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1. Con particolare intensità, a partire dall’inizio degli anni ’90, si è sviluppata una critica (a più livelli) dei processi decisionali in materia di urbanistica e pianificazione territoriale, cosiddetti gerarchici o “a cascata”.

A questi processi decisionali era associato sia un modello gerarchico politico/amministrativo (dal generale al particolare – dal più grande, cioè, al piccolo, in termini di scala territoriale di riferimento) sia un modello di piani, programmi e progetti a scatola cinese sia un conseguente modello normativo: la legge statale, quella regionale e le norme locali (comunali).

In tema di Urbanistica e di Pianificazione Territoriale, questo modello si può così sintetizzare: lo Stato, con le sue leggi generali per il governo del territorio, le Regioni con proprie leggi ispirate a quelle nazionali, i Comuni con la propria attività normativa e regolamentare alla scala locale, soggetta al controllo regionale.

Questo impianto normativo è stato declinato nel corso del secondo novecento secondo due fasi: una prima fase, dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni ’70, caratterizzata da una forte centralizzazione e da un rapporto, sostanzialmente, diretto tra Stato e Comuni; una seconda fase, dalla seconda metà degli anni ’70 in poi, caratterizzata dalla nascita della legislazione regionale (conseguente alla istituzione delle Regioni) con un rapporto diretto tra ogni singola Regione ed ogni Comune.

2. A partire dall’inizio degli anni ’90, poi, si è sviluppato un “movimento” (una “lobby”) nazionale di istituzioni accademiche, culturali e professionali, che ha sviluppato una persistente e forte critica alla pianificazione urbanistica fondata sul modello delineato dalla legislazione regionale.

Parte attiva, trasversale dal punto di vista dei referenti politici ed egemone culturalmente. è stata svolta dall’Istituto Nazionale di Urbanistica, in discontinuità con le “campagne progressiste” che a partire dai primi anni ’60 e, con qualche sussulto, ancora fino ai primi anni ’90, hanno caratterizzato l’impegno culturale e politico per la riforma urbanistica nazionale.

Da questo punto di vista è paradigmatico il caso piemontese: le critiche di questa lobby si sono concentrate sulla sistematica demolizione (fondata su una rappresentazione macchiettistica della attività pianificatoria piemontese e del ruolo svolto dai tecnici regionali) della legge regionale 56/1977 ispirata e voluta da Giovanni Astengo: la legge urbanistica regionale, cioè, più fortemente radicata nel clima Olivettiano di Comunità e che nell’INU aveva un referente privilegiato.

Questa critica fondata sulla vulgata della rigidità del modello a cascata (dal Piano Territoriale regionale, al Piano Territoriale di Coordinamento, ai Piano Regolatori Generali), si è, infine, innervata sui due filoni della “SUSSIDIARIETA’” e della “CONCERTAZIONE”.

3. Il primo filone, quello della SUSSIDIARIETÀ, è stato preso in prestito dal nobile principio “europeo” secondo cui ad ogni campo dell’agire umano, a seconda del livello delle questioni e dei problemi, è riservata una forte autonomia di azione.

Questo principio è stato declinato nel nostro Paese in vari modi e con versioni anche estremiste (“ padroni a casa nostra”), che hanno trovato emuli anche nel campo della pratica urbanistica ed edilizia: tra i confini del Comune che io, Sindaco, amministro o tra i confini della mia proprietà, faccio quel che voglio senza alcuna ulteriore autorizzazione.

La declinazione urbanistico/pianificatoria piemontese è stata la legge n. 41/1997, con la quale, tra l’altro, è stato riscritto l’art. 17 della legge urbanistica Astengo (la L.R. 56/1977); con tale articolo è stata introdotta la possibilità di approvazione diretta, da parte dei Comuni, di varianti cosiddette “parziali” e di modifiche (le cosiddette “varianti non varianti”) ai piani regolatori: dietro queste due teste d’ariete si è collocata una innumerevole produzione (migliaia) di modificazioni dei Piani Regolatori, fuori da ogni controllo e da ogni forma di coordinamento da parte della Regione.

4. Il secondo filone, quello della CONCERTAZIONE, è stato, a sua volta, mediato dal mondo delle cosiddette relazioni industriali: anche in questo caso, cioè, il padre è nobile. Anche in questo caso, però, la declinazione urbanistica che se ne è fatta è stata, sostanzialmente, quella di dare dignità a ciò che, in tempi meno sospetti, si sarebbero chiamati “ interessi privati in atti d’ufficio”.

Nel caso del Piemonte, poi, il modello concertativo è stato promosso per svuotare di significato la fase, così centrale nella legge urbanistica astenghiana, delle “osservazioni” ai progetti preliminari degli strumenti urbanistici.

Nel modello astenghiano, cioè, la fase metaprogettuale (la delibera programmatica del PRG) e quella progettuale preliminare degli strumenti urbanistici sono affidate alla mano pubblica che, attraverso delibere del Consiglio Comunale (fino a prova contraria massima espressione della democrazia elettiva), portano alla conoscenza di tutti le proposte sulla tutela e sull’uso del territorio: attraverso le osservazioni, i cittadini, le associazioni, i partiti, tutti quelli che hanno proposte od osservazioni da fare nel pubblico interesse, possono proporre migliorie al Consiglio Comunale attraverso un processo trasparente e, soprattutto, codificato.

Il modello concertativo, come appare essere stato declinato fino ad oggi e come appare trasfuso nelle proposte di legge sia regionali sia nazionali (legge Lupi) in materia di urbanistica, si fonda, viceversa su:

(a) una sostanziale equidistanza della Pubblica Amministrazione dagli interessi privati e dal pubblico interesse , non come bene scarso da tutelare

(c) una delega al Sindaco o alle maggioranze politiche delle decisioni, da fare ratificare dai Consigli Comunali.

5. Si ricava, in conclusione, da un esame dell’attuale stato dell’arte quanto segue:

(1) la critica al cosiddetto modello gerarchico (la pianificazione a cascata) ha prodotto, nel corso degli anni ’90, un progressivo logoramento dell’apparato normativo ed una produzione senza controllo di varianti urbanistiche parziali e di modifiche che hanno “gratificato” interessi particolari

(2) coesistono nel nostro Paese più modelli di pianificazione urbanistica: quello centralistico, con riferimento, soprattutto, alla proliferazione di piani e programmi di nuova generazione (a partire dalla legge Botta/Ferrarini), in cui permane l’antico rapporto diretto tra Stato e Comuni; quello gerarchico in cui permane la potestà autorizzativa della Regione (vale per i PRG, le varianti strutturali, i PTC ecc.); quello ispirato alla sussidiarietà, in cui il Comune adotta ed approva proprie varianti e modifiche

(3) la competizione tra questi modelli, non avviene sul terreno dell’innovazione culturale o politica o disciplinare, ma soltanto sul versante della ricerca della minimizzazione dei controlli di merito e della partecipazione democratica

(4) il dibattito sulla riforma urbanistica sia nazionale sia, nel caso piemontese, regionale dovrebbe, rispetto ai modelli che si stanno affacciando (ad es. la legge Lupi recentemente approvata dalla Camera ed in discussione al Senato), acquisire il tema della inclusione sociale e della conoscenza diffusa quali linee guida contro ipotesi legislative che trasferiscono le decisioni “altrove” rispetto alle sedi democratiche proprie (i Consigli Comunali).

Torino, 20 gennaio 2006

Quando quest’articolo sarà pubblicato, il disegno di legge Lupi (dal nome del deputato firmatario Maurizio Lupi, di Forza Italia) denominato tanto enfaticamente quanto impropriamente “Principi in materia di governo del territorio” sarà stato, si spera, archiviato per via della fine della legislatura [1].

L’argomento merita comunque ulteriori riflessioni anche in vista della riproposizione del tema da parte del nuovo parlamento, che si spera possa occuparsi in maniera più convincente e più qualificata dell’argomento. Al riguardo non si può sottovalutare la posizione dei vertici dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, che, hanno fatto da sponda alla redazione del ddl, manifestando una notevole condivisione dei suoi contenuti. [2] Atteggiamenti critici sono stati espressi invece dalle Sezioni dell’INU di quelle regioni dove c’è una maggiore tradizione di pianificazione e di buon governo supportate da una sistematica produzione di leggi urbanistiche regionali. [3] Per completare il quadro delle posizioni registrate all’interno dell’INU si deve anche segnalare il documento fortemente critico presentato all’ultimo congresso dell’Istituto da autorevoli soci di varie regioni, dal quale è scaturito un vivace dibattito come non accadeva da anni. [4] Dibattito che l’Istituto si è impegnato ad alimentare.

Le critiche e le contestazioni più radicali da parte di architetti, economisti, urbanisti e giuristi, si trovano tutte sul sito diretto da Edoardo Salzano (eddyburg.it) e su un volumetto curato da M. Cristina Gibelli “La controriforma urbanistica” edito da Alinea e presentato a Roma il 15 dicembre 2005. [5]

Gli autori dei contributi pubblicati nel volume concordano nel considerare il ddl un testo raffazzonato e rozzo, privo dei principi fondamentali di interesse nazionale, di connessioni con le più importanti direttive europee in campo ambientale e con gli indirizzi internazionali finalizzati a incrementare la partecipazione dei cittadini e la coesione sociale. Che interpreta riduttivamente il governo del territorio come disciplina degli usi del suolo, senza curare l’integrazione con i temi ambientali, con la tutela del paesaggio, con la protezione della natura, con l’assetto idro-geologico, che, con incredibile arretratezza culturale, vengono invece intesi come ambiti rigidamente separati.

Un provvedimento sostanzialmente inutile a risolvere qualunque problema serio di assetto del territorio che sancisce la vocazione edificatoria del suolo nazionale, enfatizzando la problematica dei diritti edificatori e la loro commerciabilità, che entra in conflitto con le normative regionali e che consacra la “negoziazione” con il privato come metodo esclusivo di individuazione delle scelte urbanistiche.

Passiamo a un rapido esame del testo.

All’art. 1 (Governo del territorio), richiamando la riforma del titolo V della Costituzione (l. 3-2001), dovrebbero essere enunciati i famosi “principi fondamentali in materia di governo del territorio”, precisando subito che sono fatte salve le competenze delle regioni e delle province autonome. Tali principi fondamentali non sono affatto enunciati né chiaramente elencati; sono enunciate invece una serie di attività che identificano (secondo il legislatore) il governo del territorio (attività conoscitive, urbanistica, edilizia, programmi infrastrutturali, etc…) ma che non costituiscono sicuramente “principi fondamentali”. Doppio problema: i principi fondamentali non ci sono, ma se ci fossero non riguarderebbero le autonomie speciali. Il che meriterebbe una seria spiegazione.

In sintesi il ddl ripropone pedissequamente le modifiche al titolo V della Costituzione; indica il governo del territorio come la somma di varie attività di trasformazione del territorio stesso, per altro di competenza regionale, e non esplicita i “principi fondamentali” di competenza statale.

All’art. 2 (Definizioni) con qualche confusione tra pianificazione territoriale e pianificazione urbanistica, viene proposto un glossario con varie definizioni tratte frettolosamente dalle leggi regionali. Viene consacrato il doppio binario del “piano strutturale” e del “piano operativo”, che secondo alcuni operatori, dopo anni di sperimentazione, andrebbe rivisto perché i due strumenti tendono a identificarsi. Viene individuato (e ascritto incredibilmente alla competenza statale) il “rinnovo urbano” comprensivo dell’”adeguamento dell’estetica urbana”. Su quest’ultimo punto non riusciamo a immaginare che cosa abbia avuto in mente il legislatore se non un dialogo ravvicinato con la grande proprietà immobiliare al riparo di qualsivoglia interferenza. In linea generale, se è vero che la produzione delle leggi urbanistiche regionali, ha provocato la proliferazione di strumenti e di termini che indicano con nomi diversi le stesse cose, o con termini uguali, cose diverse, il metodo per riordinare terminologia e contenuti dovrebbe essere meno estemporaneo.

All’art. 3 (Compiti e funzioni dello Stato) si ribadisce ulteriormente la competenza statale sul “rinnovo urbano” e sulle residenze delle forze dell’ordine (v. art. 81 del DPR 61671977), argomento che dovrebbe essere attribuito senza ombra di dubbio alle competenze locali.

All’art. 4 (Interventi speciali dello Stato) si dice che per rimuovere condizioni territoriali di grave degrado, pericolo, e a rischio di calamità si ricorre a interventi speciali “attuati prioritariamente attraverso gli strumenti della pianificazione negoziata”. Il meno che si può dire è che la negoziazione non sembra la formula più adatta per intervenire nella casistica individuata.

Nell’art. 5 (Sussidiarietà, cooperazione e partecipazione) molti commentatori hanno identificato la parte più eversiva del ddl, la dove si afferma che “le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi………..”. In questa frase è stata letta la rinuncia al governo pubblico delle trasformazioni territoriali finalizzato a garantire l’interesse collettivo e quindi lo scardinamento di uno dei principi storici della pianificazione. Anche se il ddl non chiarisce chi siano gli attori della negoziazione si sospetta realisticamente che essi siano i portatori di interessi economici forti, non certo i semplici cittadini o le associazioni portatrici di interessi diffusi. La sussidiarietà, la cooperazione e la partecipazione servono solo a titolare l’articolo; sono enunciate ma non circostanziate, e nel testo non c’è alcuna misura finalizzata alla loro incentivazione. In estrema sintesi, il ddl demolisce il principio fondamentale dell’urbanistica: quello di tutelare l’interesse pubblico e di controllare le pressioni della proprietà immobiliare, cui viene offerto invece un ruolo da protagonista in una negoziazione senza regole [6].

L’art. 6 (Pianificazione del territorio) è un capolavoro di superficialità e di pressappochismo; non si riconosce identità e ruolo alla pianificazione di area vasta, presente in tutta la legislazione regionale, la cui utilità è indubitabile specie nel rapporto con la pianificazione comunale. Si precisa però (incredibilmente) che i piani territoriali …….”non possono avere un livello di dettaglio maggiore di quello dei piani urbanistici comunali”. Ma chi proporrebbe il contrario? L’art. 6, in controtendenza con molte leggi regionali, incentiva insensatamente il consumo di suolo proponendo che il territorio non urbanizzato sia distinto (in maniera assai discutibile) in aree “destinate all’agricoltura, aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili”, disconoscendo per es. il valore ambientale delle aree agricole e prevedendo comunque che si possa costruire dappertutto nonostante i continui richiami allo sviluppo sostenibile.

L’art. 7 e l’art. 8 sono dedicati rispettivamente alle “Dotazioni territoriali“ e alla “Predisposizione e approvazione del piano urbanistico“. Si tratta di argomenti ampiamente trattati nelle leggi regionali; anzi alcune regioni hanno dedicato molta attenzione al tema delle “Dotazioni territoriali”, specificando quantità e qualità di attrezzature e servizi, o prevedendo in alcuni casi i “Piani dei Servizi” (Lombardia, Emilia Romagna, Umbria). Nel ddl nazionale manca qualunque indicazione innovativa che garantisca anche una dotazione minima inderogabile di “Dotazioni territoriali” ai cittadini dell’estremo nord e dell’estremo sud. Si aggiunga poi che il ddl, all’art. 13, prevede l’abrogazione del D. Int. 1444 del 1968 sugli standard urbanistici; si aggiunga ancora che nelle città del mezzogiorno i cittadini non hanno ancora a disposizione lo standard minimo di servizi e attrezzature previsto dal predetto Decreto. Il tema avrebbe meritato ben altra attenzione.

L’art.9 (Attuazione del piano urbanistico) è dedicato essenzialmente alla perequazione e alla compensazione, considerate come strumenti cui si può ricorrere per l’”attuazione del piano urbanistico” secondo criteri e modalità stabilite dalle Regioni. Si afferma anche che la perequazione si realizza con l’attribuzione di “diritti edificatori” liberamente commerciabili dappertutto. Autorevoli commentatori di formazione giuridica sostengono che l’argomento, di per sé ostico e antipatico, perché considera il territorio come produttore potenziale di metri cubi, è pure trattato peggio che nelle leggi regionali. [7] Inoltre i diritti edificatori potranno essere incrementati “allo scopo di favorire il rinnovo urbano e la prevenzione dei rischi naturali e tecnologici”….. Nella sostanza, nessuno sarà più in grado di fare un bilancio e una valutazione complessiva dei metri cubi, virtuali e non, che aleggeranno su ogni parte del territorio comunale e di verificare la sostenibilità delle previsioni edificatorie.

L’art. 11 (Attività edilizia) propone sostanzialmente alcune modifiche al T. U. dell’Edilizia (DPR 380/2001).

L’art. 12 (Fiscalità urbanistica) prevede la definizione di “un regime fiscale speciale per gli interventi in materia urbanistica e per il recupero dei centri urbani” attraverso la redazione di decreti legislativi da emanare entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge. Anche ai commentatori più benevoli la complessità della materia sembra trattata in modo troppo semplicistico [8].

Conclude il testo l’art. 13 con l’elenco delle abrogazioni e le disposizioni finali. Per essere precisi il ddl propone due tipi di abrogazioni. Al comma 1 l’abrogazione tout-court di una serie di norme pre-vigenti; all’art. 2 una abrogazione “a tempo”: le norme elencate “perdono efficacia nel territorio della regione ove questa abbia emanato o emani normative sul medesimo oggetto”. L’abrogazione del Decreto nazionale sugli standard rientra in questa fattispecie.

Il ddl Lupi, secondo M. C. Gibelli e altri risulta anche in evidente controtendenza con quanto sta avvenendo in Europa, in realtà, sottolinea Gibelli, il ddl costituisce una vera e propria anomalia nazionale nel quadro europeo: infatti in Europa, dopo le esperienze deregolative degli anni ’80 e dei primi anni ’90 si sta assistendo a un rinnovato impegno riformatore e ad un deciso ritorno alle regole, anche se le regole vengono ovunque riattualizzate sulla base delle problematiche e delle sfide emergenti [9].

Nei contributi pubblicati nel volume curato da Gibelli emergono alcuni principi che potrebbero essere inseriti in una legge di riforma urbanistica nazionale e che sono comunque enunciati nelle migliori leggi regionali [10]. Tra questi l’integrità fisica e la stabilità del territorio, inteso come “bene comune”, la salvaguardia della cultura del territorio, il controllo dell’uso delle risorse ambientali, il blocco del consumo di suolo, il contrasto alla dispersione insediativa, il risparmio energetico; la coesione sociale, perseguibile attraverso una adeguata politica della casa e dei servizi; il recupero del patrimonio edilizio storico; una adeguata attenzione alla partecipazione dei cittadini.

Sarà possibile concordare politicamente un simile scenario? Non sarà facile perché come dice Salzano [11]: Se la legge Lupi è morta, non è morto il “lupismo”: cioè quella ideologia così largamente condivisa che ha potuto far esclamare all’onorevole Lupi, all’indomani dell’approvazione della legge, che essa è il prodotto di un lavoro bipartisan. Frase che non ha potuto essere contestata,poiché tutto il lavoro parlamentare testimonia il sostanziale accordo tra i parlamentari della destra e larga parte di quelli dell’opposizione su alcuni punti nodali del provvedimento…………La tesi di Salzano è che la legge Lupi esprime una cultura ormai diffusa, di cui si trovano tracce rilevanti in più d’una legislazione regionale e nel comportamento di molte amministrazioni locali di destra, di centro e di sinistra………In quest’ottica gli interessi immobiliari sono diventati veri protagonisti a attori delle trasformazioni territoriali che meritano un occhio di riguardo; il ruolo del potere pubblico si è trasformato: da regista e garante delle trasformazioni territoriali e urbane, a facilitatore delle negoziazioni; il sistema delle regole è considerato un impaccio fastidioso da cui liberare i portatori di interessi economici forti . Il quadro delineato diventa ancora più allarmante se lo riferiamo a quelle regioni dove gli interessi economici sono fortemente condizionati dalla malavita organizzata.

Palermo, 26 gennaio 2006

[1]Il ddl era stato approvato dalla Camera dei Deputati il 28 giugno 2005 con la frettolosa introduzione di numerosi emendamenti e inviato alla XIII Commissione permanente del Senato (Territorio, ambiente, beni ambientali); la Commissione del Senato, nel mese di novembre 2005 aveva effettuato un ciclo di audizioni di varie associazioni interessate (tra cui ANCSA, Italia Nostra, Legambiente, Urbanistica Democratica, Città Amica) che avevano messo in evidenza gli aspetti più perniciosi e le lacune del ddl, tanto da convincere alcuni senatori della maggioranza della necessità di apportare consistenti modifiche al testo. Si sarebbe quindi palesata la necessità di rinviarlo alla Camera dei deputati.

[2]V. gli articoli di Giuseppe Campos Venuti, Carlo Alberto Barbieri, Federico Oliva, sul n. 203/2005 di Urbanistica Informazioni.

[3] V. l’articolo di Pietro Maria Alemagna sul n. 203/2005 di Urbanistica Informazioni.

[4]Si tratta del XXV Congresso dell’Istituto Infrastrutture, città e territori tenuto a Roma i giorni 1 e 2 dicembre 2005.Questi i passi salienti del documento a proposito del ddl Lupi. …. L’Istituto deve saper ritrovare la capacità di indicare i “principi” che debbono essere inseriti in una Legge nazionale sul governo del territorio, senza accettare come ineluttabile la resa al “mercato immobiliare”, che comporta la perdita di un effettivo controllo delle trasformazioni dei suoli urbani e rende irreversibile il processo di distruzione delle nostre città.

Deve contribuire a superare gli equivoci che hanno suggerito indicazioni preoccupanti nel testo di Legge sul governo del territorio in discussione in Parlamento, in merito a:

- limitazione del principio della attribuzione dei poteri di governo del territorio agli Enti locali, attraverso l’assegnazione di uno spazio privilegiato per le scelte relative alle trasformazioni, a partire dal momento delle scelte strutturali, ad “atti negoziali” tra Enti pubblici e soggetti portatori di interessi connessi alla proprietà di beni, terreni e risorse finanziarie;

- conseguente divisione dei cittadini in due categorie, quelli che posseggono beni per trattare atti negoziali e quelli che chiedono “solo” risposte collettive ai diritti che qualificano l’uso delle città e dei territori;

- perdita del concetto di città - bene collettivo -, attraverso la soppressione del principio che impone una quantità di aree pubbliche destinate a servizi;

- mantenimento di una settorialità di approccio al tema del governo del territorio, che non pone con forza la “tutela dei beni storico-architettonici e del paesaggio” tra i principi fondanti della Legge stessa, né lo addita come strumento per coinvolgere le collettività locali, protagoniste consapevoli della tutela dei valori comuni.

……Il piano urbanistico deve tornare ad essere lo strumento fondamentale per assicurare la preminenza dell’interesse pubblico rispetto a quello del mercato, che può e deve essere da esso guidato. L’adozione di procedure di tipo prestazionale deve far considerare ogni intervento non soltanto in rapporto ai riflessi diretti ed immediati, ma in rapporto agli assetti complessivi della città.

L’Istituto non può rimanere silente: deve mettere nel proprio programma una solida riflessione sulla stagione che ci attende, additando l’urbanistica come strumento per comprendere ed indirizzare i mutamenti che investono le nostre città e territori. Non può accettare che l’urbanistica resti esclusa dalla competizione culturale, relegata ad una dimensione prettamente tecnica, separata dalla cultura ambientale e da quella architettonica, alle quali è affidata la sopravvivenza di una sensibilità per l’uso del territorio…… (Giuseppe Abbate, Imma Apreda, Roberta Angelini, Piergiorgio Bellagamba, Teresa Cannarozzo, Piero Cavalcoli, Alessandro Dal Piaz, Luisa De Biasio Calimani, Umberto De Martino, Rosalba D’Onofrio, Roberto Gambino, Maurizio Garano, Tommaso Giura Longo, Daniele Iacovone, Manlio Marchetta, Walter Meneghelli, Loredana Mozzilli, Mauro Parigi, Antonio Perrotti, Camillo Pluti,Bernardo Rossi Doria, Domenico Santoro, Massimo Sargolini, Giulio Tamburini, Alessandro Tutino, Maria Rosa Cittadini, Livio Viel).

[5] V. Maria Cristina Gibelli (cura di), La controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge "Principi in materia di governo del territorio". Contributi di Roberto Camagni, Luca De Lucia, Vezio De Lucia, Antonio di Gennaro, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Paolo Urbani; Firenze, Alinea Editrice, 2005. Era presente il senatore Cesare Salvi (DS), vice presidente del Senato, che, dopo avere ascoltato gli interventi, ha detto di condividere le contestazioni e ha assicurato un impegno politico conseguente.

[6] Questa disposizione è stata in assoluto la più contestata e il commento più diffuso è stato quello di escludere del tutto la negoziazione dalla fase di impostazione dei piani, ma di farvi ricorso solo nella fase attuativa. Anche i vertici dell’INU hanno preso le distanze dalla formulazione contenuta nel ddl.

[7] V. Luca De Lucia La perequazione nel disegno di legge sui “Principi in materia di governo del territorio” in Maria Cristina Gibelli (a cura di), La controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge "Principi in materia di governo del territorio", op. cit.

[8] V. Simone Ombuen Elementi per la valutazione del Progetto di Legge statale per il governo del territorio, Seminario INU del 15 settembre 2005 “Un nuovo passo per la riforma urbanistica” (mimeo).

[9] Gibelli cita due leggi recentissime emanate in Francia e Spagna: la legge “Solidarité et rénouvellement urbains” approvata in Francia nel 2000, durante il governo Jospin, e la Ley de urbanismo para el fomento de la vivienda asequible, e la sostenibilidad territoriale y de la autonomìa local approvata dal governo socialista catalano nel 2005 sottolineando la distanza abissale di queste leggi dall’ipotesi di riforma urbanistica proposta in Italia. Si tratta infatti di leggi che affrontano alcun problemi che sono cruciali anche per il nostro paese: l’eccessivo consumo di suolo, la crescente doppia velocità urbana, la debolezza della pianificazione di area vasta, etc, e che propongono con coerenza principi volti a dotare i poteri pubblici dei nuovi strumenti necessari per orientare l’attività di pianificazione in difesa dell’interesse generale e, in particolare, per la razionale utilizzazione delle risorse territoriali e la solidarietà sociale. Entrambe le leggi introducono alcune innovative regole non contrattabili in materia di sostenibilità e di risposta alla domanda abitativa dei gruppi più deboli. Cfr. Introduzione di Maria Cristina Gibelli alla presentazione del volume La controriforma urbanistica, Roma, 15 dicembre, ex-albergo Bologna.

[10] Per una puntuale trattazione del tema relativamente ai “principi fondamentali” di competenza statale” e al governo del territorio di competenza regionale rinvio al contributo del giurista Paolo Urbani Osservazioni sul testo di riforma in materia di principi fondamentali del governo del territorio, in Maria Cristina Gibelli (a cura di), La controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge "Principi in materia di governo del territorio", op. cit.

[11]Edoardo Salzano Relazione al convegno “Elementi imprescindibili di una legge urbanistica regionale”, Gruppi consiliari regionali Verdi, Rifondazione conunista, Comunisti italiani, Torino, 21 gennaio 2006; pubblicato su eddyburg il 22.01.2006.

Firenze, 15 dicembre 2005, sala Foresteria del palazzo della Giunta Regionale, via Cavour 18, ore 17.30

In sala due assessori regionali, buona parte dei docenti di Urbanistica e Pianificazione della Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, consiglieri regionali, sindaci, assessori, ricercatori e studenti.

Riccardo Conti (assessore regionale al Territorio e alle Infrastrutture) apre la presentazione ponendo innanzitutto “un tema di carattere politico: c’è stata una sufficiente mobilitazione, innanzitutto culturale, delle forze che si sono opposte al progetto di legge Lupi? C’è stato un fronte, quello delle Regioni e dei Comuni.” Qual è la ragione di ciò?

Le problematiche urbanistiche e di governo del territorio sono sfumate dall’agenda politica nazionale anche perché passate alla competenza delle regioni. Il “modello urbanistico lombardo” (sarebbe un errore non riconoscerlo come tale) nel quale le analogie con il modello liberistico/solidaristico applicato alla sanità sono drammatiche in quanto non c’è mai un punto fermo programmatorio di tipo strategico che non sia il prodotto della negoziazione, è stato assunto dal governo nazionale come riferimento. Alcuni precedenti negoziali sono penetrati anche nella mentalità della sinistra: programmazione contrattata, patti territoriali, accordi di programma ecc.

Il problema deriva dal fatto che lo scambio tra esperienze regionali e riflessioni nazionali s’era bloccato, a fronte di un evidente bisogno di riforma, a partire dal mutato rapporto Stato-Regioni-Enti locali, anche nel governo del territorio. L’epoca è matura per una riforma di insieme: far emergere dal basso come regioni un progetto di riforma. Come Regione Toscana abbiamo avuto 64 contenziosi in Corte Costituzionale contro il governo centrale, tutti vinti dalla Regione. Ma questo non è governare. Il territorio non può essere variabile dipendente, ma un valore patrimoniale anche ai fini delle politiche di sviluppo.

Non penso a una legge che possa essere “modello” per le leggi regionali: in una prospettiva autenticamente federalista, la regione Lombardia deve poter applicare il suo modello, noi il nostro. Che cosa dovrebbe dunque fare una legge statale?

- attivare una cultura federalistica, cooperativa, non gerarchica e solidale che consenta una articolazione fra le diverse realtà, inquadrandole in alcuni requisiti di fondo: quadri conoscitivi, regole, statuti del territorio;

- unificare e dare regole ai diversi interventi settoriali dello Stato;

- superare la separatezza tra istituti di tutela e istituti di gestione;

- arrivare al “se” dopo avere affrontato il “come”;

- dare strumenti di regolazione dell’esercizio dei diritti di proprietà: noi, nella situazione attuale, siamo tutti pianificatori disarmati.

Anche a tal fine, penso andrebbe recuperato il ruolo che l’Istituto Nazionale di Urbanistica ha svolto per decenni, ultimamente venuto meno.

Alberto Magnaghi (Università di Firenze, Presidente Rete del Nuovo Municipio) dopo aver ricordato le due anime del libro, una più aperta alla necessità di innovare, l’altra più difensiva degli strumenti tradizionali della pianificazione, pone alcune domande:

perché i progetti di legge INU (1995), Turroni (1996), Lorenzetti (1999) si sono persi senza che il governo nazionale di centro-sinistra sia riuscito a fare una legge?

perché questa inerzia è stata accompagnata da un processo di liquidazione dei beni comuni in tutte le Regioni, Toscana compresa?

perché non si prende posizione sulla tendenza d’insieme, in Italia, a spostarsi dagli investimenti produttivi a quelli immobiliari, di rendita?

Questo disegno non è isolato: fa parte del sistematico percorso di “liberazione” dei soggetti economici di mercato dal territorio e dall’ambiente intesi come beni comuni non negoziabili e non mercificabili. I condoni edilizi come istigazione a delinquere, la vendita dei beni pubblici demaniali per far cassa, la liquidazione per decreto di anni di legislazioni ambientali, la aziendalizzazione dei servizi pubblici, il taglio della finanza locale che costringe i comuni ad allearsi nel consumo di suolo col blocco immobiliarista per sopravvivere (oneri di urbanizzazione ed ICI), sono i contesti di desolidarizzazione che questo disegno di legge santifica come principi generali di governo del territorio.

Ma il dibattito intorno a questa controriforma richiede un salto in avanti nelle proposte della sinistra. Lo stato dell’arte del territorio italiano, il degrado delle periferie e degli spazi pubblici, la diffusione selvaggia delle urbanizzazioni “legali” di bassa qualità, i gravi squilibri ambientali, le devastazioni paesistiche, non datano dal governo Berlusconi, ma fanno parte di una cultura del territorio che lo ha visto come mero strumento della crescita economica identificata con il benessere. Da tempo questa identificazione è saltata: la qualità degli ambienti di vita, degli spazi pubblici, dei beni comuni e relazionali, dei processi partecipativi; la valorizzazione dei giacimenti patrimoniali locali come elementi fondamentali per la produzione di ricchezza durevole, sono diventati elementi fondativi del benessere e del ben vivere. Il territorio e il suo governo diventano momenti centrali della costruzione del benessere; una nuova legge nazionale dovrà fondarsi sulla valorizzazione di questi cambiamenti in atto nella cultura del territorio.

La discussione di questo instant book assume particolare pregnanza per il dibattito nazionale proprio nei locali della Regione Toscana che, con la legge 1/2005 sul Governo del territorio ha posto alcuni principi fondamentali sulla valorizzazione della qualità territoriale, sul riconoscimento identitario e statutario delle risorse essenziali del territorio come beni comuni, sull’applicazione piena del principio di sussidiarietà e della partecipazione; intesa quest’ultima come modalità fondamentale e necessaria del governo del territorio, tanto che la stessa Regione sta avviando il processo di formazione di una legge ad hoc.

Umberto Allegretti (docente di diritto costituzionale, Università di Firenze) evidenzia come il disegno di legge presenti molti aspetti di incostituzionalità. Sottolinea le convergenze di molti passaggi del libro sul fatto che si riduce il governo del territorio alla disciplina d’uso dei suoli, come se il passaggio da urbanistica a governo del territorio, art.117, non fosse avvenuto e non comportasse il dovere dello Stato di dare principi che inquadrino l’uso dei suoli in una problematica più vasta; principi la cui omissione configura un fatto di l’incostituzionalità, anche a fronte di tutta l’impostazione dell’Unione europea. Per quanto riguarda la possibilità di interventi speciali dello Stato, sono sì previsti all’art.119, ma come risorse aggiuntive, non come intervento diretto nei progetti di rinnovo urbano (negoziati con i privati). Sulla questione degli standard l’incostituzionalità è sfrontata, in quanto è evaso l’obbligo dello Stato di fissare standard minimi. Il silenzio-assenso, ancora, non può diventare un principio generale: sarebbe una rinuncia totale alle competenze e funzioni amministrative.

La diversità tra alcune posizioni del libro è notevole: ma dobbiamo proprio usare il termine negoziazione? Il negoziato giuridico indica vincoli e obbligazioni fra interessi di proprietà, a fronte degli altri interessi. L’art.8 comma 7 chiarisce che gli accordi sono con gli interessi privati (titolari di proprietà). Per i piani operativi posso capire che si arrivi alla negoziazione, ma per il Piano strutturale? Si negozia con i proprietari? Credo dovremmo insistere, nel nostro linguaggio, sulla partecipazione, che non esclude gli “interessati” proprietari o operatori immobiliari, ma riguarda tutti i cittadini. La direttiva europea sulla VAS prevede che la partecipazione anche del pubblico debba intervenire prima dell’adozione delle scelte, superando la concezione delle osservazioni a posteriori, che avvengono dopo l’adozione dei piani. La rivista Democrazia e diritto nel 2003 ha dedicato un fascicolo intero al “sistema Berlusconi”. Quel sistema, che forse richiede di rispolverare il termine “blocco fondiario”, è parte del paese, ahimé.

Ornella De Zordo ( “Un’altra città un altro mondo”, Consiglio comunale di Firenze) nota come questo libro, presentato come instant book, in realtà sia ben più di ciò. Quello che esso delinea è infatti un modello di governo del territorio che va oltre la fase dell’iter legislativo; per questo la sua lettura si rivela assai utile in molti ambiti, non necessariamente specialistici.

Le obiezioni a questa legge, emerge chiaramente dal libro, sono le stesse che molti soggetti, qui a Firenze, hanno mosso al Piano Strutturale in corso di redazione, malgrado l’iter partecipato che lo ha connotato. Non solo noi abbiamo mosso queste critiche, ma la stessa Regione Toscana ha fatto rilievi analoghi (il Comune di Firenze ha utilizzato l’art.25 della LR 5/95, che consentiva l’adozione del piano senza conferenza dei servizi preliminare). Il pericolo che questo “modello” venga adottato anche dal centro-sinistra è dunque ben presente.

Rossano Pazzagli (coordinatore nodo toscano Associazione Rete del Nuovo Municipio) sottolinea che il valore di questo libro non sta solo nella critica alla legge Lupi, ma a un berlusconismo che ha contagiato gran parte del paese, centro sinistra compreso. Come rete del Nuovo Municipio, con i nostri Comuni e le nostre Province si cerca di costruire una modalità condivisa di riconoscimento del territorio come bene comune.

La legge Lupi riflette una fase di decisioni post-democratiche. Con la crisi della rappresentanza in atto, e il sistema delle scelte in mano a lobbies, parlare di urbanistica contrattata oggi è molto peggio di quanto non fosse ieri. E quello che stupisce è il silenzio politico assoluto, cui fanno da contraltare soltanto alcuni enti locali. Dovremmo riaprire questa discussione generale sullo sviluppo: se non si esce dal paradigma della crescita, non si cambia. L’augurio è che la “fabbrica del programma” ne tenga conto.

Claudio Saragosa (Sindaco di Follonica): martedì scorso il libro è stato presentato a Follonica, su invito del Consiglio comunale, da Vezio De Lucia, e in effetti ciò che è emerso è che la legge Lupi ha tanti contenuti non noti ai tanti che potrebbero effettivamente avere buone ragioni per opporvisi. Noi come Comune abbiamo cercato di introdurre negli obiettivi del piano strutturale valori diversi da quelli fondiari, attraverso l’attivazione di processi di partecipazione ex ante (Forum per la città), per le trasformazioni urbanistiche, introducendo i grandi temi multisettoriali con molti attori. Di fronte a questa legge ci sentiamo depredati di un metodo sperimentato, con alto valore pedagogico influente sulle scelte di fondo del piano. Contro questa legge intendiamo deliberare una mozione in consiglio comunale.

Raffaele Paloscia (direttore del Dipartimento di Urbanistica, Università di Firenze): l’articolazione di questa legge assurda è chiara. Io starei attento a dire, come fanno molti, che è una legge liberista: questa legge prevede infatti l’estrazione del plusvalore da parte dello Stato. A chi preferiscono riferirsi Caltagirone e gli altri immobiliaristi per i progetti di rinnovo urbano, dove avvengono le più rilevanti operazioni finanziarie? Allo Stato. Come molti altri provvedimenti, questa legge è un misto di devolution e ricentralizzazione. Se parliamo solo di liberismo, sbagliamo obiettivo.

Monica Sgherri (capogruppo di Rifondazione Comunista in Consiglio regionale) osserva come “anziché esaltarci su quanto avviene in Regione Toscana, dovremmo riconsiderare quanto è avvenuto anche qui”. Ad esempio, il famoso passaggio sul risparmio di suolo (della buona legge regionale n.5/95) ha consentito poi un intervento come quello di Fiat-Fondiaria a Novoli, che non ha una effettiva domanda. Continuano a proliferare interventi che non rispondono a una domanda presente, e come tali “comprano” il futuro. Se già il Comune di Firenze non ha oggi poteri contrattuali sufficienti, rispetto alle grandi trasformazioni messe in moto dai privati, che cosa capiterà ai Comuni più piccoli? E a tutti i Comuni con questa nuova legge? Lo stesso non-consumo di suolo apre un mercato delle possibili dismissioni (ad esempio, ospedali: nuovi interventi di interesse collettivo su aree agricole, e riuso per interessi privati delle aree dismesse). C’è un’assenza di codice che indichi l’interesse collettivo. Credo che nell’urbanistica si sia aperta la frattura più ampia fra rappresentanti e rappresentati. Proprio nell’urbanistica manca il terzo soggetto, ovvero quando si va a trasformare il territorio, insieme all’amministrazione pubblica e al privato, ci sia anche il terzo soggetto che misura la qualità della vita e i bisogni dei cittadini, entrambi con la q piccola e la b piccola del quotidiano e delle sue difficoltà.

Giorgio Pizziolo (docente di urbanistica, Università di Firenze) si dichiara d’accordo nel rilevare l’assenza totale dell’interesse pubblico: nella legge Lupi, ma anche nelle pratiche attuali di trasformazione del territorio. Territorio che va considerato come soggetto vivente. In Toscana si predica bene ma si razzola male: il caso di Firenze è tragico, ma in molti casi la negoziazione è l’unica pratica di fatto. La densità dei comitati in cui la popolazione si organizza è un indicatore di come vengono compiute le scelte.

Anna Marson, data l’ora ormai tarda, rinuncia alle conclusioni previste per dare spazio all’intervento di Gamberini. Prima di passare la parola, richiama tuttavia due questioni.

La necessità e l’urgenza, se l’amministrazione regionale toscana ritiene di avere un modello e un’esperienza diversa (da quella negozial/liberista proposta dalla legge Lupi) da proporre alla riflessione innanzitutto politica del centro-sinistra nazionale, che essa stessa si faccia parte attiva nel sollecitare e promuovere con urgenza un dibattito sul governo del territorio.

L’apporto che questa riflessione sulla legge Lupi può dare a migliorare la stessa legge regionale toscana n.1/05 sul governo del territorio, o i suoi strumenti applicativi. Più in particolare: l’introduzione come obiettivo del consumo zero di suolo e una più attenta considerazione dei carichi urbanistici derivanti dal riuso delle aree già urbanizzate; sviluppare principi di coesione sociale e territoriale nella definizione operativa delle forme di compensazione intercomunale (già previste dalla legge) dei costi e benefici derivanti dai nuovi interventi; la sperimentazione di strumenti operativi per applicare il principio dell’interesse collettivo contro la rendita; la sperimentazione di nuovi standard urbanistici.

Marco Gamberini (dirigente settore Pianificazione, Regione Toscana) annuncia il fatto che si sta lavorando a una proposta di legge nazionale sul governo del territorio di iniziativa delle Regioni. La legge Lupi è infatti innanzitutto una legge arretrata: considera le infrastrutture, gli interventi speciali ecc. come qualcosa di esterno e diverso dal governo del territorio, esternalizzando ogni forma di controllo sui beni di interesse collettivo. E il governo del territorio allora cos’è? Noi abbiamo degli esempi, in Toscana, nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale di Prato così come nel Piano Strutturale di Follonica, di come il governo del territorio possa tenere insieme i diversi aspetti settoriali in un processo unitario di elaborazione e di decisione. In questa legge non c’è inoltre né partecipazione né valutazione. Tutto l’interesse collettivo è spostato altrove, fuori da quanto disciplinato da questa legge. Forse questa legge non sarà approvata, Ma è comunque necessario riprendere la riflessione su tutta questa materia, usando a tal fine anche l’attuazione della legge

Roma, 15 dicembre, ex-albergo Bologna: presentazione del volume su La controriforma urbanistica, pubblicato da Alinea, Firenze.

Ne discutono, con attenzioni diverse, ma con valutazioni unanimemente critiche nel merito della legge Lupi, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Vittorio Emiliani, Maria Cristina Gibelli, Cesare Salvi, Patrizia Sentinelli, e Sauro Turroni

La sala è affollatissima di urbanisti, esponenti del mondo della cultura e della politica, amministratori.



M.G. Gibelli, che ha coordinato il volumetto, sottolinea le preoccupazioni da cui ha avuto origine la rapidissima messa a punto della pubblicazione: l’improvvisa accelerazione parlamentare su una legge urbanistica stesa in una forma approssimativa sotto molti aspetti; la disattenzione della stampa; il tentativo di far passare questa legge come bipartisan.

Ma è il clima generale in cui si è sviluppato il dibattito sulla legge Lupi uno dei motivi di maggiore preoccupazione per gli autori del volume collettaneo.

A questo aspetto Gibelli dedica alcune riflessioni introduttive. Sembra infatti che attualmente “un nuovo spettro si aggiri per l’Italia”: si tratta dello spettro del piano che non soltanto viene spesso evocato dalla maggioranza di centro-destra, e in particolare dall’onorevole Lupi, come il principale responsabile del “fallimento” delle nostre città, ma che sembra turbare i sonni anche di molti urbanisti.

In realtà, sottolinea Gibelli, siamo di fronte alla ennesima anomalia nazionale: in giro per l’Europa, lo spettro del piano non sembra incutere soverchio timore; anzi, si sta assistendo ad un rinnovato impegno riformatore e ad un deciso ritorno alle regole, dopo le esperienze deregolative degli anni ‘80/primi anni ’90: anche se le regole vengono ovunque riattualizzate sulla base delle problematiche e delle sfide emergenti.

Gli esempi non mancano. Traendo spunto da due leggi recentissime (la legge “Solidarité et rénouvellement urbains” approvata in Francia nel 2000, durante il governo Jospin, e la Ley de urbanismo para el fomento de la vivienda asequible, e la sostenibilidad territoriale y de la autonomìa local approvata dal governo socialista catalano nel 2005), Gibelli sottolinea la distanza siderale di queste leggi dalla “via italiana” alla riforma urbanistica. .

Si tratta infatti di leggi che affrontano alcun problemi che sono cruciali anche per il nostro paese (l’eccessivo consumo di suolo, la crescente doppia velocità urbana, la debolezza della pianificazione di inquadramento di area vasta,…), e che propongono con coerenza principi volti a dotare i poteri pubblici dei nuovi strumenti necessari per orientare l’attività di pianificazione in difesa dell’interesse generale e, in particolare, per la razionale utilizzazione delle risorse territoriali e la solidarietà sociale. Entrambe le leggi introducono alcune innovative regole non contrattabili in materia di sostenibilità e di risposta alla domanda abitativa dei gruppi più deboli.

La legge Lupi, in evidente controtendenza con quanto sta avvenendo in Europa, sancisce invece un solo principio: la rinuncia al ruolo pubblico come garante del bene collettivo, e il primato del privato (poiché privilegia un modello negoziale senza regole, elitario, corporativo e non trasparente).

Prende poi la parola Vittorio Emiliani (giornalista) che sottolinea come nella Legge Lupi, così come in altre leggi e provvedimenti recentemente approvati, o in corso di approvazione (quali la scandalosa legge delega in materia di ambiente; la vendita delle spiagge demaniali ai privati, concedendo gli arenili pubblici più intatti a chi vi costruirà grandi alberghi contenuta in Finanziaria; il colpo basso inferto alla Legge Merloni in materia di garanzie di concorrenzialità e di trasparenza negli appalti, contenuto nel decreto legislativo che dovrà essere approvato entro il 31 gennaio prossimo) si materializzi un lucido e perverso progetto: non certo di semplificare e flessibilizzare in direzione virtuosa il processo decisionale in materia urbanistica e di pianificazione, ma di affidare il governo del territorio a pochi, grandi detentori di aree, in aperta contraddizione con le moderne esigenze di un capitalismo avanzato.

I dati sui consumi di suolo sono per Emiliani l’indicatore più allarmante: dagli anni ’50, abbiamo consumato, ricoprendolo di cemento, quasi il 40 per cento della superficie non urbanizzata al 1951; superiamo i 100.000 e talora i 200.000 ettari all’anno (un ritmo come minimo doppio di quello tedesco, il quale si attesta sui 47.000 ettari l'anno).

E la legge Lupi, che esalta le opportunità di nuova urbanizzazione, se approvata è destinata ad accelerare questa tendenza perversa.

Paolo Berdini (urbanista) ritorna sul tema dei poteri forti e della esplosione della rendita, citando dati ANCE: dal 1998 al 2005 il valore degli immobili è cresciuto del 60%; e le responsabilità del governo Berlusconi sono state gravissime. Berdini cita lo scudo fiscale che ha consentito il rientro di 70.000 miliardi di lire, reinvestiti ampiamente nel settore immobiliare, in particolare dopo l’attentato alle torri gemelle; la vendita sistematica del patrimonio pubblico e degli enti previdenziali che ha prodotto l’esodo forzato di 300.000 famiglie dalle città; l’infinita serie di condoni, non solo edilizi; il decreto sulla competitività che introduce la possibilità di aumenti di cubatura. La demolizione della pianificazione e il premio al malaffare vanno insieme, conclude Berdini, e il ritorno alle regole, anche se più trasparenti e snelle, dovrà costituire un impegno prioritario del centro-sinistra.

Vezio De Lucia, urbanista e uno degli autori ospitati nel volumetto, ripercorre le tappe più significative dell’urbanistica post-bellica: dalla legge urbanistica del 1942 alle riforme realizzate negli anni del primo centro-sinistra, quando si definirono alcune regole fondamentali per il governo del territorio. Si sofferma poi su alcuni contenuti particolarmente nefandi della proposta Lupi: l’incentivo insensato a favore di ulteriori consumi di suolo (Art. 6, comma 5); l’abrogazione degli standard urbanistici; la separazione della tutela, riservata allo Stato, dall’ordinaria attività di pianificazione comunale .

La parola passa ai politici.

Cesare Salvi, vicepresidente del Senato, dichiara immediatamente di considerare la legge Lupi non emendabile, poiché tira le fila del peggio di un’onda lunga di restaurazione (iniziata con la stroncatura della Legge Sullo) che nel nostro paese ha senza tregua trasferito risorse imponenti a favore della rendita parassitaria.

Patrizia Sentinelli, della direzione del PRC, fa un intervento appassionato: elogia l’iniziativa collettiva che ha reso possibile il volumetto su “La controriforma urbanistica” poiché ha colmato un preoccupante vuoto di riflessione critica e sottolinea in particolare l’alibi fornito alle amministrazioni locali dal taglio drastico delle risorse finanziarie. A fronte di risorse sempre più scarse, le amministrazioni in difficoltà hanno scelto la strada della privatizzazione dei servizi pubblici e della perequazione urbanistica.

La Legge Lupi, anche se non verrà approvata, sottolinea Sentinelli, va analizzata anche per il “dopo”, poiché legittima un disegno perverso che si è manifestato anche in alcune leggi urbanistiche regionali già approvate o in alcune proposte attualmente in discussione (il riferimento va alla legge del Lazio). Si tratta di leggi che introducono il principio dello “scambio di cubatura”: un principio perverso, destinato a peggiorare la vita dei cittadini.

In questo senso la battaglia contro la legge Lupi costituisce un momento di importanza fondamentale per la politica.

Conclude Sauro Turroni (Senatore e Vicepresidente dalla Commissione Territorio, ambiente, beni ambientali) che riferisce dei lavori della Commissione, delle audizioni in corso e della possibilità che i tempi tecnici impediscano di arrivare all’approvazione della legge Lupi durante la legislatura.

Due sono le considerazioni avanzate da Turroni: la prima è che la Legge Lupi affonda le sue radici in anni relativamente lontani. Il riferimento è alla legge 142/1990 che ha legittimato gli accordi di programma come metodo ordinario di governo del territorio; la seconda riguarda la propensione a “fare cassa” che condiziona le politiche urbanistiche comunali. E’ con l’ introduzione del principio di autoapprovazione dei piani urbanistici locali, che ha interpretato in maniera opportunista, localista, di malinteso federalismo il principio di sussidiarietà, che tale propensione a “fare cassa” ha prevalso sui temi cruciali del cauto consumo delle risorse territoriali e della coesione sociale.

Mentre si svolge l’incontro, Turroni riceve una telefonata: il governo ha approvato l’ennesimo condono edilizio (questa volta per le proprietà delle Ferrovie dello stato)…

DISEGNO DI LEGGE A.S. 3519 PER GOVERNO DEL TERRITORIO - AUDIZIONE DEL 22/11/2005 DELLA 13° COMMISSIONE PERMANENTE DEL SENATO SUL DISEGNO DI LEGGE A.S. 3519 CONCERNENTE “PRINCIPI IN MATERIA DI GOVERNO DEL TERRITORIO” - INTERVENTO DI RODOLFO BOSI A NOME DI VAS [...]

[per problemi tecnici è stato sinora impossibile inserire qui le Osservazioni Generali (di cui il titolo dell'articolo è una citazione testuale) per cui faccio riferimento al sito VAS-Online; di seguito le proposte di modifica (f.b.)]

PROPOSTE DI MODIFICHE ED INTEGRAZIONI

Articolo 1

Si propone di invertire al comma 2 il secondo periodo con il primo, al fine di far diventare prioritario il concetto che il governo del territorio comprende l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, a cui sono subordinate o comunque propedeutiche le attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi.

Articolo 2

Si propone di dare al "piano strutturale", previsto alla lettera e), la seguente definizione:

"piano urbanistico con disposizioni aventi validità a tempo indeterminato, relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio, alla definizione delle linee fondamentali e preesistenti di organizzazione del territorio ed alla indicazione delle trasformazioni strategiche comportanti effetti di lunga durata".

Si propone di dare al "piano operativo", previsto alla lettera f), la seguente definizione:

"piano urbanistico con disposizioni riferite ad archi temporali determinati, dirette alla definizione specifica delle azioni e delle trasformazioni fisiche e funzionali da realizzare e costituenti riferimento per la programmazione della spesa pubblica nei bilanci annuali e pluriennali".

Articolo 5

Si propone di sostituire il periodo del 4° comma da “prioritariamente” ad “atti autoritativi” con il seguente:

"mediante atti autoritativi da perseguire anche con l’adozione di atti negoziali".

Articolo 6

Si propone di integrare il comma 1 con l’espressione seguente:

", da esercitare nel rispetto del piano territoriale regionale e del piano territoriale di coordinamento provinciale".

Si propone di integrare il comma 3 inserendo, dopo il termine “piani paesaggistici”, l’espressione seguente:

"nei piani di assetto delle aree naturali protette e nei piani di bacino".

Si propone di sostituire il comma 7 con il testo seguente.

"La pianificazione urbanistica è attuata mediante disposizioni strutturali e disposizioni operative. Il piano strutturale definisce il quadro generale della tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio e non ha efficacia conformativa della proprietà. Gli atti di contenuto operativo, comunque denominati, stabiliscono le modalità ed i tempi di attuazione delle disposizioni strutturali e disciplinano il regime dei suoli ai sensi dell’articolo 42 della Costituzione"

Articolo 7

Si propone di integrare il comma 1 inserendo, dopo il termine “pubblico o generale”, il testo seguente:

"nel rispetto delle quantità minime stabilite dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444,"

Articolo 8

Si propone di integrare il comma 6 aggiungendo, dopo l’espressione “piani territoriali o di settore”, il seguente testo:

"fatte salve le parti invarianti dei piani strutturali relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio,".

Articolo 9

Si propone di cancellare dal comma 2 il termine “e compensativi”.

Si propone di sostituire il periodo iniziale (“La perequazione di realizza”) con il testo seguente:

"In alternativa all’indennizzo monetario previsto per la procedura di espropriazione, si può realizzare la perequazione,"

Si propone di abrogare il comma 5.

Articolo 11

Si propone di integrare il comma 1 inserendo, dopo l’espressione “22 gennaio 2004, n. 42”, il testo seguente:

"nonché dei piani di assetto delle aree naturali protette e dei piani di bacino,".

Articolo 13

Si propone di abrogare le lettere d) e g) del comma 1.

Si propone altresì di abrogare il comma 4.

Roma, 22 novembre 2005

Alla fine li chiameremo “gli anni della rendita”: dei tassi bassi e del mattone alto, delle scorrerie dei ricucci e soci, del grande gioco immobiliare che è dilagato dai vertici della piramide giù giù fino al piccolo risparmiatore. Gli anni nei quali gli imprenditori hanno venduto i macchinari per speculare sui terreni e i grandi gruppi hanno mischiato gomma e cemento, treni e palazzi, occhiali e caseggiati. Gli anni di quello che ha cominciato per primo, a colpi di case e pubblicità.

C’è poco da stupirsi, dunque, se questi anni chiudono e culminano con una legge che - per usare le parole dell’urbanista Edoardo Salzano - “privatizza l’urbanistica”. Cioè “pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contrastare: quelli della proprietà immobiliare”. E’ una vera e propria “controriforma urbanistica”, come recita il titolo del libro-pamphlet con il quale un gruppo di urbanisti cerca di rompere il silenzio e intralciarne il cammino. Votata dalla camera, in commissione al senato, la cosiddetta “legge Lupi” (dal nome di Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia, area Compagnia delle Opere, già assessore all’urbanistica a Milano e iniziatore del modello ambrosiano dell’”urbanistica contrattata”) porta il pomposo titolo “principi in materia di governo del territorio “. Principi che usano nomi suadenti: sussidiarietà invece che centralismo, atti negoziali in luogo di atti autoritativi.

Non lasciatevi ingannare dalla forma, dicono Salzano e gli altri autorevoli urbanisti e giuristi che scrivono nel libro (Roberto Camagni, Luca De Lucia, Vezio De Lucia, Antonio Di Gennaro, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Luigi Scano, Paolo Urbani): il cardine della nuova legge è l’ingresso degli interessi privati nel governo del territorio. Bella novità, si dirà, pensando a Rosi e ad Agrigento e a Milano 2.

Ma la novità c’è, ed è nel fatto che gli interessi privati siedono per legge nella stanza dei bottoni, ossia della pianificazione: che non dovrà avvenire con atti autoritativi, bensì con atti concordati. Gli altri principi, coerentemente, completano l’opera: fine degli standard urbanistici, quella cosa per cui ogni cittadina/o nasceva con un tot di diritti di verde, strade, scuole, etc. Al loro posto, “dotazioni territoriali “ da decidere regione per regione, flessibili e contrattabili, io ti dò cubature a sud-est e tu mi fai un giardinetto a nord-ovest. E ancora: silenzio-assenso per il permesso di costruire - se il comune non risponde entro un tot, via con le ruspe. Il tutto perché il suolo è fatto per essere edificato, e l’intero corpo della legge incentiva le nuove edificazioni, dà ruolo e valore ai soggetti protagonisti del business del momento (e di sempre: la rendita), chiude definitivamente il capitolo di un’urbanistica che - ricorda Salzano - non è socialista né comunista né moralistica né anticapitalista ma è dettata dall’esigenza “di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato di un bene comune”.

Ma c’è qualcosa di peggio di quest’incubo, ben descritto da Vezio De Lucia che sotto il titolo “i peggiori anni della nostra vita” elenca nomi e date degli anni della riforma (‘55-’80: Sullo, Mancini, Bucalossi) e quelli della controriforma (‘80-2005: Prandini, Craxi, Berlusconi, Radice, Tremonti, Lunardi). Il peggio è il silenzio in cui la controriforma cade, silenzio che a volte è un imbarazzo e a volte è davvero un assenso: ripetuti nel libro gli attacchi al centrosinistra e a una parte dell’accademia degli urbanisti, il primo indeciso tra consenso, logica emendativa e (poca) opposizione alla legge, la seconda spesso accodata con entusiasmo al carro dell’urbanistica contrattata.

Il sasso è lanciato, il pamphlet è scagliato sui sonnolenti lavori parlamentari. Qualcuno risponderà?

Cà Tron, sede della facoltà di Pianificazione del territorio dell’Università IUAV di Venezia, ore 15.30

Introduzione di Edoardo Salzano; Cesare De Piccoli, Gianfranco Vecchiato, Luca Romano e Diego Bottacin ne hanno discusso con gli autori Luigi Scano e Anna Marson. Interventi di Augusto Cusinato, Stefano Boato, Francesco Indovina, Maria Rosa Vittadini.

Pubblico insolitamente numeroso, per la presentazione di un libro di argomento apparentemente così ostico: studenti, docenti, funzionari pubblici, architetti, oltre ai discussant invitati e agli autori presenti. L’aula trabocca di persone, molte in piedi, che resistono per ore.

Edoardo Salzano introduce. Sottolinea tre aspetti della legge, che non riguardano l’urbanistica ma la politica, l’economia, i diritti. (1) Dall’inizio dell’XIX secolo i regimi liberali e liberisti si sono resi conto che il mercato non risolveva alcuni problemi e ne hanno affidato il governo alla mano pubblica: tra questi, le trasformazioni urbane. E' nata così la pianificazione urbanistca, rigorosamente gestita dall’autorità pubblica. Con la Legge Lupi ci compie un rovesciamento completo di questa impostazione e si affida l’urbanistica agli interessi privati, cioè – in Italia – agli interessi immobiliari. (2) Grazie a questa sua scelta, la Legge Lupi provoca un forte rafforzamento della componente parassitaria e premoderna del processo di formazione del reddito: la rendita immobiliare. Il prevalere della rendita (immobiliare e finanziaria) è già fortissimo in Italia, ed è una causa importante del declino economico del paese. La legge Lupi rafforza pesantemente questa perversa tendenza. (3) Gli standard urbanistici sono stati un diritto per tutti i cittadini italiani conquistato grazie a movimenti di massa, sperimentazioni politico-amministrative e innovazioni culturali significative negli anni del primo centrosinistra. La Legge Lupi cancella questo diritto affidandone la gestione alle Regioni e al mercato. Salzano conclude dicendo che è il silenzio della politica sulla gravità dell’impianto della Legge Lupi sotto il profilo economico, politico e dei diritti che ha spinto a pubblicare il libro.

Cesare De Piccoli (responsabile infrastrutture segreteria nazionale DS) dichiara che la “stagione d’oro” degli anni ’70 è passata da tempo, e che è fondamentale prenderne atto: il prevalere dell’interesse economico è ormai dilagante; i piani urbanistici sono stati disattesi; l’economia si è ri-orientata sulla rendita immobiliare; l’urbanistica ha perso visibilità anche all’interno dell’accademia, dove conta ormai di più l’ambiente o il segno architettonico; la politica sempre più è diventata amministrazione, e il consenso somma degli interessi particolari.

Ricostruzione indubbiamente arguta, nella quale tuttavia responsabilità della politica e responsabilità di quanti praticano la disciplina dell’urbanistica tendono a confondersi eccessivamente. Se è vero che tutti noi urbanisti siamo anche attori politici, il ri-orientamento dell’economia nazionale verso la rendita immobiliare, piuttosto che la priorità data agli interessi puntuali e a breve termine sono senza dubbio responsabilità maggiore di chi ricopre ruoli politici più significativi dei nostri.

Responsabilità che si giocano anche nelle scelte urbanistiche puntuali, come ricorda Gianfranco Vecchiato (assessore all’urbanistica del Comune di Venezia) citando l’aumento di popolazione e quindi di volumi edificati previsto a Venezia al 2010 (+ 33.000 abitanti), e la domanda di qualità urbanistica che gli standard non garantiscono ma aiutano a raggiungere nelle trattative con i privati proprietari dei terreni in un contesto, come quello italiano, nel quale l’interesse pubblico non è supportato da strumenti operativi adeguati.

Luca Romano (agente di sviluppo territoriale), dopo essersi presentato come vittima della disinformazione relativa a questo progetto di legge, della quale nulla sapeva prima di essere invitato a questa discussione, nota come nel modello di urbanizzazione diffusa il concetto di interesse pubblico rimandi a quello di accessibilità (ai servizi, alla conoscenza, al lavoro), ma come il governo del territorio che dovrebbe darvi risposta richieda un’idea di sviluppo come guida. E se oggi l’idea è quella dello sviluppo locale, inteso come messa in relazione e circuito delle diverse vocazioni dei territori (agricoltura, turismo, saperi ecc.). essa richiede una pianificazione urbanistica che sia in grado di dare corpo a questo intreccio. Cosa che questa legge non soltanto non facilita, ma addirittura impedisce.

Diego Bottacin (consigliere regionale Margherita-Ulivo) invita a “togliere ogni nostalgia dal campo”, ricordando che nei tredici anni trascorsi come Sindaco di Mogliano non ha mai pensato di procedere al governo delle trasformazioni urbane con una Variante generale al PRG. Non solo, ma “le uniche trasformazioni che hanno funzionato su questo territorio sono quelle fatte in barba alla strumentazione urbanistica classica”. Dunque, è necessario prendere atto che il sistema di pianificazione urbanistica vigente non funziona, essendo basato su di un pregiudizio ostile alla capacità delle comunità locali di generare decisioni virtuose. Ciò che ha finora prodotto è il fallimento della pianificazione sovra-locale e la de-responsabilizzazione delle comunità locali. Se le uniche trasformazioni ammissibili sono oggi quelle che costituiscono l’esito della negoziazione, vanno specificati i limiti e le procedure che garantiscano trasparenza alla negoziazione stessa (anche se non basta una buona legge a garantire una buona urbanistica).

Forse, verrebbe da replicare, non è tutto così semplice, dal momento che la negoziazione coinvolge raramente (o mai?) le comunità locali, e sovente i soli sindaci o i sindaci e le rappresentanze di alcuni interessi economici. Una maggiore responsabilizzazione delle comunità locali è senza dubbio decisiva, così come lo sono procedure che garantiscano gli interessi diffusi e di lungo termine contro gli interessi predatori a breve.

Le provocazioni dei relatori scatenano le reazioni di molti fra i presenti.

Augusto Cusinato ricorda che l’urbanistica è sempre stata contrattata. Solo che gli attori erano pochi e riconoscibili. Di quel modello non sta oggi più in piedi neppure il linguaggio, che richiede di essere innovato. E tuttavia, per continuare a usare il linguaggio che abbiamo, i compiti dell’urbanistica rimangono ancor oggi la produzione di beni pubblici e il controllo della rendita.

Ma non è più chiaro cosa sia l’interesse pubblico, dichiara Stefano Boato: tutte le operazioni degli ultimi 15 anni sono operazioni immobiliari guidate da logiche aziendali. I Comuni battono moneta aprendo la contrattazione su tutte le aree. A fronte di questa situazione i veri problemi sono oggi quelli della vivibilità e della tutela ambientale.

Ma chi può garantire che questi problemi acquistino la priorità necessaria? Anche i progetti di legge presentati dal centro-sinistra in materia di governo del territorio non andavano bene, sottolinea Francesco Indovina: la contrattazione dovrebbe infatti seguire la pianificazione, non precederla. Il problema è ce, come dice Bottacin, una legge non basta. Ciò che ci vorrebbe, e non c’è, è l’interesse comune: si riescono a fare le operazioni immobiliari, ma non gli interventi di interesse comune come una strada, un inceneritore o quant’altro. Ma poi bisognerebbe anche riflettere maggiormente sulla scarsa rilevanza dei piani comunali, e sulla rilevanza della pianificazione d’area vasta. Il problema del controllo della rendita è un problema di governo, non può essere demandato alla contrattazione.

Maria Rosa Vittadini cita la Val di Susa quale esempio di come si prendono le decisioni di interesse collettivo, etichettando “interesse collettivo” scelte inadeguate che corrispondono soltanto ad alcuni interessi individuali e non collettivi.

A Gigi Scano e Anna Marson l’arduo compito di tentare delle conclusioni.

I PdL Mantini e Lupi, ricorda Gigi Scano , avevano grosso modo gli stessi contenuti. Non si può in effetti che sottolineare come, dagli anni ’70 in poi, vi sia stato un vero e proprio crollo della cultura di governo. L’attuale cultura di governo trascura ciò che gli economisti liberali classici avevano già chiarito nel secolo XIX, ovvero il fallimento del mercato nel garantire la produzione e la riproduzione dei beni comuni. Se non il mercato, che cosa può garantire questi beni? La “decisionalità politica democratica”, ovvero la pianificazione se non la programmazione. Quando parliamo di contrattazione e negoziazione, dovremmo chiederci almeno che cosa si negozia: le regole o le compensazioni? E con chi? Con il solo proprietario del bene immobile? L’attuale prassi di governo ha buttato a mare secoli di cultura sviluppata in difesa degli interessi collettivi.

Il governo del territorio necessita di due dimensioni, una politica e una tecnica, osserva Anna Marson. Entrambe devono fare la loro parte, perché il governo funzioni, ma certo la dimensione tecnica o accademica non può supplire quella politica, se questa viene meno o si svende ad alcuni interessi di parte. Il contesto fisico, culturale e politico in cui ci troviamo oggi è senza dubbio molto cambiato rispetto a qualche decennio fa, e ciò richiede innovazione, ma a partire da alcuni principi non negoziabili. Le aziende è fondamentale si muovano con una logica aziendale: ma gli enti pubblici territoriali proprio no, se il loro compito è quello di indirizzo e controllo delle trasformazioni in nome dell’interesse collettivo. Se l’interesse collettivo è oggi un concetto sfuggente, e al tempo stesso il territorio è tuttavia al centro di qualsiasi ipotesi di sviluppo, si provi a ridefinire questo interesse collettivo luogo per luogo, e a livello di area vasta, con il concorso degli attori che rappresentano effettivamente gli interessi diffusi. Le riflessioni tecniche, disciplinari, su questa innovazione possibile e oggi più che mai necessaria non mancano. Ciò che sembra mancare davvero è la capacità politica di promuovere innovazione capace di costruire l’interesse collettivo, anziché concepirlo come semplice somma di interessi particolari.

La riforma urbanistica in chiave liberista è stata approvata dalla Camera dei Deputati in un clima di rassegnazione. Ha ragione Roberta Carlini nel suo editoriale di alcuni giorni fa a sottolineare l’incredibile silenzio del mondo politico progressista: se non fosse stato per il Manifesto, Aprile, Unità, Carta e dell’efficace rete internet a partire dallo straordinario sito Eddyburg, nessuno l’avrebbe saputo. Come se la cosa non avesse riflessi sulla vita di milioni di persone. Come se assistere al trionfo della rendita speculativa fosse un destino ineluttabile. Senza interrogarsi sul fatto che questa legge è solo l’ultimo tassello di un mosaico che il governo ha lucidamente perseguito in questi anni e che ha portato al più spettacolare spostamento di ricchezza verso la rendita speculativa che la recente storia italiana ricordi.

Vediamo nell’ordine. Nel settembre 2001 il nuovo governo appena insediato licenzia il primo provvedimento noto come “scudo fiscale” successivamente perfezionato nel decreto legislativo n. 350 finalizzato al rientro dei capitali illegalmente esportati all’estero. Quello stesso mese di settembre crollano le torri gemelle di New York e, conseguentemente, il mercato borsistico. Gran parte dei 70.000 miliardi di euro rientrati sulla base di quel provvedimento sono andati in investimenti immobiliari: da quell’anno i prezzi delle abitazioni hanno avuto un’impennata impressionante. E’ appena il caso di rammentare che un articolo di quel provvedimento prevedeva addirittura il rientro di capitali liquidi senza l’obbligo della dimostrazione della provenienza: che la legge sia servita per il riciclaggio di denaro illecito è opinione purtroppo unanime.

Con lo scudo fiscale si sostiene la domanda: occorre dunque alimentare l’offerta. Sempre nel mese di settembre nasce il primo provvedimento che generalizza e rende sistematica la vendita del patrimonio pubblico. La legge sarà convertita nel novembre 2001 (n. 410) e immette sul mercato uno straordinario affare a prezzi inferiori a quelli reali.

Quello stesso provvedimento presenta anche una piccola perla che a distanza di qualche anno può essere ben compresa: dice che questi immobili possono essere “valorizzati” d’intesa con i comuni. In altre parole, magazzini possono diventare case, abitazioni zone commerciali, a seconda delle convenienze di mercato eliminando tutte le regole urbanistiche. E mentre la finanza locale viene strozzata con quell’articolo si invogliano i comuni a derogare i piani regolatori: il 5% della valorizzazione viene infatti intascata dalle amministrazioni locali.

Ma c’era un altro ostacolo da superare. La fondamentale legge sugli standard urbanistici prevede che sia garantita una quantità di servizi per ciascun cittadino. Molti comuni hanno resistito a ignobili speculazioni invocando l’impossibilità di soddisfare l’aumento di standard connesso con i nuovi usi proposti, si pensi ai parcheggi pubblici. La legge Lupi, e cioè la recentissima riforma liberista dell’urbanistica approvata alla Camera, abolisce questa storica conquista democratica e rende gli standard facoltativi. Un altro regalo alla speculazione, come si vede.

E infine l’ultima perla contenuta nel disegno di legge sulla competitività attualmente in discussione alla Camera. L’articolo 9, “Legge obiettivo sulle città” si afferma (comma 5) che nelle città si può prevedere “l’incremento premiale dei diritti edificatori” e cioè un ulteriore aumento delle densità urbane. Servirebbero ulteriori standard pubblici, ma sono stati aboliti dalla legge Lupi!

Come si vede dall’azione del governo Berlusconi emerge un quadro impressionante. Questi anni sono serviti per spianare la strada alla peggiore rendita speculativa. Se il sistema produttivo nazionale versa in una crisi profonda senza che una sola idea di rilancio sia stata concretizzata, per il comparto immobiliare sono stati costruiti provvedimenti su provvedimenti di rara efficacia. Non si può far finta di vedere questo disegno perverso e combatterlo aspramente per le conseguenze economiche e di potere che provoca. E’ noto infatti che un gruppo di giovani immobiliaristi (Coppola, Ricucci e Statuto) insieme al più blasonato Francesco Gaetano Caltagirone stanno dando la scalata al cielo: Banca nazionale del lavoro, Corriere della Sera e Mediobanca. Il fatto che non siano finora riesciti nei loro intenti nulla toglie alla inaudita gravità della situazione, del fatto cioè che essi godano di impressionanti liquidità.

E deve esser sottolineato che questo gruppo di immobiliaristi si afferma a Roma dove il nuovo piano regolatore prevede la costruzione di oltre 60 milioni di metri cubi di cemento a fronte di una città che ha perduto nella sua fascia più centrale oltre 200.000 abitanti nel decennio 1991-2001. Si prevede una valanga di abitazioni rigorosamente private in una città in cui l’emergenza abitativa scandisce la vita di molti che –come quei 200.000- non sono stati ancora espulsi in una periferia sempre più lontana. L’urbanistica liberista produce un generale impoverimento di masse di persone e un arricchimento devastante di ristrettissimi gruppi speculativi. Il fatto che una parte dello schieramento progressista abbia appoggiato apertamente la legge Lupi, primi tra tutti l’Istituto nazionale di urbanistica e lo stesso autore del piano regolatore di Roma, Giuseppe Campos Venuti, dimostra di quanto arduo sia il cammino dell’Unione per ricostruire una reale alternativa al liberismo.

Fermiamo al Senato la legge Lupi.

È una brutta legge, sbagliata e pericolosa, che sembra far parte di una strategia ben precisa. I tagli continui da parte del governo di centro-destra agli Enti Locali negli ultimi anni e adesso il via libera agli interessi privati nel consumo e distruzione del territorio.

Una inutile legge di riforma urbanistica che non tiene conto della complessità del governo del territorio, del degrado delle periferie, della qualità urbana e dell’abitare, delle politiche ordinarie per la casa.

La Legge Lupi, sostanzialmente, nel processo di pianificazione provoca una riduzione della regia pubblica a favore dei soggetti privati.

Gli ultimi eventi francesi non ci hanno insegnato niente?

Le nostre città hanno bisogno di una grande opera di risanamento! Il territorio, un bene di tutti, prezioso e scarso, deve essere il luogo della vita, sottratto alle convenienze della rendita e della speculazione.

Alla Camera l’UNIONE ha votato all’unanimità contro questa legge ed ora si prepara a contrastarla con fermezza al Senato.

Mirko Lombardi a conclusione del suo intervento del 15 novembre scorso ha posto un interrogativo chiaro e dirimente. Rifiutare di ratificare la stagione della “programmazione negoziata” come metodo normale di gestione “precaria” dell’uso dei suoli e rilanciare una prospettiva di regolazione pubblica dell’uso sostenibile della città e del territorio è un atto di estremismo inaccettabile per il programma dell’Unione ?

Apertasi nel 1992 con l’estemporanea invenzione dei Programmi integrati di Intervento come strumenti di deroga eccezionale, proliferata negli anni successivi con le diversificate denominazioni di Programmi di riqualificazione urbana variamente aggettivati, la “negoziazione”sulle proposte dei privati contrattate caso per caso è via via divenuta una modalità di gestione ordinaria delle trasformazioni più consistenti della città e del territorio che lascia agli strumenti di indirizzo pubblico complessivo (variamente denominati nelle eterogenee legislazioni regionali accumulatesi dalla riforma del Titolo V della Costituzione in poi) il ruolo di foglia di fico per la regolamentazione delle trasformazioni minute, e ci ha riportato in una situazione non dissimile da quella antecedente la Legge Ponte del 1967, in cui le “convenzioni” senza Piano regolatore, al di là della maggior o minor capacità e volontà di contrattazione delle Amministrazioni pubbliche, si rivelarono un gioco truccato in cui a vincere era sempre il “banco” dei promotori immobiliari.

La frana di Agrigento del 1966 fu l’elemento di rottura simbolica che mise in luce la caoticità di quel modello di utilizzo del territorio e indusse anche le forze politiche più moderate del centrosinistra a cambiar registro, subordinando le contrattazioni coi privati ad un quadro di indirizzo pubblico, costituito dal Piano regolatore, con le sue dotazioni di aree pubbliche minime obbligatorie, e all’attribuzione degli oneri urbanizzativi che ne derivavano a carico attuatori di quelle trasformazioni.

Ne scaturì una stagione riformista che si aprì nel 1967 con la Legge Ponte e si chiuse nel 1977 con la Legge Bucalossi, cui nei decenni successivi fece seguito una ridda di leggi e leggine di progressiva deregolazione programmatoria coronata nel 1992 dall’avvìo di quella “negoziazione” senza programma complessivo dell’uso dei suoli che oggi la Legge Lupi in discussione al Senato vorrebbe sancire come metodo generalizzato e permanente.

Certo il Piano regolatore, concepito dalla Legge urbanistica del 1942, era uno strumento per un verso molto settoriale, tutto indirizzato alla regolamentazione edificatoria con scarsi elementi di valutazione della sua sostenibilità ambientale e, quindi, per altro verso sin troppo rigido e “disegnato” nella individuazione dei vincoli di uso pubblico, rigidamente localizzati sulle proprietà fondiarie, la cui attuazione ha avuto una sanzione di durata temporale (5 anni) troppo breve rispetto all’ampiezza della programmazione complessiva del territorio comunale.

Nel 1995, infatti, l’Istituto Nazionale di Urbanistica propose un suo sdoppiamento in una fase strutturale, che doveva programmare i limiti complessivi di sostenibilità delle quantità urbanizzative e delle dotazioni ambientali e di pubblici servizi senza vincolare le proprietà ed una fase operativa quinquennale che avrebbe articolato quelle previsioni localizzandole in proporzione alla attuabilità nel periodo di validità dei vincoli apposti alle proprietà.

Si può ripartire da lì per rilanciare una nuova stagione riformista con una legge quadro di governo del territorio che affermi la priorità dell’indirizzo pubblico nell’uso di un bene comune che non può essere abbandonato alle prevalenti convenienze dei privati e del mercato. Un programma simile in tutta Europa verrebbe ritenuto blandamente riformista e solo il liberismo selvaggio del centro-destra italiano (ognuno padrone a casa propria) può farlo apparire massimalista. I disegni di legge presentati dai vari esponenti del centrosinistra (Lorenzetti, Sandri, Turroni, Vendola/Russo Spena) presentati nel corso della scorsa e di questa legislatura sono una buona base di partenza per la discussione; il disegno di Legge Lupi (a dispetto della trentina di deputati del centrosinistra che l’hanno votata alla Camera) no.

Perché il centrosinistra è unanime nel denunciare i rischi di privatizzazione e disparità insiti in decentramento regionale senza legge quadro in materia di tutela della salute e non lo è altrettanto in materia di uso del territorio ? Margherita e Ds sono in grado di segnare un punto di differenza rispetto a quella visione di dilagante liberismo o anche il riformismo è eccessivo quando si tratta di uso dei suoli e di regime immobiliare?

Riparte al Senato la cosiddetta legge Lupi sul governo del territorio. Già approvata alla Camera nello scorso luglio, essa rappresenta la “summa” delle pratiche deregolatrici che da almeno un quindicennio abbiamo visto all’opera e che sono state gentilmente chiamate “urbanistica contrattata”.

Attraverso quelle pratiche si è potuto verificare, un vero e proprio boom edilizio ed un consumo del territorio che forse non ha eguali nella storia della urbanizzazione italiana. Quelle pratiche hanno via via traslato il valore ed il significato del territorio da bene comune a merce. Una operazione di massiccio spostamento di poteri e valori dall’ambito collettivo e democratico a quello privato. E poiché il territorio è materia visibile e misurabile, basterebbe fare un tour per le città e i comuni, dal nord al sud, per fotografare il livello di consumo, scempio e cementificazione che la rendita ha compiuto in questi anni, man mano che la si liberava dei “lacci e lacciuoli”.

E’ mutato anche il tradizionale significato di abuso edilizio: prima era l’edificato senza autorizzazione che insultava il territorio e l’ambiente e che, per l'appunto, era vietato in forza dell’interesse pubblico; ora che la edificazione ed i permessi sono “negoziabili”con gli interessi privati ciò che prima era vietato può diventare realizzabile.

Sarebbe interessante indagare quanto di quegli investimenti immobiliari sia venuto dalle attività di malavita organizzata. Quegli enormi profitti non si possono nascondere sotto il materasso di Bernardo Provenzano, ma devono essere riciclati, ripuliti e resi presentabili al salotto buono della finanza: il mattone è tradizionalmente un buon riciclatore! Ma questo è un altro problema, anche se mai come oggi sono stretti i nessi fra la rendita immobiliare - speculativamente lucrata tramite la deregulation - e la rendita finanziaria dei mercati, delle borse e delle scalate dei “furbetti der quartierino”.

Battersi contro la legge Lupi è un po’ di tutto questo. Dunque non un problema di tecnicismo urbanistico o di emendabilità, ma uno squisito problema di ordine politico più generale, di quelli tosti, che rimandano, non solo a questioni di salvaguardia ambientale, ma alla definizione delle gerarchie, dei poteri e degli interessi del bene comune – si potrebbe dire della “res publica”- rispetto all’interesse privato e di mercato. Urge rileggeresi il discorso di Capriolo Zoppo – un classico della critica alla mercificazione ed alla corruzione perequativa - per rialimentarsi della buona idea che il territorio non è una merce.

Il cedimento di molta intellettualità verso la vulgata liberista ha certamente contribuito a favorire la mutazione privatistica, ma fortunatamente contro questo andazzo si batte, e con vigore, un numeroso gruppo di urbanisti, architetti e ambientalisti come quelli firmatari dell’appello redatto da Italia Nostra contro la legge Lupi. Le forze politiche dell’UNIONE ne devono fare tesoro perché sconfiggere la Lupi, o impedire che arrivi in aula prima della fine della legislatura, è già un qualificante punto programmatico. Un buon inizio per ricostruire la strumentazione del governo del territorio incardinata su atti democratici pubblici autoritativi, giustificati da fabbisogni reali e severamente commisurati ad un uso parsimonioso ed alla salvaguardia dell’ambiente.

Ora serve ri-regulation. Con buona pace di Berlusconi e della lobby del cemento si deve dire che la stagione dell’urbanistica contrattata e negoziale è finita.

Questo è l’incipit programmatico che piacerebbe a noi di Rifondazione.

MIRKO LOMBARDI è responsabile nazionale urbanistica, Rifondazione

(DIRE) - FERRARA- Il consiglio comunale di Ferrara ha approvato, nella seduta di lunedi' 7 novembre, un ordine del giorno contro la legge Lupi sul governo del territorio. Il documento, presentato dai gruppi consiliari dei Verdi per la pace, Ds, Prc, Pdci, Sdi e Dl-La Margherita, ha ottenuto il favore della maggioranza ed il voto contrario di An, Fi e Io amo Ferrara. Con l'ordine del giorno si chiede il ritiro del progetto di legge promosso dal deputato di Forza Italia Maurizio Lupi, attualmente in via d'approvazione alla Camera. Il progetto di legge e' ritenuto "estremamente pericoloso- si legge nel testo- ed in contrasto con la stessa Costituzione" poiche' "sopprime il principio stesso di Governo Pubblico del Territorio". La legge elimina gli "Atti Autoritativi" (il normale strumento di pianificazione territoriale degli Enti pubblici) e li sostituisce con gli "Atti Negoziali", ovvero strumenti di concertazione tra le amministrazioni e "soggetti interessati- recita il documento- che non si identificano con la pluralita' dei cittadini, ma con la ristretta cerchia degli 'Operatori Economici'". "Se la pianificazione- argomenta Romeo Savini per lo Sdi- richiede una contrattazione preliminare con i privati 'che contano', allora le scelte urbanistiche rischiano di essere pre-condizionate dagli interessi particolari di alcuni operatori economici. La contrattazione sulla pianificazione urbanistica- continua Savini- deve invece avvenire dopo che siano state definite le linee d'interesse pubblico". Agli standard urbanistici (che impongono di destinare quote di territorio al verde e ai servizi pubblici) viene poi sostituita "una generica raccomandazione- si legge nell'ordine del giorno- di riservare comunque un livello minimo di attrezzature e servizi 'anche con il concorso di soggetti privati'

Alla legge viene poi contestato di escludere "la tutela del paesaggio e dei beni culturali- si legge ancora nel documento- dalla pianificazione ordinaria delle citta' e del territorio". Contro la legge Lupi, il documento cita gli articoli 9, 117 e 118 della Costituzione, sulla tutela del paesaggio e sull'attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni. Il consigliere Alex De Anna (Io amo Ferrara) difende la legge Lupi che "introduce nel governo del territorio- argomenta De Anna- il principio di sussidiarieta', che deve regolare il rapporto non solo tra lo Stato e le Regioni ma anche tra le Regioni, le amministrazioni locali ed i cittadini". De Anna propone anzi che venga richiesto di abrogare la normativa residua facente capo alla vecchia legge urbanistica (1150/42), per evitare l'accumularsi di una enorme mole di documenti legislativi. "Enti ed associazioni temono che questa legge permetta il proliferare dei 'mostri architettonici'- continua De Anna- ma ricordo che chi propone oggi questo ordine del giorno ha permesso in passato la costruzione di scempi urbanistici sul territorio ferrarese".

Principi in materia di governo del territorio (Esame e rinvio)

Il relatore, senatore SPECCHIA (AN) , sottolinea in primo luogo come, con il disegno di legge in titolo, si intendano dettare norme quadro in materia di governo del territorio, colmando così una lacuna particolarmente significativa, anche perché, negli ultimi dieci anni, ben tredici regioni hanno adottato leggi regionali in materia. Vista l'importanza del provvedimento, ben si comprende l'auspicio da molti condiviso affinché esso venga definitivamente approvato dal Senato senza ulteriori modifiche; trattandosi peraltro di una materia così delicata e complessa, si avverte l'esigenza di apportare all'articolato pervenuto dalla Camera dei deputati alcuni miglioramenti, con il contributo del Governo.

Il primo dei tredici articoli di cui si compone il testo in esame offre la definizione dell'espressione governo del territorio, intervenendo quindi per la prima volta dopo la modifica del titolo V della Carta costituzionale su una materia che, ai sensi del nuovo testo dell'articolo 117 della Costituzione, rientra tra quelle di legislazione concorrente. L'articolo 2 è relativo alle definizioni, mentre l'articolo 3 elenca i compiti e le funzioni dello Stato specificando, in particolare, al comma 4, che lo Stato esercita le funzioni amministrative connesse al governo del territorio relative alla difesa e alle Forze armate, all'ordine pubblico e alla sicurezza, alle competenze del Corpo dei vigili del fuoco, alla Protezione civile, nonché alla valorizzazione dei beni culturali e alla gestione dei vincoli paesaggistici. L'articolo 5 tratta degli interventi speciali dello Stato volti, in particolare, a rimuovere condizioni di squilibrio territoriale, economico e sociale in determinati ambiti territoriali, mentre l'articolo 5 affronta il tema della sussidiarietà. L'articolo 6 affronta la questione della pianificazione del territorio, attribuendo ai comuni il ruolo di enti preposti alla pianificazione urbanistica e alle regioni il compito di individuare gli ambiti territoriali e i contenuti della pianificazione del territorio. Il piano territoriale di coordinamento è invece di competenza delle province. In particolare, al comma 2, si afferma il principio in base al quale occorre privilegiare il recupero e la riqualificazione dei territori già urbanizzati, assicurando la difesa dei caratteri tradizionali. Si tratta di un tema assai importante, costantemente al centro del dibattito in materia urbanistica svoltosi negli ultimi anni, ma su cui ben poco si è fatto finora. La grande attualità di tale tematica è facilmente intuibile se si pensa al rischio di abbandono di molti piccoli centri urbani e di interi quartieri facenti parte anche di città di grandi dimensioni a beneficio di quartieri di nuova edificazione, quando invece sarebbe necessario invertire tale tendenza e puntare alla riqualificazione degli agglomerati urbani già esistenti, piuttosto che alla costruzione di nuovi. L'articolo 7 tratta delle dotazioni territoriali, sottolineando l'esigenza di stimolare anche il concorso dei soggetti privati, mentre l'articolo 8, affrontando il tema dell'iter di approvazione del piano urbanistico, stabilisce che sono assicurate forme adeguate di partecipazione dei cittadini e delle associazioni nel procedimento di formazione degli atti di pianificazione. L'articolo 9 è relativo all'attuazione del piano urbanistico, mirando a sostituire alle attuali regole contraddistinte da una certa rigidità, modalità ben più flessibili, affrontando anche l'importante tema della perequazione. L'articolo 10 reca le misure di salvaguardia e l'articolo 11, in materia di attività edilizia, espone il fianco a qualche lieve critica nella misura in cui sembra proporre un piccolo passo indietro rispetto a quanto era stato stabilito con la cosiddetta legge obiettivo in materia di denuncia di inizio attività (DIA); difatti, sarebbe preferibile favorire il ricorso alla DIA evitando di demandare alle regioni il compito di disciplinare autonomamente la materia, introducendo contestualmente però forme più efficaci e pregnanti di controllo. L'articolo 12 tratta il tema della fiscalità urbanistica, mirando ad istituire un apposito Fondo e a delegare il Governo ad adottare decreti legislativi volti a definire un regime fiscale speciale per gli interventi in materia urbanistica e per il recupero dei centri urbani. L'articolo 13, infine, assai opportunamente provvede ad abrogare espressamente le disposizioni di legge superate grazie al testo normativo in esame; l'ultimo comma di tale articolo dispone, quindi, che al posto del silenzio-rifiuto, si applichi il principio del silenzio-assenso in caso di inutile decorso del termine relativo alla domanda di permesso di costruire. In sostanza, quindi, il disegno di legge mira a dettare norme in materia di governo del territorio non più basate su una impostazione meramente ragionieristica, ma improntate piuttosto sull'adozione di strumenti più flessibili, così come previsto dagli articoli 6 e 9. Particolarmente condivisibile appare quanto previsto dal comma 4 dell'articolo 6, laddove si afferma espressamente che il piano urbanistico privilegia il rinnovo urbano, la ristrutturazione e l'adeguamento del patrimonio immobiliare esistente. Un giudizio positivo va espresso poi su quanto previsto dall'articolo 5 in tema di principio di sussidiarietà verticale, nonché di adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, come pure per ciò che concerne le disposizioni in materia di dotazioni territoriali e fiscalità urbanistica. In particolare, è importante puntare a favorire il rinnovo urbano introducendo meccanismi premiali in termini di metri cubi aggiuntivi.

Il testo in esame appare invece suscettibile di qualche miglioramento per quanto riguarda, innanzitutto, il concetto di governo del territorio di cui all'articolo 1, comma 2, che dovrebbe essere meglio articolato, come pure per ciò che concerne la previsione della concertazione con i soggetti privati già nella fase della pianificazione, sembrando preferibile prevedere forme negoziali piuttosto nella fase dell'attuazione. Anche il concetto di fiscalità, di cui all'articolo 12, dovrebbe essere meglio precisato e finalizzato ai diversi interventi. Le competenze demandate alle province, poi, potrebbero essere meglio definite, mentre appare opportuno approfondire la questione della possibilità di ricorrere alla denuncia attività (DIA), favorendo tale strumento e perfezionando nel contempo le procedure di controllo esistenti. Una riflessione potrebbe essere opportuna anche sul tema del silenzio-assenso in materia di permesso di costruire, così da verificare se siano o meno fondate le preoccupazioni da molti espresse. Sottolinea infine l'esigenza di acquisire l'ampia documentazione raccolta dalla competente Commissione dell'altro ramo del Parlamento, effettuando, prima della discussione generale, l'audizione di un numero limitato di soggetti, fra cui i rappresentanti delle regioni, delle province, dei comuni e dell'Istituto nazionale urbanistica (INU), nonché - accogliendo un suggerimento del senatore ZAPPACOSTA - degli ordini degli ingegneri, degli architetti, dei geologi, dei geometri e degli agronomi e forestali. Il seguito dell'esame viene quindi rinviato.

La proposta di legge sul governo del territorio voluta da Forza Italia aveva subito un colpo decisivo dalla recente sconfitta dell'attuale maggioranza alle elezioni regionali. Nella legge si diceva tra l'altro che anche i privati possono - al pari di un'amministrazione comunale - svolgere attività di pianificazione e si cancellava il diritto di tutti i cittadini ad avere aree per il verde e servizi pubblici. Della famigerata legge Lupi, il delirio di uno speculatore, come la definì Vezio De Lucia, sembrava davvero che non si dovesse parlare più. Ma con una determinazione degna della miglior causa, all'interno del disegno di legge sulla competitività che inizia questa settimana il proprio iter in Parlamento, è stato inserito un articolo che riguarda la città e l'urbanistica in cui sono contenute le parti peggiori del precedente provvedimento di riforma urbanistica. L'articolo si chiama minacciosamente Legge obiettivo per la città, ma potrebbe ribattezzarsi più opportunamente «le mani sulla città». Vi è scritto (comma 3) che il Ministero delle infrastrutture elabora le linee guida degli interventi sulle città, in aperta contraddizione con la riforma della Costituzione che assegna i poteri di pianificazione ai comuni. Il motivo di questa inammissibile espropriazione di prerogative istituzionali è presto svelato: al comma cinque si prevede l'incremento premiale dei diritti edificatori per i progetti individuati. E' una prassi collaudata da tempo che permette alla proprietà immobiliare di imporre i propri voleri alle amministrazioni pubbliche aumentando a piacimento le cubature da realizzare. L'incremento premiale significa nuovi affari per la rendita e altro cemento per le nostre città.

La grave crisi del sistema produttivo del nostro paese è questione molto complessa, ma non riguarda il comparto edilizio che - come noto - vive momenti d'oro da più di un decennio. Talmente dorati che in questi giorni alcuni economisti liberali hanno iniziato a porre l'esigenza del controllo fiscale sulle rendite immobiliari e finanziarie. E' infatti evidente che se si continuano a favorire guadagni incomparabilmente più alti di qualsiasi altro investimento produttivo, non solo un numero crescente di operatori economici sarà tentato dal colpo della fortuna immobiliare, ma anche il sistema del credito preferirà finanziare comode speculazioni piuttosto che attività a rischio d'impresa.

Per comprendere gli effetti delle dottrine liberiste applicate al territorio, basta ragionare sul fatto che un terreno agricolo ha un valore di mercato che può variare da 10 a 25 euro al metro quadrato. Una volta diventato edificabile attraverso gli innumerevoli strumenti di deroga elaborati dal Ministero delle infrastrutture, quello stesso terreno raggiunge valori pari a 100-300 euro. Quale altra impresa produttiva permette incrementi del 1.000 %? La sostituzione della pianificazione con l'urbanistica contrattata, la deroga e «gli incrementi premiali di cubatura», ha portato ovunque al trionfo della rendita e a conseguenti astronomici guadagni. Non è un caso che alcuni immobiliaristi, dal più noto Caltagirone ad altri meno famosi personaggi, competano ad esempio per il possesso della Banca Nazionale del Lavoro e tentino acquisti di azioni del Corriere della Sera.

Ma ancora più amaro è il frutto dell'urbanistica liberista per l'intera popolazione. Qualche giorno fa su queste colonne Roberta Carlini ha svelato che in un quartiere di Roma si è arrivati a valutazioni di mercato di 12.000 euro a metro quadrato! La rendita immobiliare gode dunque di splendida salute, mentre una parte crescente di cittadini non può permettersi acquisti immobiliari o affitti nelle grandi città che perdono conseguentemente decine di migliaia di abitanti ogni anno. Inserire all'interno del provvedimento per la competitività un ulteriore regalo alla speculazione fondiaria è dunque una scelta scellerata poiché privilegia la parte più arretrata e improduttiva del sistema economico.

E' ormai matura l'esigenza che si lavori alla costruzione di un provvedimento che impedisca il formarsi di rendite parassitarie alla radice e riporti il futuro urbano all'interno di regole certe e trasparenti. Compete al centro sinistra inserire come priorità del programma di governo il ripristino degli strumenti di controllo pubblico sulla città: non sono poche infatti le città amministrate dal centrosinistra che hanno utilizzato sistematicamente gli istituti di deroga contemplati dall'urbanistica contrattata. La cancellazione dell'articolo 9 del disegno di legge sulla competitività rappresenta dunque solo il primo indispensabile atto per chiudere la stagione dell'urbanistica liberista.

Su Eddyburg:

Il disegno di legge recentemente approvato dalla Camera dei Deputati sul governo del territorio solleva perplessità di diversa natura: si pensi, per limitarsi a pochi esempi, al ruolo dello Stato, al quale addirittura sono riconosciute dall’art. 3, comma 1, funzioni amministrative in materia di “rinnovo urbano”, in palese violazione degli artt. 117 e 118, Cost.; alle modalità di svolgimento delle funzioni amministrative preferibilmente attraverso atti negoziali (art. 5, comma 4); alla sostanziale svalutazione della pianificazione provinciale (art. 6, comma 2, in violazione degli artt. 114, 117 e 118, Cost.). Più in generale, lo schema normativo appare privo di utilità, se si considera che, dall'entrata in vigore del nuovo titolo quinto della Costituzione, ben sei regioni hanno approvato nuove leggi sul governo del territorio (Calabria, Campania, Lombardia, Toscana, Umbria e Veneto). E rispetto a tali normative regionali il disegno di legge non dice alcunché di nuovo (piuttosto sembra limitarsi a recepirne, confusamente e approssimativamente, alcuni contenuti).

Un cenno a parte merita la disciplina della perequazione e della compensazione (art. 9), la quale, lungi dall'essere inutile, pone, se non altro in ragione della sua portata ideologica, rilevanti questioni di democrazia nella gestione del territorio e introduce il “debito edificatorio”, quale nuovo istituto della materia.

1. La perequazione e la compensazione nel disegno di legge

Conviene riassumere il regime giuridico della perequazione e della compensazione, contenuto nell'art. 9 del disegno di legge.

In generale, le disposizioni di cui all'art. 9 – al pari di molte altre contenute nel disegno di legge – si presentano in buona parte misteriose, anche a causa di una formulazione del testo sciatta e priva di rigore. E peraltro si ha l'impressione che sul punto i Deputati abbiano avuto in mente specifiche esperienze di pianificazione perequativa e compensativa, dalle quali hanno voluto estrapolare alcuni principi normativi, da imporre alla legislazione regionale (utile compendio per la lettura del disegno di legge può essere la l.r. Lombardia n. 12 del 2005).

In base al comma 1, il piano urbanistico (il piano strutturale) è attuato con piano operativo o con intervento diretto, sulla base di progetti compatibili con gli obiettivi stabiliti nel piano strutturale.

Il comma 2 dispone che “il piano urbanistico può essere attuato anche con sistemi perequativi e compensativi secondo criteri e modalità stabiliti dalla regioni”. Non è ben chiaro il senso della disposizione e segnatamente in che modo i “sistemi perequativi e compensativi” possano rappresentare uno strumento di attuazione del piano strutturale. Probabilmente, la maldestra formulazione si riferisce a forme di attuazione del piano urbanistico ad opera di coloro che sono titolari dei "diritti edificatori".

La perequazione è intimamente connessa ai “diritti edificatori” che rappresentano, in questa ipotesi normativa, figure assai inquietanti per motivi culturali, oltre che politici. Tali diritti, in base al comma 3, sono attribuiti alle proprietà immobiliari ricadenti in determinati ambiti territoriali, “in percentuale dell’estensione [sic] e o del valore di esse e indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”. E sul punto non si riscontrano particolari novità rispetto alle norme regionali che si occupano del tema; norme che - in modo non molto diverso dai comparti di cui alla legge del '42 - in genere, ma non sempre, ancorano i meccanismi perequativi ad ambiti territorialmente definiti.

La novità sostanziale è data dalla precisazione posta alla fine del comma 3: detti diritti “sono trasferibili e liberamente commerciabili negli e tra gli ambiti territoriali” (art. 9, comma 3).

La proclamazione della libertà di commercio (cfr. l'art. 11, comma 4, l.r. Lombardia n. 12/05 cit.) vuol dire che la circolazione dei "diritti edificatori" può avvenire senza il consenso della pubblica amministrazione, al contrario di quanto attualmente avviene per i contratti di cessione di volumetrie. Il senso della trasferibilità dei diritti non risulta chiaro, non essendo specificato se la scelta circa la delocalizzazione spetti al titolare ovvero all’amministrazione. Probabilmente, si vuol dire che, attraverso trattative tra il comune e i titolari, si dovrà comunque trovare un accordo per la realizzazione dei diritti anche su area diversa da quella in relazione alla quale sono attribuiti i diritti stessi (ecco una delle implicazioni della preferenza accordata dal disegno di legge alla negoziazione rispetto all'urbanistica imperativa: art. 5, comma 4).

Lo schema di norma non specifica con quale atto (piano strutturale, regolamento urbanistico o piano operativo) si debba procedere alla distribuzione dei "diritti edificatori", rimettendo la decisione alle regioni (e, come noto, le regioni hanno ad oggi adottato discipline assai diversificate per quanto attiene ai compiti e ai contenuti del piano strutturale e di quello operativo).

Sono contemplate anche altre forme di attribuzione di questi diritti. Il comma 4 dell’art. 9, prevede che “anche allo scopo di favorire il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, le regioni possono prevedere incentivi consistenti nella incrementabilità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici vigenti” (cfr. l'art. 11, comma 5 della l.r. Lombardia n. 12/05 cit.). A prescindere dalle ulteriori implicazioni che la norma può avere (ad esempio sulla natura non più ricognitiva delle prescrizioni territoriali a tutela del suolo o della incolumità pubblica), essa vuol dire che il comune può attribuire, per le finalità più varie (stabilite dalla legge regionale), una quantità maggiore di "diritti edificatori" rispetto a quanto stabilito in sede di pianificazione (con tutto quanto ne segue in termini di mancanza di valutazioni complessive).

Previsione sostanzialmente analoga, da questo punto di vista, è contenuta nel comma 5: il comune invece che indennizzare in forma monetaria un vincolo preordinato all’esproprio, può riconoscere al proprietario il diritto a una certa volumetria d realizzare altrove, anche su aree comunali. Questa è la cosiddetta compensazione.

2. I "diritti edificatori"

Effettuata questa sintesi della disciplina della perequazione e della compensazione, si può passare al punto centrale della materia: cosa sono, dal punto di vista giuridico, i "diritti edificatori"?

In via di prima approssimazione, si può affermare che essi si riferiscono a una certa volumetria, come detto, determinata in sede di pianificazione (strutturale od operativa), che il titolare ha il diritto di realizzare. Questa descrizione non esaurisce però l'argomento.

Come anticipato, è previsto che questi diritti (e dunque la volumetria cui essi si riferiscono) siano trasferibili e liberamente commerciabili "negli e tra gli ambiti territoriali": costituiscono dunque autonomi beni giuridici, in quanto tali, idonei a essere oggetto di contratti; beni giuridici che, attribuiti dal comune in ragione del diritto di proprietà su un immobile e delle sue caratteristiche (estensione e valore), possono però vivere e circolare separatamente dal bene in relazione al quale sono stati attribuiti.

Ma se il "diritto edificatorio" può esistere a prescindere dalla relazione del titolare con un bene immobile, non può essere qualificato come diritto reale (es. il diritto di proprietà, di enfiteusi su un bene immobile), né come facoltà di un diritto reale (quale era secondo alcuni lo jus aedificandi o come talvolta ha ritenuto la giurisprudenza con riguardo ai contratti di cessione di cubatura), né come potere attribuito dalla pubblica amministrazione in relazione a un diritto reale e alle relative modalità di esercizio. In altri termini, secondo la norma in commento, il "diritto edificatorio" perde potenzialmente le caratteristiche proprie della realità (ossia di relazione giuridicamente qualificata di un soggetto con una res). Esso sembra avere una diversa natura giuridica e segnatamente quella di diritto personale imputato al titolare: a fronte di un "diritto edificatorio", vi è un soggetto obbligato, un debitore.

Per comprendere il punto occorre ricordare che la distribuzione dei "diritti edificatori" ai proprietari di immobili inclusi in un determinato ambito di trasformazione (come accade, ad esempio, nel regime del comparto edificatorio), avviene ricorrendo a formule organizzatorie (variamente configurata in dottrina e in giurisprudenza: associazione senza personalità giuridica, comunioni tra proprietari, ecc.), intese comunque ad assicurare la realizzazione unitaria della trasformazione prevista. Queste forme di coordinamento tra i proprietari producono un effetto perequativo, ossia quello di ripartire tra tutti i partecipanti all'organizzazione i diritti e gli oneri connessi alla trasformazione nell'ambito del perimetro, in proporzione alla quota di partecipazione. Il che in sintesi vuol dire che gli aspetti organizzativi e reali della vicenda risultano assolutamente inscindibili.

Al contrario, la previsione della trasferibilità e della commerciabilità tra gli ambiti territoriali comporta la potenziale trasformazione della natura giuridica del "diritto edificatorio" che, perse le caratteristiche della realità, assume quelle del diritto di credito (e non è un caso che la giurisprudenza amministrativa, con riferimento a "diritti edificatori" relativi ad ambiti diversi da quelli in cui ricade il bene immobile del titolare, ha ripetutamente parlato di "credito volumetrico": cfr. Tar Campania, sez. di Salerno, sez. I, 6 dicembre 2001, n. 845 e 20 febbraio 2003, n. 845).

In questa logica, il debitore è il comune, il quale, a fronte di ogni "diritto edificatorio", deve consentire al titolare di realizzare la volumetria oggetto del diritto stesso e di acquisire su essa il diritto di proprietà: prima o poi, si dovranno soddisfare tutti i "diritti edificatori" distribuiti. Si può dunque affermare che al "diritto edificatorio" in capo a un privato, corrisponde senz’altro un "debito edificatorio" per il comune.

Vale la pena di precisare che, a dispetto della terminologia adoperata, il titolare del diritto in discorso, nei confronti del comune, è da considerare, da un punto di vista strettamente tecnico, come portatore di un interesse legittimo alla soddisfazione del suo diritto (precisazione questa rilevante da diversi punti di vista). Ma questa constatazione non cambia la natura sostanziale delle cose, ossia che il comune sia comunque obbligato ad assicurare la realizzazione della volumetria riconosciuta nell'atto di pianificazione; e ciò preferibilmente attraverso accordi con il relativo titolare (tanto è vero che il giudice amministrativo, con riferimento al c.d. "piano delle certezze" del Comune di Roma, ha già avuto modo di affermare, sia pure incidentalmente, che all'attribuzione dei "diritti edificatori" corrisponde per l'amministrazione un vincolo per quanto attiene alla decisione circa l'an della volumetria da realizzare, anche in assenza della determinazione delle concrete modalità di attuazione di tali diritti: cfr. Tar Lazio, sez. I, 19 luglio 1999, n. 1652, § 8.1.).

Come anticipato, i commi 4 e 5 dell'art. 9 si occupano parimenti dei "diritti edificatori", tuttavia nella diversa ottica di promuovere il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, nonché di sostituire indennità monetarie. Nonostante la diversa funzione, anche in questa ipotesi mantengono la natura di diritti di credito nei confronti del comune.

Da un punto di vista teleologico, il "diritto edificatorio" assolve dunque a due distinte funzioni. Innanzitutto dovrebbe svolgere una funzione perequativa: a ogni immobile inserito in un ambito di trasformazione, come individuato dal piano strutturale, viene riconosciuto un certo numero di "diritti edificatori" in relazione alla sua estensione e al suo valore, come risultante prima del piano (“indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”: cfr. art. 9 comma 4). Si dovrebbe così realizzare una condivisione di vantaggi e oneri per tutti i soggetti coinvolti dalla trasformazione (si usa il condizionale, dal momento che è pura illusione pensare che, attraverso l'astrattezza del "diritto edificatorio", si possa ottenere la piena indifferenza dei proprietari rispetto alle previsioni di piano: cfr., ad esempio, la sentenza del Tar Lazio, n. 1652/99 cit., § 8, lett. a e § 8.1.).

Inoltre, il "diritto edificatorio" può sostituire le indennità che il comune deve pagare a fronte di vincoli anche, ma non solo, espropriativi (art. 9, commi 4 e 5). Qui la perequazione non c’entra nulla, avvenendo l'attribuzione dei diritti in sostituzione di indennità monetarie dovute a vario titolo (chi sa se i Deputati avevano in mente gli assegnati, escogitati in Francia nel dicembre 1789?).

E' evidente che il meccanismo sinteticamente descritto, ove implementato, produrrà un incremento potenzialmente incontrollato del "debito edificatorio" dei comuni, in modo potenzialmente svincolato da ogni valutazione di sostenibilità (estetica, sociale, ambientale, ecc.), che dovrebbe essere effettuata nel piano strutturale, nonché da ogni correlazione con l’interesse pubblico (che, detto per inciso, al di là di proclamazioni formali, non sembra svolgere alcun ruolo nella struttura del disegno di legge).

3. Osservazioni critiche

Guardando alla sostanza del fenomeno, ci si accorge che i "diritti edificatori", come disciplinati nello schema normativo, in effetti rappresentano una potenziale distorsione delle dinamiche democratiche che dovrebbero presiedere alla funzione di governo e di gestione del territorio. Il tema, ovviamente, si potrebbe prestare ad ampie ed approfondite riflessioni, ma appaiono sufficienti le seguenti considerazioni.

Non si deve essere profondi conoscitori della teoria della "cattura del regolatore" o di quella comunemente denominata "Public Choice" (che, come noto, valse il premio Nobel per l'economia a J. Buchanan nel 1986) - teorie i cui presupposti peraltro non sono condivisibili -, per comprendere che i processi regolativi e di elaborazione delle politiche pubbliche, specie allorquando intercettano interessi economici forti (quali sono indubbiamente quelli connessi alla rendita immobiliare), necessitano di strumenti giuridici e istituzionali che mantengano l'amministrazione pubblica esente, per quanto possibile, da interferenze e condizionamenti indebiti, consentendole di assumere decisioni e di eseguirle autonomamente dal consenso dei privati interessati.

Tutto al contrario, il disegno di legge sembra fatto apposta per generare fenomeni di "cattura" dell'amministrazione pubblica da parte dei portatori di interessi forti ovvero per produrre indebiti vantaggi a favore di alcuni gruppi (es. i beneficiari della rendita) a scapito di altri (es. i cittadini). Infatti, da un lato, non contiene principi forti cui gli enti di pianificazione si devono ispirare nell'elaborare le politiche territoriali; e, dall'altro, anche attraverso la sintetizzata disciplina dei "diritti edificatori", depotenzia la potestà decisionale dell'apparato pubblico, rafforzando nel contempo la posizione dei titolari della rendita.

Ricorrendo ad altri concetti, si può osservare che la circostanza per cui i "diritti edificatori" possano circolare liberamente ed essere trasferiti nei diversi ambiti, a prescindere, come detto, da un retrostante diritto di proprietà su un bene immobile, consente a pochi soggetti di farne incetta, per poi magari concentrarli su determinate aree in loro disponibilità. Il disegno appare più chiaro se si considera che, a mente dell’art. 8, comma 8, i piani attuativi possono, nella sostanza, essere anche a iniziativa di soggetti privati (ossia dei titolari dei diritti edificatori) e che, a mente dell’art. 5, comma 4, “le funzioni amministrative sono esercitate (…) prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi (…)”.

Una volta che si permetta ad alcuni soggetti di acquistare dagli altri proprietari il diritto di realizzare una certa volumetria e successivamente di proporre l’adozione di strumenti attuativi (compibili con il piano strutturale solo per quanto riguarda gli obiettivi, ma non le volumetrie: cfr. art. 9, comma 1), ovvero di contrattare con il comune forme, tempi e modi di realizzazione, le amministrazioni comunali si troveranno, nella migliore delle ipotesi, nella condizione di non essere più titolari esclusivi della funzione di pianificazione operativa, ma, nella sostanza, di doverla condividere con i detentori dei "diritti edificatori", dalle stesse riconosciuti.

Il rischio vero che si corre è allora che, attraverso questa disciplina, si privatizzi il territorio (inteso come l’insieme di beni immobili, pubblici e privati, su cui è insediata e vive la collettività locale), attribuendo poteri incisivi a soggetti privati, i titolari dei "diritti edificatori", e deprivando le amministrazioni locali e i cittadini di adeguati strumenti per la tutela dell’interesse pubblico. E vale la pena di ricordare che, per quel che qui interessa, la natura pubblica della pianificazione territoriale risponde all’esigenza di garantire che siano effettivamente goduti i diritti e le liberà fondamentali dei cittadini: la potestà pubblica deve costituire, tra l’altro, un valido baluardo contro i poteri privati.

Queste considerazioni non devono però indurre a ritenere che si sia in presenza di uno schema normativo di tipo liberista, orientato cioè a far emergere le forze del mercato, sinora compresse e mortificate dall'invadenza dell'apparato pubblico e dalle sue regole. Infatti, qui il mercato e il gioco della concorrenza c'entrano poco o nulla.

La logica sottesa al disegno di legge è piuttosto quella del "debito edificatorio": rivive qui la stessa incultura che ha portato l’Italia ad accumulare un immenso debito pubblico, riversandone gli effetti devastanti sulle generazioni più giovani. Da questo punto di vista, la proposta risulta generazionalmente connotata e non contiene purtroppo nulla di nuovo, dal momento che si limita ad affermare che i comuni, attraverso l’attribuzione di "diritti edificatori", possono impegnare il loro territorio, per le finalità più varie. E questa operazione viene giustificata con riferimento alle esigenze di uguaglianza tra i proprietari (e, come noto, anche sull’incremento del debito pubblico hanno influito non poco esigenze di uguaglianze tra diverse categorie produttive); come se fosse questo il problema del territorio italiano. Il territorio è un bene limitato e pertanto un meccanismo come quello descritto, che fisiologicamente porta all’aumento incontrollato della quantità di "debiti edificatori" a carico dei comuni, è contrario al principio di solidarietà tra le generazioni.

La (in)cultura del debito pubblico (e dunque la ideologia dell’egoismo generazionale) consente forse di comprendere le ragioni per le quali la proposta, a quanto si legge, è stata condivisa anche da esponenti dell’opposizione.

4 settembre 2005

La nuova legge sul governo del territorio, approvata dalla Camera il 28 giugno scorso, meriterebbe un’attenzione ben maggiore di quella che vi hanno dedicato sia la stampa generalista (quasi nulla) che il milieu politico e tecnico del Paese. La riscrittura dopo sessant’anni dei principi generali della pianificazione territoriale e urbanistica; l’attesa per una ridefinizione di temi di grande rilevanza economico-distributiva come il regime dei suoli e i nuovi stili di una pianificazione che si vuole flessibile e aperta al privato (oltre che alla società civile); le nuove esigenze che emergono in tutti i Paesi avanzati per una rinnovata attenzione alle risorse territoriali, nei loro aspetti fisici, paesistici, culturali-simbolici ed economici; tutto questo giustifica ampiamente la necessità di una lettura attenta della legge, e di un dibattito quanto più possibile allargato e a più voci.

A queste aspettative rilevanti la legge fornisce una risposta modesta e anzi, per molti aspetti, inadeguata. La legge prende le mosse da esigenze di modernizzazione condivise, affrontate anche da leggi regionali, e accoglie molti suggerimenti e strumentazioni tecniche emerse dal dibattito urbanistico negli ultimi anni, cui io stesso ho cercato di apportare qualche contributo: la necessità di integrare la progettualità privata nei piani di sviluppo urbani e territoriali; il ruolo cruciale della concorrenza fra soggetti privati e fra progetti; la possibilità (ad avviso di chi scrive, la necessità) che il piano strutturale sia intercomunale; l’utilità degli strumenti perequativi nel limitare gli effetti della discrezionalità pubblica al livello micro-territoriale, generando tendenziale indifferenza della proprietà, a patto che si operi entro ambiti territoriali relativamente omogenei; le potenzialità degli strumenti di compensazione urbanistica nella flessibilizzazione delle decisioni; la repressione degli abusi edilizi; l’uso di strumenti di redistribuzione intercomunale di una parte delle imposte comunali sulle nuove urbanizzazioni, al fine di disinnescare la propensione sviluppista dei Comuni (generata dalla crescente scarsità di risorse), e altro.

Tuttavia queste innovazioni rilevanti sono inserite in un quadro complessivo che, in alcuni casi, ne rende la pratica altamente rischiosa per l’interesse collettivo, e in altri ne vanifica totalmente l’utilizzazione. Alcuni basilari principi sono totalmente assenti e su tematiche rilevanti, anche se complesse, come il regime dei suoli, si propone una soluzione non chiara e sotto alcuni aspetti non accettabile. Affronterò in questa sede tre tematiche maggiori: l’assenza di veri principi, la pianificazione per atti negoziali e il primato del Comune nelle funzioni di governo del territorio.

Assenza di princìpi

Una legge di governo del territorio – pur accettando una interpretazione estensiva del termine, che lo avvicina alla governance territoriale, includendovi dunque non solo attività regolative e amministrative ma anche attività negoziali col privato e di programmazione negoziata fra enti pubblici – deve innanzitutto chiarire perché oggi si ritiene necessario procedere per leggi al governo del territorio stesso. La risposta dovrebbe essere contenuta in un principio generale che, in termini economici, potrebbe suonare così: il territorio è bene pubblico e collettivo, che fornisce benefici alle comunità locali sotto forma di benessere degli abitanti ed efficienza dei settori produttivi, e che non viene adeguatamente garantito dal puro operare di rapporti di mercato a causa della presenza di effetti di rete, di esternalità e di beni pubblici (ben noti casi di fallimento del mercato), nonché dalla presenza di elementi di incertezza; esso richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa. Si potrebbe ribattere: una legge non è un trattato di economia territoriale; sta dunque ai giuristi trovare l’abito giusto per questo principio. Si potrebbe dire: è un principio pleonastico, già condiviso; ma sottolinearlo in un contesto culturale come quello italiano di crisi se non di delegittimazione della pianificazione può giovare alla pianificazione stessa.

Questo principio generale dovrebbe poi essere coniugato in modo più fine, individuando i processi, attuali e prospettici, che maggiormente rischiano di condurre a riduzione di benessere e i principi attraverso i quali si intende affrontarli. Se vogliamo, questi processi individuano, per contrapposizione, gli obiettivi del governo del territorio, che nella legge sono totalmente assenti (salvo qualche indicazione casuale e sparsa), mentre erano presenti nella bozza di legge ancora nel dicembre 2004, anche se in forma laconica e incompleta. Essi devono al contrario essere chiariti ed esplicitati, perché proprio sul loro perseguimento si basa la giustificazione di una legge di principi. I più rilevanti obiettivi, meritevoli di interesse dello Stato – visto che sono stati fatti propri anche dall’Unione europea e inseriti nel progetto di Convenzione europea col titolo di «coesione territoriale» come ambito di sua competenza concorrente (shared competence: articolo I-14.2) – dovrebbero essere i seguenti:

1) limitare i consumi di suolo per nuove urbanizzazioni. Sembra oggi indispensabile che una legge nazionale imponga alle Regioni almeno di considerare il fenomeno, di monitorarlo e misurarlo, e di limitarlo. Il relativo principio regolatore dovrebbe essere un principio di efficienza nell’uso delle risorse, da cui seguirebbe, per la risorsa suolo, l’onere di giustificare interventi su territori non urbanizzati, il possibile utilizzo di sistemi di tassazione di urbanizzazioni greenfield e di connessi sussidi al riuso di brownfield (aree industriali dismesse o degradate) o greyfield (aree commerciali dismesse, sull’esempio americano e canadese). Dal principio seguirebbe un elemento ancor più importante: la necessaria introduzione di una quarta categoria di aree (al di là delle tre indicate nella legge: aree di pregio ambientale, aree agricole e aree urbanizzabili), che potremmo chiamare «aree di riserva per funzioni ecologiche e paesistiche», da normare a cura delle Regioni, a evitare il messaggio rischioso, presente nell’attuale testo, che la maggior parte del territorio cada nella categoria residuale dell’urbanizzabile (o che i Comuni virtuosi siano costretti ad allargare i vincoli sulle aree di pregio o ad assegnare alle attività agricole aree che dall’agricoltura sono abbandonate o che non vi sono adatte). Per la risorsa energetica, il principio spingerebbe nella direzione di un addensamento dell’urbanizzato lungo le linee di forza del trasporto pubblico;

2) frenare la frammentazione e la banalizzazione del territorio. Il relativo principio sarebbe un principio di rispetto di massa critica, che significa un deciso contrasto alla dispersione insediativa, i cui ingenti costi collettivi sono sotto gli occhi di tutti, alla frammentazione delle reti ecologiche e alla messa a rischio dell’assetto idro-geologico;

3) affrontare la crescente dualizzazione e polarizzazione della società, effetto dell’aumentata competizione globale, della perdurante crisi europea e dell’emergere di una città multietnica con forti squilibri nelle opportunità e nelle capacità reddituali. Principio ispiratore deve essere un principio di solidarietà, che implica una crescente attenzione alla coesione sociale e territoriale, alle condizioni di segregazione e di povertà urbana, nonché la definizione di quote minime di edilizia sociale nei nuovi progetti urbani (come nelle più recenti leggi urbanistiche e nelle direttive di molti Paesi avanzati);

4) limitare gli effetti ambientali negativi generati dall’urbanizzazione e dalla localizzazione di grandi funzioni urbane, commerciali o industriali (ad esempio sulla mobilità), attraverso un principio di internalizzazione delle esternalità e di correzione del mercato. Tale principio giustificherebbe la possibile differenziazione territoriale degli oneri connessi al permesso di costruire, secondo la tradizione americana degli «impact fee», nonché una loro elevazione rispetto ai modestissimi parametri attuali. Soprattutto tale principio si applicherebbe al livello intercomunale, favorendo i Comuni contermini in presenza di esternalità negative generate nel Comune vicino; solo così il giusto dettato della legge sulla formazione di consorzi fra Comuni e la possibile redistribuzione dell’Ici (articolo 12, comma 2b)e degli oneri connessi al permesso di costruire avrebbe qualche possibilità di dare risultati concreti.

Inutile dire che di tali principi, che costituiscono le grandi direttrici su cui ci si sta muovendo in tutta Europa, non vi è traccia nella legge e anzi, come detto, vi si possono trovare abbastanza esplicitamente indicazioni esattamente contrarie.

Negoziazione senza rete

Il secondo ambito di profonda insoddisfazione nei riguardi del dettato di legge concerne l’indicazione (articolo 5, comma 4) che «le funzioni amministrative sono esercitate… prioritariamente mediante atti negoziali in luogo di atti autoritativi». Da tempo – anche quando, fino a pochi anni or sono, l’«urbanistica contrattata» era da molti vituperata – si è ripetuto che associare il privato alle scelte di pianificazione avrebbe consentito di raggiungere tre risultati fondamentali: di superare i limiti di informazione, di progettualità e di interpretazione dei bisogni collettivi della pubblica amministrazione; di rendere le decisioni di piano più aderenti alle possibilità congiunturali di realizzabilità e di profittabilità per gli operatori; di realizzare un coordinamento ex-ante fra decisioni pubbliche e decisioni private, così da superare l’intrinseca incertezza connessa alle innovazioni territoriali e conseguentemente migliorare l’economicità delle opere, sia pubbliche che private. In questo senso, la negoziazione sarebbe finalizzata al miglioramento della qualità della pianificazione, non certo alla sua sostituzione con una serie di contratti.

In realtà, i cosiddetti «atti autoritativi» avversati dalla legge sono in genere, in tutti i Paesi avanzati, non certo il frutto di un’autorità assoluta autoreferenziale, ma derivano da processi sia politici che tecnocratici che anche partecipativi e negoziali sottoposti a vaste garanzie e a obbligo di giustificazione tecnico-politica, mentre è proprio la negoziazione che ha bisogno di una giustificazione plurima preliminare: va giustificato l’interesse pubblico per la trasformazione (o nella trasformazione) del singolo sito, per il progetto e la funzione proposti, nonché la verifica delle condizioni di coerenza urbanistico-trasportistica, a evitare casualità nella scelta delle aree, banalità delle funzioni, eccessivo carico urbanistico e impatto insostenibile sulla mobilità. Purtroppo, proprio questi sembrano gli esiti di molta «urbanistica per progetti» in Italia.

Ma il problema di fondo è ancora un altro, e riguarda il modello di negoziazione senza rete e senza regole che si propone nella legge. Quali dovrebbero essere infatti gli obiettivi della pubblica amministrazione nella negoziazione? Chiaramente, coerenza del progetto urbano complessivo, di cui si è detto, e massimizzazione del vantaggio pubblico in termini di aree, verde e servizi. Come si affermava nei documenti dell’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) alcuni anni or sono – ma pare un secolo – si dovrebbe «creare la città pubblica attraverso i plusvalori della trasformazione della città privata». Orbene, quale forza contrattuale potrà avere una pubblica amministrazione che, come auspica la legge, rinuncia a operare in base ad «atti autoritativi» e soprattutto che viene privata del supporto normativo nazionale consistente nell’indicazione di quote minime di cessione di aree (poiché «perde efficacia» il Dm 1444/1968 sugli standard urbanistici)?

Nella legge si trascurano alcuni elementi importanti in proposito:

- l’esistenza di un’asimmetria informativa fra il settore privato e il settore pubblico sulle condizioni di costo e di profittabilità nella produzione edilizia,

- l’esistenza di una seconda asimmetria fra singoli Comuni, spesso piccoli e potenzialmente in concorrenza fra loro, e operatori immobiliari che operano su un ampio scacchiere territoriale;

- la circostanza che, come la storia recente ci ricorda, i grandi operatori immobiliari agiscono spesso in forma di oligopolio collusivo, limitando la concorrenza reciproca su singoli siti o progetti;

- e, infine, il fatto che nel nostro Paese vige una situazione di scarsissima trasparenza

sulle condizioni delle negoziazioni realizzate e soprattutto che nel settore pubblico sono assai scarse le professionalità necessarie per gestire al meglio questo tipo di processi negoziali.

Da tutto questo consegue che un modello contrattuale puro non garantisce affatto il perseguimento dell’interesse pubblico. In altri Paesi avanzati, allorché la negoziazione viene consentita per il raggiungimento di finalità particolari o per la rilevanza del progetto di trasformazione, al settore pubblico è assegnato comunque il vantaggio di un livello predefinito di cessioni di aree (per legge statale o federale), come punto di partenza per la vera contrattazione.

Uno strumento importante esiste per aumentare la forza contrattuale del Comune, la messa in concorrenza di progetti e di attori privati, ed esso è effettivamente citato dalla legge (articolo 8 comma 7). Purtroppo gli strumenti per realizzare «concorrenzialità» sul territorio – un obiettivo assai complicato per la presenza di un ineliminabile vantaggio del proprietario – non sono indicati neanche per sommi capi, e ciò costituirebbe un problema perché sull’intera materia della negoziazione e del partenariato col privato vi sono gli occhi puntati della Commissione europea e della Corte di giustizia, preoccupate giustamente per le possibilità di pratiche neo-corporative, elusive della concorrenza.

In sintesi, non sembra che quello della costruzione della città pubblica sia un obiettivo della legge: una città che continui (o torni) a essere un grande luogo di socialità e una fonte di efficienza e di benessere collettivo. Si afferma che «l’entità dell’offerta di servizi» deve «garantirne comunque un livello minimo», ma ci si astiene dall’indicare quale esso sia o debba essere, nonostante la pretesa di essere legge di principi generali per tutto il territorio italiano; si indica la possibilità in tale materia di «un concorso dei soggetti privati» (un’affermazione accettabile), ma si apre la strada all’utilizzo di un concetto rischiosissimo, che ha già dato luogo a interpretazioni e pratiche ai limiti dell’aberrante: quello della commisurazione degli standard sulla base di «criteri prestazionali » (articolo 7, comma 1). In Lombardia l’introduzione concetto di standard qualitativi o prestazionali ha portato alla scomparsa di qualunque riferimento legislativo alla nozione di servizi pubblici, e al rinvio alle decisioni (negoziate) dei Comuni, con la conseguenza che in taluni casi si è inclusa fra gli standard la categoria degli alberghi. Come si è sottolineato precedentemente, si aprono vasti spazi per proposte dissennate, oltre alla possibilità di malversazioni o contenziosi senza fine.

Quanto alle indicazioni in merito al regime dei suoli, la legge non appare chiara come avrebbe potuto essere e a mio avviso – ma è materia da giuristi – utilizza un lessico non sempre appropriato. Da una parte, non si giustifica in alcun modo l’onerosità del «permesso di costruire» (articolo 11, comma 2) né le modalità di una sua commisurazione. Dall’altra, il compito di «disciplinare il regime dei suoli» è assegnato, anziché alla legge nazionale, agli strumenti operativi comunali (che a mio avviso possono al più avere effetti conformativi della proprietà dei singoli suoli, ma non del regime complessivo).

La lettura, in particolare su questi argomenti, è forse fuorviata dall’osservazione del recente «laboratorio ambrosiano», campo di sperimentazione anticipata della legge nazionale, in cui si è azzerata la necessità di ricorrere al piano e si è avviata un’urbanistica negoziata per singoli progetti. In tale laboratorio si è affermato che «gli investitori hanno la massima libertà di proposta» e «se la proposta è accolta, le regole specifiche del progetto di trasformazione vengono definite contestualmente alla proposta di cambiamento e non preesistono ad essa» (Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, Comune di Milano, 2001). Si resta nel novero di coloro i quali vorrebbero vedere le regole preesistere, e non seguire, alle pratiche caso per caso.

In passato si è contestata la pretesa degli urbanisti di «combattere» o «ridurre» la rendita fondiaria, affermando che essa è ineliminabile, non essendo che la controfaccia in termini di valore del vantaggio localizzativo e della relativa domanda da parte di famiglie e imprese; paradossalmente, il buon pianificatore genera e anzi massimizza la rendita, creando accessibilità, qualità urbana e qualità ambientale. Ma ho anche affermato, con gli economisti classici, che essa può e deve essere tassata in quanto reddito, e anzi «reddito non guadagnato»; in termini moderni, possiamo dire che le leggi e le pratiche urbanistiche non sono altro che un «gioco» di distribuzione della rendita fra pubblico e privato, in cui la quota del pubblico dipende da fattori politici e di etica collettiva.

Comune, soggetto primario

Un ultimo aspetto rilevante della legge mi preme qui sottolineare. Vi si afferma infatti che «il Comune è… il soggetto primario titolare delle funzioni di governo del territorio» (articolo 6, comma 1) e si corrobora l’affermazione con una serie di indicazioni che suffragano abbondantemente tale primazia. Il piano urbanistico comunale «ricomprende e coordina » le disposizioni dei piani di settore e del piano territoriale; può «proporre espressamente modificazioni ai piani territoriali»; recepisce solo «le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici». Ebbene si ritiene che, se il concetto di governo del territorio abbraccia anche la «pianificazione territoriale», «di area vasta» (articolo 2, comma 1), non vi è alcuna ragione di pensare che il Comune sia, per questa funzione, il soggetto primario. Purtroppo la Provincia e il piano territoriale di coordinamento sono stati inseriti nella legge grazie a un emendamento dell’ultima ora, e non ottengono alcuno spazio effettivo nella sua logica complessiva. Al contrario, pur nella necessità di una co-pianificazione e di un accordo interistituzionale, alla Provincia, o comunque a un ente con competenza sovracomunale, dovrebbe essere attribuito il compito specifico e di ultima istanza del governo del territorio sull’area vasta. Il principio di sussidiarietà, se correttamente inteso, porta proprio a questa conclusione: esso attribuisce competenze al livello istituzionale più basso adeguato (un aggettivo che spesso si dimentica), e dunque non certo ai Comuni per quegli interventi in cui intrinsecamente si manifestano effetti di rete, le economie di scala ed esternalità transborder. Per tutto quanto precede, non si ritiene che alla legge bastino alcune correzioni da apportare al Senato per farne uno strumento accettabile e adeguato alle esigenze di un Paese moderno.

“Una prima analisi della riforma quadro approvata da un primo ramo del Parlamento evidenzia il grande spazio dato alla negoziazione con i privati. Questo diventa il principio guida che sostituisce quello della pianificazione imposta dall’alto. Ma vanno meglio definite le procedure.”

La riforma urbanistica approvata il 28 giugno 2005 dalla Camera in prima lettura è, a distanza di più di sessanta anni dalla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, e dopo numerosi tentativi di riforma rimasti privi di esito nelle passate legislature, del primo testo di una nuova disciplina generale del governo del territorio, evidentemente ancora subordinata all’esame del secondo ramo del Parlamento ma già oggetto di acceso dibattito. Prima di esaminarne i contenuti, sembra opportuno ricordare che, essendo il «governo del territorio» materia di legislazione concorrente ai sensi dell’articolo 117, comma 3, della Costituzione, lo Stato è legittimato unicamente a porre una normativa quadro cui le Regioni devono conformarsi nell’esercizio della propria potestà: questa è la ragione per la quale la proposta di legge si compone di appena tredici articoli, che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero codificare quei «principi » della disciplina degli usi del suolo a lungo ricercati dagli studiosi della materia.

La nozione di governo del territorio

La legge costituzionale 3/2001, nel modificare, tra l’altro, l’articolo 117 della Costituzione, ha sostituito il termine urbanistica con la locuzione governo del territorio, senza tuttavia darne una definizione. Il comma 2 dell’articolo 1 della proposta (A.C. 153 pubblicata sul n. 27/2005 di «Edilizia e Territorio ») tenta, quindi, di individuarne i contenuti includendovi: l’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio; la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso; la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo; l’urbanistica; l’edilizia; l’insieme dei programmi infrastrutturali; la difesa del suolo; la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali; la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie (disposizione di chiusura, che rievoca le teorie dei poteri impliciti). La lunga elencazione corrisponde a una concezione aggiornata della materia urbanistica, ormai divenuta funzione consistente nel mettere a sistema i diversi possibili usi e interessi incidenti sul territorio (Amorosino, Stella Richter), con particolare riguardo anche ai fattori economici e sociali. Di certo non sfugge la rilevanza dei riferimenti alla mobilità o alle infrastrutture, né la portata della scelta di comprendere nel governo del territorio «la tutela del paesaggio ». Al riguardo, tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che il successivo comma 3 tradisce una certa approssimazione del legisla- tore: infatti, è palesemente contraddittorio riservare allo Stato la tutela del paesaggio (si noti, mai menzionato dall’articolo 117) se essa è da includere nella nozione di governo del territorio, oggetto di competenza regionale concorrente. Infine, ci si potrebbe chiedere quale significato debba ora essere attribuito al termine urbanistica, che potrebbe riguardare sia la pianificazione degli usi del suolo sia, in senso più ristretto ed etimologico, la disciplina dell’urbs, dei centri abitati (Breganze). Noi propendiamo per la sostituzione tout court dell’espressione urbanistica con quella, presente nella Costituzione, di governo del territorio. Non per demonizzare l’uso della prima quanto piuttosto per evidenziare la natura polisensa e, dunque, scientificamente poco rilevante della nozione, che si presta a usi promiscui o convenzionali.

Le altre definizioni e le abrogazioni

Secondo una tecnica di redazione legislativa ormai diffusa, l’articolo 2 della Pdl 153 contiene una lista di definizioni e l’articolo 13 l’indicazione delle leggi abrogate. Per quanto riguarda le definizioni, l’elenco è per certi aspetti incompleto (non vengono menzionati, tra l’altro, i programmi di intervento di cui all’articolo 3, gli strumenti di programmazione negoziata di cui all’articolo 4, la perequazione, la compensazione) e non privo di inesattezze. La lettera a), ad esempio, identifica la «pianificazione territoriale» con la pianificazione di area vasta «che ne definisce l’assetto per quanto riguarda le componenti territoriali fondamentali» (rievocazione dell’antica dizione «linee fondamentali di assetto del territorio» ma meno elegante), mentre la successiva lettera d) precisa, tautologicamente, che il «piano territoriale » è appunto l’esito documentale del processo di pianificazione territoriale. Le lettere e) e f) distinguono il piano strutturale («piano urbanistico con il quale vengono operate le scelte fondamentali di programmazione dell’assetto del territorio») dal piano operativo («piano urbanistico con il quale vengono attuate le previsioni del piano strutturale, con effetti conformativi del regime dei suoli»). In realtà, il piano strutturale dovrebbe rappresentare il documento strategico di governo del territorio (e la strategia non coincide con la programmazione, che presuppone già una fase operativa, di gestione della realizzazione concreta delle scelte compiute), rispetto al quale il piano operativo non ha alcun vincolo di attuazione ma solo di compatibilità. Piano strutturale, piano operativo e regolamentazione urbanistica ed edilizia costituiscono la pianificazione urbanistica (lettera b), vale a dire la pianificazione funzionale e morfologica del territorio che disciplina le modalità d’uso e di trasformazione: la confusione tra gli istituti è macroscopica, poiché altro è un regolamento (vera e propria fonte del diritto di rango secondario), altro un piano urbanistico. Infine, vengono introdotti i concetti di «dotazioni territoriali» (lettera g) e di «rinnovo urbano » (lettera h): quest’ultimo è definito come l’insieme coordinato degli interventi di conservazione, ristrutturazione, demolizione e ricostruzione di singoli edifici o di intere parti di insediamenti urbani, finalizzato alla rigenerazione, riqualificazione, riabilitazione (concetto di per sé estraneo al settore), nonché all’adeguamento dell’estetica urbana. Vi è da rilevare che la nuova nozione rischia di confliggere, con effetti asistematici, sulle tipologie di interventi sull’edificato che il Dpr 380/2001 (testo unico dell’edilizia) ha mutuato dalla tradizionale disciplina dell’articolo 31 della legge 457/1978 (non abrogata). Con riferimento alle abrogazioni (articolo 13), si deve rilevare, in primis, che il tentativo, frutto di emendamenti bipartisan accolti in Aula, è assolutamente coraggioso e opportuno. Nel merito, talune disposizioni di legge vengono immediatamente abrogate dall’entrata in vigore della riforma, altre «perdono efficacia» – e la differente terminologia non è senza rilievo – in quelle Regioni che approvino normative sul medesimo oggetto. Vengono, inoltre, modificati i testi unici dell’edilizia e delle espropriazioni: per l’esattezza, viene disciplinata la decadenza e la reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio (articolo 9, commi 3 e 4, del Dpr 327/2001) ( vedi box a lato) e viene stabilita – la regola del silenzio-assenso per i procedimenti di rilascio del permesso di costruire (articolo 20, comma 9, del Dpr 380/2001), con gli inevitabili effetti negativi che essa potrà comportare nel caso di interventi di trasformazione del territorio dannosi e irreversibili.

Le competenze dello Stato

La Pdl 153 stabilisce che le funzioni statali sono esercitate attraverso politiche generali e di settore (da attuare tramite programmi di intervento), aventi a oggetto la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico- sociale, il rinnovo urbano. Non sfugga che, mentre l’ambiente e lo sviluppo economico- sociale costituiscono macroaree di intervento, l’assetto del territorio e il rinnovo urbano possono anche riguardare interventi localizzati, puntuali, rispetto ai quali risulta più arduo sostenere l’esigenza di intervento del potere centrale. Quanto alle funzioni amministrative, preme ricordare che l’articolo 118 della Costituzione attribuisce le funzioni amministrative ai Comuni, salvo conferimento ai livelli superiori di governo «per assicurarne l’esercizio unitario», secondo criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. In base alla Pdl 153, sono quindi riservate alla competenza statale le funzioni (articolo 3, comma 4) riguardanti:

- l’identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale;

- la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e la difesa del suolo;

- l’articolazione delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché (comma 5) quelle, connesse al governo del territorio, relative alla difesa e alle Forze armate, all’ordine pubblico e alla sicurezza,

alle componenti istituzionali del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, alla Protezione civile con riguardo alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (riferimento pleonastico, invero, alla luce di quanto già previsto dal comma 3).

Merita evidenziare che il comma 4 dell’articolo 3, a seguito dell’approvazione di un emendamento, riserva allo Stato anche le funzioni amministrative previste dal Dlgs 42/2004 (codice Urbani) relative alla tutela dei beni culturali, alla valorizzazione dei beni culturali di appartenenza statale nel rispetto del principio di leale collaborazione, all’individuazione in via concorrente dei beni paesaggistici, alla partecipazione alla gestione dei vincoli paesaggistici. L’articolo 4 del progetto in esame prevede, poi, «interventi speciali» dello Stato, il quale può predisporre programmi di intervento in determinati ambiti territoriali, da attuare «prioritariamente» con strumenti di programmazione negoziata, al fine di rimuovere condizioni di squilibrio territoriale, economico e sociale, promuovere la rilocalizzazione di insediamenti esposti al rischio di calamità naturali o dissesto idrogeologico e la riqualificazione di quelli danneggiati, superare situazioni di degrado ambientale o urbano.

Gli accordi con i privati

L’articolo 5 riguarda sia i rapporti tra soggetti pubblici sia i rapporti tra questi e i privati. Da un lato, esso prevede che il riparto di competenze tra i diversi soggetti pubblici, ma anche i rapporti con i cittadini, debba essere ispirato ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (già enunciati dall’articolo 118 della Costituzione), secondo criteri di responsabilità e tutela dell’affidamento (comma 1), invocandosi più in generale quel principio di cooperazione e leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni, più volte enunciato dalla Corte costituzionale e ora ribadito ai commi 2 e 7. Dall’altro, esso applica anche al governo del territorio il principio, per certi aspetti dirompente ma già codificato dalla legge 15/2005 di riforma del procedimento amministrativo, in virtù del quale «le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi» (comma 4). Tale disposizione deve essere coordinata con quella contenuta nell’articolo 8, comma 7, che ripete lo stesso principio per la pianificazione urbanistica. Per l’esattezza, si prevede che l’ente competente a pianificare «può concludere accordi con i soggetti privati […] per la formazione degli atti di pianificazione anche attraverso procedure di confronto concorrenziale, al fine di recepire proposte di interventi coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione». In tale ipotesi, pertanto, l’accordo con il privato non riguarda la fase di attuazione del piano (come accade, ad esempio, per una convenzione di lottizzazione) ma propriamente quella della sua formazione: in altri termini, la fase di assunzione della decisione pubblica. In definitiva, se la pianificazione dall’alto era in passato considerata strumento privilegiato di governo del territorio, oggi un ruolo centrale viene assunto dai mezzi contrattuali: è bene ripetere che tale mutamento non nasce con la Pdl 153 ma è l’esito di un più profondo cambiamento impresso alla funzione pubblica ormai dall’inizio degli anni Novanta e già codificato nella legge generale sul procedimento. Peraltro, il tema della negoziazione pubblico-privato pone talune questioni fondamentali a tutt’oggi irrisolte: dalla individuazione di eventuali interessi non negoziabili alla garanzia della trasparenza e della pari opportunità di accesso alla negoziazione stessa all’individuazione dei soggetti responsabili della decisione pubblica e della sua implementazione. Salve le osservazioni che ci apprestiamo a effettuare in sede di conclusioni, un elemento positivo della Pdl 153 può essere ravvisato nel tentativo di delineare taluni principi, sebbene ancora allo stato grezzo, di tale nuova modalità funzionale con l’espresso richiamo del comma 1 al criterio della responsabilità e della tutela dell’affidamento, nonché con la successiva previsione (articolo 5, comma 6) per la quale le Regioni «assicurano l’attribuzione in capo alla sola amministrazione procedente della responsabilità delle determinazioni conclusive del procedimento», con ciò attribuendo anche un rilievo più pregnante al momento dell’iniziativa procedimentale. Analogamente l’articolo 5, comma 2, prevede che «nella definizione degli accordi di programma e degli atti equiparabili comunque denominati, sono stabilite le responsabilità e le modalità di attuazione, nonché le conseguenze in caso di inadempimento degli impegni assunti dai soggetti pubblici» e quanto mai opportuno appare il riferimento dell’articolo 8, comma 7, ai principi di imparzialità amministrativa, trasparenza, concorrenzialità (rectius, concorrenza), pubblicità e partecipazione al procedimento.

Pianificazione del territorio

La Pdl 153 abbandona il sistema di pianificazione a cascata che era stato introdotto dalla legge 1150/1942 e mutua dall’esperienza anglosassone la bipartizione tra strategic plan e structural plan (piano strategico e piano operativo), peraltro già presente in numerose leggi regionali. Il nuovo piano urbanistico, quindi, è lo strumento di disciplina complessiva del territorio comunale e si attua attraverso modalità strutturali e operative. Il piano strutturale – come definito dall’articolo 2 – non ha efficacia conformativa della proprietà, mentre gli atti di contenuto operativo, comunque denominati, disciplinano il regime dei suoli (articolo 6, commi 3 e 7). Merita, inoltre, segnalare la sopravvivenza di due strumenti sovracomunali: il piano territoriale di coordinamento (in passato tanto criticato), di regola di competenza delle Province e il piano urbanistico intercomunale, che è facoltà delle Regioni disciplinare e incentivare. Quanto ai contenuti del piano urbanistico, secondo l’articolo 8, comma 3, il piano urbanistico deve recepire i vincoli paesaggistici e culturali: invero, non si comprende perché restino escluse altre categorie di vincoli, pure rilevanti, come ad esempio i vincoli idrogeologici. Inoltre, nell’affermare che «il piano urbanistico privilegia il rinnovo urbano, la ristrutturazione, l’adeguamento del patrimonio immobiliare esistente» (articolo 8, comma 3), la Pdl 153 distingue tra aree destinate all’agricoltura (ed è lecito chiedersi se esse coincidano con le aree agricole), aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili (articolo 8, comma 5). La nuova edificazione sulle prime due è limitata alle sole opere e infrastrutture pubbliche e ai servizi per l’agricoltura, l’agriturismo e l’ambiente; sulle aree urbanizzabili (dizione di per sé ambigua, che non permette di comprendere se esistano anche aree non urbanizzabili, riserve territoriali per così dire); gli interventi di «trasformazione » – e, ancora una volta, non è dato sapere se la trasformazione escluda la nuova edificazione – sono finalizzati, con formula di scarsa sostanza, «ad assicurare lo sviluppo sostenibile sul piano sociale, economico e ambientale». Insomma, un principio di risparmio del bene-territorio, da tempo maturato in ambito disciplinare, avrebbe potuto essere tradotto in una disposizione ben più vigorosa. Da ultimo, con riguardo alla disciplina dei rapporti tra livelli di piano, la logica del testo in esame appare quanto meno discutibile. Da un lato (articolo 6, comma 3), si prevede che il piano urbanistico «deve» ricomprendere e coordinare ogni disposizione o piano settoriale o territoriale incidente sul medesimo ambito. Dall’altro (articolo 8, comma 6), si afferma che il primo può modifica- re i piani territoriali o di settore, per garantire la coerenza del sistema e che la variante è automatica qualora sussista il consenso dell’ente titolare del piano modificato.

Formazione del piano urbanistico

Sebbene la Pdl 153 individui nel Comune l’ente preposto alla pianificazione urbanistica e titolare delle funzioni di governo del territorio, le competenze attribuite alla Regione sono sorprendentemente pervasive. A quest’ultima spetta, tra l’altro, definire le misure di salvaguardia (articolo 10) e stabilire forme di compensazione intercomunale, con riferimento ai «costi sociali generati dalla realizzazione di infrastrutture pubbliche che potrebbero causare squilibri economici o ambientali sul territorio» (articolo 6, comma 2): tale previsione è senza dubbio da salutare positivamente, pur nella sua genericità, e tuttavia resta incerto il coordinamento della stessa con la perequazione intercomunale di cui all’articolo 9, comma 7. Viene da chiedersi, cioè, se si tratti dell’ennesima svista redazionale (magari dovuta alla circostanza che l’articolo 6 è l’esito dell’approvazione di un emendamento), o se la riforma abbia effettivamente inteso configurare due istituti diversi come sembrerebbe suggerire l’oggetto dell’articolo 9 («compensazione e riequilibrio delle differenti opportunità riconosciute alle diverse realtà locali e degli oneri ambientali su quelle gravanti», quasi a riecheggiare un ideale di giustizia distributiva). Compete, inoltre, alla Regione la disciplina del procedimento di formazione e approvazione dei piani urbanistici e territoriali (articolo 8, comma 1). Non ci soffermeremo in questa sede su principi già acquisiti, dalla pubblicità alla partecipazione all’esame motivato delle osservazioni. Sembra, invece, più utile tentare di individuare le novità che la Pdl 153 intenderebbe apportare alla disciplina tradizionale e che possono essere raggruppate in tre categorie:

1) l’obbligo di motivazione delle scelte di piano in capo ai soggetti responsabili delle stesse (articolo 8, comma 3): è noto, infatti, che su tale obbligo è insorto un contrasto giurisprudenziale, con prevalenza dell’orientamento negativo fondato sulla natura discrezionale delle decisioni assunte in materia dall’amministrazione e sull’articolo 2, comma 2, della legge 241/1990;

2) la verifica di coerenza con gli strumenti di programmazione economica e con ogni disposizione o piano concernente il territorio (articolo 8, comma 4), che è la conseguenza della nozione ampia di «governo del territorio» che si è tentato di evidenziare in apertura;

3) la necessità che le Regioni prevedano termini perentori per la sostituzione delle previsioni urbanistiche decadute, annullate anche giudizialmente o revocate (articolo 8, comma 5), così impedendo vuoti di disciplina eccessivamente prolungati.

L’attuazione del piano: la perequazione e la compensazione

Poiché, evidentemente, la principale critica mossa al sistema di pianificazione del 1942 ha da sempre riguardato la sua scarsa efficacia in termini di attuazione delle previsioni di piano, il legislatore della riforma offre sul punto un ampio spettro di strumenti. In pratica, il piano urbanistico può essere attuato:

- con piano operativo;

- con intervento diretto, sulla base di progetti compatibili con gli obiettivi del piano strutturale;

- con sistemi perequativi e compensativi (articolo 9, commi 1 e 2).

Si noti che attuare le previsioni di piano sulla base di tali ultimi criteri è una mera facoltà («possono»). La perequazione, che si afferma nella pratica locale prima ancora che come istituto giuridico, consiste nell’attribuire diritti edificatori alle proprietà immobiliari, in percentuale dell’estensione o del valore di esse e indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso. I diritti edificatori sono poi trasferibili e liberamente commerciabili, all’interno di un ambito territoriale (non definito dal legislatore) o tra diversi ambiti territoriali. L’obiezione mossa alla predetta formulazione dell’istituto è che, andando ad incidere sul diritto di proprietà, costituzionalmente riconosciuto e garantito, il legislatore statale non può non disciplinarne in dettaglio criteri e presupposti, anche al fine di determinarne i meccanismi di opponibilità ai terzi ovvero la tutela di questi ultimi (P. Urbani). L’articolo 9, comma 2, prevede, invece, che siano le Regioni a stabilire criteri e modalità perequativi e compensativi. Allo stesso modo, è arduo valutare positivamente la previsione del successivo comma 4, che autorizza una sorta di bonus in termini di incrementabilità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani vigenti, anch’esso rimesso alle scelte della Regione. Alla compensazione, invece, quale alternativa sia alla perequazione («su terreni non ricompresi negli ambiti oggetto di attuazione perequativa») sia all’indennità di esproprio, si riferisce, sebbene non sia detto espressamente, il comma 5. Essa può consistere:

- nel trasferimento dei diritti edificatori di pertinenza dell’area su altra area di disponibilità dello stesso proprietario;

- nella permuta dell’area con altra di proprietà dell’ente preposto alla pianificazione;

- nella realizzazione diretta degli interventi di interesse pubblico o generale, previa stipula di convenzione con l’amministrazione per la gestione di servizi (una sorta di baratto aree-servizi pubblici, che suscita qualche

perplessità in tema di tutela della concorrenza).

I nuovi standard

Il Dm 1444/1968, che individua, secondo un criterio quantitativo, gli spazi da destinare al verde, alle infrastrutture, ai servizi, a utilità collettive in genere è stato oggetto di critiche per aver imposto, a livello normativo, l’osservanza di regole che dovrebbero invece essere rimesse alle buone pratiche. È stato anche notato che gli standard quantitativi sono rimasti sostanzialmente inattuati e che la riserva di determinati spazi a finalità di interesse generale comporta l’ulteriore consumo del bene territorio. Per «assicurare il passaggio da una infrastrutturazione virtuale a una attrezzatura reale del territorio» (Portaluri), quindi, anche a fronte di una rinnovata domanda di servizi da parte della collettività, la Pdl 153 prevede standard urbanistici di natura qualitativa (o prestazionale), anche in questo caso codificando quanto già in parte recepito nella pratica locale (basti pensare al piano dei servizi configurato dalla legge 12/2005 della Regione Lombardia). Per l’esattezza, spetta al piano urbanistico:

a) documentare lo stato dei servizi esistenti in base a parametri di utilizzazione;

b) precisare le scelte relative alla politica dei servizi;

c) garantire la dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici e di interesse pubblico o generale.

La prestazione di tali servizi potrà poi avvenire anche in concreto, senza connessione con le aree o gli immobili, e con il concorso dei soggetti privati, tanto che il successivo articolo 8, comma 8, parla di «piani convenzionali stipulati con soggetti privati e accordi di programma», che favoriscano appunto il recupero delle dotazioni territoriali. L’obiezione che può essere facilmente sollevata nei confronti della disposizione in commento è che essa lascia irrisolto il problema della soglia minima di dotazioni territoriali da garantire indifferentemente a tutti i cittadini sul territorio nazionale (P. Urbani), poiché la clausola di salvezza di quanto stabilito dall’articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione (livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali) è una mera formula di stile.

L’attività edilizia

Il progetto di riforma (pur con i correttivi ottenuti in sede di votazione degli emendamenti) tende ad attribuire alle Regioni il ruolo di nuovo epicentro del governo del territorio. Spetta, infatti, a queste ultime individuare le attività di trasformazione non aventi rilevanti effetti urbanistici e non soggette a titolo abilitativo, nonché le categorie di opere e i presupposti urbanistici in base ai quali la Dia può sostituire il permesso di costruire (fermo il regime sanzionatorio previsto per la concessione edilizia dalle leggi statali vigenti). La nozione di «rilevanti effetti urbanistici ed edilizi», cui viene subordinata la necessità di ottenere il titolo abilitativo, è ambigua ed è ovvio che, se la determinazione di tale soglia di rilevanza viene rimessa agli enti territoriali, senza alcuna indicazione in merito da parte del legislatore statale, lo stesso tipo di trasformazione sarà assoggettato a trattamenti giuridici diversi da Regione a Regione. Non sfugga, poi, che, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, spetterà a tale ente anche l’individuazione dell’attività edilizia consentita in assenza di piano urbanistico o nelle more dell’approvazione del piano operativo. Resta, invece, ai Comuni il tradizionale potere di vigilanza e di controllo sulle trasformazioni edilizie, mentre la previsione delle relative sanzioni è di competenza del legislatore statale, salva la facoltà delle Regioni di imporre sanzioni amministrative di varia natura

– reale, ripristinatoria, pecuniaria, interdittiva

– «nei confronti dei responsabili degli abusi più gravi» (di nuovo, la determinazione della «maggior gravità» non sarà univoca).

La fiscalità urbanistica

L’utilizzo della disciplina fiscale in materia di governo del territorio rappresenta senza dubbio una delle novità maggiormente significative del progetto di riforma ma non sfruttata in tutte le sue potenzialità. Attraverso tale strumento, possono astrattamente essere perseguite varie finalità di politica urbana (a partire dalla redistribuzione dei vantaggi e svantaggi derivanti, rispettivamente, dalle esternalità positive e negative della pianificazione) ma scopo principale dell’articolo 12 – incisivamente modificato in sede di prima approvazione – sembra incentivare l’attuazione delle previsioni di piano: basti pensare alla perequazione e alla libera commerciabilità dei diritti edificatori, che sarebbe evidentemente compromessa da un carico fiscale eccessivo sulle compravendite. La Pdl 153 non pone una disciplina diretta della materia in parola ma sceglie il metodo della delega legislativa (verosimilmente per ragioni di copertura finanziaria), istituendo, dal 2006, un fondo per gli interventi di fiscalità urbanistica presso il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Il fulcro della disposizione è quindi costituito da quei «principi e criteri direttivi», elencati al comma 2 in cinque lettere, che il Governo dovrà rispettare nella redazione dei decreti delegati. Essi possono essere raggruppati in due categorie, comunque riguardanti misure incentivanti o premiali (mai disincentivanti):

- agevolazioni relative alle imposte sul valore aggiunto, di registro, ipotecarie e catastali, sui trasferimenti di immobili o di diritti edificatori;

- misure di perequazione fiscale intercomunale e, in dettaglio, «possibilità» (mera facoltà, quindi) di redistribuire il gettito derivante dall’imposta comunale sugli immobili (Ici) tra quei Comuni che abbiano formato un consorzio per la localizzazione di attrezzature di interesse sovracomunale, volte alla realizzazione di aree per insediamenti produttivi di beni e servizi (in base alla partecipazione delle singole amministrazioni al consorzio stesso).

Rispetto alle precedenti versioni, è stata soppressa la previsione sia di agevolazioni relative all’imposta sul reddito sia di vantaggi di natura contabile (esigibilità delle imposte in esercizi successivi) sia di un regime speciale per i progetti di recupero e riqualificazione dei centri urbani. Inoltre, la forza della misura incentivante sembra inevitabilmente compromessa laddove si ammette la futura «possibilità di rideterminazione, anche in riduzione, delle agevolazioni» (articolo 12, comma 2, lettera d): privare il destinatario del beneficio fiscale di ogni certezza sulla sua entità e durata nel tempo significa indebolire la funzione del beneficio stesso. L’articolo 12 nel suo complesso ha il sapore di una promessa che non sarà mantenuta.

Conclusioni

Il progetto di riforma ha senz’altro il merito di proporre dei principi fondamentali in una materia, come il governo del territorio, da anni alla ricerca di una nuova cornice normativa, adeguata ai mutamenti di fatto già intervenuti nelle pratiche e nella legislazione regionale. Il testo approvato dalla Camera dei deputati tradisce alcune imprecisioni, che speriamo di aver contribuito a evidenziare, e soffre di certe ambiguità che è bene qui riassumere. In primo luogo, se la negoziazione – come anticipato nel commento all’articolo 5 – deve essere assunta a modalità privilegiata di esercizio della funzione pubblica di governo del territorio, sarà necessario determinare, almeno in sede di pianificazione strutturale, le regole secondo le quali essa deve svolgersi. Merita qui riassumere che la Pdl 153 parla espressamente di accordi pubblico-privato almeno in tre diversi momenti di eccezionale rilevanza pratica:

a) all’articolo 5, con riferimento, in generale, all’esercizio delle funzioni amministrative;

b) all’articolo 8, comma 7, con riguardo alla formazione dei piani urbanistici;

c) agli articoli 7 e 8, comma 8, in merito alle dotazioni territoriali.

In secondo luogo, appare criticabile sia la generalizzazione del silenzio-assenso in sede di procedimento di rilascio del permesso di costruire sia i riferimenti confusi e sparpagliati alla tutela del paesaggio, non sufficientemente apprezzato nella sua dimensione di risorsa irripetibile del Paese. Da ultimo, a dispetto dei miglioramenti ottenuti in sede di approvazione degli emendamenti, la Pdl attribuisce un potere eccessivo alle Regioni (con una sorta di neocentralismo), a scapito di città metropolitane, Province e Comuni: laddove, peraltro, ancora non è risolta la sovrapposizione tra Città metropolitane e Province. In conclusione, molto deve ancora essere fatto perché il testo della riforma nazionale del governo del territorio possa essere considerato adeguato alle esigenze della materia e agli interessi del Paese che hanno nella valorizzazione del territorio e nella qualità dello sviluppo edilizio e infrastrutturale un asset fondamentale anche sul piano economico.

Ho letto l'articolo di prima pagina di ieri, di Roberta Carlini. Quello che è successo solo due giorni fa alla Camera è gravissimo: si è approvata l'ennesima controriforma portata avanti da questo goverrno nell'interesse dei più forti. La sostituzione degli atti autoritativi - a garanzia della collettività - con atti negoziali tra pubblico e privato renderà i nostri territori soggetti a ennesime espansioni edilizie che consumeranno il poco territorio rimasto libero e lo deturperanno.

Non c'è solo un aspetto di tutela ambientale; oggi, infatti, grandi somme vengono sottratte agli investimenti, quindi alla creazione di nuova occupazione e alla modernizzazione delle infrastrutture produttive, per essere investite sulle rendite fondiarie e immobiliari. Viene da ridere, quindi, quando i «signorotti» del nord e il ceto politico che trasversalmente li rappresenta, parlano di «pericolo cinese». Purtroppo questo provvedimento è passato in sordina; nessuno, neanche l'opposizione, ha tentato una minima mobilitazione per bloccare questo ulteriore sfregio al principio di eguaglianza e al diritto che ognuno di noi ha di fruire del territorio e di trovare le stesse condizioni. Viene spazzato via il pur minimo principio di perequazione urbanistica che, se diffcilmente applicato, è pure presente nelle leggi di governo del territorio e nei piani di gestione territoriale.

In un paese come il nostro dove le deturpazioni del paesaggio e del territorio stanno facendo pagare il conto in termini di dissesto idrogeologico e di sicurezza del territorio più in generale, la legge che il governo e la maggioranza stanno approvando, può determinare un punto di non ritorno.

Il costante aumento di risorse destinate alla protezione civile, l'aumento dei consumi energetici con conseguente dispersione, potrebbero essere regolate e limitate attraverso buone pratiche applicate alla pianificazione urbanistica, questo Pdl invece elimina alla radice qualsiasi idea di sviluppo sostenibile appoggiando cialtronescamente uno sviluppo economico basato sulla rendita, sulla speculazione mettendo sotto scacco il territorio.

Che conseguenze potrà avere la legge Lupi sul territorio rurale italiano? In linea di principio, è possibile osservare come la legge sia in netta controtendenza non solo rispetto agli indirizzi dettati in materia dall’Unione europea, ma anche alle esperienze di importanti stati membri (Inghilterra, Germania, Francia). I motivi di questa affermazione sono molteplici.

In ambito europeo è oramai prevalente il punto di vista secondo il quale lo spazio rurale rappresenta nel suo complesso un bene pubblico, al di là degli assetti proprietari e delle forme di conduzione. L’attenzione è rivolta alla multifunzionalità del territorio rurale, alla capacità cioè che esso ha di produrre un flusso di beni e servizi utili alla collettività, legati non solo alla produzione primaria, ma anche e soprattutto al riciclo ed alla ricostituzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo), al mantenimento degli ecosistemi, della biodiversità, del paesaggio; al turismo, alle occasioni di ricreazione e vita all’aria aperta ecc. Il territorio rurale è in grado di compiere tutte queste funzioni perché esso costituisce la porzione largamente prevalente dei bacini idrografici, degli ecosistemi e dei paesaggieuropei, cioè delle infrastrutture ambientali che sostengono, direttamente o indirettamente, la vita delle comunità insieme a buona parte delle attività economiche, sociali, culturali.

2. I principali documenti comunitari in materia di pianificazione e ambiente (vedi ad esempio lo Schema di Sviluppo Spaziale Europeo approvato dal Consiglio dei ministri nel 1999, ma anche le varie edizioni del Dobris Assessment curate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente) considerano il consumo di suolo per espansione urbana come la principale minaccia alla conservazione delle risorse ambientali in Europa. Una possibile via di uscita viene indicata nel riciclo delle aree urbane esistenti, e nell’utilizzo del più appropriato mix di strumenti regolativi, incentivi e comportamenti volontari per governare entro limiti di sostenibilità complessiva la trasformazione urbana di aree rurali.

3. Molti stati europei, in risposta a queste esortazioni, hanno definito strategie nazionali per la tutela del proprio spazio rurale. Come racconta Jeorg Frisch nel suo articolo per Eddyburg, la Germania ha elaborato un piano nazionale per la riduzione del consumo di suolo dagli attuali 130 ettari giornalieri, a 30. La Gran Bretagna, che protegge da quasi settant’anni con le sue green belt un milione e mezzo di ettari - il 12% del paese -, ha scelto una strada differente, fissando l’obiettivo di soddisfare, mediante riciclo delle aree urbane esistenti, una quota della nuova edificazione, definita localmente, e comunque non inferiore al 50-60%. Per evitare la dispersione urbana, in Francia, le leggi sul paesaggio rurale e la montagna impongono che le nuove edificazioni avvengano esclusivamente in continuità con i nuclei insediativi esistenti. E’ superfluo aggiungere come tali strategie, pur con le debite aperture ad aspetti di negoziazione e partecipazione pubblica, presuppongono un ruolo forte della pubblica amministrazione, come garante della sostenibilità complessiva delle scelte, nonché del rispetto degli interessi diffusi, oltre che di quelli particolari degli stakeolders.

4. La strada perseguita dalla legge Lupi è diversa, e si ispira ad un contrattualismo radicale che non ha probabilmente riscontro in nessuna democrazia liberale al mondo, con le funzioni di regolazione e garanzia della pubblica amministrazione che vengono di colpo praticamente azzerate. In un simile contesto, al di là degli aspetti predicatori in materia ambientale, dai quali la legge non ha il pudore di esimersi, strategie di tutela dello spazio rurale simili a quelle adottate dalle principali democrazie europee diventano impraticabili, perché semplicemente illegittime. La logica è rovesciata: mentre in Europa il valore dello spazio rurale, nel suo complesso, rappresenta ormai l’assunzione di principio, ed è il proponente a dover semmai dimostrare la necessità impellente e non diversamente ovviabile di nuovi consumi di suolo, in Italia è il diritto edificatorio della proprietà fondiaria ad essere garantito, a spese di un “territorio non urbanizzato” che, sul tavolo dissettorio della Lupi, viene impietosamente smembrato in “aree destinate all’agricoltura, aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili” (sic! se non è zuppa è pan bagnato).

5. Tutto ciò, all’interno di un contesto nazionale di involuzione regressiva della governance ambientale, che vede le Soprintendenze in disarmo; le Autorità di bacino e gli Enti parco operare allo stremo con risorse risibili, in un regime di spoil system tra i più spietati; la sospensione di fatto delle procedure di VIA, oggi più efficientemente surrogate da una delibera del Cipe, piuttosto che di un commissario governativo alle cave o ai rifiuti. Per non parlare dell’infelice momento in cui versano le associazioni ambientaliste, impegnate a leccarsi le ferite dopo mesi di cruente e dissolutive contrapposizioni.

Insomma, il ghe pensi mi al posto delle garanzie liberali, e poi per favore basta lagne: chi ha più capacità e iniziativa alla fine prevarrà: sulle macerie fumanti del bel paese. Ne riparliamo a settembre alla Scuola estiva in Val di Cornia.

Qui sotto potete scaricare il testo in formato .pdf (il testo ufficiale dai stampati del Senato). Spero che nessuno, fermandosi al primo firnmatario della prima legge "unificate", la chiamerà "Legge Bossi". La vergogna è già abbastanza. Se poi leggete la legge e cercate di comprenderla...

01/07/2005 - Approvato ieri alla Camera il disegno di legge Lupi sul governo del territorio che apre la strada ad una nuova legge urbanistica, vera e propria riforma della vecchia legge del 1942.

Si tratta di un primo atto concreto a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, ma anche a seguito del processo di sviluppo delle autonomie territoriali e amministrative avviato già dai primi anni Novanta, che riguarda anzitutto le Regioni ma anche Province, Comuni e le future Città metropolitane.

Il Ddl definisce il governo del territorio l'insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi di tutela e valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni e la mobilità. Il governo del territorio comprende l'urbanistica, l'edilizia, i programmi infrastrutturali e la difesa del suolo.

Con un emendamento presentato da Sandri del centro-sinistra è stata inserita la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali.

Il Ddl prevede che lo Stato mantenga le funzioni di predisposizione di politiche generali e di settore. Lo Stato, d’intesa con gli Enti locali, effettua interventi speciali in determinati ambiti territoriali per rimuovere condizioni di squilibrio territoriale, economico e sociale e promuovere politiche di sviluppo economico locale sostenibile, attraverso gli strumenti di programmazione negoziata.

La Legge introduce i criteri di sussidierietà, di concertazione tra i diversi livelli di governo e di semplificazione delle procedure, come già anticipato da molte recenti legislazioni regionali.

Le regioni individuano gli ambiti e i contenuti della pianificazione del territorio e fissano regole di garanzia e di partecipazione degli enti territoriali coinvolti, per assicurare lo sviluppo sostenibile e per soddisfare le nuove esigenze di sviluppo urbano, privilegiando il recupero e la riqualificazione dei territori già urbanizzati.

Confermando il Comune quale primario titolare delle funzioni di governo del territorio, il Ddl definisce il piano urbanistico comunale lo strumento che ricomprende e coordina i piani settoriali o di area vasta, che recepisce le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici e nelle normative statali in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio.

Il piano comunale sarà uno strumento pianificatorio diviso in due livelli: strutturale e operativo.

Con un altro emendamento viene ribadita l’importanza del piano territoriale di coordinamento provinciale che rivaluta il livello intermedio di pianificazione.

Alla valutazione quantitativa della dotazione di servizi si sostituisce un criterio di tipo prestazionale

È prevista la possibilità per gli enti di proporre modificazioni ai piani settoriali o di area vasta, così da assicurare la coerenza tra gli strumenti di pianificazione: si tratta di un passo in avanti verso il superamento della rigidità del modello gerarchico della pianificazione territoriale che in passato ha spesso dato risultati deludenti.

Sono anche consentiti accordi con i privati, nel rispetto dell’imparzialità amministrativa, e della trasparenza, nonché piani convenzionati stipulati con i privati e accordi di programma per il recupero delle dotazioni di servizi pubblici.

Il Ddl introduce i criteri della perequazione e della compensazione, e prevede il trasferimento e la commercializzazione dei diritti edificatori, utilizzabili anche in alternativa all'indennizzo previsto per gli espropri.

Tra gli emendamenti del centro-sinistra approvati dalla Camera vi è quello di Mantini che assoggetta gli abusi edilizi a sanzioni penali, civili e amministrative, e consente alle regioni di prevedere sanzioni amministrative di natura reale, ripristinatoria, pecuniaria, interdittiva dell'attività edilizia nei confronti dei responsabili degli abusi più gravi.

Altri emendamenti passati sono quello che introduce il glossario nell’articolo 1, quello che riformula l’articolo 11 relativo alla fiscalità urbanistica e l’articolo finale che abroga numerose leggi vigenti.

Contrastanti i pareri dei parlamentari del centrosinistra: Mantini apprezza il testo bipartisan approvato ma è critico sulle carenze della legge in termini di trasparenza dei rapporti fra privati e PA; Iannuzzi ritiene che la legge si limiti agli aspetti urbanistici trascurando una visione organica della tutela del territorio. Per Folena la legge non tutela l’ambiente e favorisce i poteri forti.

Confermata la delega al Governo per riscrivere le norme sulla fiscalità.

Ora la legge passerà all'esame del Senato.

Il sito Edilportale, con i links ad altri documenti (f.b.)

Governo. La Camera approva la legge “Lupi” sulla riforma urbanistica. La tutela del paesaggio e dei beni culturali si sottomette agli interessi economici. Nell'indifferenza generale

In questo periodo si era finalmente rotto il muro del silenzio sui temi della città. Da qualche settimana i riflettori mediatici si sono accesi su un gruppo di giovani e rampanti “immobiliaristi” e sulle enormi ricchezze accumulate in questi anni.

Addirittura si è iniziato a sentire la parola palazzinaro al posto del più paludato immobiliarista: una definizione certo più sommaria, ma che rende perfettamente il senso di quanto sta avvenendo. Mentre una parte della popolazione non ce la fa a sopportare i prezzi del mercato immobiliare (sono spesso i Prefetti a lanciare l’allarme sul diffuso dramma sociale degli sfratti) alcuni disinvolti operatori ne ricavano ricchezze con cui tentano di acquisire banche e giornali.. L’impoverimento di molti è compensato dall’arricchimento di pochissimi: una enorme bolla speculativa ha riempito le casse di nuovi ricchi e ha fatto il deserto della vita della fascia di popolazione meno difesa.

Ma non è solo con la bolla speculativa che si spiega l’ascesa dei palazzinari: da molti anni vengono infatti sfornate leggi che semplificano loro la vita, permettendo alla proprietà immobiliare di fare tutto ciò che vuole. Del resto nel programma elettorale dell’attuale governo era scritto “padroni a casa propria”, e questo concetto è stato poi arricchito da vergognose svendite del patrimonio pubblico e condoni.

In buona sostanza si è privatizzato il futuro della città: l’urbanistica è stata sistematicamente cancellata e sostituita dall’iniziativa della speculazione fondiaria. In questo clima, la Camera dei Deputati ha approvato la cosiddetta legge “Lupi”, dal nome del primo firmatario della proposta di riforma urbanistica. Essa, con l’appoggio esplicito dell’Istituto nazionale di Urbanistica e la pressoché totale indifferenza di molta parte dello schieramento ulivista, completa il percorso legislativo iniziato in questi anni. I piani urbanistici da atti pubblici diventano strumenti da costruire insieme alla proprietà immobiliare. Gli standard urbanistici, e cioè la storica conquista degli anni ’70, sono sostituiti da oscuri concetti “qualitativi” che nascondono un’ulteriore compressione dei diritti collettivi. La tutela del paesaggio e dei beni culturali è messa in subordine agli interessi economici.

Un brutto colpo per i progressisti, dunque. E un grande regalo per gli immobiliaristi-palazzinari.

Qui Aprile online

Approvata alla Camera la legge Lupi sul "Governo del territorio" con il voto contrario del centrosinistra e di Rifondazione. Ora si sposta al Senato la battaglia per impedire che questo vero e proprio scempio della cultura della pianificazione e della programmazione pubblica del territorio diventi legge dello Stato. Molti, e a proposito, l'hanno chiamata "la legge 30 dell'urbanistica" cogliendo appieno la forza precarizzatrice di ogni norma di garanzia e di tutela del territorio che il testo contiene. Certo si viene da anni di picconate robuste alla pianificazione pubblica, da anni di "urbanistica contrattata" con gli interessi immobiliari e la rendita fondiaria, e quindi qualcuno potrebbe dire che questa legge altro non è che un compendio di consuetudini già consolidate nelle leggi regionali e nella quotidiana deregolazione. Ma questa rappresenta un di più, un salto di qualità, una codificazione stabile non solo del principio liberista. Essa rappresenta la sanzione che la rendita fondiaria (e i suoi accoliti cementificatori) diventa il soggetto che propone e dispone delle trasformazioni territoriali e urbane. Esattamente il contrario di ciò che ha fatto la cultura urbanistica democratica che ha sempre individuato nella rendita l'avversario da battere o almeno da piegare per garantire un uso del territorio consono agli interessi della collettività e dell'ambiente. L'interesse pubblico, la salvaguardia del territorio, la preziosa difesa dell'ambiente naturale ed urbano, una volta diventati "merce", possono essere trasformati e privatizzati pagando. E figuriamoci quale baluardo possono opporre i Comuni, sempre alla disperata ricerca di euro per far quadrare i bilanci taglieggiati dalla contrazione dei trasferimenti dello Stato e dall'aumento delle competenze! Abbiamo già detto che la ridefinizione culturale, disciplinare e legislativa dell'interesse pubblico delle trasformazioni urbanistiche è punto importante di un programma alternativo all'uso liberista della risorsa territoriale e urbana, ma questa battaglia contro la legge Lupi ha un ulteriore significato generale: impedire la saldatura fra rendita finanziaria e rendita fondiaria, entrambe liberate da lacci e laccioli e dunque libere di esplicare il massimo del loro interesse parassitario. A guardare le ultime imprese (banche, media ecc) dei rentiers d'assalto palazzinari e non, viene il dubbio che l'Italia non sia più una Repubblica fondata sul lavoro, ma sulla rendita. Eppoi ci si stupisce se uno si butta a sinistra.

Postilla

Ma quanto è diversa la sinistra? Che cosa ha fatto la sinistra per fermare la legge Lupi? Una volta, aveva raccolto "le bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango", adesso sembra aver dimenticato la verità liberale della necessità di regolare il mercato.

L’ Italia è già alla sete dopo poche settimane di caldo, col Po vicino ai minimi storici di due anni fa. Ma perché dovrebbe avvenire qualcosa di diverso visto che siamo tanto impegnati a "impermeabilizzare" il suolo italiano spalmando cemento e asfalto dove prima c'era la campagna? Perché dovrebbe avvenire qualcosa di diverso visto che la Camera ha appena licenziato - nell'assordante silenzio, mi pare, delle stesse associazioni ambientaliste e di tanta parte del centrosinistra - una nuova legge urbanistica che, travolgendo ogni argine, potenzia i meccanismi per i quali la superficie agricolo-forestale viene "mangiata" a tutta forza da cemento+asfalto? Una legge, questa, che l'on. Pier Luigi Mantini della Margherita ha definito, tutto sommato, "bipartisan", e che, non a caso, è stata accompagnata da un silenzio pressoché generale che suona vergogna per la residua civiltà urbanistica italiana.

Solo qualche cifra per capirci meglio. Fino a mezzo secolo fa il Bel Paese aveva circa 28 milioni di ettari coperti da boschi, pascoli e campagne. Nel 2000 ce ne eravamo mangiati più di 8 milioni. Siamo infatti scesi a 19,6 milioni di ettari, con una pazzesca accelerazione. Vi sono anni in cui ci "mangiamo" oltre 100 mila ettari. Il che vuol dire che, in capo ad un decennio, sparirà sotto la coltre cementizia una campagna intatta più grande di tutto l'Abruzzo. Del resto, se scendete in aereo su Venezia, potete constatare come la campagna non ci sia più fra Treviso, Mestre e Padova. Restiamo un attimo qui perché il professor Antonio Rusconi, idraulico dell'Università di Venezia (cito dal "Sole 24 Ore" di martedì), ridisegnando la pianura veneta, ha scoperto che in Veneto le acque sotterranee si sono abbassate di 10-15 metri e le risorgive sono quasi scomparse. In tal modo,"dal mare - afferma - le acque salse risalgono i fiumi per 30 e anche 40 chilometri e nel sottosuolo scacciano l'acqua dolce lungo tutto il litorale padano e romagnolo". Stiamo pompando acqua a tutto spiano (specie per l'agricoltura intensiva), trivelliamo pozzi di continuo, "rubiamo" l'acqua ai fiumi e alle falde, usiamo acqua potabile anche per fabbriche e campi, insomma la buttiamo via. Perché ? Perché siamo degli insensati, perché "ciascuno è padrone a casa sua", perché mille litri d'acqua costano niente, come una telefonata dal cellulare. A Roma - dove un metro cubo d'acqua potabile ha un prezzo sei volte più basso che a Berlino, quattro volte più basso che a Marsiglia, pari alla metà comunque della città europea più a buon mercato (Bristol) - si consuma ovviamente il doppio e anche più del resto d'Europa. Pure a Milano o a Torino gli sprechi galoppano Le cose vanno meglio, guarda caso, in città come Forlì, Ferrara o Pistoia dove l'acqua ha tariffe europee.

Questi sprechi assurdi di risorse idriche hanno impoverito le falde sotterranee, in modo spesso grave. Falde che le piogge non alimentano più come un tempo. Perché ? Perché stiamo "impermeabilizzando" i nostri suoli facendo avanzare cemento e asfalto nelle campagne. Così, l'acqua piovana - che cade più violenta - non filtra, non penetra, non resta più, ma scivola via più veloce in superficie, facendo disastri. Due danni in uno.

Dobbiamo ripensare l'intero uso delle acque. Dobbiamo ripensare l'intero uso del territorio. Dobbiamo risparmiare entrambe le risorse primarie : l'acqua e la terra. Farne grande, rigorosa economia. E invece la nuova legge urbanistica, primo firmatario il formigoniano Maurizio Lupi (Forza Italia), è destinata ad accelerare gli sprechi folli in atto. Essa infatti cancella sia i piani regolatori generali quali "atti autoritativi", sia gli standard minimi di verde, scuole, sport, sanità, cultura, ecc. previsti nei PRG, dalla legge-ponte in qua. Cancella la città dei cittadini e la sostituisce con la città degli immobiliaristi coi quali i Comuni contratteranno i loro piani (si fa per dire). Non solo : stracciando una tradizione che viene dalle leggi Bottai del '39 e dalla legge urbanistica del '42 passando per la legge Galasso e per le normative regionali, la legge Lupi esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio. "Una legge che rende permanenti le regole della distruzione del Paese, avviate coi condoni. Una legge che rende evanescenti i diritti sociali della città, conquistati al prezzo di dure lotte. Una legge che rende dominanti su tutti gli interessi della rendita immobiliare". Cioè i Ricucci, i Coppola, gli Statuti di turno. Oltre ai loro fratelli maggiori. Così ha commentato, giustamente tagliente, l'urbanista Eddy Salzano animatore di un sito web aggiornato e combattivo su queste materie (Eddyburg). Nel silenzio dei siti ambientalisti, purtroppo, dove ci si balocca sovente con questioni laterali. Un tempo la sinistra aveva almeno una certezza in economia : che fosse indispensabile tagliare la rendita fondiaria e premiare il profitto d'impresa. E adesso ? La legge Lupi va al Senato : c'è tempo per uscire da questo silenzio rosso di vergogna, e per dare almeno battaglia, apertamente, contro la barbarie e per la salvezza di quanto resta del Bel Paese.

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