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Nicola Labanca La memoria ambigua degli italiani

Il protagonista del romanzo di Ennio Flaiano Tempo di uccidere (1947), ambientato nell’Africa orientale italiana al tempo della guerra d’Etiopia (1935-36), ama carnalmente una donna locale ma poi finisce per ucciderla. La sua memoria rimane indelebilmente segnata da quella doppia esperienza, di fascinazione e repulsione, di amore e odio. Tornando in patria però solo una parte dell’esperienza viene ricordata: quella dell’amore, dell’affetto. Flaiano fa dire al suo protagonista: «"Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri". "Meglio così", dissi. "Se nessuno mi ha denunciato, meglio così"». La memoria del delitto rimane in Africa, in Italia torna solo quella dell’affetto: nasce così il mito della "bravagente".

L’episodio di Flaiano potrebbe essere la chiave per comprendere la memoria nazionale del colonialismo italiano. Un’esperienza di dominio italiano durata grossomodo sessant’anni, dall’Eritrea (1882) alla Somalia, dalla Libia all’Etiopia. Una storia per quarant’anni liberale e per vent’anni fascista, bruscamente interrotta perché il regime perse in guerra (1941-43) tutte le sue colonie. Di quella storia è rimasta una memoria nazionale fortemente ambigua, parziale. Solo una parte della storia è stata ricordata.

Come tutti i colonizzatori europei, gli italiani amano ricordarsi e immaginarsi come "bravagente" affascinata dalle bellezze della natura africana, sinceramente interessata delle popolazioni dominate, prodiga di interventi in loro favore. È difficile negare che anche questo furono (ma quanto rispetto ad altri imperi coloniali? già a questa domanda non si vuole rispondere). Inoltre, un po’ come i francesi in Algeria e i britannici in Rhodesia o in Sudafrica, laddove poterono, gli italiani affollarono le loro colonie anche di povera gente, di lavoratori manuali, di petit blancs o poor whites come si diceva a Parigi o a Londra. L’Italia liberale e persino l’Italia fascista (se si esclude la conquista dell’Etiopia, 1935-41) esportarono nelle colonie molto più manodopera che capitale.

Ma questa è solo una parte della storia.

Chi ricorda il "regime delle sciabole" della primissima Eritrea italiani, prima di Adua? O le deportazioni indiscriminate dei libici già nel 1911-12 verso le isole italiane come le Tremiti? O il sangue sparso nella "riconquista" della Libia voluta da Mussolini e condotta con brutalità da Badoglio e Graziani nel 1929-31? In particolare, chi ricorda i campi di concentramento della Cirenaica fra 1929 e 1933? Una decina di anni fa una polemica giornalistica fra Indro Montanelli e Angelo Del Boca portò all’attenzione di tutti la storia dei gas nella conquista dell’Etiopia, una vicenda conosciuta ai lettori di libri di storia ma segretata dal regime e negata sino all’ultimo dall’ostinato giornalista de "Il corriere della sera". Ma chi ricorda i massacri del convento copto di Debra Libanos, in cui Graziani fece sterminare l’elite religiosa etiopica?

Non si tratta del silenzio naturale della memoria di fronte a fatti sgradevoli, né è sufficiente lavarsi le mani dicendo che di fatti sgradevoli è piena tutta la storia del colonialismo europeo. Il punto è che senza quei fatti il debole dominio italiano non ci sarebbe stato, non avrebbe potuto né instaurarsi né sostenersi. Non sono fatti aggiuntivi, sono sostanziali. Inoltre il dominio italiano fu, per vent’anni, fascista. Per capire cosa ciò significhi si legga il programma politico del fascio di Asmara già fra 1919 e 1922, o si ponga mente al fatto che nel 1937 – un anno prima dell’adozione della legislazione antisemita – il fascismo introdusse istituzionalmente nel suo impero la discriminazione razziale, come al tempo forse nemmeno il Sudafrica aveva fatto. Tutto questo, gli italiani dei decenni della Repubblica hanno preferito non ricordarlo, come il genio letterario di Flaiano aveva per tempo intuito.

Quali le spiegazioni di questa memoria selettiva? È stato chiamato in causa il carattere nazionale degli italiani (sullo specifico coloniale già Benedetto Croce, nel 1927, aveva parlato di "bonomia" degli italiani…). Gli storici hanno spiegato che non aver vissuto le aspre divisioni che in Francia o in Gran Bretagna hanno accompagnato la decolonizzazione negli anni Cinquanta-Sessanta ha impedito una presa di coscienza ed un dibattito sul passato coloniale. C’è chi ha voluto trascinare in giudizio persino la sinistra, accusata prima di ambiguità (in effetti, per il prestigio nazionale, nel 1945-47 anche Pci e Psi volevano la restituzione all’Italia di tutte o parti delle vecchie colonie) e poi di "debolezza di anticolonialismo".

Forse, per trovare una risposta dobbiamo invece guardare in basso, in alto e al governo. In basso: perché le stesse responsabilità storiche di lavoratori e popolani non possono essere uguagliate a quelle di un Mussolini o di un Graziani. In alto: perché le maggiori decisioni, come sempre, furono prese da una ristretta cerchia di governatori coloniali, funzionari, militari. Al governo: questo è, per l’Italia repubblicana, il capitolo più interessante. Nelle liste stilate dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, non pochi politici e militari erano accusati di crimini di guerra perpetrati nelle colonie. E nel 1947 l’Etiopia aveva richiesto alcuni alti gerarchi del fascismo, fra cui Badoglio e Graziani, per i crimini commessi in colonia. Ma l’Italia repubblicana e ormai democratica fece di tutto per non consegnarli. Graziani non affrontò mai un processo per i suoi misfatti coloniali, del 1929-33 come del 1936-38. E se i tribunali dell’Italia democratica non processarono i massimi responsabili politici e militari, perché i petit blancs dell’imperialismo demografico italiano avrebbero dovuto ritenersi responsabili? La loro memoria fu aiutata a divenire parziale.

Se nel 1947 non furono fatti i processi, se l’Italia democratica non ricorda pubblicamente i campi di concentramento in Cirenaica del 1929-33 (ma attenzione: in quelli del 1941 passarono anche gli ebrei libici) e se oggi l’Italia berlusconiana restituisce l’obelisco di Axum all’Etiopia ma lo fa alla chetichella, perché obbligata, e non imposta un serio dibattito pubblico sul passato coloniale, se insomma così si fa in alto e al governo, perché in basso i combattenti della guerra d’Etiopia dovrebbero ricordare tutta la storia del colonialismo e non solo una sua parte?

Forse, si potrebbe dire, in Italia non c’è bisogno di un articolo di legge come quella francese (n. 258 del 23 febbraio 2005). Nei fatti, come anticipava Flaiano, il risultato è già stato raggiunto da tempo.

PECHINO - La delocalizzazione non esporta solo posti di lavoro. Per la prima volta un’azienda italiana è al centro di una dura battaglia operaia in Cina, accusata di gravi abusi contro i diritti umani. La DeCoro, produttrice di divani con una fabbrica nella zona industriale di Shenzhen, è denunciata per lo sfruttamento e perfino le violenze commesse da manager italiani sui dipendenti locali. Il presidente dell’azienda smentisce tutto e grida al complotto, ma la protesta finisce con grande rilievo sulla stampa indipendente di Hong Kong. Secondo questa versione è dopo un’aggressione contro tre leader operai, finiti all’ospedale lunedì, che tremila dipendenti della DeCoro hanno abbandonato la fabbrica e hanno manifestato bloccando l’autostrada di Pingshan.

Gridavano «fermate la violenza, vogliamo giustizia e protezione dei nostri diritti». È intervenuta la polizia anti-sommossa e li ha dispersi a manganellate. La ribellione, esplosa mercoledì mattina, si è conquistata così l’attenzione del South China Morning Post. Il quotidiano di Hong Kong, che non è sottoposto alla censura del governo cinese, ha una vasta rete di informatori nella regione meridionale del Guangdong dove si trova Shenzhen. È dal Guangdong che negli ultimi mesi filtrano notizie sempre più frequenti di scioperi e lotte operaie. Il boom economico che ha fatto di questa provincia di 83 milioni di abitanti la zona più ricca della Cina, fa esplodere le rivendicazioni salariali e la conflittualità sociale. Quando sono sotto accusa delle imprese occidentali lo scandalo è maggiore: contestate nei propri paesi perché trasferiscono l’occupazione all’estero, queste aziende rivelano in Cina dei comportamenti inaccettabili (oltre che illegali) a casa loro.

Le denunce più clamorose finora hanno colpito grandi multinazionali che appaltano la produzione a fornitori locali senza scrupolo. La Repubblica ha documentato nei mesi scorsi casi di sfruttamento minorile o abusi dei diritti umani in cui sono state accusate aziende cinesi che lavorano «in conto terzi» per Walt Disney, Timberland, Puma. Ora invece per la prima volta è sotto accusa una piccola azienda tutta italiana, coinvolta in modo diretto e non tramite il giro dei subappalti a produttori locali. Il South China Morning Post pubblica la foto di due operai, Chen Zhongcheng e Liang Tian, ricoverati in ospedale con gli occhi tumefatti e alcune fasciature. Liang ha raccontato che i dirigenti italiani lo hanno picchiato, insieme a due compagni, il 31 ottobre. Secondo lui, erano andati a lamentarsi dai capi dopo che l’azienda aveva cercato di tagliare del 20% i loro salari. Di fronte al rifiuto degli operai la DeCoro ne avrebbe già licenziati ottanta a settembre. Il salario medio in quella fabbrica è di 250 dollari al mese. «Mi hanno preso a pugni nello stomaco - ha raccontato Liang - ho perso conoscenza per qualche secondo. Mi hanno calpestato il viso quando ero a terra. Era umiliante». Un altro operaio, Li Fangwei, ha riferito che le violenze sono frequenti: «Picchiano regolarmente gli operai cinesi. Sono come dei lupi. Sono razzisti e ci trattano da schiavi». Secondo un compagno la polizia non li ha difesi: «Dopo il primo episodio di violenza abbiamo fatto denuncia ma la polizia non ha fatto niente. Non ci fidiamo più delle autorità. Vogliamo proteggerci da soli». Interpellato da Repubblica in Italia, ieri sera il presidente della DeCoro, Luca Ricci, ha smentito di aver chiesto tagli salariali del 20%. Ha smentito anche di aver scritto una lettera di scuse ai tre operai ricoverati in ospedale (dettaglio riportato dal South China Morning Post). «Ci sono stati degli italiani che hanno picchiato degli operai cinesi, ma non è vero che questo è avvenuto durante una disputa sulla riduzione dei salari. Gli operai erano stati licenziati per motivi che riguardano il loro comportamento sul luogo di lavoro, poi sono rientrati abusivamente in azienda. Non credo che siano stati gli italiani a picchiare per primi, ma credo che l’abbiano fatto per reazione». Ufficiosamente gli italiani si descrivono come vittime, evocano manovre contro di loro, magari organizzate da concorrenti locali. L’esperienza indica che il governo cinese, pur essendo inflessibile nel reprimere i conflitti sociali, qualche volta si mostra più tollerante se il bersaglio delle proteste operaie è un’impresa straniera. In particolare se i padroni sono giapponesi, taiwanesi, o (più raramente) americani: in quei casi scatta un riflesso nazionalista che legittima perfino gli scioperi, normalmente vietati. Quando sulla stampa di Pechino affiorano notizie di proteste contro salari bassi e sfruttamento, quasi sempre si scopre che dietro c’è una multinazionale, non un’azienda cinese.

Questo non significa però che le rivendicazioni siano inventate dalla stampa, o manovrate dal potere politico. In quelle aziende straniere che pagano salari superiori alla media cinese e che offrono condizioni di lavoro umane (ci sono anche quelle, e ne ho visitate), sarebbe difficile convincere i dipendenti a scioperare o a manifestare. Se i dirigenti della DeCoro hanno la coscienza in regola, per dimostrare la loro correttezza c’è una soluzione. Il presidente Luca Ricci inviti a visitare la fabbrica di Shenzhen le sue rappresentanze sindacali italiane, assistite da interpreti forniti dall’Ufficio internazionale del lavoro, o dalle organizzazioni umanitarie con sede a Hong Kong. Una visita aperta anche ai giornalisti italiani, con ampia facoltà di intervistare gli operai cinesi, sarebbe la prova della buona fede dell’azienda. Nell’attesa, l’unica versione dettagliata dei fatti è quella uscita sull’autorevole e indipendente quotidiano di Hong Kong.

La lista dei crimini è lunga: villaggi incendiati, stragi, rappresaglie, esecuzioni indiscriminate di partigiani, deportazione di migliaia di civili nei campi di concentramento, sevizie e torture. I responsabili sono quegli - così il titolo del libro di Costantino Di Sante - di stanza nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale. Criminali di guerra che la nostra diplomazia ha voluto per decenni occultare, alimentando così quel mito del "bravo italiano" rivelatosi sempre più malinconicamente infondato. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951) è il sottotitolo di questo nuovo j’accuse contro generali, ufficiali, semplici soldati, poliziotti, carabinieri, funzionari civili, ritenuti colpevoli di delitti non dissimili da quelli nazisti - e contro i governanti che ne hanno lungamente assicurato l’impunità - sorretto da una nutrita documentazione proveniente dagli archivi del ministero degli Esteri e dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Lo pubblica, con una prefazione di Filippo Focardi, una piccola casa editrice, Ombre Corte (pagg. 270, euro 18,00). L’autore del volume, Di Sante, è ricercatore presso l’Istituto di Liberazione marchigiano, studioso dei campi di concentramento nell’Italia littoria.

Le operazioni militari di Mussolini contro la Jugoslavia ebbero inizio il 6 aprile del 1941. Come già dimostrato dalla ricerca storica più documentata (da Enzo Collotti a Davide Rodogno), la politica di aggressione fascista nei Balcani fu caratterizzata da efferatezze, "non episodi isolati, ma componenti essenziali della strategia di dominio" inaugurata dal dittatore. Nessuno degli italiani denunciati per crimini di guerra fu consegnato ai paesi che ne avevano fatto richiesta, né fu mai processato in Italia. Gli oltre 750 italiani incriminati dalla Jugoslavia, come i 180 accusati dalla Grecia o i 140 segnalati dall’Albania poterono godere di totale impunità. E questo grazie «all’azione di salvataggio organizzata dal ministero degli Affari Esteri, d’intesa con il ministero della Guerra (poi della Difesa) e con la Presidenza del Consiglio» (così Lutz Klinkhammer).

Fin dall’autunno del 1944, avendo saputo che in Jugoslavia era al lavoro una commissione d’inchiesta sulle violenze degli italiani, cominciò a Roma un lavoro di "controdocumentazione", teso a dimostrare le sevizie commesse dal nemico sui nostri connazionali (e a discolpare la legittima reazione dell’esercito tricolore). La "controinchiesta" confluì in una sorta di memoriale difensivo (settembre 1945) a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito, che Di Sante per la prima volta rende pubblico.

L’aspetto più rilevante è che, pur giustificando l’operato degli italiani pesantemente vessati dal "barbaro partigiano titino", le testimonianze dei nostri soldati in sostanza confermano i delitti denunciati dagli jugoslavi. In particolare, viene riconosciuta la crudeltà dell’occupazione in Dalmazia. «Parecchi villaggi incendiati», «molti civili passati per le armi o internati», «interrogatori eseguiti con durezza e mezzi illeciti», «la popolazione ritenuta ostile bastonata o vessata con l’olio di ricino» dalle squadre d’azione di Giuseppe Alacevic (segretario del fascio di Sebenico). Di alcuni vengono evocati anche «atti ripugnanti» e «malvagità» contro le donne arrestate. Ancora più gravi, poi, risultano le responsabilità del "Tribunale straordinario arbitrario" (istituito dal Governatore della Dalmazia), talvolta sbrigativo nel comminare le condanne a morte. Devastanti anche le nostre rappresaglie (otto civili per ogni militare ucciso), spesso concluse con incendi di villaggi o esecuzioni sommarie. Nella documentazione jugoslava molto risalto veniva dato anche all’internamento di migliaia di civili nel campo di Arbe, capace di ospitare fino a 10.500 persone e il cui tasso di mortalità era stimato intorno al 19 per cento: qualche generale italiano amava descriverlo come "luogo di villeggiatura".

Il "contromemoriale" italiano puntò naturalmente sulla necessità di difendersi dalla "barbarie" e dal "banditismo" dei partigiani jugoslavi, approntando anche una vasta ed efficace documentazione fotografica. Quel che seguirà nel lungo dopoguerra sarà il ripetuto tentativo da parte del nostro governo di sottrarre i militari incriminati dal giudizio internazionale: prima con la istituzione nel maggio del 1946 di una commissione d’inchiesta che, assicurando lo svolgimento di una severa giustizia in Italia, di fatto negò l’estradizione; poi con un sapiente lavoro di tessitura diplomatica, sintetizzato dal cosiddetto "memoriale Zoppi", un documento del gennaio 1948 che - citato anche da Di Sante - solo di recente è stato declassificato (riprodotto in questa pagina con l’autografo di Giulio Andreotti: ne parliamo qui accanto nell’intervista a Walter Vitali). In sostanza, rispetto alla richiesta jugoslava di processare i responsabili, prevalse una linea di temporeggiamento. Con risultati soddisfacenti: dopo la rottura tra Tito e Stalin, nel giugno del 1948, la Jugoslavia avrebbe perso l’appoggio dell’unica potenza che sino a quel momento l’aveva sostenuta nelle sue recriminazioni.

La vicenda si chiuse definitivamente nel 1951, con l’archiviazione di tutti i procedimenti a carico dei presunti criminali. Non senza alcuni episodi paradossali. Nel dicembre del 1947 è nominato segretario generale del ministro della Difesa proprio uno dei generali che figurava nella lista degli accusati (approvata dalla commissione interalleata). Un anno dopo, alla presenza del presidente Luigi Einaudi, vengono decorate alcune divisioni: «per meriti acquisiti ai tempi dell’occupazione fascista del Montenegro e della Croazia». Per il generale Mario Roatta, "l’esponente più importante della politica militaristica di Mussolini" (così la stampa antifascista), assoluzione piena: esito esemplare d’una vicenda ancora irrisolta.

Finalmente, dopo 68 anni, l'obelisco di Axum è tornato a casa, nel quartiere ecclesiastico di Nefas, lungo le rive del Mai Heggià. Quando, a giorni, le sue tre parti, trasferite in Etiopia nel ventre di un Antonov ucraino, saranno riunite, e potrà essere di nuovo innalzato verso il cielo, finalmente gli etiopici potranno ammirare questo straordinario esemplare di arte axumita, diventato col tempo, nella febbrile attesa del suo rimpatrio, anche un simbolo del patriottismo etiopico. Con la restituzione di questo monumento, imposta all'Italia dall'articolo 37 del Trattato di pace di Parigi, nel lontano, lontanissimo 1947, si chiude, dopo rinvii immotivati, tentativi di sabotare l'obbligo, false storie di donazioni, finti problemi tecnici, la più incredibile, la più sconcertante, la più vergognosa telenovela che il nostro inaffidabile paese abbia mai prodotto.

È molto probabile che l'idea di trasferire in Italia uno degli obelischi di Axum sia venuta ad Alessandro Lessona, a quel tempo ministro dell'Africa Italiana. Lessona conosceva molto bene Mussolini, la sua infinita vanità. Sapeva che un omaggio, di stampo autenticamente imperiale come un monumento dell'antica civiltà axumita, non poteva che riuscirgli gradito. Affidò perciò l'incarico all'archeologo Ugo Monneret di Villard, che stava conducendo degli scavi proprio nella zona di Axum, di scegliere uno degli obelischi e di trasferirlo in Italia. La scelta dell'archeologo cadde su di un monolito alto 24 metri e del peso di 160 tonnellate, che giaceva a terra spezzato in tre parti. Iniziati nel 1937, i lavori per il recupero e il trasporto del monumento sino al porto di imbarco di Massaua, durarono tre mesi.

Furono gli operai della Gondrand, sotto la guida del piacentino Mario Buschi, a portare a termine il difficile trasporto, per il quale fu addirittura necessario sbancare fette di montagna. Trasferito a Napoli e quindi a Roma, l'obelisco veniva eretto sul piazzale di Porta Capena. Con questa straordinaria preda di guerra, complice Lessona, Mussolini poteva così celebrare, il 28 ottobre 1937, il quindicesimo anniversario della marcia su Roma.

Adesso che l'Italia, sia pure a denti stretti, ha assolto al suo obbligo di restituire il mal tolto, a Porta Capena c'è un vuoto da riempire. Noi vorremmo oggi rinnovare la proposta che il 23 ottobre 2002 facemmo proprio sulle colonne de il manifesto. Quella di sostituire l'obelisco di Axum con un altro obelisco, sia pure di ridotte dimensioni, sul quale incidere semplicemente delle date e dei nomi. Le date degli eccidi consumati nelle ex colonie italiane, delle deportazioni di intere popolazioni, della creazione dei lager della Sirtica, di Danane, di Nocra. E i nomi dei patrioti che più si sono distinti nella difesa delle loro terre. Pensiamo al degiac eritreo Batha Hagos, al somalo Mohammed ben Abdalla Hassan, al libico Omar al-Mukhtar, agli etiopici ras Destà Damteu, degiac Nasibù Zamanuel, abuna Petros. Alcuni di questi leader chiusero la loro esistenza dinanzi ad un plotone di esecuzione o appesi ad un cappio. Impossibile scolpire nella pietra i nomi di tutti i patrioti uccisi. Soltanto i libici sono centomila. Trecentomila gli etiopici.

Con la restituzione dell'obelisco di Axum abbiamo soltanto sciolto un obbligo di carattere internazionale, non abbiamo per nulla affrontato il problema delle colpe coloniali e degli obblighi di natura morale. È vero che l'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, nella sua visita ad Addis Abeba, ha chiesto perdono agli etiopici per i crimini commessi dall'Italia fascista; e che l'allora capo del governo Massimo D'Alema, nel suo viaggio a Tripoli, sostando dinanzi al monumento ai martiri di Sciara Sciat, ha esclamato: «Qui gli eroi nazionali sono stati giustiziati dagli italiani». Ma queste chiare ammissioni di colpa non sono state seguite da gesti concreti. Mentre nel paese è tutt'altro che chiusa la lunga stagione delle amnesie, delle rimozioni, del revisionismo revanscista.

Mentre ad Axum accorrono i pellegrini festanti per venerare la stele restituita, sarebbe opportuno e molto significativo che in Italia si desse inizio a quel dibattito storico sul colonialismo, tante volte ostacolato o rimandato. Con il risultato che l'Italia repubblicana e democratica non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti e delle leggende che si sono formati nel secolo scorso, mentre una minoranza non insignificante

Milka ha 83 anni, l'espressione fiera e cammina incerta. Fa fatica quando sale sul pulmino, ma la maschera con una domanda: «dove stiamo andando?». E' quello che si chiedono molti qui, all'alba, nel campo nomadi di Foro Boario, quartiere Testaccio di Roma, dove i rom si stanno svegliando. Mentre qualcuno prepara il caffè altri guardano stupiti il furgone sul quale c'è scritto «Osservatorio Nomade di Roma», anche se quasi tutti sanno che si tratta di uno strano gruppo di artisti e amici che da qualche anno frequenta questo luogo mettendo in relazione storie e persone diverse che oggi partono insieme. Quelli dell'Osservatorio usano la loro arte per creare spazi di comunicazione e lo fanno soprattutto nei luoghi di confine, sul mare, lungo i fiumi, nei campi sosta, perché, spiegano, «in un mondo occupato quasi esclusivamente dalla solitudine mediatica è soprattutto lì che le persone si spostano con le loro vite e culture da raccontare e mettere a confronto». Cosa che ormai avviene sempre più nella marginalità in cui si muovono masse di immigrati e nomadi.

Anche per questo Milka sale sul pulmino dell'Osservatorio che, intanto, si riempie: ci sono Aldo, un altro rom, Osama, un operatore cinematografico egiziano, Matteo, Silvia e Lorenzo. E qualcuno risponde subito a Milka: «Stiamo andando ad Agnone». Lei sorride, guarda fuori dal finestrino e, con l'aria di chi la sa lunga, dice: «Ma sì, lo sapevo. Ci andiamo per raccontare. Perché io ci sono stata ad Agnone, tanto tempo fa. Ma allora datemi un po' di soldi». Tutti ridono e finalmente si parte.

Sconosciuto a torto

Agnone è un paesino arroccato sulle montagne del Molise, a nord fra Isernia e Campobasso, non molto conosciuto. Dovrebbe invece esserlo soprattutto per la storia che si trascina dietro da più di mezzo secolo: perché ad Agnone, durante il fascismo, c'era uno dei tanti campi di internamento italiani. Un campo in cui, almeno da un certo punto in poi, erano imprigionati soltanto «zingari».

Mentre la storia ufficiale è ancora lenta e ritarda a raccontarlo, lo fa Milka scendendo dal furgone, con i suoi 83 anni e la sua fatica, davanti all'ex convento di San Bernardino. Fa freddo, è stanca perché nel frattempo ha già parlato per due ore a un centinaio di studenti attentissimi, ma si incammina, decisa a ritrovare la memoria di quei luoghi e di quei tempi. E si arrabbia subito perché il cancello non è più lo stesso: «Non si entrava di qua, forse da là dietro», dice al sindaco e al professor Francesco Paolo Tanzi, che con le sue ricerche e i suoi studenti ha ricostruito tutta la storia di Agnone in un libro. L'edificio, una specie di cascinale fuori dal paese, a più di 800 metri d'altezza, adesso è un ricovero per anziane povere, prima e dopo la guerra era dei frati (ma il vescovo non ebbe dubbi a cederlo ai fascisti) dal 1940 al 1943 campo di concentramento. E, sicuramente a partire dalla seconda metà del 1941, c'erano rinchiusi solo rom e sinti di varie nazionalità: donne, uomini e bambini.

Dai documenti finora ritrovati si capisce che nel luglio del 1942 erano almeno 250 e che nel gennaio successivo era stata anche allestita una scuola per i bambini rom o, come si legge, per la loro «educazioneintellettuale e religiosa» che doveva «toglierli dalle loro abitudini randagie e amorali». «Io la scuola non me la ricordo», dice Milka un po' seccata, «però avevo già 18 anni quando sono entrata qua dentro. Ero con mio marito e i miei figli. E poi c'era tutta la famiglia, la mamma, mio padre, che è morto dalla fatica due mesi dopo che siamo usciti, il nonno e gli altri, zii e cugini miei e di mio padre. Due sono morti, li hanno portati all'ospedale di Isernia. Anche il nonno è morto e il corpo non lo abbiamo più visto. Insomma c'erano tutti i parenti stretti e poi altri rom. Eravamo più di 100. Noi Goman stavamo al piano di sotto e i Bogdandi sopra. E quando siamo arrivati molti erano già qui, dal Veneto. C'erano le guardie intorno e non potevamo mai uscire. La mattina facevano l'appello, come succedeva in Germania. Ma i nostri erano italiani. Però non chiedetemi che anno era, io gli anni non me li ricordo. Ci sarà ben scritto. So che qui sono diventata maggiorenne, ho compiuto 21 anni in questo posto, perché allora mi hanno dato il sussidio. Prima non me lo davano, mi davano qualcosa per il bambino che avevo al seno, ma morivamo di fame. Mio marito andava in cucina a rubare le bucce delle patate mentre quelli che avevano il sussidio qualche volta uscivano a comprare qualcosa. Con due carabinieri, uno per parte. Compravano anche dai contadini che venivano con le ceste di frutta. Ma noi non avevamo soldi. La mattina ci davano il caffè che era acqua e poi sempre la minestra con le patate e la bieta. E con i vermi. Tutti i giorni c'erano i vermi, verdi e grossi che mi viene ancora da vomitare. Ma dovevamo mangiare per non morire. Ci davano 100 grammi di pane e la gente cascava per terra. Li ho visti entrare come leoni e diventare scheletri. Un signore si metteva contro il muro per non cadere. Era un omone, è diventato come un pezzo di legno. Così ci avevano ridotto. Per fortuna non ci hanno fucilato anche se tanti sono morti».

Milka sa che i rom non erano solo ad Agnone. C'erano altri campi di internamento in Italia e c'erano altri prigionieri «zingari»: di sicuro, per quanto se ne sa fino a oggi, erano rinchiusi a Ferramonti in Calabria, in Sardegna, alle isole Tremiti, a Tossicia in Abruzzo, a Boiano e Vinchiaturo, altri due campi del Molise. In base a un ordine fascista del settembre 1940 i rom venivano rastrellati nei loro accampamenti, portati in carcere e nei vari campi: «A noi ci hanno preso in un prato vicino a Pisa - continua Milka - mi sembra fosse estate ma non chiedetemi quando perché se non ricordo bene io non dico niente. Stavamo in quel prato, molti lavoravano il rame, anche mio marito. Eravamo giovani con i nostri figli, ma sono arrivati i carabinieri, e ci hanno detto di lasciare tutto perché ci portavano in un posto migliore. Ma ci hanno portato con il treno fin qua giù, hanno aperto il portone e ci hanno buttato dentro. C'erano i letti di ferro, materassi vecchi e due coperte a testa. E i pidocchi dappertutto che per me erano la cosa peggiore: li vedevi anche sul pavimento, grossi, e ci toglievamo i pezzi di carne per grattarci. A me è venuta una malattia che avevo tutti i buchi sulla faccia. D'inverno faceva molto freddo, non c'era il riscaldamento e l'umidità era terribile. Ti marcivano le ossa. Ancora adesso cammino male e questo me lo sono guadagnato qua dentro».

Milka comincia a girare dentro l'edificio, cerca di ricordare e ritrovare la sua stanza. Cammina traballante e con le mani sempre davanti. Non riesce ad entrare, si aggrappa al braccio di chi le è vicino, guarda restando sulle porte e dice che ormai tutto è diverso. «Le stanze - ripete - le stanze, le stanze». Va verso un balcone ed esce: «Qui si veniva e guardavamo fuori. Stavo qui e guardavo», sospira. Poi va verso il cortile: «Ecco la fontana, questa è rimasta uguale. Sono arrivata a vederla. Mi tremano le gambe come una foglia». La fontana è di ferro battuto, al centro del cortile. Milka si siede per riposare un po'. E piange: «Per mio marito - dice - lui soffriva più di me e dopo la guerra non è mai stato bene. Il signore se l'è preso 25 anni fa. Ma sai come piangevamo quando siamo usciti di qua? Io ci sono stata 3 anni ma eravamo tanti, non solo italiani, anche tedeschi, jugoslavi e spagnoli, che la sera qualche volta suonavano. E' l'unico ricordo bello. Il resto è tutto buio. Un giorno sono arrivati i tedeschi, hanno spalancato il portone. Per fortuna c'erano i Campos, madre e figlio, che parlavano tedesco. Gli hanno raccontato come stavamo male e loro ci hanno aperto e ci hanno lasciati uscire. Lo so che i tedeschi hanno fatto male al mondo, l'ho visto alla televisione, eppure a noi ci hanno lasciato andare, senza mitragliarci. Siamo fuggiti subito, come fanno i conigli quando scappano dalle gabbie. Davvero - sorride - è la santa verità davanti a Dio. Poi abbiamo ricominciato a girare e battere il rame, abbiamo comprato un carrettino, anche un cavallino e siamo arrivati a Roma. Adesso voglio essere pagata per quello che abbiamo sofferto. Ora che ci sono i documenti c'è scritto, non si può più dire che non è vero».

Gli elenchi degli internati

Negli archivi della prefettura, infatti, il professor Tanzi ha trovato due elenchi di rom internati e anche altri documenti che raccontano la storia di Agnone. Milka chiede un risarcimento che le sarebbe dovuto. Come a tutti gli ex internati, come per qualcuno è stato fatto. Non per i rom, vittime negate prima ancora che dimenticate.

Un po' più tardi, nella sala del consiglio comunale, il sindaco di Agnone, Gelsomino De Vita, area centrodestra, le chiede ufficialmente scusa. Dice: «Io chiedo scusa a Milka, a Tomo Bogdan che era con lei e oggi è rimasto a Roma perché sta male, al marito di Milka che non c'è più e a tutti gli altri rom internati qui nella nostra città. Ci sono silenzi che pesano sul popolo di Agnone. Lo abbiamo capito tardi, ma oggi la cittadinanza vuole chiedere scusa. Se accetti, Milka, io ti chiedo scusa». E lei: «Ma prego, prego signor sindaco, non mi dica così, non faccia così. Io le sono riconoscente. Io però vivo in una roulotte che è grande come questo tavolo, con i buchi e non ho niente. Nemmeno la cittadinanza, solo il permesso di soggiorno. Sono ancora straniera, dopo la prigionia e più di 60 anni in questo paese. E non ho mai staccato uno spillo da una siepe, anzi ho tolto il pane dalla mia bocca per darlo agli altri. Qui ad Agnone sono stata male e non si guarisce più. Vorrei una sistemazione e forse lei, signor sindaco, può aiutarmi».

Milka chiede un posto dove vivere, e dice che con lei lo chiedono molti altri rom. Il sindaco risponde che la aiuterà e le consegna un attestato: oltre alle scuse c'è scritto che è cittadina d'onore. Lei, uscendo, dice che non sa leggere, ma «mi ha fatto piacere vedere dove ho sofferto». Nessuno ha parlato di fascismo e di responsabilità politiche, ma almeno, come voleva l'Osservatorio, qualcosa è stato fatto mettendo insieme persone e luoghi diversi, testimoni e documenti. Un atto di verità unico e importante per il nostro paese: il riconoscimento di una persecuzione che diventa strumento di conoscenza contro l'indifferenza e i revisionismi. E le scuse di una città a una donna rom che, con i suoi 83 anni, ha fatto un po' meno fatica a risalire sul furgone per tornare a Roma. Almeno per una notte.

L’aggressione scatenata dall’Italia contro l’Etiopia nel 1935 come guerra 'coloniale' è in ritardo sui tempi, sostanzialmente ‘antistorica’, dichiarata in un’epoca in cui altrove in Africa già cominciano a mostrare i primi segni di crisi impianti coloniali ben più solidi e sperimentati.

L’impresa tuttavia è ritenuta da Mussolini un’utile carta da giocare sia sul fronte del prestigio internazionale che su quello interno, dove il recupero di antiche suggestioni imperiali diventa utile strumento di compattamento, soprattutto dopo i guasti causati dalla crisi del ‘29.

D’altro canto egli è anche consapevole - come in effetti ripetutamente dichiara - che la guerra debba essere rapida e, soprattutto, vittoriosa.

Il ricordo delle dolorose disfatte italiane in Africa è ancora vivo nel paese al punto da potervisi richiamare, nella fase preparatoria della guerra, come a un un’onta da cancellare: “vendicare Adua” diventa l’abusata giustificazione ma anche l’efficace spinta ideologica che fa del fascismo il vindice della débâcle dell’Italia liberale, legittimando per questa via la superiorità del regime, capace finalmente di realizzare l’antico sogno di annettere l’impero negussita riscattando l’onore del paese. Per altri versi nella memoria di Adua si raggruma anche un timore mai sopito nei riguardi di un avversario che, per quanto male equipaggiato, è numericamente imponente e può contare su una grande mobilità su un terreno impervio e difficile ma familiare. Anche per questa ragione, per non correre rischi, il regime non bada a mezzi, non lasciando nulla al caso e avvalendosi di una superiorità tecnica indiscutibile che include, pur di allontanare ogni possibilità di fallimento, anche il ricorso all’uso dei gas.

Al riparo dai controlli normalmente garantiti in un governo democratico (oltre che duce del fascismo e capo del governo, Mussolini all’epoca ricopre la gran parte delle cariche politiche: è ministro della Guerra, della Marina, dell’Aeronautica, delle Colonie, degli Esteri, dell’Interno), e disponendo del controllo pressoché totale dei media anche come formidabile strumento di produzione del consenso (non a caso la guerra d’Etiopia, vanamente denunciata da fogli clandestini come “L’Unità”, diviene la più popolare delle guerre italiane), il fascismo può assicurare alla campagna d’Etiopia, e a chi militarmente la conduce, di godere di una totale copertura politica.

Già a partire dalla fase preparatoria della guerra, in un Promemoria segreto di Mussolini, si fa riferimento esplicito all’uso dei gas, prospettato come una normale necessità di guerra.

Datato 30 dicembre 1934 e inviato alle autorità politiche e militari dello Stato, dal documento emergono direttive e scenario dell’imminente guerra all’Etiopia e di una vittoria che si vuole “rapida e definitiva”. A questo scopo Mussolini precisa che si devono predisporre grandi mezzi. “[...] Superiorità assoluta di artiglieria e di gas. Più sarà rapida la nostra azione e tanto minore sarà il pericolo di complicazioni diplomatiche”.

E difatti durante il conflitto Mussolini autorizza, in una serie di telegrammi indirizzati ai generale Graziani e al Maresciallo Badoglio, rispettivamente comandanti del fronte meridionale e comandante superiore in Africa orientale, il ricorso a “qualunque mezzo”, facendo costantemente riferimento alla necessità di operare con la “massima decisione” ed esplicitamente riferendosi all’ “impiego gas qualunque specie et su qualunque scala” (Mussolini a Badoglio, il 29 marzo 1936) pur di piegare la resistenza etiopica, autorizzandone il ricorso anche “per ragioni di difesa” o per rappresaglia. Il duce sembra prendere in considerazione anche l’eventualità di ricorrere, se necessario, all’uso di armi batteriologiche, venendone dissuaso, tuttavia, da Badoglio.

L’uso delle armi chimiche e batteriologiche era stato proibito dal trattato internazionale di Ginevra del 17 giugno 1925 sottoscritto dal governo italiano, che tuttavia lo vìola, in occasione delle sue campagne africane, già in Libia, tra il 1923 e il 1930 (con i governatori De Bono e Badoglio), per piegare la resistenza delle popolazioni locali. Ma è con la campagna d’Etiopia che il ricorso all’uso dei gas da parte italiana si fa sistematico, come risulta esplicitamente da una nota dell’epoca, controfirmata da Mussolini, in cui risulta soprattutto la preoccupazione del regime di trovare possibili giustificazioni alle proprie reiterate e massicce violazioni del trattato di Ginevra, consapevole dell’impossibilità di poter continuare a celarle o negarle a lungo.

In realtà, nonostante le denunce immediate del governo etiopico e di buona parte della stampa internazionale, la consapevolezza del crimine mette in moto, a partire dagli anni del conflitto e fino ad anni assai recenti, una fitta rete di censure, silenzi, rimozioni ma anche di reazioni scomposte nei riguardi di chi cerca di far luce su quelle pagine di storia nazionale. “La guerra chimica - scrive G. Rochat - fu cancellata dalla stampa, dalla produzione documentaria e memorialistica e dalla coscienza popolare con un’efficacia che ha pochi precedenti”.

Ne è risultato, a livello di comune sentire, una sorta di addomesticamento della memoria di estrema efficacia nel rimuovere colpe e responsabilità che l’inaccessibilità degli archivi ha a lungo contribuito a sottrarre allo studio e alla ricerca.

E’ solo nel 1996, a distanza di sessant’anni dagli eventi e a seguito di polemiche durate decenni che, in risposta ad una serie di interpellanze parlamentari e ad un appello sottoscritto da buona parte degli storici italiani, il Governo italiano ammette ufficialmente attraverso il ministro della Difesa, generale Domenico Corcione, l’impiego di bombe e proiettili d’artiglieria caricati ad iprite e arsine in occasione della guerra d’Etiopia.

La recente apertura degli archivi militari ha consentito agli storici una prima stima che, senza pretesa di completezza, valuta in almeno 500 tonnellate il totale di iprite e fosgene utilizzato contro militari e civili etiopici in azioni effettuate anche negli anni successivi alla proclamazione dell’Impero.

Qui il link al Museo Virtuale delle Intolleranze e degli Stermini (f.b.)

Il 6 aprile 1941 l'esercito italiano e quello nazista invasero la Jugoslavia. La Slovenia viene smembrata fra Italia (il territorio che diventa provincia di Lubiana) e Germania. Per quanto riguarda la Croazia il 18 maggio Aimone di Savoia, diventa re di Croazia, con il collaborazionista Ante Pavelic come primo ministro.

Le prime formazioni partigiane slovene iniziarono la loro azione nel luglio 1941, con effettivi molto limitati (vengono successivamente indicate in 8-10 mila). Il primo tentativo di annientamento del movimento di liberazione jugoslavo, con un'azione congiunta italo-tedesca, viene realizzato nell’ottobre 1941. Esso termina con un totale fallimento, malgrado l’uso sistematico del terrorismo verso le popolazioni civili, le stragi e la distruzione, le rappresaglie feroci verso i partigiani e le loro famiglie (solo a Kragulevac, furono fucilate 2300 persone).

Con l'inasprimento della lotta, i nazifascisti tentano una seconda grande offensiva, con 36.000 uomini. Scarsi risultati, moltissime vittime. I partigiani riescono a sfuggire al tentativo di accerchiamento.

La terza grande offensiva si svolge dal 12 aprile al 15 giugno 1942, sotto la direzione del generale Roatta. Ancora una volta grandi perdite, stragi e distruzioni: non viene raggiunto l'obiettivo di annientamento.

Intensificazione delle azioni contro guerriglia in Slovenia da parte delle forze del XI^ Corpo d'Armata (quattro Divisioni italiane, con l'aggiunta dei fascisti sloveni della "Bela Garda" (Guardia Bianca). Sempre feroci le azioni di terrorismo contro i civili e la deportazione delle popolazioni di intere zone, senza distinzioni di sesso e di età.

Bilancio delle vittime slovene in 29 mesi di terrore fascista

nei 4.550 Km quadrati di questo territorio:

Ostaggi civili fucilati: n. 1.500

Fucilati sul posto: n. 2.500

Deceduti per sevizie: n. 84

Torturati e arsi vivi: n. 103

Uomini, donne e bambini morti nei campi di concentramento: n. 7.000

Totale: n. 13.087

In Slovenia, già dall’ottobre del 1941, il tribunale speciale pronuncia le prime condanne a morte, il mese dopo entra in funzione il tribunale di guerra. La lotta contro i partigiani, che diventano una realtà in continua espansione, si sviluppa nel quadro di una strategia politico-operativa rivolta alla colonizzazione di quei territori. Con l’intervento diretto dei comandi militari italiani la politica della violenza si esercita nelle più svariate forme: iniziano le esecuzioni sommarie sul posto, incendi di paesi, deportazioni di massa, esecuzioni di ostaggi, rappresaglie sulle popolazioni a scopo intimidatorio e punitivo, saccheggiamento dei beni, setacciamento sistematico delle città, rastrellamenti… prende corpo il progetto di deportazione totale della popolazione, con il trasferimento forzato degli abitanti della Slovenia, progetto che i comandi discutono con Mussolini in un incontro a Gorizia il 31 luglio 1942 e che non si realizza solo per l’impossibilità di domare la ribellione e il movimento partigiano. Nel clima di repressione instauratosi con l’occupazione militare nel territorio jugoslavo, per il regime fascista nasce inevitabilmente l’esigenza di creare delle strutture per il concentramento di un gran numero di civili, deportati da quelle regioni.

In una lettera spedita al Comando supremo dal generale Roatta in data 8 settembre 1942 (N. 08906), viene proposta la deportazione della popolazione slovena. "In questo caso scrisse si tratterebbe di trasferire al completo masse ragguardevoli di popolazione, di insediarle all'interno del regno e di sostituirle in posto con popolazione italiana".

I campi di concentramento e deportazione italiani furono almeno 31 (a Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, ecc.), disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Solo nei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel lager di Arbe (Yugoslavia) ne morirono 1.500 circa. Vi furono internati soprattutto sloveni e croati (ma anche "zingari" ed ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini.

A proposito ecco un documento del 15 dicembre 1942, in quella data l'Alto Commissariato per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati "presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame", sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: "Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo".

Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell'XI Corpo in cui si parlava di "briganti comunisti passati per le armi" e "sospetti di favoreggiamento" arrestati, in una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose; "Chiarire bene il trattamento dei sospetti, cosa dicono le norme 4C e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!".

L'ultima frase è sottolineata, il generale Robotti alludeva alle parole d'ordine riassuntive del generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia (Supersloda) il quale nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge:

"Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente".

E infatti furono migliaia i civili falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla "Provincia del Carnaro", dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.

Dal sito dell'ANPI

Claudia Cernigoi, Operazione foibe a Trieste, Edizioni Kappa Vu, Udine 1997

Il libro è integralmente pubblicato in formato digitale nel sito http://www.cnj.it/foibeatrieste/, "per renderne accessibile la preziosa documentazione in seguito all'esaurimento di tutte le copie disponibili".

PREFAZIONE

Credo che il lavoro di Claudia Cernigoi sia una specie di lezione per la categoria di persone che si occupano professionalmente di storia, alla quale appartengo, che tanto scarsa prova di se hanno dato nell’affrontare la questione delle foibe. Mentre infatti paleo e neo revisionisti e fascisti, largamente finanziati da privati e istituzioni pubbliche, inviano i loro libercoli propagandistici a magistrati e scuole, dove poi vengono invitati - per ignoranza o peggio - a tener lezione sul “genocidio di italiani della Venezia Giulia”, gli storici professionisti “democratici.. (salvo rare e perciò ancor più apprezzabili eccezioni, che peraltro non trovano spazio sugli stessi media che ne offrono in abbondanza a Pirina & C.) non si degnano di affrontare seriamente la questione per mettere fine alle strumentalizzazioni, ma si dedicano, nel migliore dei casi, a girare attorno all’argomento e a dotte riflessioni su giornali e TV che generalmente giungono a

una conclusione comune: quanto fossero cattivi i comunisti, e gli “slavocomunisti” in particolare, e come le masse combinino orrori quando si muovono per modificare a proprio favore equilibri sociali ormai insopportabili. E nel fare tutto questo si danno sostanzialmente per buone cifre e tesi presentate dai revisionisti, limitandosi a formulare ipotesi sulle motivazioni dei presunti “massacri”.

Ma come biasimare gli storici “democratici”, se poi a scatenare l’ultima campagna propagandistica sulle foibe a livello nazionale è stata la “sinistra democratica” ora al governo! Essi in realtà non fanno che adeguarsi (con maggiore o minore convinzione) al clima della “pacificazione nazionale” (che partendo dalla comprensione per i fascisti arriva a farne dei martiri dell’”italianità”), finalizzata al ricompattamento politico della borghesia italiana e a fornire un supporto ideologico alla nascente Seconda Repubblica e alle sue mire da potenza regionale. Indirizzandosi queste mire in primo luogo verso obiettivi tradizionali, come l’Albania e le regioni confinarie slovene e croate, ecco rimessi in campo anche gli altrettanto tradizionali strumenti propagandistici e di pressione su Slovenia e Croazia, da sempre inscindibilmente legati tra loro: foibe ed esodo. E non si può non accorgersi di come le campagne stampa su questi temi preparino il terreno, con l’aizzamento dell’odio nazionale, a un eventuale energico intervento di “riparazione dei torti subiti”.

Il lavoro di Cernigoi, anche se affronta la questione foibe nel solo territorio della provincia di Trieste, era quindi più che necessario. L’autrice non nega la realtà delle foibe, né gli eccessi e le vendette personali, ma attraverso una ricerca rigorosa riporta il fenomeno fuori dal mito, presentandoci sull’argomento un lavoro agile, ma organico e completo. I risultati immediati del lavoro (presentato già in parte sul periodico La Nuova Alabarda) sono tutt’altro che disprezzabili (tenuto conto poi del fatto che i media locali ne hanno costantemente taciuto) avendo infatti costretto Pirina a ritirare “spontaneamente”dal commercio il suo “Genocidio” per correggerne gli “errori”. Ma è stata anche messa in serissimo dubbio l‘esistenza di infoibati in quella che è la foiba-simbolo di Trieste, quella di Basovizza (lo Šoht), dichiarata monumento nazionale non molti anni fa e sulla quale si svolgono ogni anno celebrazioni, alle quali partecipano autorità e picchetti d’onore militari.

I meriti maggiori del libro sono però due: l’aver affrontato la questione di chi e quanti fossero gli infoibati nella zona di Trieste e la ricostruzione, breve ma esaustiva, della storia dell’utilizzo propagandistico delle foibe. Il curriculum di squadristi, aguzzini, spie e altro, nonché la presenza tra gli uccisi di diversi sloveni, smentisce nel modo migliore la tesi degli infoibati uccisi solo in quanto italiani e chiarisce i veri motivi del fenomeno foibe.

Per quel che riguarda il numero degli infoibati si tratta di ristabilire semplicemente la verità storica - quella di un fenomeno limitato – di fronte alle cifre iperboliche letteralmente inventate dagli ambienti nazionalisti e (neo)fascisti.

La ricostruzione delle vicende dell’uso propagandistico del tema foibe dimostra come la cosa venga da lontano e come quella intorno alle foibe sia stata, e sia tuttora, una operazione di vera e propria “dezinformacija”, di guerra propagandistica, e lascia intravedere, per gli ambienti in essa coinvolti (X Mas), collegamenti con altre operazioni (per es. Gladio). E risulta molto più plausibile anche l’ipotesi che la costante riproposizione delle sparate propagandistiche sulle foibe faccia parte di un progetto politico molto più ampio (comprendente per esempio l’insediamento massiccio di esuli a Trieste) per mantenere alta la tensione nazionale in queste terre di confine.

Ed è proprio a partire da questo ultimo tema, che indica prospettive di ricerca tutte da percorrere, che vorrei fare alcune considerazioni generali più ampie. Contro il revisionismo, ormai divenuto dottrina semi-ufficiale anche della sinistra di governo, non serve a mio avviso cercare di difendersi, come fanno parte degli ex comunisti locali sulla questione delle foibe, vantando meriti patriottici e scaricando le presunte responsabilità sui comunisti sloveni e croati, facendo così il gioco di chi vuole ridurre tutto a contrapposizione nazionale, A mio avviso la sfida del revisionismo va accettata ritorcendogli contro i suoi stessi argomenti, come ha fatto l’autrice di questo libro, e abbandonando l’impostazione oleografica della Resistenza. La Resistenza non è stata infatti solamente lotta di liberazione nazionale, ma anche lotta per il potere da parte della classe operaia e delle altre classi subalterne.

Nella Resistenza c’era chi lottava per questi obiettivi e chi (per sua stessa ammissione) c’era entrato per impedire che tali obiettivi si realizzassero, se necessario anche con le armi e con l’aiuto dei fascisti, e riconsegnare il potere nelle mani di quella borghesia che il fascismo lo aveva finanziato e messo al potere. Come dimostra anche la vicenda delle foibe, i connubi con i fascisti sono continuati anche nel dopoguerra, tanto che lo stesso assioma secondo il quale la Repubblica sarebbe nata dalla Resistenza va messo in discussione, viste le persecuzioni dei partigiani comunisti e le stragi di operai e contadini attuate da quella stessa Repubblica (con largo ricorso a personale fascista) fin dall’immediato dopoguerra (per non parlare delle successive “Stragi di Stato”).

Alla luce di queste considerazioni e di quanto dice questo libro risulterà forse più chiaro come mai ogni anno rappresentanti ufficiali delle istituzioni repubblicane si rechino alla foiba di Basovizza ad onorare la memoria di “martiri dell’italianità” del tipo di quelli che ci descrive Claudia Cernigoi. Ed i primi a sentirsi offesi dal fatto che l’italianità venga rappresentata da “martiri” di tale risma, dovrebbero essere proprio quegli italiani che desiderano rispettare se stessi ed essere rispettati dai popoli vicini.

Sandi Volk

ricercatore storico

INTRODUZIONE

È da ormai cinquant’anni che l’immaginario reazionario si trastulla con il discorso del “genocidio” delle foibe, ma negli ultimi due anni il problema ha assunto rilevanza nazionale dopo la campagna stampa attivata intorno all'inchiesta sulle foibe condotta dal Pubblico Ministero di Roma Pititto e, più recentemente dall’estate del '96, dopo gli interventi non solo locali ma anche a livello nazionale dei vertici del P.D.S. che, in una malintesa logica di “pacificazione”, hanno raccolto gli inviti delle destre revisioniste che chiedevano, dopo il processo Priebke, anche «giustizia per i crimini delle foibe» [1]. Dopo questa pubblica “assunzione di colpa”, da parte del partito degli ex-comunisti (si noti però che queste “colpe” il P.D.S. le fa comunque ricadere su altri, non su se stesso!), anche i dibattiti e le discussioni sulla revisione della storia hanno preso nuovo avvio, ma questo problema lo approfondiremo in maniera più organica nell'ultimo capitolo.

Lo spunto per questa nostra ricerca ci è stato dato dalle dichiarazioni del PM Pititto, che intende chiedere il rinvio a giudizio per “genocidio” di un numero imprecisato di persone, e che ha più volte asserito che una delle “prove” basilari della sua inchiesta sono i libri pubblicati dal pordenonese Marco Pirina.

È appunto partendo da uno di questi libri di Pirina (il numero 4 della collana “Adria Storia” ovvero “Genocidio...”, che tratta anche della zona di Trieste), che abbiamo cercato di fare un po’ di luce su tutto ciò che in questi anni è stato detto a proposito (ed a sproposito!) sulle foibe.

Le pagine che seguono non vogliono essere un punto di arrivo ma un punto di partenza per fare finalmente luce sulla questione foibe, al di là delle facili retoriche, delle demagogie strumentali, degli pseudo-studi condotti finora solo da una parte politica, in funzione meramente propagandistica.

Noi non affronteremo il problema “foibe” né da un punto di vista politico né da un punto di vista etico: intendiamo semplicemente fornire dei dati di fatto (sui quali non v’è possibilità di intervenire polemicamente, perché si tratta appunto di fatti dimostrati) allo scopo di ritrovare le vere dimensioni di quello che viene spacciato come «genocidio di migliaia di infoibati perché italiani». In tutti questi anni a Trieste la destra ha continuato a perpetrare la propria ideologia facendosi forte della lotta contro gli «slavocomunisti infoibatori di italiani», mentre la sinistra non ha mai avuto la volontà di prendere in mano i dati sulle foibe per cercare di fare chiarezza, per ricercare la verità, per realizzare uno studio serio, basato su dati incontrovertibili e testimonianze attendibili e non su “voci” o “sentito dire”; uno studio che dimostri cosa effettivamente c’è e c’è stato nelle varie foibe; quanti siano realmente stati i morti e di questi quanti i militari, quanti i partecipanti ai rastrellamenti, quanti i membri della Guardia Civica, della Guardia di Finanza, dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza e quanti i civili; e di questi quanti i collaborazionisti e via di seguito.

Lo studio che presentiamo vuole appunto fare chiarezza sulla storia delle nostre terre, vuole rendere giustizia ai morti di tutte le parti, finora strumentalizzati a scopo di propaganda; vuole mettere fine a quella continua creazione di elementi di tensione politica in un’area di confine delicata come la nostra e, oltretutto, potrebbe servire a liberare finalmente anche gli Sloveni e la sinistra tutta da quel senso di colpa che si portano dietro come “infoibatori”, accusa che viene loro mossa incessantemente da cinquant’anni senza che d’altra parte si tenga minimamente conto dei vent’anni di dominio fascista e snazionalizzazione forzata subita dai popoli “non italiani” e dei successivi anni di guerra con massacri feroci perpetrati contro le popolazioni dell’Istria, della Slovenia e di tutta quell’area che una volta veniva chiamata Venezia Giulia.

Le “prove” del “genocidio”

Gianni Bartoli, già sindaco democristiano di Trieste (noto come Gianni Lagrima dato che nei suoi comizi si metteva regolarmente a piangere ricordando le terre perdute d’Istria e Dalmazia), pubblicò nel 1961 il “Martirologio delle genti adriatiche-Le deportazioni nella Venezia Giulia e Dalmazia”, libro che raccoglie 4.122 nomi di “scomparsi” (dalle province di Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia...); questi nomi sono accompagnati da note biografiche che, pur nella loro incompletezza, possono servire, se lette con un minimo di fantasia e senso critico, ad inquadrare la realtà dei fatti. Dei militari, ad esempio, è spesso indicato il posto in cui risulterebbero dispersi (dispersi in combattimento, si badi bene, quindi non “infoibati”); le indicazioni riferite ai “civili”, invece, possono spesso essere d'aiuto per ricostruire la storia della persona scomparsa, che da un’indagine accurata può risultare completamente diversa da quella indicata da Bartoli [2].

Un altro discorso merita l’”Albo d’oro” [3] di Luigi Papo (che si autonomina “de Montona”, ma, visto che è nato a Grado e non a Montona, che è una cittadina dell’Istria, a noi viene voglia di chiamarlo “de Grado”...), il quale riporta (salvo errori di computo nostri, visto che lui non fornisce il totale), 20.712 nomi di morti tra Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia e non meglio identificate “terre irredente” (“Fronte russo”, “Fronte greco”, Corsica...), in un periodo storico che inizia con il 10.6.40, ed arriva fino a citare il generale Licio Giorgieri (ucciso dalle B.R. il 28.3.87) ed il militare Millevoi Andrea (ucciso a Mogadiscio l’1.7.93). E perché non, ci chiediamo noi, anche Pietro Greco, ucciso a Trieste dalla polizia il 9.3.85 oppure i giornalisti della RAI uccisi a Mostar e a Mogadiscio nel 1994 ?

Tra questi oltre ventimila nomi troviamo: tutti i caduti sui vari fronti della seconda guerra mondiale, i deportati nei lager tedeschi, i partigiani (mancano però sia Alma Vivoda, uccisa da un carabiniere a Trieste il 28.6.43 [4], che Pinko Toma’i’, fucilato ad Opicina dai fascisti il 15.12.41), i morti sotto i bombardamenti, nelle rappresaglie naziste, e le “vittime degli slavi” tra le quali spiccano perle come questa: «Ciurcovich Leonardo, da Borgo Erizzo (Zara), ivi ucciso il 9.8.40 per aver difeso la propria italianità di fronte ad elementi slavofili». Con quel cognome la vicenda ci pare contraddittoria...

Oppure quest’altra: «Serbo Eugenio, capitano 57° Rgt. Art. Div., rimpatriato dalla Germania fu catturato dagli Slavi e deportato nei pressi di Lubiana; risulta deceduto il 14.12.44 a Leitmeritz».

Ora, Leitmeritz è il nome tedesco di Litom’rice, cittadina che si trova nell’attuale Repubblica Ceca nei pressi di Terezin [5], praticamente a metà strada tra Praga e Dresda. Ci pare difficile che i non meglio identificati “slavi” di cui parla Papo siano riusciti a deportare il capitano Serbo a Lubiana e farlo morire nel 1944 in un lager tedesco.

Nell’insieme il libro di Papo è un elenco di nomi e dati non sempre completi. Quanto alle introduzioni ed alle note, più che della solita becera propaganda nazional/fascista non si tratta. Giova forse ricordare che durante la guerra Luigi Papo si è reso responsabile di rastrellamenti in Istria; fu arrestato dai partigiani per i crimini di guerra da lui commessi e deportato a Prestranek in Slovenia, da dove però venne rilasciato. Importante elemento dei servizi d'informazione della Milizia repubblichina, collaborò, dopo la fine della guerra con i servizi alleati ed i neocostituiti servizi italiani, occupandosi, indovinate un po', di documentazioni sulle foibe... Logicamente non possiamo attenderci da lui informazione storica imparziale.

Tuttavia, pur con tutte le duplicazioni e le inesattezze presenti nei libri di Bartoli e di Papo, essi sono di gran lunga più accurati degli elenchi pubblicati nei libri di Pirina [6], che riportano anch’essi duplicazioni ed inesattezze (senza, tra l’altro, avere la scusante che potrebbe avere Bartoli e cioè che ai suoi tempi non esistevano i computer!), ed hanno inoltre il grosso difetto di non riportare la minima nota esplicativa ai nomi trascritti. Si tratta cioè di un mero elenco di nomi, a volte solo di cognomi, talvolta con l’indicazione della qualifica e della data di “scomparsa” (ma tali indicazioni, anche quando ci sono, spesso - come vedremo - non corrispondono al vero); in ogni caso, Pirina non chiarisce cosa possa essere successo a questi "scomparsi", limitandosi a scrivere “D” per deportato, “S” per scomparso, “I” per infoibato...; però non riporta alcun “R” (rimpatriato) se il “deportato” ha poi fatto ritorno, come in molti casi è successo. Tutto ciò serve solo a lasciar credere che tutti i deportati siano anche scomparsi facendo lievitare le cifre dei morti.

Neanche nel capitolo dedicato alle “foibe” Pirina dà prova di serietà, mescolando assieme “foibe” istriane e triestine, inserendo prima un ‘abisso di Semich’ e poi un ‘abisso di Semez’ nella stessa pagina, senza accorgersi (?) che si tratta dello stesso “abisso” e facendo poi una gran confusione tra i morti della foiba Plutone e quelli di Gropada. Vale la pena qui di citare il passo, perché è indicativo del modo di lavorare di Pirina:

«FOIBA DI GROPADA. Sono recuperate 5 salme. “...Il 12 maggio 1945 furono fatte precipitare nel bosco di Gropada 34 persone, previa svestizione e colpo di rivoltella alla nuca. Tra le ultime Dora Ciok, Rodolfo Zuliani, Alberto Marega, Angelo Bisazzi, Luigi Zerial e Domenico Mari”».

A parte che Pirina non cita la fonte da cui ha tratto questi dati, va precisato in ogni caso che dalla foiba di Gropada furono recuperati 10 corpi di persone uccise in tempi diversi, e che, come vedremo nel Cap. III, Dora ‘ok (e non Ciok!) e Marega sono stati uccisi a Gropada nel maggio del ‘45, ma Zuliani e Zerial furono infoibati già a gennaio (erano due ex-partigiani.che si erano dedicati alla borsa-nera); ed infine Bigazzi (non Bisazzi!) e Mari sono stati uccisi e gettati nella Plutone (foiba che Pirina stranamente non nomina).

Ma appunto neanche Pirina è uno “studioso” imparziale. Presidente del FUAN (l’organizzazione universitaria neofascista) a Roma alla fine degli anni Sessanta, fu anche presidente del “Fronte Delta”, gruppo di estrema destra operante all’università “La Sapienza” di Roma. Per l’attività in questo gruppo fu incriminato per il coinvolgimento nel golpe Borghese; arrestato nel luglio del 1975 fu rilasciato un mese dopo e poi prosciolto, come tutti quelli coinvolti nel golpe. Alla fine degli anni Ottanta Pirina fonda a Pordenone l’associazione “Silentes loquimur”, e, grazie anche a finanziamenti pubblici, è riuscito a sfornare più o meno un libro all’anno sui temi dei “crimini” compiuti dai partigiani, testi di matrice tipicamente revisionista e comunque pieni di inesattezze e falsi storici.

Nella sua carta intestata si autonomina “Prof. Marco Pirina, deputato al Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace, Presidente Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes loquimur”, presidente Commissione Cultura comune di Pordenone” (quest’ultima parte, purtroppo, corrispondeva al vero, almeno fino alle recenti elezioni comunali).Ed è proprio dall’analisi del libro “Genocidio... Adria storia 4” di Marco Pirina ed Annamaria D’Antonio (edito dalla “Silentes loquimur”), che presentiamo nelle pagine seguenti, che risulterà evidente il metodo della falsificazione e del revisionismo storico seguito dai due autori.

CAPITOLO I

A TRIESTE LA STORIA NON COMINCIA IL 1° MAGGIO 1945

1.UN PO’ DI STORIA

Prima di addentrarci nella “ricerca” di Pirina dobbiamo parlare un po’ di storia, perché la storia di Trieste e della Venezia Giulia non è purtroppo molto conosciuta, neanche in zona, e spesso la gente tende a dimenticare che prima del 1° maggio del 1945 (giorno della liberazione di Trieste per mano partigiana) erano accadute un bel po’ di cose, la maggior parte delle quali di gran lunga peggiori delle peggiori azioni compiute nei 40 giorni di amministrazione jugoslava. Ma la maggior parte della gente, purtroppo, tende a dimenticare le cose avvenute prima, anche perché, come diceva il poeta Carolus Cergoly nella sua poesia sulla Risiera di S. Sabba: «Su, femo i bravi. / In fondo xe un brusar / Ebrei e Slavi» [1]. Così era la concezione mentale del triestino medio, che non visse male sotto il fascismo prima ed il nazismo poi, perché “non si occupava di politica”, innanzitutto, e poi era “italianissimo” ed “arianissimo”, ed in fin dei conti sotto il duce non ci mancava niente e poi i Tedeschi mettevano un po’ d’ordine ed in fin dei conti gli Slavi sono un popolo di bifolchi e gli Ebrei lasciamo perdere... così era, ma così, disgraziatamente, è ancora, almeno in parte.

A Trieste il nazionalismo italiano assunse delle connotazioni esasperate, con caratteristiche che saranno poi tipiche dello squadrismo fascista, già prima dell’inizio della prima guerra mondiale. I propugnatori di questo “ideale” furono gruppi irredentistici, legati soprattutto ad alcuni ambienti massoni ci cittadini. Tra gli “ideologi” di questo irredentismo troviamo Ruggero Timeus il quale, dopo essersi autodefinito “irredentista-imperialista”, “militarista e conquistatore” asseriva: «A noi che la lotta abbia un carattere civile o anticivile non importa nulla... contro questi “ignari bifolchi” ...noi non possiamo rispondere con la severa coscienza nazionale... ma con l’odio che sussulta, che aggredisce, che affama... nell’Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono... Se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati...» [2]. Va precisato che nell’”Istria” Timeus comprendeva anche tutta la zona di Trieste, retroterra carsico compreso. Diceva ancora Timeus: «è dovere d’ogni popolo uccidere ogni imperialismo che non sia il suo», «noi accettiamo l’assioma germanico che la bontà di un’idea si dimostra con la forza» ed ancora: «l’italianità si afferma imponendola ai popoli stranieri. È questo un ideale che non si esaurisce che con la conquista del mondo».

Riteniamo a questo punto opportuno ricordare che al signor Timeus, propugnatore di simili “ideali”, è tuttora dedicata una via di Trieste...

Le idee di Timeus non erano solo sue, erano condivise da buona parte di quel movimento irredentista di cui si diceva prima, magari non in maniera tanto “estremista”, ma che comunque vedeva necessario stroncare i popoli slavi per fare spazio all’imperialismo italiano e che identificava nel plurinazionalismo asburgico il proprio nemico da eliminare.

Dopo la fine del primo conflitto mondiale le tappe della repressione “antislava” procedettero rapidamente: i soldati austroungarici prigionieri che rientravano a casa, soprattutto se slavi, vennero internati in campi di prigionia speciali e particolarmente duri, dove molti trovarono la morte per le privazioni e le malattie [3].

Come già nelle Valli del Natisone, dove la snazionalizzazione forzata della comunità slovena locale iniziò immediatamente dopo l’annessione al Regno d’Italia, così pure nella neonominata “Venezia Giulia” (composta dalle province di Trieste e di Gorizia, compresi i retroterra che oggi si trovano in Slovenia e l’Istria), sia nelle città che nelle campagne iniziarono subito le opere di snazionalizzazione e repressione. Già il 13 dicembre 1918 lo scrittore Sem Benelli, all’epoca capo dell’Ufficio Politico del Comando in Capo della Piazza Marittima di Pola, scrisse in un rapporto ufficiale: «le società politiche Jugo-Slave mantengono continuamente desto lo spirito di rivolta. Sono focolai che non hanno grande importanza ma che tengono gli animi sospesi ed a volte formano qual.che fanatico. Essi sono i piccoli Narodni Dom delle campagne. Si chiamano “Citaonce” ossia società di lettura... sarebbe opportuno sciogliere questi circoli politici... Anche il giornale Hrvatski List che nelle campagne è molto letto dai Croati, mantiene vivo il fermento Jugoslavo e la convinzione che l’occupazione italiana sia semplicemente provvisoria». L’originale del documento reca una nota manoscritta, relativamente al giornale: «farlo partire sempre con alcuni giorni di ritardo?» [4].

È dell' aprile del ‘19 invece la nota del commissariato civile di Pola in cui si comunica che delle 49 scuole croate (37 pubbliche e 12 private) esistenti prima dell’arrivo dell’Italia in quelle terre, 45 erano state chiuse, ma «era però necessario di provvedere acchè migliaia e migliaia di fanciulli non rimanessero, in seguito alla chiusura di tante e tante scuole, senz’alcuna istruzione. In esecuzione degli ordini del predetto Comando venivano perciò aperte scuole e giardini infantili con lingua d’insegnamento italiana anche in quelle frazioni dove non era ancora sistemata una scuola italiana provinciale e fu assunto il personale necessario» [5]. Queste direttive anticipano la famosa legge di riforma delle istituzioni scolastiche dell’ottobre 1923 (la legge Gentile) che sancirà la definitiva chiusura delle scuole di lingua non italiana (tedesche, slovene, croate) nelle nuove province del Regno d’Italia. «Nel corso dei cinque anni scolastici successivi, con l’uscita delle generazioni scolastiche precedenti, la lingua slovena sparì dalla scuola statale. Ciò significò la trasformazione di quasi 500 scuole elementari slovene e croate in scuole italiane» [6].

Trieste ha anche un altro primato: «il 3 aprile 1919, a pochi giorni di distanza dalla fondazione dei fasci in piazza S. Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), il fascio veniva costituito a Trieste» [7]. Cresce l’attività di violenza squadrista del neo-costituito partito fascista: nel 1920 a Trieste viene incendiato il centro economico, politico e culturale dei gruppi etnici sloveni e croati della città, il Narodni Dom, costruito all’inizio del secolo su progetto dell’architetto Max Fabiani, che ospitava al proprio interno una sede bancaria, un centro culturale, un albergo e la tipografia dei principali giornali sloveni, tra cui il quotidiano “Edinost”. L’edificio non verrà restituito, neppure dopo la Liberazione, alla comunità slovena della città ed oggi è trasformato in sede universitaria.

Tra il 1919 ed il 1922 i fascisti, finanziati dalla destra economica, «incoraggiati dall’alta burocrazia civile e militare, aizzati dalle campagne provocatrici e sciovinistiche del quotidiano “Il Piccolo” diretto da Alessi» [8], compiono decine di azioni squadristiche contro centri culturali e politici di tutta la “Venezia Giulia”, incendiando e distruggendo sedi, redazioni di giornali, tipografie; aggredendo, picchiando ed anche uccidendo militanti politici (però vi furono violenze anche contro scolaresche e va citata la strage di Strugnano [9], del 19.3.21, dove i fascisti spararono dal treno contro un gruppo di bambini che giocavano, ne uccisero due e ne ferirono cinque, due dei quali rimasero invalidi per tutta la vita).

Alla fine di queste “operazioni” si ebbe la chiusura di quasi mille circoli, tra culturali, sportivi, assistenziali, e moltissimi dei beni, confiscati, venivano assegnati ad associazioni fasciste. Nella maggior parte dei casi neanche queste sedi sono mai state restituite dallo Stato italiano, “nato dalla Resistenza”, agli aventi diritto.

Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, le violenze divennero anche “legali”: dal 1926, con l’entrata in vigore delle “Leggi Speciali per la difesa dello Stato” e poi dal 1931 con il codice Rocco e le sue leggi di polizia, la soppressione della stampa d’opposizione e lo scioglimento di tutti i partiti, ogni speranza di democrazia era sparita dall’Italia.

Oltre le azioni squadristiche v'erano anche altri sistemi per attuare la “pulizia etnica”: ad esempio i dipendenti non italiani (Sloveni, Croati, Tedeschi...) delle amministrazioni pubbliche (ferrovieri, insegnanti, poliziotti...) vennero o allontanati mediante trasferimento in località all’interno del Regno, oppure addirittura costretti a licenziarsi [10].

Contemporaneamente inizia la “riduzione” in forma italiana dei toponimi e dei nomi e cognomi “stranieri” [11], in modo tale da cancellare, ove possibile, anche la memoria dell’esistenza slava in queste terre.

Contro queste azioni di pulizia etnica e di programmato etnocidio vi furono dei tentativi di resistenza, anche armata, compiuti con organizzazioni “segrete”, quali il T.I.G.R. [12] e l'organizzazione “Borba”, che agivano contro singoli squadristi o collaborazionisti, contro postazioni militari e contro le scuole, che erano diventate centri di snazionalizzazione. Queste attività portarono ad una repressione feroce, basti pensare che «su 978 processi condotti dal Tribunale Speciale fascista negli anni 1927-1943, 131 furono condotti contro 544 imputati appartenenti alle minoranze slovena e croata. Su un totale di 4.596 condanne pronunciate, 476 furono comminate a Sloveni e Croati. Su 27.727 anni di carcere sentenziati, 4.893 furono inflitti a queste due comunità. E infine, su 42 condanne a morte, 33 furono emesse contro Sloveni e Croati. Negli anni 1930-1942 caddero davanti ai plotoni di esecuzione fascisti 19 Sloveni, dieci di essi prima dell'inizio della vera lotta armata» [13].

Il 6 aprile 1941 l’Italia sferra l’attacco alla Jugoslavia, arrivando alla creazione della “Provincia di Lubiana”, ed arrestando numerosi esponenti antifascisti sloveni, originari delle province di Trieste e Gorizia, che erano stati costretti all’esilio dalla repressione fascista. L’occupazione della Provincia di Lubiana, durata 29 mesi, fu contrassegnata da particolare durezza, tanto che esistono documenti del comando superiore delle Forze Armate italiane che recitano: «il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula “dente per dente” bensì da quella “testa per dente”» [14] e «si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostrassero timidezza ed ignavia...» [15]. Già i127 aprile del 1941, a Lubiana, si era costituito l’Osvobodilna Fronta–Fronte di Liberazione che, basandosi su un accordo interpartitico di lotta contro gli invasori italiani, tedeschi ed ungheresi, ed appoggiandosi ad alcuni militari jugoslavi non disposti ad arrendersi, sviluppò azioni di lotta partigiana fin dall’inizio contro gli occupanti, collegandosi anche con elementi attivi nel Litorale sloveno, cioè nelle province di Trieste e Gorizia.

Delle repressioni compiute dai fascisti in Istria, in Slovenia e nell’entroterra triestino e goriziano durante il secondo conflitto mondiale, stragi, incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio (che non erano solo tedeschi ma anche “italianissimi” come quelli di Arbe-Rab, in Dalmazia e di Gonars in Friuli), esiste ampia documentazione [16]; tanto per citare delle cifre: «Dopo il 1941 l’occupazione italiana e poi tedesca di ampi territori jugoslavi (vengono annesse all’Italia la “provincia di Lubiana”, capitale slovena e la Dalmazia occupate) è particolarmente feroce e provoca sino al 1945 nei territori adriatici (Litorale) tra gli Sloveni e i Croati ed anche tra antifascisti italiani complessivamente 45.000 morti, 7000 invalidi, 95.460 arrestati, internati e deportati in campi di concentramento italiani e tedeschi, 19.357 case distrutte totalmente e 16.837 parzialmente (per lo più interi villaggi), il tutto con atrocità in cui si distinguono sia italiani che tedeschi» [17].

Scrive Galliano Fogar [18]: «II 7 ottobre (1943, n.d.a.) Berlino annuncia la conclusione dei rastrellamenti “nella regione di Trieste da parte delle truppe tedesche e di reparti fascisti: sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati fra cui gruppi di ufficiali e soldati badogliani". Un comunicato del 13 afferma che la “pace” è stata raggiunta grazie a più di 13mila banditi uccisi o fatti prigionieri... A parte la gonfiatura propagandistica delle cifre, il numero delle vittime è stato altissimo e fra esse buona parte è di inermi civili.(...) “L’impeto dei tedeschi è meraviglioso” commenta il quotidiano triestino “Il Piccolo”. Raccontando l’odissea di un gruppo di prigionieri liberati dall’intervento germanico, il cronista rileva che gli scampati, mentre si dirigono verso Trieste, possono constatare che “ogni casa ha uno straccetto bianco di resa e tutti i rimasti salutano romanamente chiedendo pietà” (questo si riferisce alla zona di Pinguente, in Istria, n.d.a.). Dopo il passaggio delle truppe tedesche, il giornale riferisce che è tornata la tranquillità e giustifica lo strazio della cittadina di Pisino, osservando che “dure misure sono state provocate” dalla resistenza dei partigiani...».

Nella provincia di Trieste furono bruciati per rappresaglia i paesi di Mavhinje-Malchina, Čerovlje-Ceroglie, Vižovlje-Visogliano, Medjevaš-Medeazza, Mačkovlje-Caresana, Gročana-Grozzana.

Anche nella città di Trieste furono compiuti diversi eccidi di rappresaglia, di cui i più noti sono i seguenti: 3 aprile 1944: 71 fucilati al poligono di Opčine Opicina; 23 aprile 1944: 51 impiccati nell’edificio del Conservatorio di musica di via Ghega; 29 maggio 1944: 11 impiccati a Prosek-Prosecco; 18 settembre 1944: 18 ostaggi fucilati od impiccati; 21 settembre 1944: 5 fucilati della “missione Molina” [19]; 28 marzo 1945: 5 impiccati in via D’Azeglio; 28 aprile 1945: 20 fucilati al poligono di Opčine-Opicina. Ed abbiamo qui citato solo gli eccidi di maggior rilievo, senza contare i morti (dai 3 ai 5.000) della Risiera di S. Sabba, le migliaia di deportati nei lager tedeschi, sia Israeliti (tra cui gli 80 Ebrei prelevati dall’ospizio della Pia Casa Gentiluomo [20] ed i 25 prelevati dall’Ospedale Psichiatrico di Trieste), sia militari che non avevano voluto collaborare con la Repubblica di Salò ne con il Reich tedesco, sia partigiani e resistenti che semplici civili.

Oltre a tutto questo bisogna ancora ricordare che se il 25 aprile, giorno dell’insurrezione di Milano, è considerato a tutti gli effetti l’anniversario della Liberazione in Italia, questa data non rappresenta la fine generale delle ostilità. Infatti in varie parti d’Italia s’è continuato a combattere fino ai primi giorni di maggio. I partigiani hanno liberato Trieste il 1° maggio, però i nazisti in città si arresero definitivamente soltanto al 2 maggio, dopo l’arrivo delle truppe neozelandesi e ad Opicina si combatté fino al 3 maggio.

Dice Diego De Castro nel suo libro sulla “questione di Trieste”: «Mentre per gli Alleati, la guerra era finita, gli Slavi avevano ancora dietro le spalle i1 97° Corpo d’Armata tedesco, forte di oltre 15.000 uomini che, se fossero stati portati in tempo a Trieste, avrebbero difeso benissimo la città, attendendo gli Occidentali. Ordini errati li tennero fermi e, dopo pochi giorni, si arresero» [21].

Evidentemente De Castro avrebbe preferito un po’ di nazismo in più, in attesa dell'arrivo degli “Occidentali”. Comunque da questa affermazione appare chiaro come nell’immediato retroterra di Trieste le forze tedesche fossero ingenti, motivo per cui l’Armata jugoslava aveva di che stare sul chi vive. Infatti a Lubiana (che dista una sessantina di chilometri da Trieste), gli scontri terminarono appena l’11 maggio 1945.

[L'Autrice analizza nelle successive pagine i comportamenti di tutti gli altri crpi italiani, dalla X Mas alle guardie di finanza]

CAPITOLO II

IL NOSTRO STUDIO

[L’Autrice illustra il metodo seguito, le fonti utilizzate ed elenca i presunti “infoibati” della provincia di Trieste annotando per ciascunol’esito dei risconti. Conclude il capitolo come segue]

Alla luce di quanto esposto finora si possono trarre intanto le seguenti conclusioni:

1) nella provincia di Trieste non si può assolutamente parlare di “genocidio” per 517 persone di etnie diverse arrestate per motivi politici e poi, alcune giustiziate altre morte di malattia nei campi;

2) non vi furono massacri indiscriminati: della maggior parte degli arrestati si sa che erano militari o comunque collaboratori del nazifascismo;

3) le persone realmente “infoibate” risultano essere una quarantina;

4) di processi contro gli “infoibatori” e persone accusate di “delazione” nei confronti degli “scomparsi” se ne sono svolti un’ottantina e non si possono riprocessare le persone per gli stessi reati, né processare altri per reati dei quali si sono già condannati i colpevoli;

5) se vi furono delle vendette personali, di questo non si può rendere responsabile un intero movimento di liberazione, né creare un caso politico che dura da cinquant’anni.

In quanto alle onoranze richieste per i “caduti delle foibe” (commemorazioni, erezioni di monumenti e lapidi, intitolazione di vie), visti i ruoli impersonati dalla maggior parte degli “infoibati”, personalmente ci rifiutiamo di onorarli. Si può provare umana pietà nei confronti dei morti, ma da qui ad onorare chi tradiva, spiava, torturava, uccideva, ce ne corre.

Una lezione si può, e si deve, a parer nostro, trarre da tutto questo: che quando l’umanità si lascia trascinare dalla febbre del nazionalismo, dalla voglia di supremazia e prevaricazione di un popolo su un altro, dalla guerra imperialista, quando si lascia andare alla violenza, allora la violenza genera altra violenza fino a coinvolgere tutti, indiscriminatamente, chi ha iniziato la violenza e chi s’è dovuto difendere e magari è stato costretto a fare violenza a se stesso per riuscire a controbattere con la violenza alla violenza altrui.

Un’unica lezione bisogna dunque trarre da questi fatti: mai più nazionalismi, mai più violenze, mai più guerre; ed impari finalmente l’uomo, come diceva Brecht, ad essere un “aiuto all'uomo”.

CAPITOLO IIILE FOIBE TRIESTINE

1. LA “CULTURA” DELLA “FOIBA”

Bisogna precisare innanzitutto che la “cultura” della “foiba” non ha proprio una matrice di sinistra. Troviamo infatti in un libro di testo in uso nelle scuole della regione durante il ventennio fascista questa poesiola molto educativa:

De Dante la Favella

Mia mama m’ha insegnà,

Per mi xe la più bella

Che al mondo ghe xe sta.

E per difender questa

E sovenir la Lega [1]

Convien che ognun s’appresta

A fare el suo dover.

O mia cara patria

Mio dolce Pisin [2],

Mio nono cantava

Co iero picin.

Me par de vederlo

Là in fondo al castel

Che sempre ‘l dixeva

A questo ed a quel:

Fioi mii, chi che ofende

Pisin, la pagherà:

In fondo alla Foiba

Finir el dovarà.

Non è questa propaganda slavocomunista, ci sembra...

Però abbiamo poi anche il vate Giulio Italico, al secolo Giuseppe Cobol (poi italianizzatosi in “Cobolli Gigli”), che pubblicò, nel 1919 (ben prima dell’avvento del fascismo, dunque), un libretto dal titolo “Trieste. La fedele di Roma”. In esso è contenuta la trascrizione dell’aulica canzoncina, anch’essa di evidente origine pisinota, che così recita:

A Pola xe l’Arena,

La “Foiba” xe a Pisin

che i buta zò in quel fondo

chi ga zerto morbin.

E a chi con zerte storie

Fra i piè ne vegnerà,

Diseghe ciaro e tondo:

Feve più in là, più in là.

Questa è dunque la tradizione culturale che ha portato al fenomeno “foiba”. Non ci risultano canzoni partigiane, slave o italiane che siano, che facciano l’apologia della foiba [3].

Va anche riferito che più volte furono i fascisti a gettare nelle voragini persone ancora vive, persone “colpevoli”, magari, solo di essersi fatte scoprire a dire qualche parola in sloveno o croato; così come risultano, dall’archivio dello Stato civile triestino [4], diverse persone “infoibate da forze nazifasciste” durante la guerra. Bisogna ricordare che molto spesso i partigiani celavano nelle foibe i corpi dei propri compagni caduti in combattimento, per evitare che fossero trovati dal nemico, identificati e di conseguenza le loro famiglie fossero oggetto di rappresaglie.

[ Il testo prosegue con la puntuale descrizione delle diverse foibe, dei corpi rinvenuti e degli eventi in seguito ai quali essi vi furono gettati. Il capitolo successivo è dedicato a un’analisi delle “Inchieste” che si sono succedute. in appendice sono riportati docmenti ufficiali]

La memoria delle foibe è atroce e sessant’anni dopo continua a lacerare gli animi. Se si decide di dire la verità bisogna farlo con coraggio, senza nulla temere, senza ambiguità, senza nascondere o mascherare quel che accadde. È necessario dire tutto senza fini di parte evitando di adoperare quei fatti per trarne vantaggi politici. Il ministro Gasparri, di cui è nota l’eleganza del pensiero e dell’azione, ha dato dell’infoibatore (Il Piccolo, 30 gennaio), a chi critica la strumentalizzazione dei crimini commessi dai partigiani di Tito.

I quali, mossi da odio ideologico e nazionalistico, gettarono nelle foibe del Carso migliaia di avversari politici, non soltanto italiani, non soltanto fascisti.

Claudio Magris, limpido scrittore, conosce meglio degli altri, uomo di frontiera qual è, il valore della moderazione, capace di tutelare quanti temono il mondo ostile di là dalle mura. Davanti alle affermazioni del rozzo ministro il quale, con quelle parole, confessava in sostanza il suo ruolo di strumentalizzazione, Magris ha reagito con severità inconsueta ( Corriere della Sera, 1 febbraio), anche perché ha vissuto e sofferto quel dramma e ne ha scritto spesso e sempre senza paraocchi.

Ha fatto una lezione al ministro e a quanti rovesciano la realtà per fini non nobili. Ha sottolineato la cecità e l’abuso dell’estrema destra che ricorda quei delitti soltanto per rinfocolare i propri rancori razzisti antislavi. Ha criticato il calcolo opportunista di tanta sinistra italiana che per macchiavelleria ha cercato in passato di ignorare, dimenticare e far dimenticare la tragedia delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata affinché non si parlasse delle responsabilità del comunismo. Ha alzato la voce contro i moderati che hanno avuto tutte le possibilità di esprimersi e sono stati invece zitti. «Fino a pochi anni fa, ha scritto Magris, parlare delle foibe non serviva” alla lotta politica e dunque non se ne parlava. Oggi quei morti servono e dunque se ne parla, ma per usarli quali strumenti di una lotta politica che non ha nulla a che vedere con la storia di quelle tragedie. (...) Si conosca e si sappia la storia dele foibe. Ma che oggi la destra al potere - erede di quella colpevole della nostra catastrofe nella Seconda guerra mondiale e della mutilazione dell’Istria - usi le foibe per difendere il proprio potere è una bestemmia. Usare oggi le foibe contro la sinistra italiana di oggi è indegno».

Se non si fa uno sforzo anche scolastico di ripensare quel che accadde nel Novecento in quella che fu definita la polveriera balcanica, dall’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando che provocò lo scoppio della Prima guerra mondiale ai guasti del fascismo alla Seconda guerra mondiale al dopoguerra a oggi non si riuscirà mai a servire la verità. È necessario almeno partire dal fascismo, ripensare alla cancellazione dei diritti delle minoranze croate e slovene nelle terre italiane. E poi all’invasione nazifascista della Jugoslavia nel 1941. Altro che «italiani brava gente». La 2ª Armata comandata dal generale Roatta, si comportò spesso con la ferocia mutuata dai nazisti. Per le atrocità commesse il generale finì negli elenchi dei criminali di guerra. La provincia di Lubiana fu allora annessa all’Italia, fu creato il regno di Croazia dove fu spedito a regnare persino un re nostrano, Aimone di Savoia Aosta, Zvohimiro II.

In un piccolo prezioso libro di Guido Crainz, storico e conoscitore della società, Il dolore e l’esilio, appena uscito da Donzelli, è riportato un documento davvero impressionante, la circolare 3C del generale Mario Roatta (1 marzo 1942), «che prevede di incendiare e demolire case e villaggi, uccidere ostaggi, internare massicciamente la popolazione. Il suo spirito è riassunto da Roatta nella massima: “Non dente per dente, ma testa per dente”. In base ad essa si disponeva l’arresto, la confisca dei beni e l’internamento per le famiglie da cui mancassero dei membri: sospetti, quindi, di essersi uniti ai “ribelli”» (...) «Occorre distruggere i paesi e sgomberare le popolazioni», ribadisce Roatta nell’agosto 1942 ai comandanti di corpo d’armata. E il generale Robotti, sempre nell’agosto del 1942, dà queste indicazioni ai comandanti di divisione che ha convocato: «Non importa se nell’interrogatorio si ha la sensazione di persone innocue. Ricordarsi che per infinite ragioni anche questi elementi possono trasformarsi in nostri nemici. Quindi sgombero totalitario. Dove passate levatevi dai piedi tutta la gente che può spararci nella schiena. Non vi preoccupate dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha voluto lei. Quindi paghi». E poi: «Lo stesso generale in quel tempo annotava su un documento: “Si ammazza troppo poco!” E ancora: “Gli uomini non sono nulla e l’unica cosa che conta è il Paese e il suo prestigio, assieme a quello del regime».

Mussolini, a Gorizia il 31 luglio 1942, parla in questo modo: «Sono convinto che al “terrore” dei partigiani si deve rispondere con il ferro ed il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta. (...) È cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto per il bene del paese ed il prestigio delle forze armate. Questa popolazione non ci amerà mai».

Almeno in questo Mussolini vede giusto. Bastano i pochi documenti citati a far capire che cosa è successo in quel magma incandescente: non vogliono di certo servire ad alimentare giustificazionismi di maniera per le atrocità commesse poi dai partigiani comunisti di Tito e per le loro vendette. Vogliono semplicemente esser utili per cercare di capire gli snodi degli avvenimenti.

Nel 1943 esplode una rivolta contadina parallela alla guerra partigiana. Le vittime non sono soltanto i fascisti, ma tutti coloro che fanno ricordare l’amministrazione italiana odiata per il suo fiscalismo, per le sue vessazioni poliziesche. I connotati etnici della rivolta e di quelle terribili morti si saldano allora con motivazioni sociali. Nel 1945 le vittime sono soprattutto i militari di Salò, ma vengono perseguiti e uccisi nelle foibe dai titini anche gli antifascisti del CLN che disturbano l’egemonia comunista. E con loro tutti quanti rappresentano una qualsiasi autorità, segretari comunali, maestri, farmacisti, postini, guardie campestri. Italiani.

Scrive Crainz, studioso che esce dai nudi schemi di molti compilatori di vicende umane, pieno di curiosità nei confronti delle culture e degli stili di vita che gli servono a dar corpo alla storia, come furono tragici, in quelle terre, gli anni dal 1941 al 1945. Segnati dai difficili rapporti tra la Resistenza jugoslava e quella italiana, dalle decisione di Tito di occupare e di annettere Trieste e tutta la Venezia Giulia, «dalla sostanziale subalternità dei comunisti italiani rispetto a quella volontà, pur tra oscillazioni e contraddizioni». Sullo sfondo di una guerra aspra tra gli eserciti nazifascisti affiancati dagli ustascia di Ante Pavelic e l’armata partigiana di Tito.

Marco Galeazzi, su l’Unità (2 febbraio), ha elencato gli storici, non pochi e di prim’ordine, che nei decenni hanno studiato in modo approfondito la questione istriana, le foibe, il comportamento del Pci. Tra gli altri, Giovanni Miccoli, Galliano Fogar, Giampaolo Valdevit, Roberto Spazzali, Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste che ha scritto molto su questi temi nel corso del tempo e ha appena pubblicato un libro importante, Il lungo esodo, (Rizzoli), accentrato soprattutto sull’abbandono delle proprie case e delle proprie terre, tra il 1944 e la fine degli anni 50, di 250mila italiani di Zara, Fiume, delle isole del Quarnaro, dell’Istria diventate jugoslave.

Tutto questo per dire che esistono opere scientifiche di livello alto, esistono i documenti. Quelli dell’Archivio del Pci depositati presso la Fondazione Gramsci e quelli dell’Archivio dell’ex polizia segreta jugoslava, l’Ozna, aperti nel 1990. Libri e documenti, ma come confinati anch’essi perché la sanguinante questione istriana non è mai diventata, per ragioni non soltanto politiche, una questione nazionale. E dobbiamo così ascoltare il linguaggio analfabetico e oltraggioso di un ministro della Repubblica e dei suoi disinformati seguaci.

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