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La Repubblica, ed. Firenze, 11 novembre 2015

UN Papa cittadino: è questa l’immagine, davvero inedita, con cui Francesco si è presentato tra noi. Abbiamo conosciuto pontefici condottieri e pontefici teologi: ma Francesco è il primo Papa che mostra di aver profondamente introiettato i valori della democrazia, considerando anche se stesso come membro della comunità civile, oltre che di quella religiosa. «I credenti sono cittadini – ha scandito ieri Francesco – E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta».
Arte e cittadinanza! Quanto si vorrebbe veder affiorare questo nesso essenziale sulle labbra di chi governa il nostro Paese, e la nostra città. Un nesso che – per Francesco – non è reso esclusivo o parziale dalla terza forza che ha invocato: quella per lui più importante, quella della fede. Il Papa si è fatto portare in Battistero l’opera d’arte che ama di più, il Crocifisso bianco di Marc Chagall: e qui non conta il giudizio estetico o storico artistico, conta il fatto che quel Gesù non è stato pensato e dipinto da un cristiano, ma da un ebreo, che per di più aveva partecipato alla Rivoluzione Russa del 1917. E da un ebreo nel 1938: dietro al Cristo si vedono le sinagoghe in fiamme, i patriarchi dell’Antico Testamento che urlano il loro dolore per il Popolo Eletto che precipita nell’Olocausto, l’Armata Rossa come unica speranza di riscatto. Bergoglio vede dunque davvero l’arte come una via maestra per costruire una cittadinanza inclusiva.
Pochi giorni fa un giornalista ‘di strada’ olandese ha chiesto al Papa: «Il Suo omonimo San Francesco scelse la povertà radicale e vendette anche il suo evangeliario. In quanto papa, e vescovo di Roma, si sente mai sotto pressione per vendere i tesori della Chiesa?» Il papa ha risposto così: «Questa è una domanda facile. Non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell’umanità. Per esempio, se io domani dico che la Pietà di Michelangelo venga messa all’asta, non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. Sta in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa». È una risposta straordinariamente importante: tanto più se si rammenta che, nel 1978, Paolo VI tentò di vendere proprio la Pietà vaticana di Michelangelo, lacerato dall’immagine di se stesso seduto su un trono dorato mentre il mondo moriva di fame.

Ma ora Francesco dice tre cose nuove. La prima è che non c’è solo la fame materiale: se quel Michelangelo rimane di tutti, può saziare la fame di conoscenza e cultura anche dei più poveri, che è una fame di eguaglianza e giustizia. La seconda è che sulle opere sacre in proprietà della Chiesa c’è una sorta di superproprietà collettiva morale e spirituale di tutta l’umanità (e dunque anche dei musulmani, degli atei, davvero di tutti), e che questa superproprietà vincola le scelte, e limita la libertà del proprietario giuridico: e questa è un’assoluta novità nel rapporto tra la Chiesa e i suoi tesori d’arte. La terza è che il patrimonio culturale non è riducibile al mercato: letteralmente e funzionalmente. Il denaro non può comprare tutto, e il patrimonio culturale non può e non deve essere mercificato, se vogliamo che continui a renderci esseri umani.

Lo dice anche la Costituzione, ma in Italia sembriamo averlo dimenticato.

Il Papa venuto dalla fine del mondo parla a Firenze, al suo rapporto malato con l’arte del passato ridotta a merce. Come dice lui stesso, è una denuncia ed è una proposta: accogliamole entrambe, e niente sarà più come prima.

La Repubblica, 11 novembre 2015

«Non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all'immagine sociale della Chiesa. Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni».

Nove ore di visita. Più di trentamila persone a Prato. Oltre cinquantamila a Firenze, solo allo stadio, per la messa che chiude la giornata. E parole chiarissime di Papa Francesco, nella sua visita in Toscana, con gli echi del caso Vatileaks2 che si ripercuotono in una giornata altrimenti di grande felicità per Jorge Bergoglio, piena di incontri con la gente più umile. Echi che riprendono quota in serata, con le dichiarazioni del suo Segretario di Stato. «Non credo che queste polemiche possano creare un'atmosfera serena» dice il cardinale Pietro Parolin Effettivamente c'è un'atosfera pesante. Se leggiamo i media, vediamo che ci sono attacchi, forse anche poco ragionati, poco pensati, anche molto emotivi, per non usare qualche altra parole. Direi isterici. Ci sono certe resistenze da vincere. Definirle fisiologiche è poco; definirle patologiche è troppo. Ci sono e vanno affrontate in modo costruttivo. Vorrei dire che tutti hanno desiderio di cambiare in meglio. É il miglioramento che il Papa stesso ha chiesto alla Curia»

Alle 7,45 del mattino, a Prato, assieme alle bandierine vaticane giallo-bianche che sventolano, si affiancano quelle cinesi con la scritta in mandarino «Ciao, benvenuto». Sono della copiosa comunità di lavoratori. Appena un'ora di visita qui («Sono un pellegrino di passaggio», scherza il Pontefice). Ma la città del distretto tessile, che porta le ferite della crisi economica e dello sfruttamento, lo accoglie festosa reduce da una notte bianca con canti e preghiere. Francesco nel suo discorso dal pulpito del Duomo va subito al punto: estirpare «il cancro della corruzione», dare un «lavoro dignitoso» perché la tragedia che si è consumata due anni fa, nella zona industriale dove sono morti sette operai cinesi «è una tragedia dello sfruttamento e delle condizioni inumane di vita, e questo non
è lavoro degno!».

Da Roma era arrivato in elicottero, quindi in utilitaria fino a Firenze, poi il giro in città in papamobile. Qui partecipa al convegno decennale della Conferenza episcopale italiana. «Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d'immagine, di denaro». Francesco non cita mai il cardinale Camillo Ruini, l'ex presidente della Cei che ha impersonato un'era del cattolicesimo italiano, tra il collateralismo con la politica e le battaglie sui cosiddetti "valori non negoziabili" (bioetica, famiglia, ecc.), ma pungola i vescovi delle 226 diocesi italiane a voltare pagina.

«Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre pi• vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti», dice nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. «La nostra gioia è anche di andare controcorrente e di superare l'opinione corrente, che, oggi come allora, non riesce a vedere in Ges• pi• che un profeta o un maestro». Aggiunge: «Non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli». Bergoglio cita Dante, Michelangelo e anche Guareschi: ÇMi colpisce la semplicità di don Camillo che fa coppia con Peppone, e come la preghiera di un buon parroco si unisca all'evidente vicinanza con la gente». Davanti a lui, in cattedrale, risuonano le parole emozionanti di una coppia di coniugi divorziati da matrimoni precedenti, e poi felicemente risposati. Francesco incontra gli ammalati, fra loro anche il sottufficiale dei carabinieri Giuseppe Giangrande ferito nel 2013 davanti a Palazzo Chigi.

A pranzo il Papa va alla mensa Caritas di San Francesco Poverino. Presenta la "tesserina" per accedere, e al tavolo con i poveri assaggia un men• toscano con la ribollita e i cantucci finali. Con i commensali scherza, fa un selfie, chiama «papessa»la responsabile della mensa per il piglio con cui è riuscita a mettere ordine fra i sessanta bisognosi, oggi entusiasti.

Allo stadio "Artemio Franchi" («magari quest'anno ci porta fortuna», esclama il giocatore della Fiorentina, Pepito Rossi, molto religioso e presente con la madre), Francesco professa il suo vademecum: «Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie, è l’unico modo per poterla aiutare, formare e comunicare ». Ci sono la moglie del premier, Agnese Renzi, con i figli («Mio marito è a Milano a fare il suo lavoro altrimenti sarebbe venuto»), e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti («Sono qui da fiorentino »).

Non è ancora buio e il Papa va. Ma non prima di aver ringraziato «i carcerati, che hanno costruito questo altare». Prima di prendere la rotta per Roma, il suo elicottero bianco volteggia più volte sullo stadio. Una nube di fazzoletti bianchi rossi e gialli, da sotto, lo saluta commossa.

La Repubblica, 22 ottobre 2015

C’È un detto di Gesù da sempre inquietante che in queste ore assume una dimensione ancora più sinistra. «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi » (Luca 17,37). Il detto si ritrova anche in Matteo 24,28, e in entrambi i Vangeli la frase è del tutto fuori contesto, appare come una specie di masso erratico piovuto dall’alto, completamente a prescindere da ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Non è nota l’occasione concreta che spinse Gesù a pronunciare quelle parole, tuttavia esse nella loro forza icastica non fanno che fotografare un’esperienza concreta della vita naturale, a quei tempi sotto gli occhi di tutti. Anche ai nostri giorni però, mutate le forme, non manca la presenza degli avvoltoi. Soprattutto se a essere in gioco è il corpo del Papa. E ancora di più se si tratta del corpo di “questo” Papa.

Che papa Francesco sia come minimo scomodo a una non piccola parte dei poteri politici, economici, finanziari e ovviamente ecclesiastici è un semplice dato di fatto, lo documenta bene un recentissimo libro di un giornalista di Avvenire, Nello Scavo, dal titolo I nemici di Francesco, sottotitolo: «Chi vuole screditare il papa, chi vuole farlo tacere, chi lo vuole morto». Ma ora la notizia del tumore al cervello, diffusa dal Quotidiano nazionale parlando di «una macchia, un piccolo tumore al cervello» è destinata ad aumentare a dismisura il volo minaccioso degli avvoltoi. Il portavoce papale padre Lombardi ha subito smentito seccamente la notizia. E L’Osservatore Romano ha parlato di «polverone sollevato con intento manipolatorio». Certo è che sarebbe difficile oggi nascondere a lungo una notizia sulla salute del Pontefice: il corpo del Papa, a differenza dei secoli passati quando era velato alla vista dei più e viveva in una dimensione sacrale che portava a pensarlo come quasi divino, del tutto privo delle manchevolezze dei comuni mortali, ora è quotidianamente esposto allo sguardo delle telecamere di tutto il mondo. Avvenne una quindicina di anni fa con Giovanni Paolo II, il cui morbo di Parkinson, prima sistematicamente negato dal portavoce vaticano, poi divenne evidente agli occhi di tutti. La salute del corpo di un Papa non è mai stata solo un fatto privato, e oggi lo è meno che mai.

Il punto vero e proprio però non riguarda la salute di Jorge Mario Bergoglio, riguarda gli avvoltoi. Ciò che colpisce infatti è che la notizia è uscita solo ieri (a dieci mesi di distanza dall’ipotetica visita specialistica) e soprattutto a poche ore dalla chiusura dello strategico Sinodo sulla famiglia. Una casuale combinazione? Ovviamente no; piuttosto l’alzata in volo di uno stormo di neri avvoltoi. Naturalmente non mi riferisco ai giornalisti che, in possesso della notizia, hanno fatto solo il loro mestiere come avrebbe fatto ogni altro giornalista del mondo; mi riferisco piuttosto a coloro che, proprio ora, hanno fatto filtrare la notizia nel momento forse più delicato del pontificato di Francesco.

In questo Sinodo infatti il Papa si gioca la gran parte della sua impresa riformatrice: se i vescovi a maggioranza gli diranno di no e bocceranno il suo desiderio di aperture, il suo pontificato è destinato a passare alla storia come il desiderio di un profeta solitario e sognatore, ben poco capace però di tradurre le sue parole e i suoi gesti in leggi e precetti concreti, come ogni pontefice degno di questo nome è invece chiamato a fare.

Io non so se vi sia un’unica regia dietro l’outing di monsignor Charamsa dichiaratosi gay e convivente all’inizio del Sinodo, dietro la diffusione di una lettera di una decina di cardinali anti-riforme a metà del Sinodo, e ora dietro questa notizia consegnata alla stampa proprio in prossimità della chiusura del Sinodo. Certo è che tutti e tre gli episodi incorniciano i lavori dell’assise vescovile. Come secondo ogni regia che si rispetti, l’ultimo colpo è stato il più devastante, perché mira a far credere al mondo che Jorge Mario Bergoglio è un Papa malato, per di più malato al cervello, nella sede decisionale della persona, sollevando così una serie di dubbi e di sospetti sulla sua effettiva capacità di guidare la Chiesa.

Molti dei cardinali che tre anni e sette mesi fa lo elessero ora gli sono ostili, perché non si immaginavano certo una tale forza riformatrice in quell’argentino che aveva fama di conservatore e che invece si è rivelato subito all’altezza della spinta innovatrice di papa Giovanni XXIII. Il papa bergamasco morì di tumore allo stomaco, ma prima riuscì, a dispetto della Curia, a convocare il Concilio Vaticano II e a iniziare l’opera di rinnovamento della Chiesa. L’opera purtroppo rimase a metà, perché a causa dei timori di Paolo VI non toccò proprio i temi della morale familiare e sessuale su cui papa Francesco ha convocato il Sinodo con l’intenzione di estendere il rinnovamento conciliare anche qui. Non sono pochi nella Chiesa coloro che glielo vogliono impedire senza comprendere l’importanza della posta in gioco.

Non si tratta infatti solo di qualche norma di disciplina ecclesiastica, in gioco c’è il cambio di rotta iniziato dalla Chiesa cattolica con il Vaticano II e rimasto incompiuto, volto a disegnare un cattolicesimo non più nemico del mondo moderno, come lo è stato per secoli, ma a fianco della vita degli uomini. In un mondo sempre più piccolo il compimento del processo iniziato con Giovanni XXIII è la condizione sine qua non perché la Chiesa cattolica sia fattore di pace e non di divisione. Papa Francesco lo sa e agisce di conseguenza. Molti però dentro la Chiesa o non lo sanno o non lo desiderano. Essi non esitano a unirsi ai numerosi gruppi di potere economico e politico fuori della Chiesa che hanno visto la recente enciclica sull’ecologia come una seria minaccia ai loro affari. E tra nemici interni e nemici esterni vi sono addirittura alcuni che non esitano a trasformarsi in avvoltoi e a volteggiare sinistramente sul corpo del Papa

, La Repubblica, 6 ottobre 2015 (m.p.r.)

FRANCESCO: IL SINODO NON è UN PARLAMENTO
SCONTRO SUI DIVORZIATI
di Marco Ansaldo


Città del Vaticano. «Non ci sono due partiti nella Chiesa, come sostengono i mezzi di informazione», dicono i vescovi appena riuniti in Vaticano nella prima giornata di lavori del Sinodo sulla famiglia. Ma nessuno crede a questa affermazione. E difatti, appena in conferenza stampa parte l’attacco dei cardinali conservatori, si alzano subito i progressisti a rintuzzarlo. Materializzando così, davanti a centinaia di giornalisti accorsi da tutto il mondo, lo scontro in atto tra chi si oppone a Francesco e chi invece vuole le sue riforme.

Comincia il cardinale Peter Erdo, ungherese, relatore generale del Sinodo, bocciando la possibilità di concedere la comunione ai divorziati risposati nella relazione introduttiva letta accanto al Papa: «Riguardo ai divorziati e risposati civilmente è doveroso un accompagnamento pastorale misericordioso, il quale però non lascia dubbi circa la verità dell’indissolubilità del matrimonio insegnata da Gesù Cristo stesso. Non è quindi il naufragio del primo matrimonio, ma la convivenza nel secondo rapporto che impedisce l’accesso all’Eucarestia». È una chiusura totale, già nella prima giornata. Dalla sua parte si schiera, a sorpresa per alcuni, l’arcivescovo di Parigi, André Vingt-Trois. «Se vi attendete un cambiamento spettacolare della dottrina della Chiesa rimarrete delusi». E riferendosi al tema del sacramento da concedere ai divorziati risposati, il cardinale francese sottolinea: «Se pensate che la teoria del cardinale Walter Kasper sia aprire indifferentemente l’accesso della comunione avete sbagliato».
È un due a zero per il fronte dei duri. È a questo punto che chiede la parola il segretario speciale del Sinodo, l’arcivescovo Bruno Forte, uomo vicino a Jorge Bergoglio. Con un ragionamento di grande raffinatezza, senza urtare nessuno, ma con efficacia, Forte rimette la discussione sui binari del confronto aperto. «Fermo restando che non ci si devono aspettare modifiche alla dottrina - premette - bisogna dire con grande chiarezza che questo Sinodo non si riunisce per non dire nulla. Non è però un Sinodo dottrinale, ma pastorale, come lo fu il Concilio Vaticano II», ricorda. «Le sfide pastorali ci sono e noi vogliamo affrontarle con parresia, ovvero con estrema franchezza». Aggiunge inoltre l’arcivescovo di Chieti e teologo: «Affrontare le questioni pastorali e cercare nuove strade per nuovi approcci rende la Chiesa più vicina agli uomini e alle donne del nostro tempo. La Chiesa non può restare insensibile alle sfide: questa è la vera posta in gioco».
Al mattino, inaugurando i lavori, il Papa aveva detto parole chiare sul desiderio di dialogo, senza chiusure: «Il Sinodo non è un parlamento dove per raggiungere il consenso si fa un accordo comune, un negoziato, un patteggiamento o dei compromessi: unico metodo è quello di aprirsi allo Spirito santo con coraggio apostolico e umiltà evangelica». E ancora: «La vita cristiana non è un museo da guardare o da salvaguardare, ma il deposito di fede è fonte viva dalla quale la Chiesa si disseta».
NON POSSIAMO GUARDARE INDIETRO
BERGOGLIO CI CHIEDE COSE NUOVE
di Marco Ansaldo


C. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera, presidente della Conferenza episcopale tedesca, e capo del gruppo di porporati incaricati delle riforme economiche in Vaticano, quale impressione ha avuto dalla prima giornata di Sinodo e della relazione apparsa un po’ di chiusura del segretario generale dell’assemblea, il cardinale Peter Erdo?
«Oggi c’è stata una prima ampia discussione, ma il Sinodo durerà tre settimane, avremo modo di discutere di tutto e alla fine il Papa farà quello che riterrà giusto per il suo pontificato».
Ma lei che opinione si è fatto?
«Il Sinodo è un cammino, dobbiamo fare dei passi avanti, ma non può essere una ripetizione, non possiamo guardare indietro».
E quali sono gli scopi che lei persegue, quale la sua visione?
«La discussione va avanti da oltre un anno. Il Papa vi ha dedicato una gran parte della sua catechesi. E qui ci sono discorsi importanti sul tema della famiglia. Poi, fra i due Sinodi, quello ordinario dello scorso anno e quello appena cominciato sono accadute tante altre cose. Non dobbiamo tornare indietro nelle questioni, questo dice la Chiesa e questa è la prospettiva pastorale secondo cui ci muoviamo».
Ma su quali punti avete discusso?
«Abbiamo parlato molto della questione dei profughi. Abbiamo parlato della famiglia in questo mondo globalizzato, e di quanto sia difficile mantenere una famiglia unita quando si fugge dal proprio Paese».
Ma non c’è una polarizzazione all’interno del Sinodo?
«Chi dice questo? Dove è che viene descritta così la situazione del Sinodo? Questo è quello che qualcuno vorrebbe».
Questa non è l’atmosfera all’interno dell’assemblea?
«Questa è la posizione dei media. Io ho una mia idea, ma la base della discussione non è poi così controversa. In un contesto come questo è normale che ci siano opinioni diverse, ma non solo necessariamente contrasti».
E sul tema dell’omosessualità come si pone circa le aperture del cardinale Walter Kasper?
«L’omosessualità sarà al centro di una discussione specifica, che comprende anche pareri scientifici. È un tema importante di cui lo scorso anno abbiamo già parlato».
E come affrontate i diversi temi?
«Discuteremo dell’Instrumentum laboris. Personalmente ne ho parlato anche con amici. Ma trovo che nel Sinodo occorra formulare anche cose nuove. Soprattutto è importante che non si vada sotto il livello di discussione posto dal Papa. Credo che dovremmo adeguarci a quello che ci chiede il Papa. E dobbiamo essere concreti».
Cardinale, c’è stato questo caso del teologo della Congregazione per la Dottrina della fede che ha dichiarato la propria omosessualità. Giocherà un ruolo nella discussione?
«Non credo che possa determinare la discussione. Se ne è parlato molto, ma il caso non riguarda affatto il Sinodo».
Ci si aspetta un documento importante?
«Le aspettative sono alte. Il Sinodo ha risvegliato interesse. Penso che questo sia anche il desiderio del Papa. Alla fine lui deciderà, con il suo discernimento. Come è stato alla fine del Sinodo dello scorso anno. Ma fino ad allora dobbiamo discutere. Di quello che viene discusso all’inizio, toccherà al Papa decidere che cosa resterà alla fine».
Torniamo sulla polarizzazione dei vescovi. Si dice che fra i cardinali manchi la comunicazione. Lei parla e discute con i cardinali Mueller, Pell, Sarah (i cosiddetti conservatori, n.d.r. )?
«Con il cardinale Mueller per esempio ho discusso. Noi parliamo ma non necessariamente esce tutto. Poi, durante la giornata di studio qualche mese fa a Roma, all’Università Gregoriana, con le conferenze episcopali tedesca, francese e svizzera abbiamo discusso apertamente. Anche oggi c’è stato un dialogo aperto, capisco che escano dei libri che facciano discutere, e ci siano posizioni diverse. Ma la mancanza di comunicazione fra i cardinali deve trasformarsi in una discussione organizzata».

Sorelle e fratelli, buon pomeriggio!

Qualche mese fa ci siamo incontrati a Roma ed ho presente quel primo nostro incontro. Durante questo periodo vi ho portato nel mio cuore e nelle mie preghiere. Sono contento di rivedervi qui, a discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo. Grazie, Signor Presidente Evo Morales, perché accompagna così risolutamente questo Incontro.

Quella volta a Roma ho sentito qualcosa di molto bello: fraternità, decisione, impegno, sete di giustizia. Oggi, a Santa Cruz de la Sierra, ancora una volta sento lo stesso. Grazie per tutto ciò. Ho saputo anche dal cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che molti nella Chiesa si sentono più vicini ai movimenti popolari. Me ne rallegro molto! Vedere la Chiesa con le porte aperte a tutti voi, mettersi in gioco, accompagnare, e programmare in ogni diocesi, ogni Commissione di Giustizia e Pace, una reale collaborazione, permanente e impegnata con i movimenti popolari. Vi invito tutti, Vescovi, sacerdoti e laici, comprese le organizzazioni sociali nelle periferie urbane e rurali, ad approfondire tale incontro.

Dio ci consente di rivederci nuovamente oggi. La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa e lavoro per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina e in tutta la terra.

1. ABBIAMO BISOGNO DI CAMBIAMENTO

1. Prima di tutto, iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamento. Ci tengo a precisare, affinché non ci sia fraintendimento, che parlo dei problemi comuni a tutti i latino-americani e, in generale, a tutta l'umanità. Problemi che hanno una matrice globale e che oggi nessuno Stato è in grado di risolvere da solo. Fatto questo chiarimento, propongo di porci queste domande:

- Sappiamo riconoscere, sul serio, che le cose non stanno andando bene in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità?

- Riconosciamo che le cose non stanno andando bene quando esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri? Sappiamo riconoscere che le cose non stanno andando bene quando il suolo, l'acqua, l'aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia?

E allora, se riconosciamo questo, diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento.

Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri - mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio. Sono molti e diversi come molti e diversi sono i modi di affrontarli. Vi è, tuttavia, un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Non sono isolate, sono unite da un filo invisibile. Possiamo riconoscerlo? Perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado di riconoscere che tali realtà distruttive rispondono ad un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura?

Se è così, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi .... E non lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco.

Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realtà più vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo perché oggi l'interdipendenza planetaria richiede risposte globali ai problemi locali. La globalizzazione della speranza, che nasce dai Popoli e cresce tra i poveri, deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza!

Oggi vorrei riflettere con voi sul cambiamento che vogliamo e di cui vi è necessità. Sapete che recentemente ho scritto circa i problemi del cambiamento climatico. Ma questa volta, voglio parlare di un cambiamento nell’altro senso. Un cambiamento positivo, un cambiamento che ci faccia bene, un cambiamento che potremmo dire redentivo. Perché ne abbiamo bisogno. So che voi cercate un cambiamento e non solo voi: nei vari incontri, nei diversi viaggi, ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo. Anche all'interno di quella minoranza in diminuzione che crede di beneficiare di questo sistema regna insoddisfazione e soprattutto tristezza. Molti si aspettano un cambiamento che li liberi da questa tristezza individualista che rende schiavi.

Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Oggi la comunità scientifica accetta quello che già da molto tempo denunciano gli umili: si stanno producendo danni forse irreversibili all’ecosistema. Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea – uno dei primi teologi della Chiesa – chiamava lo “sterco del diavolo”. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. Questo è lo “sterco del diavolo”. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità interumana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella madre terra.

Non voglio dilungarmi a descrivere gli effetti negativi di questa sottile dittatura: voi li conoscete. E non basta nemmeno segnalare le cause strutturali del dramma sociale e ambientale contemporaneo. Noi soffriamo un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo. Vedendo la cronaca nera di ogni giorno, siamo convinti che non si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti.

Cosa posso fare io, raccoglitore di cartoni, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice, di fronte a problemi così grandi, se appena guadagno quel tanto per mangiare? Cosa posso fare io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi? Potete fare molto. Potete fare molto! Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell'umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”, d’accordo? - lavoro, casa, terra [tierra, techo y trabajo] - e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento, cambiamenti nazionali, cambiamenti regionali e cambiamenti globali. Non sminuitevi!

2. SEMINATORI DI CAMBIAMENTO

Voi siete seminatori di cambiamento. Qui in Bolivia ho sentito una frase che mi piace molto: “processo di cambiamento”. Il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere. Bisogna cambiare il cuore. Per questo mi piace molto l’immagine del processo, i processi, dove la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati. La scelta è di generare processi e non di occupare spazi. Ognuno di noi non è che parte di un tutto complesso e variegato che interagisce nel tempo: gente che lotta per un significato, per uno scopo, per vivere con dignità, per “vivere bene”, dignitosamente, in questo senso.

Voi, da parte dei movimenti popolari, assumete i compiti di sempre, motivati​ dall’amore fraterno che si ribella contro l’ingiustizia sociale. Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo, tutti ci commuoviamo. Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari.

Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio. Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro.

Questo attaccamento al quartiere, alla terra, all’occupazione, al sindacato, questo riconoscersi nel volto dell’altro, questa vicinanza del giorno per giorno, con le sue miserie – perché ci sono, le abbiamo – e i suoi eroismi quotidiani, è ciò che permette di esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché abbiamo bisogno di instaurare questa cultura dell’incontro, perché non si amano né i concetti né le idee, nessuno ama un concetto, un’idea, si amano le persone. Il darsi, l’autentico darsi viene dall’amare uomini e donne, bambini e anziani e le comunità: volti, volti e nomi che riempiono il cuore. Da quei semi di speranza piantati pazientemente nelle periferie dimenticate del pianeta, da quei germogli di tenerezza che lottano per sopravvivere nel buio dell’esclusione, cresceranno alberi grandi, sorgeranno boschi fitti di speranza per ossigenare questo mondo.

Vedo con gioia che lavorate nella dimensione di prossimità, prendendovi cura dei germogli; ma, allo stesso tempo, con una prospettiva più ampia, proteggendo il bosco. Lavorate in una prospettiva che non affronta solo la realtà settoriale che ciascuno di voi rappresenta e nella quale è felicemente radicato, ma cercate anche di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione.

Mi congratulo con voi per questo. E’ indispensabile che, insieme alla rivendicazione dei vostri legittimi diritti, i popoli e le loro organizzazioni sociali costruiscano un’alternativa umana alla globalizzazione escludente. Voi siete seminatori del cambiamento. Che Dio vi conceda coraggio, gioia, perseveranza e passione per continuare la semina! Siate certi che prima o poi vedremo i frutti. Ai dirigenti chiedo: siate creativi e non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche, ma se voi costruite su basi solide, sulle esigenze reali e sull’esperienza viva dei vostri fratelli, dei contadini e degli indigeni, dei lavoratori esclusi e delle famiglie emarginate, sicuramente non sbaglierete.

La Chiesa non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento.

Teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza. Maria è un segno di speranza per la gente che soffre le doglie del parto fino a quando germogli la giustizia. Prego la Vergine Maria, così venerata dal popolo boliviano, affinché faccia sì che questo nostro Incontro sia lievito di cambiamento.

3. TRE GRANDI COMPITI

3. Infine vorrei che pensassimo insieme alcuni compiti importanti per questo momento storico, perché vogliamo un cambiamento positivo per il bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, questo lo sappiamo. Vogliamo un cambiamento che si arricchisca con lo sforzo congiunto dei governi, dei movimenti popolari e delle altre forze sociali, ed anche questo lo sappiamo. Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento, si potrebbe dire il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e di giustizia che ci aspettiamo. Non è facile definirlo. In tal senso, non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore.

Vorrei, tuttavia, proporre tre grandi compiti che richiedono l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i movimenti popolari:

3.1. Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra.

L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune. Ciò significa custodire gelosamente la casa e distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Il suo scopo non è solo assicurare il cibo o un “decoroso sostentamento”. E nemmeno, anche se sarebbe comunque un grande passo avanti, garantire l’accesso alle “tre t” per le quali voi lottate. Un'economia veramente comunitaria, direi una economia di ispirazione cristiana, deve garantire ai popoli dignità, «prosperità senza escludere alcun bene» (Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra [15 maggio 1961], 3: AAS 53 (1961), 402). Quest’ultima frase la disse il Papa Giovanni XXIII cinquant’anni fa. Gesù dice nel Vangelo che a chi avrà dato spontaneamente un bicchier d’acqua a un assetato, ne sarà tenuto conto nel Regno dei cieli. Ciò comporta le “tre t”, ma anche l’accesso all’istruzione, alla salute, all’innovazione, alle manifestazioni artistiche e culturali, alla comunicazione, allo sport e alla ricreazione. Un’economia giusta deve creare le condizioni affinché ogni persona possa godere di un’infanzia senza privazioni, sviluppare i propri talenti nella giovinezza, lavorare con pieni diritti durante gli anni di attività e accedere a una pensione dignitosa nell’anzianità. Si tratta di un’economia in cui l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Voi, e anche altri popoli, riassumete questa aspirazione in un modo semplice e bello: “vivere bene” – che non è lo stesso che “passarsela bene”.

Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo. Le risorse disponibili nel mondo, frutto del lavoro intergenerazionale dei popoli e dei doni della creazione, sono più che sufficienti per lo sviluppo integrale di «ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], 14: AAS 59 (1967), 264). Il problema, invece, è un altro. Esiste un sistema con altri obiettivi. Un sistema che oltre ad accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione, oltre ad incrementare nell’industria e nell’agricoltura metodi che danneggiano la Madre Terra in nome della “produttività”, continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù, contro la Buona Notizia che ha portato Gesù.

L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. E’ una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie, occasionali. Non potrebbero mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale.

In questo cammino, i movimenti popolari hanno un ruolo essenziale, non solo nell’esigere o nel reclamare, ma fondamentalmente nel creare. Voi siete poeti sociali: creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di generi alimentari, soprattutto per quanti sono scartati dal mercato mondiale.

Ho conosciuto da vicino diverse esperienze in cui i lavoratori riuniti in cooperative e in altre forme di organizzazione comunitaria sono riusciti a creare un lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica. E ho visto che alcuni sono qui. Le imprese recuperate, i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità. Come è diverso questo rispetto al fatto che gli scartati dal mercato formale siano sfruttati come schiavi!

I governi che assumono come proprio il compito di mettere l’economia al servizio della gente devono promuovere il rafforzamento, il miglioramento, il coordinamento e l’espansione di queste forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Ciò implica migliorare i processi di lavoro, provvedere infrastrutture adeguate e garantire pieni diritti ai lavoratori di questo settore alternativo. Quando Stato e organizzazioni sociali assumono insieme la missione delle “tre t” si attivano i principi di solidarietà e di sussidiarietà che permettono la costruzione del bene comune in una democrazia piena e partecipativa.

3.2. Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia.

I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati. Nessun potere di fatto o costituito ha il diritto di privare i paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo che compromettono seriamente le possibilità di pace e di giustizia, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli, in particolare il diritto all’indipendenza» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 157).

I popoli dell’America Latina hanno partorito dolorosamente la propria indipendenza politica e, da allora, portano avanti quasi due secoli di una storia drammatica e piena di contraddizioni cercando di conquistare la piena indipendenza.

In questi ultimi anni, dopo tante incomprensioni, molti Paesi dell’America Latina hanno visto crescere la fraternità tra i loro popoli. I governi della regione hanno unito le forze per far rispettare la propria sovranità, quella di ciascun Paese e quella della regione nel suo complesso, che in modo così bello, come i nostri antichi padri, chiamano la “Patria Grande”. Chiedo a voi, fratelli e sorelle dei movimenti popolari, di avere cura e di accrescere questa unità. Mantenere l’unità contro ogni tentativo di divisione è necessario perché la regione cresca in pace e giustizia.

Nonostante questi progressi, ci sono ancora fattori che minano lo sviluppo umano equo e limitano la sovranità dei paesi della "Patria Grande" e di altre regioni del pianeta. Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri. Come Vescovi latino-americani lo denunciamo molto chiaramente nel Documento di Aparecida, quando affermano che «le istituzioni finanziarie e le imprese transnazionali si rafforzano fino al punto di subordinare le economie locali, soprattutto indebolendo gli Stati, che appaiono sempre più incapaci di portare avanti progetti di sviluppo per servire le loro popolazioni» (V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano [2007], Documento conclusivo, 66). In altre occasioni, sotto il nobile pretesto della lotta contro la corruzione, il traffico di droga e il terrorismo - gravi mali dei nostri tempi che richiedono un intervento internazionale coordinato - vediamo che si impongono agli Stati misure che hanno poco a che fare con la soluzione di queste problematiche e spesso peggiorano le cose.

Allo stesso modo, la concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale è un altro modalità adottata dal nuovo colonialismo. Questo è il colonialismo ideologico. Come dicono i Vescovi dell’Africa, molte volte si pretende di convertire i paesi poveri in «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Africa [14 settembre 1995], 52: AAS 88 [1996], 32-33; cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis [30 dicembre 1987], 22: AAS 80 [1988], 539).

Occorre riconoscere che nessuno dei gravi problemi dell’umanità può essere risolto senza l’interazione tra gli Stati e i popoli a livello internazionale. Ogni atto di ampia portata compiuto in una parte del pianeta si ripercuote nel tutto in termini economici, ecologici, sociali e culturali. Persino il crimine e la violenza si sono globalizzati. Pertanto nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza. Ma interazione non è sinonimo di imposizione, non è subordinazione di alcuni in funzione degli interessi di altri. Il colonialismo, vecchio e nuovo, che riduce i paesi poveri a semplici fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, genera violenza, povertà, migrazioni forzate e tutti i mali che abbiamo sotto gli occhi... proprio perché mettendo la periferia in funzione del centro le si nega il diritto ad uno sviluppo integrale. E questo, fratelli, è inequità, e l’inequità genera violenza che nessuna polizia, militari o servizi segreti sono in grado di fermare.

Diciamo NO, dunque, a vecchie e nuove forme di colonialismo. Diciamo SÌ all’incontro tra popoli e culture. Beati coloro che lavorano per la pace.

Qui voglio soffermarmi su una questione importante. Perché qualcuno potrà dire, a buon diritto, “quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa”. Vi dico, a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la Chiesa «si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli» (Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). E desidero dirvi, vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America. E insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che opposero fortemente alla logica della spada con la forza della Croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e abbondante, ma non abbiamo chiesto perdono, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari.

Chiedo anche a tutti voi, credenti e non credenti, di ricordarvi di tanti vescovi, sacerdoti e laici che hanno predicato e predicano la Buona Notizia di Gesù con coraggio e mansuetudine, rispetto e in pace - ho detto vescovi, sacerdoti e laici; non mi voglio dimenticare delle suore, che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene -, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La Chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina. Identità che, sia qui che in altri Paesi, alcuni poteri sono determinati a cancellare, talvolta perché la nostra fede è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro. Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi.

Ai fratelli e alle sorelle del movimento indigeno latinoamericano, lasciatemi esprimere il mio più profondo affetto e congratularmi per la ricerca dell’unione dei loro popoli e delle culture; unione che a me piace chiamare “poliedro”: una forma di convivenza in cui le parti mantengono la loro identità costruendo insieme una pluralità che, non mette in pericolo, bensì rafforza l’unità. La loro ricerca di questo multiculturalismo, che combina la riaffermazione dei diritti dei popoli originari con il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ci arricchisce e ci rafforza tutti.

3.3. Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra.

La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Vediamo con delusione crescente che si succedono uno dopo l’altro vertici internazionali senza nessun risultato importante. C’è un chiaro, preciso e improrogabile imperativo etico ad agire che non viene soddisfatto. Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato. I popoli e i loro movimenti sono chiamati a far sentire la propria voce, a mobilitarsi, ad esigere – pacificamente ma tenacemente – l’adozione urgente di misure appropriate. Vi chiedo, in nome di Dio, di difendere la Madre Terra. Su questo argomento mi sono debitamente espresso nella Lettera enciclica Laudato si', che credo vi sarà consegnata alla fine.

4. IL FUTURO È NELLE MANI DEI POPOLI

4. Per terminare, vorrei dire ancora una volta: il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E' soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Io vi accompagno. E ciascuno, ripetiamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessun popolo senza sovranità, nessuna persona senza dignità, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane senza opportunità, nessun anziano senza una venerabile vecchiaia. Proseguite nella vostra lotta e, per favore, abbiate molta cura della Madre Terra. Credetemi, sono sincero, lo dico dal cuore: prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio nostro Padre di accompagnarvi e di benedirvi, che vi colmi del suo amore e vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi: quella forza è la speranza. E una cosa importante: la speranza non delude! E, per favore, vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non può pregare, con tutto rispetto, gli chiedo che mi pensi bene e mi mandi “buona onda”. Grazie!

Riferimenti

La fonte del testo è il sito web del Vaticano, dove sono accessibili anche le traduzioni in altre lingua. I titoli in carattere maiuscolo sono nostri. Il video del discorso del papa à accessibile qui

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