramazzini – delegato dai Missionari Oblati – e l’attivista colombiano Miller Armin Dussan Calderon, professore dell’Università Surcolombiana e presidente di Assoquimbo, associazione dei comitati locali colombiani che presidiano il territorio contro la costruzione della diga Enel di Quimbo in Colombia. Ramazzini e Calderon porteranno in assemblea la voce delle popolazioni del sud del mondo impattate dai progetti idroelettrici della compagnia italiana. L’assemblea potrà essere seguita online sul sito del Fatto Quotidiano e su Twitter (#nonconimieisoldi e #azionisticritici).
Titolo originale: OECD Warns of Ever-Higher Greenhouse Gas Emissions– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
LONDRA — Le emissioni globali di gas serra potrebbero crescere del 50% entro il 2050 se non si adottano politiche più ambiziose per il clima,coi combustibili fossili ancora prevalenti nella produzione energetica, avverte l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
“Se non cambia la composizione energetica globale i carburanti di origine fossile peseranno per l’85% della domanda nel 2050, con un incremento del 50% nelle emissioni di gas serra”, afferma l’Organizzazione con sede a Parigi nella sua previsione per il 2050. Nello stesso anno l’economia globale avrà una dimensione quadruple dell’attuale, e nel mondo si consumer l’80% in più di energia. Ma, appunto si prevede, la composizione di questa energia potrebbe non essere molto diversa da quella di oggi. Perché potrebbero essere soprattutto carburanti di origine fossile come petrolio, carbone, gas, a costituire sino all’80% dei consumi, mentre le rinnovabili, ad esempio carburanti di origine vegetale si prevede possano pesare al massimo un 10%, col nucleare a coprire la differenza.
A causa di questa forte dipendenza da carburanti fossili, si calcola che le emissioni di anidride carbonica potrebbero crescere del 70%, dice l’OCSE, facendo crescere la temperatura di 3-6 gradi entro il 2100, e superando così quel limite dei 2 gradi fissato dagli organismi internazionali. Nonostante la crisi economica e la conseguente riduzione della produzione industriale, nel 2010 le emissioni di anidride carbonica hanno toccato un massimo storico di 30,6 giga-tonnellate. Dal punto di vista economico il costo di non intraprendere azioni per il clima si può calcolare in una caduta del 14% dei consumi mondiali pro-capite nel 2050, secondo alcune stime. Elevati anche i costi umani, con morti premature da esposizione agli inquinanti raddoppiate: 3,6 milioni l’anno secondo l’OCSE.
Potrebbe crescere del 55% la domanda di acqua, aumentare la competizione per le scorte e lasciare il 40% della popolazione globale in una situazione di rischio, con una scomparsa del 10% delle specie vegetali e animali. Per prevenire i peggiori effetti del riscaldamento globale l’azione mondiale deve cominciare già dal 2013, con un sistema di scambi di emissioni globale, il settore energetico che diventa low-carbon e l’introduzione di nuove tecnologie a basso costo, dalle biomasse alla ritenzione del carbonio. Prima del 2020 potrebbe non entrare in vigore nessun nuovo trattato internazionale sul clima, però, senza alcun sistema di scambi, rendendo assai più difficile l’obiettivo di contenere l’aumento ai 2 gradi previsti, e la necessità di rapidissimi tagli di emissioni dopo quella data per recuperare.
Gli attuali impegni internazionali di taglio delle emissioni non bastano a mantenere il riscaldamento entro limiti di sicurezza, afferma l’OCSE. Costruire un mercato di scambi di emissioni potrebbe anche stimolare un rapido sviluppo di nuove tecnologi e a basso costo in grado di tagliarle. La risposta più semplice è fissare un prezzo globale, collegando così tutto il sistema delle emissioni nazionali e regionali entro una rete di scambio. Un deciso taglio all’uso degli inefficienti carburanti di origine fossile stimolerebbe anche l’efficienza energetica e lo sviluppo delle fonti rinnovabili, determinando un incremento del reddito globale dello 0,3% nel 2050.
postilla
Vero, che spesso la mano sinistra non sa quello che fa la mano destra. Ma quando si tratta di organismi importanti come l’Ocse, per cui sapere è potere, e quando in gioco c’è una cosuccia come la sopravvivenza del mondo più o meno come lo conosciamo (Suv a parte forse), magari ragionare in modo sistemico e non caciarone aiuta. L’hanno scoperto tutti gli stati che si sono cimentati davvero in leggi per il contenimento delle emissioni: prima o poi la forma dell’insediamento viene coinvolta, eccome se viene coinvolta, perché sono edifici e sistemi urbani una delle chiavi su cui intervenire. Non bastano un paio di turbine o di pannelli solari sul tetto, ci vuole, come hanno ad esempio cominciato a fare in California col governatore Schwarzenegger, un nuovo equilibrio fra case, infrastrutture, attività produttive. La città al centro insomma, e urbanistica e politiche urbane al centro del centro.
Cosa succede invece in Italia, paese dei mille campanili per antonomasia, con la cultura urbana più solida del mondo? Succede che l’OCSE (speriamo ancora suo malgrado e male informata) sponsorizza un “progetto di sviluppo” dove la fanno da padrone esattamente i meccanismi progettuali caso per caso e pasticcioni che da sempre – con la scusa di sostenere economia e occupazione - producono squilibrio territoriale e fatalmente inducono nuove emissioni da consumi di carburanti di origine fossile, nei trasporti privati e non solo. Salvo appunto buttare qui e là qualche pannello solare per le allodole. Vezio De Lucia su questo sito ha sollevato il problema,e si spera che alle teste pensanti, dell’OCSE e del Ministero che improvvidamente sostengono certe stupidaggini incoerenti, venga qualche scrupolo a controllare meglio le idee che qualcuno ha infilato di nascosto nei loro documenti ufficiali. Altrimenti ci fanno davvero una figuraccia, scienziati e “specialisti” inclusi (f.b.)
Il successo delle fonti energetiche rinnovabili in Italia è stato finora basato su generosi contributi versati a chi, privati o enti pubblici, installa impianti di produzione di elettricità dal Sole o dal vento o dalla combustione di prodotti agricoli e forestali, compresi i rifiuti urbani con la scusa che contengono una parte di cibo e verdure. Tali contributi hanno dato vita a fenomeni speculativi; chiunque avesse un tetto, o un capannone, o un campo ha accettato le allettanti proposte di “promotori” che garantiscono la ricerca di finanziamenti, l’installazione di pannelli fotovoltaici, i contratti di acquisto dell’elettricità, e la sicurezza che chi accetta queste proposte ne avrà un utile economico diretto. Si tenga presente che una parte del pubblico denaro dei finanziamenti è poi pagato dai cittadini con un aumento delle bollette elettriche.
Da un certo punto di vista potrebbe anche essere giusto che tutti i consumatori di elettricità risarciscano coloro che producono tale elettricità con sistemi che, pur costosi in assoluto, consentono di evitare le importazioni di petrolio e carbone e gas naturale utilizzando le forze nazionali del Sole e del vento e che permettono di evitare le emissioni di gas responsabili dei mutamenti climatici. Le critiche che cominciano a circolare riguardano però il carattere puramente speculativo che caratterizza alcune installazioni, talvolta fatte in fretta senza tenere conto dell’intensità dell’energia solare e del vento effettivamente disponibili.
Alcuni criticano le “offese” al paesaggio provocate dalla comparsa di estensioni di pannelli e di torri eoliche, e delle strade che tagliano le colline per raggiungere queste installazioni. Altri si chiedono se “vale la pena” installare impianti fotovoltaici in terreni finora coltivati, che da anni assicurano un reddito, anche se faticoso, e che tale reddito potrebbero assicurare in futuro, per avere un reddito a breve termine, non si sa quanto duraturo in futuro. A Trani di recente si è visto che una strada era affiancata da una fila di ulivi espiantati dai campi per fare spazio ai pannelli fotovoltaici, ulivi che, dopo decenni di vita non daranno mai più quell’olio di cui la Puglia è stata il principale produttore nel mondo. Senza contare che pannelli e pale eoliche sono in genere prodotti all’estero e in Italia assicurano occupazione soltanto per le opere di installazione e di manutenzione, non si sa per quanto tempo.
La rapida diffusione delle fonti rinnovabili, nel passato decennio, fa venire in mente che anche dopo la crisi petrolifera degli anni settanta del Novecento ci fu una breve rapida passione per impianti solari, poi ben presto svanita quando il prezzo del petrolio ritornò basso. Inoltre, sia in quegli anni settanta, sia oggi, la stessa rapida passione non è stata accompagnata da un adeguato sviluppo di imprese italiane produttrici di impianti solari ed eolici per i quali, come si accennava prima, che adesso in gran parte siamo costretti ad importare. Un altro aspetto riguarda il fatto che la produzione di elettricità dal Sole e dal vento dipende dalle condizioni climatiche e dalle stagioni e dal ciclo diurno e notturno della fonte solare; queste irregolarità di erogazione devono essere compensate con complicati sistemi di collegamento con i grandi elettrodotti che dovrebbero essere adattati, con dispositivi “intelligenti”, in modo da utilizzare al meglio la nuova elettricità.
Le precedenti considerazioni non giustificano una sfiducia verso le fonti energetiche rinnovabili, tutt’altro ! Intanto elettricità “rinnovabile” potrebbe essere ottenuta anche utilizzando i piccoli salti di acqua corrente, con vantaggi per la lotta all’erosione del suolo e alla sistemazione di fiumi e torrenti nelle valli. Ma soprattutto le fonti energetiche rinnovabili, tutte derivate, direttamente o indirettamente, dall’enorme energia irraggiata dal Sole verso la Terra, sono le uniche adatte a fornire elettricità a comunità sparse nel territorio, in grado di utilizzare l’elettricità a mano a mano che diventa disponibile.
Il governo norvegese ha organizzato il 10 e 11 ottobre 2011, un incontro sul finanziamento dell’accesso all’elettricità dei paesi poveri: “Energia per tutti”. E il prossimo 2011 sarà proclamato dalle Nazioni Unite “Anno dell’energia sostenibile per tutti”. Nella sola Africa subsahariana 600 milioni di persone sono prive di elettricità, pur avendo abbondanza di Sole, di vento, di fiumi abbondanti e continui, di biomassa vegetale. La produzione e distribuzione di elettricità rinnovabile con reti locali sarebbe determinante per assicurare servizi e sviluppo e benessere a innumerevoli paesi e villaggi.
Ironicamente proprio cento anni fa il chimico italiano Giacomo Ciamician (1857-1922) aveva già preconizzato che l’energia solare avrebbe contribuito a riportare “la civiltà” nei paesi africani da cui essa aveva avuto origine: abbiamo perso un secolo di tempo e a questo obiettivo dovrebbero tendere con tutte le forze e le innovazioni i ricercatori e le imprese anche italiani.
Questo articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
MILANO — Il titolo del provvedimento non potrebbe essere più chiaro: «Condono in materia di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili». Il testo circola in maniera un po' sotterranea (pare arrivi dal ministero delle Politiche agricole di Saverio Romano) e l'intenzione sarebbe quella di inserirlo nel decreto sviluppo al quale lavora il ministro Paolo Romani. Sedici paragrafi per sancire un nuovo «condono tombale» — non solo amministrativo ma anche penale — a favore di chiunque «abbia interesse» in un impianto di energie rinovabili costruito senza autorizzazione, o la cui autorizzazione (o denuncia di inizio attività, la cosiddetta «dia») stia per essere annullata, in sede giudiziaria o amministrativa. Chi sarebbe beneficiato da una simile misura? E quali abusi sarebbero sanati?
I sospetti sono tanti, ma in prima fila si possono collocare quelli di costruttori di impianti fotovoltaici a terra di piccola e media taglia, che per loro natura si possono edificare in tempi assai brevi, a differenza di quelli eolici o a biomasse che non possono essere trasferiti con facilità e senza aggravio di costi come nel caso dei pannelli solari. Illegalità o manovre allegre rese proficue dalla possibilità di intascare gli incentivi statali concessi alle energie rinnovabili, che malgrado le riduzioni stabilite lo scorso maggio dovrebbero garantire all'incirca 170 miliardi di euro nei prossimi venti anni a chi se li aggiudicherà. Una caccia che, tanto per dare un'idea della dimensione del fenomeno, si sintetizza nelle richieste di allacciamento alla rete elettrica: secondo i numeri dell'Autorità per l'energia «ballano» ad oggi circa 22 mila preventivi che non hanno ancora ricevuto un'autorizzazione.
Richieste che sono pari a 150 mila megawatt (soprattutto nelle Regioni del Sud), un'esagerazione assoluta se si pensa che il record di domanda elettrica di tutta l'Italia non ha mai superato 56 mila megawatt. Con l'emendamento che Romano cercherebbe di fare inserire nel decreto sviluppo si arriverebbe a una maxi sanatoria a fronte di un'«oblazione» di dieci euro per ogni chilowatt installato (a una famiglia media ne servono 3). Ma c'è molto di più, perché oltre ai procedimenti penali o amministrativi, con il condono non verrebbero più perseguiti neppure i reati edilizi, o quelli paesaggistici e ambientali.
Un «liberi tutti» esteso alle sanzioni accessorie come la confisca, e alle vere e proprie truffe camuffate da irregolarità e illegittimità di varia natura commesse ai danni del Gse, Gestore dei servizi energetici, l'ente statale che eroga materialmente gli incentivi alle energie rinnovabili. Il tutto, secondo la succinta relazione tecnica che accompagna la misura, sarebbe però giustificato da nobili ragioni economiche e ambientali: tra di esse la riduzione di gas serra, l'avvicinamento dell'Italia ai requisiti di Kyoto e il contributo all'autonomia energetica nazionale. Oltre il danno, insomma, anche la beffa.
Titolo originale: Work starts on solar bridge at Blackfriars station- scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Oggi cominciano davvero i lavori, con l’installazione del primo di oltre 4.400 pannelli solari sopra la pensilina della stazione di Blackfriars.
Lo storico spazio londinese sta subendo un importante e costoso intervento di modernizzazione con un prolungamento delle piattaforme verso il ponte di Blackfriars, costruito nel 1886.
Una volta completati i lavori nel 2012, sulla struttura di epoca vittoriana ci saranno 6.000 metri quadrati di pannelli fotovoltaici (PV): il principale impianto solare di Londra.
L’impresa responsabile, Solarcentury, prevede una produzione di circa 900.000kWh di elettricità l’anno, ad alimentare la stazione ed evitare 511 tonnellate di emissioni di CO2.
"Il ponte di Blackfriars è un posto ideale per l’energia solare; un ampio spazio in un edificio simbolico nel cuore di Londra" dichiara i direttore di Solarcentury Derry Newman.
"I fabbricati e ponti ferroviari rappresentano un elemento essenziale del paesaggio urbano, e in questo caso potremo produrre da ora in poi quotidianamente energia. La gente vedrà che il solare funziona, si tratta di un importantissimo passo in avanti per le energie pulite del futuro”
Ne caso di Blackfriars ci sono anche altri interventi di risparmio energetico, come Il sistema di raccolta delle acque piovane, o I condotti per la luce naturale, nel quadro dei programmi di Network Rail per ridurre entro il 2020 le emissioni del 25% per passeggero/chilometro.
Lindsay Vamplew, responsabile di progetto di Network Rail per Blackfriars, spiega che gi interventi di trasformazione faranno della stazione un nuovo modello per tutto il mondo.
"Il ponte vittoriano di Blackfriars fa parte della nostra storia ferroviaria. Realizzato nell’epoca del vapore, oggi lo stiamo di colpo trasportando nell’era delle tecnologie solari del XXI secolo, a creare una stazione simbolo in città"
Esiste oggi solo un altro ponte solare, quello pedonale di Kurilpa a Brisbane, in Australia, ma ad esempio in Belgio quest’anno si sono posati 16.000 pannelli su un a galleria, con una produzione in grado di coprire ‘intera rete ferroviaria del paese per un giorno.
Titolo originale: The Not-So-Green Mountains – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Le ruspe sono arrivate un paio di settimane fa qui vicino, alle falde delle Lowell Mountains, e hanno cominciato a squarciasi la strada attraverso i boschi sino al crinale, dove la Green Mountain Power ha in progetto di realizzare 21 turbine, alte complessivamente più di centocinquanta metri ciascuna all’estremità della pala.
Un sacrilegio, nel nome dell’energia “verde” che avviene qui in Vermont, nel Northeast Kingdom, in una delle principali aree boscose naturali di proprietà privata di tutto lo stato. Dove come accade in altri luoghi — per esempio in Maine o al largo di Cape Cod — il potere dell’energia eolica minaccia di distruggere paesaggi molto delicati.
Costruire turbine per uno sviluppo di cinque chilometri di crinale, richiede strade — su un crinale, con alcuni tratti larghi quanto un’autostrada — in posti dove di solito le corsie per spostarsi le segnano l’orso, l’alce, il gatto selvatico o i cervi.
Si devono modificare i profili della montagna perché ci si possano far arrivare le gru e i veicoli di servizio. Lo stanno facendo usando più o meno trecento chili di esplosivo, che ridurranno parti di queste cime a mucchi di sassi, da usare poi nelle strade di accesso.
Si devono anche disboscare più di cinquanta ettari di pendii alberati, oggi accesi con magnifici colori dell’autunno. Ci sono ricerche che piegano come disboscare voglia dire più erosione, peggioramento della qualità delle acque sorgive, con meno vita nei torrenti, e acque meno buone per tutti a vale, umani e non.
L’elettricità prodotta dal progetto non ridurrà di molto le emissioni di gas serra in Vermont. Che dipendono solo per il 4% dalla produzione energetica (quasi la metà viene invece da auto e camion, un altro terzo dal gasolio per il riscaldamento).
Il vento non soffia sempre, e non lo fa a velocità ottimale, così la produzione di quelle turbine — il “fattore capacità” — è di circa un terzo dei 63 megawatt teorici. Al meglio, si produrrà a sufficienza per alimentare 24.000 abitazioni per un anno, secondo gli stessi proponenti.
Ma il vento soffia sui crinali delVermont. Secondo il Public Interest Research Group, ad esempio, con l’energia eolia si potrebbe arrivare a coprire sino al 25% del fabbisogno di tutto lo stato, naturalmente estendendosi con le turbine su una cinquantina di chilometri di crinali. Altri sostenitori del vento, come David Blittersdorf, massimo esponente di una impresa privata del settore a Williston, arrivano a proporre addirittura di metterne su trecento chilometri di crinale.
Queste sono le stesse Green Mountain che sono state visitate da quasi 14 milioni di persone venute qui in Vermont solo nel 2009, a spendere un miliardo e mezzo di dollari nel turismo. Montagna che fanno parte della nostra identità, non a caso siamo lo Stato delle Montagne Verdi, che ci danno aria e acqua pura, flora e fauna.
Il Vermont ha una gloriosa storia di efficace tutela dell’ambiente naturale, che oggi viene accantonata. Questo progetto è on orribile precedente, che devasta un sistema perfettamente sano e intatto, con la scusa di intervenire contro il cambiamento climatico. In cambio, la Green Mountain Power ci guadagna 44 milioni di dollari in crediti fiscali federali su 10 anni.
Proprio strano che i gruppi ambientalisti dello stato non abbiano preso posizione su questo progetto ecologicamente devastante. A quanto pare, non vogliono intralciare lo sviluppo delle energie “verdi”, e non importa quanta distruzione incomba così quanto in Vermont conta di più: il paesaggio che fa di noi ciò che siamo.
Inseguire così progetti altamente impattanti è un terribile errore di prospettiva e programmazione, un equivoco su come dovrebbe agire una società responsabile che vuole rallentare il riscaldamento del pianeta. É anche non voler proprio capire il valore del paesaggio, per l’identità e l’economia futura del Vermont.
Coltivare i campi o trasformarli in centrali eoliche e fotovoltaiche? Seminare per produrre cibo o per generare biomasse e quindi elettricità? È la nuova battaglia della terra. Tra chi teme la scomparsa definitiva degli agricoltori e chi sostiene che alle energie rinnovabili non si può più rinunciare.
Il boom delle energie rinnovabili spinge molti agricoltori a cambiare mestiere. E i campi diventano centrali per fotovoltaico e biogas
di Carlo Petrini
Agricoltura industriale. Riflettiamo sull´ossimoro. In suo nome, l´uomo ha pensato di poter produrre il cibo senza contadini, finendo con l´estrometterli dalle campagne. Oggi siamo addirittura arrivati all´idea che possano esserci campi coltivati senza produrre alimenti: agricoltura senza cibo. Agricoltura che, se si basa soltanto sul profitto e sulle speculazioni, riesce a rendere cattivo tutto ciò che può essere buono: il cibo, i terreni fertili (che sono sempre meno), ma anche l´energia pulita e rinnovabile. Come il fotovoltaico, come il biogas.
S´è già parlato di come l´energia fotovoltaica possa diventare una macchina mangia-terreni e mangia-cibo. Se i pannelli fotovoltaici sono posati direttamente a terra e per grandi estensioni essi tolgono spazi alla produzione alimentare e desertificano i suoli fino a renderli inservibili. Allora bisogna dirlo chiaro: sì al fotovoltaico, ma sui tetti, nelle cave dismesse, lungo le strade. No a quello sul terreno libero.
Adesso poi è il momento delle centrali a biogas che sfruttano le biomasse, vale a dire liquami zootecnici, sfalci e altri vegetali. Questi materiali si mettono in un digestore, qui si genera gas che serve a produrre energia elettrica e ciò che avanza – il "digestato" - adeguatamente trattato poi può essere utilizzato come ammendante per i terreni. Questi impianti sarebbero ideali per smaltire liquami (problema annoso di chi fa allevamento) e altri rifiuti biologici, integrando il reddito con una produzione di energia che può essere utilizzata in azienda o venduta. Se sono piccoli o ben calibrati rispetto al sistema chiuso dell´azienda agricola funzionano e sono una benedizione - esattamente come può fare il fotovoltaico sul tetto di un capannone o di una stalla. Ma se c´è di mezzo il business, se si fanno sotto gli investitori che fiutano affari e a cui non importa che l´agricoltura produca cibo e che lo faccia bene, allora il biogas può diventare una maledizione. Sta già succedendo in molte zone della Pianura Padana, soprattutto laddove ci sono forti concentrazioni di allevamenti intensivi. È una cosa che stanno denunciando alcune associazioni ambientaliste a livello locale e per esempio da Slow Food Cremona mi segnalano che nella loro provincia ormai la situazione è sfuggita al controllo. Tant´è vero che hanno chiesto alla Provincia una moratoria sull´installazione e autorizzazione di nuove centrali a biogas.
Che succede? Molti agricoltori, stremati dalla crisi generalizzata del settore, si trasformano in produttori di energia, smettendo di fare cibo. In pratica, si limitano a coltivare mais in maniera intensiva per farlo "digerire" dagli impianti a biogas. C´è anche chi lo fa solo in parte, ma sta di fatto che tutto quel mais non sarà mangiato dagli animali e quindi indirettamente neanche dagli umani. Gli investitori li aiutano, a volte li sfruttano. Esistono soccide in cui gli agricoltori sono pagati da chi ha costruito l´impianto per coltivare mais: sono diventati degli operai del settore energia, altro che contadini. Tutto è cominciato nel 2008 con la finanziaria che prevedeva un nuovo certificato verde "agricolo" per la produzione di energia elettrica con impianti di biogas alimentati da biomasse. Impianti "piccoli", di potenza elettrica non superiore a 1 Megawatt. Ma 1 Mw è tanto: ciò ha incentivato il business, perché a chi produce viene riconosciuta una tariffa di 28 cent/kWh, circa tre volte quanto si paga per l´energia prodotta "normalmente".
Ecco allora che il sistema degli incentivi, cui si uniscono quelli europei per la produzione di mais, ha fatto sì che convenga costruire impianti grandi e costosi (anche 4 milioni di Euro), che possono essere ammortizzati in pochi anni. Soltanto nel cremonese nel 2007 c´erano 5 impianti autorizzati, oggi sono 130. E lì oggi si stima che il 25% delle terre coltivate sia a mais per biogas. In tutta la Lombardia si prevede che entro il 2013 dovrebbero esserci 500 impianti. Ci sarebbe da riflettere su quante volte un cittadino che versa anche le tasse arrivi a pagare quest´energia "pulita", ma l´emergenza è di altro tipo: così si minacciano l´ambiente e l´agricoltura stessa.
Primo e lapalissiano: si smette di produrre cibo per produrre energia. Secondo: la monocoltura intensiva del mais è deleteria per i terreni perché deve fare largo uso di concimi chimici e consuma tantissima acqua, prelevata da falde acquifere sempre più povere e inquinate. Senza rotazioni sui terreni si compromette la loro fertilità e si favorisce la diffusione di parassiti come la diabrotica, da eliminare con un´ulteriore aggiunta di antiparassitari. Se il mais non è per uso alimentare, poi, sarà più facile mettere due dosi di tutto invece di una, senza farsi tanti scrupoli. Terzo: chi produce energia coltivando mais può permettersi di pagare affitti dei terreni molto più alti, anche fino a 1500 euro per ettaro, il che crea una concorrenza sleale nei confronti di chi invece ne ha bisogno per l´allevamento. È lo stesso fenomeno che si è creato con i parchi fotovoltaici, dunque sta piovendo sul bagnato. A chi alleva servono terreni soprattutto per rientrare nella "direttiva nitrati", che dovrebbe regolare lo smaltimento dei liquami in maniera sostenibile. Chiedete ai contadini e agli allevatori: i terreni non sono mai stati così costosi come oggi, e per un´azienda che già subisce i danni di un mercato drogato da speculazioni e imposizioni di prezzi bassi da parte del sistema distributivo può voler dire soltanto una cosa, la chiusura.
Ma andiamo avanti. Quarto: gli impianti stessi, quelli da 1 Mw, sono grandi strutture e per costruirle si consuma terreno agricolo sacrificandolo per sempre. Quinto: ci sono già le prime voci sulla nascita di un mercato nero di rifiuti biologici, come gli scarti dei macelli, venduti illegalmente per fare biogas. Non andrebbero mai utilizzati come biomasse, perché ciò che avanza dalla "digestione" poi viene sparso per i campi come ammendante e in questi casi oltre a inquinare potrebbe anche diffondere malattie.
Il problema è la scala. Diciamo chiaramente che in sé il biogas da biomasse non avrebbe nessun difetto. Ma se è realizzato a fini speculativi ed è sovradimensionato, se fa produrre mais al solo scopo di metterlo nell´impianto, se fa alzare i prezzi del terreno, lo consuma e lo inquina, allora bisogna dire no, forte e chiaro. Da questo punto di vista sarà bene che le amministrazioni (comunali per impianti piccoli, provinciali per quelli più grandi) comincino a valutare i fini reali degli impianti prima di concedere autorizzazioni, e sicuramente questi problemi andranno affrontati e debellati con la nuova PAC, la politica agricola comune, che si è iniziata a discutere a Bruxelles.
Da un punto di vista umano capisco gli agricoltori che hanno intravisto con il biogas un modo per risalire la china di un´agricoltura industriale sempre più in crisi. Ma sono sicuro che ci sono altri modi di fare agricoltura, più puliti, diversificati, che puntano alla vera qualità. Questa agricoltura può essere molto remunerativa e dare futuro ai giovani, mentre è soprattutto quella di stampo industriale che sta collassando. Inoltre, prima o poi gli incentivi finiranno. Il biogas con grandi impianti è una pezza sporca che alcuni stanno mettendo alla nostra agricoltura malata, ottenendo l´effetto di darle così il colpo di grazia. Sarà molto difficile tornare indietro: i terreni fertili non si recuperano, le falde s´inquinano, la salubrità sparisce, chi fa buona agricoltura è costretto a smettere a causa di una concorrenza spietata e insostenibile. Agricoltura industriale, che ossimoro.
Ma la conversione alle rinnovabili resta l´unica strada
di Giovanni Valentini
La consumiamo e la sprechiamo. Possiamo già produrne più di quanta ce ne serve. Eppure, continuiamo a importare energia dall´estero per circa il 14 per cento del nostro fabbisogno, più di qualsiasi altro Paese europeo. Come si spiega? Che cosa c´è dietro? E soprattutto, qual è l´alternativa?
All´inizio della stagione più calda dell´anno, e perciò anche più critica per i consumi di elettricità, il paradosso energetico italiano rivela una trama di interessi e di grandi affari che potrebbe ispirare un film di James Bond in lotta contro la Spectre, sullo sfondo di un traffico intercontinentale di petrolio, gas e uranio. Tanto più che, come attestano diverse analisi di enti o istituti internazionali, entro qualche decennio il mondo – e quindi anche il Belpaese – potrebbe essere alimentato soltanto da fonti rinnovabili: cioè sole, vento, biomasse e quant´altro.
Dietro la cortina fumogena del terrorismo mediatico che imperversa dopo il referendum e lo stop al nucleare, la verità è racchiusa in poche cifre. Secondo gli ultimi dati ufficiali diffusi da Terna, la società che è il principale proprietario della rete di trasmissione nazionale dell´energia elettrica, gli impianti installati in Italia hanno una capacità di produzione potenziale di oltre 106 gigawatt (l´unità di misura pari a un miliardo di watt): contro una richiesta che ha toccato il picco storico di 56,8 GW nell´estate 2007 e una potenza media disponibile stimata in 67 GW. Per di più, negli ultimi due anni, la crisi economica ha ridotto ulteriormente la domanda (51,8 GW nel 2009).
In altre parole, come sostengono gli esperti del Wwf, la potenza di cui disponiamo corrisponde al doppio di quella che occorre. E perciò, dice Gaetano Benedetto, direttore delle Politiche ambientali dell´associazione, «non abbiamo bisogno di nuova energia, ma di un´energia diversa, capace di diminuire la nostra dipendenza dalle risorse fossili e di inquinare di meno».
La maggior parte di questa energia (intorno all´86%) è "made in Italy". Per il resto, pur disponendo di impianti in grado di soddisfare l´intera richiesta, la importiamo dall´estero per un motivo di convenienza economica: l´acquisto del surplus non utilizzato che viene prodotto soprattutto in Francia, ma non solo, attraverso le centrali nucleari. I reattori, infatti, non possono essere mai spenti e perciò di notte, quando i consumi sono al minimo, l´energia viene fornita e "svenduta" sotto costo.
Al momento, la nostra produzione deriva dalle centrali termoelettriche per circa la metà ed è garantita dal gas naturale. Ma intanto la quota di carbone (11,9%) cresce in misura preoccupante sia per le emissioni nocive sia per le conseguenze sui cambiamenti climatici. Sta di fatto che ormai in campo energetico abbiamo sostituito la nostra dipendenza dal petrolio con quella dal gas: su circa 80 miliardi di metri cubi utilizzati all´anno, solo un decimo viene prodotto in Italia, oltre il 50% è importato dalla Russia dell´"amico Putin" (23 miliardi) e dall´Algeria (22 miliardi).
Se tutto ciò servisse a fare dell´Italia un hub nella distribuzione del gas, cioè un terminale nel bacino del Mediterraneo, potrebbe anche avere un senso. Ma è evidente che - per interesse o convenienza - molti hanno cavalcato una presunta crisi energetica per favorire la realizzazione di servizi e strutture con una finalità ben diversa dall´approvvigionamento nazionale.
In linea con un trend mondiale e con le stesse direttive dell´Unione europea che entro il 2020 intende ridurre del 20% le emissioni di gas serra, abbassare del 20% i consumi energetici e raggiungere il 20% di produzione da fonti rinnovabili, l´alternativa è proprio lo sviluppo dell´energia verde, naturale, pulita. Finora, però, in Italia questa s´è aggiunta all´energia fossile e non l´ha effettivamente sostituita, fino a rappresentare una quota complessiva di circa 30 GW con un mix di potenza idrica (17,8 gigawatt), termica a biocombustibili (2,4), geotermica (0,7), eolica (5,8) e fotovoltaica (2,9).
«È chiaro – riconosce lo stesso Benedetto – che, in una fase di transizione, per noi il gas resta essenziale». Ma, per arrivare in prospettiva al 100% di energia rinnovabile, occorre avviare subito una svolta radicale, a cominciare dalla riduzione dei consumi inutili e da una maggiore efficienza. In questa ottica, le fonti alternative diventano perciò il perno di un nuovo modello di sviluppo. È perciò che il Wwf ha costituito recentemente "Officinae Verdi", la prima società in Europa che integra la cultura di un´associazione ambientalista, un partner finanziario come Unicredit e uno tecnologico come Solon, leader continentale nelle tecnologie fotovoltaiche, con una partecipazione di 1/3 per ciascuno dei tre soggetti. Spiega il presidente Benedetto: «Abbiamo costruito un modello innovativo, capace di incidere realmente sullo sviluppo della green economy e sulla lotta ai cambiamenti climatici, non solo in perfetta sintonia con gli obiettivi e le politiche comunitarie, ma anche come alternativa possibile alla dipendenza dall´energia fossile e dalle mega centrali».
Accantonata dunque la pericolosa illusione del nucleare, adesso l´Italia ha l´opportunità di marciare verso la "nuova frontiera" dell´energia, all´insegna della sostenibilità e della compatibilità ambientale. Ormai non è più un problema di soluzioni tecnologiche, ma solo di investimenti e di scelte politiche.
Due riflessioni
1.- Valentini (come la maggioranza di quanti si occupano di energia) non si pone una domanda: quanta energia effettivamente serve per produrre le merci che sono necessarie al benessere dell’uomo? Una grandissima parte delle merci sono prodotte oggi per aumentare la produzione. É la questione della “società opulenta”, in cui tutta l’attenzione di chi detiene il potere è convincere le persone (naturalmente quelle dotate di capacità di spesa) a consumare di più. Su questo argomento esiste una vastissima letteratura, poco frequentata dai commentatori di oggi.
2.- Le aberrazioni e l’uso distorto delle innovazioni possibili, denunciato da Petrini, non sono altro che la conseguenza dei criteri di selezione delle opportunità proprie al sistema capitalistico, il cui obiettivo non è il maggior benessere del genere umano, ma il massimo guadagno ottenibile dai gestori dei mezzi di produzione. Se chi comanda sono questi (l’economia data), è evidente che si punterà ai grandi impianti e non agli impianti diffusi, e così via.
Titolo originale: Afghanistan’s Last Locavores - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Molti americani che vivono in città tendono a idealizzare le culture di una vita a basso impatto o dello “slow food”. Sono molto in pochi però a capire che fra i modelli più importanti di sostenibilità non ci siano tanto le loro colture biologiche degli Stati Uniti, ma l’Afghanistan. Dove una gran maggioranza dei 30 milioni di abitanti a tutt’oggi si coltiva e lavora da sé ciò che consuma. Sono i migliori localovori.
Nei dodici mesi che ho trascorso nella zona settentrionale del paese come consigliera del Dipartimento di Stato, ero esterrefatta nel vedere come, invece di sfruttare la tradizione afghana di agricoltura e edilizia a forte impiego di manodopera, gli Stati Uniti spendano invece gran parte delle risorse per trasformare questa fragile società agricola in una economia dei consumi, meccanizzata e dipendente dai combustibili di origine fossile.
Nel 2004, sull’Afghanistan ha condotto uno studio il Dipartimento dell’Energia. Ed è emerso come esistano in abbondanza fonti energetiche rinnovabili che si potrebbero usare, per piccole centrali a sole o vento a produrre elettricità, al solare termico per riscaldare l’acqua e cucinare.
Ma invece di concentrarsi su queste risorse il governo degli Stati Uniti ha speso centinaia di milioni di dollari in grossi generatori diesel, per sfruttare le riserve di petrolio e gas del paese. Magari nuovi pozzi di estrazione possono dare un po’ di lavoro a personale non qualificato, ma il grosso dei profitti se ne va all’estero, o finisce nelle tasche di qualche signore della guerra o funzionario governativo.
Si usano i soldi del contribuente americano anche per progetti di opera energeticamente inefficienti. Durante il mio anno in Afghanistan, spesso sono stata per ore in riunione con rappresentanti locali in montagna o nel deserto, sudando o battendo i denti – a seconda della stagione – dentro a scuole o posti di polizia in blocchi di cemento di bassa qualità, costruiti coi contributi americani. Progetti che devono corrispondere a criteri tecnici internazionali, dove non sono consentite strutture tradizionali in terra.
Strutture che si realizzano in cob: fango, sabbia, argilla e paglia modellati in forme eleganti, durature, ultra-isolate e resistenti ai terremoti. Con le loro spese pareti, le piccolo finestre e la ventilazione naturale, le abitazioni tradizionali afghane magari non rispondono ai requisiti costruttivi internazionali, ma sono molto più fresche d’estate e calde d’inverno delle scatole di prefabbricato. Durano anche molto tempo. Alcune delle più antiche, come le mura difensive vecchie di 2.000 anni attorno a Balkh, città sulla via della Seta, di cui restano in piedi alcuni tratti, sono di cob e terra compressa. In Gran Bretagna la gente abita ancora in case fatte con materiale di questo tipo, e realizzate prima ancora ce nascesse Shakespeare.
Energie rinnovabili e sostenibilità non sono solo temi che riguardano lo sviluppo. Interessano anche la sicurezza. Il 70% del bilancio energetico del Dipartimento della Difesa in Afghanistan se ne va in carburanti diesel per i convogli corazzati. In un assai opportuno tentativo di ridurre questa pericolosa e costosa dipendenza dai combustibili fossili, recentemente il Corpo dei Marines in due basi in Afghanistan lavora esclusivamente su energie rinnovabili.
Purtroppo è un po’ poco, e fatto troppo tardi. Se si fosse iniziato dieci anni fa con un programma di energie rinnovabili, quando gli Stati Uniti sono arrivati nel paese per rovesciare i Talebani, Washington poteva risparmiare miliardi di dollari in carburanti e, cosa più importante, risparmiare centinaia di vite perse nel trasporto e vigilanza alle scorte di benzina.
Oltre a sostenere la realizzazione di una condotta per il gas naturale dall’Asia Centrale, attraverso l’Afghanistan e fino al Pakistan, gli Usa contribuiscono a finanziare una rete di distribuzione elettrica che obbligherà poi gli afghani a comprare per decenni energia dalle vicine repubbliche ex sovietiche. Anche se la rete riuscisse a sopravvivere a instabilità e sabotaggi, fili e piloni scavalcheranno del tutto le zone rurali per convergere verso i grandi centri, nonostante si sia ufficialmente individuato proprio nell’arretratezza energetica delle campagne il principale ostacolo nella lotta contro gli insorti.
In Afghanistan lo sviluppo sostenibile è passato in seconda fila rispetto agli “obiettivi facili” che possono essere presentati al Congresso come segnali di successo: macchinari agricoli che in contadini non sono in grado di riparare, e che necessitano di carburante diesel troppo costoso; scuole costruite male; strade asfaltate con uno strato troppo sottile, che non sopporteranno mai il clima rigido dell’Afghanistan senza interventi costosi di manutenzione tutti gli anni.
Se le nazioni impegnate non iniziano a riconoscere l’accumulo di secoli di esperienza in termini di sostenibilità, continuando invece a sfruttare carburanti fossili e non energie rinnovabili, le generazioni future delle campagne potranno solo assistere in silenzio e impotenti alla devastazione della loro magnifica terra per farci oleodotti e linee dell’alta tensione, senza che le loro esistenze migliorino.
Dopo che gli americani se ne saranno andati, toccherà invece proprio a questi abitanti delle zone rurali, non certo alla minuscola popolazione delle città afghane, decidere se sostenere o meno rivoluzioni future.
Il progetto di trasformazione della centrale termoelettrica di Porto Tolle da olio combustibile a carbone sta vivendo fasi concitate degne di un thriller giudiziario ad altissima tensione. In questo caso, però, la posta in gioco non è virtuale, ma è la salute dei cittadini e la qualità ambientale di una delle zone di maggior rilievo naturalistico d’Europa. Parliamo del Parco del delta del Po, che già aveva dovuto subire, a partire dagli anni ’70, un disastroso impatto ambientale per la costruzione della centrale tuttora esistente.
Incuranti delle normative che prescrivono, per le centrali ubicate nei territori dei Comuni del Parco l’uso del metano o di altro combustile a minore impatto e per superare la sentenza del Consiglio di Stato che , su ricorso di Italia Nostra e di altre Associazioni, ha recentemente (23 maggio 2011) annullato una scandalosa valutazione di impatto ambientale sottoscritta dal Ministero dell’Ambiente e favorevole alla trasformazione, Enel e Regione Veneto propugnano ora un disegno di legge che dovrebbe modificare la LR istitutiva del Parco.
Ma non solo, da una verifica sul recentissimo testo del Decreto legge “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” risultano, all’art. 35, due provvidenziali commi studiati appositamente per rendere possibile il progetto di trasformazione: siamo alla versione energetica delle leggi ad aziendam!
Italia Nostra si schiera contro questo progetto per difendere un’area ambientale preziosissima e fragile, riaffermare le ragioni di una politica energetica che si fondi su studi scientifici chiari e rigorosi e non sui pressapochismi ossimorici del carbone “pulito” e ribadire, con forza, la necessità di un ripristino della legalità.
Come ormai troppo spesso succede anche in altre situazioni analoghe, infatti, questa vicenda è accompagnata da palesi abusi normativi, da omissioni e da ripetuti tentativi di addomesticamento delle leggi: ogni attentato alla legalità è una ferita alla democrazia.
Ferita ribadita, peraltro, dalle distorsioni informative di questi mesi e, in particolare, di queste ultime settimane, operate da chi, per coprire gli interessi economici in gioco, non ha esitato ad oscurare le ragioni di chi come Italia Nostra si oppone al progetto e ad usare tutta la panoplia ricattatoria relativa alla perdita dei posti di lavoro in caso di annullamento della riconversione a carbone.
Eppure a fianco di Italia Nostra si sono schierati, da subito, gli operatori turistici, i pescatori, gli agricoltori, tutti i cittadini consapevoli che esistono modelli di sviluppo alternativi ed ecosostenibili in grado di garantire un grado di benessere e di qualità della vita e dell’ambiente incomparabilmente superiore e duraturo nel tempo rispetto a quello arcaico, ecologicamente e tecnologicamente, proposto da Enel.
Per illustrare le proprie ragioni assieme alle altre Associazioni (Legambiente, WWF, Greenpeace) e comitati che condivono questa battaglia, Italia Nostra organizza per martedì 12 luglio a Rovigo un incontro pubblico a cui sono invitati tutti i cittadini.
Sul sito nazionale di Italia Nostra, inoltre, è possibile consultare, con aggiornamenti costanti, documenti e la rassegna stampa relativa all’intera vicenda.
Lasciateci i vostri commenti: Porto Tolle rappresenta un caso esemplare di disinformazione e di prevaricazione dei nostri diritti ambientali e sociali, in questo senso ci riguarda tutti.
La bocciatura da parte del Consiglio di Stato della Valutazione d'impatto ambientale che approvava la conversione a carbone della centrale di Porto Tolle ha sollevato le solite bordate antiambientali da parte industriale. Vale la pena di fare alcune puntualizzazioni. Fare una centrale da quasi 2 mila Megawatt in un delta di un fiume, nell'ambito di uno dei parchi ambientalmente più significativi del Paese, era già assai discutibile. Il vecchio impianto a olio combustibile, condannato per disastro ambientale e accusato di danno biologico, era stato un colossale errore di pianificazione. La conversione a carbone, oltre a produrre l'emissione di oltre 10 milioni di tonnellate l'anno di anidride carbonica, CO2, avrebbe comportato la movimentazione nell'area di 5 milioni di tonnellate di carbone all'anno e di un altro milione di tonnellate tra calcare, gessi e ceneri.
Un punto critico è stato quello del confronto con le alternative: oltre all'alternativa «zero» (cioè non far nulla in un'area già interessata da un rigassificatore) c'era l'alternativa di fare un impianto a gas invece di quello a carbone. Enel ha sostenuto la tesi che, essendo i gruppi a carbone più grandi di quelli usualmente impiegati per gli impianti a gas a ciclo combinato, i camini più alti avrebbero garantito maggiore diluizione degli inquinanti e dunque implicato un minore impattosull'ambiente. Questa tesi non ha alcuna base scientifica. Gli inquinanti, infatti, viaggiano, si trasformano chimicamente e interessano un'area vasta (dell'ordine delle centinaia di km). Dunque le preoccupazioni ambientali su quell'impianto non sono di tipo «nimby», ma riguardano invece l'impatto su gran parte della pianura padana, come si è sostenuto nel ricorso sostenuto da Greenpeace, Wwf, Italia Nostra e dalle associazioni locali del settore turismo e pesca.
In particolare, le circa sette mila tonnellate annue di ossidi di zolfo e azoto emesse dalla centrale a carbone - contro le poco più di mille di una centrale a gas a parità di energia prodotta - comportano la genesi di grandi quantità particolato fine «secondario» attraverso gli ossidi di zolfo e di azoto, che, oltre che acidificare l'atmosfera, ne sono i «precursori». Basti pensare che in una città come Bologna oltre un terzo del particolato ultrafine (inferiore ai 2,5 micron di diametro) è costituito da nitrati e solfati provenienti da sorgenti lontane. Ed è noto che si tratta della frazione del PM10 più pericolosa dal punto di vista sanitario.
Il recente rapporto di Legambiente, Mal'aria 2011, conferma una situazione sconfortante e grave sui livelli di particolato fine nelle città italiane: 30 delle 48 città italiane fuorilegge per numero di superamenti annuali dei limiti di PM10 sono nella pianura padana (tra queste Rovigo, Ferrara, Padova, Bologna e Milano).
E' possibile una strategia alternativa per salvare il posto a circa 300 operai? A parte l'alternativa del gas - certo assai meno inquinante di quella del cosiddetto «carbone pulito» - le analisi del potenziale delle rinnovabili in Italia mostrano ampie possibilità, con un impatto occupazionale ben superiore rispetto alle fonti convenzionali. Senza parlare delle ricadute occupazionali che potrebbero avere le misure di efficienza energetica proposte recentemente, a livello nazionale, da Confindustria, e che una cauta proiezione per la Provincia di Rovigo fa ascendere a oltre 3.000 nuovi posti di lavoro. Dal punto di vista energetico poi, l'analisi del potenziale di efficienza nel settore elettrico, elaborato dal Politecnico di Milano per Greenpeace, mostra un potenziale energetico pari a quello di 10 centrali di Porto Tolle, ma economicamente assai più conveniente.
La protezione dell'ambiente e il fare fronte ai cambiamenti climatici rappresentano, oltre che una necessità, un'imperdibile occasione occupazionale: ma bisogna cambiare drasticamente le attuali politiche energetiche e industriali.
Dopo gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi di Fukushima c’è stato un po’ di ripensamento nei programmi nucleari del governo italiano; lo stesso governo si è affrettato a emanare un decreto che rimanda di un anno le procedure di localizzazione delle possibili centrali nucleari (ma non le procedure di localizzazione dei depositi delle scorie radioattive); vari paesi hanno deciso di rivedere le condizioni di sicurezza delle centrali esistenti, le quali (sono quasi 450 nel mondo) continuano a frantumare nuclei di uranio e di plutonio e a generare ogni anno tonnellate di rifiuti radioattivi.
Dopo Fukushima sono cambiate molte cose, oltre che di carattere ambientale, di carattere economico. Negli ultimi anni c’era stata una lenta ripresa, in vari paesi del mondo, dei programmi di costruzione delle centrali nucleari, pubblicizzate come la fonte di elettricità che evita l’effetto serra, del tutto sicura, e questo fermento aveva messo in moto l’unica cosa che conta per il potere finanziario, i soldi, da investire nell’industria meccanico-nucleare che fabbrica le centrali nucleari e nell’industria delle costruzioni. La costruzione di una grossa centrale nucleare richiede, a parte i materiali nucleari veri e propri, circa un milione di tonnellate di cemento e acciaio, e poi nuove strade e porti e infrastrutture. Poi richiede complesse procedure burocratiche che a loro volta richiedono studi di sicurezza, commissioni tecniche, appalti, tutti costosi.
Chi acquista centrali nucleari deve prendere i soldi in prestito dalle banche e questi soldi devono essere assicurati, il che significa altre speranze di profitti finanziari. Ci sono poi altri due settori economici la cui sopravvivenza è associata alla costruzione e al funzionamento delle centrali nucleari: una centrale nucleare ha bisogno di uranio, la materia prima di cui poco di parla ma che tiene in moto grossi affari industriali internazionali. Una centrale nucleare da 1600 megawatt (come una delle quattro che il governo italiano avrebbe voluto costruire, in collaborazione con la venditrice francese Areva), ha bisogno ogni anno di circa centomila tonnellate di roccia uranifera estratta in un numero limitato di paesi nel mondo: Kazakistan, Australia, Canada, Namibia. Un’importante industria chimica trasforma i minerali di queste rocce uranifere in ossido di uranio, poi l’ossido di uranio in fluoruro di uranio.
Poi intervengono altre industrie che trasformano, mediante centrifughe, l’uranio naturale in uranio “arricchito” al 4 % di uranio-235, la forma di uranio richiesta per le centrali; poi ci sono industrie metallurgiche che preparano le leghe per i tubi che rappresentano le “camicie” degli elementi di combustibile, e poi le “pastiglie” di uranio arricchito che saranno caricate nel nocciolo del reattore. Fa presto un governo a dire “ripensamento” sul nucleare, revisione delle norme di sicurezza, ma intanto il denaro delle imprese continua a uscire per pagare banche e assicurazioni, i cui prestiti si fanno più costosi davanti alla crescente incertezza del futuro delle centrali; intanto alle imprese non entra neanche un soldo fino a che le centrali sono ferme per ripensamenti e anzi altri soldi devono essere spesi per revisioni e controlli, e sale il costo finale dell’elettricità nucleare a livelli ancora più inaccettabili.
Dietro la catastrofe di Fukushima ci sono centinaia di persone, banchieri, dirigenti delle assicurazioni, manager di grandi imprese, presidenti, gli uomini del potere dei soldi, spaventati per il proprio futuro che, fino all’11 marzo, quando lo tsunami ha paralizzato le centrali nucleari giapponesi, sembrava così luminoso. Nelle ultime settimane il prezzo dell’uranio sta crollando, diminuito del 20 % in un mese, e così sta crollando il prezzo dell’uranio arricchito e delle relative tecnologie e calano i titoli in borsa delle società nucleari. Purtroppo la crisi coinvolge anche gli incolpevoli lavoratori di queste imprevidenti industrie, dai deserti dell’Asia ai poli tecnologici nucleari. Dopo Fukushima il mondo finanziario e industriale non sarà più come prima. I governi dovranno finalmente fare delle nuove corrette analisi dei reali fabbisogni di elettricità (perché solo elettricità sono capaci di dare le centrali nucleari) e dello stato reale delle tecnologie energetiche.
I posti di lavoro perduti abbandonando l’avventura delle centrali nucleari, potranno essere assorbiti dal gigantesco lavoro di sistemazione dei rifiuti radioattivi che si sono finora accumulati nel mondo e che continuano ad essere generati ogni giorno, fino a che restano in funzione le centrali esistenti. Tale lavoro richiede chimici, ingegneri, fisici, ma anche geologi e urbanisti e decenni di tempo, per cui più presto le centrali nucleari chiuderanno, più presto si smetterà di costruirne di nuove, meglio sarà. Una lezione che vale anche per l’Italia che stava imprudentemente per riprendere la via nucleare.
Questo articolo è stato inviato anche alla Gazzetta del Mezzogiorno
Il petrolio si è affacciato come importante fonte di energia negli ultimi decenni del l'Ottocento, con una produzione relativamente modesta; nel 1900 il consumo mondiale di petrolio era di 30 milioni di tonnellate rispetto a 600 milioni di tonnellate di carbone. Si tenga presente che una tonnellata di carbone produce energia come 0,7 tonnellate di petrolio. Il consumo di petrolio aumentò rapidamente con l'avvento dell'automobile e dell'aeroplano e con la prima guerra mondiale (1914-1919). Nel 1920 il consumo mondiale di petrolio era di circa 130 milioni di tonnellate rispetto ad un consumo di carbone di circa 1200 milioni di tonnellate. Nel 1950, lasciatosi alle spalle il grande massacro della seconda guerra mondiale (1939-1945), il consumo di petrolio era diventato di 700 milioni di tonnellate rispetto ad un consumo di circa 1500 milioni di tonnellate di carbone. A partire dal 1950 ai due giganti energetici si è affiancato, in modo sempre più aggressivo, il gas naturale.
Oggi i consumi mondiali vedono al primo posto il petrolio con circa 4200 milioni di tonnellate all'anno, seguito dal carbone con circa 5000 milioni di tonnellate all'anno (ma con un contenuto di energia equivalente a quello di appena 3500 milioni di tonnellate di petrolio), e al terzo posto il gas naturale con circa 3000 miliardi di metri cubi all'anno (con un contenuto di energia equivalente a quello di appena 2500 milioni di tonnellate di petrolio). I bilanci energetici si fanno con una unità di energia che si chiama tep (tonnellate equivalenti di petrolio).
Durante la conferenza del 1956 dell'Istituto Americano del Petrolio un geologo chiamato King Hubbert (1903-1989) affermò che, sulla base delle conoscenze delle riserve di petrolio esistenti nel mondo, si poteva prevedere che la produzione mondiale di petrolio avrebbe raggiunto un massimo, forse nei primi anni del 2000, e poi sarebbe diminuita. A conferma di questo ricordò che gli Stati Uniti, che erano stati esportatori di petrolio, erano diventati importatori di petrolio per il graduale esaurimento dei suoi pozzi. Nel 2010 il 70 % del petrolio consumato negli Stati Uniti è importato dai paesi del Golfo Persico, da Venezuela, eccetera e i favolosi pozzi della California e del Texas si stanno esaurendo progressivamente.
Il continuo aumento del prezzo del petrolio è influenzato da considerazioni politiche, dalla comparsa di nuovi giganti economici, come Cina e India, che succhiano petrolio dovunque, ma anche da un graduale impoverimento delle riserve. Poco conta se nel sottosuolo c'è petrolio ancora per 30 o per 60 anni; il suo esaurimento si farebbe sentire nel corso di una o due delle future generazioni. A puro titolo di esercizio di fanta-economia immaginiamo che cosa succederebbe se il petrolio scomparisse del tutto. Scomparirebbe la nostra "civiltà" ? No, perché la civiltà è basata su molti altri beni oltre alla pura e semplice energia. Comunque sarebbe un bello sconquasso e, per capire chi ne pagherebbe di più le conseguenze, cominciamo a vedere dove va a finire oggi il petrolio.
Circa un terzo del petrolio consumato nel mondo va nei trasporti terrestri, aerei, navali; i principali mezzi di trasporto terrestre sono, da decenni, gli autoveicoli azionati da motori a scoppio a ciclo Otto; la rotazione delle ruote è assicurata dall'energia liberata dalla combustione di un carburante liquido, la benzina o il gasolio, entrambi derivati dalla raffinazione del petrolio. Circolano autoveicoli che usano il metano del gas naturale, comincia ad affacciarsi qualche autoveicolo elettrico, ma l'elettricità è ancora prodotta in gran parte in centrali che bruciano derivati del petrolio. Se il petrolio improvvisamente scomparisse, ci resterebbero tre soluzioni: ottenere carburanti liquidi dal carbone; oppure usare carburanti liquidi ottenuti dalla biomassa vegetale, come l'alcol etilico o il biodiesel; o, infine, far muovere gli autoveicoli con motori elettrici ricaricati con l'elettricità prodotta dal carbone o dal Sole o dal vento. Quanto poco si possa contare sull'elettricità nucleare è dimostrato dalla catastrofe ai reattori giapponesi di Fukushima.
Il "re carbone" non è un combustibile comodo da usare, però può essere trasformato per reazioni chimiche in numerosissimi prodotti oggi ottenuti dal petrolio a cominciare dai carburanti liquidi per autotrasporti. Il carbone è costituito essenzialmente da carbonio, con piccole quantità di idrogeno e altri elementi. Trattando il carbone ad alta temperatura con vapore acqueo si ottiene una miscela di gas, principalmente idrogeno, ossido di carbonio, metano, che, per ulteriori trasformazioni, possono diventare carburanti liquidi simili alla benzina e al gasolio. Queste trasformazioni sono state rese possibili dalle ricerche condotte negli anni venti e trenta del secolo scorso dai chimici tedeschi Friedrich Bergius (1884-1949), Franz Fischer (1877-1947) e Hans Tropsch (1889-1935). Non c'è da meravigliarsi che si sia debitori alla chimica tedesca di queste innovazioni perché per tutta la prima metà del Novecento la Germania si è trovata priva di petrolio e ricca di carbone. Non consideriamo per ora quanto possano venire a costare questi carburanti dal carbone, perché la questione del prezzo sarebbe secondaria, se trovassimo i distributori di benzina vuoti.
Una parte del petrolio viene usato nel mondo nelle centrali termoelettriche nelle quali il carbone è già usato su larga scala; anche in Italia, zitte zitte, molte centrali termoelettriche funzionano a carbone. Le riserve di carbone sono molto grandi nel mondo, ma il suo uso come combustibile è certamente scomodo perché deve essere scavato nel sottosuolo e trasportato allo stato solido; durante la combustione genera vari gas inquinanti e lascia delle ceneri che pure sono fonti di danni ambientali. Ma se non ci fosse più petrolio, state sicuro che gli ingegneri e i chimici si metterebbero al lavoro per diminuire molti degli inconvenienti del carbone, con la gassificazione sotterranea, la depurazione dei fumi, con il recupero delle scorie oggi sepolte in discariche, eccetera. Una parte dei prodotti ottenuti dalla raffinazione del petrolio viene impiegata nell'industria chimica per fabbricare plastica, fibre tessili sintetiche, gomma sintetica e innumerevoli altri ingredienti di vernici, coloranti, medicinali, inchiostri.
Oggi; perché gran parte delle materie usate dall'industria chimica, etilene, propilene, butano, butilene, eccetera, in passato era ottenuta dal carbone anche grazie ai contributi di un altro chimico tedesco, Walter Reppe (1892-1969). Molte altre merci oggi ottenute dal petrolio sono state per secoli e decenni ottenute dal mondo vegetale e animale. Oltre un terzo delle fibre tessili usate nel mondo è costituito dal cotone offerto dalla natura; molti usi delle fibre oggi ottenute con sintesi chimiche dal petrolio erano soddisfatti in passato da lino, canapa, eccetera. In silenzio, in tutto il mondo, si sta verificando un "ritorno" alle fibre tessili naturali anche perché molte di esse sono prodotte nei paesi emergenti che sperano di trarne occasioni di lavoro e di sviluppo. Circa un terzo della gomma usata nel mondo è di origine vegetale e anzi la gomma naturale in certe applicazioni supera come qualità quella sintetica ottenuta dal petrolio. La natura offre innumerevoli materie nel regno vegetale e animale con cui ottenere coloranti e materie plastiche oggi derivate dal petrolio attraverso l'approfondimento delle conoscenze della biologia, della chimica, della merceologia.
Tranquillizzatevi, perciò, perché, se il petrolio scomparisse, la civiltà continuerebbe e anzi sarebbe probabilmente meno inquinata e più sicura.
E' passato un quarto di secolo da quel 26 aprile 1986, quando, in uno dei quattro reattori della centrale nucleare di Chernobyl, nell'Ucraina allora sovietica, venne a cessare il flusso dell'acqua che raffreddava il nocciolo del reattore, quello in cui uranio e plutonio, bombardati con neutroni, si scindono e liberano energia ad alta temperatura. La temperatura del nocciolo si alzò, così, ad un valore tale da provocare l'incendio della massa di grafite che circondava il nocciolo, la fusione del nocciolo stesso e una esplosione che distrusse la struttura superiore del reattore. Dal tetto scoperchiato furono gettati nell'aria, per alcuni giorni, fiamme e fumi radioattivi. Gli operatori e i pompieri presenti, e altri venuti dalle città vicine, si adoperarono per spegnere l'incendio con i pochi mezzi a disposizione, nella grande confusione di strutture contorte e crollate. Per fermare la fuoriuscita di materiale radioattivo esposero le loro vite a radiazioni mortali; morirono tutti, così come morirono i piloti degli elicotteri che a ripetizione sorvolarono il reattore ancora in fiamme per gettare al suo interno centinaia di migliaia di tonnellate di sabbia e cemento e piombo, in modo da fermare la reazione nucleare che procedeva ancora. Se non ci fosse stato il loro sacrificio, la radioattività delle polveri e gas che si sparsero e ricaddero nell'Europa centrale e meridionale, fino in Italia, avrebbe avuto conseguenze ben più disastrose. La storia è raccontata da Grigori Medvedev nel libro "Dentro Cernobyl", pubblicato nel 1996 dalle edizioni La Meridiana di Molfetta, un libro che dovrebbe essere letto nelle scuole perché è una specie di "Cuore" del ventesimo secolo. Qualche città italiana farebbe bene a intitolare una strada o una piazza ai "martiri di Chernobyl", agli eroi che, in quelle terre lontane, a prezzo della loro vita, evitarono che fossimo contaminati in modo molto più grave e salvarono tante delle nostre vite. Le zone intorno al reattore di Chernobyl, ancora oggi contaminate dalla radioattività, furono fatte sgombrare dalla popolazione; molti abitanti di tali zone erano stati avvelenati dalla nube radioattiva; molti bambini e ragazzi portano ancora nel loro corpo le conseguenze di tale contaminazione. Il disastro fu accompagnato da episodi di generosità e solidarietà internazionale. Il chirurgo americano Robert Gale, specialista di trapianti di midollo osseo, corse subito in Ucraina e per molto tempo operò i malati più gravi; anche questa storia è raccontata in un libro dello stesso Gale e in un film dal 1991, "Chernobyl", del regista Anthony Page, che ancora circola in qualche televisione e che meriterebbe di essere visto da tanti italiani. Ho voluto ricordare i molti episodi di solidarietà e generosità internazionale --- per anni molti bambini ucraini hanno trascorso dei periodi di vacanza in Italia, ospiti di organizzazioni di volontariato --- piuttosto che le squallide e scomposte reazioni che si ebbero in Italia dopo l'incidente, in quell'aprile e maggio di 25 anni fa. La catastrofe di Chernobyl mostrò che le denunce del movimento antinucleare non erano fanfaluche di ecologisti: davvero l'energia nucleare non era né sicura, né pulita. Si ebbero anche improvvise conversioni da posizioni filonucleari a posizioni antinucleari; insomma una brutta storia italiana che impedì di prendere decisioni sensate e rapide nell'interesse della salute dei cittadini. Naturalmente, come sempre avviene quando ci sono disgrazie collettive, ci fu chi speculò andando a comprare grano radioattivo a basso prezzo per rivenderlo fraudolentemente in Italia; ci fu chi importò rottami metallici radioattivi, finiti poi chi sa dove. Anche questo traffico internazionale di "merci radioattive", in mancanza di controlli e di corrette informazioni all'opinione pubblica, fu una delle conseguenze di Chernobyl. Il referendum del novembre 1987 dimostrò che la maggioranza degli italiani del nucleare aveva avuto abbastanza, e in tutto il mondo ci fu un rallentamento nella costruzione di centrali, anche se la scelta di ricorrere al nucleo atomico per le bombe atomiche e per l'elettricità commerciale ha continuato a fare sentire i suoi effetti nefasti sotto forma di incidenti e inquinamenti nell'estrazione e nella produzione dell'uranio e nel suo arricchimento, nell'uso militare dell'uranio impoverito, a cui vanno aggiunti i pericoli associati alla necessità di seppellire, non si sa dove, i residui radioattivi delle centrali. Dopo un po' di anni c'è stata una resurrezione della passione per le centrali nucleari, fino alla recente catastrofe di Fukushima. Vorrei concludere con le parole del libro di Medvedev prima citato: "Gli eroi e i martiri di Chernobyl ci hanno fatto comprendere l'impotenza dell'uomo di fronte a ciò che l'uomo stesso crea, nella sua presunzione di onnipotenza".
Era difficile credere che l’Italia potesse tornare davvero al nucleare. Ora, dopo Fukushima, decisioni come la "pausa di riflessione" di un anno suonano irrisorie. Non è del solo nucleare che si tratta, ma di un intero modo di avere a che fare con la natura, e fra gli umani. Di un’intera preistoria, gloriosa e rovinosa. I colpi che subiamo senza saperli prevedere, e tanto meno prevenire, hanno riportato all’ordine del giorno la questione dell’eterogenesi dei fini, cioè della probabilità che i risultati delle nostre azioni vadano a finire lontano dagli scopi che ci eravamo proposti. Siccome l’eterogenesi dei fini è una formula difficile, ora si dice cigno nero. (I cigni neri esistono davvero - in Patagonia hanno nero il collo e rosso attorno agli occhi, bellissimi, e tutti neri in Australia). Probabilmente, oltre che rassegnarci al fatto che i frutti dell’albero che scuotiamo cadono fuori dal cesto, dobbiamo rimettere in causa gli stessi scopi che abbiamo dato per scontati lungo qualche migliaio d’anni. Abbiamo bisogno di una conversione ecologica, che è altra cosa da una riconversione produttiva: come il passaggio da una vita da cacciatori a una da tessitrici. Torniamo a Fukushima e al suo antefatto, Hiroshima. L’anno scorso morì, a 93 anni, l’ingegnere Tsutomu Yamaguchi. Tutto il mondo ne parlò, aveva fatto un memorabile discorso alle Nazioni Unite, ed era l’unica persona ufficialmente riconosciuta come superstite a due bombe atomiche. Yamaguchi era in trasferta a Hiroshima il 6 agosto 1945, fu ferito e ustionato, rientrò a Nagasaki in tempo per la seconda bomba, il 9 agosto. Ebbe l’impressione che il fungo atomico l’avesse inseguito. Le vittime giapponesi sopravvissute a quel primo esperimento atomico (i morti furono 240 mila subito, altri 270 mila per gli effetti delle radiazioni) si vergognarono a parlarne, o non vollero, più ancora di quanto sia successo ai superstiti di Auschwitz. Yamaguchi ne tacque fino al 2005, quando il suo secondo figlio, anche lui sopravvissuto a Nagasaki, morì di cancro.
Il Giappone, solo destinatario, finora, di un bombardamento atomico, prese su sé la missione di porre riparo a quella catastrofe trasformando l’energia nucleare in una risorsa pacifica. È questo a rendere così definitiva la tragedia di Fukushima. La correzione di un errore immane tradotta in una replica dell’errore. Eterogenesi dei fini la più impressionante. Il fine da rimettere in causa è la fiducia senza riserve nel progetto di domare e dominare la natura, la passione per una scienza impaziente di ogni limite che non sia meramente tecnico e provvisorio. E l’abitudine cui rinunciare è la mortificazione provata di fronte alla necessità di tornare indietro, di disfare il già fatto. Di fronte al Regresso. Così per il nucleare, ma non solo per il nucleare.
Certo, il nucleare è davvero "un’altra cosa". Gli ultimi anni si vanno riempiendo di cigni neri e di emergenze, l’11 settembre e il crollo finanziario, lo tsunami giapponese e le rivolte arabe: non abbastanza da persuadere coloro che non sono disposti a cambiare strada, e anzi invitano a imboccare più risolutamente la strada di prima, che sia la divinità del mercato o la perennità dell’homo automobilista. I reattori di Fukushima si erano appena crepati che un coro esaltato proclamava l’impegno ad "andare avanti" sulla strada del nucleare. ("Avanti!", antica e nobile parola d’ordine dell’epoca del Progresso). Tra i ripensamenti, mi ha colpito la lettera di Umberto Veronesi qui, dove distingue fra l’"errore umano" di Cernobyl e Three Mile Island, e l’"incidente di strategia" di Fukushima. (Anche per Fukushima si farà presto -(si è già fatto)- a invocare l’errore umano). Veronesi sembra confidare che gli errori umani siano correggibili fino a offrire la "sicurezza". Ma l’errore non è soltanto un difetto rivedibile dell’umanità, è l’umanità stessa. Si può spingersi a dire che niente è più umano che l’errore: cioè l’agire secondo un’intenzione riflessa, e il suo scacco. Col nucleare, questa probabilità risulta in effetti catastrofici. Al mondo sono in funzione 453 centrali nucleari, e una è bastata allo scempio di Fukushima. "Ma lo tsunami è stato eccezionale": già. Un errore della natura? La natura li fa, chiedete all’islandese: solo che non li premedita, né li usa per castigarci, muove la coda distrattamente. Propongo a Veronesi, che crede a quel che dice (addirittura alla ineluttabilità del nucleare, pena la fine del genere umano) di immaginare che l’errore umano sia nella decisione stessa di piegare e impiegare l’energia nucleare. Non è questione di abdicare alla scienza, al contrario: di chiederle di trovare altre strade alla convivenza umana.
Il nucleare è "altra cosa": ma insieme è, per eccesso, rivelatore di una relazione distruttiva con la terra in cui e di cui viviamo: anche ordinariamente e "pacificamente" distruttiva. Che sia così, sono in moltissimi ormai a intenderlo: ma anche a provare una sensazione di impotenza e di resa, perché ci siamo spinti assai oltre in un modo di produrre e consumare e vivere, e per la giusta diffidenza verso vecchi miti di palingenesi, e nuovi miti di "decrescita". Così, spaventati di ammettere l’emergenza universale, rincorriamo le innumerevoli emergenze particolari, come quel giocoliere del Circo di Pechino che fa girare una lunga fila di piatti sui bastoncini e corre di qua e di là a dare un altro colpettino al piatto che ciondola e sta per cadere.
C’è bisogno di cambiare, nelle persone e nelle cose. C’è un verbo riflessivo e uno transitivo: convertirsi e riconvertire. Si può scegliere di farlo, o si può essere costretti: è come scegliere di rinforzare l’argine, o aspettare che la piena l’abbia travolto. Come a Lampedusa. Ci sono persone pazienti e competenti che affrontano l’agenda dettata da premesse come queste, senza sottovalutare la portata dell’impresa, ma senza lasciarsene intimidire fino alla rassegnazione e, appunto, all’abitudine. Lo fece Alexander Langer, lo fa, con tanti altri, Guido Viale. I lettori di Repubblica ne conoscono gli interventi puntuali (e anche profetici) su alcune delle abitudini "irrinunciabili" e "irreversibili" che sembrano diventate una seconda – o terza e quarta – natura, in questa parte di mondo, e si sbrigano a diventarlo anche nelle altre: l’automobile privata, il pieno di monnezza, il trionfo della confezione e del consumo usa e getta. Si intitola appunto, un nuovo saggio appena uscito di Viale, La conversione ecologica (NdA, Rimini). Spiega che non si dà una cultura adeguata allo stato del pianeta se non nel riconoscimento di chi è venuto prima e nella disposizione a cambiare rotta e animo, combinando lungimiranza e prossimità, capacità di pensare in grande e di agire in piccolo, responsabilità e iniziativa "dal basso" e, dovunque sia possibile, impegno di reti e istituzioni. Chi lo legga, e non sia avvezzo a questo dibattito, si ritroverà dapprima diviso fra una sensazione di enormità e una di inevitabilità: "non c’è alternativa", infatti. Poi, cominciano i problemi concreti. A partire da quegli effetti della globalizzazione qui spesso e variamente trattati, cui si possono immaginare due tipi di risposte. Uno (Scalfari lo chiama dei "vasi comunicanti") prova a immaginare in quale punto possano incontrarsi le opposte tendenze, quella rapida del lavoro nei paesi "sviluppati" a degradarsi e venir meno, e quella lenta nei paesi "emergenti" a conquistarsi remunerazioni e diritti decenti. Un incontro per il quale si dovrebbe pensare all’idea "come nuova" di un’associazione Internazionale dei lavoratori – e dei cittadini. Un’altra risposta punta soprattutto alla "riterritorializzazione" di produzioni e consumi, a cominciare dall’autonomia alimentare ed energetica e dalle relazioni di prossimità, "a km zero": un modo di vita in cui le cose viaggino il meno possibile, e siano le idee, i saperi, e le persone stesse, a fare il giro di un mondo sempre più condiviso. È possibile che i due approcci, piuttosto che contrari, si mostrino complementari. Per riportare lavoro e consumo al loro luogo bisogna attenuare la convenienza parassitaria della delocalizzazione e dei viaggi intercontinentali delle merci.
Quanto al bene comune, che di un movimento vasto e mondiale è diventato la parola d’ordine più o meno ideologica, ebbe un tempestivo manifesto nell’acquaforte di Goya dai "Disastri della guerra", con l’ecclesiastico vampiro che legifera "contro il bene comune". Così distante da un altro frate, che chiamava l’acqua sorella, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta, et non l’avrebbe mai privatizzata.