I grigi capannoni cementizi sfigurano già tanti paesaggi italiani. Tuttavia, con alcune delle leggi regionali partorite dal Piano Casa del Primo Immobiliarista, il cav. Berlusconi, andrà molto peggio. Nel Veneto l’ampliamento di quelli esistenti arriva al 20% della superficie coperta: uno di 5.000 mq si dilaterà a 6.000 (a 7.500 mq qualora il proprietario li adegui al risparmio energetico).
In Lombardia avverrà di peggio: chi li demolisce e li ricostruisce in toto, potrà riutilizzarli a fini residenziali. Lo prevedeva la primissima bozza del Piano Casa berlusconiano: cambiare la destinazione d’uso come cambiarsi la camicia, ma la misura (un flagello per l’urbanistica delle nostre città e periferie) era stata cassata per l’intervento della Conferenza Stato-Regioni. Tuttavia qualche Regione (vedi Lombardia) se l’è tenuta di riserva, mentre altre prevedono agevolazioni parziali. Qualcuna (vedi Piemonte) consente, entro certi limiti, di soppalcare gli amati capannoni. La Valle d’Aosta si segnala fra le più permissive, con tanti saluti alle bellezze naturali e al turismo di qualità.
Ma c’è bisogno di tutta questa fiumana di nuova edilizia? No. Il costruito è già enorme, il boom edilizio tutto di speculazione, o di seconde e terze case è durato dal 2000 al 2007, senza nemmeno sfiorare l’edilizia economica, quella sociale, per la quale siamo precipitati all’ultimo posto in Europa. Sarebbe stato quindi essenziale varare un grande piano per quel tipo di alloggi (destinati a giovani coppie, a famiglie di immigrati, ad anziani soli, ecc... ), puntando contemporaneamente sul recupero del patrimonio esistente, vuoto o degradato. Solo che il governo Berlusconi, indebitato ben oltre i pochi capelli, non ha denari da mettere nel social housing, e quindi offre agli italiani di investire in questo nuovo boom prevalentemente privato impiccandosi per una vita ai mutui. Tanto per rianimare così, nel modo più cinico, un’economia e un PIL altrimenti in netta flessione.
Avremo così una miriade di interventi che gonfiano le cubature esistenti (di un 20-30%), sopraelevano gli edifici (anche fino a 4 metri, nella solita disastrata Lombardia), consentono di demolire e trasferire altrove, con un premio del 60%, costruzioni alzate sul litorale, per esempio, del Lazio (dove le cacceranno non oso pensarlo).
Eppure a Roma un alloggio su sette è vuoto e a Milano risultano deserti ben 900.000 metri cubi di uffici che - come denuncia l’architetto Stefano Boeri, docente al Politecnico - equivalgono a 30 grattacieli Pirelli, mentre sulla città già si addensano le nuove enormi cubature dell’Expo 2015. Non siamo all’impazzimento generale?
Il secondo scudo fiscale, e cioè il ritorno dei capitali illegalmente esportati all’estero, fu preparato dal ministro Tremonti nel 2001. Rientrarono circa 80 miliardi di euro e non furono utilizzati per investimenti produttivi. Lo disse pure un berlusconiano di ferro come Vittorio Feltri che qualche anno dopo, nel 2005, scrisse che quei soldi erano andati ad ingrassare la rendita immobiliare, grazie ai provvedimenti di abbattimento di ogni regola urbanistica.
Oggi sta per essere varato il terzo scudo fiscale. Come indirizzare questo altro fiume di soldi nella rendita immobiliare deve essere stato un rompicapo anche per i disinvolti economisti di via XX Settembre. L’Istat ha infatti certificato che dal 1995 (quando riprese il ciclo edilizio dopo Tangentopoli) al 2006 sono stati costruiti oltre 3 miliardi di metri cubi di edilizia. Il 40%, e cioè 1 miliardo e 300 milioni, di questa mostro di cemento è costituita da case: due milioni e mezzo di nuove abitazioni, mentre il numero delle famiglie italiane è cresciuto soltanto di poche decine di migliaia. Ci sono dunque tante case vuote, circa due milioni. Chi mai investirebbe in nuove edificazioni?
Ma ecco la trovata geniale. Due mesi fa, Berlusconi in persona anticipò il meccanismo con cui si sarebbe aperta una nuova fase di alimentazione della rendita fondiaria. Ogni edificio poteva aumentare la propria cubatura del 20 o del 35 %. Tutti felici? A dire il vero molti no: tutti i proprietari di case in condominio, la stragrande maggioranza delle famiglie italiane, che rimanevano esclusi dal regalo. Alcuni felici, ma moderatamente, e cioè i possessori di ville e case unifamiliari, parte consistente dell’elettorato di centro destra.
Solo i soliti pochi noti potevano brindare ad un nuovo gigantesco arricchimento sulle spalle della collettività. Le grandi proprietà immobiliari; le grandi catene dei supermercati sempre più in difficoltà; le grandi catene di alberghi; i proprietari di grandi fabbriche dismesse. Loro si, date le dimensioni degli immobili, che potevano arricchirsi enormemente. Solo un esempio. Nelle foto si vede come le Assicurazioni Generali, uno dei pilastri del capitalismo italiano, abbiano pensato bene di sperimentare il funzionamento del generoso regalo del governo. In questi giorni è stato smontato il cantiere del restauro degli uffici di via Bissolati, nel cuore del centro antico di Roma, ed è apparso un piano in più! Come se la legge fosse già in vigore e valesse anche per i centri storici. Un abuso in piena regola, ma facciamo i conti in tasca alla “classe dirigente”. Supponiamo che siano stati realizzati 300 nuovi metri quadrati con immenso terrazzo con vista su Roma. Al valore di mercato l’Ina mette all’incasso oltre 5 milioni di euro di rendita parassitaria. Viva Berlusconi, dunque! Se poi le città diventano più brutte e volgari, se il paesaggio viene calpestato, se le campagne sono cementificate, non è cosa che li riguarda.
La dimostrazione della direzione classista del governo si trova poi confermata anche nel secondo dei provvedimenti, il cosiddetto “piano casa”. La precisione con cui sono stati calcolati gli arricchimenti dei pochi grandi proprietari con il primo annuncio, diventano approssimazioni e aria fritta nella seconda legge. Sono infatti previsti 550 milioni di euro in cinque anni per risolvere l’emergenza abitativa e risolvere la crisi economica del settore edilizio. E’ stato detto che con quella somma verranno realizzate 100 mila abitazioni. Per ogni abitazione si prevede allora di spendere 5 mila e 500 euro! La cifra è così palesemente ridicola che già in sede di presentazione si è dovuto correre ai ripari. Ha affermato il ministro Matteoli che quello stanziato è soltanto il contributo pubblico. Saranno i privati a correre ad investire –ci metteranno 3 miliardi di euro- nel previsto “hausing sociale” .
Purtroppo per l’Italia l’opposizione è temporaneamente liquefatta e questa panzana non è stata ridicolizzata come si doveva. Bastava citare i molti i libri che hanno analizzato le cause della crisi immobiliare statunitense. Ad esempio, La valanga di Massimo Gaggi racconta in un paragrafo gli esiti dell’hausing sociale negli Stati Uniti: soldi pubblici che hanno gonfiato le tasche degli speculatori e hanno lasciato senza casa la povera gente. Anche in quel paese l’hausing sociale è stato abbandonato. In tutta l’Europa occidentale si è continuato a costruire alloggi pubblici. In Spagna il governo sta acquistando una parte del gigantesco stock invenduto per farne alloggi pubblici. Da noi, si vuole continuare nella commedia. L’unico modo per risolvere il problema della casa è dunque quello di saper declinare oggi un nuovo ruolo dello Stato. E’ la mano pubblica che nei momenti di crisi deve saper indicare una prospettiva di grande respiro.
Un compito di straordinaria importanza che potrebbe essere inaugurato dalle Regioni. E qui veniamo al terzo capitolo dei provvedimenti sull’edilizia, perché proprio le Regioni avevano rivendicato la podestà legislativa in materia e hanno iniziato ad approvare leggi che declinavano la volontà governativa di consentire aumenti volumetrici ai proprietari di immobili. E le regioni di centro destra si stanno scatenando, Veneto e Sardegna in prima fila. Purtroppo, anche le regioni progressiste hanno scelto la stessa filosofia berlusconiana. Nel Piemonte che approvò nel 1977 la prima rigorosa legge regionale sull’urbanistica, si consente oggi ai proprietari di fabbriche di demolire e ricostruire altrove con un premio di cubatura del 50%. Altra rendita speculativa. Nel Lazio la giunta regionale ha approvato un disegno di legge che si basa proprio su quell’housing sociale abbandonato nel mondo. Addirittura si vogliono rendere edificabili i terreni destinati a servizi pubblici e verde “quando eccedono la quota minima prevista dalla legge”.
E proprio questo è il migliore epitaffio –se non verrà cancellato- per la stagione riformista dell’urbanistica pubblica. La storica legge sugli standard del 1968 prevedeva, come noto, una quota minima di aree da destinare a servizi. Ogni amministrazione comunale poteva aumentarle perché perseguiva un legittimo obiettivo sociale. Oggi quella stagione tramonta. Su quelle aree su cui dovevano sorgere parchi o servizi, meglio costruire case. I soldi per le attrezzature pubbliche non ci sono mai, come noto. Per l’housing sociale che risolve soltanto i problemi patrimoniali dei costruttori e non quello della casa per le famiglie a basso reddito, invece i soldi si trovano. L’Italia è purtroppo diventata il paese della rendita immobiliare speculativa.
Nello scontro istituzionale con il Governo, bloccando la proposta del “piano casa” avanzata dal Presidente Berlusconi, sembra che le Regioni si siano accorte di avere un potere che non esercitavano. Ecco così che tutte le Regioni hanno normato, o stanno normando, propri piani casa (o sedicenti tali) che consentono aumenti di cubature. Il WWF lancia un allarme poiché la sommatoria di tutti questi piani rischia di essere peggiore di quella (improponibile) inizialmente ipotizzata dal Governo: infatti molte Regioni non si sono limitata alle case, ma hanno consentito interventi anche sulle strutture edilizie artigianali ed industriali. E’ il caso del Piemonte e della Lombardia, dove il premio di cubatura viene consentito anche ai capannoni. In Lombardia poi viene autorizzato il recupero e riutilizzo a scopo residenziale delle volumetrie abbandonate anche se con diversa destinazione di uso. Ma a preoccupare il WWF oggi sono i territori di Sardegna e Campania a rischio cemento.
“L’effetto domino che si sta verificando sta portando le regioni ben oltre il concetto di “piano casa” e a breve assisteremo ad un significativo aumento non solo delle costruzioni, ma anche della densità abitativa di alcune zone delle nostre città senza che in via preventiva ci si sia preoccupati di adeguare standard urbanistici quali verde pubblico e servizi e senza che si sia provveduto ad un potenziamento mirato dei servizi di trasporto pubblico” – ha dichiarato Gaetano Benedetto, co-direttore del WWF Italia - Tra le Regioni che si apprestano ad approvare nuove norme in questo settore, quelle che ci preoccupano maggiormente sono due. La Campania, dove è forte il rischio di speculazioni e deregulation nella pianificazione edilizia in conseguenza del piano casa in discussione in questi giorni in Consiglio regionale, si presta così a versare nuovo cemento sul proprio territorio già martoriato .
Anche la Sardegna apre una nuova stagione edilizia e viene da chiedersi se gli incendi di questi giorni, nell’ignoranza della norma che vieta per 10 anni ogni costruzione sui terreni percorsi dal fuoco, non abbiano a che fare con questa aria che si respira. Il tutto sta avvenendo senza coordinamento alcuno da parte dello Stato che sembra, aver rinunciato ancora una volta al proprio ruolo di coordinamento e di indirizzo. Vale la pena ricordare che il ‘governo del territorio’ e con esso l’urbanistica non è materia esclusiva delle Regioni, ma “concorrente”. La competenza dunque non esclude lo Stato che, se c’è, farebbe bene a battere un colpo”.
CASO SARDEGNA:
ARRIVA L’ABUSO ‘FAI DA TE’
In Sardegnail cosiddetto piano casa si inserisce in una proposta complessiva di revisione del Piano Paesaggistico Regionaleche impediva di edificare entro i 2.000 metri dal mare. La legge è molto articolata, anche per diverse categorie (residenze, strutture turistico alberghiere, strutture agricole ecc), ma con poche eccezioni (centri storici e case sparse entro i 300 mt dal mare) consente un aumento del 20% dell’esistente che, nel caso si strutture uni o bi familiari può essere realizzato non solo sopraelevando, ma anche costruendo corpi separati.
Gli edifici entro i 300 metri dal mare possono avere un aumento solo del 10%. Si può arrivare al 30% di aumento se si garantisce un risparmio energetico del 15% rispetto alle prescrizioni regionali, oppure se se gli edifici vengono abbattuti e ricostruiti.
Se si abbattono edifici entro i 300 metri dal mare e se si ricostruiscono all’interno è previsto un premio di cubatura del 40% che arriva al 45% se si garantisce un risparmio energetico del 20%. Ma quello che preoccupa è la semplificazione delle procedure. La maggior parte degli interventi potrà essere fatta con autocertificazione con una semplice Dichiarazione Inizio Attività , ma molte sono le opere che necessitano solo di una comunicazione senza rilascio di alcun permesso: movimenti di terra per attività agricole e zootecniche, serre stagionali senza muratura, opere temporanee sino a 90gg, pavimentazione degli spazi esterni anche per aree sosta, impianti funzionali all’efficienza energetica.
CASO CAMPANIA:
PIANIFICAZIONE URBANISTICA ADDIO
Peggiori, se possibile, le previste norme in Campania che vorrebbero introdurre nella normativa regionale una totale deregolamentazione alle leggi vigenti in materia di urbanistica: giovedì ci sarà il voto in aula regionale.
Il valore delle aree industriali dismesse è triplicato in pochi giorni, a riprova che gli speculatori si stanno già muovendo. Il disegno di legge infatti, superando di slancio i già discutibili contenuti dell’accordo Stato-Regioni, introduce una vera e propria liberalizzazione a tempo indeterminato delle destinazioni d’uso, consentendo tout court la trasformazione in abitazioni delle strutture produttive anche se funzionanti. Questo costituisce pertanto un allettante invito alla cessazione anticipata delle poche manifatture ancora attive, alla faccia del “rilancio economico”.
Tutto questo in deroga alla pianificazione comunale, dando per intero l’iniziativa ai privati, lasciando i Sindaci, cui pure la Costituzione e le leggi conferiscono il potere di disciplinare l’uso del suolo, spettatori impotenti. Il piano inoltre premierebbe chi ha compiuto abusi. Gli abusivi che hanno condonato quanto costruito, ampliano considerando anche le superfici abusive; e quelli che non hanno condonato ancora finiscono per avere una doppia premialità : corsia preferenziale per il condono e superficie condonata considerata ai fini dell’ampliamento.
E come aggravante tutto questo anche nella zona rossa del Vesuvio e nelle aree tutelate dai piani paesaggistici.
La prima vittima illustre della deregulation sarebbe il piano regolatore di Napoli che ha il merito di aver affidato saldamente alla mano pubblica la regia del recupero delle aree industriali dismesse, risparmiando per ora alla città un nuovo sacco edilizio.
Unica nota positiva prevista è che sia per gli interventi di ampliamento che per gli interventi di sostituzione edilizia il disegno di legge prevede che essi potranno essere effettuati a condizione che si usino tecniche costruttive che garantiscano prestazioni energetico- ambientali
Resta da capire per i nuovi carichi insediativi in un territorio già sofferente e congestionato, chi provvederà agli standard, al verde, agli spazi e attrezzature pubbliche. Su tutti questi aspetti il discusso provvedimento campano tace, lasciando questi oneri in capo alle generazioni che verranno.
“Contraddittorio, incompleto, dannoso, arretrato. Solo tre le regioni promosse, tutte le altre bocciate o rimandate in attesa di nuove regole” - La pagella di Legambiente sull’operato di Governo e Regioni relativo al provvedimento che doveva rilanciare l’edilizia in Italia.
“Tanto rumore per nulla. O quasi. Doveva servire a ridare slancio in tutta Italia al settore edilizio in crisi. Doveva servire ad ammodernare e migliorare qualitativamente il patrimonio edilizio esistente e quello futuro. Se questi erano gli obiettivi il risultato è un sostanziale fallimento”. Questa l’opinione di Legambiente sul cosiddetto Piano Casa, il provvedimento annunciato come panacea per il paese in crisi e che invece, a quattro mesi dal suo risonante annuncio, ancora fatica a decollare.
“Il quadro che emerge nel Paese– ha dichiarato Edoardo Zanchini, responsabile energia e urbanistica di Legambiente - offre un'unica certezza: avremo un sistema di regole diverso in ogni Regione italiana. Come in un puzzle dove spiccano da un lato la Toscana, la Provincia di Bolzano e la Puglia, che hanno praticamente bloccato l'attuazione del provvedimento o posto seri vincoli, e dall’altro Veneto e Sicilia, che da subito si sono fatte paladine di una applicazione "generosa" con premi in cubatura dispensabili praticamente a qualsiasi tipo di edificio dovunque e comunque fosse collocato”. Legambiente mette in evidenza l’aspetto positivo che in metà delle Regioni italiane varranno almeno gli standard energetici obbligatori come riferimento per gli interventi che permetteranno di migliorare la prestazione degli edifici. Purtroppo nell’altra metà si potrà continuare a costruire male e a danno di chi in quegli edifici andrà a vivere, oltre che dell’ambiente. Ma ancora più grave risulta la contraddittorietà del messaggio che viene lanciato ai cittadini e alle imprese: nei prossimi 18-24 mesi si potranno realizzare interventi edilizi con una procedura semplificata, in deroga ai Piani regolatori. Il tutto con qualche attenzione ambientale e energetica la cui entità dipende da dove si trova l’abitazione da ampliare o da demolire e ricostruire.
“Si è persa l’occasione per dare un chiaro messaggio di innovazione al settore delle costruzioni – ha dichiarato Edoardo Zanchini, responsabile energia e urbanistica –, perché ancora una volta si è cercata la via più breve per risollevare le sorti del mercato edilizio. Siamo di fronte a una crisi del settore che non è congiunturale, veniamo da 10 anni di espansione edilizia e nonostante ciò nel Paese si vive una drammatica situazione sociale, con centinaia di migliaia di persone sotto sfratto e di famiglie che non riescono a pagare le rate del muto e dell’affitto”. Per Legambiente la strada da seguire è un'altra: se si vuole dare un futuro al settore edilizio bisogna dare risposte all’emergenza abitativa e legarla a un vasto programma di riqualificazione energetica di case, quartieri, periferie. L'edilizia è oggi, a tutti gli effetti, uno dei più interessanti cantieri della Green economy ma per affrontarla in modo utile bisogna indicare da subito la strada del futuro: introducendo la certificazione energetica di tutti gli edifici, prevedendo uno standard obbligatorio di Classe A con un contributo minimo delle fonti rinnovabili (solare termico, fotovoltaico, ecc.) in tutti gli interventi edilizi. E accompagnare questo processo con regole chiare, adeguata fornitura di servizi e incentivi - a partire dalle detrazioni del 55% a regime - che aiutino la messa in sicurezza statica degli edifici anche attraverso interventi di demolizione e ricostruzione. E poi basta premiare le seconde case e gli investimenti di privati e fondi speculativi nel mattone, con lo sviluppo di un mercato che ha reso le case inaccessibili proprio a chi ne avrebbe bisogno: nuove famiglie, immigrati, giovani. I fondi che il Governo ha stanziato per il “vero piano casa” permetteranno di realizzare solo 5mila alloggi di edilizia residenziale pubblica il prossimo anno. Una cifra ridicola, che non è possibile nemmeno confrontare con quel che succedeva nel 1984, quando il settore pubblico realizzava direttamente attraverso l’edilizia sovvenzionata 34mila abitazioni e promuoveva attraverso l’edilizia agevolata o convenzionata 56mila abitazioni. Questi provvedimenti non risolveranno i problemi, anzi. Chi oggi non è proprietario dell’immobile in cui vive ed ha problemi di morosità e sfratto continuerà ad averli, mentre dilagheranno interventi diffusi di ampliamento che riguarderanno soprattutto le seconde case.
Legambiente ha voluto quindi ricostruire il quadro delle norme e delle scelte regionaliper elaborare una sorta di pagella, una classifica dei provvedimenti che hanno determinato il giudizio dell’associazione, sulla base di domande relative al rispetto degli standard di efficienza energetica e uso di fonti rinnovabili, ai permessi per gli interventi di allargamento, innalzamento, superfetazione di volumi, alla possibilità di allargamenti in aree delicate o protette, alle demolizioni e nuove cubature eventualmente consentite.
Dall’indagine emergono tre soli promossi : Regione Toscana, che incardina gli interventi possibili all’interno di quanto previsto dal Prg comunale, la Provincia di Bolzano che prevede alti standard energetici con la certificazione CasaClima C, nonché la Regione Puglia,anche se andrà tenuta sotto controllo la deroga ai piani regolatori concessa ai Comuni.
Tutte le altre Regioni invece si barcamenano in modo diverso tra i vari criteri.
Energia. Sono previsti obblighi in Toscana, Puglia, Piemonte, Emilia Romagna, Basilicata, Lazio, Lombardia, Marche, Umbria e in Provincia di Bolzano. Nessuna indicazione se non di tipo generico in Veneto, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Campania e Molise. In alcune di queste Regioni c’è un bonus opzionale, ma quello che è importante sottolineare è la differenza tra chi punta a migliorare le prestazioni energetiche degli edifici e chi vuole spingere semplicemente gli interventi.
Tutela del territorio. Per quanto riguarda le aree escluse sono da bocciare la Sicilia, la Lombardia e il Friuli Venezia Giulia che non esplicitano nessuna area (almeno fino al testo attualmente in discussione) in cui è vietato realizzare gli interventi. Ma anche in Veneto solo i centri storici sono esclusi, mentre in aree parco e vincolate si possono realizzare gli interventi. Tranne la Toscana dove prevale il Prg, in tutte le altre Regioni sono i Comuni a decidere se gli interventi sono possibili definendo criteri e limitazioni. Solo la Toscana, la Liguria e parzialmente la Puglia, escludono gli edifici abusivi anche se condonati.
Bonus edilizi. Per quanto riguarda i premi in cubatura, la Regione più generosa è la Sicilia, dove sommando le diverse possibilità (anche quelle dei vicini) si può arrivare al 45% per l’ampliamento e al 90% per la demolizione e ricostruzione. Per l’ampliamento i bonus maggiori sono anche in Friuli, Emilia Romagna e Lombardia con +35%, in Liguria si arriva a +50%. Per la demolizione e ricostruzione il massimo si può ottenere nel Lazio con +60% nel caso si preveda la delocalizzazione, in Emilia Romagna, Molise, Liguria e Campania con+50%; in Basilicata, Marche e Veneto con +40%.
“Bisogna affrontare con urgenza e competenza l’emergenza abitativa legandola ad un vasto programma di riqualificazione energetica di case, quartieri e periferie – ha aggiunto il presidente nazionale di LegambienteVittorio Cogliati Dezza-. Per questo bisogna investire in interventi che puntino a coniugare sicurezza statica e efficienza energetica, allargando questo obiettivo anche a tutti gli edifici non residenziali sfruttando l’opportunità di lavorare sul patrimonio esistente invece di occupare nuovi ettari di suoli agricoli. L’errore di base nel dibattito di questi mesi è stato proprio il non dare risposte a questi problemi e nel non affrontare la sfida dell’innovazione che potrebbe consentire la nascita di nuove competenze, lavoro e opportunità”.
“Un tema così delicato avrebbe bisogno di un indirizzo chiaro da parte del Governo e di collaborazione con le competenze di Regioni e Comuni. Migliorare la qualità edilizia e energetica attraverso la demolizione e ricostruzione di edifici e parti di città è una sfida non più procrastinabile, delicata e complessa – ha aggiunto il presidente dell’associazione - perché significa cambiare regole e abitudini, mettere mano a leggi e pertinenze, nelle quali occorre coinvolgere tutti in un processo trasparente. Finora invece, il comportamento del Governo è stato a senso unico: nessuna riflessione, nessun passo indietro rispetto alla proposta iniziale di un programma di premi in cubatura senza regole per qualsiasi tipo di edificio. Neanche lo stop avuto dalle Regioni ha portato a cambiare l’atteggiamento di totale chiusura rispetto a qualsiasi proposta qualitativa che introducesse criteri per selezionare gli interventi o spingesse l’innovazione energetica o magari (come dovrebbe essere obbligatorio secondo le Direttive Europee), vincolasse gli interventi alla certificazione energetica degli edifici. Solo la tragedia del terremoto in Abruzzo – conclude Cogliati Dezza - ha spinto dopo mesi di rimpalli di responsabilità a introdurre finalmente una normativa sulla sicurezza statica negli edifici che era nei cassetto ferma da tantissimo tempo”.
Segue classifica, vedi file allegato
La questione abitativa, torniamo a chiamarla così, sconta oggi l’inadeguatezza dell’azione dei governi e l’illusione che essa potesse essere risolta dal ”mercato”, per giunta da una mercato gonfiato dalla speculazione finanziaria.
Una quota di cittadini italiani, una quota intorno alla metà dei cittadini che non abitano in case di proprietà, mostra significative difficoltà sul fronte abitativo. In particolare non si trova nella possibilità di pagare gli affitti richiesti (che in non pochi casi assorbirebbero più della meta del reddito), vivono in situazione di sovra affollamento, in case molto spesso degradate e bisognose di rilevanti azioni di manutenzione. Non si tratta di qualche sparuto gruppo di marginali ma di una quota significativa delle famiglie italiane. Per non parlare di un’altra rilevante quota di famiglie oberate da rate di mutui oggi diventate insopportabili nonostante i provvedimenti, spesso contraddittori, presi in proposito. Va detto, a scanso di equivoci, che non si tratta dell’effetto della crisi economica, ma di una situazione strutturale che può essere sintetizzata nell’ovvia considerazione che il mercato liberalizzato non è in grado di dare risposte a queste situazioni.
Una situazione questa che a gran voce reclama una “politica per la casa” che garantisca a tutte le famiglie una condizione abitativa civile in una città anch’essa non degradata. Di questa politica non si vedono neanche i primi segni, ma piuttosto provvedimenti, spesso cervellotici, buoni per attività di propaganda, ma privi di un senso compiuto.
Il governo, in questo settore, ha promosso due iniziative, non per caso chiamate “piano casa”, il primo che promuoveva attraverso, di fatto, l’eliminazione di ogni norma di governo del territorio, un incremento volumetrico degli edifici esistenti; quello più recente a favore dell’housing sociale. Del primo si è già parlato a lungo, ma si vorrebbe sottolineare che esso non ha niente a che fare con il problema della casa come delineato prima. Non si riferisce a chi la casa non la possiede e quindi non interviene sul problema, non è casuale che alla fine la sottolineatura governativa è stata sul rilancio dell’economia,millantando quantità di investimenti inverosimili. Il provvedimento, si ricorda, permetteva aumenti volumetrici dal 20 al 40%, è stato di fatto ormai assegnato alle competenze delle regioni, con spesso dei peggioramenti rispetto a quanto previsto dal governo. Comunque avranno effetti modesti e questi stessi saranno negativi per il territorio (si chiuderanno balconi e terrazze; si costruirà qualche box per la macchina, ecc.) peggiorando l‘aspetto delle nostre città. Avrà qualche applicazione più estesa nelle seconde case che si affittano, perché una stanza in più può essere redditiva, e negli edifici non abitativi (non c’è bisogno di sottolineare gli aspetti negativi di queste interventi). L’unico aspetto positivo, ma sarà modesto per ovvi motivi, sarà quello relativo alla demolizione e ricostruzione di edifici fatiscenti o fortemente degradati.
Del provvedimento in via di approvazione e riferito a quella che una volta si chiamava edilizia economica e popolare, intanto, va detto, che si tratta di provvedimento che sblocca dei fondi destinati a questo settore dal governo Prodi (ministro di Pietro) e che erano stati bloccati dall’attuale governo. Ma anche in questo caso il provvedimento non può essere contrabbandato per una politica della casa. Intanto perché dopo aver sostenuto le “dismissioni” (su questa strada sono stati anche i governi di centrosinistra; ah! L’amore per il mercato) si rimettono nuovamente sulla stessa strada. E poi perché le cifre messe a disposizione sono ridicole rispetto ai roboanti annunzi. Si può prendere per buono che la situazione economica non permette di fare di più, ma non si po’ dire di fare 100 quando al massimo si potrà fare 10.
Le cifre fino a questo momento sono incerte, pare che l’emendamento che sarà presentato oggi abbassi ancora la disponibilità per questa voce, per adesso si fa riferimento a quanto noto che vale ancora di più se le cifre si riducessero. 550.000.000 di euro per 100.000 abitazioni annunziate, fanno 5.500 euro per abitazione. Ridicolo. Il governa stanzia il 5% circa del costo di costruzione, e il resto?
Intanto il governo adesso mette a disposizione 350 milioni di euro, così divisi: 200 milioni alle Regioni che serviranno per interventi, nelle situazioni di crisi abitativa, con progetti immediatamente canteriabili. Ammesso che le regioni riescano a contribuire con un 100% rispetto al fondo assegnato dal governo, mettendo a disposizione altri 200 milioni di euro, e ammesso che i comuni interessati riescano ad aggiungere 100 milioni di euro (tutte previsioni ottimistiche), avremo 500 milioni di euro con i quali si potranno costruire 5.000 abitazioni (anche qui cifra ottimistica). Una goccia; mancano all’appello ancora 95.000 abitazioni.
Gli altri 150 milioni (il governo parla di una prima tranche) dovrebbero “covare”, milioni e milioni di euro: fondazioni bancarie, cassa depositi e prestiti, le assicurazioni ecc. con la costituzione di fondi immobiliari di lunga durata. Per la costruzione dei rimanenti 95.000 abitazioni sarebbe necessario raccogliere una diecina e forse più di miliardi; probabile? sembra difficile. Anche perché queste case saranno affittate per 25 anni a canone convenzionato e dopo vendute (torniamo alle dismissioni) agli stessi inquilini o ai comuni o immessi nel mercato. Ritorniamo al mercato, mentre il rendimento di questi fondi sarà, tenuto conto dell’inflazione, della manutenzione, ecc., vicino allo zero.
Una politica della casa che affrontasse seriamente la questione abitativa, avrebbe dovuto, prima di tutto liberare il patrimonio pubblico dai non aventi diritto (condizioni di diritto da modificare in relazione all’evoluzione della società), in un paese nel quale il lavoro dipendente è quello che denunzia i redditi più alti (nei confronti di gioiellieri, commercianti, ecc.) è chiaro che molti occupanti non hanno le condizioni di reddito (effettivo) adeguato. Non si tratta di una persecuzione ma di un giusto criterio di redistribuzione.
In secondo luogo lo stato, le regioni e i comuni (se no che federalismo è?) dovrebbero costituire degli adeguati stock di abitazione da dare in affitto e da gestire con criteri di efficienza economica. I canoni d’affitto dovrebbero essere commisurati al mantenimento del patrimonio (manutenzione, ricostituzione, gestione ecc.), mentre le famiglie che non riuscissero, temporaneamente o per lungo periodo, a sopportare il canone così definito dovrebbero ricevere un “sussidio casa” in modo da raggiungere tra sussidio casa e propria disponibilità il canone fissato. Questa del sussidio dovrebbe essere gestita da una sezione specifica dell’ente di gestione attraverso personale specializzato. Questo meccanismo avrebbe il vantaggio di non scaricare sull’ente di gestione del patrimonio le morosità, con conseguente abbandono della manutenzione, litigiosità,ecc. e alla fine degrado del patrimonio e suo abbandono.
L’edilizia economica e popolare non può essere considerata la cenerentola del settore, abbandonata, localizzata nei posti peggiori della città,priva di una progettazione adeguata e moderna, lasciata al degrado, ecc. così facendo, infatti,si contribuisce al degrado urbanistico ed edilizio ma anche,ed è ancora più grave, a quello sociale. Modificare atteggiamenti, modificare modi operanti, immettere nel tessuto degradato delle nostre città germi positivi dovrebbe essere il compito dei governi a tutti i livelli, ma,come diceva mia nonna,il pesce puzza dalla testa.
Qui il sito di Sinistra democratica
L’autore di questa nota, oggi consigliere regionale de La Sinistra, è stato l’eccellente sindaco di Eboli, cui si deve un ottimo piano per la salvaguardia del territorio e l’iniziativa della demolizione di alcune centinaia di costruzioni abusive nella pineta litoranea, organizzata con le autorità civili e militari del Salernitano. Inserire "eboli" nel Cerca di eddyburg per saperne di più
La Giunta Regionale ha presentato un disegno di legge avendo ad oggetto : “ Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico, per la semplificazione amministrativa.”, più comunemente ribattezzato “Piano case”.
Ci permettiamo, con grande serenità, di non accelerare i tempi sull’approvazione di questa legge. Probabilmente la costituzione di una sub-commissione politica che riscrivi la legge e la porti in approvazione in Consiglio regionale, sarebbe la scelta più saggia.
Perché proponiamo questo?
- Non c’è nessuna fretta legata ad ipotesi di commissariamento, come si è voluto far credere in un primo momento. In realtà il disegno di legge della Giunta è frutto dell’intesa Stato/regioni del 31/03/2009. Cui non ha fatto seguito provvedimento legislativo per cui il commissariamento è una cosa che non esiste. L’unica urgenza può essere individuata nella necessità di mettere in campo provvedimenti per fronteggiare la crisi economica.
- L’accordo Stato- Regione nasce, esclusivamente, per individuare misure per “contrastare la crisi economica”! Tutto ciò che riguarda urbanistica, governo del territorio, manomissioni di leggi come la L.R. n. 16/2004, non solo sono inopportune ma, palesemente, al di fuori dell’oggetto dell’accordo.
- Le Leggi Regionali stando all’accordo Stato – Regioni dovrebbero mettere in campo interventi che si realizzano attraverso” Piano/programmi definiti fra Regioni e comuni”. Nel Disegno di >legge della Giunta i comuni “ scompaiono”! Sono soltanto soggetti passivi di scelte regionali!
- La legislazione regionale dovrebbe introdurre norme in “coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale. Il disegno di legge della Giunta assume tutto in deroga ai pani regolatori.
- Gli interventi, dice l’accordo, “non possono riferirsi ed edifici abusivi”, il disegno di legge promuove addirittura gli abusivi. Gli abusivi che hanno condonato, ampliano considerando anche le superfici abusive; e quelli che non hanno condonato finiscono per avere una doppia premialità : corsia preferenziale per il condono e superficie condonata considerata ai fini del calcolo dell’ampliamento!
- Nessun riferimento viene fatto alla “zona rossa” [l’area del Vesuvio ad alto rischio, che dovrebbe essere abbandonata dalla popolazione al primo segnale di eruzione – ndr]. Per cui alla fine si potrebbe ampliare in zone che dovrebbero essere svuotate.
- Labili sembrano le difese dei centri antichi e delle zone paesaggistiche e dei parchi
- Infine il fantastico articolo 5 ove tranquillamente si consente il cambiamento di destinazione d’uso delle strutture industriali. Nessun paletto temporale viene “ sistemato. Per cui un industriale che ha dubbi sul futuro della sua azienda, potrebbe trovare più conveniente, e sicuramente lo sarebbe, chiudere e trasformare l’industria in fabbricato per civili abitazioni. Nessun paletto temporale, inoltre, per la proprietà di strutture industriali, che possono essere riconvertite.
Ci si dimentica che noi siamo in Campania. E quale sarebbe la sorpresa se si scoprisse che già in questi giorni, avuto sentore della proposta di legge, c’è chi sta girando il territorio facendo incetta di strutture industriali abbandonate. Semmai pagando in contanti e, anche, oltre il prezzo di mercato, sapendo che nel giro di un paio d’anni quell’investimento decuplicherà? C’ è un solo problema. In Campania il potere economico che è capace di mettere subito, sul tavolo, un tale mole di liquidità è uno solo e si chiama : camorra!
Allora, in definitiva, riteniamo che sarebbe bene approfondire in sede politica la portata di questo disegno di legge, limitandolo all’obiettivo dell’accordo Stato - Regioni : immettere un po’ di dinamismo nell’edilizia per cercare di fronteggiare la crisi economica. Giusta o sbagliata che sia come strategia di risposte alla crisi economica, e noi riteniamo sbagliata, discutiamo di questo e non di altri aspetti collaterali, e pericolosi, che il disegno di legge come presentato pone , invece , sul tavolo e che sono inerenti al governo del territorio.
Una domanda preliminare
Perché il Presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, a proposito della legge approvata in Giunta regionale (il cosiddetto Piano casa) ha dichiarato? “Gli obiettivi sono quelli di riqualificare il territorio". A legge approvata, infatti, "sarà possibile abbattere e ricostruire; abbiamo pensato agli agricoltori, alle coste, senza avere paura di dire checi potranno essere compensazioni di cubatura anche quantitativamente consistenti, ma in una città che possa essere moderna, con bioedilizia e attenzione al territorio".
Oggi che il testo della proposta è disponibile nella sua versione definitiva - così come è stata votata dagli assessori- cerchiamo di capire i motivi di tanto entusiasmo.
Che dice quel testo?
Con il titolo “misure straordinarie per il settore edilizio e interventi per l’edilizia residenziale sociale” la Giunta Regionale del Lazio, all’unanimità e con 22 articoli, risponde al Piano Casa del Governo. Il testo che, ricordiamo, dovrà ora essere portato al dibattito dell’aula consiliare per la sua traduzione in legge, con il proposito di offrire politiche di sostegno per il rilancio del settore edilizio, “affronta” quattro punti: rinnovare il patrimonio edilizio esistente; aumentare l’offerta di edilizia pubblica; operare con programmi integrati per promuovere contestualmente nuove quantità di edilizia pubblica e le necessarie operazioni di ripristino ambientale; snellire le procedure urbanistiche (articolo 1).
Fin qui gli obiettivi che hanno il merito, almeno, di rispondere in modo apparentemente organico al disordinato “rompete le righe” in materia urbanistica e edilizia lanciato con il decreto legislativo predisposto in aprile dal governo (G.U. n.98 28 aprile 2009). Il secondo capo del dispositivo regionale chiamato “misure straordinarie per il settore edilizio” stabilisce le modalità operative per realizzarle.
Gli edifici da trasformare dovranno (art.2) essere terminati alla data di approvazione della legge. Non potranno essere localizzati: nelle zone A o negli insediamenti urbani storici, così come individuati dal piano territoriale paesaggistico regionale; nelle aree naturali protette, nelle fasce di rispetto delle coste; nelle zone a rischio individuate dalle norme per la difesa del suolo, nelle are destinate a funzioni urbanistiche strategiche (per esempio quelle dove è prevista la localizzazione dei servizi pubblici generali). Per le zone agricole ecco però una prima smagliatura. Si concede un aumento di cubatura o della superficie lorda dell’unità edilizia del 20% (art.2 comma 2) che, stimato non poter eccedere i 200 metri cubi, “pesa”, pur sempre, quanto una nuova unità edilizia di tre stanze e servizi assecondando così l’incipit di Berlusconi sulla casa in più per il proprio figlio.
La Regione comunque, e questo è apprezzabile, “apre” alle sensibilità dei singoli comuni che (art.2 comma 3) potranno individuare autonomamente, modificandoli dunque, limiti e soglie particolari entro cui incardinare ogni possibile trasformazione.
La legge fissa nei prossimi tre anni (36 mesi a partire dal giorno della sua approvazione) la propria validità operativa. Si potrà così, oltre il già detto incremento del 20% per gli agricoltori, aumentare sempre del più 20% quella di residenze uni e plurifamiliari al disotto dei mille metri cubi. La proposta sembra parlare direttamente a quella melassa residenziale conosciuta con il nome (e i disastri) di “Villettopoli”. Si potranno inoltre aumentare del 10% edifici artigianali e industriali ovvero i cosiddetti capannoni che punteggiano indisturbati intere porzioni territoriali in forma sia organizzata che isolata.
Si potrà fare questo gonfiaggio di cubatura solo per adesione e addizione muraria. Niente sopraelevazione e la legge, va onestamente riconosciuto, sembra “sanare”, per fortuna, una pesante disattenzione tecnica prevista nella recente disposizione normativa in materia di recupero dei sottotetti che pur prevedendo la possibilità di modificare, baypassandolo, il rispetto del limite (35%) della pendenza delle falde di un tetto fissa l’ampliamento della superficie ottenibile ad un massimo del 20% secondo un principio che potremmo chiamare di riduzione di un danno.
Dovrà essere inoltre ottemperato a quanto alla normativa vigente in materia di distanze tra fabbricati e quanto previsto in materia di adeguamento sismico. Obbligatorio, inoltre, adeguare ogni edificio “gonfiato” a quanto ai dispositivi attuativi della Direttiva CEE per il risparmio energetico. Il nuovo edificio, così come modificato, dovrà essere dotato del proprio Fascicolo del fabbricato, (il documento che raccoglie la propria storia tecnica) e potrà essere realizzato solo in presenza del reale adeguamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Le addizioni, residenziali e non, produrranno, infatti, una modifica degli esistenti carichi urbanistici.
Tutto bene dunque? (si fa per dire). Non proprio. Con l’articolo 4 iniziano le sorprese. E che sorprese! Il comma 1 è perentorio: in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici edilizi comunali vigenti, ad esclusione delle zone C di Piano Regolatore (con questa lettera si indicano le zone di espansione), si potranno demolire edifici residenziali (anche quelli che abbiano almeno per il loro 85% questa destinazione d’uso) e ricostruirli ingrassati fino a un massimo del 35%. Sempre con riferimento alla sostenibilità energetica, all’adeguamento sismico e al reperimento degli standard previsti per soddisfare il nuovo carico urbanistico. Nei comuni dove si registra una “sofferenza abitativa” aumentando il numero delle unità immobiliari presenti nel progetto originario, un quarto, di queste, dovrà essere destinato all’affitto. Solo quando gli interventi di demolizione interesseranno edifici di oltre 3000 metri cubi (più o meno alloggi;una palazzina di 10 alloggi per intenderci) sarà necessario il Permesso di Costruire. Per tutto il resto basterà una semplice DIA.(articolo 5).
Fermiamoci un momento prima d’andare avanti con la lettura riprendendo le considerazioni del governatore Marrazzo sulla “città moderna, con bioedilizia e attenzione al territorio”.
Colpisce, per esempio che quelli che dovrebbero essere atti dovuti - per tutti il rispetto alla normativa CEE in materia di contenimento energetico recepita (finalmente) nel nostro paese - debbano essere invece che magari incentivati con manovre fiscali, premiati con…altro volume. La legge parla di trasformazioni e recupero urbanistico Perché non si è voluto praticare la strada del recupero edilizio? Sommare mattoni tra loro, aggiungere, attaccare muri gli uni agli altri lascia libero ognuno di sentirsi padrone a casa propria. Ovviamente parliamo di chi la casa ce l’ha. Che vuol dire legare la possibilità del nuovo all’affitto solo in presenza di ulteriore aumento del numero delle unità immobiliari. Se resteranno identiche nel numero, ma diverse nel mix dei tagli, anche questa piccola conquista decadrà? Recuperare il molto patrimonio edilizio pubblico dismesso a fini abitativi è davvero impossibile? Si può solo abbattere per ricostruire (di più)? Non si può tentare la strada di costruire nel costruito? Marrazzo dice che lui non “ha paura di dire che ci potranno essere compensazioni di cubatura anche quantitativamente consistenti”.
Ha mai pensato al piacere (e l’orgoglio) che potrebbe provare dicendo che recuperare il tanto inutilizzato potrebbe essere il primo passo, per cominciare a mitigare la sudditanza verso gli interessi della proprietà fondiaria. Non è solo una questione di gusti. Solo che Marrazzo non lo può dire perché se nei primi articoli del dispositivo è descritta l’architettura della legge, l’ingegnerizzazione del prodotto è contenuta nei titoli di coda del Capo secondo. Travi e pilastri del suo costruire sono davvero pesanti.
Attenzioni territoriali compaiono all’articolo 6 dove viene indicato il riferimento operativo: la legge regionale 22 del 1977. La legge che fissa le norme d’intervento in materia di programmazione integrata per le riqualificazioni urbanistiche, edilizie e ambientali. Con il termine programma integrato si scrive la procedura studiata per favorire l’integrazione tra soggetti pubblici e privati negli interventi di riqualificazione urbana e ambientale di ambiti specifici. Con il termine programma integrato si legge, non solo nel Lazio, la totale abdicazione da parte del pubblico alla programmazione degli interventi, alle scelte. Marrazzo, conosce bene cosa è successo a Roma per esempio e il suo piano che come ricordava Vezio DeLucia, ( l’Altro 17 luglio 2009) ha “sepolto l’agro romano sotto 15 mila ettari di nuova espansione e sotto 70 milioni di metri cubi di nuova edificazione (che la nuova amministrazione sta incrementando)” Se di attenzioni si tratta si tratta di attenzioni particolari. Quelle che nascono con la proposta del privato acquisita dall’Amministrazione, l’approvazione del progetto e la sua, più o meno, immediata realizzazione attraverso Conferenze di servizi e Accordi di Programma.
Con i programmi integrati e il loro paradigma propositivo si mettono i lupi a guardia delle greggi.
Cosa succederà?
Le comunità, dopo essere state magari offese per anni da edifici che sono stati costretti a tollerare in porzioni di alto valore ambientale dovranno pure vedere quegli stessi proprietari continuare il proprio esercizio di rendita trasferendo tali cubature in altre aree ricevendo quale ulteriore premio la possibilità (art.6 comma 2 lettera b) di ricorrere anche al cambio di destinazione d’uso rispetto gli edifici demoliti, alla modifica delle destinazioni urbanistiche vigenti e all’aumento della capacità edificatoria.
Scegliendo, inoltre, con le nuove destinazioni d’uso cosa fare che, si potrà scommettere, sarà quello che il mercato vorrà fare o potrà offrire. Non resterà che prendere e accettare con annesso incremento. Fissato anche nel più 50% che per edifici da arretrare dal “litorale marino”arriva al 60% purché si costruiscano alberghi….
I privati faranno i programmi. Ai Comuni, così come già sperimentato con il Piano di Roma, il compito di registrare i cambiamenti. Niente di nuovo. Il solito (brutto) film.
All’articolo 7 si aggiunge, poi, che, comunque, i programmi potranno prevedere sostituzioni d’uso di aree e immobili fino a un incremento del 40% e prevedere una quota che non viene definita di edilizia residenziale sociale. Oggetto delle localizzazioni sono le zone B. I privati presentano i progetti che se, come ovviamente accadrà, saranno presentati in variante urbanistica dovranno essere approvati dal Comune stesso entro tre mesi. Ma è l’Articolo 9 che in un piccolo dettaglio spiega tutto. Siccome i progetti non basta pensarli, ma occorre realizzarli non sarà più la comunità a fare le proposte secondo desideri e, perché no, richieste di risarcimento per quanto fin qui subito. Ogni intervento sarà presentato da soggetti pubblici o privati che, è testuale nell’articolato , dovranno essere “associati con soggetti in possesso di capacità tecnica, organizzativa e economica adeguata all’importo dei lavori oggetto della proposta.
Ovvero la programmazione urbanistica affidata alle singole possibilità economiche di spesa e conseguenti previsioni di rendita dei singoli operatori.
Nessuna possibilità ad ascoltare esperienze di “progettazione partecipata”; a recepire saperi e pratiche sociali che quotidianamente si formano nella vita quotidiana e nella lotta nei territori.
Senza partner economico nessun progetto.
É scomparsa la casa?
Niente paura, Nel terzo capo (articoli da 10 a 19) la proposta legislativa affronta il tema dell’edilizia residenziale pubblica e sociale. Si introduce il concetto di housing sociale per la realizzazione di alloggi destinati all’affitto sostenibile (?) o a riscatto. La legge introduce in questa categoria anche una nuova tipologia: quella dell’ albergo sociale quale alloggio temporaneo, servizi e spazi comuni. Requisiti di accesso al servizio e determinazione del canone vengono rimandati a un futuro regolamento regionale. La gestione di questi pacchetti residenziali è già decisa ed è affidata a “gestori”(pubblici e privati); mentre la regia d’intervento è (art.10 comma 5) compito delle ATER. Commissioni comunali (art.11) sono chiamate a curare “il passaggio da casa a casa” di particolari categorie sociali che però, in queste commissioni non vengono rappresentate, visto che è prevista la sola presenza dei sindacati “concertativi” e dei rappresentanti della proprietà edilizia. L’articolo 12 sembra confermare che è la stessa legge a non credere più di tanto ad una possibile politica dell’affitto e/o a una robusta iniezione di edilizia sovvenzionata, promuovendo un sostegno all’acquisto dell’immobile.
Per la soglia dell’individuazione dei requisiti di reddito viene assunto l’I.S.E. ovvero l’autodichiarazione. L’articolo 13 parla di programmazione. Solo che al posto di un reale studio del fabbisogno (dove e come operare) e una sua prima necessaria valutazione rispetto per esempio la possibilità di recuperare il tanto patrimonio inutilizzato, la Regione metterà in campo: interventi di edilizia sovvenzionata (ma pare di capire che si tratti di attualizzare programmi fermi); interventi di housing sociale di cui, ricordiamo, ancora non si conosce la valutazione del canone che potrebbe risultare totalmente inaccessibile per molte famiglie attanagliate dalla crisi economica in atto; sostegno all’acquisto e possibilità della casa a riscatto che, se non esercitato, verrà girato all’ATER competente territorialmente.
Insomma, non un impegno per la realizzazione/formazione di un forte patrimonio pubblico con funzione di calmiere degli affitti e a permettere il passaggio da una casa all’altro secondo esigenze e disponibilità dell’utenza, ma esattamente il contrario promuovendo, nei fatti, una sorta di edilizia “agevolata” più o meno generalizzata che non potrà, certo, servire a intervenire sul mercato degli affitti né sulla”mobilità abitativa” cittadina.
Anche l’ATER che (art. 14) potrà operare, ovviamente in deroga a ogni strumento urbanistico e edilizio vigente, accede al premio di cubatura sia attraverso interventi di ampliamento (+20% della cubatura esistente) che di demolizione e ricostruzione (+35% della cubatura esistente) nonché potrà trasformare in unità abitative, negozi e altri locali. Con buona pace della qualità dell’abitare, Oltre che in negozi e magazzini si potrà vivere, in alloggi ritagliati all’interno di quelli esistenti di… 38 metri quadri.
L’articolo 15 fissa le coordinate della “densificazione edilizia” che i comuni potranno realizzare in: aree già destinate a edilizia pubblica; su aree a standard in eccesso da trasformare in edilizia residenziale sociale; attraverso varianti e programmi integrati. In presenza di edilizia destinata a studenti e/o anziani i comuni possono variare le destinazioni del proprio strumento urbanistico vigente, aumentando di un 10%in più le destinazioni stesse.
Con l’articolo 16 viene introdotto lo Standard per l’edilizia residenziale sociale. Viene, comma 1, fissato che: negli strumenti urbanistici generali, nei piani attuativi quale standard aggiuntivo venga introdotta l’acquisizione di aree e/o immobili da destinare al’edilizia residenziale sociale. La legge indica per gli interventi di nuova urbanizzazione una soglia minima del 20% di cessione gratuita da parte dei proprietari dell’area fondiaria edificabile che sale al 50% “ limitatamente all’edificabilità aggiunta generata dallo strumento urbanistico generato rispetto le previgenti previsioni”. É ammesso l’aumento, a discrezione di comuni, di volumetria premiale pari alla capacità edificatoria delle aree fondiarie cedute da destinare a edilizia residenziale libera destinata affitto a canone concordato. Ogni intervento che usufruirà di finanziamento pubblico dovrà curare la redazione dell’apposito “ fascicolo del fabbricato”e viene, articolo 19, introdotto lo standard sociale nella determinazione dei Piani Comunali così come nei dispositivi della legge 38/99 che viene a questo adeguata.
Troppo o troppo poco?
É una domanda legittima visto che questa legge poco parla di numeri e nulla della “spesa”necessaria a quanto programmato. Neppure per quel poco di pubblico di edilizia sovvenzionata qui e lì accennata. Per il troppo ovviamente il riferimento è all’articolo 9 e a quanto potranno fare i … privati. Si continua a navigare a vista, a rincorrere l’emergenza. A chiedere aiuto a chi la crisi ha prodotto e che, ora, si candida a come risolverla. A confondere il problema con la soluzione.
Ancora una volta Marrazzo con i suoi “pards” sceglie la morbosa attenzione territoriale rappresentata dal pensare al costruire prima che all’abitare. Mattoni, cemento, addizioni, più sempre qualche cosa. Come se il diritto alla casa, assolutamente in deficit nella nostra regione, non fosse tutt’uno con il diritto al reddito, al muoversi, alla tutela ambientale, alle forme di indirizzo pubblico del territorio, alla costruzione anche di significativi “vuoti”. La parola d’ordine sembra essere riempire tutto, annegando in un mare di cemento anche la proposta condivisibile di standard per l’edilizia sociale. Quale è l’immagine della città e del territorio che sta dietro questa proposta? Ritagliare cubature all’interno delle zone B, per esempio a Roma, vuol dire intervenire (cfr. art.107 norme del P.R.G. classificazione delle Zone territoriali omogenee) in Ambiti di valorizzazione della città storica, nelle componenti della città consolidata, oltre che in quelle della città da ristrutturare.
Zone in cui, per esempio, il patrimonio pubblico, rappresentato dalle proprietà ex IACP, sono parte significativa della storia e della vita della città. Edifici “individui edilizi” riconosciuti che appartengono, ormai, alla forma fisica della città. Un patrimonio che se è sopravvissuto alla svendita, ora si potrà demolire e/o ritagliare facendo uno spezzatino di mini alloggi. Dove la piaga dei “ residence” - Marrazzo conosce quello di Valcannuta? Marrazzo è mai stato nei loculi realizzati a campo Farnia?- è destinata continuare imbellettando quelle celle con il nome di Albergo sociale. Dove i privati potranno ricostruire, e vendere, a pochi, case a regola d’arte con riferimenti alla bioedilizia e a norma sismica e molti saranno destinati ad abitare (forse), così come pensa Di Carlo, l’assessore alla casa, in ex negozi e altri spazi “ trasformabili”o in 38 metri quadri .
Nulla viene detto sul tanto abbandonato (pubblico e privato) presente da molto tempo in questa regione. Che sarebbe facile acquisire e destinare a edilizia residenziale pubblica. Nulla sul patrimonio in dismissione dalle forze armate e sulla tragedia delle cartolarizzazioni e sulla dismissione immobiliare degli enti. Non viene indicata nessuna quota di quanta sovvenzionata sarebbe necessaria; né messe in campo le condizioni per almeno conoscere i numeri reali dell’emergenza; né tanto meno lo stato generale dei servizi presenti nei vari territori. Marrazzo sembra scordarsi del dettato costituzionale che impone di promuovere iniziative per rimuovere ogni ostacolo di ordine morale e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Abitare vuol dire partire da questo.
Il capo IV entra nel merito della velocizzazione procedurale prevedendo, di fatto, tutta una serie di nuove possibilità operative senza dover più ricorrere, come oggi, all’approvazione regionale. Si potranno cosi modificare tracciati della viabilità primaria nei comprensori; sforare, nel recupero dei nuclei edilizi abusivi, i confini fissati e trovare fuori di essa aree per verde, servizi e parcheggi; modificare perimetri delle aree di recupero, catturando nuovi edifici; modificare la forma plano volumetrica degli edifici; modificare, entro un massimo del 30%, la destinazione d’uso originaria. Sarà chiamato a decidere solo il comune, mentre, alla regione, resterà solo il compito di eventualmente proporre “osservazioni”.
Si potranno inoltre, senza passare per la Regione - quindi senza dover conoscere che cosa per esempio sta facendo il comune vicino- mutare per finalità pubbliche spazi originariamente destinati a verde pubblico e servizi; introdurre spazi per attrezzature pubbliche generali (che magari esistono poco distanti); variare l’altezza degli edifici, modificare il numero delle unità abitative, introdurre modifiche di limitata entità al perimetro del programma urbanistico.
Non è poco e soprattutto tutto lasciato alla volontà ( alle aspettative di rendita) dei proponenti.
In termini procedurali, rispetto la proposta governativa, la Regione Lazio respinge solo la possibilità di autorizzazione edilizia senza alcun titolo prevista dal decreto Berlusconi all’articolo 1 del proprio decreto. Lo fa conquistando la hit della classifica delle Regioni portando la possibilità di ricostruzioni con quantità premiali di cubatura fino a un più 60% ( per le opere provenienti dal litorale marino), allarga il tempo di operatività dell’intervento (36 mesi rispetto i più contenuti 18/24 mesi previsti negli altri dispositivi regionali) ottenendo così in questa speciale specifica a chi più è aderente al decreto del Presidente Berlusconi un significativo pic power; amplia le possibilità di intervento anche ad edifici non residenziali (cosa esclusa in molte altre Regioni) e, soprattutto introduce, attraverso questa proposta, direttamente per tutto il territorio regionale, l’attività della compensazione eleggendola, di fatto, a bussola della pianificazione regionale.
Alla domanda di Berlusconi, Marrazzo potrebbe rispondere “fatto”.
C’è ancora tempo o tutto è perso?
Anche se nessuno li ha invitati i movimenti, le associazioni e i cittadini, che hanno proposto con la Carovana del Bene Comune la legge d’iniziativa popolare sul diritto al’abitare, partecipano a questa sfida .
Il lavoro degli elettori (sempre più ex) per aiutare quello degli eletti. Appare molto più necessaria oggi che ci troviamo di fronte ad una proposta che, se non sarà modificata nella discussione in aula, continua a non risolver il problema. Troppo simile, come visto, rispetto al Piano Casa del governo Berlusconi rischia di far naufragare anche la questione (introdotta nel testo regionale) dello Standard per l’edilizia sociale come puro “accessorio” e non come momento essenziale della costruzione del reale diritto alla casa e all’abitare.
La legge d’iniziativa popolare indica, al posto del consumo di territorio presente nella proposta Marrazzo, nel recupero edilizio “lo strumento essenziale principale della pianificazione”. Un grande possibile progetto di restauro territoriale capace di mettere in sicurezza l’intero patrimonio edilizio (esistente e eventualmente da realizzare), anche attraverso operazioni di demolizione e ricostruzione da autorizzare su “edifici esclusivamente adibiti a uso abitativo o da impegnare al soddisfacimento esclusivo di edilizia residenziale pubblica con un ampliamento della Superficie utile lorda non superiore al 25 per cento e, solo, nei casi in cui lo prevedano gli strumenti urbanistici dei comuni interessati” (articolo 9 della proposta di legge d’iniziativa popolare depositata alla Regione Lazio). Ma soprattutto (comma 3 del medesimo articolo) “i programmi dovranno essere discussi, secondo le modalità stabiliti dai singoli comuni, ed accettate esplicitamente dalle comunità locali interessate dalle trasformazioni urbanistiche, secondo procedure di partecipazione pubblica che prevedano l’espressione di un parere sulle opere e i tempi di realizzazione”.
Siamo solo all’inizio della discussione in aula. Ci sarebbe (c’è) tutto il tempo possibile per fermarsi e trasformare il timbro “fatto”, richiesto e ottenuto da Berlusconi, in costruzione della possibile alternativa: sottrarre territorio alla speculazione e disegnare lo spazio dell’abitare a partire dal riconoscimento del diritto alla casa.
Citare un riferimento culturale per poi fare l’esatto contrario, è una delle consuetudini più diffuse nella storia. La legge sul piano casa delle Regione Piemonte (n.20 del 14 luglio 2009 “Snellimento delle procedure in materia edilizia e urbanistica”) non fa eccezione. Ci sono due esplicite citazioni della rigorosa legge urbanistica regionale n. 56 del 1977 “Tutela e uso del suolo”, la “legge Astengo”; la prima ad essere approvata dalle neonate regioni e una delle ultime, in ordine di tempo, della grande stagione delle riforme degli anni 60-70. La legge Astengo viene richiamata nel nuovo testo per limitare le possibilità di ampliamento degli immobili che possono beneficiare dei previsti aumenti di cubatura (gli ormai consueti 20% e 35%): si ammette l’ampliamento volumetrico ma si lascia inalterato il controllo dei tessuti insediati attraverso il parametro della densità fondiaria massima previsto nella legge urbanistica piemontese.
I riferimenti alla legge Astengo sembravano dunque alludere ad una interpretazione rigorosa delle sciagurata sollecitazioni berlusconiane. E questa impressione era anche confermata dall’articolo 6 che consente ai comuni di non applicare la legge su tutto o parte del territorio regionale, negando i previsti aumenti di cubatura per le tipologie edilizie private.
Ma già una prima avvisaglia arriva dal successivo articolo 7, “Interventi in deroga per l’edilizia produttiva”. Vengono previsti aumenti del 30% della superficie esistente attraverso soppalcatura se il lotto è già completamente edificato. Nel caso in cui sia possibile l’ampliamento, il regalo è pari al 20% della superficie utile lorda. Nell’uno e nell’altro caso “se gli standard urbanistici non sono reperibili”, si prevede la possibilità di monetizzazione. Uno dei pilastri dell’urbanistica lombarda viene così applicato nell’area piemontese.
Ma è soprattutto alla luce di quanto previsto dal capo III della legge che il riferimento alla legge 56 appare dettato con tutta evidenza dal dover tacitare le coscienze di una sempre più distratta opinione pubblica. Si mantiene in vigore una norma tutto sommato marginale della legge (quella del limite di densità urbanistica) perché si indebolisce fortemente la possibilità di governo pubblico delle trasformazioni urbane. Un modo come un altro per tentare di nascondere il grave arretramento che la legge introduce nell’urbanistica piemontese.
Nel citato capo III, “Interventi per il recupero e la riqualificazione del patrimonio esistente”, si ricorre infatti al peggior armamentario dell’urbanistica neoliberista. Afferma l’articolo 14 che “i comuni individuano ambiti di territorio su cui promuovere programmi di rigenerazione urbana, sociale e architettonica” finalizzati esclusivamente ad individuare edifici ritenuti incongrui, per dimensioni o tipologie, con il contesto edilizio circostante, per i quali gli strumenti urbanistici “possono” prevedere interventi di demolizione e ricostruzione.
La regione Piemonte, dunque, non elabora organici indirizzi sorretti da adeguati finanziamenti pubblici per favorire la redazione di organici strumenti urbanistici comunali volti alla ristrutturazione urbanistica o al riuso degli immobili produttivi dismessi o in via di dismissione. Costruisce una norma calibrata “sugli edifici”, e cioè su misura della proprietà fondiaria.
E qui viene la parte più grave. Afferma il comma 3 che la ricostruzione può avvenire sullo stesso sedime solo nel rispetto delle caratteristiche tipologiche del contesto, mentre la cubatura eccedente già esistente, sommata all’ulteriore “regalo” del 35 % (calcolato rispetto alla cubatura, si badi bene, non sulla superficie e trattandosi di immobili produttivi si può immaginare quale regalo alla rendita fondiaria venga previsto) “può essere ricostruita in altre aree, individuate dal comune, anche attraverso sistemi perequativi”.
Sempre con il comma 3 si prevede che anche la totale ricostruzione, compresa di ogni premialità, possa avvenire in altre aree, formalmente individuate dai comuni. E’ questa una questione decisiva che non deve essere sfuggita al legislatore regionale. Va benissimo che la legge preveda che sia il comune ad individuare le aree di arrivo della delocalizzazione produttiva, ma è del tutto evidente che questo è soltanto un passaggio formale. Nella sostanza, nella generale assenza di aree pubbliche e proprio sulla base dei sistemi perequativi previsti, sarà lo stesso proprietario ad indicare l’area di arrivo delle cubature da rilocalizzare..
Non è soltanto la fallimentare esperienza dell’urbanistica perequativa di Roma a far prevedere analoghi comportamenti in Piemonte, ma sono anche due ulteriori norme contenute nella legge a confermare questo rischio. Sempre nell’articolo 14, infatti, si afferma che le modalità operative per la ristrutturazione o la rilocalizzazione degli edifici possono essere preventivamente definite da una convenzione stipulata tra i comuni e gli operatori interessati. Resta evidente che saranno gli operatori privati a imporre il proprio punto di vista, volta per volta, senza alcun disegno complessivo.
La seconda norma introdotta riguarda invece l’abrogazione di una precisa disposizione della legge Astengo che nel caso il rilascio di concessioni relative alla realizzazione di impianti industriali di notevoli dimensioni prevedeva la preventiva autorizzazione della Regione, in conformità alle direttive del piano di sviluppo regionale e del Piano Territoriale. Una classica –per l’epoca- norma di tutela di una corretta pianificazione del territorio. Questa norma viene cancellata dall’articolo e il proprietario dell’immobile da rilocalizzare non resterà che scegliere a piacere l’area su cui ricostruire il nuovo edificio.
Come si vede, la regione della storica legge n. 56, volta pagina e si adegua alla moda della cancellazione dell’urbanistica. Che lo faccia proprio ora, quando nel mondo stanno arrivando le conseguenze del trionfo della cancellazione delle regole in ogni settore della società, getta un ombra molto pesante sulla capacità del sistema politico regionale di ragionare su uno sviluppo slegato dalla rendita speculativa immobiliare.
Nel fare questo, poi, utilizza strumenti moltiplicatori delle volumetrie edificabili come i cosiddetti ”sistemi perequativi” che nel famoso caso di Tormarancia a Roma hanno portato le volumetrie inizialmente previste ( un milione e ottocento mila metri cubi) a diventare cinque milioni e duecento mila, e cioè quasi tre volte di più! Oggi, mentre a livello nazionale si è finalmente aperta la questione del risparmio dell’uso del suolo, la regione Piemonte vara una legge che incrementerà non soltanto le cubature ma anche il consumo di suolo agricolo.
Ritengo importante diffondere l’informazione su una legge indecente approvata il 14 Luglio dal Consiglio regionale della Lombardia, contro la cui promulgazione Sinistra - Unaltralombardia ha condotto in aula una battaglia articolo per articolo, emendamento per emendamento. Un confronto puntiglioso, senza sconti, reso vano però dal contingentamento dei tempi e dall’impermeabilità a qualsiasi modifica del testo imposti dalla maggioranza Lega-PDL.
La lettura del testo esposto qui di seguito convincerà sulla necessità di mobilitarsi contro lo scempio di territorio e di bene pubblico perpetrato in Lombardia purtroppo con scarsissima opposizione sociale e una disattenzione colpevole dell’opinione pubblica
La genesi del “piano casa”
Alla volontà espressa da Berlusconi di affrontare le difficoltà indotte dalla crisi economico-produttiva mondiale promuovendo in Italia un incremento dell’attività edificatoria minuta attraverso la sospensione in via eccezionale dei limiti posti dalle regole urbanistiche in tema di rapporto tra quantità edificatorie e dotazioni di attrezzature pubbliche, la Conferenza Unificata delle Regioni ha risposto approvando un’Intesa che, mentre propone di adeguarsi, rivendica almeno margini di autonomia decisionale nel come farlo.
La Giunta Formigoni è andata oltre l’adeguamento, allargando le maglie di sfondamento delle regole. Ha di conseguenza formulato il “piano casa” (PdL 392) qui sotto riassunto e ne ha imposto l’approvazione, con il proposito “di un rilancio dell’economia e di una risposta ai bisogni abitativi delle famiglie”
Eppure, la Regione Lombardia aveva già da tempo autonomamente ottemperato ad una pesante deregolamentazione a tempo indeterminato, sia con la cessione di minori aree pubbliche rispetto a quelle prescritte dagli strumenti urbanistici, sia con la possibilità di trasformare ad uso abitativo tanto i sottotetti preesistenti che quelli delle nuove edificazioni.
Evidentemente, con l’approvazione della nuova legge la strada della messa a profitto del suolo pubblico continua ad essere la via maestra per questa Giunta
I contenuti del colpo di mano
Il “piano casa” della Lombardia, che per un anno e mezzo consentirà di aumentare di un quinto le volumetrie degli edifici costruiti, è passato con un colpo di mano dell’assessore al Territorio, il leghista Davide Boni, che ha presentato in aula una ventina di emendamenti al testo uscito dalla Commissione. Mossa tattica, per far decadere gli oltre 200 emendamentì presentati dall’opposizione e riuscita solo in parte, perché un centinaio sono stati ri-presentati come subemendamenti alle modifiche introdotte dall’assessore.
Da oggi, a conclusione della votazione in Consiglio, anche nei parchi si potrà demolire e ricostruire in deroga ai piani di coordinamento degli stessi Anche nei centri storici, come pressocchè ovunque nel territorio lombardo, si potrà ampliare e ricostruire (+20% o 30% di volumetria) sostituendo gli edifici esistenti che non si adattano al contesto storico e architettonico. Fuori dai centri storici si potrà incrementare la volumetria esistente perfino del 3O%, se si useranno tecniche e materiali in grado diminuire di un terzo i consumi per il riscaldamento. Ma l’interessato che costruisce in più dovrà solo «dotarsi» della certificazione energetica, non sarà più obbligato a presentarla in Comune.
Ancora, in caso di «congruo equipaggiamento arboreo» pari almeno a un quarto del lotto interessato, I’incremento di volumetria ammesso sarà del 35%. Si potranno convertire in residenza i capannoni industriali e artigianali - non commerciali e terziari - per una quota pari alle volumetrie definite dagli indici residenziali del luogo.
Infine, i quartieri di edilizia pubblica. Qui l’incremento massimo arriva al 40%. Potrà riguardare un complesso di edifici e non uno solo e potrà concretizzarsi in un palazzo nuovo di zecca. La volumetria potrà essere ceduta a operatori privati e la durata di applicazione della legge sarà di 24 mesi.
Ma difficilmente si finirà lì: l’assessore Boni, infatti, già anticipa la possibilità di una nuova legge dicendo che «potremmo essere interessati a far diventare fissa la norma sui centri storici perché, purtroppo, ci troviamo davanti a delle situazioni legate agli anni Cinquanta e Sessanta che non hanno nulla a che vedere con l’uniformità dei centri storici».
Il commento
Questa legge viene propagandata come la risposta lombarda alla crisi e alla domanda abitativa. Ma il suo contenuto nulla ha a che vedere con questi obiettivi.
Si tratta infatti di un provvedimento che non fa i conti coi problemi strutturali del settore e che non si pone il problema dell’utilizzo del patrimonio immobiliare già esistente ed inutilizzato, a partire dall’enorme numero di case sfitte.
Per di più, si tratta di una legge che non riguarda la difficile situazione di quanti vivono sulla loro pelle la crisi: quelli che fanno già fatica ad arrivare a fine mese, pagare l’affitto o il mutuo e che, molto probabilmente, non sono nelle condizioni di accedere ai benefici di questa legge.
Essere proprietari di immobile è la prima condizione, avere disponibilità economiche sufficienti è la seconda. Ma proprio in questa crisi inedita occorre ricordare che la bolla finanziaria è nata dall’eccesso di consumi individuali sostenuto dall’indebitamento a cui le banche hanno spinto i cittadini. Ebbene, è quanto spinge a fare la legge in discussione, frutto di un accordo instabile Lega-PDL (difficile punto di equilibrio di poteri e poltrone dentro cui finiscono in questi giorni le stesse nomine della sanità), che distrugge il concetto di casa come bene sociale e ne fa l’ennesima fonte di rendita, in particolare per quegli interessi immobiliari che si getteranno alla caccia dell’affare esteso a tutte le tipologie costruttive possibili ed immaginabili.
Fino all’edilizia residenziale pubblica, contemplata nel provvedimento forse per ingraziarsi il favore delle cooperative di ogni colore.
Dietro la risposta alla crisi e al fabbisogno abitativo si nasconde (malamente) l’ennesimo favore alla rendita e ai costruttori e l’attacco al territorio e all’ambiente.
Un attacco che non ha precedenti e che cancella, anche se per “soli” 24 mesi, le prerogative di comuni, province, parchi e comunità montane e che fa tabula rasa di tutti gli strumenti urbanistici.
Siamo abituati all’uso delle leggi in Lombardia per andare fuori legge…
Come se l’aumento del 20% o del 30%, a seconda dei casi, non avvenisse sottraendo altrettanto volume agli spazi comuni, caricando gli acquedotti, le fogne, i servizi comunali oltre misura, rompendo l’armonia di agglomerati frutto di una convivenza e di una storia comune. E’ il trionfo del “fai da te”, della prevalenza del privato sul pubblico, dell’uniformità dell’interesse economico usurante, che distrugge le diversità delle comunità.
I Comuni sono messi fuori gioco: verrebbe da ridere, se non ci fosse invece da piangere, di fronte al termine perentorio del 15 Ottobre prossimo posto agli enti locali per individuare e comunicare le zone nelle quali la legge non andrà applicata, per la presenza di eccezionali vincoli storici, ambientali, culturali. Senza contare sul danno erariale che deriverà con la riduzione del 30% degli oneri di urbanizazzione con cui verranno premiati i costruttori.
Si tratta di incrementi volumetrici che si concentreranno in particolare nelle zone urbane più fittamente utilizzate, soprattutto in ambito metropolitano: basti pensare alle cosiddette “coree” costituitesi nelle grandi periferie urbane del triangolo industriale negli anni Cinquanta inglobate nella successiva e più massiccia espansione metropolitana.
Si tratta, nel complesso, di una tendenza - precocemente praticata dalla Lombardia, ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni nazionali e regionali - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici.
Lariduzione dello spazio pubblico per abitante (realmente “inedificato”, cioè non pertinenziale ad un edificio), si risolve in un’accresciuta pressione antropica, che peggiora la qualità della vita, anche se aumenta la rendita monetaria dei proprietari.
In conclusione, una vera cuccagna per chi vuole costruire in barba ai piani regolatori: una vera disgrazia per quanti il diritto alla casa non l’hanno visto mai!
Qui il sito di Mario Agostinelli
E infine, dopo settimane di annunci, smentite, commissioni sconvocate e sedute rinviate, martedì sera il Consiglio regionale ha approvato, con il voto contrario di tutte le opposizioni, il «piano casa» della Lombardia, in una versione persino peggiorata rispetto al testo originario. In tanti speravano invece in un esito diverso, visti i numerosi dissidi nella maggioranza,ma poi è successo l’esatto contrario, cioè il centrodestra si è improvvisamente ricompattato attorno agli interessi e alle spinte provenienti dai gruppi di potere immobiliare che ormai costituiscono il vero governo del territorio a Milano e dintorni. Certo, la ragione che ha portato di nuovo pace – e che aveva motivato la guerra? - nel centrodestra c’entra poco con l’urbanistica, ma così vanno le cose nel regno di Roberto Formigoni. Infatti, mentre il Consiglio dibatteva, in un’altra stanza il «governatore» ha formalizzato le nomine dei nuovi presidenti e direttori generali degli Irccs, cioè della cosiddetta «eccellenza» della sanità lombarda.
E a parte il fatto che Comunione e Liberazione ha ribadito il suo strapotere, compresa l’inquietante nomina al vertice della Fondazione Policlinico-Mangiagalli-Regina Elena dell’antiabortista e leader ciellino Giancarlo Cesana, la novità consiste proprio nei posti concessi alla Lega, che si aggiudica il presidente dell’Istituto Tumori e il direttore generale del Besta. Insomma, una poltrona vale ben un po’ di mattoni. Comunque sia, il prezzo di questo baratto di potere alla fine lo paga il territorio lombardo con una brutta legge, priva di progetto e consistente in una maxi-deroga alle norme urbanistiche ed edilizie e in bonus volumetrici generalizzati, per la durata di 18 mesi, che metterà a dura prova quei comuni che volessero garantire un minimo di controllo e governo della situazione, che aggiunge ulteriore confusione a un quadro normativo sempre più intricato e incoerente e che comporterà densificazione abitativa e consumo del territorio incontrollati. E tutto questo senza nemmeno rispettare i vincoli indicati dall’Accordo Governo-Regioni del 1° aprile scorso, che la stessa Lombardia aveva sottoscritto.
Per dare un’idea di che cosa stiamo parlando, ma senza perderci nei tecnicismi, basti ricordare che queste deroghe consentiranno di ampliare del 20% gli edifici residenziali della dimensione fino a 1200 metri cubi. In caso di sostituzione, cioè di demolizione e ricostruzione, il bonus volumetrico arriva invece al 30% (al 35% se ci metti anche qualche albero) e questo sarà possibile anche con edifici non residenziali, con tutte le annesse preoccupazioni circa la salvaguardia delle attività produttive. Nel caso dei quartieri popolari, cioè di edilizia residenziale pubblica, il bonus arriva fino al 40%, viene calcolato sulla base della volumetria complessiva esistente nel quartiere e può concretizzarsi anche in nuove costruzioni. E come se non bastasse, la volumetria aggiuntiva generata dall’edilizia pubblica può essere ceduta dalle Aler e dai Comuni a dei soggetti privati. Certo, c’è il vincolo della destinazione ad alloggi Erp, ma questo concetto significa ormai di tutto e di più. Anzi, nel caso in esame, significa tanta edilizia convenzionata e poca o nulla edilizia sociale. Va poi rammentato che tutte le deroghe e i bonus, sebbene con qualche vincolo in più, valgono anche nei centri storici e nei parchi. Infine, tra i peggioramenti introdotti dal Consiglio regionale di martedì va segnalata l’abolizione dell’obbligo di «produrre al comune» l’attestato di certificazione energetica ad intervento edilizio terminato. Sarà poca cosa in mezzo a tanto mattone libero, ma considerato che la presunta bontà di questa legge veniva giustificata con l’incentivo al risparmio energetico, forse questo particolare spiega molto più di tante parole.
L’autore Luciano Muhlbauer è consigliere regionale della Lombardia, Prc
Il piano casa in discussione in Consiglio regionale della Campania rappresenta una gravissima minaccia per il paesaggio, i centri storici e per l'assetto del territorio.
In spregio ai valori del paesaggio campano universalmente riconosciuti, la proposta della giunta consente ampliamenti e sostituzioni dei volumi esistenti anche in zone soggette al vincolo paesaggistico.
I poteri di pianificazione urbanistica dei comuni sono completamente esautorati. La Regione Campania peggiora persino l'intesa Stato/Regioni del 31 marzo 2009 che prevede la regolamentazione degli interventi "attraverso piani/programmi definiti tra regioni e comuni". Il disegno di legge in questione fa purtroppo piovere sui comuni deroghe ai loro piani urbanistici decise direttamente dalla proprietà fondiaria.
Ancora più scandalosa è poi la possibilità di sostituire volumetrie anche modificandone la destinazione d’uso, senza escludere con chiarezza i centri storici, compromettendo scelte urbanistiche fondamentali di competenza dei comuni. In particolare, l’assetto urbanistico della regione Campania, ma soprattutto quello della città di Napoli, verrebbe sconvolto da radicali trasformazioni in base a semplici istanze di privati cittadini (si pensi a cosa accadrebbe nella zona industriale di Napoli est).
Assisteremo così alla stravolgimento del territorio campano, già compromesso dalla speculazione e da anni di abusivismo edilizio.
Ci appelliamo pertanto al Capo dello Stato affinché richiami la Regione Campania al rispetto dell’art. 9 della Costituzione repubblicana, oltre che delle prerogative dei Comuni, scongiurando un irreparabile attentato al territorio e al suo intangibile patrimonio culturale e paesaggistico.
Inviare le adesioni a
carloiannello1@virgilio.it
Salvatore Settis, Direttore Scuola Normale Superiore di Pisa,
Lidia Croce,
Silvia Croce,
Alberto Asor Rosa, professore emerito di letteratura italiana,
Piero Craveri, preside della Facoltà di Lettere dell’Università Suor Orsola Benincasa,
Vezio De Lucia, urbanista,
Vittorio Emiliani, Comitato per la bellezza,
Marta Herling, segretario generale Istituto italiano per gli studi storici,
Luigi Labruna, professore di storia del diritto romano, Federico II
Giovanni Losavio, presidente nazionale di Italia Nostra,
Aldo Masullo, professore emerito di filosofia morale,
Gerardo Marotta, presidente Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,
Giovanni Pugliese Carratelli, accademico dei Lincei,
Fulco Pratesi, presidente onorario WWF,
Edo Ronchi, presidente della fondazione per lo sviluppo sostenibile, già ministro dell’ambiente,
Edoardo Salzano, urbanista,
Antonello Alici, segretario generale di Italia Nostra
Gianfranco Amendola, magistrato,
Mirella Barracco, presidente della fondazione Napoli 99
Giovanna Aronne, docente facoltà di agraria portici
Maria Carmela Caiola, architetto
Francesco Canestrini, architetto, Italia Nostra Caserta,
Giuseppe Cantillo, professore di filosofia morale, Federico II
Ornella Capezzone, WWF Campania
Alfonso Cecere, professore di diritto amministrativo,
Antonino De Angelis, Italia Nostra penisola sorrentina
Alessandro Dal Piaz, professore di urbanistica, Federico II,
Luigi De Falco, segretario del consiglio regionale di Italia Nostra,
Mario De Cunzo, architetto, già soprintendente ai beni ambientali e architettonici,
Raffaella Di Leo, presidente del consiglio regionale della Campania di Italia Nostra,
Guido Donatone, presidente della sezione di Napoli di Italia Nostra,
Paola Gargiulo, architetto,
Alberto Gentile, direttore WWF salerno,
Andrea Fienga, WWF penisola sorrentina,
Maria Rosaria Iacono, Italia nostra Caserta,
Carlo Iannello, professore di diritto dell’ambiente, SUN,
Alberto Lucarelli, professore di Istituzioni di Diritto Pubblico, Federico II,
Sergio Marotta, professore di sociologia giuridica, Suor Orsola Benincasa,
Massimo Maresca, Italia nostra penisola sorrentina,
Luca Palladino, architetto,
Giulio Pane, professore di Storia dell’architettura, Federico II,
Luigi Rispoli, avvocato,
Massimo Rossano, Associazione Parco Sebeto,
Ulderico Pomarici, professore di filosofia del diritto, SUN,
Francesco Santoro, architetto, Italia nostra Cava de’Tirreni,
Valeria Santurelli, architetto, Italia nostra Napoli,
Francesco Saverio Lauro, avvocato marittimista, già presidente dell’autorità,
Eleonora Scirè, architetto, Italia nostra Salerno,
Sauro Turroni, architetto, già Senatore della Repubblica
Il piano casa, approvato in via definitiva il 1 luglio 2009 dal consiglio regionale, pur corretto in alcuni punti grazie all’insistenza di alcuni consiglieri dell’opposizione, rimane una brutta legge che apre la strada ad un nuova massiccia densificazione del territorio e che, a fronte di benefici assai modesti sotto il profilo ambientale, avrà gravi conseguenze sulla forma e sull’immagine delle città venete.
Gli aspetti migliorativi introdotti riguardano: l’esclusione dei centri storici dal disordinato aumento di volumetria indotto dalla legge, l’obbligo della compatibilità urbanistica dell’area per poter ricostruire ed ampliare gli edifici non residenziali e la soppressione del “silenzio assenso” nel caso in cui i comuni non decidessero nei termini quali aree tutelare dall’applicazione della legge. Restano però troppi aspetti negativi che inducono a confermare decisamente la bocciatura della legge.
Non si è tenuto in alcun conto l’accordo Stato-Regioni sottoscritto il 31 marzo 2009. Il Consiglio regionale ha voluto eccellere nella “deregolazione”, consentendo l’ampliamento per tutte le tipologie di edifici, residenziali e no, indipendentemente dal volume esistente e senza alcun limite massimo di volumetria. Anche i condomini potranno essere ampliati, purché sia unicamente rispettato il regolamento interno. Ognuno può immaginare quale effetto sulla qualità dell’ambiente urbano delle periferie comporterà questa attività edilizia senza regole.
L’aspetto peggiore della legge riguarda però la possibilità di ampliare gli edifici non residenziali.
Tutti i documenti di analisi, allegati ai piani urbanistici comunali e sovracomunali, hanno denunciato la dispersione insediativa che ha caratterizzato lo sviluppo del territorio, sia per quanto riguarda il sistema residenziale che quello produttivo. Logica vorrebbe che la Regione prescrivesse che all’interno dei Piani di Assetto del Territorio comunali (PAT) ed intercomunali (PATI), che i comuni stanno elaborando, fosse prevista la razionalizzazione degli insediamenti attraverso l’accorpamento delle aree produttive. Invece, la possibilità di demolire ed ampliare fino al 50% del volume esistente tutti edifici produttivi, anche quelli incongrui, di fatto vanifica qualsiasi intento di riordino del territorio e di riqualificazione delle aree cementificate disperse e atomizzate.
Un altro aspetto negativo si configura nel fatto che l’obiettivo di incentivare il ricorso all’edilizia ecocompatibile ed alle fonti rinnovabili di energia, risulta debole e residuale rispetto a quello, di gran lunga prevalente, di riaprire i cantieri edilizi. L’ampliamento del 20% è concesso a tutti, così come il 30% in più in caso di ricostruzione. Per le buone tecniche della bioedilizia e del risparmio energetico sono previsti solamente un bonus di volume aggiuntivo del 10% e la riduzione degli oneri di costruzione. Ci si sarebbe aspettato che una legge orientata a promuovere l’edilizia sostenibile subordinasse la possibilità di ampliare gli edifici, in deroga alle norme urbanistiche, al rispetto integrale di precisi requisiti prestazionali sia per l’utilizzo di materiali ecocompatibili che per il conseguimento del risparmio energetico. Il “Piano Casa” regionale, invece, non prescrive nessun requisito prestazionale per ottenere l’ampliamento volumetrico e si presta, pertanto, a facili furbizie (basterà un’autocertificazione che attesti di aver inserito qualche riduttore di flusso nei rubinetti o una vernice di origine naturale o un pannello solare, dai costi irrilevanti) per avere diritto ad un significativo aumento di cubatura e di plusvalore dell’immobile. L’unico parametro preciso di risparmio energetico prescritto dalle norme è quello per ottenere l’annullamento del costo di costruzione nei casi di ampliamento e di demolizione con ricostruzione. Sicuramente un dispositivo molto generoso per i costruttori, che vengono addirittura “pagati” con la riduzione degli oneri per costruire in modo ambientalmente sostenibile.
Ultimo appunto contrario al disposto regionale è quello relativo all’assenza di Valutazione Ambientale Strategica (VAS). La direttiva comunitaria 2001/42/CEE impone la VAS per i piani e programmi elaborati nel settore della pianificazione territoriale e della destinazione dei suoli che abbiano effetti significativi sull'ambiente. Non v’è dubbio che la legge regionale approvata ha un impatto assai rilevante sul territorio e produrrà, di conseguenza, effetti significativi sull’ambiente. La VAS pertanto era obbligatoria. Avere approvato la legge in sua assenza ipotizza un vizio di legittimità, che potrà essere impugnato presso il tribunale amministrativo, e che costituisce, in ogni caso, un’infrazione alle leggi comunitarie passibile di sanzioni da parte della comunità europea.
Lorenzo Cabrelle è membro del direttivo Legambiente Padova
Ampliamento del 20% (articolo 3); uni-bi familiare, volume massimo 1000 metri cubi, non più alta di 7 metri: sono questi i requisiti dell'edilizia esistente che godrà in Campania della cementizia manna governativa. Questo tipo edilizio, in Lombardia, nel Veneto, in Friuli, è assai diffuso: è la villetta dei "cumenda" brianzoli, del varesotto, della brembana, che sistematico sostegno assicurano ai partiti di maggioranza (e vanno sì premiati). Villette disegnate nei piani regolatori di quei territori come edilizia sparsa. In Campania invece è quell'edilizia che ha devastato il territorio in decenni di attività abusive, che la legge recepita talquale dalla giunta regionale la norma governativa di indirizzo premia con ulteriori possibilità edificatorie. E se del condono ancora non hanno fruito, in quanto edificate (tante, in Campania) dopo i termini previsti dalla leggi di sanatoria, ecco come legittimarle. Anche in deroga ai piani paesistici: a Ischia come a Cuma o a Massalubrense, o sulle pendici del Vesuvio o del Faito e altrove ancora.
Sostituzione edilizia con ampliamento del 35% (articolo 4). Anche in deroga ai piani paesistici: a Ischia, a Cuma, a Massalubrense, sulle pendici del Vesuvio, del Faito... stavolta la preesistenza edilizia può non avere limiti dimensionali di sorta e per tutti indistintamente il premio è del 35%. E così anche le Masserie della Piana del Sele potranno diventare, una volta demolite, bei condomini di cemento armato.
Riqualificazione aree urbane degradate (articolo 5). A definire il significato del termine aree urbane stavolta non è la Regione, ma sono incaricate le amministrazioni comunali. Esse, se vorranno intendere la norma in tal senso, potranno anche definire i centri storici come aree urbane degradate. Mentre infatti negli altri casi (articoli 3 e 4 della legge) i centri storici sono espressamente fatti salvi, l'articolo 5 rinvia in maniera assai ambigua al 4, lasciando ampi spazi di interpretazione.
Una ad una, le regioni, predisponendo le rispettive leggi, si apprestano a rinunciare al governo pubblico del territorio, accettando supinamente (o convenientemente) l'ordine del governo centrale. È la sublimazione dell'estemporaneità, dell'improvvisazione: l'esatto contrario della pianificazione. Allineata a tante altre, la Campania rinnega anni di lavoro e di discussioni democraticamente sviluppate sul territorio, che hanno portato solo qualche mese fa all'approvazione del suo primo Piano territoriale.
In sostanza, la giunta propone al Consiglio di gettare a mare il lavoro fin qui svolto, riconoscendo nel nuovo testo normativo, una più congeniale risposta ai fabbisogni.
Il Ptr, pur discutibile in quanto ancora privo di norme attuative, ancora non calibrato sulla dimensione concreta del paesaggio, ancora privo di un confronto adeguato con la seria pianificazione paesistica vigente disegnata dal ministero per i Beni culturali, merita una sintesi sui temi del disagio abitativo, del recupero delle aree industriali in dismissione, della sicurezza del patrimonio edilizio, della salvaguardia dei centri storici e delle aree rurali, mirata allo snellimento delle procedure necessarie per concretizzare tali obiettivi e alle forme di incentivi necessarie per il coinvolgimento dei privati.
La nuova disciplina regionale non contiene il paesaggio: anzi, contrasta con il decreto legislativo numero 627/08 che ha modificato il Codice dei Beni culturali prescrivendo che i piani paesistici non possano essere più redatti, modificati, né a maggior ragione derogati dalle Regioni. Recependo le indicazioni della Corte costituzionale, lo Stato da appena un anno è tornato a impossessarsi dell'obbligo costituzionale della tutela del paesaggio, rammentando che alle regioni ne è invece affidata la valorizzazione. La novità del Codice è pure che gli stessi centri storici debbano essere soggetti a tutela. Il disegno di legge regionale pecca pertanto di un gravissimo e palese vizio di incostituzionalità.
L’autore è segretario regionale di Italia Nostra Campania
Il “Piano casa” della Regione Lombardia, come delle altre Regioni, ha origine dall’intesa del 31 Marzo 2009 raggiunta nella Conferenza Stato-Regioni ed Enti Locali promossa dal Governo, che avrebbe dovuto tradurne il contenuto in un decreto-legge entro dieci giorni dalla sottoscrizione dell’accordo: impegno poi non mantenuto anche per dubbi di costituzionalità sull’iniziativa. E’ opportuno peraltro richiamare le finalità e i contenuti dell’accordo per verificare se il progetto di legge regionale li riprenda in modo più o meno coerente.Si tratta, come è noto, di un intervento che si propone il “rilancio dell’economia” allo scopo di “rispondere anche ai bisogni abitativi delle famiglie” introducendo “incisive misure di semplificazioni procedurali dell’attività edilizia”.
In vista di queste finalità, l’intesa Stato-Regione-Enti Locali si è attestata sui contenuti seguenti:
a) interventi di ampliamento della volumetria esistente, entro limiti definiti, ai fini di migliorare “ la qualità architettonica e/o energetica degli edifici”;
b) consentire interventi straordinari di “ demolizione e ricostruzione di edifici residenziali con ampliamento sino al 35%”: anche qui con finalità “di miglioramento della qualità architettonica, dell’efficienza energetica e dell’uso di fonti energetiche rinnovabili“;
c) introdurre forme semplificate di procedure.
Gli interventi sono esclusi nel caso di edifici abusivi, nei centri storicio in aree di inedificabilità assoluta. Spetta inoltre alle Regioni escludere o limitare gli interventi nel caso di beni culturali o nelle aree di pregio ambientale e paesaggistico. Questa disciplina straordinaria avrà durata non superiore a 18 mesidall’entrata in vigore delle leggi regionali.
Il principio sotteso (anche se non esplicitamente dichiarato) è quello che l’attuazione del “piano-casa” avrebbe una capacità di trascinamento sull’economia complessiva, secondo quanto dice anche un vecchio detto popolare.
Senonchè la saggezza popolare andrebbe aggiornata e verificata, confrontandola con i caratteri recenti degli interventi immobiliari nel nostro paese, basati su una crescente aggressività speculativa, senza alcun rispetto non diremo per le esigenze sociali, ma nemmeno per la salvaguardia di quelle preesistenze territoriali che costituiscono un patrimonio di tutti.
Inoltre non si può dimenticare che la crisi finanziaria globale ha avuto, almeno negli Stati Uniti, origini strettamente legate proprio allo sviluppo immobiliare. Infine, come ripetono da tempo gli economisti. l’attività immobiliare è quella che restituisce di meno alla collettività in termini di sviluppo economico, trattenendo invece la più alta percentuale (sino al 50%) alla pura rendita dell’operatore. Basterebbero queste considerazioni per avanzare sospetti sulla efficacia odierna dell’edilizia come motore per un rilancio socio-economico di carattere generale.
Va aggiunto che – per quanto concerne i Comuni – una buona parte di essi attribuisce all’edilizia un ruolo “virtuoso” di aiuto alle proprie finanze mediante i contributi di urbanizzazione. Non si tiene però conto che si tratta di un sollievo momentaneo, giacchè a medio e a lungo termine ogni aumento di densità edilizia in quartieri già costruiti è destinata a portare conseguenze negative sulla qualità della vita dei residenti: aggravando fenomeni già congestivi nelle città medie e grandi che si tradurranno in aumenti, non quantificabili ma ingenti, per le spese comunali da impiegare nei settori dei servizi, della sorveglianza e del traffico, ecc..
In sintesi, favorire oggi l’edilizia al di là di quanto consentono piani regolatori già ora altamente permissivi equivale a rovesciare debiti sulle generazioni future.
3.- Per quanto concerne poi in particolare la Regione Lombardia, già interessata da un’area metropolitana estesa a gran parte delle aree di pianura, con Comuni in cui il consumo di suolo copre già attualmente per percentuali altissime l’intero territorio comunale, significa eliminare in anticipo ogni possibile contenuto pianificatorio alla L.R. 12/05 che soltanto ora comincia ad essere attuata. Significa fra l’altro negare ogni attività istruttoria alla VAS, al piano delle regole e dei servizi dei nuovi PGT, che saranno inutili o partiranno già superati dai fatti. Allo stesso modo diventano inutili gli attuali PRG, se possono essere superati gli indici di densità fondiaria e i rapporti di copertura, addirittura sino al 50%, senza che sia preventivamente verificato il necessario aumento di aree per verde e servizi, che potrebbero essere anche impossibili da reperire. Viene infine ignorata l’autonomia comunale, dato che ai Comuni non è consentito sottrarsi al piano casa, ma solo intervenire con limitati poteri integrativi o modificativi. L’unico potere concreto dei Comuni sarebbe quello di individuare limitate parti del loro territorio dove il piano-casa non si applica; tuttavia, come prevede il 6° comma dell’art. 5, la relativa motivatadelibera del Consiglio Comunale deve essere esercitata entro il termine (dichiarato perentorio) del 15 Settembre 2009 (sic!).
***
Passando ora alle osservazioni di maggior dettaglio sul testo del progetto di legge, si rileva quanto segue, osservando comunque ancora che la “valorizzazione” e “qualificazione” del patrimonio edilizio esistente hanno perso per via anche quelle finalità di miglioramento complessivo che – per quanto generiche e inadeguate – secondo l’accordo Stato-Regione-Enti Locali giustificavano gli interventi di deroga a qualsiasi regola urbanistica. Tali giustificazioni erano – lo ripetiamo – il miglioramento della “qualità architettonica” e di quella energetica, la riqualificazione di aree urbane degradate, oltre alla promessa di risorse straordinarie per l’edilizia residenziale pubblica al fine di “soddisfare il fabbisogno delle famiglie o particolari categorie, che si trovano nella condizione di più alto disagio sociale e che hanno difficoltà ad accedere al libero mercato della abitazione”.
Nel piano casa lombardo, le finalità di ordine sociale sono confinate all’art. 4 del progetto di legge, e previste come “riqualificazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica”, nei quali tuttavia l’intervento diretto degli enti proprietari rimane comunque condizionato alla allocazione di risorse pubbliche straordinarie di cui non è traccia nel testo della Regione, mentre anche l’accordo Stato-Regioni dichiara che il sostegno potrà essere individuato “compatibilmente con le condizioni di finanza pubblica” , che notoriamente non nuotano nell’oro. Risulta però ammesso nei quartieri ERP anche l’intervento dei privati, mediante il convenzionamento di cui agli artt. 17 e 18 del DPT 6 Giugno 2002, N. 380, che ha notoriamente un limitato effetto calmieratore dei prezzi di vendita e delle locazioni, ma certamente non risponde al fabbisogno delle famiglie “che si trovano nella condizione di più alto disagio sociale”. E’ anzi singolare che non si parli mai di edilizia convenzionata per gli interventi di cui agli artt. 2 e 3 del progetto di legge.
Aver confinato le finalità sociali ad una eventuale futura individuazione di risorse per l’edilizia residenziale pubblica ha comunque il pregio di non confondere le idee: confermando che gli interventi di cui all’art. 2 e 3 risponderanno esclusivamente alle regole del mercato, basate di norma su caratteri speculativi, con prezzi elevati e liberi di vendita e locazione. Non risulta nemmeno che gli interventi dell’art. 3 siano limitati, o preferiti, nel caso in cui vengano disposti su “aree urbane degradate” da riqualificare. Di conseguenza le giustificazioni residuali del “piano casa” lombardo rimarrebbero unicamente il miglioramento della “qualità architettonica e/o energetica”
Su questi due argomenti, tuttavia, si può obiettare che esiste già ora, per tutte le nuove costruzioni, una rigida normativa per il contenimento di energia, a cui corrisponde un “limitato” premio volumetrico (L.R. 33/07). Cosa accade con il piano-casa? Si sommano i due incentivi? Inoltre è certo che ogni intervento di sopralzo (in questo caso assai più radicale dei sottotetti) è destinato ad alterare negativamente l’architettura originaria (ove esista); certo, non a migliorarla.
ART. 2 – Quali sono le “parti inutilizzate” di un edificio che non abbia destinazione agricola o produttiva? Spazi non affittati, e quindi inutilizzati solo in via temporanea? Alberghi chiusi ? Edifici terziari senza mercato? Non si riesce a capire. L’utilizzo dei seminterrati potrebbe essere opportuno, a patto che gli spazi posseggano le condizioni regolamentari di abitabilità. Nelle aree destinate all’agricoltura, il recupero di parti inutilizzate (ossia di tutte quelle già adibite ad usi connessi al lavoro agricolo) per destinazioni residenziali o ricettive (ma non alberghiere?) avrà come conseguenza la perdita di un immenso patrimonio storico lombardo, ossia quello costituito dalle grandi cascine.
ART. 3. e 5. – L’intervento su abitazioni mono-bifamiliari, del tutto svincolato da esigenze del nucleo familiare che vi risiede, cambierà totalmente l’aspetto e l’impatto urbanistico di interi quartieri, trasformando ville e villette in condomini.
Soprattutto fa paura l’effetto devastante che può conseguire agli interventi previsti dai commi 2, 3, 4 e 5, che ci auguriamo vengano drasticamente rivisti.
Anzitutto sorprende che gli interventi siano ammessi (senza limiti) anche entro i piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali, ed egualmente nelle zone con vincolo paesaggistico o comunque di grande pregio ambientale: quali le sponde dei laghi lombardi già oggi a rischio per l’alta permissività di molte amministrazioni comunali.Per quanto attiene ai parchi regionali, la disposizione del 1° comma dell’art. 5 è particolarmente inaccettabile. Si dice espressamente che la deroga alle previsioni del piano del parco deve garantire “il rispetto del codice civile e delle leggi per la tutela dei diritti dei terzi“: come se queste normative si potessero invece disattendere in tutti gli altri casi! Inoltre deve essere rispettato “il paesaggio“; ma come può esserne assicurato il rispetto consentendo contemporaneamente la deroga al piano del parco, che ha la finalità di proteggerlo
Nell’art. 3 (anche qui, in deroga ai principi dell’accordo Stato-Regioni) gli interventi sono ammessi anche nei centri storici per gli edifici residenziali “non coerenti” con le caratteristiche della zona. Cosa significa? Si ricorda infatti, che nei centri storici, gli unici edifici “non coerenti” sono quelli di edilizia recente, che normalmente devono la loro incoerenza alla circostanza di essere più alti, più densi o comunque sproporzionati rispetto al contesto e alla cortina di edifici antichi. Vogliamo dunque premiarli perchè vengono sostituiti con edifici più alti e più densi, al di fuori di qualsiasi rapporto con l’area circostante?
Al 5° comma, l’aumento ulteriore di volumetria per gli interventi che assicurino un “congruo equipaggiamento arboreo” o “giunte arboree perimetrali” non necessita ulteriori commenti; così come al 6° comma, la previsione che gli interventi potranno superare sino al 50% l’indice di densità fondiaria e l’indice di copertura previsti dallo strumento urbanistico è destinato, come già si è fatto cenno, a rendere obsoleto ogni piano regolatore.
Comma 9 – Viene affermato il rispetto della sola normativa antisismica: ciò significa che tutte le altre normative tecniche che non vengono nominate (da quelle impiantistiche a quelle strutturali o a quelle stesse di contenimento energetico) possono essere disattese?
Da ultimo, si ribadisce che il progetto di legge viene imposto ai Comuni, ai quali sono delegati compiti secondari e di efficacia marginale. Non esisterà alcuna possibilità a livello comunale, dopo il 15 Settembre prossimo (ossia praticamente subito, considerato il periodo estivo) di escludere gli interventi su parti del territorio comunale – ad esempio per le aree di grande impatto paesaggistico – o comunque di limitarne la portata.
E’ possibile soltanto che il Comune, sulle istanze o DIA, entro trenta giorni, sottoponga l’intervento singolo a “specifiche condizioni e modalità tecniche”; infine l’art. 2 demanda ai Comuni di “verificare l’eventuale ulteriore fabbisogno di aree pubbliche e servizi”; e inoltre (sempre entro il 15 Settembre 2009) di dare prescrizioni per il “reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e verde“.
Come si deve leggere questa disposizione? Nel senso che, se mancano le prescrizioni entro il termine brevissimo concesso, tutti gli interventi di ampliamento o di sostituzione di edifici sono esonerati dal prevedere, ad esempio, i posti auto di pertinenza obbligatori per legge? E poi, perchè il fabbisogno di aree pubbliche e servizi urbani indotto dalla legge è definito come meramente “eventuale“?.
Se si possono superare sino al 50% gli indici di densità edilizia , ciò significa che – necessariamente - il Comune dovrà aumentare gli standard per la
Presentata dal Pdl la proposta di legge sull'edilizia urbana: «Una rivoluzione anche per l'economia»
È la rivoluzione delle facciate. Dei volumi, delle linee, del cemento che dovrà sposare il risparmio energetico e - si legge nella proposta di legge del Pdl - soprattutto l'ambiente, regalando qualità alle case degli italiani. Mauro Pili, deputato e primo firmatario della proposta, lo definisce un «piano Marshall da 128 miliardi di investimenti e 750 mila nuovi posti di lavoro» nei prossimi due anni. Si chiama “Riqualificare l'Italia”, una rivoluzione edilizia pensata per riattivare il tessuto economico così sfilacciato del nostro Paese attraverso una gigantesca operazione di ristrutturazioni, demolizioni e ricostruzioni. Cemento vincolato: «Restituiamo all'Italia un patrimonio edilizio migliore, puntando sulla tutela ambientale - con attenzione al risanamento antisismico - e mettendo il freno a regali volumetrici senza miglioramento energetico», dice Pili, ieri accompagnato dal deputato sardo Paolo Vella e dal capogruppo in commissione Ambiente Agostino Ghiglia (Pdl).
CHI RIGUARDA Come anticipato nei giorni scorsi, la proposta di legge - che potrebbe diventare un maxi-emendamento al decreto “Casa qualità” già sul tavolo del Governo - «rilanciare l'idea del presidente Berlusconi», dice Pili, e riguarderà, oltre alle case mono e bifamiliari, anche «interi quartieri» che, attraverso piani di riqualificazione elaborati dai Comuni, potranno diventare delle isole nelle città «a consumo energetico ridotto». Rispetto alle prime indiscrezioni, quindi, ecco spuntare anche i palazzi, ma anche in questo caso il “premio” in maggiore volumetria potra essere garantito solo dall'impiego di materiali che permettano il risparmio di energia.
L'IMPATTO AMBIENTALE Il meccanismo di premialità volumetrica sarà questo: per le ristrutturazioni sarà possibile realizzare (in tutto il Paese) una cubatura maggiore del 20 per cento, mentre le demolizioni e totali ricostruzioni il premio sarà fino al 35 per cento in più, ma «soltanto se ai lavori si accompagnerà una ristrutturazione energetica con la relativa classe». A, B, o C, sottolinea Pili, classi lontanissime da quella G, sotto la quale ci sono il 95 per cento delle abitazioni italiane. Per le case in questa classe (la più cara , secondo lo studio allegato alla proposta di legge) si spendono in media 2.300 euro all'anno per 150 metri quadri. Mentre il passaggio alla classe A si spenderebbero 200 euro. Un passaggio fatto di materiali naturali, che permettono un risparmio di energia, e di pannelli per produrre energia alternativa. Per quanto riguarda le emissioni di CO2, secondo il testo della legge «passerebbero da 35 Kg per metro quadrato all'anno a 5,8 kg».
I NUMERI La proposta di legge, se non dovessero aumentare i permessi di lavori, di ricostruzioni o nuove concessioni (l'opzione zero, secondo i proponenti) riguarderebbe oltre 746 mila edifici, 15.500 da demolire e ricostruire, 59 mila sarebbero gli edifici che sorgerebbero.
GLI ALBERGHI Le strutture ricettive legate al turismo: «La proposta riguarderà anche il turismo con la riconversione energetica degli alberghi e il relativo incremento di volume», dice Pili, non certo in linea con l'ipotesi di Piano casa della Regione Sardegna.
GOVERNO E REGIONI «Lo Stato ha la responsabilità di legiferare», ha detto ieri Pili, «essenzialmente, per motivi ambientali, comunitari e fiscali». Se il deputato Ghiglia si augura che le Regioni «recepiscano il più possibile questa proposta di legge (il cui viaggio parlamentare sarà agevolato dal grande consenso che ha già ottenuto), Pili ha sottolineato che in materia di paesaggio, sono le Regioni a decidere: «Di volta in volta, si troverà l'intesa». Previsione ottimistica.
Come facilmente prevedibile, è stato rapidamente approvato il disegno di legge n. 64 “anticrisi” in Friuli Venezia Giulia, già commentata su eddyburg.it, che è ora diventato la LR n. 11/2009.
Sostanzialmente invariate sia le norme per lo “sconto” sulle tariffe dovute dalle aziende per i controlli e le istruttorie funzionali al rilascio dell’AIA, sia quelle sull’esenzione dalla procedura VIA per i “piani straordinari di emergenza” approvati con ordinanze del Presidente del Consiglio ai sensi della L. 225/1992, oppure con analoghi provvedimenti regionali. Piani che dovrebbero riguardare interventi di protezione civile, ma che sono già stati utilizzati, negli anni scorsi, per fare tutt’altro.
Le opere “strategiche”
Rispetto al testo iniziale del disegno di legge 64, sono state invece apportate alcune modifiche alla parte (il Capo II) che concerne le cosiddette “opere strategiche”. Modifiche inserite con un emendamento trasversale, sottoscritto anche dai gruppi di opposizione, tant’è che la legge è stata alla fine votata a larga maggioranza, con l’astensione di PD, IdV e Sinistra Arcobaleno e con l’unico voto contrario di un consigliere del PRC (che pure della SA fa parte).
La stesura definitiva del Capo II pone un limite – del tutto teorico – alla validità delle procedure speditive previste nella legge “anticrisi”, vale a dire (art. 6, c. 2) “fino al completamento della riforma urbanistica e all’entrata in vigore del nuovo strumento di pianificazione generale regionale”, il che equivale ad un rinvio alle calende greche. Nessun disegno di legge in materia urbanistica è stato infatti presentato e l’orizzonte temporale indicato dall’assessore competente (Federica Seganti, Lega Nord) per questa riforma e per la predisposizione del nuovo Piano territoriale regionale – che forse non si chiamerà più così – coincide con la fine del 2010…
Entro 120 giorni dall’entrata in vigore della legge, la giunta regionale approva “in via preliminare” (art. 6, c. 3) l’elenco delle opere strategiche e lo sottopone al Consiglio delle autonomie, e alla competente commissione del consiglio regionale, i quali hanno 30 giorni per esprimere il primo un’intesa, la seconda un parere vincolante. La giunta regionale può però “prescindere motivatamente” dall’intesa, mentre se entro 30 giorni non arriva il parere della commissione, si prescinde anche da questo: facile immaginare cosa succederà, in un consiglio regionale dove il centro-destra gode di una solidissima maggioranza. Nella migliore delle ipotesi, tutto si ridurrà ad un mercanteggiamento tra forze politiche ed enti locali, per l’aggiunta – non certo per l’eliminazione! - di qualche ulteriore opera “strategica” rispetto all’elenco predisposto dalla giunta.
Gli atti di pianificazione del “Sistema dei trasporti”, inoltre, prevalgono (art. 7) sui piani regolatori comunali e su tutti i piani di settore regionali, compresi quelli approvati in attuazione di leggi statali: si tratta quindi, tra l’altro, anche dei piani paesaggistici e di quelli per la gestione dei siti di interesse comunitario della rete “Natura 2000”. Se i Comuni non adeguano prontamente i propri strumenti urbanistici alle previsioni del “Sistema dei trasporti”, interviene la Regione in via sostitutiva. Insomma: infrastrutture über alles. Resta ovviamente da vedere se i suddetti atti di pianificazione saranno veramente tali o se – come appare più verosimile – si tratterà di meri elenchi di infrastrutture da realizzare. Del resto, nulla dice la legge in merito alle procedure partecipative e valutative (VAS ecc.) concernenti il “Sistema” suddetto.
D’altro canto, la semplice approvazione del progetto preliminare di un’opera dichiarata “strategica”, costituirà variante automatica al PRGC (art. 7 c. 6) e potrà trattarsi naturalmente anche di tutt’altra cosa rispetto alle infrastrutture previste nel “Sistema dei trasporti”.
Ai Comuni viene invece concesso (art. 7, c. 10) di adeguare i propri piani regolatori alle previsioni dell’intesa Stato - Regione di cui alla L. 443/2001 (cioè la Legge obiettivo), anche “nelle more dell’efficacia degli atti di pianificazione del Sistema dei trasporti”. Intesa che contiene la previsione di varie mega-infrastrutture ad altissimo impatto ambientale, economico e sociale (TAV, autostrada Carnia - Cadore, ecc.): ma in tempi di servilismo generalizzato, perché negare a Sindaci e Consigli comunali la possibilità di acquisire meriti nei confronti della Giunta regionale, e della lobby delle costruzioni, dimostrandosi più realisti del re? Del resto, l’iniziale – ancorché timida - opposizione dell’ANCI al disegno di legge n. 64, è prontamente rientrata dopo le modifiche apportate nel testo definitivo.
Anche altri atti di pianificazione e programmazione regionale di settore (per esempio in materia di rifiuti, di energia, ecc.) possono poi essere scaturigine di opere “strategiche” (art. 8), anch’esse di conseguenza prevalenti sugli strumenti urbanistici comunali, a condizione però che nella formazione di tali piani o programmi di settore sia stata garantita “la partecipazione del pubblico e degli enti locali interessati” (condizione che invece per il “Sistema dei trasporti” non è prevista).
I Comuni potranno infine (art. 9) proporre alla Giunta regionale di dichiarare “strategici”, con le conseguenze del caso, anche interventi puntuali – di qualsiasi genere e natura, quindi anche privati– “che richiedono una tempestiva realizzazione dei lavori qualora non siano utilmente esperibili le procedure ordinarie di legge”.
Il “piano casa”.
Nel frattempo, è in dirittura d’arrivo pure il “piano casa”. Un disegno di legge dovrebbe essere approvato a giorni dalla giunta regionale, per passare poi all’esame del consiglio.
Oltre ad una serie di agevolazioni per piccoli interventi edilizi, l’assessore Seganti ha annunciato che il provvedimento ammetterà aumenti di volumetrie per gli edifici esistenti fino ad un massimo del 20 per cento, ma già il PDL insorge per chiedere il 35 e – perché no? – anche il 40 per cento.
Si annuncia quindi un’aspra battaglia nella maggioranza di centro-destra sull’ammontare della percentuale prevista. Silenzio dalle opposizioni, almeno finora.
Oltre ai soliti rompipalle ambientalisti, sul piano casa anche qualche altro segmento della “società civile” potrebbe forse farsi sentire: in teoria almeno gli urbanisti, il mondo accademico e gli ordini professionali (dopo l’assordante silenzio sull’”anticrisi”). In teoria … in pratica vedremo. Di certo si potrà contare su eddyburg per diffondere l’informazione e la riflessione sull’argomento.
E la crisi?
Ma tutto questo affannarsi per il rilancio dell’edilizia, servirà almeno a superare la famigerata crisi economica, rilanciando la mitica crescita? É lecito dubitarne.
É più probabile che tutto si risolva nel colpo di grazia al territorio di una regione che già da molti anni ha rinunciato al ruolo di avanguardia, in materia urbanistica, ricoperto negli anni ’70 (l’epoca del Piano urbanistico regionale generale, a tutt’oggi non sostituito da alcun altro strumento di pianificazione d’area vasta!). Una regione che sempre più si sta omologando ai peggiori esempi italiani, primo fra tutti il vicino Veneto. Importa qualcosa di ciò alla classe dirigente – non soltanto politica, ma anche economica, culturale, accademica, ecc. – locale? Nulla evidentemente: tanto, quando gli effetti delle scelleratezze odierne diventeranno evidenti a tutti, con colate di cemento ed asfalto in ogni dove, tutti costoro avranno passato la mano ad altri.
Nel sito www.wwf.it/friuliveneziagiulia, sezione “documenti”, il commento delle associazioni ambientaliste sul DDLR 64 “anticrisi”, il cui testo è disponibile nel sito della Regione Friuli Venezia Giulia ( www.regione.fvg.it), sezione “Consiglio”, sottosezione “iter delle leggi”. Nello stesso sito, sezione “leggi” della home page, è disponibile anche il testo della LR 11/2009.
L'articolo 2, comme 1, del Ddl della Regione Veneto a sostegno del settore edilizio recita così: “[…] in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali provinciali e regionali, è consentito l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20 per cento del volume se destinati ad uso residenziale e del 20 per cento della superficie coperta se adibiti ad uso diverso (nostra sottolineatura)”. Unico limite, quello disposto dal comma 2: “L’ampliamento di cui al comma 1 deve essere realizzato in contiguità rispetto al fabbricato esistente; ove ciò risulti materialmente o giuridicamente impossibile potrà essere autorizzata la costruzione di un corpo edilizio separato, di carattere accessorio e pertinenziale”.
Proviamo ad applicare questa regola a uno qualsiasi dei capannoni esistenti nelle migliaia di zone industriali e artigianali del Veneto. Poiché il "non residenziale" comprende tutte le altre destinazioni, sarà permesso realizzare uffici, centri direzionali o alberghi che non necessariamente devono svilupparsi su un solo livello. Perché dunque non andare all'insù? Il limite infatti riguarda la superficie coperta, non l'altezza. 5 piani? 10 piani? e perché non 100 piani? basta avere terreno libero all'intorno dell'edificio originario e la superficie utile si può moltiplicare per 5, per 10, per quanto si vuole. E naturalmente se ne può cambiare l'uso a piacimento perché in nessun punto è stabilito che l'ampliamento debba avere la medesima destinazione del fabbricato originario. Così leggeremo "offresi, in ampliamento di carrozzeria, palazzo di 20 piani da adibire ad albergo o sede di multinazionale".
Proviamo ad applicare la stessa regola ad una azienda agricola. Si prende una stalla, una porcilaia, una tettoia (la legge è vaga su questo) et voilà. Si amplia e si cambia la destinazione d'uso, senza limiti in altezza. Se poi, l'edificio, è costruito prima del 1989 e non è adeguato "agli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza" (come è molto probabile che sia una porcilaia...) l'ampliamento è del 30% di superficie coperta, oppure del 35% se si fa ricorso all'energia rinnovabili. Per usufruire anche di quest'ultima opportunità, basterà installare un pannello solare (costo: 5.000 euro) e il gioco sarà fatto. La porcilaia si trasformerà a piacimento, potendosi ingrandire in pianta del 35% e in altezza fin dove si riesce....
Peraltro, la succitata disposizione consente di derogare alla fastidiosissima regola della distanza dai confini di zona e, a stare ben attenti, alla non meno fastidiosa regola della conformità alle destinazioni di zona. Tra le conseguenze possibili, mi sembra utile segnalarne una: se la proprietà di chi costruisce si spinge in zona agricola si potrà costruire anche fuori dai limiti stabiliti dai piani, in campagna. 10 metri? 20 metri? Anche in questo caso non è dato saperlo; e come è noto, in dubis pro reo. La legge, inoltre, chiede di adeguare le opere di urbanizzazione ai nuovi ampliamenti, ma non fa capire se anche tali opere possano andare in deroga a tutto. Se così fosse, si potrebbe edificare vicino all'esistente e collocare parcheggi e viabilità negli spazi agricoli retrostanti, senza limiti.
Penso che siano sufficienti questi pochi esempi per dare il senso della devastazione futura. Per quel che mi riguarda, offro consulenza totalmente gratuita a tutti i comuni che vorranno avvalersi della facoltà prevista dal comma 4 dell'articolo 7 di limitare o escludere l'applicazione di questa legge demenziale. Riporto qui di seguito quell’utile comma:
“I comuni, entro il termine perentorio di sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, possono escludere l'applicabilità delle norme di cui agli articoli 2 e 3 in relazione a specifici immobili o zone del proprio territorio, sulla base di specifiche valutazioni o ragioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico, ambientale, come pure stabilire limiti differenziati in ordine alle possibilità di ampliamento accordate da detti articoli, in relazione alle caratteristiche proprie delle singole”.
(mabaion@tin.it)
Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it
L’articolo di Francesco Indovina è stato diramato dall’associazione Città amica, quelli di Teresa Cannarozzo e di Massimo Carta sono scritti per eddyburg
Francesco Indovina
Università Iuav di Venezia
11 marzo 2009. - Un ritorno alle origini. Il cavaliere Berlusconi in ricordo dei suoi passati di “costruttore” edilizio ha elaborato un suo “piano casa” per rilanciare l’economia. Sogna che accanto al “piano Fanfani” i libri di storia possano ricordare, come di altrettanto successo, il “piano Berlusconi”, ma come tutti i sogni svaniscono all’alba. L’Italia di oggi non è quella degli anni del dopoguerra, inoltre il “piano Fanfani” era anche un piano finanziario per la costruzione di case di edilizia economica e popolare. Insomma tutto un’altra cosa, una cosa talmente diversa che sembra usurpato lo stesso titolo di piano. Non a caso si parla di “liberalizzare l’edilizia”.
Ancora con precisione non si sa bene cosa sia questo, già famoso, piano. Esso sembra formato sostanzialmente da due elementi: semplificazione e deroghe per aumento di cubatura.
Non c’è nessuno che si oppone alla semplificazione delle procedure, ma a condizioni che sotto questa veste non si contrabbandino altri meccanismi. La proposta, per quanto se ne sa, intenderebbe sostituire la “licenza edilizia”, rilasciata dal comune, con il “parere di conformità” da parte di un tecnico che con una perizia giurata dichiara la conformità dell’edificazione alle norme vigenti e al piano regolatore può permettere l’immediato inizio dei lavori. Se ne può discutere sotto condizioni. Per esempio, ma altri potranno esercitarsi, che siano drastiche le penalità per le dichiarazioni “non” conformi, con esclusione del tecnico dall’esercizio della professione per almeno dieci anni; il pagamento di una penale pari al 50% della costruzione che andrà sostenuta per il 25% da parte del tecnico e 25% da parte del proprietario, che va al Comune; la demolizione dell’edificio non in regola e il ripristino dello stato precedente a spese del proprietario. Ma questo non basta, il “parere di conformità”, sebbene giurato, non può darsi per accertato, esso andrà controllato dai tecnici comunali, senza che questo ritardi l’inizio dei lavori, e qualora risultasse non conforme l’obbligo del Comune di bloccare i lavori, senza possibilità di “modificare” il progetto, ma applicando le penali di cui si è detto prima.
La parte consistente del piano del cavaliere è tuttavia quella dell’aumento delle cubature del costruito: aumento del 20%, 30% e 35%, secondo una diversa casistica, per edifici residenziali e commerciali anche in deroga ai piani vigenti. Questa dovrebbe essere la norma che “mette il turbo” nel settore edilizio a costo zero.
Nonostante che l’incremento sia consistente non sono prevedibili i miracolosi risultati che il cavaliere Berlusconi immagina. Intanto, per quanto inventivi possano essere architetti e ingegneri, nei condomini (case a torre) per lo più appartenenti a molti proprietari che ci abitano, sarà difficilissima l’applicazione di questa possibilità. Certo qualcuno immagina di abbattere e ricostruire (la convenienze ci sarebbe) interi condomini, così un edificio di 6 piani diventerebbe un edificio di 8-9 piani, ma non sarà facile né numerosi i casi (proprietà frazionata, difficoltà di sistemazione per gli attuali occupanti, ecc.). Qualche vantaggio possono ottenerlo gli abitanti di case unifamiliari, ma, nonostante il “diffuso” le famiglie che abitano in case unifamiliari non sono un’alta percentuale. Nelle zone di villeggiatura forse ciò avverrà con più frequenza, con risultati dannosi sul piano della vivibilità collettiva, del decoro urbano e della salvaguardia del paesaggio. A questo proposito il cavaliere è molto ligio, ha sostenuto che questi incrementi sono possibili solo per gli edifici in regola anche con i vincoli paesaggistici, ma non è chiaro cosa succede di questi vincoli con l’aumento della cubatura (che sono in deroga). Detto tutto questo va sottolineato che non pare una fase in cui le famiglie sembrano disposte ad effettuare investimenti.
Dove invece la proposta potrà avere applicazione estensiva è nel settore commerciale della grande distribuzione, ipermercati, centri commerciali ecc. e qui il disastro bussa alla porta. Gli incrementi saranno consistenti, si pensi ad uno di questi centri con 3.000 metri quadri che possono crescere di altri 1000 mq. Certo anche per loro non è momento di investimenti, ma la proposta sembra permanente e quindi alla riprese avremo un’esplosione di questi interventi. Non servono oggi a rilanciare l’edilizia, ma domani per dare un ulteriore colpo alla manomissione del territorio.
In sostanza siamo alla demagogia: provvedimenti oggi sostanzialmente inefficaci, quindi inutili a promuovere l’occupazione, buoni in futuro quando ci sarà la ripresa, ma allora non serviranno per l’occupazione, con una deregulation di cui il paese non sente il bisogno.
Sarebbe utile un piano finanziario per la costruzione di case di edilizia economica per una quota di domanda assolutamente non compatibile con gli attuali prezzi di mercato (anche degli affitti). Ma di questo il governo non si occupa, pensa ai proprietari di ville, come dice lo stesso cavaliere Berlusconi.
Oscura appare la proposta del ministro Brunetta, in un articolo di giornale non si può chiarire tutto, ma l’essenziale forse sarebbe necessario, di trasformare l’affitto delle case di edilizia economica e popolare in una rata di mutuo (in sostanza passerebbe alle case a “scomputo”). Una liberalizzazione utile dice il ministro, ma non è chiaro se la rata del mutuo corrisponde perfettamente all’attuale affitto o meno. Nel primo caso, anche se costituisce un impoverimento del patrimonio pubblico e un aumento di rigidità del mercato, si potrebbe esaminare la proposta. Il secondo caso nasconde un’insidia: cosa succede se le famiglie occupanti non possono sostenere la spese per il mutuo? È un’esperienza in parte già fatta, con i patrimoni di alcuni istituti, ed è stata fallimentare e densa di espulsioni e di drammi.
Teresa Cannarozzo
Università di Palermo
21 marzo 2009 - Il 7 marzo 2009 si apprende dai media che il Presidente del Consiglio sta ideando un nuovo Piano Casa che manda in soffitta le previsioni precedenti contenute nella finanziaria del suo governo (l. 133 del 6.08.2008, Art. 11 “Piano Casa”). Berlusconi comunica trionfalmente di avere messo in cantiere un decreto legge che sarà denominato “Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili”, chiamato in maniera abbastanza impropria “Piano Casa”. Una proposta che tutta l’Europa vuole copiare.
Sono scaturite furiose polemiche ma anche preoccupanti consensi come quello di Nomisma, formulato con una visione economicistica, abbastanza deludente.
Si tratta di una iniziativa deflagrante che, se andrà in porto così come annunciato, seppellirà per sempre i principi e le regole dell’urbanistica che hanno sempre avuto il fine di mediare l’interesse privato e l’interesse pubblico e spegnerà definitivamente la speranza di riqualificare città e aree metropolitane, di salvaguardare il paesaggio, di recuperare i centri storici e le periferie pubbliche: di prevedere in sintesi lo sviluppo sostenibile e la modernizzazione del paese in armonia con l’identità storica e culturale della nazione. Perché in una fase storica in cui perfino gli Stati Uniti sono addivenuti ad aderire a principi di sostenibilità climatica, energetica e ambientale, le idee del Presidente del Consiglio sono ispirate alla deregulation più totale e minano alle fondamenta l’istituto della pianificazione urbanistica che è l’unico in grado di mettere a sistema l’uso delle risorse e le necessità degli insediamenti umani.
Dalla bozza del decreto fin qui pubblicizzata emerge una visione miope, arretrata, privatistica e anarcoide dell’attività edilizia, emerge una assoluta mancanza di considerazione del rapporto tra abitanti, attrezzature, servizi e sistemi insediativi. Infatti uno dei principi cardine della pianificazione urbanistica (Decreto Interministeriale 1444 del 1968) è la regola che ad ogni abitante insediato debba corrispondere uno standard di attrezzature pubbliche: scuole, verde parcheggi, attrezzature comuni. Così come se si impianta o si ingrandisce una attività produttiva (industria o centro commerciale) deve essere prevista una quantità adeguata di parcheggi. Emerge una candida ignoranza di queste regole elementari, che andrebbero applicate per gestire la complessità e l’equilibrio delle strutture territoriali e urbane, ritenute invece aree trasformabili a proprio piacimento.
Il provvedimento, finalizzato a rilanciare l’attività edilizia, propone infatti che, in deroga agli strumenti urbanistici, ognuno possa ampliare il volume della propria abitazione del 20%; nel caso di edifici non residenziali (fabbriche, capannoni industriali, centri commerciali) si prevede invece l’aumento del 20% della superficie. Nel caso di demolizione e ricostruzione gli aumenti di volumetria e di superficie possono arrivare al 35% “a condizione che siano utilizzate tecniche costruttive di bioedilizia o di fonti di energia rinnovabile o di risparmio delle risorse idriche e potabili". Nell’indecenza più totale una foglia di fico in direzione della sostenibilità.
Gli aumenti di volumetria sono stati finora consentiti negli strumenti urbanistici tradizionali, a certe condizioni, perfino in Sicilia. La novità rovinosa e inaccettabile è che tutto questo sia possibile in deroga ai piani regolatori comunali, sulla base di esigenze solo privatistiche, al di fuori da qualunque controllo pubblico.
Infatti la procedura proposta prevede che tali iniziative si attuino attraverso una semplice dichiarazione di inizio di attività inoltrata da un tecnico, senza prevedere, pare, sanzioni per dichiarazioni mendaci.
Lo scenario prevedibile è quello di una crescita di bubboni ed escrescenze verticali e orizzontali, in tutto l’edificato, costituito prevalentemente dagli agglomerati di case unifamiliari (lottizzazioni di ville e villette), spesso costruite a ridosso le une dalle altre, intervallate da spazi liberi di dimensioni minime. L’ingrandimento della abitazione o della fabbrichetta o del centro commerciale potrà piacere ai molti che potranno sostenere i relativi costi, ma potrebbe dispiacere ai vicini e ai confinanti. Per non dire del conseguente sottodimensionamento delle attrezzature di pertinenza, come il verde e i parcheggi.
Per quanto riguarda i condomini, lo scenario è invece quello della chiusura indiscriminata di terrazze e balconi, con i materiali più diversi (tra cui primeggerà l’alluminio anodizzato a basso costo) secondo il modello delle metropoli del terzo mondo. Ma con un po’ di fantasia, che non manca ad alcuni architetti, si potrebbero incastrare anche nei piani alti (come si faceva prima per realizzare servizi igienici e cucine nelle case medioevali) volumi a sbalzo, aggiungere ramificazioni coralline, innalzare selve di torrini. Naturalmente, nel rispetto, autocertificato della stabilità degli edifici.
Per quanto riguarda la demolizione e la ricostruzione con ampliamento, nel caso degli edifici condominiali, l’ipotesi sembra poco praticabile, sia per i costi, sia per la presenza di abitanti che non saprebbero dove andare. Certo, nel caso di edifici residenziali abitati in affitto, la proprietà potrebbe decidere di mandare via gli inquilini e avere mani libere per demolire e ingrandire. La cacciata degli inquilini che già è avvenuta con la vendita del patrimonio residenziale pubblico di proprietà degli enti e che avviene in alcuni centri storici, che presentano processi di valorizzazione immobiliare, aggraverebbe il disagio abitativo delle fasce sociali più deboli.
La bozza del decreto prevede anche la liberalizzazione della modifica della destinazione d’uso degli edifici “nel rispetto della normativa relativa alla stabilità degli edifici e di ogni altra normativa tecnica, nonché delle distanze e delle disposizioni del codice civile e delle leggi speciali a tutela dei diritti dei terzi”. Il mutamento, “in tutto o in parte”, della destinazione d’uso e possibile anche “senza opere edilizie”.
Non è chiaro finora se ci saranno ambiti urbani e territoriali esclusi da questa frenetica attività di intasamento edilizio, come per es. i centri storici o gli edifici vincolati come beni monumentali.
In ultimo, rimane il problema delle cornici legislative appropriate. Il Presidente del Consiglio ha confermato il proposito di procedere con decreto-legge, benché sia ben consapevole che il provvedimento attiene ad una materia, il governo del territorio, indicata dalla riforma del titolo V della Costituzione (2001) come legislazione concorrente tra Stato e Regioni.
Ciò significa che la potestà legislativa dello Stato nella materia del governo del territorio è limitata alla determinazione dei principi fondamentali; principi che avrebbero dovuto essere enunciati in una legge nazionale di riforma organica che si aspetta dal 1942. E francamente non sembra che i contenuti della bozza del decreto legge siano spacciabili per principi fondamentali di interesse nazionale; né sembra appropriata la decretazione di necessità e urgenza. Ma il Presidente del Consiglio troverà sicuramente il modo di superare tutto quello che ostacola i suoi obiettivi. Anche per non deludere l’Europa.
Naturalmente queste proposte dissennate vellicano gli egoismi e gli individualismi largamente diffusi nella nazione, annichiliscono l’interesse pubblico e non danno nessuna risposta al problema sociale del fabbisogno abitativo, che si materializza nei disagi di migliaia di famiglie che non riescono a trovare una casa in affitto a prezzi sostenibili, nelle difficoltà delle giovani coppie in regime di lavoro precario ad accendere un mutuo per l’acquisto della prima casa, etc….
Si tratta insomma di misure a favore di un segmento sociale, economicamente dotato, in grado di migliorare (si fa per dire) la propria condizione abitativa, la propria attività produttiva. Ma certo non si tratta di dare la casa a chi non ce l’ha.
L’Italia avrebbe bisogno di ben altro: innovazione e infrastrutturazione delle città e delle aree metropolitane, reti efficienti di trasporto pubblico su ferro, recupero e riqualificazione dei centri storici e delle periferie pubbliche, tutela attiva del paesaggio e del territorio storico, coesione e integrazione sociale attraverso serie politiche di social housing. Prima di sprofondare nel terzo mondo.
Massimo Carta
Università di Firenze
22 Marzo 2009.- Finalmente possiamo disporre di una bozza di decreto (“Schema di decreto legge recante: Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili”) sul quale compiere delle considerazioni preliminari, articolandole secondo alcuni aspetti che ci paiono particolarmente preoccupanti della proposta, finche proposta rimane e può essere corretta. Lo schema appare estremamente povero di dettagli, in un campo come quello del governo del territorio, dove la chiarezza e la assoluta limpidezza delle norme è necessaria per impedirne qualsiasi dubbia interpretazione, e per dare ai Comuni la possibilità reale di controllo delle trasformazioni. In più lo schema utilizza retoricamente come novità delle procedure già mature (i premi di volumetria derivati da una edificazione attenta al risparmio energetico, la D.I.A. già diffusa pratica di snellimento dell’iter progettuale ecc.) ingenerando qualche confusione.
Autorevoli voci di singoli architetti e urbanisti hanno ben espresso dubbi sull’eticità stessa della proposta, sottolineando ancora di più il silenzio un poco troppo prudente dei rispettivi ordini professionali; proposta che trasferisce beni comuni (il paesaggio, ad esempio) ai possessori di date proprietà immobiliari al fine di accrescerne il “valore”. Dubbi riferiti alla sua efficacia rispetto agli obiettivi che dichiara, ovvero il rilancio dell’economia, addirittura al fine di “sostenere la domanda interna di beni e servizi”, in un contesto congiunturale estremamente complesso, che solo in una narrazione semplicistica si gioverebbe di un incremento delle volumetrie/superfici edilizie. Perplessità che vanno dalla possibilità che gli strumenti di controllo previsti dallo schema possano realmente funzionare (ad esempio il vaglio di Sovrintendenze sotto organico e oberate di pratiche) al fatto che un provvedimento previsto in un lasso di tempo così definito non porti insita una inevitabile proroga.
Parco di dettagli, lo schema, ma molto chiaro nello scenario che dipinge: io credo che il Presidente del Consiglio abbia intercettato perfettamente un certo tipo di desiderio istintivo del possidente italiano (diciamo per ora piccolo, anche se appare tra le righe la possibilità di buoni affari anche ai grandi operatori immobiliari), il quale sa con certezza ciò che possiede e come aumentarne a breve il valore o le “prestazioni” in relazione alla sua natura e collocazione. In un momento delicato dal punto di vista economico come questo che attraversiamo, il provvedimento, al di là di una affermata “generalizzazione del beneficio”, è estremamente selettivo rispetto ai contesti che potrà interessare. I primi (forse i soli) ad essere stravolti dai cantieri (cantieri “poveri”, presumibilmente, che faranno dell’economia della realizzazione la loro missione, altro che qualità ecocompatibile) saranno quei contesti dove l’aumento di volumetria o superficie potrà massimizzare la resa dell’investimento in un momento in cui la liquidità è molto scarsa. I metri cubi aggiuntivi e in deroga alzeranno i tetti e occuperanno nuovo suolo laddove converrà di più: ad esempio sulle coste della consenziente Sardegna, dove una stanza in più costruita al costo medio di 900, 1000 euro al mq, può fruttare un aumento di valore fino a 3000, 4000 euro al mq. È quello sardo un esempio chiaro di come un bene pubblico complesso come il paesaggio continuerà, se questo schema verrà confermato, ad essere trasferito ai privati già possessori di valore posizionale, aumentando di contro lo svilimento generale della qualità dei servizi e della vita, e diminuendo necessariamente l’attrattività turistica del contesto, erodendo dunque anche le possibilità di future economie virtuose e sostenibili.
Ha ragione a mio parere, infine, chi ha definito questa proposta un condono ex ante: infatti, il ruolo che avranno i Comuni in tutta Italia (entro il 31 dicembre 2001) sarà quello di tentare di redigere dei veri e propri piani di “risanamento” alle azioni di trasformazione già effettuate per allora senza un quadro di riferimento chiaro in forza dei provvedimenti proposti, in una impossibile e perversa missione di inseguimento delle trasformazioni che mortifica i migliori sforzi degli urbanisti e architetti italiani di offrire altre possibilità e altri scenari al nostro territorio già così incredibilmente compromesso.
Deroghe alla veneta
Niente è condivisibile del progetto di legge sul rilancio dell’edilizia in via di approvazione da parte della Regione Veneto. Non i presupposti (l’improvvido annuncio del presidente del consiglio), non le finalità (in apparenza il rilancio dell’edilizia a costo zero per il governo, nella realtà l’ennesima trovata per vellicare gli istinti degli italiani), non i contenuti, per le ragioni che ci accingiamo a spiegare.
Come si ricorderà, ai primi di marzo il premier Berlusconi aveva pubblicamente annunciato l’imminente approvazione di un decreto legge con il quale sarebbe stato consentito a chiunque di ingrandire la propria abitazione, anche in deroga ai piani regolatori. Ne era seguito un breve scontro con le Regioni - più apparente che sostanziale - sfociato in un’intesa unanime, stipulata nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni[[1]], con la quale venivano circoscritte le possibilità di ampliamento in deroga, demandando alle Regioni il compito di approvare celermente apposite leggi ispirate ai principi ivi concordati. La RegioneVeneto si è attivata tra le prime, predisponendo il progetto di legge 398/2009, attualmente all’esame del Consiglio regionale[[2]].
Nella proposta in questione, i limiti definiti nell’intesa Stato-Regioni sono ampiamente superati, poiché la possibilità di interventi in deroga:
- viene estesa agli edifici non residenziali (industriali, direzionali, alberghieri, ricreativi);
può comportare, nel caso di demolizione e ricostruzione, ampliamenti del 30% e - in alcuni casi - al 40% della volumetria esistente o della superficie coperta, senza alcun limite massimo;
- si applica anche ai centri storici e alle aree soggette a tutele definite dalla pianificazione comunale e provinciale e, par di capire, anche agli immobili vincolati ai sensi del Codice dei Beni culturali e del paesaggio (ex l. 1089/1939), nel caso in cui siano ottenute le necessarie autorizzazioni[ [3]];
- elude gli impegni in materia di trasparenza e sicurezza del lavoro, di cui non viene fatto alcun cenno nell’articolato.
Gli ampliamenti sono talmente consistenti e l’ambito di applicazione così esteso che la pianificazione comunale viene sostanzialmente azzerata – sia pure per un periodo di soli (!!!) due anni. Viene a mente il cosiddetto “anno di moratoria” che, prima dell’entrata in vigore della legge 765/1967, consentì di seppellire l’Italia sotto un diluvio di fabbricati.
Principi fondamentali e autonomia dei comuni vengono calpestati
La lettura del testo presentato al consiglio regionale solleva non poche perplessità.
Innanzitutto, sembrerebbe logico considerare i contenuti dell’intesa come equivalenti a quei “principi fondamentali” riservati allo Stato in base al titolo V della Costituzione, a maggior ragione per il fatto che la loro definizione è avvenuta con un accordo unanime con le Regioni. Evidentemente così non è, dato che queste ultime hanno complessivamente agito in modo disarmonico[[4]] e, nel caso del Veneto, hanno ecceduto i limiti concordati senza nemmeno esplicitare le motivazioni.
I Comuni avrebbero più di un motivo per protestare nei confronti dell’ingerenza regionale, non soltanto per l’eccessiva compressione della potestà di pianificare l’uso del territorio. La proposta di legge, infatti, da un lato consente di utilizzare autonomamente le volumetrie aggiuntive, dall’altro scarica sui comuni l’onere di adeguare le urbanizzazioni (dalla viabilità agli spazi pubblici) e per di più sottrae loro le risorse necessarie, poiché prevede un sostanzioso abbattimento dei contributi concessori. Si tenga presente che il carico urbanistico indotto da ampliamenti generalizzati del 20, 30 o 40% può essere ritenuto equivalente all’intero dimensionamento di un piano regolatore[[5]]. In una città come Mestre, in cui sono presenti circa 80.000 alloggi, gli ampliamenti in deroga potrebbero comportare, in via ipotetica, un incremento compreso fra 16.000 e 32.000 alloggi. Se anche una sola frazione delle potenzialità venisse sfruttata nel periodo considerato si produrrebbero comunque alcune migliaia di alloggi. Chi potrà mai assicurare che non saranno violati gli standard urbanistici?
Infine, con una beffarda interpretazione del federalismo, viene attribuita ai comuni la possibilità di escludere o limitare l’applicabilità delle disposizioni di legge. In altre parole, i consigli comunali possono proibire ciò che la regione ha concesso! Debbono però decidere entro sessanta giorni: “decorso inutilmente tale termine è da intendersi che non vi siano ambiti o immobili da escludere” [sic!!!]. Tempi risibili per assumere una decisione scomoda e molto impegnativa, con l’obbligo – a differenza della regione – di motivare le scelte e senza che ai cittadini sia consentito di presentare osservazioni e opposizioni alle decisioni (o mancate decisioni) dei consigli comunali. Si genera in questo modo un’evidente a-simmetria: con una semplice delibera si stabilisce se e come modificare le regole urbanistiche decise con la partecipazione dei cittadini e il concorso di una pluralità di enti.
Un testo con molte ombre
All’articolo 2 si stabilisce che “in deroga alle previsioni [corsivo nostro, ndr] dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, è consentito l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20 per cento del volume se destinati ad uso residenziale e del 20 per cento della superficie coperta se adibiti ad uso diverso”. Ragionevolmente si deve ritenere che la deroga riguardi esclusivamente i limiti volumetrici e le categorie di intervento, essendo fatte salve tutte le altre indicazioni dei piani. Se così non fosse, e gli interventi potessero prescindere da tutte le previsioni dei piani, assumendo come unici riferimenti la presente legge e il complesso delle disposizioni legislative e regolamentari nazionali e regionali, si produrrebbe una sostanziale anarchia dell’attività edilizia[[6]]. Possiamo sostenere, al di là di ogni dubbio, che sia da escludersi un’interpretazione estensiva?
L’articolo 3 prevede prevede – in alternativa – la facoltà di demolire e ricostruire gli edifici esistenti, mediante una “ricomposizione planivolumetrica con forme architettoniche diverse da quelle esistenti comportanti la modifica dell’area di sedime nonché delle sagome degli edifici originari”. Gli interventi possono essere effettuati anche “su area diversa rispetto al lotto su cui insiste l’originario sedime purchè avente la medesima classificazione di zona”. Stando alla lettera, non è escluso che il trasferimento possa avvenire in un’altra parte del comune: sarà consentito demolire a Mestre e ricostruire al Lido, purché in aree aventi la medesima classificazione? Peraltro, che destinazione avrà il terreno su cui insisteva l’edificio demolito e ricostruito altrove? Tornerà ad essere edificabile in base al PRG vigente, con massimo giubilo del proprietario, o diventerà “inedificabile per legge”? Nulla è detto al riguardo.
Se non lo impediranno i comuni o i vincoli architettonici, i centri storici potranno essere interessati sia dagli ampliamenti, sia dalle demolizioni e ricostruzioni. Ogni spazio libero potrà quindi ospitare volumi, in aggiunta all’esistente o a seguito di demolizione e ricostruzione di edifici. La ricomposizione planimetrica potrà anche comportare la trasformazione di annessi e manufatti fatiscenti in edifici abitativi di nuova realizzazione? Il testo della legge è molto reticente al riguardo.
Inoltre, come si applicherà una norma siffatta in ambiti disciplinati da piani attuativi vigenti (peraltro, stravolgendone l’assetto planivolumetrico e incrementandone il carico urbanistico)? E in ambiti disciplinati da piani attuativi da formare (tipicamente, un edificio dismesso del quale il PRG ammette il cambio d’uso)? Ragionevolmente, gli interventi in deroga dovrebbero essere esclusi, o tutt’al più vincolati al mantenimento dell’uso in atto, essendo ogni modifica subordinata al piano attuativo. Ma siamo certi che sia così?
Quanto alle zone agricole, poiché per legge sono i piani regolatori a disciplinare l’uso degli edifici non più utilizzati a fini agricoli, come si combinerà la disciplina di piano con le possibilità di ampiamento, demolizione e ricostruzione, trasferimento di volumetria? Si potranno demolire abitazioni, stalle e fienili, trasferendoli ove più aggrada al proprietario dei terreni? Si potrà intervenire allo stesso modo sugli edifici non residenziali (carrozzerie, officine, attività artigianali e commerciali) che già abbondano nelle martoriate campagne della pianura e dei fondovalle, spostandoli e ampliandoli secondo le esigenze dei singoli proprietari? Ragionevolmente, gli interventi in deroga non dovrebbero dar luogo a edifici con diversa destinazione, ma siamo certi che sarà così? Oppure assisteremo ad ulteriori riconversioni del patrimonio edilizio esistente, incrementando la dispersione degli insediamenti?
Infine, la legge prevede che la percentuale di ampliamento “può essere elevata fino al 40 per cento in caso di utilizzo delle tecniche costruttive di cui alla legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 o che prevedano [chi è il soggetto? Ndr] l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile”. Prescindendo dalla sintassi perfettibile, l’installazione di un pannello solare sembra essere sufficiente per usufruire di un ulteriore bonus volumetrico. Se così fosse, si tratterebbe di un incentivo al risparmio economico, non a quello energetico: chi sarebbe invogliato ad adottare le migliori tecnologie costruttive di bioedilizia, potendo godere dei medesimi benefici di legge con la minima spesa?
Per concludere.
La riqualificazione della città esistente è probabilmente la sfida più impegnativa e urgente per una nazione come l’Italia nella quale una crescita edilizia tanto intensa quanto disordinata è stata favorita per decenni a dispetto della vulnerabilità del territorio e nell’indifferenza (o in spregio) delle sue qualità paesaggistiche. Intervenire sulle parti della città costruite in fretta e male, prive di qualità architettoniche, tecnologiche e di sicurezza e scarsamente vivibili per i cittadini più deboli, è un’ovvia necessità. Anche la riconversione del settore edilizio (non il suo rilancio!) è un obiettivo condivisibile, non soltanto per ragioni meramente economiche, ma anche per chi ha a cuore la promozione della cultura del lavoro, dei diritti, del progresso tecnologico. Ma si tratta di compiti impegnativi che non possono essere affidati ad una miriade di iniziative spontanee, in deroga alle regole, con l’incentivo a fare presto e purchessia. [7]
Non secondariamente, il complesso di piani e politiche urbane necessarie per riqualificare le città dovrebbe essere concepito come un’alternativa all’ulteriore espansione delle aree urbane, impedendo con forza ogni ulteriore edificazione nel territorio agricolo. Nulla di tutto ciò è all’orizzonte in Veneto: il piano territoriale regionale sollecita la realizzazione di consistenti espansioni produttive, ricreative e commerciali lungo l’intera rete autostradale e la legge di cui parliamo incentiva la liberalizzazione degli interventi diffusi, consolidando il caos di case e capannoni e aprendo ulteriori falle nel sistema della pianificazione, già farraginoso di suo. Qualche proprietario ne trarrà vantaggio. Certamente ne approfitteranno i costruttori più intraprendenti. Ma, per l’ennesima volta, la collettività e l’ambiente ne subiranno i danni.
Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it
[1] Intesa, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra Stato, Regioni e gli enti locali, sull'atto concernente misure per il rilancio dell'economia attraverso l'attivita' edilizia. (Repertorio atti n. 21/CU del 1 aprile 2009). Pubblicata sulla G.U. n. 98 del 29 aprile 2009. Per un commento, si veda la postilla di Edoardo Salzano, in http://eddyburg.it/article/articleview/12943/0/356/
[2] Disegno di legge di iniziativa della Giunta regionale in ordine a: “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per promuovere le tecniche di bioedilizia e l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile”. Licenziato il 21 aprile 2009 nella seduta n. 121
[3] Sul punto, cfr. Matteo Ceruti, Provvedimenti legislativi di rilancio del settore edilizio: il disegno di legge della Regione Veneto, http://www.verdiveneto.it/IMG/rtf/ceruti.rtf.
[4] Si veda l’articolo di Luisa Grion e Paola Coppola, pubblicato su La Repubblica del 1 giugno scorso e ripreso in eddyburg.it.
[5] In nessun punto viene impedito di frazionare e utilizzare autonomamente le volumetrie aggiuntive.
[6] Sul punto, vedi M. Baioni, Manhattan sparpagliata, in eddyburg.it.
[7] Su questo punto si veda il sito dell’associazione AUDIS di Venezia (www.audis.it) che da anni si impegna promuovere la diffusione di una cultura della riqualificazione urbana.
Il "piano casa" del governo era una materia di discussione non esauribile nell'ambito politico, e neppure in quello dell'economia, che pure ne era un fine primario. La materia riguarda, infatti, tanto strettamente il campo urbanistico e sociale, ambientale e paesistico da far subito vedere che la discussione al riguardo non può esserne solo politica o economica.
Del "piano" si è finito, invece, col parlare ben poco. Effetto, certo, degli eventi sopraggiunti, che hanno monopolizzato l’attenzione dell’opinione pubblica, dal sisma abruzzese alla campagna elettorale, risoltasi in un dibattito su vita e opere di Berlusconi. Le speranze di chi pensava che i temi urbanistici, sociali, ambientali, paesistici, economici, politici implicati nella questione del "piano casa" costituissero un punto qualificante del confronto elettorale sono andate, così, ben presto deluse. Intanto, è proseguito, però, l’iter normativo e amministrativo del "piano". Da una parte, si dovrebbe giungere entro un certo termine a una ridefinizione dell’intervento legislativo a livello nazionale; dall’altra, le Regioni vanno preparando, per quel termine, gli interventi normativi di loro competenza, di cui quello nazionale finale dovrà fare il debito conto.
A dire il vero, e com’era prevedibile, la normativa in elaborazione presso le Regioni è varia dall’una all’altra di esse. Solo la Toscana ha già fatto la sua legge, che esclude da ogni deroga i centri storici e le case condonate e limita gli ampliamenti al 20% e solo per case uni o bifamiliari, oppure al 35% per chi demolisce e ricostruisce. In Piemonte si ammette, invece, la deroga ai piani regolatori, ma solo per "villette" uni e bifamiliari e per l’edilizia sovvenzionata al di sotto di 1000 metri cubi, sempre che si realizzi un congruo risparmio energetico. Misure di favore si prevedono pure in Veneto per la bioedilizia (fino a un + 40%) e nella Provincia di Bolzano al fine di un alto standard energetico. In Friuli-Venezia Giulia si favorisce chi acquista una casa; in Liguria si pensa a un intervento per ben 200.000 case, ma con criteri di stretta tutela del territorio, privilegiati anche in Umbria. Nelle Marche si mira soprattutto a superare la crisi dell’edilizia. In Lombardia si pensa a incrementi del 20%, raddoppiabili dai Comuni; e al 40% si pensa pure in Val d’Aosta per alberghi e ristoranti. Le misure del 20 (per le "villette") e del 35% (per demolizioni- ricostruzioni) sono previste anche in Campania, così come a cambi di destinazione per capannoni da trasformare in abitazioni. In Puglia escludono le zone di pregio storico- culturale e/o paesistico da ogni intervento, lasciando il 35%, con incentivi, alle demolizioni-ricostruzioni ecosostenibili. In Sicilia si pensa a due interventi per incrementi del 20 o 30% secondo i casi, anche in deroga ai piani regolatori, ma rispettando le norme di sicurezza. A due interventi si pensa pure in Abruzzo, ma fermando tutto, per ora, in vista di regole più severe. Trentino, Lazio, Molise, Basilicata, Calabria e Sardegna sembrano meno avanzate nel preparare le loro misure.
È necessario ora, certamente, che la discussione sul "piano casa", passato il momento elettorale, riprenda e si svolga in tutte le sue implicazioni, e, ormai, sui testi da approvare in sede legislativa. In linea di massima, i testi regionali in preparazione, come si vede dai nostri brevi cenni, si muovono, ovviamente nell’ambito fissato dall’indirizzo generale del governo. Le divaricazioni che si intravvedono sono, tuttavia, notevoli, e pongono varii problemi. Il punto principale è, come notammo per il piano del governo, che non si elaborino sotterfugi per un condono anticipato o per dissimulate sanatorie. Soprattutto, i centri storici e i beni storico-culturali e paesistico-ambientali andrebbero tutelati con norme estremamente precise. La deroga ai piani regolatori è preoccupante, se non ben definita per casi ristrettissimi e ben specificati, e così pure le portate degli ampliamenti oscillanti fin oltre il 35%. Per le demolizioni-ricostruzioni, se io abbatto un vecchio edificio con vani di grande cubatura e lo ristrutturo in vani di cubatura minore, facendone cinque piani al posto di tre, poi con l’aumento del 35% giungerò a sette piani e a un numero molto maggiore di appartamenti rispetto al 35% in più di quelli del fabbricato iniziale? E con quali ripercussioni urbanistiche e sociali. E,infine, che cosa sono le "villette "? E perché non tenere anche presenti le necessità sociali (case per studenti,, giovani sposi e simili)? Sono dubbi e sono problemi. Se, però, le Regioni del Sud, senza nulla sacrificare dei fini economici e sociali del piano, si illustrassero per norme ottime per il territorio e il paesaggio, per i beni storici e culturali, sulla sicurezza, sul piano ecosostenibile ed energetico, sarebbe molto bello. E sarebbe, poi, un modo concreto di rovesciare, su un punto strategico- politico rilevante, l’opinione negativa del paese su di esse. Un’occasione da non perdere.
Che fine ha fatto il piano casa? Annunciato da Berlusconi il 6 marzo, diffuso da Palazzo Chigi il 20 marzo, poi più volte sconfessato e riscritto, il piano casa del governo ancora non c´è. Il piano è stato dunque accantonato?
O invece, dopo il Piano A e il Piano B (discussi su questo giornale il 21 marzo e il 14 aprile), è in corso un Piano C?
Piccolo flashback. Il dl 112 (giugno 2008) conteneva un progetto di social housing con capitali pubblici e privati: una casa per le categorie svantaggiate (famiglie a basso reddito, anziani, immigrati), con fondi immobiliari e finanziamenti pubblici per alloggi in affitto a canone concordato. Smentendo se stesso, in marzo il governo usa la stessa etichetta ("piano casa") per un progetto opposto. Zero capitali pubblici, zero social housing: il decreto si rivolge a chi la casa e i soldi li ha già (o può farseli prestare) e vuole aumentare la volumetria della propria abitazione dal 20% al 35 %, «in deroga alle disposizioni legislative, agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi», nonché in barba al Codice dei Beni Culturali, imponendo alle Soprintendenze il silenzio-assenso e l’asservimento alla conferenza dei servizi. Nella fretta, persino le norme antisismiche vengono drasticamente "semplificate". Per trovare un accordo Stato-regioni, nell’incontro del 31 marzo il governo s’impegna a emanare un decreto-guida entro 10 giorni, dopodiché le regioni avranno 3 mesi per legiferare. Ma il 6 aprile il terremoto d’Abruzzo, aprendo gli occhi anche ai ciechi sui suoi aspetti più irresponsabili, fa saltare quel piano, e ne nascono varie versioni più edulcorate, ma ancora ricche di sanatorie e depenalizzazioni.
E’ così che nasce, in forma residuale, il Piano C. La sua filosofia è presto detta: anche se l’accordo del 31 marzo è saltato, e in nessun caso ha valore di legge, anche se il decreto-guida del governo non c’è, si conviene tacitamente di fare "come se". L’avv. Ghedini dichiara il 22 aprile che «il piano-casa è pronto. Dopo l’approvazione del governo, le regioni avranno tre mesi di tempo per recepirlo». Il piano-casa non è né pronto né approvato, ma le regioni, più realiste del re, si affrettano a legiferare. Prima della classe, la Toscana ha già dall’8 maggio la propria legge; in dirittura d’arrivo Veneto, Sicilia, Lombardia, Campania, Lazio, Umbria, Liguria, Friuli, Piemonte, Marche; segnali di fumo anche da altre regioni. L’accordo politico del 31 marzo viene trattato come se avesse valore di legge, con una sorta di effetto-annuncio per trascinamento che (come nei dispotismi di antico regime) si basa di fatto sulle dichiarazioni di Berlusconi.
Che cosa dicono queste leggi regionali, prive di base normativa in una legge nazionale? La Toscana (L. 24) consente di ampliare la propria casa del 20% o del 35% su semplice presentazione di d.i.a. (dichiarazione di inizio attività), proprio secondo la formula Berlusconi. Il Veneto (ddl 398) incentiva escrescenze fino al 40%, inclusa la «ricomposizione planivolumetrica con forme architettoniche diverse dalle sagome degli edifici originari». La Sicilia (ddl 386), onde «dar seguito alle prime indicazioni del governo nazionale», non trova di meglio che recepire il testo del Veneto. La Lombardia autorizza escrescenze volumetriche fino al 40% in caso di "riqualificazioni". In Liguria, dichiara Burlando, «gli ampliamenti del 20%, finora ammessi solo con qualche vincolo, saranno un diritto di tutti». L’Umbria (ddl 1553) innesta il proprio "piano casa" su un "governo del territorio" che ignora i contenuti prescrittivi del piano paesaggistico previsto dal Codice. Si è dunque ribaltata la sequenza di legge, e senza aspettare il decreto del governo le regioni si danno da fare, con norme più restrittive (Toscana) o più sbracate (Veneto, Sicilia). Il governo, a rimorchio delle regioni, non farà che controfirmare misure già approvate. In questo sgangherato federalismo all’italiana, il governo nazionale abdica al ruolo dello Stato, lo riduce a un effetto-annuncio che inneschi il fuoco di fila delle regioni.
Tanta concordia fra Stato e regioni si basa sul dogma che il piano-casa aiuti a uscire dalla crisi economica. Ma la crisi finanziaria mondiale è stata innescata dalle perdite (oltre quattro trilioni di dollari secondo il Fmi) subite da banche e agenzie di credito americane per l’eccesso di mutui concessi per star dietro agli eccessi dell’offerta edilizia. Questa "bolla immobiliare" ha portato al 9% la disoccupazione Usa, ha fatto calare del 13% la produzione industriale. In Italia, a quel che pare, siamo convinti che dalla crisi scatenata dalla housing bubble americana noi (e solo noi) usciremo con una bolla immobiliare nostrana, una sorta di cura omeopatica, frutto esclusivo del genio italico. Questa irresponsabile fuga in avanti ha fatto già la prima vittima: la tutela del paesaggio. Il ping-pong Stato-regioni comporta un ulteriore rinvio (fino al 2011?) dell’entrata in vigore della nuova disciplina prevista dal Codice fin dal 2008. L’art. 9 della Costituzione, così sembra di capire, viene considerato, a Palermo come a Firenze, un ferrovecchio da riporre in soffitta.
In attesa di un decreto legge del governo con le semplificazioni per l'edilizia abitativa e le norme anti-sisma, che non riesce a trovare un punto di incontro con le richieste dei governatori, il "piano casa bis" comincia a prendere forma per iniziativa delle Regioni stesse. In base all'accordo dello scorso aprile, queste si impegnano a approvare dei provvedimenti per permettere ampliamenti delle cubature fino al 20% o fino al 35% nel caso di demolizione e ricostruzione delle abitazioni mono e bifamiliari entro 90 giorni.
C'è chi sta fissando paletti rigidi per tutelare centri storici e paesaggio e chi sta allargando la possibilità degli interventi. La prima a dotarsi di una legge regionale è stata la Toscana. L'ultima iniziativa è della giunta campana. Il testo del Veneto tornerà in consiglio regionale dopo le elezioni. Quasi pronte Sicilia, Umbria, Piemonte, Lombardia. E ieri da Bari Berlusconi ha detto: "Il decreto vedrà la luce entro il 15 giugno". Ha aggiunto che "nelle regioni governate dal centrodestra, la legge è pronta". E ha ricordato gli effetti previsti sull'economia: "dai 30 ai 100 miliardi di euro, che ora riposano in banca, verranno immessi sul mercato edilizio". Ha parlato anche della crisi: "Tutti concordano che ci sono segnali di una crisi minore, si vede qualche segnale di ripresa".
TOSCANA
La prima a muoversi, esclusi i centri storici. Ha approvato la legge regionale. Con una semplice dichiarazione di inizio attività sarà possibile ampliare fino al 20 % case mono e bifamiliari; fino al 35 % nel caso di demolizioni e ricostruzioni. Niente interventi in deroga nei centri storici e per le case condonate.
VAL D'AOSTA
Alberghi e ristoranti possono ingrandirsi del 40%. La Giunta ha all'esame una bozza, ma prima delle indicazioni del governo un disegno di legge regionale aveva già dato la possibilità ad alberghi e ad alcune categorie di ristoranti di ampliare la superficie fino al 40 per cento in deroga ai piani regolatori dei Comuni.
PIEMONTE
Progetto per le villette che risparmiano energia. La giunta ha approvato una legge che ora passa al consiglio: fino alla fine del 2010 si potrà ampliare o demolire e ricostruire in deroga ai piani regolatori, ma solo rispettando il risparmio energetico, per villette mono-bifamiliare o per edilizia sovvenzionata sotto ai mille metri cubi.
LIGURIA
Coinvolte 200 mila abitazioni ma con tutela del territorio. La regione si è impegnata ad approvare il piano che recepisce le direttive del governo, ma con rigorosi criteri di tutela del territorio. Demolizioni e ricostruzioni saranno legate al recupero del tessuto urbano. All'ampliamento, secondo i tecnici, saranno interessate 200 mila abitazioni.
LOMBARDIA
Ai Comuni la facoltà di raddoppiare l'aumento. La Giunta, mercoledì dovrebbe approvare un progetto che prevede la possibilità di ampliare del 20% le abitazioni (per i Comuni che avevano già previsto questa possibilità si passerebbe al 40). Per i capannoni da abbattere e ricostruire ampliamento fino al 30 %.
EMILIA ROMAGNA
Emendamento con paletti alla legge urbanistica. La regione presenterà un emendamento alla legge 20/2000 sull'urbanistica. Severi i requisiti richiesti per poter utilizzare le nuove regole: in caso di abbattimento, infatti, l'edificio dovrà essere ricostruito con i massimi parametri di efficienza energetica.
VENETO
Più spazi di manovra per gli edifici in bioedilizia
La Giunta ha approvato il testo lo scorso aprile. Si consente di ampliare del 20% la cubatura degli edifici esistenti, residenziali e non. Se l'edificio è fatiscente e anteriore al 1989, chi lo demolisce e ricostruisce può ampliarlo del 30 o addirittura del 40 % se in bioedilizia.
FRIULI VENEZIA GIULIA
Dichiarazione inizio lavori e tempi ridotti per chi acquista. Il disegno di legge allo studio liberalizza ampliamenti fino al 20% di edifici residenziali con la presentazione di dichiarazione inizio lavori. Il Friuli approverà anche un codice di semplificazione e riduzione tempi per chi si appresta ad acquistare casa o appartamento.
UMBRIA
Ambiente e sicurezza prime regole da rispettare. Il disegno di legge umbro, in discussione in commissione, mira ad assicurare sostenibilità ecologica, sicurezza, efficienza e funzionalità degli insediamenti e qualità del paesaggio. Definisce le norme per gli incrementi di superficie degli immobili.
TRENTINO ALTO ADIGE
A Bolzano norme già in vigore con alti standard energetici. La provincia autonoma di Bolzano ha attuato le norme sul piano casa prevedendo gli ampliamenti negli edifici esistenti o concessionati al 2005, ma a patto che si raggiunga un alto standard energetico. La provincia di Trento ha competenza esclusiva in materia.
MARCHE
La giunta pronta al varo contro la crisi dell'edilizia. A giorni la bozza di legge dovrebbe approdare in giunta. Il testo è stato sottoposto ai capigruppo della maggioranza del consiglio regionale e ai portatori d'interesse (costruttori, categorie). Obiettivo: sostegno all'edilizia, colpita dalla crisi con il 60% delle aziende in Cig.
ABRUZZO
Il terremoto ha bloccato tutto ora regole più severe. Il terremoto, chiaramente, ha rallentato l'attività legislativa. Si prevede però il varo di due leggi separate sul piano casa e sulle norme antisismiche che dovranno essere seguite con severità. L'obiettivo è portare L'Aquila da zona a rischio R2 a zona R1.
LAZIO
Un'attenzione particolare ai vincoli paesaggistici. La proposta del piano casa nella Regione Lazio arriverà in giunta intorno alla metà di giugno. La legge , che è ancora al vaglio dei tecnici, dovrebbe prestare particolare attenzione al rispetto dei vincoli paesaggistici.
CAMPANIA
Cambio di destinazione per i capannoni dismessi. Ddl approvato in giunta la scorsa settimana: aumento del 20% dei volumi per villette mono e bifamiliari e del 35% per gli edifici abbattuti e ricostruiti secondo norme più sicure; riqualificazione e cambio di destinazione per capannoni industriali dismessi da destinare ad abitazioni.
PUGLIA
Sarà vietato intervenire in zone di interesse storico. C'è una bozza che dovrebbe escludere dagli interventi le aree di prestigio paesaggistico e storico culturale. Per il premio di cubatura al 35% destinato a demolizioni e ricostruzioni, la Regione ha già approvato una legge che prevede incentivi per trasformazioni ecosostenibili.
SICILIA
Via a due provvedimenti in deroga ai piani regolatori. Ci sono due disegni di legge presentati, entrambi prevedono la possibilità di aumentare le cubature del 20 e del 30 per cento anche in deroga ai piani regolatori e di demolire e ricostruire edifici vecchi rispettando gli standard di sicurezza
Quattro incerte. Basilicata, Calabria, Molise e Sardegna sembrano essere le Regioni più in ritardo riguardo alla presentazione e approvazione delle nuove norme sull'edilizia. Non hanno adottato provvedimenti specifici perché in attesa del varo del decreto legge di semplificazione edilizia.
La Giunta regionale anticipa il piano casa governativo con l’approvazione di un disegno di legge che snellisce le procedure in materia edilizia ed urbanistica ed attua lintesa tra Stato, Regioni ed enti locali del 1 aprile per l’adozione di provvedimenti per rilanciare l’economia con gli interventi edilizi.
Tra le misure pi importanti del testo proposto dall’assessore alle Politiche territoriali, che passa ora all’esame del Consiglio, la possibilità di realizzare interventi edilizi anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti a condizione che si utilizzino tecnologie volte al risparmio energetico (da quantificare tramite la riduzione del 40% del fabbisogno di energia dell’unità edilizia per il solo ampliamento o, per la demolizione e ricostruzione, attraverso la progettazione e l’utilizzo di tecnologie volte a conseguire un significativo miglioramento della pratica corrente in riferimento a qualità ambientale ed energetica dell’edificio), al miglioramento della qualità architettonica, della sicurezza delle strutture e dell’accessibilità degli edifici.
Attenendosi a questi criteri sono consentiti interventi di ampliamento, nel limite massimo del 20 per cento della volumetria esistente, o di demolizione e ricostruzione, con un incremento massimo del 35 per cento della volumetria esistente, anche in deroga agli strumenti urbanistici, per le unità edilizie uni e bi-familiari o comunque di volumetria complessiva non superiore ai mille metri cubi. Anche sugli edifici di edilizia residenziale sovvenzionata a totale proprietà pubblica sono permessi interventi di ampliamento in deroga, nel limite del 20 per cento della volumetria esistente, e interventi di demolizione e ricostruzione con un ampliamento del 35 per cento della volumetria esistente. La norma è applicabile ad edifici fatiscenti, per i quali è più conveniente demolire che conservare. Gli interventi non potranno in ogni caso essere realizzati su edifici o ambiti individuati dai piani regolatori come centri storici o aree esterne d’interesse storico e paesaggistico ad essi collegati, singoli edifici, civili o di architettura rurale, di valore storico-artistico, ambientale o documentario e in aree di in edificabilità assoluta; per le aree in cui la norma è applicabile sono in ogni caso stati fissati limiti inderogabili, quali l’altezza massima, l’indice di permeabilità del suolo e le distanze dai confini, dalle strade e dagli edifici.
Saranno i Comuni, con deliberazione dei rispettivi consigli, a decidere, nel termine di 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, se applicarne in tutto o solo in parte le disposizioni e a indicare altri parametri qualitativi e quantitativi definiti dagli strumenti urbanistici a cui non si potrà comunque derogare. Ai Comuni sarà data inoltre facoltà di favorire, anche tramite premi di cubatura, interventi di riqualificazione edilizia su edifici non a destinazione commerciale, ritenuti incongrui con il contesto circostante, in funzione di una maggiore efficienza energetica, o di individuare edifici produttivi o artigianali che costituiscono elementi deturpanti per il paesaggio per i quali prevedere il trasferimento in aree produttive ecologicamente attrezzate (APEA), da realizzare anche tramite lutilizzo di strumenti perequativi.
La presidente della Regione ritiene che il ddl coniughi la sfida per la semplificazione e quella per l'efficienza e il risparmio energetico, due obiettivi chiave della sua Giunta, e possa da una parte portare benefici all'ambiente e alla salute dei cittadini, dall'altra contribuire a rilanciare l'economia creando posti di lavoro e incrementando il Pil regionale. (25 maggio 2009)
Di seguito il testo del corsivo: "Subito dopo il terremoto a L’Aquila, mentre le tv riproponevano immagini drammatiche, si è detto che era giunto il momento di voltare pagina rispetto alla speculazione edilizia e si è sventolato il vessillo del rispetto delle norme antisismiche. Tutti concordi. Oggi quelle esigenze sembrano già mitigate e confuse da una certa retorica e dall’eterna politica degli annunci. Ci aspetta invece un lavoro non facile: dobbiamo dare fondamento ad una ricostruzione materiale ed etica, ripensando le nostre città in termini di vivibilità, sicurezza e qualità urbana. Non è un obiettivo irraggiungibile: si può fare se siamo coerenti e facciamo scelte coraggiose e impegnative. Con questa consapevolezza le Regioni sono intervenute in positivo sul Piano Casa, inizialmente concepito ´in deroga´ alla legislazione nazionale e regionale, e contribuiranno con le loro leggi regionali a definire percorsi di tutela della qualità urbana, senza dannosi automatismi sul cambio di destinazione d’uso, tutelando centri storici, beni paesaggistici e sicurezza da un uso incontrollato dell’aumento delle cubature. Di fatto si è cambiato nel profondo l’impostazione iniziale del provvedimento. Ora lavoriamo ad un testo di provvedimenti per la semplificazione legati a quel piano. Governo e Regioni sono oggi però di fronte ad un bivio. Da un lato una strada che modifica e migliora qualcosa ma lascia inalterato il quadro della ´disattenzione edilizia´ che caratterizza tante parti d’Italia. Dall’altro un percorso più ambizioso per promuovere la cultura della prevenzione antisismica, in un paese dal delicato equilibrio territoriale. Penso sia una occasione da cogliere. Prima di tutto dando vita ad un Piano pubblico per adeguare scuole, ospedali, edifici pubblici. Poi promuovendo sgravi fiscali (le Regioni hanno proposto il 55%) per tutti quei privati che intervengono sulla propria abitazione in chiave antisismica, magari partendo dalle zone ad alto rischio. Dando così una mano contro la crisi economica, favorendo l’occupazione e l’edilizia. Insomma, dobbiamo partire adesso per non fermarci più. Non possiamo attendere il prossimo dramma ma promuovere oggi la prevenzione. Dalle Regioni viene dunque uno stimolo positivo: nessun blocco e nessun ´no´ a ciò che serve ai cittadini e al paese, un ´sì´ convinto alla prevenzione e alla qualità dei nostri territori, una spinta ad iniziative contro la crisi produttiva e per la ripresa dell’edilizia".
Alcune domande al presidente Errani.
(1) Se il legislatore nazionale approveràù una norma condivisa ccon le regioni ispirata ai principi che Errani richiama essa avrà anche la forza di cancellare le orribili leggi che alcune regioni avranno nel frattempo emanato? Si veda ad esempio la pessima legge della regione Veneto.
(2) Errani continua a parlare di “casa” riferendosi all’edilizia. Si vedrà finalmente una pressione delle regioni perché si ritorni a un vero programma per la casa, orientato non a rilanciare l’attività edilizia, ma a mettere a disposizione abitazioni a tutti i segmenti della domanda che sono da anni in sofferenza: in particolare, case in affitto a prezzi accessibili ai precari, agli immigrati, alle giovani coppie, agli anziani, ma che restino tali non per cinque o dieci anni e poi vengano di uovo immesse sul “libero mercato”, ma appartenenti al patrimonio pubblico.
(3) Errani ricorda, quando parla di “semplificazioni”, che oogni passaggio della cosiddetta “burocrazia” è il realtà la garanzia di un certo diritto o interesse, e che prima di abolirlo per “semplificare” occorre verificare se è giusto eliminare quella garanzia, o se occorra sostituirla con un’altra? Per esempio, la procedura delle "osservazioni” agli strumenti urbanistici è la garanzia di uno spazio per l’interesse dei cittadini in quanto tali.