Piano casa per le aree degradate: ondata di ritocchi dalle Regioni
Maria Chiara Voci
In attesa della nuova raffica di leggi con cui le Regioni dovrebbero recepire le novità introdotte dal decreto sviluppo sul «piano casa per le aree degradate» - per il quale da oggi i proprietari possono far domanda, ammesso che siano chiari a tutti i contenuti del Dl 70 -, non si arresta nei territori locali l'ondata di riforma delle vecchie leggi, quelle che scaturiscono dall'accordo Stato-Regioni del 1° aprile 2009 e che consentono ampliamenti o sostituzioni di edifici, in deroga ai piani regolatori e con premi volumetrici.
I ritocchi derivano in parte da promesse di campagna elettorale: la revisione del piano casa è stata per il centrodestra una delle teste d'ariete usate per convincere gli elettori. Quasi ovunque è stata inoltre forte la necessità di dare un senso, tardivo, a un provvedimento che è andato spesso “deserto” (pochissime le domande presentate dai cittadini, con le sole eccezioni di Veneto, Sardegna e Valle d'Aosta). Le modifiche però hanno come effetto quello di pasticciare testi normativi che, già per loro natura, contenevano e contengono diversi punti controversi.
Le uniche Regioni che, esaurita la prima legge, hanno deciso di non rinnovare sono state Lombardia ed Emilia Romagna. Qui i termini per presentare domanda di ampliamento o sostituzione sono da tempo scaduti senza proroghe o modifiche. Diversa la scelta degli altri governatori.
In alcune Regioni, come la Calabria, il Piemonte, l'Umbria e la Campania, la revisione del piano casa, più che a piccole modifiche, ha portato alla riscrittura di intere porzioni di legge. A seconda dei casi, si è estesa la possibilità di intervenire anche sugli immobili industriali e produttivi (i grandi esclusi nelle prime versioni legislative), è arrivato il semaforo verde per agire in zone agricole o su porzioni dei centri storici, sono aumentate le percentuali dei bonus di cubatura o sono decaduti alcuni paletti, che limitavano la possibilità di mettere mano al patrimonio edilizio esistente.
Di grande sostanza anche la riforma del Lazio, dove è arrivato il via libera agli interventi in zona agricola, su edifici oltre i mille metri cubi, sulle ville a schiera e nei centri storici, purché ci sia il via libera della Soprintendenza.
L'amministrazione Polverini, però, è già dovuta intervenire con una rettifica quando la nuova legge non era ancora pubblicata in Bur (è sul supplemento n. 160 al Bollettino 30 del 27 agosto) e ha inserito nell'assestamento di bilancio la possibilità di autorizzare da subito i piccoli interventi di ampliamento degli edifici, in attesa che i Comuni si esprimano sul resto della legge (per delimitarne gli ambiti di applicazione) entro il 31 gennaio del 2012.
Prima dell'estate è arrivato l'atteso restyling della disciplina del Veneto: forte di uno dei rari casi di successo della norma, con oltre 23mila domande depositate, la Giunta Zaia ha prorogato la legge 14/2009 fino al 30 novembre 2013, ha aperto alla possibilità di intervenire su immobili inseriti nei centri storici e ha inserito un bonus aggiuntivo del 15% (in aggiunta al 20% di base + 10% per utilizzo di fonti rinnovabili) per chi, nell'ampliare, consegue la certificazione in classe B.
Già modificate da tempo le norme della Liguria (che pur è rimasta restrittiva) e delle Marche. Altre Regioni, come lo stesso Lazio, ma anche Puglia, Toscana, Valle d'Aosta e Molise hanno agganciato ai provvedimenti di revisione del vecchio piano casa, tutti approvati a ridosso dell'estate, il recepimento delle previsioni del nuovo piano casa del Dl sviluppo, per il recupero delle aree degradate.
Via libera al cambio di destinazione d'uso
Guido A. Inzaghi
L'ultima versione del piano casa punta sulla «riqualificazione incentivata delle aree urbane». La legge 106/2011 di conversione del Dl Sviluppo(70/2011) consente infatti la realizzazione di volumetrie aggiuntive in deroga al piano regolatore, il mutamento delle destinazioni d'uso in atto, la demolizione e la ricostruzione degli edifici dismessi anche con modifica della sagoma.
Le disposizioni trovano tendenzialmente applicazione diretta qualora le Regioni non provvedano ad assumere le norme che il decreto riserva alla loro competenza.
L'articolo 5, comma 9, del decreto sviluppo assegna così alle regioni il termine fisso di 60 giorni dalla sua conversione (vale a dire fino a ieri, domenica 11 settembre) per approvare leggi che agevolino la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti, nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione o da rilocalizzare. Il tutto attraverso:
a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale;
b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse;
c) l'ammissibilità delle modifiche di destinazione d'uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari;
d) le modifiche della sagoma necessarie per l'armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.
Resta fermo che tutti gli interventi non possono riferirsi ad edifici abusivi (salvo che oggetto di sanatoria) o siti nei centri storici o in aree a inedificabilità assoluta.
A partire di fatto da oggi - lunedì 12 settembre - e fino all'entrata in vigore della normativa regionale, agli interventi descritti in precedenza si applica l'articolo 14 del Dpr 380/2001, anche per il mutamento delle destinazioni d'uso. Quindi la realizzazione degli interventi di riqualificazione potrà avvenire in deroga alla strumentazione urbanistica ed edilizia locale (ma non alla leggi statali e regionali di settore), con un meccanismo però tutt'altro che spedito e che prevede il passaggio in consiglio comunale per raccogliere l'assenso politico, e dunque discrezionale, al superamento della disciplina del Prg e del regolamento edilizio. Il consiglio comunale dovrà determinare anche la percentuale di ampliamento consentita.
Resta inoltre fermo il rispetto degli standard urbanistici, delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di quelle relative alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
Dal prossimo 10 novembre, gli interventi di ampliamento - sempre nei limiti finora individuati - potranno essere realizzati anche senza avvalersi del permesso di costruire in deroga e, quindi, anche attraverso Dia o Scia a seconda dei casi e della legge regionale applicabile. Fino all'approvazione delle leggi regionali, la volumetria aggiuntiva è realizzata in misura non superiore complessivamente al 20% del volume dell'edificio se destinato a uso residenziale, o al 10% della superficie coperta per gli altri usi.
Nel disperato tentativo di sfilarsi dal baratro morale che si era aperto sotto la sua ferrea regia, durante la rabbiosa conferenza stampa di commiato Renata Polverini aveva tentato di accreditare la favola di una giunta regionale efficiente e virtuosa danneggiata da consiglieri regionali crapuloni e corrotti. A 48 ore di distanza questa linea difensiva è diventata la disfatta di Caporetto.
Il governo ha infatti impugnato di fronte alla Corte costituzionale la riscrittura del «Piano casa» regionale. E non è, per sventura della ex presidente, la prima volta. Il 24 ottobre dello scorso anno un precedente articolato era stato impugnato da un governo «amico». Era stato infatti l'ex ministro Galan a esprimere giudizi feroci sulla legge impugnandola e ottenendo la sua cancellazione.
La giunta regionale avrebbe dunque potuto fare tesoro dell'accaduto e invece nulla: ha licenziato un testo che era ancora più confuso e più derogatorio rispetto al precedente.
Sarà stato l'effetto delle feste o delle ostriche, ma la legge si beffava delle norme di tutela del paesaggio. Lo staff tecnico del ministro per i Beni culturali Ornaghi aveva censurato la legge perché ad esempio consentiva di costruire infrastrutture sciistiche anche in zone vincolate o di realizzare lungo i 360 chilometri di costa laziale tutte le 60 richieste di realizzazione di nuovi porti o di ampliamento di quelli esistenti, porti canale, turistici e marine presentate in questi ultimi anni. Consentiva cioè di realizzare un porto ogni sei chilometri di costa: uno scempio inaudito che non teneva conto che il Codice dei Beni culturali vincola le aree costiere italiane.
La regione Lazio attraverso il piano casa affidava a se stessa il potere di deroga: il federalismo fai da te, come l'abnorme rigonfiamento delle spese di rappresentanza votate a ripetizione. Ecco dunque la rotta di caporetto: non è vero che esisteva una giunta virtuosa e un consiglio di reprobi. Se i consiglieri regionali sperperavano il denaro pubblico nel modo che abbiamo conosciuto, i membri della giunta - pur potendo disporre di eccellenti giuristi in house - lo gettavano al vento per pagare profumatamente consulenti giuridici che, a giudicare dai risultati, forse non erano così brillanti. Si pensi che la precedente legge del 2011 era talmente confusa che la giunta regionale ha dovuto approvare dopo pochi mesi una «circolare esplicativa» di ben 20 pagine!
Ma al di là delle questioni istituzionali, i piani casa regionali dimostrano ancora una volta la loro incapacità ad affrontare le cause dalla crisi economica. Prendiamo i citati 60 porti su cui si voleva basare il rilancio degli investimenti. Era stato denunciato che non era attraverso la cementificazione delle coste che si poteva sperare in un futuro migliore, ma l'arroganza del potere ha voluto approvare lo stesso la norma. Il 25 settembre scorso, il Sole 24 Ore pubblica la denuncia effettuata da Assomarinas, e cioè l'associazione che raggruppa i porti italiani della nautica, che afferma che a causa delle crisi economica il quadro di riferimento è completamente cambiato. In una lettera al governo e ai presidenti della Regioni il presidente di Assomarinas dice che «la crisi del settore della nautica da diporto sta assumendo carattere strutturale con la tendenza a protrarsi per almeno 15 anni».
Bene ha fatto dunque il ministro Ornaghi ad impugnare una legge inutile e devastante: insieme alla Polverini e al consiglio regionale bisogna mandare in soffitta anche il piano casa regionale perchè era basato su una filosofia rozza e
Nei corridoi ministeriali, il piano casa della Regione Lazio presentato un anno fa, milioni di metri cubi di cemento, cavallo di battaglia di Renata Polverini, era soprannominato “discesa”. Notavano, gli ispettori del ministero dell’ambiente, una certa predilezione per le nuove piste da sci del Terminillo, per l’ampliamento esponenziale delle metrature del nuovo aeroporto e, più in generale, un’attitudine alla cementificazione selvaggia e alla speculazione edilizia in una prospettiva in cui l’emergenza abitativa risiedeva all’ultimo posto delle priorità. Con la rissa di ieri tra il ministro Ornaghi (già duro sull’ipotesi a dicembre) e la Regione (“inesattezze”) e dopo due distinti pareri del governo sull’incostituzionalità del piano casa legata “alla pianificazione paesaggistica” datati 13 febbraio e 30 aprile 2012 in cui si bocciava duramente il progetto parlando di “escamotage terminologici”, “vizi di fondo legati alla condonabilità degli abusi”, “formulazioni ambigue e disordinate”, si è capito perché. Tre giorni fa, per mano di Luciano Ciocchetti, assessore all’urbanistica, dell’Udc, la giunta ha presentato nottetempo un maxiemendamento al piano capace di provocare la rivolta dei Radicali e l’uscita di Verdi, Pd e Idv e dall’aula. Emendamento che, diceva Ciocchetti, superava i conflitti relativi all’epoca Galan (l’ex titolare del dicastero, che bocciando il piano casa originario aveva minacciato il riscorso alla Corte Costituzionale) e abbracciava in pieno, dopo opportuno confronto, il gradimento di Ornaghi. Tutto falso secondo l’ex rettore della Cattolica, indignato al pari del ministro del turismo Gnudi, furibondi contro il golpe alla amatriciana di Ciocchetti. Un caos che nel pomeriggio dà vita a una quadriglia di dichiarazioni che portano in prima pagina una partita davanti alla quale Polverini e i suoi, in vista delle elezioni, non possono permettersi arretramenti.
Il governo tuona contro il “falso ideologico”, la Regione parla di inesattezze negando (per la prima volta, un inedito) che ci sia bisogno di un parere del Ministero per procedere e gli ultrà della curva, a iniziare da Teodoro Buontempo, azionano la grancassa delle retorica demagogica utile allo spottone: “Con il nuovo piano casa tutelati i diritti di 1.600 famiglie”. Ora con il caso esploso e non più tenuto nei binari della dialettica civile, si attendono altri interventi, a cominciare da quello della Corte dei Conti. Chi ha incontrato Renata Polverini, ieri, la descriveva terrea. Sul Piano, milioni di euro di investimenti, appalti, indotto, centri commerciali (che c’entrano con il Piano casa?) aveva giocato carte per lei decisive. Non si aspettava sbarramenti. Sono arrivati sulla tutela del paesaggio. Il Ministero, salvata Villa Adriana, aveva già mostrato scarsa inclinazione alla sua devastazione. Con buona pace dei tanti palazzinari che a Roma e sul litorale da decenni, mettono le loro mani avide. Verdi e i Radicali si rivolgeranno al tribunale. Non sono gli unici a ritenere insopportabile che gli enti religiosi abbiano ottenuto l’ennesimo privilegio: la possibilità di edificare nei dintorni di chiese e luoghi di culto anche uffici, case e centri commerciali, in deroga al piano regolatore. Concessioni che secondo Radicali e Verdi “toglieranno terreno utile per la costruzione di scuole, asili e presidi sanitari”. Amen.
Migliaia di sottotetti trasformati in appartamenti da un giorno all’altro. In tutta la Lombardia. E’ quello che potrebbe accadere se il Consiglio regionale approverà il nuovo piano casa della giunta guidata da Roberto Formigoni. Per la gioia di quegli imprenditori che hanno realizzato immobili già predisposti per lo sperato regalo. E con un’insidia, nascosta tra le righe della norma: il rischio di un condono mascherato e gratuito per i sottotetti resi abitabili in modo illegale. Come nel caso di diversi condomini da poco costruiti a Bormio, dove la procura di Sondrio ha predisposto ispezioni che hanno riscontrato presunti abusi. E dove, nel settore immobiliare, fa affari anche la General project & contract di Giorgio Pozzi, consigliere regionale del Pdl e presidente della commissione Territorio del Pirellone. Dove proprio in questi giorni è in discussione la nuova legge regionale.
“Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia”. Si chiama così il progetto di legge proposto dalla giunta lombarda. Una sorta di piano casa bis, di cui ha tracciato le linee guida il decreto sviluppo approvato dal governo Berlusconi lo scorso maggio. Nella versione lombarda si parla di interventi di recupero edilizio, incrementi volumetrici, riqualificazione energetica ed edilizia residenziale sociale. Fino all’articolo 8. Che, attraverso la modifica di una legge regionale già in vigore (la numero 12 del 2005), prevede il recupero a fini abitativi di tutti i sottotetti realizzati entro il 31 dicembre 2010. Di fatto si rendono abitabili dall’oggi al domani tutti quei solai e mansarde che, in base alla precedente normativa, avrebbero potuto essere trasformati in alloggi solo dopo cinque anni dalla costruzione dell’edificio.
Per Legambiente Lombardia la legge consentirà “una nuova ondata di manomissioni di sottotetti trasformati in piani abitabili”. Ma c’è un pericolo in più: “La possibilità di condono gratuito degli abusi realizzati negli ultimi cinque anni”. I furbi che dal 2005 al 2010 hanno già reso abitabili i sottotetti senza rispettare la legge vedrebbero regolarizzata la loro posizione. E tutto questo grazie a un colpo di spugna che rischia addirittura di cancellare le eventuali conseguenze penali degli abusi commessi.
E, di abusi, negli ultimi anni ne sono stati fatti. Questo almeno il sospetto della procura di Sondrio, che ha già eseguito alcune ispezioni in Alta Valtellina con l’ausilio del Corpo Forestale. Le prime verifiche, secondo quanto riportato dal quotidiano La Provincia di Sondrio, hanno evidenziato abusi in quei sottotetti che dovevano essere semplici solai, ma sono stati venduti come locali abitabili di alloggi su due piani, o addirittura come appartamenti a sé stanti. Nel mirino degli inquirenti ci sono parecchie centinaia di abitazioni. Un business illecito per le imprese a cui potrebbero avere contributo amministratori, politici e notai compiacenti.
A Bormio, e nelle vicine Valdisotto e Valfurva, l’edilizia è stata rilanciata negli ultimi anni grazie ai mondiali di sci del 2005. Schiere di condomini sorti tra le Alpi, là dove prima c’erano prati. Nuovi appartamenti eleganti. E costosi, vista la vicinanza con gli impianti di risalita e con le terme. Come quelli del complesso “il Forte”, realizzato dalla General project & contract, società di Mariano Comense, il cui 95% è in mano a Giorgio Pozzi, che a Bormio è stato pure capo cordata nell’operazione Sottovento Luxury Hospitality, l’hotel di lusso inaugurato nell’aprile 2011 alla presenza, tra gli altri, dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Daniela Santanchè.
Il nome di Pozzi è legato anche alla società Il Pellicano, fallita e poi finita nelle carte dell’inchiesta sulle bonifiche del quartiere milanese Montecity-Santa Giulia, di cui condivideva le quote con Massimo Ponzoni, ex assessore regionale, Massimo Buscemi, attuale titolare della Cultura nella giunta Formigoni, e Rosanna Gariboldi, moglie del deputato del Pdl Giancarlo Abelli. Grazie a diverse società che operano in più parti del territorio lombardo, gli interessi di Pozzi vanno al di là dell’Alta Valtellina. E ora potrebbero trarre vantaggio dal nuovo piano casa regionale, al momento in discussione proprio nella commissione Territorio da lui presieduta. Con il sospetto che quello tentato dalla maggioranza sia un colpo di spugna.
Per l’assessore regionale a Territorio e Urbanistica, il leghista Daniele Belotti, sostenere che la norma ha lo scopo di rendere vana l’inchiesta della procura di Sondrio equivale a scrivere “una fantasiosa sceneggiatura da film giallo”. Nessun condono nascosto, assicura Belotti. Ma ora il Pd vuole vederci chiaro e giovedi scorso in commissione ha richiesto a Pozzi il parere scritto dell’avvocatura del Consiglio regionale: “L’articolo 8 sui sottotetti – spiega il consigliere Franco Mirabelli – nato come norma straordinaria per sanare alcuni spazi inutilizzati degli edifici, così come formulato rappresenta una vera e propria sanatoria permanente”.
Ora è ufficiale. Dopo quanto anticipato da Repubblica, che già un mese fa aveva rivelato le obiezioni di costituzionalità mosse dall’ufficio legislativo dei Beni culturali al Piano Casa del Lazio e l’intenzione di Giancarlo Galan di chiederne l’impugnazione, è lo stesso inquilino del Collegio Romano a confermarlo dalle colonne del Corriere della Sera. «Non sarò certo io il ministro che permetterà abusi sul paesaggio senza controlli» ha affermato, minacciando le dimissioni.
Ma a questo punto i tempi sono strettissimi. Se infatti il consiglio dei ministri non approverà la proposta entro dopodomani, il Piano Casa del Lazio non potrà più essere impugnato per scadenza dei termini. Ecco perché, ragionano nel Pdl, Galan ha deciso di forzare con quell’uscita sui giornali. Circostanza che, al contrario, spiega come mai finora non sia stata calendarizzata la discussione a Palazzo Chigi: rischia di aprire più d’una crepa (fra favorevoli e contrari alla Polverini) in seno a una maggioranza già spappolata. Nel frattempo le opposizioni attaccano. «Il centrodestra ha varato un piano devastante, che noi cercheremo di fermare» annuncia il commissario del Pd Chiti. Rincara il senatore Zanda: «Le osservazioni di Galan rendono chiaro come la Polverini sia stata sorpresa con le mani nella marmellata».
In subbuglio la Pisana. «Dopo l’appello del ministro, il governo non può più far finta di niente» avverte il capogruppo di Sel Nieri. «Il provvedimento è incostituzionale perché viola leggi urbanistiche e piani regolatori dando il via a una deregulation che ferisce profondamente il territorio regionale» gli fa eco il pd Montino. E mentre Foschi parla di «scempio ambientale» invitando la Polverini a ripensarci, il verde Bonelli plaude all’iniziativa di Galan. Ma il Pdl fa quadrato, bollando come «strumentali» le polemiche. «Il Piano Casa dovrebbe essere preso a esempio, non criticato» taglia corto il segretario romano Sammarco. «È un fiore all’occhiello, voluto fortemente da Berlusconi», incalza il vice del Lazio Pallone. Con il sottosegretario Giro che tenta di minimizzare: «È prerogativa del ministero verificare i requisiti di costituzionalità di una legge regionale. Su quella del Lazio è in corso un confronto sereno e costruttivo: una procedura assolutamente normale».
Premessa: il Piano Casa della Regione Lazio fa schifo. E’ probabilmente il peggiore dei consimili provvedimenti finora approvati.
E quindi benissimo ha fatto Galan a chiederne l’impugnazione. Meno bene quando ha specificato che la sua non è contrarietà a priori sui piani casa che, anzi, in Veneto, nel suo ruolo di presidente della Regione, ha sostenuto con ogni mezzo.
Come i nostri lettori sanno bene, eddyburg ha costantemente denunciato l’incredibile massacro del territorio perpetrato dalla presidenza Galan. Ma noi di eddyburg siamo inguaribilmente ottimisti e ci auguriamo seriamente che col cambio di giacchetta il ministro abbia operato anche un’insperata capriola ideologica e sposato, doverosamente, la causa della tutela del paesaggio, così come gli impone la Costituzione sulla quale ha giurato.
Contiamo quindi che, non solo mantenga la promessa di impugnazione in Consiglio dei Ministri nonostante i tempi quasi proibitivi, ma che perseveri coerentemente nella lotta contro ogni tipo di condono edilizio, mascherato o palese, regionale o nazionale: abbiamo il sospetto che la sua tempra di difensore del paesaggio sarà messa a dura prova fin dai prossimi giorni…(m.p.g.)
Prima scintilla: Cortina, dove Luca Zaia prese il 77,8%. Seconda: Asiago, dove arrivò al 68,6. E poi Zoldo Alto e Colle Santa Lucia e Borca e Pieve di Cadore... C'è una rivolta di cittadini e paesi e contrade «amiche», sulle montagne del Veneto, contro il Piano Casa regionale. Reo di tradire il primo dei giuramenti autonomisti: «Padroni a casa nostra». Falso, accusano i ribelli: al posto di Roma, decide tutto Venezia. Spalancando le porte agli speculatori, ai palazzinari e ai capitali sporchi.
Tutto avrebbe potuto immaginare, il governatore del Carroccio, tranne che l'insurrezione scoppiasse ai piedi della Tofane, dove l'intero centrosinistra raccolse alle regionali di un anno fa un umiliante 14,6%. E così sull'Altopiano, dove non arrivò neppure al 20%. Eppure i sindaci delle due celebri località turistiche, l'ampezzano Andrea Franceschi e l'asiaghese Andrea Gios, eletti alla guida di liste civiche che guardano a destra, non hanno avuto dubbi nel fare asse e mettersi alla guida della ribellione.
Per capire, occorre partire dalla foto urbanistica. Cortina ha poco più di 6.000 abitanti e circa l'80% della proprietà immobiliare è in mano a non residenti. Asiago ha mezzo migliaio di anime in più e insieme con Roana e Gallio, gli altri due principali poli di attrazione dell'Altopiano dei Sette Comuni, storicamente affratellati dalla comunità cimbra (Siben Alte Komeun) condivide la stessa sorte: quasi tre quarti delle case sono intestati a «foresti». Una risorsa, per chi vive di turismo, e nessuno è così sciocco da lagnarsene. Ma, insieme, anche un problema. Sempre più grave.
Tanto più se in passato la gestione di questa «fioritura» di seconde case è stata un po' troppo «spontanea» col risultato che, denuncia Gios, «esistono zone intere caratterizzate dalla presenza di edifici unifamiliari, ville di dimensioni rilevanti con ampi giardini, costruite negli anni 70 come case per vacanza in lottizzazioni prive di marciapiede con strade strettissime e senza adeguati sottoservizi».
Questo è il contesto. Non dissimile, per certi aspetti, a un'altra ferita del territorio. Quella delle aree industriali. Anch'esse lasciate crescere a dismisura senza una visione d'insieme, come se si trattasse solo di accompagnare senza intralci la crescita dei capannoni. Con la conseguenza che il Veneto si ritrova con 10 aree industriali a Comune che diventano addirittura 14 in provincia di Treviso. Dove Crocetta del Montello, come accusa l'urbanista Tiziano Tempesta, è arrivata ad avere 5.714 abitanti e 28 aree industriali. Una ogni 204 residenti. Da pazzi.
In un territorio così, il più urbanizzato d'Italia dopo la Lombardia anche se è per quasi il 44% montagnoso o collinare, ha senso cercare la ripresa nel cemento? Nonostante migliaia di capannoni vuoti (38 milioni di metri cubi tirati su soltanto nel 2002 grazie alla Tremonti bis) e nonostante siano state costruite in questi anni secondo i calcoli di Tempesta «abitazioni sufficienti a dare alloggio a circa 788.000 persone» e cioè il triplo delle 243.000 in più registrate all'anagrafe, in buona parte straniere?
Bene, in questo contesto il nuovo piano casa del Veneto, per forzare la mano ai sindaci rompiscatole, contiene per la cosiddetta «prima casa» poche righe micidiali. Dove si spiega che i proprietari di un immobile hanno diritto ad aumentare la cubatura purché «si obblighino a stabilire la residenza e a mantenerla almeno per i ventiquattro mesi successivi al rilascio del certificato di agibilità».
«Questo vuol dire — accusa il sindaco di Asiago — che qualsiasi persona, di qualsiasi parte d'Italia, può comprare una casa ad Asiago, richiedere e ottenere l'ampliamento fino al 35% in più rispetto al volume esistente o addirittura fino al 50% in caso di demolizione e ricomposizione volumetrica, solo impegnandosi a trasferire per due anni la residenza. E se poi non si trasferisce davvero? Cosa facciamo: avviamo una causa giudiziaria fino in Cassazione per demolire? Ma ci si rende conto dell'impatto di questi interventi? Così ogni turista che ha una seconda casa è spinto a trasformarsi in un immobiliarista d'assalto». Per non dire, accusano i sindaci, dei rischi di una infiltrazione di capitali sporchi: cosa possono desiderare di più i mafiosi, i camorristi, gli 'ndranghetisti, se non un bell'investimento ad Asiago o a Cortina? Basta comprare un rudere, trovare un prestanome che si impegni a portarci la residenza...
Laura Puppato, già sindaco di Montebelluna e capogruppo in Consiglio regionale del Pd, dice di non essere d'accordo. E spiega che sì, il suo partito a dispetto di tanti ambientalisti ha votato a favore del piano casa delle destre «perché sui centri storici e altri punti avevamo ottenuto dei cambiamenti radicali al testo e volevamo rispondere a chi ci accusava di ostruzionismo. È chiaro che quando voti una legge pensi alle persone perbene: sulla prima casa nel 99% dei casi le persone non vanno ad artefare la propria situazione anagrafica. I Comuni possono fare regolamenti più rigidi come ha fatto Salzano. Possono mandare i vigili a controllare se uno ci vive davvero in quella casa...»
«Eh no, abbiamo letto e riletto tutto con gli avvocati virgola per virgola e manca completamente la sanzione per chi fa il furbo — risponde Andrea Franceschi —. Infatti il proprietario di una baracca per le api, al quale avevamo negato la sua trasformazione in una villa, si è subito fatto sotto. E così i padroni di una casa, anche loro stoppati in passato, che il giorno stesso hanno chiesto di aggiungere un piano per un totale di trecento metri cubi. In entrambi i casi la proprietà, e lì si vede la "buonafede" sulla prima casa, era intestata a società... Mettiamo che la spuntino: una volta che il danno è fatto cosa facciamo? I Comuni sono completamente tagliati fuori dalle scelte regionali. Che Cortina debba avere le stesse regole di Marghera fa venire i brividi».
La cosa più grave, rincara il sindaco di Asiago, «consiste nel fatto che il testo di legge non limita l'incremento delle unità abitative (appartamenti) ricavabili con l'applicazione del piano casa e, dunque, l'edificio ampliato (la vecchia villetta con giardino) potrebbe essere suddiviso in un maggiore numero di unità abitative: dall'originaria villetta turistica i più "furbi" potrebbero ricavare 8/10 nuovi appartamenti da porre sul mercato delle "seconde case" in spregio alle norme urbanistiche locali e alle limitazioni che il nostro Comune ha inserito a salvaguardia del territorio e dei fragilissimi equilibri urbanistici e sociali del territorio».
«Ma mica tutti possono portarsi la residenza!», dicono i sostenitori del «piano». «Dettagli», rispondono a Cortina. «Sui fienili c'erano regole che imponevano la residenza per 20 anni. Ma la scappatoia i furbi la trovano sempre».
Ed è lì che sindaci girano il coltello nella ferita: «Non vogliamo che scelte così importanti, con un così forte impatto sul territorio siano prese a Venezia. Rivendichiamo il diritto e il dovere di decidere le nostre sorti». E citano una dichiarazione di Zaia un attimo prima d'essere eletto: «L'urbanistica la deve fare l'ente locale. Se qualcuno pensa di mettere in piedi un neocentralismo regionale, allora andiamo tutti a casa». «Pienamente d'accordo — ironizza Andrea Franceschi —. Ma lo Zaia di oggi è d'accordo con lo Zaia di ieri?»
Gli altri litigano, e lui fa promesse. Peccato che siano sempre le stesse. Evidentemente non funzionano. L’altro ieri fisco «friendly», ieri l’ennesimo piano casa. Dopo il flop dell’ultima proposta, che finora ha registrato pochissimi interventi su gran parte del territorio nazionale, a parte il Veneto. Così Giulio Tremonti procede spedito sul suo sentiero di grande «timoniere» della coalizione, ufficialmente fedele al premier, ma anche a lui pericolosamente alternativo.
L’ultimo annuncio seduce la platea dei geometri, che plaudono al nuovo cemento promesso. Il ministro annuncia un decreto a inizio maggio, che dovrebbe contenere le semplificazioni per l’edilizia, con chiarimenti sulla Scia (segnalazione certificata di inizio attività), i distretti turistici costieri, già annunciati al momento del varo del pnr (piano nazionale di riforme) e opere pubbliche. Sulle abitazioni i numeri ricalcano quelli già in vigore: possibilità di ampliamento del 20% e fino al 30% in caso di demolizione e ricostruzione. Annunciando la solita falsa rivoluzione, Tremonti va all’affondo contro i «nemici del cambiamento»: le Regioni, la Costituzione, i vincoli, e naturalmente i Verdi, gli «oppositori » per antonomasia.
La verità è esattamente contraria agli slogan triti del ministro. Quando, nel marzo del 2009, si arrivò ad un’intesa sul piano casa con le Regioni, tutti i governatori, chi prima chi dopo, vararono la loro legge. Dunque, nessun veto dalle amministrazioni. Quello che non rispettò l’impegno preso allora fu proprio il governo, che avrebbe dovuto varare un decreto di semplificazione mai visto. Tante altre cose si sono stratificate negli anni, mentre tutti promettevano e nessuno faceva. «Aspettiamo dalla primavera scorsa i chiarimenti sulla Scia – dichiara Anna Marson, assessore al territorio della Regione Toscana - e tanto per dirla chiara, aspettiamo da decenni la nuova legge urbanistica nazionale, che è addirittura del ‘42». Anche la Toscana, come le altre Regioni, ha varato il suo piano, e lo ha confermato con il cambio di amministrazione con aggiustamenti richiesti da Comuni e costruttori. Naturalmente qualsiasi normativa deve rispettare gli strumenti urbanistici vigenti. Restano in vigore i vincoli sui centri storici, paesaggistici, sulle coste, sulle aree golenali. Oggi il ministro promette maggiori libertà: vuole abolire anche questi? Non si sa. In materia a governare sono le Regioni, che hanno subito rivendicato il loro ruolo. «Tutte le Regioni hanno emanato una legge che rispetta le linee di indirizzo dell'accordo - ha dichiarato Vasco Errani - alcuno spazio per polemiche fra le istituzioni su questo tema». Sta di fatto che la nuova proposta somiglia pari pari alla prima che non ha funzionato. Ci si aspettavano investimenti per 60 miliardi, ci sono state briciole. «Il fatto è cheunintervento di questo tipo funziona solo in caso di villette monofamiliari - spiega Marson - Ecco perché in Veneto ha tirato. Ma nel resto del Paese gli effetti sono molto limitati».
«Naturalmente qualsiasi normativa deve rispettare gli strumenti urbanistici vigenti. Restano in vigore i vincoli sui centri storici, paesaggistici, sulle coste, sulle aree golenali. Oggi il ministro promette maggiori libertà: vuole abolire anche questi?» Naturalmente si, rispondiamo. E’ quello che vogliono, che vuole il vasto e ramificato partito del mattone, il più grande di tutti, con tentacoli ovunque. Sembra che lo slogan vincente, contro il quale troppo pochi si oppongono nelle istituzioni e nei partiiti, sia ancora: “Lotta dura per una maggiore cubatura”.
Via i vincoli del piano regolatore, finché i piani regolatori non saranno tutti ispirati allo “sviluppo del territorio”, finché i piani paesaggistici buoni, o anche solo decenti, non saranno tutti rifatti dai cappellacci di turno.
Nel 2009 la Regione Puglia, come altre regioni italiane, ha subito l’imposizione del governo centrale di doversi dotarsi entro 90 gg. del cosiddetto “piano Casa”, quale misura straordinaria anti crisi economica.
Con il primo “Piano Casa”, la Puglia ha colto l’opportunità della legge per promuovere l’edilizia sostenibile, rispettare le tutele del territorio, garantire l’accessibilità ai disabili, prevenire il rischio sismico. In quella occasione, fu ascoltato il partenariato istituzionale ed economico-sociale, che condivise il principio ispiratore e avanzò proposte migliorative. Anche il Consiglio Regionale l’approvò all’unanimità. Oggi a tre mesi dalla scadenza dei termini per la presentazione delle istanze, quando è palese il fallimento del Piano casa, la Giunta Regionale della Puglia approva uno schema di disegno di legge che modifica quel “Piano Casa”. Ci pare strano che solo ora, dopo quasi ventiquattro mesi di vigenza, si rilevano alcune criticità di tipo interpretativo, alcuni vincoli dimensionali e burocratici della legge regionale. Si vuole recuperare il tempo perduto, ampliando le maglie della legge e prorogando i termini straordinari al 31 dicembre 2011?
Il “nuovo” Piano Casa della Puglia prevede l’aumento della volumetria complessiva, gli interventi di ampliamento da 200 mc. a 300 mc. ed un aumento del volume massimo degli edifici residenziali da 1000 mc. a 1500 mc, privilegiando così gli alloggi più grandi. Per quanto concerne gli interventi di demolizione/ricostruzione è stata ridotta la percentuale di residenza degli edifici esistenti dal 75% al 50%: così si agevolano gli usi non abitativi e salta anche la norma che impediva i cambi di destinazione d’uso. Si consideri il paradosso: gli interventi saranno realizzati con una semplice DIA, ma dovranno avere un punteggio 2 per ottenere la certificazione di sostenibilità ambientale, ai sensi della LR 13/2008 (Norme per l’abitare sostenibile). Gli edifici esistenti, non dovranno essere già accatastati, ma lo si potrà fare anche prima di presentare l’istanza; si ammettono anche gli edifici per quali è stata rilasciata la sanatoria edilizia straordinaria e si semplifica la valutazione antisismica. Non è stato per fortuna, ancora, modificato l’art. 6 che prevede una serie di aree di esclusione dall’attività edilizia (beni culturali e paesaggistici, naturali e ambiti di alta pericolosità idrogeologica) ed in aggiunta le ulteriori aree che potevano essere individuate entro 60 gg dai comuni. Ma, come abbiamo sottolineato già nel 2009 sarà massacrata “l’architettura rurale” in nome dell’edilizia sostenibile, perché in Puglia non c’è ancora una legge che la tutela. Un’ulteriore norma che si trova già all’articolo 9 è tesa a modificare la LR 21/2008 (Norme per la rigenerazione urbana), per permettere di delocalizzare i volumi “incongrui” in aree vincolate, che possono essere spostati in aree previste dagli strumenti urbanistici, con demolizione e ripristino delle aree di sedime.
Le associazioni ambientaliste della Puglia rigettano questo “nuovo” Piano Casa che è frutto delle “lobby del cemento” costituita da alcuni ordini professionali, dai costruttori, dai comuni e dai consiglieri regionali filo governativi.
L'autore è Componente della Commissione Regionale Paesaggio Ambito di Brindisi, Lecce, Taranto . Qui la replica dell'assessora al territorio della regione P8blia, Angela Barbanente.
Genova. “Quarantacinque milioni di metri cubi di nuove costruzioni. Il Piano casa della Liguria è come Attila. Per questa regione, per il suo paesaggio, ma anche per il turismo e l’economia sarebbe un colpo fatale. Sta per arrivare una seconda rapallizzazione”: Angelo Bonelli, presidente nazionale della Federazione dei Verdi punta dritto il dito sul piano della Regione che attende l’approvazione definitiva del Consiglio. Annuncia una raccolta di firme. Già, una storia da raccontare. Primo, per l’ambiente, perché secondo gli studi in mano ai Verdi e compiuti da esperti dell’Università La Sapienza di Roma le nuove norme porterebbero circa 45 milioni di nuovi metri cubi di cemento. Una città. Secondo, perché nasce un caso politico nazionale: per i Verdi, il piano della giunta di centrosinistra di Claudio Burlando “è molto peggio di quello sardo di Ugo Cappellacci”.
Nessuna sorpresa, il Pd ligure da anni brilla per le scelte cementificatorie. Ma non basta: a presentare il piano è la vicepresidente, quella Marilyn Fusco che rappresenta in giunta l’Italia dei Valori. Il partito che alle ultime elezioni sui manifesti scriveva a caratteri cubitali: “Ambiente”. Rifondazione e Sel minacciano di non votare il piano degli alleati. Il presidente del Consiglio regionale, Rosario Monteleone (Udc), sospende l’iter di approvazione (per togliere le norme contestate o aggiungerne altre?). Intanto il documento viene “arricchito” per la gioia dei costruttori.
L’ultima aggiunta: chi demolisce un edificio e lo ricostruisce può chiedere il cambio di destinazione d’uso. Paolo Berdini, urbanista, la spiega così: “È il cavallo di troia per trasformare le fabbriche in case. Questo piano è il peggiore d’Italia, la morte dell’urbanistica”. Da più di un anno associazioni e cittadini danno battaglia. Dai frequentatori del blog di Beppe Grillo arrivarono centinaia di messaggi alla Regione. Alla fine sembrava che la Liguria si fosse salvata: gli emendamenti più devastanti, presentati dallo stesso centrosinistra, furono ritirati. C’era stata perfino una dichiarazione di Burlando che aveva fornito rassicurazioni: “Ritengo che sia un provvedimento equilibrato e giusto. Forse chi ha diffuso pubblicamente giudizi negativi preventivi dovrebbe oggi riconoscere che le cose stavano e stanno diversamente”. Si trattava, disse Burlando, “di giudizi affrettati e forse non formulati in buona fede”.
Che cosa dicevano i critici in malafede? Che il Piano Casa della Liguria concedeva ampliamenti volumetrici tra l’altro a edifici condonati e a strutture industriali. Insomma, che si rischiava una devastazione in una regione dove già il 45 per cento del territorio è “consumato” (record italiano). È passato un anno. Soprattutto sono passate le elezioni che Burlando e il centrosinistra temevano di perdere. E così ecco che il piano casa di nuovo cambia volto. Il contenuto: ampliamenti per gli immobili condonati e per i manufatti industriali e artigianali (leggi capannoni) fino al 35 per cento. Non solo: possibilità di demolire e ricostruire con aumento volumetrico estesa a tutti gli immobili, dunque non soltanto a edifici pericolanti e ruderi. Insomma, i timori di chi, secondo Burlando, “aveva avanzato giudizi negativi preventivi… e forse non formulati in buona fede” sembrano concretizzarsi. “Si premia chi non ha rispettato le norme urbanistiche, chi ha realizzato abusi”, sostengono i Verdi. Burlando, però, non ha dubbi: “Abbiamo dato la possibilità di modesti ampliamenti volumetrici a favore delle attività produttive in un momento di drammatica difficoltà per le nostre imprese”.
Ma visto quello che è successo in Liguria qualche perplessità è perlomeno legittima: in tanti ricordano come basti poi una piccola variazione di destinazione d’uso, due righe sui documenti, per trasformare una zona industriale in residenziale. Gli esempi non mancano: a Cogoleto dove sorgeva la Tubighisa alcuni imprenditori amici del furbetto Gianpiero Fiorani stanno realizzando 174 mila metri cubi di nuove abitazioni per 1.500 abitanti. Un’operazione voluta dal centrosinistra e firmata dall’architetto Vittorio Grattarola, fraterno amico di Burlando e membro della sua associazione politica Maestrale (dove sta accanto ad altri architetti, imprenditori del mattone e tecnici pubblici che si occupano di urbanistica e, ovviamente, al presidente della Regione che dà il via libera ai progetti). Di più: si dice che anche gli edifici alberghieri saranno ammessi ai benefici. “Il Pdl e la Lega volevano altro. Così come le associazioni dei costruttori”, disse un anno fa Burlando. Oggi forse possono dirsi accontentati.
E pensare che il centrosinistra nazionale era insorto contro il Piano Casa Burlando: “È il piano più cementizio d’Italia”, aveva attaccato Roberto Della Seta (Pd), accusando la “lobby del cemento” interna al partito. Pippo Civati e Debora Serracchiani non erano stati meno duri: “Se la realtà del Piano varato da un’amministrazione di centrosinistra dovesse superare le fantasie di Berlusconi, ci sarebbe da preoccuparsi. Il centrosinistra ligure abbia la forza di distinguersi da questo modo di procedere. La nostra generazione non si deve macchiare degli stessi errori compiuti dalla precedente”. Il Pd ligure, però, già allora aveva fatto capire che aria tirava: “Serracchiani e Civati farebbero bene a pensare ai fatti loro, anziché parlare di cose che non conoscono”, disse Mario Tullo, allora segretario ligure del Pd. Di sicuro lui di cemento ne sa parecchio.
Si tratta di un progetto da far invidia ai berlusconiani. In realtà è stato approvato dal governatore Claudio Burlando che l'aprile scorso, in periodo elettorale, fu congelato. Ora invece c'è il via libera in un territorio dove il 45% del territorio negli ultimi 15 anni è stato mangiato dal cemento. Record italiano.
Centinaia di messaggi dai frequentatori del blog di Beppe Grillo. Un’insurrezione delle associazioni ambientaliste. Consiglieri regionali verdi che si erano schierati apertamente contro il Piano Casa presentato un anno fa dalla Regione Liguria governata dal centrosinistra. Ma alla fine sembrava che la Liguria stavolta si fosse salvata: il documento, un colpo di grazia su una regione già devastata dal cemento, era stato ritirato.
C’era stata perfino una dichiarazione del presidente Claudio Burlandoche, dopo le proteste, aveva fornito assicurazioni precise: “Il Consiglio Regionale ha approvato in questi giorni la legge sul “piano casa”. Ritengo che sia un provvedimento equilibrato e giusto… Forse chi ha diffuso pubblicamente giudizi negativi preventivi dovrebbe oggi riconoscere che le cose stavano e stanno diversamente”. Si trattava, disse Burlando, “di giudizi affrettati e forse non formulati in buona fede”.
Che cosa dicevano i critici in malafede? Che il Piano Casa della Liguria concedeva ampliamenti volumetrici tra l’altro a edifici condonati e a strutture industriali. Insomma, che si rischiava uno scempio definitivo, morale e urbanistico, in una regione che negli ultimi quindici anni con la benedizione di sinistra e destra ha perso il 45 per cento del territorio libero da costruzioni (record italiano).
Ma sono trascorsi dieci mesi. Soprattutto sono passate le elezioni che Burlando e il centrosinistra temevano di perdere se il loro elettorato si fosse ribellato. E così ecco adesso che la Giunta ha approvato il suo Piano Casa definitivo. Il contenuto: ampliamenti per gli immobili condonati e per i manufatti industriali e artigianali (leggi capannoni). Non solo: possibilità di demolire e ricostruire con aumento volumetrico estesa a tutti gli immobili, dunque non soltanto a edifici pericolanti e ruderi. Insomma, i timori avanzati da chi, secondo Burlando, “aveva avanzato giudizi negativi preventivi… e forse non formulati in buona fede” sembrano essersi quasi tutti concretizzati.
Pare il Piano Casa dei sogni per una giunta di centrodestra. Roba da far impallidire Ugo Cappellacci. E invece a votarlo è stata una giunta guidata dal Pd. Di più: le norme più contestate sono state fortissimamente volute dall’Italia dei Valori, nella persona dell’assessore all’Urbanistica (e vicepresidente della Giunta), Marylin Fusco.
Certo i liguri ormai non si stupiscono più di tanto, visto che il centrosinistra locale è sponsor da anni del cemento. Che ha appoggiato o accolto in silenzio progetti che hanno riversato sulle coste liguri milioni di metri cubi di cemento. Le gru ormai sono parte del paesaggio. La febbre da cemento non ha risparmiato nessuno: industrie, colonie, ospedali, manicomi, ogni pietra è stata riconvertita in appartamenti e spremuta per produrre fino all’ultimo euro.
Ma che cosa prevedono nel dettaglio i punti più contestati del Piano? Tanto per cominciare possono accedere ai benefici del Piano Casa, dunque agli ampliamenti, anche gli immobili condonati per abusi classificabili come tipologia 1. In parole povere sottotetti, singoli vani, cantine e verande. “Stiamo dando la possibilità di modesti ampliamenti a realtà deboli, tipiche dell’entroterra e della campagna”, assicura oggi Burlando. Ma c’è chi invece teme che la norma sia un regalo ai ricchi proprietari delle case della costa (dove ogni metro quadrato vale oro). Il punto è, però, un altro: si premia chi non ha rispettato le norme urbanistiche, chi ha realizzato degli abusi. E proprio qui colpisce l’atteggiamento dell’Idv, sulla carta paladino del rispetto delle regole.
Non basta: gli ampliamenti volumetrici fino a un massimo del 35 per cento non riguardano più solo le abitazioni ma anche i manufatti industriali e artigianali. Insomma, i capannoni, dove un ampliamento può significare migliaia di metri cubi in più. Burlando non ha dubbi: “Abbiamo dato la possibilità di modesti ampliamenti volumetrici a favore delle attività produttive in un momento di drammatica difficoltà per le nostre imprese”.
Ma visto quello che è successo in Liguria qualche dubbio è perlomeno legittimo: in tanti ricordano come basti poi una piccola variazione di destinazione d’uso, due righe sui documenti, per trasformare una zona industriale in residenziale. Gli esempi non mancano: a Cogoleto dove sorgeva la Tubighisa alcuni imprenditori amici del furbetto Gianpiero Fioranistanno realizzando 174mila metri cubi di nuove abitazioni per 1.500 abitanti. Un’operazione voluta con tutte le forze dall’amministrazione di centrosinistra e firmata dall’architetto Vittorio Grattarola, fraterno amico di Burlando e membro della sua associazione politica Maestrale (accanto ad altri architetti, imprenditori del mattone e tecnici pubblici che si occupano di urbanistica e, ovviamente, al presidente della Regione che dà il via libera ai progetti).
Di più: la possibilità di demolire e ricostruire con relativi aumenti volumetrici è stata estesa a tutti gli edifici, non soltanto a quelli pericolanti e ai ruderi come sembrava inizialmente. Un’altra norma che apre le porte a decine di migliaia di metri cubi nuovi. Magari in zone di pregio. Basta? Chissà. Adesso la parola passa al Consiglio Regionale e il centrodestra è già pronto a chiedere che gli edifici alberghieri siano anch’essi ammessi ai benefici.
“Il Pdl e la Lega volevano altro. Così come le associazioni dei costruttori”, disse dieci mesi fa Burlando. Oggi possono dirsi accontentati. Meno soddisfatti paiono alcuni esponenti del centrosinistra che timidamente stanno cercando di manifestare i loro dubbi.
E pensare che un anno fa perfino il centrosinistra nazionale era insorto contro il Piano Casa Burlando: “È il piano più cementizio d’Italia”, aveva attaccato il senatore democratico Roberto Della Seta, accusando la “lobby del cemento” interna al partito. Pippo Civatie Debora Serracchianinon erano stati meno duri: “Se la realtà del Piano varato da un’amministrazione di centrosinistra dovesse superare le fantasie di Berlusconi, ci sarebbe da preoccuparsi – affermò Civati – quindi invito Burlando a riflettere sui contenuti della legge e sulle conseguenze che può avere su un territorio ligure già sufficientemente maltrattato. Il centrosinistra ligure abbia la forza di distinguersi da questo modo di procedere. La nostra generazione non si deve macchiare degli stessi errori compiuti dalla precedente”.
Il Pd ligure, però, già allora aveva fatto capire che aria tirava: “Serracchiani e Civati farebbero bene a pensare ai fatti loro, anziché parlare di argomenti che non conoscono”, disse Mario Tullo, allora segretario ligure del Pd. Di sicuro lui di cemento ne sa parecchio.
Ma ormai la Liguria si prepara a un’ennesima ondata di cemento. Anche se Burlando rassicura: “Abbiamo aperto una riflessione sullo sviluppo dei nuovi porti turistici, visto che il Piano della costa del 2000 ha già raggiunto il suo obiettivo di 10mila nuovi posti barca”.
Basta posti barca, sembra dire Burlando. E pensare che era stato proprio lui nel 2005 a dichiarare: “Un mio amico di Bologna (Romano Prodi, ndr) si è augurato di vedere sulle nostre spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Io invece dico: più ombrelloni e più porticcioli”. Era stato sempre Burlando a partecipare soddisfatto alla posa della prima pietra del Porto di Imperia voluto daClaudio Scajolae finito oggi nel mirino della magistratura. Ed erano stati amici di Burlando, come il tesoriere della sua campagna elettorale, a far parte del cda della Marinella spa (allora controllata dalla banca “rossa”, il Monte dei Paschi) che a La Spezia ha lanciato il progetto per un nuovo porticciolo da oltre mille posti nella splendida area della foce del Magra. Basta porticcioli, forse perché non c’è più un centimetro libero di costa dove costruirli: in Liguria ormai c’è un posto barca ogni 47 abitanti. Basta, adesso meglio puntare sul Piano Casa.
“Il piano casa non funziona perché le regioni lo hanno reso troppo vincolistico”. La campagna stampa dei grandi quotidiani nazionali era iniziata con questo efficace slogan non appena si comprese che il regalo che Berlusconi aveva fatto alla rendita immobiliare riguardava un ristretto numero di persone. Invece di ragionare con onestà intellettuale sul fatto che la produzione edilizia in questo paese ha superato il limite di guardia e rischiamo un generale e irreversibile svalutazione immobiliare, la classe dirigente, incapace di pensare ad una prospettiva per uscire dalla crisi, non ha fatto altro che chiedere ulteriori deroghe urbanistiche, e cioè altri ricchissimi regali in termini di rendita immobiliare.
L’amministrazione regionale del Lazio è molto sensibile ai voleri del mondo della speculazione edilizia. Ne ha infatti avuto il prezioso appoggio per vincere le elezioni e ora le cambiali sottoscritte devono essere onorate. Così l’assessore all’urbanistica Luciano Ciocchetti (Udc) ha illustrato le linee del nuovo piano casa del Lazio. Rispetto a quello già molto generoso approvato dall’intrepida giunta Marrazzo aumentano ancora i premi di cubatura: ai proprietari di abitazioni verrà data la possibilità di aumenti compresi tra il 20 e il 50%. Ai proprietari di edifici industriali verranno invece concessi due strepitosi regali, un aumento del 30% delle volumetrie esistenti e il cambio della destinazione d’uso: appartamenti invece di linee di produzione.
Facciamo un esempio. Un’attività industriale di media grandezza ha una dimensione pari a 100 mila metri cubi, e cioè 12 mila metri quadrati di superficie coperta. Oggi, nella crisi industriale che viviamo le attività industriali hanno una rendita molto bassa: quei metri quadrati possono valere al massimo 1 milione di euro. Si pensi ad esempio che a Detroit la crisi industriale del comparto automobilistico ha provocato un collasso delle quotazioni immobiliari produttive dai 2000 dollari del 2008 agli attuali 60 dollari!
Ma torniamo nel Lazio. I capannoni hanno, come noto, altezze di 9 metri, con il cambio di destinazione d’uso si potranno realizzare tre piani di abitazione, e cioè il triplo della superficie esistente: 36 mila metri quadrati invece dei 12 di partenza. Poi, con il gentile regalo del 30% concesso dalla Polverini, la superficie totale arriverà a 47 mila metri quadrati. Il valore delle abitazioni nella periferia romana sono pari a circa 4 mila euro al metro quadrato: il capannone che valeva 1 milione con il piano casa regionale raggiunge i 188 milioni di euro. La Polverini ha inventato la gallina delle uova d’oro.
Ad esclusivo favore della speculazione però. Perché l’effetto dello sciagurato piano casa sarà quello di favorire inevitabilmente l’abbandono delle attività produttive e cioè l’ulteriore aggravarsi della crisi produttiva ed economica della regione. Quale imprenditore può ancora avere la voglia di rischiare investimenti in un qualsiasi settore produttivo se di fronte alla speculazione immobiliare viene aperta un’immensa autostrada? Sono venti anni che, colpo dopo colpo, sono state smantellate tutte le regole di governo del territorio e della tutela dell’ambiente. I piani regolatori che, con tutti i limiti che ben conosciamo, tentavano di delineare un futuro condiviso alle nostre città sono stati sostituiti concetti come la “valorizzazione immobiliare” e “l’accordo di programma” per superare ogni previsione urbanistica.
Lo stato liberale, che pure aveva a cuore l’iniziativa economica privata, aveva trovato nell’urbanistica un efficace punto di equilibrio tra interessi della collettività e interessi della proprietà, limitandone lo strapotere e imponendo vincoli. Oggi siamo in un’altra prospettiva sociale e culturale e tutto questo viene cancellato. Così la collettività deve rassegnarsi a subire sempre e comunque il dominio della proprietà immobiliare. In quale altro paese europeo, infatti, è la proprietà a decidere che i ceti meno fortunati dovranno vivere in luoghi desolati - come sono la totalità delle aree industriali - invece che in città dove si può vivere meglio? In nessuno, solo nell’Italia dominata dalla speculazione.
Con il piano casa delle regione Lazio tocchiamo con mano che, se non si taglia il dominio della rendita immobiliare – dominio che è bene precisarlo non esiste negli altri paesi della civile Europa - il nostro declino economico e civile non si interromperà. Il problema non è Berlusconi: il vero nodo che stringe alla gola l’Italia è quello di un’opposizione politica incapace di avere un’idea di sviluppo lungimirante in grado di favorire gli investimenti produttivi veri. In questi anni di liberismo urbanistico trionfante la sinistra non ha saputo costruire una visione critica alternativa, limitandosi ad inseguire il centro destra. Ed anche oggi che si toccano con mano gli effetti della cancellazione dell’urbanistica con l’espulsione dalle nostre città di centinaia di migliaia di famiglie verso periferie lontane, il tema dell’urbanistica è sempre più assente dalla politica.
Il ripristino delle regole del governo delle città e del territorio è il primo elemento per poter rilanciare lo sviluppo produttivo del nostro paese. Altro che piani casa: bisogna urgentemente chiudere la fase del sacco urbanistico dell’Italia.
Capannoni dismessi, centri commerciali senza clienti, aree industriali in disarmo. Con il Piano Casa che la Regione si accinge ad approvare, qualsiasi immobile, anche il più malmesso, potrà essere trasformato nella gallina dalle uova d’oro: una bella palazzina fitta di appartamenti, da vendere o affittare a prezzi di mercato, tranne una quota del 30% da dare in locazione a canone agevolato.
E’ questa una delle innovazioni - insieme all’aumento dei premi di cubatura per le attività artigiane (dal 10 al 20%) e alla possibilità di sopraelevare - messe a punto dall’assessore all’Urbanistica Luciano Ciocchetti di concerto con l’assessore alla Casa Teodoro Buontempo. Ventritré articoli che scardinano e rendono aggirabili, nel Lazio, tutti i piani regolatori dei Comuni: un complesso sistema di deroghe e varianti che sembrano confezionate apposta per fare un regalo al sindaco Gianni Alemanno e alla sua più volte dichiarata intenzione di modificare il Prg della capitale.
Ma cominciamo dall’inizio del documento. Cioè dall’articolo 2, che definisce gli ambiti di applicazione. Rispetto al Piano Casa della giunta Marrazzo, l’esecutivo di centrodestra strizza l’occhio ai «furbetti» del mattone: non solo per gli edifici «ultimati e legittimamente realizzati» si possono infatti effettuare interventi di ampliamento, ristrutturazione, sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione in cambio di cubatura (dal 20 fino al 50%), ma pure per quelli «oggetto di richiesta di concessione in sanatoria» per i quali «sia stato rilasciato relativo titolo abilitativo» oppure sia stato «autocertificato». Una norma che mette sullo stesso piano chi rispetta la legge e chi preferisce chiudere un occhio, tanto un condono prima o poi arriva.
Come non bastasse, aree ed edifici tutelati da vincoli paesaggistici perdono la loro inviolabilità: basta ottenere uno specifico nulla osta dalla «soprintendenza competente». Idem per casali e complessi rurali storici, che potranno essere abbattuti e ricostruiti, come pure gli immobili già esistenti nelle aree protette. Un esempio per tutti: nel parco dei Castelli romani (finora esentato dall’applicazione del Piano Casa) tutti e 400mila i residenti, volendo, potranno allargare le proprie villette dal 20% (entro un massimo di 62,5 metri quadrati) fino al 35%.
Ma il vero atto sovversivo, quello che fa saltare tutte le previsioni urbanistiche dei Comuni, è l’articolo 3bis: «Interventi finalizzati al cambiamento di destinazione d’uso da non residenziale a residenziale». Laddove, «in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici ed edilizi comunali vigenti o adottati», sarà possibile ampliare del 30% qualsiasi tipo di edificio a destinazione non residenziale (purché dismesso) a due condizioni: che il cambio di destinazione d’uso a residenziale riguardi «almeno il 75% della superficie utile lorda esistente» e che, «al fine di agevolare le richieste di alloggi in locazione a canoni calmierati, almeno il 30% della superficie oggetto di intervento sia destinata alla locazione per 20 anni, con possibilità di riscatto a partire dal decimo anno, a un canone determinato sulla base di criteri» decisi dal Comune. Col risultato mettere a rischio ogni progetto urbanistico, contenuto nei vari prg cittadini.
Altra chicca. L’articolo 7, «Programmi integrati di riqualificazione urbana e ambientale», che i Comuni potranno adottare, di nuovo, «anche in variante della strumentazione urbanistica vigente» sulla base di «iniziative pubbliche o private, anche su proposta di privati, consorzi, nonché imprese e cooperative». Progetti volti, in sostanza, «al rinnovo del patrimonio edilizio e al riordino del tessuto urbano attraverso interventi di sostituzione edilizia con incrementi volumetrici e modifiche di destinazione d’uso di aree e di immobili». Eccolo lo strumento che consentirà ad Alemanno di radere al suolo e ricostruire Tor Bella Monaca. Una delle operazioni più sostenute dalla lobby dei costruttori.
Di Carlo: "Così si distrugge l’urbanistica della città"
Intervista di Paolo Boccacci
«Questa è chiaramente un’ipotesi di modifica della legge scritta dalla parte più retriva e più estremista che si occupa di edilizia nel Pdl. È come se ci fossero le impronte digitali di coloro che l’hanno scritta difendendo gli interessi del partito del cemento. E posso fare degli esempi precisi che descrivono bene l’operazione»
Mario Di Carlo, Pd, ex assessore regionale alla Casa e vice presidente della Commissione Urbanistica della Pisana, non ha dubbi: la nuova legge è un regalo ai costruttori.
«Il primo dato da considerare» aggiunge «è clamoroso: il responsabile della struttura tecnica del Comune prende il posto del sindaco e del consiglio comunale e le decisioni sui piani di recupero vengono sottratte all’assemblea elettiva».
E gli altri esempi?
«Sulle aree vicine al mare si possono demolire edifici costruendo altrove con un premio di cubatura addirittura del 50%, ma mentre la giunta precedente prevedeva la cessione dei terreni sulla costa che diventavano di proprietà comunale, ora invece rimangono dei proprietari, con l’unico obbligo di renderli fruibili pubblicamente. Ma c’è dell’altro che può distruggere i piani regolatori del Comuni, compreso quello di Roma».
Che cosa?
«La trasformazione della destinazione d’uso dei capannoni che diventeranno case con un premio di cubatura del 30%. Tutti quelli che hanno comprato, pagandoli profumatamente, terreni edificabili, avranno la concorrenza dei padroni delle ex strutture produttive dove, tra l’altro, spesso le attività si fermeranno con il risultato di licenziare gli operai, penalizzando anche l’occupazione».
Un altro nodo è quello della possibilità di ristrutturare quartieri interi anche con progetti di privati.
«La cosa assolutamente inaccettabile è che si aprirà anche un mercato generalizzato dei diritti edificatori. Mi spiego meglio: mentre prima il premio di cubatura andava al singolo proprietario, adesso in questo caso il 50% va calcolato su tutti gli edifici compresi nel piano di recupero. Per cui anche chi non demolisce vende la cubatura al proprietario accanto, che invece abbatte e ricostruisce, per permettergli di aumentare i metri cubi».
Postilla
Di tutto, di più: nella nuova versione del piano-casa Polverini style, la pulsione alla deregulation si esprime in termini così violenti da travalicare verso una vera e propria sovversione delle regole non solo urbanistiche, ma pure democratiche, laddove, ad esempio, scavalca le prerogative delle assemblee elettive (Consigli comunali).
Giustamente il titolo sottolinea quella che, con un provvedimento di tal genere, diventerebbe automaticamente l’area a maggior rischio: l’agro romano.
Da troppo tempo obiettivo di appetiti edificatori purtroppo sostenuti in maniera bipartisan da ammnistratori e politici, l’agro romano si appresta a divenire palestra privilegiata dei mirabolanti effetti del piano casa berlusconiano.
E a poco serviranno le armi ormai spuntate degli organi di tutela che appena qualche mese fa introdussero, su un’ampia zona dell’agro fra Laurentina e Ardeatina, un vincolo paesaggistico in virtù del quale il ministro Bondi si autoattribuì il titolo di difensore del paesaggio romano.
Come prevedemmo da consumate Cassandre (v. l’opinione del 2 dicembre: Avviso di vincolo), la versione finale di quel vincolo, accogliendo quasi tutte le osservazioni presentate e con l’introduzione di alcuni funanbolismi lessicali da manuale, depotenziò drasticamente la valenza di quel provvedimento di tutela. In attesa che acconcio provvedimento ne compisse il sovvertimento: il cerchio si chiude. (m.p.g.)
Negli ultimi mesi gli umori dell’opinione pubblica sono stati sollecitati da annunci a sorpresa relativi a nuovi strumenti normativi e amministrativi finalizzati a ravvivare il settore dell’edilizia privata e pubblica. Si è cominciato nuovamente a parlare di “piano casa”. Espressione questa – sia detto per inciso – un po’ sfortunata, visto che a causa di un “piano casa” nel 1986, si dovette dimettere il sindaco di Milano Carlo Tognoli e, nel 1990, fu arrestato l’imprenditore Salvatore Ligresti.
In ogni caso, si deve sgombrare il campo da un equivoco: la locuzione “piano casa” – che ciclicamente ricorre – indica oggi due politiche diverse.
La prima è un programma nazionale (o meglio, una serie di programmi) per l’offerta di abitazioni a favore di una serie di categorie deboli, attraverso “la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente” (art. 11, d.l. n. 112 del 2008, conv. nella l. n. 133 del 2008 e d.p.c.m. 16 luglio 2009). Questa vicenda esula dalla nostra narrazione.
La seconda – quella di cui ci occupiamo – designa invece una strategia di deregolazione, che si è sovrapposta (in termini logici e cronologici) al programma di edilizia residenziale di cui al d.l. n. 112/08 cit..
1. Alcuni principi fondamentali in materia di governo del territorio
Prima di esaminare il secondo “piano casa”, è utile soffermarsi brevemente su alcuni principi che presiedono al “governo del territorio” e alla tutela del paesaggio. Principi che sono stati palesemente violati da questa disciplina.
Il governo del territorio – menzionato nell’art. 117, comma 3, Cost., tra le materie di legislazione concorrente – è materia ampia che comprende anche l’edilizia e l’urbanistica (Corte cost. n. 303 del 2003, § 11.1; sui limiti della materia, cfr. es. Corte cost., n. 383 del 2005 e n. 327 del 2009). I legislatori regionali, in conseguenza, nel dettare regole in tema (ivi comprese quindi l’edilizia e l’urbanistica), devono rispettare i principi fondamentali individuati con legge (o con altra norma avente valore di legge) dello Stato.
La legge dello Stato contenente i principi fondamentali ha la funzione – oltre che di garanzia derivante dalla procedura parlamentare – di individuare elementi di uniformità che si impongano alla normativa regionale (cfr. es. Corte cost., 196 del 2004, cit., §20). In questo ambito, la differenziazione è ammessa, entro i limiti rappresentati, appunto, dai principi fondamentali a tutela di valori unitari.
In assenza di una legge quadro, si pone però il problema di stabilire con sicurezza quali siano i principi fondamentali che si possono desumere dalla vigente legislazione statale. Al riguardo, si registrano numerose incertezze pratiche e teoriche. Non mancano però alcuni punti fermi. Se ne indicano due: il principio del piano e quello della centralità della pianificazione comunale.
Quello del piano è, in realtà, un meta-principio che permea di sé tutta la materia. In base ad esso, il governo del territorio si attua, di regola, attraverso piani. Le collettività locali (comunali, provinciali e regionali) devono cioè prefigurare le loro esigenze di tutela, di uso e di trasformazione del territorio attraverso atti giuridici vincolanti (con Giannini: “disegni ordinati di condotte future composte di più elementi combinati ...”) che considerino la totalità dell’ambito spaziale di competenza (Corte cost. n. 378 del 2000, n. 379 del 1994, 327 del 1990).
Ciò è stabilito con chiarezza lapidaria dall’art. 4, l. n. 1150 del 1942: “la disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali (…)”. E tutte le leggi regionali – comprese quelle di nuova generazione (approvate dopo la legge cost. n. 3 del 2001) – sino a oggi hanno confermato, nonostante numerose differenze, la centralità dei piani nel governo del territorio.
Si tratta di un principio non sempre debitamente individuato e valorizzato dalle varie giurisdizioni. Spesso politici, amministratori e accademici lo hanno considerato vetusto e superato dalla regola (pratica) della preminenza del progetto (il piano come insieme dei progetti), di cui è conseguenza la miserevole condizione di ampie porzioni d’Italia.
In ogni caso, quello del piano è principio fondamentale della materia e – se correttamente inteso e soprattutto se effettivamente praticato – ha implicazioni di primaria importanza. Innanzitutto il piano costituisce un essenziale strumento per la conoscenza (fisica, culturale, economica ecc.) del territorio e delle sue dinamiche complessive ed è quindi una garanzia di razionalità dell’azione amministrativa. Ma – cosa ancor più importante – esso, dopo la Costituzione, invera il principio democratico, in primo luogo, perché è imputato a organi rappresentano le collettività interessate (consiglio regionale, provinciale e comunale); in secondo luogo, perché le procedure di adozione e approvazione garantiscono trasparenza delle decisioni e partecipazione dei cittadini all’assunzione delle scelte; in terzo luogo, perché il piano è lo strumento che assicura una relazione fisiologica tra ciascuna collettività locale (complessivamente considerata) e il territorio sui essa è insediata.
Questo principio inoltre consente di governare il pluralismo amministrativo, evitando che si giunga alla frammentazione del territorio. Attraverso le procedure di adozione e l’efficacia differenziata (e reciproca) dei vari livelli di pianificazione (regionale, provinciale e comunale), le esigenze delle diverse collettività si armonizzano, dando vita a un contesto regolativo coerente.
In sintesi, questo principio preclude alle norme regionali di consentire l’autorizzazione di trasformazioni (rilevanti) che non siano il frutto di una preventiva, adeguata e specifica ponderazione degli effetti sul territorio e sulla collettività insediata, attraverso un procedimento ispirato a rigidi criteri di pubblicità e imputato a organi che siano espressione diretta della (o delle) collettività interessate.
Il secondo principio fondamentale rappresenta una conseguenza di quanto ora detto e riguarda la centralità del Comune nella gestione del territorio. Se in base al nuovo titolo V, parte II della Costituzione, Comuni, Province e Regioni, in quanto enti autonomi (ossia esponenziali di collettività politiche), devono essere titolari di funzioni amministrative relative all’assetto del territorio, in base al principio di sussidiarietà (art. 118, comma 1, Cost.), ai Comuni devono essere assicurate tutte le funzioni di pianificazione e di vigilanza che non necessitino di esercizio sovracomunale. In altri termini, la legislazione regionale deve individuare gli interessi che devono essere amministrati nei piani regionali e provinciali, in quanto essenziali per le rispettive comunità; tutti gli altri devono di regole essere attribuiti ai “Comuni, principali titolari dei poteri pianificatori in materia urbanistica nonché dei poteri gestionali” (Corte cost., n. 196/04).
Né va trascurato che il principio di sussidiarietà si affianca e si sostiene vicendevolmente con quello della garanzia dell’autonomia comunale. Sul principio di autonomia in connessione con l’urbanistica, si era già pronunciata la Corte costituzionale sotto la vigenza del precedente titolo V, parte II della Costituzione: "il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere"; ciò in quanto l’art. 128 (oggi abrogato) garantisce “l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse regioni" (cfr. Corte cost. n. 83 del 1997 e n. 378 del 2000).
In questa materia, come noto, l’autonomia comunale (e provinciale) è stata ulteriormente rafforzata. Tanto è vero che, per opinione unanime, i compiti comunali di gestione del territorio sono oggi considerati come funzione fondamentale dei Comuni; funzione che, in quanto tale, è oggetto di legislazione esclusiva dello Stato e non può quindi essere oggetto di eccessiva compressione da parte della legislazione regionale (art. 117, 2 c., lett. p, Cost.).
In base a questo principio, quindi, è precluso alle leggi regionali di privare i piani urbanistici comunali di adeguati ed effettivi spazi di manovra, potendo, al più, prevedere la sottrazione di alcune competenze in considerazione di “concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio” (Corte cost. n. 378/00 cit.). Le leggi regionali sono tenute cioè a valutare “la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti” (Corte. Cost. n. 286 del 1997), e non possono in alcun caso rendere inoperanti i piani comunali che – essendo espressione di funzioni fondamentali – sono garantiti direttamente dalla legge statale, in funzione dell’autonomia comunale.
Infine, un cenno alla tutela del paesaggio. Innanzitutto si deve ricordare che il paesaggio – da intendere in base all’art. 9, Cost., “come la morfologia del territorio” – riguarda “l'ambiente nel suo aspetto visivo”: aspetto che ”per i contenuti ambientali e culturali che contiene (…) è di per sé un valore costituzionale” (Corte cost. n. 367 del 2007 e n. 272 del 2009), che, in quanto tale “va rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” (Corte cost. nn. 183 e 182 del 2006).
Vi è qui pacificamente competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. s), contemperata però da tecniche di coordinamento (es. intese, forme di copianificazione) e dal principio per cui è legittimo “(…) di volta in volta, l'intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell'interesse ambientale” (Corte cost., n. 62, n. 232 e n. 336 del 2005 e n. 182/06 cit.).
In materia, quindi, è escluso che le leggi (e conseguentemente gli atti di pianificazione) regionali possano prevedere livelli di protezione del paesaggio inferiori a quelli stabiliti da norme dello Stato.
2. Genesi del “piano casa”: l’intesa tra Governo e Conferenza unificata del 1° aprile 2009
E’ ora possibile passare al “piano casa” per verificarne la compatibilità con i principi sommariamente richiamati. Dato che “natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise …”, conviene soffermarsi anzitutto sulla sua genesi.
Del “piano casa” si è discusso nella Conferenza unificata del 25 marzo 2009 a proposito dell’ampliamento di abitazioni monofamiliari e bifamiliari. Il Governo aveva predisposto una bozza di decreto legge. Ma presidenti di Regione e sindaci – premesso che il tema dell’ampliamento delle abitazioni è molto importante e avvertito dall’opinione pubblica – hanno manifestato perplessità e preoccupazione per l’emanazione di un decreto legge in questa materia, che è di legislazione concorrente, e hanno chiesto un approfondimento congiunto dell’argomento. Si è così deciso di istituire un tavolo tecnico-politico.
Il 31 marzo (o il 1° aprile: la data non è chiara) si è giunti a un’intesa in sede di Conferenza unificata; intesa ai sensi dell’art. 8, l. n. 131 del 2003, per “favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”. Si è trattato quindi di un accordo politico.
In base all’intesa, le Regioni si sono impegnate ad approvare nel termine di 90 giorni leggi che: a) consentano interventi fino al 20% della volumetria di edifici residenziali uni-bi familiari o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi per un massimo di 200 metri cubi, al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica; b) consentano, allo stesso fine, interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35%; c) semplifichino e accelerino l'attuazione di detti interventi.
Le leggi regionali possono però individuare ambiti in cui detti interventi sono esclusi o limitati; gli interventi inoltre, salva diversa decisione, possono avere validità temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi. In caso di inerzia o ritardo il Governo e il presidente della giunta regionale interessata “determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo, anche ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 131/2003”.
Il Governo, dal suo canto, si è impegnato a emanare, entro 10 giorni, un decreto legge “i cui contenuti saranno concordati con le Regioni e il sistema delle autonomie” per “semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato” e per “rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia”. Il decreto legge non è stato emanato, anche perché non si è trovato un accordo sul suo contenuto con le Regioni e con il sistema delle autonomie.
Non di meno ad oggi ben sedici Regioni hanno legiferato sul punto, in maniera ovviamente disomogenea.
3. Profili di incostituzionalità
Questa “cronachetta” dimostra innanzitutto l’incostituzionalità, dal punto di vista formale, di questa politica. Essa infatti non è stata preceduta da una legge dello Stato che prevedesse la dequotazione del principio di pianificazione; come visto, meta-principio della materia.
Con l’intesa del 31 marzo, il principio della pianificazione è stato (temporaneamente?) sostituito con il suo opposto, con quello cioè della generalizzata depianificazione: vengono consentiti aumenti di volumetria a prescindere dal riferimento al piano urbanistico, prendendo a parametro le sole cubature (legittimamente) esistenti in un dato momento. Tanto è vero che la formula ricorrente nelle leggi regionali attuative dell’intesa è che sono ammessi interventi “in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali”, o simili.
La cosa è inaccettabile da diversi punti di vista. Per rimanere agli aspetti costituzionali, si deve osservare che il principio della depianificazione, in quanto nuovo principio della materia, avrebbe dovuto semmai essere introdotto da una norma statale di rango legislativo.
Però con furbizia (e incoscienza), si è ritenuto di poter aggirare l’ostacolo rappresentato dalla legge dello Stato, in sua vece stipulando un’intesa in sede di Conferenza unificata: l’intesa tra il Governo, i presidenti delle Regioni e alcuni (2) rappresentanti dei Comuni e delle Province ha sostituito una legge del Parlamento, eludendo nel contempo il controllo del Presidente della Repubblica. Insomma, un accordo politico tra il Governo e gli esecutivi regionali, con l’avallo di sparute rappresentanze di giunte comunali e provinciali, ha tenuto luogo di una legge.
Le possibili spiegazioni di questo modo di procedere sono due. Sciatteria, superficialità e insensibilità istituzionale. Oppure la contrapposizione concettuale tra legalità costituzionale (finta e chiusa) e “legittimità di una volontà realmente esistente” (dimostrata dall’ampio consenso al “piano casa” nel sistema delle autonomie e tra gli elettori) e fondata sull’emergenza economica; ma questo modo di ragionare (e di governare) richiama alla mente tetri scenari e ideologie degli anni ’30. Probabilmente entrambi i motivi hanno animato i diversi protagonisti della vicenda.
E’ vero che il Governo avrebbe voluto emanare un decreto legge (forse per accaparrarsi i meriti dell’operazione) e che questa idea ha incontrato la ferma opposizione della Conferenza unificata. Ma in base all’intesa del 31 marzo, il decreto avrebbe dovuto contenere non un principio fondamentale della materia (quello della depianificazione provvisoria), ma strumenti di semplificazione di procedimenti di competenza esclusiva dello Stato. Il ricorso al decreto legge, inoltre, sarebbe stato illegittimo per carenza evidente dei requisiti del “caso straordinario di necessità e d'urgenza” (sul che, cfr. Corte cost. 171 del 2007); e certamente non avrebbe surrogato questa carenza la retorica dell’emergenza economica in generale, e quella del settore edilizio, in particolare. Infine, in base all’intesa, al di fuori di ogni previsione costituzionale, il contenuto del decreto legge avrebbe dovuto essere concordato con le Regioni e il sistema delle autonomie.
Vale solo la pena di aggiungere che la mancanza di una norma statale di principio, sta portando a una vera Babele urbanistica.
Ma al di là delle differenze di carattere sostanziale tra le norme regionali (es. circa i limiti volumetrici), va segnalato che il “piano casa” nei fatti ha violato il secondo principio fondamentale sopra ricordato, ossia quello della centralità del Comune nel sistema del governo del territorio.
Infatti, l’effettività della funzione pianificatoria comunale è stata (nella migliore delle ipotesi) sospesa da questa manovra. L’intesa del 31 marzo costituisce dunque una palese violazione dell’autonomia comunale, ossia del rapporto (costituzionalmente garantito) tra la collettività e il suo territorio. Basta una rapida lettura delle leggi regionali (e delle deroghe ivi previste) per verificare questa affermazione. Né si deve trascurare che il ruolo dei Comuni risulta del tutto trasfigurato: è stato limitato (peraltro neanche in tutte le Regioni) essenzialmente all’individuazione, entro un termine perentorio, delle aree in cui gli incrementi di volumetria non sono ammissibili. Il Comune, dunque, da asse portante del sistema della pianificazione territoriale stato trasformato in un soggetto munito di un limitatissimo potere di interdizione; potere, peraltro, sottoposto a termine di decadenza.
In ogni caso, in mancanza dei principi fondamentali, il ruolo delle amministrazioni comunali (ossia il ruolo del piano comunale) in relazione all’attuazione del “piano casa” è stato rimesso alla scelta delle singole Regioni che, senza alcun limite, hanno potuto calibrarne (o eliminarne) i compiti. Come detto, ciò, nell’attuale contesto, è però inammissibile, costituendo una evidente compressione della sfera di autonomia che la Costituzione riconosce ai Comuni.
Tuttavia, detto per inciso, alla Conferenza unificata del 31 marzo era presente solo il sindaco di Roma (e il rappresentante dell’ANCI), mentre erano assenti gli altri tredici sindaci che ne fanno parte (cfr. il verbale della Conferenza unificata n. 7/2009).
Infine – e veniamo al terzo principio – questa politica si pone in pieno contrasto con le regole che presiedono alla tutela del paesaggio. Al riguardo, l’intesa del 1° aprile – oltre a stabilire l’inapplicabilità degli incrementi di volumetria agli edifici abusivi, nei centri storici e in aree di inedificabilità assoluta – prevede che le Regioni possono escludere o limitare tali interventi con riferimento a beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico. In sostanza, l’accordo ha superato la qualificazione del paesaggio in termini di “valore unitario” che necessita di un ”indirizzo unitario”, che a sua volta, secondo la Corte costituzionale, giustifica l’attribuzione allo Stato della competenza legislativa in materia di tutela del paesaggio. L’intesa ha rimesso la scelta alle singole Regioni.
E le leggi ragionali non hanno mancato di operare scelte ampiamente differenziate. In generale, esse non hanno chiarito i rapporti tra incrementi volumetrici e normativa sul paesaggio, al massimo, in alcuni casi, hanno specificato che gli incrementi di cubatura devono essere compatibili con le norme del d.lgs n. 42 del 2004; in molti casi nulla è stato detto; in altri ancora sono stati addirittura ammessi interventi “in deroga alle previsioni dei piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali”.
Ma il richiamo alle norme del codice del paesaggio (ossia alle disposizioni relative ai singoli beni sottoposti a tutela), da un lato è pleonastica, perché è evidente che le leggi regionali non possono incidere sull’applicazione di norme statali. Dall’altro lascia irrisolto un problema molto importante: quello del ruolo che gli strumenti amministrativi a tutela del paesaggio (quelli di vecchia generazione e i pochi adottati a seguito del d.lgs 42/04) svolgono in questa vicenda. Non è infatti chiaro se le deroghe previste dalle leggi regionali riguardino anche le prescrizioni dei piani paesistici e paesaggistici (si pensi ad esempio, alle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio, ovvero all’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate) o se esse devono essere considerate inderogabili.
E’ quindi evidente che, di fatto, le norme regionali – nel pretendere, nel migliore dei casi, il solo rispetto del codice – finiscono per interferire con il complesso processo di predisposizione e di attuazione dei piani paesaggistici. Con ciò concretando un’ulteriore violazione del dato costituzionale, ma anche un’operazione di grave arretratezza culturale.
Quanto detto dimostra innanzitutto che il sistema delle Conferenze (Stato-Regioni e Conferenza unificata) concretizza forme consociative ancora più opache e allarmanti di quelle che l’Italia ha conosciuto negli anni passati. Questa vicenda rappresenta un esempio concreto del mutamento in atto della forma di governo, nel senso della emarginazione del Parlamento a favore del sistema delle Conferenze; ciò produce una rilevante alterazione delle dinamiche democratiche stabilite dalla Costituzione.
Da più parti si sottolinea la necessità che il patrimonio edilizio italiano sia rinnovato e reso compatibile con il sistema ecologico; si sollecitano azioni pubbliche in tal senso. Ma è prioritario che tali politiche siano conformi alla Costituzione: il principio di legalità deve coprire sia la fase normativa sia quella amministrativa; deve cioè pervadere le norme di legge, gli atti di pianificazione, i provvedimenti abilitativi, le attività di vigilanza e di repressione. E' invece tristemente noto che nella gestione del territorio il principio di legalità stenta ad affermarsi, specie (ma non solo) nel Centro-Sud. E' quindi indispensabile il rilancio della cultura della legalità territoriale. Infatti, solo questa cultura potrà portare un vero e duraturo sviluppo economico.
E’ poi necessario che le politiche territoriali siano concepite e gestite con serietà e rigore, in modo da essere affidabili per i cittadini e per gli operatori, ma soprattutto in modo da essere al servizio della collettività e del suo benessere. Nel nostro caso tutto ciò non è avvenuto, per responsabilità che si possono equamente distribuire tra il Governo e il sistema delle Conferenze (e dei soggetti che di esse fanno parte, anche se assenti).
Ecco perché l’operazione “piano casa” è un gigante con i piedi di argilla. Non è affatto improbabile che un singolo (perché animato da spirito civico o, più prosaicamente, perché leso nei suoi diritti) o un’associazione avvii un giudizio avverso una dichiarazione di inizio attività relativa a un ampliamento di volumetria: innanzi al giudice potrà far valere l’inconsistenza dell’impianto giuridico sotteso al “piano casa”, anche attraverso il rinvio alla Corte costituzionale della legge regionale pertinente.
Il sistema istituzionale – con intensità e toni diversi – ha eccitato l’opinione pubblica (e alcuni settori economici) sul tema degli ampliamenti delle volumetrie, ingenerando aspettative di varia natura. Se l’iniziativa avrà successo (se si apriranno molti cantieri), l’eventuale (e a mio parere, non improbabile) crollo dell’edificio non potrà che produrre confusione, insicurezze e contenziosi.
Si dimostrerà in tal modo che il “piano casa” è, in realtà, un’impostura. Il tutto – come spesso accade – a spese del territorio.
CAGLIARI. Berlusconi l’aveva detto: il piano casa darà alle famiglie la possibilità di realizzare una cameretta in più per i bambini. Difficile pensare che il premier possa sentirsi stretto nelle sei ville galluresi in cui trascorre vacanze dorate con amici e stuoli di fanciulle.
Eppure è certo che una dalle sue società, la Idra Immobiliare spa, ha chiesto alla commissione paesaggistica regionale il pronunciamento di compatibilità per un progetto di ampliamento che riguarda la Certosa, prima residenza estiva del premier, teatro di festini e ricevimenti popolati di leader politici e veline: si tratta di un numero imprecisato di bungalow, strutture probabilmente abitabili piuttosto lontane dal corpo centrale della villa, che forse il capo del governo intende destinare agli ospiti. La richiesta è legata al primo piano casa, a quell’insieme di norme un po’ confuse varate dalla giunta Cappellacci all’alba della legislatura secondo le indicazioni del governo nazionale. Il piano paesaggistico regionale elaborato dall’amministrazione Soru impedirebbe qualsiasi aumento di volumetria nella sterminata area che circonda la residenza, ma grazie al piano casa regionale - ispirato dallo stesso Berlusconi - la Idra Immobiliare non dovrebbe avere alcuna difficoltà ad ottenere il nullaosta della commissione, malgrado alcuni componenti dell’organismo di valutazione abbiano manifestato perplessità: il terreno disponibile è vasto ma i bungalow, simili a tucul di disegno africano, provocherebbero un impatto visivo sgradevole. A confermare l’esistenza del progetto e dell’istanza di ampliamento è stato il presidente della commissione, l’artista Pinuccio Sciola: «Abbiamo fatto in tempo soltanto a dargli un’occhiata - ha spiegato il celebre scultore di San Sperate - ma il procedimento è in corso, la pratica risale a circa una settimana fa». Berlusconi, attraverso la Idra, già nel 2006 aveva realizzato pesanti interventi edilizi a villa Certosa e sulla spiaggia, imponendo il segreto di Stato. Dopo l’intervento degli ambientalisti e poi della Procura l’amministratore della società Giuseppe Spinelli era finito sotto processo a Tempio: tredici capi d’imputazione contestati dall’allora procuratore capo Valerio Cicalò, tutti riferiti ad abusi edilizi e violazioni delle norme ambientali. Spinelli però era stato assolto dal giudice Vincenzo Cristiano perchè una parte dei lavori era autorizzata e il resto risultava condonato in tempi diversi. Il nuovo progetto edilizio di Berlusconi sembra scorrere sui binari della piena legalità e sulla scia di atti pubblici: per ottenere il via libera dalla Regione la società immobiliare si è agganciata saldamente alle norme del piano casa, una corsia preferenziale disegnata dagli uffici dell’assessore all’urbanistica Gabriele Asunis per chi non si accontenta di quanto è già costruito. Così la blasonata e chiacchieratissima villa Certosa è finita nel calderone dei progetti di ampliamento piovuti sulla commissione del paesaggio, costituita poche settimane fa: fino ad oggi le richieste sono ventidue, quasi tutte riguardano aumenti di volumetria in superfici vicinissime al mare, alcune nella fascia dei trecento metri. Ci sono hotel, villaggi turistici e lussuose ville private: nessuna traccia di case familiari, nessuno sembra guidato dall’impellente necessità di realizzare uno spazio vitale per bimbi in arrivo. Alcuni progetti sarebbero di qualità imbarazzante: «È presto per dare giudizi - taglia corto Sciola - abbiamo appena avviato il lavoro, vedremo nei prossimi giorni».
La Forestale esamina tutti i progetti
Nuove cubature anche nei villaggi di Ligresti e di Mazzella
Il piano casa ha lanciato una nuova corsa al cemento e la procura della Repubblica ha deciso di verificare se le richieste avanzate da operatori turistici e privati, pronti ad allargarsi verso il mare, siano in linea con le norme del piano paesaggistico regionale e del codice Urbani. Non c’è ancora un’inchiesta: il nucleo investigativo del Corpo forestale è impegnato da giorni in uno screening dei progetti e degli atti conseguenti depositati nei comuni e negli uffici regionali. L’assalto alle coste è in corso: in provincia di Cagliari risultano istanze di accesso al piano casa presentate dal Tanka Village del gruppo Ligresti e dal Pullman-ex Timi Ama di Giorgio Mazzella, due strutture enormi che aspirano a occupare nuovi spazi sulla costa di Villasimius. Fra le residenze private candidate alla crescita spicca quella del leader dei Riformatori Massimo Fantola, a Santa Margherita di Pula: è sotto verifica da parte del Corpo forestale. Ma il numero delle istanze è destinato ad aumentare soprattutto grazie all’approvazione il 12 maggio del disegno di legge che precisa le competenze del Suap, lo sportello unico per le attività produttive creato dall’amministrazione Soru il 5 marzo 2008: doveva servire ad accelerare, fino a ridurli a venti giorni, i tempi delle pratiche autorizzative per l’avvio di un’iniziativa imprenditoriale. Una sorta di autocertificazione, utile per scavalcare le lungaggini burocratiche. Quella norma prevedeva una procedura semplificata anche per le autorizzazioni edilizie, ma non specificava se il riferimento fosse per gli edifici legati all’impresa: era scontato che lo fosse. Ma se la giunta Soru pensava solo a capannoni, fabbriche e uffici necessari per lavorare l’esecutivo guidato da Ugo Cappellacci ha fornito con il ddl un’interpretazione estensiva della norma, una rilettura esplicativa proposta dagli assessori all’urbanistica Gabriele Asunis e all’industria Sandro Angioni: la giunta ha chiarito che all’interno delle attività economiche e produttive per beni e servizi che hanno diritto alla procedura Suap sono comprese anche quelle edilizie ad uso residenziale. Come dire che una legge elaborata per agevolare l’impresa ha finito per aiutare i privati. La via da seguire è molto semplice: chi progetta di costruire un hotel, ma anche una villa, può rivolgersi a una ditta, che a sua volta presenta l’elaborato al Suap con le autocertificazioni e gli atti indicati dalle norme. In venti giorni la pratica si considera espletata. Insomma: si può aprire il cantiere. Una via breve graditissima alle imprese immobiliari, che potranno far girare le betoniere senza attendere l’esito dei procedimenti di autorizzazione. È chiaro che questa procedura non salva dal rischio legato ai controlli: Comuni, Regione e polizia giudiziaria potranno verificare la regolarità degli atti e la conformità alle norme paesaggistiche e ambientali. Ed è quello che sta facendo il nucleo investigativo del Corpo forestale, un lavoro di controllo su quello che ormai si delinea come un passaggio storico per la Sardegna: dal rigore ecologista del piano paesaggistico targato Soru all’opportunità per chiunque abbia denaro da spendere di portare nuovo cemento in siti delicatissimi, dove ormai nessuno pensava si potesse più mettere su un solo mattone. (m.l)
Interventi liberi nelle case. con il rischio di danni e contenziosi. il governo vuole il boom edilizio a tutti i costi. ma ora persino architetti e costruttori lo bocciano
Nella migliore delle ipotesi è una presa in giro, nella peggiore è una catastrofe: l'ennesima deregulation edilizia varata d'urgenza dal governo tre giorni prima delle elezioni regionali è stata sommersa da un diluvio di critiche. Alle contestazioni degli ambientalisti (tutti), dei migliori urbanisti e dei più attenti politici dell'opposizione (pochi), si sono aggiunte le denunce, inattese e pesantissime, dei professionisti del mattone: per costruttori e immobiliaristi l'annunciata liberalizzazione rischia di rivelarsi "inutile come il piano casa", mentre per architetti e tecnici è comunque "un pericolo per la sicurezza". Sotto accusa c'è l'emendamento sull''attività edilizia libera', che da venerdì 26 marzo consente di modificare le case degli italiani senza alcun permesso o verifica pubblica e senza neppure un progetto firmato dall'ultimo dei geometri.
In un Paese dove più di metà dei cittadini vive in zone a rischio di frane, alluvioni, terremoti o eruzioni, l'esigenza di regole e controlli è sentita da tutti, subito dopo i disastri. Poi, seppelliti i morti, si ricomincia a costruire. Senza regole. Anzi, a unificare gli ultimi trent'anni di legislazione edilizia è un'ideologia turbo-liberista che ha come bandiera proprio l'assenza di controlli, descritti come ostacoli allo sviluppo.
L'emendamento-scandalo, inserito a sorpresa nel decreto-incentivi e firmato personalmente dal premier Berlusconi con i ministri Tremonti, Scajola e Calderoli, è entrato in vigore il giorno stesso della pubblicazione. Sotto lo slogan della 'semplificazione', prevede, in generale, che "gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo". Per i lavori interni alle abitazioni, ad esempio per abbattere una parete, il precedente testo unico del 2001 si accontentava della 'Dichiarazione di inizio attività' (Dia): si presentava un progetto, firmato da un tecnico responsabile e s'informava il Comune, che aveva pochi giorni per controllare e bloccare i fuorilegge. Di fatto, il caos delle competenze e il sovrapporsi di norme continuava a rendere ogni minimo intervento un'odissea senza confronti con alcun paese civile, almeno per gli italiani rispettosi delle regole. Di qui tante oneste richieste di uscire dalle trappole delle burocrazie edilizie, spesso corrotte. È da questo malessere reale che nasce la semplificazione targata 'casa Silvio'.
D'ora in poi 'l'interessato' a rifare un'abitazione, secondo l'equivoca formulazione dell'emendamento, non ha più bisogno di niente: né di un progetto né di un tecnico che si assuma la responsabilità. Per gli interventi 'straordinari', basta mandare una 'comunicazione' al Comune, anche per e-mail, limitandosi a indicare l'impresa che si 'intende' utilizzare. E per le 'opere di manutenzione ordinaria' non serve neanche quella: si chiamano i muratori e basta, senza dire più niente a nessuno.
"È una leggina irresponsabile nel vero senso della parola", denuncia Edoardo Zanchini di Legambiente: "Senza un progetto, non c'è più un responsabile tecnico. L'impresa edile è comunque svincolata, perché esegue gli ordini del proprietario. Il quale in teoria resta l'unico responsabile, ma normalmente non ha le competenze necessarie a stabilire, per esempio, se sta facendo abbattere una parete portante anziché un tramezzo. Mentre il Comune, senza la Dia, non sa più cosa succede e perde il potere d'intervento. L'abolizione di ogni regola crea gravissimi problemi di sicurezza soprattutto per chi vive in condomini a più piani: d'ora in poi ogni inquilino dovrà fidarsi non solo dell'onestà, ma anche delle capacità tecniche del vicino. L'unica certezza è un aumento delle liti, dei lavori in contrasto con le norme europee sul risparmio energetico e, in prospettiva, dei crolli e dei disastri impuniti".
"Totale contrarietà a ogni insensata deregolamentazione edilizia": anche il Consiglio nazionale degli architetti boccia con parole severe "una demagogica semplificazione amministrativa" che nasconde "un condono mascherato dell'abusivismo" e "induce gravissime conseguenze per la sicurezza del patrimonio edilizio". Sempre secondo gli architetti, "l'assenza di ogni controllo di professionisti abilitati determinerà la proliferazione di interventi di scarsa qualità tecnica, senza alcuna garanzia per l'utente e la collettività, in totale dispregio delle tutele per i lavoratori".
Zanchini misura così il salto berlusconiano dalla semplificazione al Far West: "Regioni come la Toscana autorizzano già ora perfino nuove costruzioni con la semplice Dia, ma in un quadro di regole precisissime e rigorose responsabilità tecniche. Con il decreto del governo, invece, la sicurezza è salva solo a parole. Nei fatti si chiama il proprietario ad autocertificare che non c'è pericolo. E lo si lascia libero di affidare i lavori anche alla ditta individuale ai margini della legalità, che magari subappalta in nero, o al muratore straniero con la partita Iva. E quando crollerà il palazzo, nessuna autorità saprà più dire chi debba risponderne". Insomma, più macerie per tutti: il precedente piano di 'semplificazione', del resto, sospendeva perfino le norme anti-sismiche e fu ritirato solo dopo il terremoto in Abruzzo.
Dall'altra parte della barricata, costruttori e immobiliaristi sono insoddisfatti per motivi opposti. L'obiettivo proclamato dal governo è lo stesso del piano casa: battere la crisi stimolando un nuovo boom edilizio. Ma i primi a non crederci sono i potenziali beneficiari. Non potendo abolire le Regioni o i terremoti, infatti, il decreto legge ha dovuto riconfermare che restano valide, almeno sulla carta, "le disposizioni regionali e comunali più restrittive" e tutte le "norme antisismiche, antincendio e di sicurezza". Se questo fosse vero (ma l'emendamento non è chiaro, per cui si annunciano interpretazioni elastiche, forzature e cause a valanga), l'obbligo di presentare un progetto tecnico controllabile dal Comune dovrebbe sparire solo in Sardegna e Friuli, dove le giunte di centrodestra avevano già abolito la Dia. Nelle altre 18 regioni, secondo 'Il Sole 24 Ore', l'applicazione è incerta o da escludere. Per cui, se davvero restano salve le regole più severe, la liberalizzazione si applica sicuramente solo dove è superflua e quindi inutile.
"Il decreto legge sulla deregolation in casa è destinato a finire nel nulla: la semplificazione è una storia già scritta, quella del piano casa", è l'eloquente commento di Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia, che già teme un bis del grande programma berlusconiano annunciato il 6 marzo 2009. Il piano casa prometteva di rilanciare l'Italia con due colate di cemento: subito, aumenti di cubatura per i privati già proprietari; in futuro, migliaia di nuovi alloggi popolari da costruire con soldi pubblici. Al primo appello hanno risposto in pochi, come ricorda Italia Nostra, "grazie ai limiti imposti da Regioni e Comuni che hanno rifiutato di svendere i centri storici per fare cassa". Il piano casa è stato un flop perfino in Veneto, che con il governatore Giancarlo Galan aveva strappato a Liguria e Lombardia il record della cementificazione, con punte di oltre 50 milioni di metri cubi l'anno.
Per l'edilizia pubblica, il governo ha stanziato 377 milioni, che però attendono ancora i gestori dei fondi. Mentre la Corte Costituzionale, lo stesso 26 marzo, ha demolito quattro pilastri del piano belusconiano. Punto primo: cancellando un furbissimo 'anche', i giudici delle leggi hanno ristabilito che i soldi dello Stato si potranno spendere solo per dare alloggi ai poveri e ai bisognosi, e non 'anche' per progetti diversi. Secondo: le case popolari le faranno le Regioni. Terzo: basta "procedure d'emergenza" sul modello Bertolaso o appalti senza gara come per le "infrastrutture strategiche". Quarto: è incostituzionale per la seconda volta (il governo ci aveva già provato nel 2005) imporre la svendita di alloggi Iacp calando dall'alto "convenzioni con società private" o strane "semplificazioni".
Delusi dalle promesse, anche i piccoli e medi costruttori riuniti nell'Ance cominciano a sentirsi stretti fra due fuochi. In alto c'è una specie di cupola di big che bruciano miliardi con le grandi opere berlusconiane. E ora, con la deregulation, a scottare è anche la concorrenza dal basso delle micro-ditte pronte a tutto per spartirsi i lavori casalinghi. Mentre la Direzione nazionale antimafia, nell'ultimo dossier, denuncia che "l'edilizia resta in assoluto il settore più inquinato da imprese criminali".
In Italia, secondo l'Agenzia del territorio, nel 2009 le vendite di immobili sono crollate dell'11,3 per cento. Mentre la Cgil-Fillea registra centomila disoccupati in più e "almeno 300 mila lavoratori in nero". Con 27 morti nei cantieri solo tra primo gennaio e 19 marzo 2010: uno ogni tre giorni.
Gli economisti ricordano che la più grave recessione mondiale dal 1929 è stata causata da "un eccesso di credito all'edilizia", che troppe banche hanno pensato di coprire con un'overdose di finanza creativa. Ma allora perché il governo ripropone di curare la crisi con iniezioni 'omeopatiche' di cemento? Vezio De Lucia, uno dei maestri dell'urbanistica italiana, risponde così: "È una posizione ideologica, non economica. C'è un pensiero unico neoliberista che in Italia è dominante da trent'anni. Anche a sinistra pochi ricordano che l'autunno caldo del 1969 era nato dalle grandi manifestazioni per la casa degli operai emigrati al Nord. Tra gli anni '60 e '70 ministri come Sullo, Bucalossi e Mancini ebbero il coraggio di limitare l'oscenità della speculazioni immobiliari con leggi che favorirono l'edilizia pubblica, sancirono la separazione tra proprietà fondiaria e licenza di costruire, vincolarono i parchi ancor prima dei piani regolatori. La controriforma urbanistica è iniziata negli anni '80, con i primi accordi in deroga previsti della legge Signorile e con l'edilizia contrattata dai costruttori di Tangentopoli. Da allora anche nelle regioni rosse si è diffusa una generale sudditanza al neoliberismo della nuova destra: al buon governo del territorio, del verde e del paesaggio, alla cultura delle regole si sostituisce l'ideologia dell'assenza di controlli, del profitto privato come unico valore. E qualcuno si meraviglia ancora dell'ennesima deregulation berlusconiana? In Lombardia, in Veneto, in quasi tutto il Paese ha stravinto l'edilizia senza regole. In Italia l'urbanistica è morta".
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 12 marzo 2010, ha impugnato la l.r. Calabria, n. 5 del 2010, di attuazione dell'Intesa sancita in data 1° aprile 2009 (c.d. piano casa).
La legge regionale calabra presenta però una peculiarità: essa è non stata approvata dal Consiglio regionale – organo legislativo della Regione (art. 121, Cost.) – ma dal Presidente della Giunta regionale, quale commissario ad acta. Il Governo, infatti, visto il mancato recepimento dell’intesa del 1° marzo, ha fatto ricorso – per la prima volta, a quanto consta – ai poteri sostitutivi di cui all’art. 120, comma 2° Cost., incaricando il presidente della Regione a porre in essere “ogni idonea attività, anche di natura legislativa” per assicurare il recepimento del piano casa in Calabria. La vicenda risulta allarmante da diversi punti di vista, ma soprattutto se si ricorda che i poteri sostitutivi di cui all’art. 120 Cost., secondo la Corte costituzionale, si riferiscono “a emergenze istituzionali di particolare gravità, che comportano rischi di compromissione relativi ad interessi essenziali della Repubblica” (Corte cost. n. 43 del 2004).
In ogni caso, la l.r. cit. stabilisce che i principi e gli obbiettivi contenuti nell'intesa del 1° aprile “sono integralmente recepiti nell’ordinamento legislativo regionale” (art. 1, comma 1) e che la giunta regionale deve adottare, entro sessanta giorni, “ogni conseguente disciplina attuativa di natura regolamentare, nel rispètto degli obbiettivi individuati all'articolo precedente”.
Il Governo però non si è ritenuto soddisfatto e – oltre ad avere sollevato conflitto di attribuzione con il presidente della giunta regionale quale commissario ad acta per violazione dei principi di leale collaborazione – ha impugnato detta legge innanzi alla Corte costituzionale, in quanto, di fatto, produrrebbe un ulteriore “differimento dei termini per la concreta attuazione dell'intesa” (così il comunicato stampa del Dipartimento per gli affari regionali).
Il piano casa, in realtà, è un laboratorio di illegalità costituzionale.
Chiunque può riprendere questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it
Varato, colpito e (quasi) affondato. E’ cominciata sotto i peggiori auspici la navigazione del decreto sulle cosiddette liberalizzazioni edilizie, fraseologia elegante che in sostanza vuol dire: possibilità di ristrutturare casa senza dire niente a nessuno, senza alcuna autorizzazione preventiva delle autorità pubbliche (la famosa Dia, Dichiarazione inizio attività) e, cosa peggiore e preoccupante, senza l’ausilio di alcun progettista professionista, architetto, ingegnere o geometra che sia. Con tutto ciò che ne consegue in termini soprattutto di sicurezza non solo per il proprietario dell’immobile, tentato magari di picconare per ignoranza perfino i muri maestri. Ma anche per i vicini. In pratica una specie di finto piano casa o, peggio, un pericoloso condono edilizio mascherato e preventivo, l’ennesimo in un paese malato di furbizia edile e sfregiato dall’abusivismo.
LA NORMA.
La norma era stata varata in tutta fretta dal Consiglio dei ministri il giorno successivo alla clamorosa protesta del Comitato di presidenza dell’Ance (Associazione dei costruttori della Confindustria) composto dai rappresentanti delle associazioni territoriali dei 100 capoluoghi italiani. Il decreto era stato elaborato dal ministero dell’Economia di Giulio Tremonti con un intento elettorale duplice, non dichiarato, ma evidente: strizzare furbescamente l’occhiolino ai proprietari di case desiderosi di rimettere alla chetichella le mani sulle mura domestiche e nello stesso tempo far balenare a pochi giorni dal voto regionale l’occasione di lavori per una categoria di 34 mila imprese stremata dalla crisi e imbufalita. Invece di accattivarsi le simpatie di proprie-tari e costruttori, a cose fatte quel testo rischia di essere un boomerang per il governo perché non accontenta nessuno e non risolve niente. Non accontenta soprattutto i costruttori che si sentono addirittura presi in giro. I 100 dirigenti dell’Ance avevano chiesto a Berlusconi roba seria: lo sblocco del piano casa preparato dall’esecutivo un anno fa e poi abbandonato al suo destino senza l’ausilio di quel decreto di semplificazione che avrebbe dovuto essere un viatico per la partenza. E poi la ripresa del programma di piccole e medie opere immediatamente cantierabili e infine l’avvio del piano per l’edilizia scolastica e carceraria. Il governo ha risposto con un decretino che riguarda gli interventi edilizi minimi, alla portata di aziendine artigiane e anche più piccole, magari sprovviste perfino del Durc, documento unico di regolarità contributiva non previsto come obbligatorio dal testo governativo.
I DUBBI.
Quella norma, inoltre, è di incerta applicazione. Vale solo in quelle regioni in cui non sia in vigore una normativa di diverso orientamento in materia, per esempio per quanto riguarda l’obbligo della Dia. Sono solo 2 le regioni italiane che si trovano in queste condizioni: il Friuli e la Sardegna. Ma dal momento che lì hanno già escluso l’obbligo della Dia, il decreto del governo è del tutto inutile anche per loro. Un clamoroso flop. E infatti i costruttori dell’Ance sono tutt’altro che soddisfatti. Il presidente del Veneto, Stefano Pellicciari, per esempio, ha confermato la protesta di piazza dei suoi associati subito dopo Pasqua per ribadire tra l’altro al governo la richiesta di un finanziamento straordinario sull’invenduto, cioè su quelle case costruite a iosa soprattutto nel nordest che nessuno compra causa crisi e che ora pesano come un macigno finanziario sul groppone dei costruttori.
GLI ARCHITETTI.
Sul fronte dei contrari ci sono, infine, i professionisti del settore edile completamente ignorati dalla norma e presi in giro. Nella fase di elaborazione del testo i rappresentanti del Consiglio degli architetti avevano raccomandato che fosse previsto l’obbligo di un progetto da parte di un tecnico per scongiurare interventi pericolosi e il rispetto delle norme antisismiche, sanitarie e paesaggistiche. Nonostante le assicurazioni verbali, quell’obbligo, però nel testo finale non c’è. Ieri sono tornati alla carica gli architetti di Roma che annunciano un’azione di pressione sul governo per cambiare il decreto: “Vorremmo che la politica si ricordasse che esiste in Italia un mondo delle professioni portatore di valori e competenze utili per il bene di tutti”.
Pdl e Udc all´attacco sul piano casa
Lombardo: "Evitata la loro sanatoria"
di Antonio Fraschilla
«Abbiamo evitato una sanatoria, adesso siamo pronti per un´altra battaglia sulla riforma degli Ato rifiuti e contiamo sul sostegno dei democratici, che sulle riforme ci verranno incontro». Il governatore Raffaele Lombardo, sotto attacco da parte di Udc e Pdl dei lealisti che sul piano casa parlano di «affari loschi e clientele», difende la legge votata dalla maggioranza variabile dell´Ars formata da Mpa e Pdl Sicilia con il sostegno del Pd e, e punta dritto al riordino del sistema di gestione dei rifiuti.
Anche ieri tutti i parlamentari di Udc e Pdl, che durante la votazione del piano casa sono usciti dall´Aula per protesta, hanno attaccato il governatore, denunciando «interessi poco chiari». Sul banco degli imputati è finito un emendamento del governo poi ritirato, che prevedeva la delocalizzazione: cioè la possibilità per chi ha costruito in terreni inedificabili, come Pizzo Sella, di abbattere e ricostruire altrove. Emendamento sostenuto anche dal Pd: «Da quanto accaduto in aula - dice il capogruppo dell´Udc all´Ars, Rudy Maira - è chiaro che il Pd è diventato parte integrante del governo Lombardo. L´impegno messo dal Pd nell´elaborazione del ddl e nella difesa degli emendamenti più sospetti, fanno capire che questo partito è portatore di interessi non trasparenti». Ancora più duri i toni del presidente della commissione Ambiente e territorio, Fabio Mancuso (Pdl): «Il Pd ha difeso norme scandalose che avrebbero consentito il sacco edilizio di Palermo»». Anche per Toto Cordaro (Udc) «dietro ad alcuni emendamenti c´erano affari poco chiari e dobbiamo ringraziare il deputato Cateno De Luca che in Aula ha spiegato bene cosa stava per fare Lombardo». «A un certo punto in Aula volavano foglietti con emendamenti riscritti più volte - dice il capogruppo del Pdl, Innocenzo Leontini - Cracolici è intervenuto più volte contraddicendosi»».
Il governatore invece è raggiante e rimanda al mittente tutte le accuse: «Siamo stati noi a evitare una mega sanatoria, bocciando emendamenti presentati dal Pdl - dice Lombardo, che ieri insieme all´assessore all´Industria Marco Venturi ha annunciato lo sblocco del fondo da 55 milioni di euro per il commercio - Riproporremo la delocalizzazione in un altro disegno di legge, perché per noi è una buona idea per ripulire il territorio devastato dall´abusivismo è dell´incuria, come accaduto in molti Comuni della fascia Tirrenica che hanno consentito di costruire accanto ai fiumi. Non capisco l´arringa fatta dal deputato Cateno De Luca, che ha votato molti emendamenti».
Lo scontro comunque è subito ripreso ieri in Aula per l´avvio della discussione sull´altro disegno di legge molto atteso, quello della riforma degli Ato rifiuti. L´assessore Piercarmelo Russo, relatore del testo che prevede la riduzione degli Ato da 27 a 9 e l´affidamento ai Comuni dei contratti di servizio, ha parlato chiaramente «d´infiltrazioni mafiose nel trasporto dei rifiuti e negli appalti esterni»: «La relazione della commissione bicamerale parla di loschi affari di Cosa Nostra sul termovalorizzatore di Bellolampo - dice Russo - La riforma va attuata perché sta portando al dissesto i Comuni». In Aula si sono ripetuti le stesse posizioni che sul piano casa, con Udc e Pdl contrari e il Pd spaccato: «Adesso andiamo avanti sul terreno delle riforme, e sono certo che avremo il sostegno del Pd, a partire dal riordino degli Ato», dice Lombardo.
Il Banco di Sicilia sospende alle imprese delle zone alluvionate di Messina anche il versamento delle quote interessi sui mutui. La sospensione, che deve essere richiesta dagli interessati, viene attivata da marzo e durerà fino al prossimo 31 ottobre, cinque mesi in più di quanto previsto dall´ordinanza diramata lo scorso 27 novembre dalla presidenza del Consiglio. In ottobre la banca del Gruppo Unicredit aveva attivato la sospensione per 12 mesi delle rate dei mutui alle famiglie e delle quote capitali dei mutui alle imprese.
Il "sì" travagliato dei democratici via libera tra malumori e mugugni
di Massimo Lorello
C´è un deputato del Partito democratico che martedì voterà contro il piano casa. La legge tornerà in aula per il varo definitivo. Di solito è un atto formale, ma non per il Pd che sulla norma che sdogana gli ampliamenti per le abitazioni mono e bifamiliari ha rischiato di lacerarsi. Giovanni Barbagallo ha deciso di votare no. Gli altri deputati, invece, garantiranno l´approvazione definitiva della legge. Ma Antonello Cracolici (capogruppo) e Davide Faraone (protagonista della stesura degli emendamenti più rilevati) parlano di «grande successo», di «risposta alle aspettative dei siciliani» e di «stagione delle riforme ormai avviata», tra i loro colleghi di partito c´è chi la pensa in maniera diametralmente opposta.
«Questa norma è un´occasione mancata - attacca Bernardo Mattarella - Una leggina che serve solamente a recepire quanto previsto dall´accordo con lo Stato. La Sicilia, peraltro, è l´ultima regione ad adeguarsi. E laddove è già in vigore, la legge ha prodotto risultati irrilevanti. Le riforme sono un´altra cosa, non scherziamo. Questa legge ha pure aggirato i paletti che il mio partito aveva posto. Noi non volevamo i parcheggi sotterranei nelle aree a verde agricolo e non volevamo nemmeno che la norma fosse estesa alle attività produttive. Io voterò a favore perché il gruppo deve restare compatto, ma evitiamo di considerare questa legge una riforma».
L´unico «no» che arriverà dal Pd per la votazione finale è di Giovanni Barbagallo che dice: «È l´ennesima occasione mancata. Nella nostra regione non c´era bisogno di aumentare il volume edificato, già superiore alla media nazionale, ma di incrementare il verde, ridurre le frane, consolidare gli edifici costruiti nei centri storici e nelle zone a rischio sismico e idrogeologico». E invece, «non solo non si affrontano i temi della sicurezza e del risanamento, ma addirittura, si danneggia ulteriormente il nostro territorio».
Pino Apprendi voterà «sì» ma senza nascondere le sue riserve: «Abbiamo vissuto mesi difficili - dice - con la tragedia di Giampilieri e il dramma di San Fratello. Sarebbe stato opportuno che il mio partito si battesse immediatamente contro il dissesto idrogeologico. La legge sul piano casa si poteva fare dopo, ma l´impegno del nostro gruppo almeno ha neutralizzato tutti i tentativi di sanatoria indiscriminata provenienti dagli altri partiti».
E con i paletti del Pd, «è venuta fuori una buona legge», afferma il vicepresidente dell´Ars, Camillo Oddo, che precisa: «I parcheggi sotterranei potranno essere realizzati nelle aree a verde agricolo che ricadono esclusivamente nel perimetro urbano, quanto all´estensione della norma anche alle attività produttive ritengo sia una scelta sacrosanta. Nella mia provincia, Trapani, per esempio, ci sono numerose aziende che inquinano - per quello che producono, non potrebbero fare altrimenti - e che sono vicine al mare. Con questa legge potremo farle trasferire nelle aree industriali. Non capisco come si possa essere contro».
Il segretario del Pd, Giuseppe Lupo, si concentra piuttosto sugli attacchi esterni, cioè dell´Udc e del Pdl lealista e replica: «Hanno devastato la Sicilia e adesso piangono lacrime di coccodrillo. Il Pd ha dato un contributo importante all´approvazione della legge esclusivamente nell´interesse dei siciliani. La legge rispetta l´ambiente, può attivare investimenti nell´edilizia e rilanciare l´occupazione del settore che nel 2009 ha avuto una riduzione del 18 per cento».
«Ideazione penitenziaria» è stato il tema non proprio lieto di un convegno che si è svolto venerdì scorso a Trieste, indetto dal Sidipe, il sindacato dei direttori delle carceri italiane. Tema del consesso le «carceri galleggianti» per le quali la Fincantieri ha presentato un progetto nella speranza di ottenere nuove commesse pubbliche. Il gioiellino carcerario, che evidentemente sta molto a cuore all'amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono, è una piattaforma di 126 metri di lunghezza, 33 di larghezza, 25 di altezza, per 25 mila tonnellate di stazza lorda. Collocato in un porto o in un arsenale e collegato con la terra, potrebbe ospitare 640 detenuti in 320 celle. Costo un centinaio di milioni e tempo di realizzazione 24 mesi. Un'idea che sembra brillante per risolvere in tempi brevi e in mancanza di più seri interventi legislativi il problema del sovraffollamento dei penitenziari dove si accalcano 67mila detenuti in 43mila posti.
Pare che ai direttori dei penitenziari il progetto di Bono sia piaciuto. Ma subito si sono alzati alti lai di alcune città, a cominciare da Genova, che non gradiscono «Alcatraz» nei loro porti. E soprattutto sul business penitenziario di terra ha già messo le mani la cricca delle emergenze, che notoriamente propende per il cemento. Il piano per far fronte all'emergenza carceraria, annunciato nel dicembre scorso dal ministro Angelino Alfano, ha trovato subitanea accoglienza nell'articolo 17 ter del decreto sulla Protezione Civile Spa, pur modificato dopo l'esplosione dello scandalo, che conferisce poteri totali al commissario Franco Ionta, che può individuare le aree per la realizzazione dei nuovi penitenziari e derogare alle norme urbanistiche, a quelle sugli espropri, al limite nei subappalti, con la Protezione Civile che sceglie progettisti, assegnatari degli appalti, direttori dei lavori e quant'altro. Così è facile prevedere che le 47 «palazzine» per accogliere 21mila detenuti saranno di cemento e in terraferma, con una torta di 600 milioni da spartire tra la cricca. La quale al business carcerario si applica già da anni.
Tre carceri in costruzione in Sardegna, ad esempio, sono stati dati in appalto secretato da Angelo Balducci, deus ex machina del sistema e oggi detenuto, indovinate a chi? A tre delle imprese coinvolte nello scandalo della Protezione Civile: l'Anemone, la Giafi di Valerio Carducci e la Opere Pubbliche, la società di uno di quelli che ridevano nel letto la notte del terremoto dell'Aquila. Gran parte dei lavori per i penitenziari di Sassari, Tempio e Cagliari sono stati dati in subappalto. Il risultato è che, nonostante l'urgenza che dovrebbe giustificare la deroga a tutte le leggi, sono in costruzione da sei anni, come hanno documentato Guido Melis e Donatella Ferranti, deputati Pd della Commissione Giustizia della Camera. In compenso, Anemone ha già incassato 26 milioni, Carducci 31e Piscicelli 39, su un totale complessivo previsto in oltre 200 milioni Per cui si mettano l'anima in pace Bono, la Fincantieri e i sindacati che vogliono salvare l'occupazione cantieristica. Il business cementiferocarcerario è già segnato.
Sono diventato in queste settimane un appassionato lettore di intercettazioni telefoniche, a tratti avvincenti («la cronaca è letteratura sotto pressione» - diceva Oscar Wilde). I molti riscontri che provengono dai densi, disinvolti dialoghi tra i protagonisti della nuova corruzione aiutano a capire i metodi usati per il controllo della spesa in opere pubbliche. Se si osserva con cura si capisce che in questa competizione non è solo in gioco la conquista di maggiori risorse da parte di imprese concorrenti, da fare crescere con trucchi vari. Non è il solito balletto tra corrotti e corruttori. La contiguità tra politici, soggetti attuatori e imprese evidenzia l’egemonia di queste ultime. Con un danno supplementare per la collettività. Infatti per fare tornare bene i conti è importante per le imprese orientare le scelte relative all’investimento, decidere quali opere servono e non solo quanto costano.
L’esito è molto deprimente tenendo nello sfondo la propensione evidente a estendere il procedimento dalle emergenze alla ordinaria gestione. Le politiche di spesa - e pure di uso del territorio -sono subite da chi dovrebbe decidere nell’interesse pubblico. Se a L’Aquila si interviene in quel modo - nel dopo terremoto - è perché l’imprenditore x o y è riuscito a fare prevalere la sua convenienza. Preferisce, è facile immaginarlo, la costruzione di nuove case alle mille rogne della ricostruzione nel centro storico.
Il bel libro curato da Georg Frisch ( «Non si uccide così anche una città», edito da Clean) tempestivo e attualissimo dopo le novità - le brutte storie del G8 di La Maddalena hanno un seguito a L’Aquila? – spiega la gravità della rinuncia a operare nella parte vecchia della città. In questo quadro tra emergenze e urgenze si è fatta strada facilmente l’idea che sia cosa buona affidare la progettazione esecutiva direttamente alle imprese -togliendo tutti i controlli - con gli esiti sconvolgenti che abbiamo visto. Così il senso che attribuiamo al progetto - presidio del procedimento amministrativo- viene meno perchè tutto si dissolve a beneficio dell’incremento dei costi. Pure il coinvolgimento di stelle più o meno luminose dell’architettura, non riuscirà a eliminare le ombre oscure che resteranno sui costi di opere frutto di procedimenti illeciti. È in fondo il trionfo della de-regolazione che si rispecchia già nella crisi della pianificazione urbanistica: le varianti contrattate (o i fai-da te dei piani casa) dicono della indifferenza diffusa verso il governo del territorio e la tutela e la cura del patrimonio paesaggistico che servirebbero a limitare le troppe emergenze e quindi l’attività della Protezione Civile.
Non abbiamo messo le mani in tasca agli italiani, è il mantra che ripete continuamente il ministro dell'Economia. Non è proprio vero, come noto, ma è sicuramente verissimo che il centrodestra ha messo le mani sulle città. Ha già svenduto per quattro soldi il patrimonio abitativo pubblico e ora si accinge a regalare ai soliti noti caserme, edifici pubblici e perfino le spiagge. È poi verissimo che il governo ha messo le mani sull'ambiente. Con l'impegno personale profuso dallo stesso Berlusconi (sette giorni di personale campagna elettorale) per sconfiggere Renato Soru nelle recenti elezioni sarde: la posta in palio era la cancellazione del piano paesistico e quanto resta delle meravigliose coste sarde fin qui scampate dal cemento. Hanno infine messo le mani sui servizi pubblici. È di ieri la protesta dei presidi delle scuole romane che non hanno i soldi per far funzionare gli istituti e nel Veneto molte scuole sono pulite dai genitori. La sanità, come noto, è sistematicamente smantellata e affidata alle mani amiche degli Angelucci o don Verzè.
Ora la proposta di riaprire, per la quarta volta, un condono edilizio, è la più scandalosa conferma del superamento di ogni limite di legalità e decenza.
L'emendamento presentato ieri nella commissione Affari costituzionali del Senato dai due deputati campani del Pdl Vincenzo Nespoli e Carlo Sarro (e incautamente firmato dalla senatrice Incostante del Pd, che ha poi ritirato la firma) è molto chiaro, cristallino. Questo paese ha già pagato il prezzo di tre condoni. Il primo, nel 1985, ad opera dell'ormai agonizzante pentapartito, utilizzato per rendere legittimi milioni di edifici in particolare nel sud d'Italia. Il secondo nel 1994 - tempestivo biglietto da visita del primo governo Berlusconi - ha sdoganato quanto non era rientrato nei limiti temporali del primo. Il terzo, nel 2003, è servito per perpetuare il cambio di destinazione d'uso di moltissime attività commerciali nate illegalmente all'interno di capannoni industriali.
Quest'ultimo condono aveva due soli argini, sia nel limite temporale che nell'impossibilità di condonare edifici nati in spregio dei vincoli paesaggistici tutelati - come noto a tutti meno che ai due eroici senatori - dalla stessa Costituzione. L'emendamento demolisce i due argini. Si potrà condonare tutto anche nelle aree vincolate. E non è casuale che proprio ieri si sia svolto ad Ischia un corteo di abusivi per richiedere proprio di consentire il condono nelle aree vincolate. Per i voti della vandea si distrugge il paesaggio italiano.
Quello compiuto ieri è dunque l'ultimo atto contro la legalità e contro un civile modo di vivere: le città si costruiscono con le regole, non con la legge dei furbi. Il fatto che i due senatori in questione siano il primo il sindaco di Afragola e il secondo eletto nella circoscrizione di Salerno gettano infine un'ombra sinistra sulla questione. Il rischio concreto di consegnare - ieri con lo scudo fiscale e oggi con l'ennesimo condono edilizio - le chiavi del futuro del paese alla criminalità organizzata.
SASSARI. Prima al mattino a lezione con gli studenti, poi al pomeriggio durante il dibattito organizzato dal Centro di studi urbani. Vezio De Lucia non usa mezzi termini: per lui il «Piano casa» approvato dalla giunta Cappellacci è «un fatto eversivo». Esito, cioè, di una visione complessiva della politica e della società che smonta i codici di valore costituzionali per sostituirli con il prevalere dell’immediato tornaconto personale sugli interessi collettivi. In sintonia con De Lucia, studioso di vaglia e segretario dell’Istituto nazionale di urbanistica [all'inizio degli anni 70 – ndr] , tutti gli altri partecipanti alla tavola rotonda che ieri pomeriggio ha riunito, nell’aula rossa della Facoltà di Scienze politiche, i sociologi Antonietta Mazzette e Camillo Tidore, il giurista Giovanni Meloni, il giornalista Giacomo Mameli, il sindaco di Ollolai Efisio Arbau e il sindaco di Palau Piero Cuccu. Tema: «Dalle regole al fai da te del Piano casa. A che serve l’urbanistica?». Dando per scontato che le regole sono quelle del Piano paesaggistico, ma non solo. Perché ciò a cui il «Piano casa» si contrappone come un esatto contrario è in realtà, per tutti i relatori, la cultura della pianificazione territoriale e della tutela dell’ambiente e del paesaggio inscritta nella carta costituzionale ma anche nelle leggi ordinarie della Repubblica, dal Codice Urbani alle norme che riconoscono alle amministrazioni locali un ruolo preminente in materia urbanistica. E’ contro tutto che, secondo De Lucia, gioca la sua funzione eversiva, di totale ribaltamento di ogni paradigma (politico, etico, giuridico), il «fai da te» incentivato dalla giunta Cappellacci. «Un sentire comune - ha detto Antonietta Mazzette - che nella società ha conquistato spazi crescenti».
Sull’effrazione dei princìpi costituzionali e della legislazione ordinaria che il «Piano casa» comporta ha insistito in particolare Giovanni Meloni. Aggiungendo che le norme approvate dalla maggioranza di centrodestra non hanno neppure la copertura di una legge nazionale; sono soltanto il risultato di un accordo stipulato in una conferenza tra Stato e Regioni. Come i Comuni siano stati messi fuori gioco dal «Piano casa» lo hanno spiegato i due sindaci. Quello di Palau, paese sul fronte caldo della speculazione edilizia e immobiliare, non ha nascosto il timore che si riparta alla grande con le lottizzazioni stile anni Settanta e con la devastazione delle aree agricole adiacenti alle coste. «C’è il rischio - ha detto Piero Cuccu - che il lavoro che da dieci anni stiamo facendo per rimediare agli errori del passato sia di colpo vanificato, annullato».
Regole allora? Ma come, se le elezioni si vincono dichiarandole inutili e dannose, le regole? Per Camillo Tidore e per Giovanni Meloni è urgente riavviare al livello più basso, quello delle singole comunità, processi di partecipazione democratica che consentano di contrastare una deriva che è, insieme, politica e culturale. Chi li possa riavviare, quei processi, resta un interrogativo aperto, dal momento che i valori e le opzioni politiche che imperversano a destra hanno fatto ampia breccia anche nel campo opposto. Non si vince senza autonomia politica e non c’è autonomia politica se non c’è autonomia culturale.
Forse è la consapevolezza di questo dato che porta Vezio De Lucia a un pessimismo radicale sulle sorti della programmazione urbanistica in Italia. «Guardate - ha detto - cosa accadde all’Aquila dopo il terremoto: prima viene l’edilizia, costruire case e neanche per tutti, non importa come; a nessuno interessa il recupero di un tessuto urbano straordinario, che ha una sua storia e una sua originalità. E tutta la stampa, compresa quella progressista, applaude».
Resta l’elenco delle brutture ambientali sarde sciorinato, con la maestria del cronista consumato, da Giacomo Mameli. Alla fine, ciascuno ha ciò che si merita.
Confrontarsi con la realtà, guardare tra le pieghe dei dati per spiegarne il senso, significa nel caso del cosiddetto “piano-casa” denunciare apertamente e nel merito le storture di un provvedimento contro la pianificazione oltre ogni attesa. Non sarà tanto il complesso delle multiformi brutture, quanto l' offensiva contro le regole a pesare nel futuro del Paese. Per questo il lavoro di Antonietta Mazzette che si occupa da anni di politiche urbanistiche nella facoltà di Scienze politiche di Sassari, la passione civile degli studenti del corso, sono di grande utilità per capire e fare capire. Se in tutte le facoltà, (ognuna con le competenze disciplinari proprie) si esaminasse con cura (e coraggio) questo provvedimento, si offrirebbe un grande servizio di informazione auspicabile nelle diverse realtà regionali. Se le tante facoltà che si occupano di pianificazione dicessero che brutto colpo proviene da questo “piano” (un titolo decisamente improprio!) alla credibilità del progetto urbanistico, sarebbe una grande cosa. Per questo il dibattito di ieri -come ha notato Vezio De Lucia -merita una segnalazione con tante sottolineature. (s.r.)
Chiarissimo Direttore, la Regione Campania ha finalmente approvato il Piano Casa. Ci sono voluti mesi per trovare un accordo che portasse alla sua approvazione. Eddyburg ha più volte lanciato l'allarme sul rischio devastazione. Ma i centri storici sono esclusi ed erano esclusi anche le aree C dei parchi e C e D dei nazionali.
Ma i vostri eroi - i consiglieri del Gruppo de La Sinistra, hanno compiuto il miracolo. Dapprima hanno dato il loro voto determinante ad un emendamento che permette l'applicazione nelle zone C dei parchi nazionali, poi, per tutelare contadini e vacche, hanno proposto assieme al capogruppo del PDL un emendamento che consente l'ampliamento delle aziende zootecniche in nome della tutela del Provolone del Monaco.
Forse i provoloni siamo noi!
Lei dice “finalmente”, io dico “purtroppo”. Quella legge è una vergogna. Tale era all’inizio, tale è rimasta. É merito (da quanto so) del consigliere regionale Gerardo Rosania se si è potuto sperare a lungo che quell’infamia non venisse approvata. Lei invece mi sembra gioire dell’approvazione. Questo mi sembra il punto. Che poi alcuni consiglieri della sinistra abbiano commesso in aula errori evidenti mi sembra marginale. L'appoggio del capogruppo Scala all'emendamento sulle stalle in area PUT è ingiustificabile. Ma senza la ferma presa di posizione della Sinistra nel suo complesso, il disegno di legge della giunta sarebbe stato approvato all'inizio di agosto, nella sua originaria formulazione, che è comunque, a nostro parere, di gran lunga peggiore di quella votata alla fine dal consiglio. Le insufficienze della Sinistra non mutano di una virgola il giudizio politico complessivo rispetto all'asse di ferro PD-PDL che ha rappresentato sin dall'inizio l'elemento portante di tutte le fasi di questa triste vicenda.
Era stata, si ricorderà, una invenzione estemporanea del presidente del consiglio che aveva annunciato il piano casa come l’iniziativa del Governo capace di rilanciare l’economia attraverso la rianimazione della stanca edilizia. Un annuncio che tenne campo in una non breve stagione politica e attrasse la generale attenzione. Berlusconi espose un progetto definito minutamente nelle ipotesi di concesso aumento quantitativo delle costruzioni esistenti e ne fece anche oggetto di uno schema di decreto legge, diffuso dal suo ufficio stampa. Un premio di cubatura a favore di chi la casa già ce l’ha, l’edilizia insomma contro l’urbanistica, perché i concessi incrementi quantitativi si impongono sulle diverse previsioni dei piani regolatori. Una libera uscita, guidata e a termine, da regole opprimenti. Un condono preventivo di minori (così considerati) abusi edilizi.
Ma la cultura urbanistica e istituzionale di Berlusconi (e dei suoi consiglieri) non aveva messo in conto che edilizia ed urbanistica, il governo del territorio secondo il lessico del rinnovato titolo V della Costituzione, fanno materia di potestà legislativa concorrente, limitata, quella dello Stato, alla determinazione dei principi fondamentali. E certo non poteva passare per principio fondamentale la previsione legislativa di specifiche ipotesi, minutamente disciplinate, di sospensione temporanea della applicazione dei piani regolatori.
Se ne accorsero con qualche ritardo, dapprima perplesse, le Regioni, che non contestarono il merito della iniziativa governativa, ma fecero quadrato a difesa dalla indebita invasione di campo. La eccezione istituzionale aveva la forza di far irrimediabilmente cadere l’annunciato piano casa. Ma le Regioni si diedero disposte a riceverlo in successione, anzi a farlo proprio, e nella intesa raggiunta nella conferenza unificata Stato – Regioni siglarono l’ impegno a metterlo entro tempi certi nelle loro leggi. Non lo fecero, si intende, senza corrispettivo, perché pretesero dal Governo che rapidamente, entro dieci giorni con decreto legge, semplificasse la disciplina dei procedimenti per il rilascio dei concorrenti titoli abilitativi degli interventi edilizi nelle materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato, dunque innanzitutto per il rilascio di autorizzazioni paesaggistiche e le verifiche preventive sulla osservanza delle misure antisismiche. A quell’intesa seguì di pochi giorni il disastroso sisma d’Abruzzo, di quel decreto legge non si fece nulla e le Regioni si guardarono bene dal pretendere dal Governo l’osservanza del suo impegno (ad attenuare il rigore dei controlli preventivi in funzione antisismica?). Certo è che del decreto legge, con i previsti contenuti, le Regioni non avevano bisogno per far le loro leggi – piano casa.
Non dunque per questa ragione (perché manca il decreto legge) le leggi regionali già approvate e prossime ad essere approvate in adempimento dell’impegno assunto nella conferenza unificata si espongono a rilievi di legittimità costituzionale. Perché tutte non toccano la disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio (i modi della autorizzazione paesaggistica) e neppure certo la disciplina antisismica.
Non interessa qui affrontare la valutazione comparativa delle leggi regionali – piano casa approvate e prossime all’approvazione. Rimandiamo alle accurate analisi critiche che più centri studio hanno compiuto, mettendo in evidenza le diverse applicazioni dei criteri definiti nell’intesa con il governo, talune perfino estensive, altre più giudiziosamente restrittive come quelle delle leggi di Toscana ed Emilia Romagna, che hanno tentato di ridurre a margini decenti gli inevitabili contrasti con le vigenti discipline di piano regolatore (e hanno per altro riconosciuto ai Comuni la facoltà di escludere l’efficacia del piano casa da speciali definiti ambiti del loro territorio). Perché è chiaro a tutti che si tratta di una misura eccezionale con efficacia a tempo determinato (diciotto o ventiquattro mesi) che esonera in previste e regolate ipotesi edilizie dalla applicazione della vigente e più restrittiva disciplina di piano. Che alla data scadenza riprenderà il suo pieno vigore e dunque vieterà per l’avvenire quegli incrementi edilizi temporaneamente legittimati. Per il principio di non contraddizione neppure le leggi più virtuose possono essere riuscite a far rientrare le nuove misure nella vigente generale pianificazione, perché sarebbe venuto meno il fine stesso dello speciale intervento legislativo, non ne sarebbe concettualmente concepibile la limitata efficacia nel tempo.
Non si è però riflettuto che simili leggi regionali che esonerano temporaneamente dalla osservanza della vigente disciplina urbanistico-edilizia contrastano per certo con i principi fondamentali che orientano la legislazione (concorrente) nella materia del governo del territorio. E se è vero che ancora il parlamento non ne ha formalizzato in un unico testo legislativo i principi fondamentali (la cui determinazione, in materia di potestà legislativa concorrente, è riservata allo Stato), quei principi ben possono e debbono essere riconosciuti operanti nella vigente legislazione statale nella stessa materia. Non sembra allora contestabile che a muovere dalla legge “ponte” del 1967 ancora in gran parte vigente, il sistema legislativo del governo delle trasformazioni urbane e territoriali si è consolidato sull’essenziale principio per cui tutte le trasformazioni anche edilizie debbono essere previste in strumenti generali di pianificazione che ne valutino la rispondenza agli interessi generali degli insediamenti. E contro questo principio, il principio fondamentale del governo del territorio (in difetto del quale il governo stesso si nega), si sono per certo poste tutte le leggi regionali - piano casa, che hanno sospeso a tempo l’applicazione dei piani regolatori, consentendo interventi di trasformazione edilizia non previsti quindi vietati nei vigenti strumenti urbanistici e nella relativa disciplina attuativa. Non sarà certo il Governo, che con l’intesa ha impegnato le Regioni a legiferare contro i principi fondamentali, a sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. E sembra difficile che l’applicazione delle leggi regionali così fatte diano motivo a contenziosi giudiziari nei quali la questione di legittimità costituzionale possa essere sollevata incidentalmente. E tuttavia non vogliamo piegarci a constatare inerti il grave caso di sofferenza istituzionale.