Ronde e clandestini, sì alla legge Berlusconi esulta: l´ho voluta io
di Alberto Custodero
Bagarre al Senato, il Pd attacca: danno al Paese - Don Ciotti: non è sicurezza ma crudeltà. Appello degli intellettuali: no a leggi razziali
Il ddl sulla sicurezza è da ieri legge dello Stato dopo l´ok definitivo del Senato giunto in tarda mattinata con il voto di fiducia. L´approvazione (157 voti favorevoli di Pdl, Lega, Mpa, 124 no e 3 astenuti) ha scatenato a Palazzo Madama una bagarre: i senatori dell´Idv hanno alzato cartelli con scritto "Governo, clandestino del diritto" e "I veri clandestini siete voi", e a loro hanno risposto i leghisti - cravatte e pochette verde Padania - alzandosi in piedi, sorridenti, le mani in segno di vittoria.
Nella maggioranza, fra Lega e Pdl è tutta una gara per accaparrarsi i meriti della legge. Berlusconi dall´Aquila se ne assume la paternità: «L´ho voluta fortemente - dice il premier - per dare sicurezza ai cittadini». Ma a rivendicare la primogenitura del ddl è ovviamente la Lega, che le ronde in particolare le ha da anni nel proprio Dna. «Sono molto soddisfatto per l´approvazione del dll sicurezza che completa un anno di lavoro», commenta il ministro dell´Interno, Roberto Maroni. Ma anche gli ex An usano toni trionfalistici. Il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri si dice «orgoglioso». «È un passo avanti nell´impegno preso con gli italiani» dice il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che annuncia l´impiego di altri 1250 militari nelle città.
Al compiacimento della maggioranza si contrappongono le critiche dell´opposizione. Per il segretario del Pd Dario Franceschini, il ddl «è il prezzo che il governo paga alla Lega, ed è un danno per il Paese». Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, lo giudica «un pugno sbattuto sul tavolo senza efficacia per la sicurezza dei cittadini». Il capogruppo dei dipietristi in Senato, Felice Belisario, boccia il provvedimento che «paralizzerà la giustizia, toglierà fondi alle forze dell´ordine e legalizzerà le ronde». Emma Bonino, radicale, definisce «aberranti» le nuove norme, mentre per il presidente dei senatori Udc, Giampiero D´Alia, «sono il frutto di paura e suggestioni». Contro il pacchetto sicurezza si è espresso anche il fondatore del Gruppo Abele, don Luigi Ciotti: «Non è sicurezza - dice - ma crudeltà». Il coro di voci indignate è nutritissimo. Comprende il commissario per i diritti umani del Consiglio d´Europa, Thomas Hammarberg («Le misure sull´immigrazione e l´asilo produrranno un aggravamento del clima xenofobo»), l´Ordine dei medici («Contrari a denunciare gli irregolari»), i sindacati dei funzionari di polizia, l´Unione delle Camere penali («Provvedimento propagandistico»), l´Alto commissariato Onu per i rifugiati Unhcr («Si avalla l´equazione immigrazione uguale criminliatà»). Un gruppo di intellettuali - da Camilleri alla Maraini a Fo - hanno firmato un appello su Micromega. net «contro il ritorno delle leggi razziali in Europa che rischiano di sfigurare il volto dell´Europa». Il testo ha provocato la reazione di Maroni. Secondo il ministro dell´Interno, «l´appello si fonda su falsità», perché non è vero - afferma una nota - che la nuova legge vieti i matrimoni misti e impedisca alle donne in stato di irregolarità di riconoscere i figli.
Il Vaticano boccia il giro di vite "Norme che porteranno molto dolore"
di Orazio La Rocca
«È una legge che criminalizza e demonizza i tanti stranieri che arrivano qui chiedendo solo di essere aiutati». È severa ed immediata la bocciatura del mondo cattolico sul disegno di legge che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina. Tra i primi richiami, quelli della Cei, che col portavoce del cardinale-presidente Angelo Bagnasco, monsignor Domenico Pompili, ricorda - «senza entrare nel merito della nuova legge» - che proprio all´assemblea Cei di maggio Bagnasco «ha parlato del dovere dell´accoglienza per chi invoca aiuto e del diritto di emigrare in cerca di un´esistenza migliore e di chiedere asilo politico. Ma sempre nel rispetto della legalità». Principi - avverte Pompili - «validi in qualsiasi momento e in ogni circostanza».
Il vescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio dei migranti, esprime, invece, «tristezza» e «preoccupazione» e accusa la legge di «ignorare i diritti umani» e di «mettere a rischio l´integrazione» e per questo «porterà solo dolore». Secondo il presule - ma fonti della Segreteria di Stato dicono che «parla a titolo personale» - «il reato di clandestinità porterà solo alla criminalizzazione degli irregolari...». Anche il presidente dello stesso dicastero vaticano, il vescovo Antonio Maria Vegliò, in un editoriale scritto per il mensile dei gesuiti, Aggiornamenti sociali, chiede che «non vengano demonizzati o criminalizzati gli stranieri».
Irregolari processati ed espulsi per identificarli 6 mesi di detenzione
Pene più severe per i writer. Torna l´oltraggio a pubblico ufficiale
di Mauro Favale
La clandestinità diventa reato. Le ronde di volontari potranno circolare nelle città segnalando alla polizia situazioni di pericolo. Si inasprisce il regime di "carcere duro" per i mafiosi. I Cie - Centri di identificazione ed espulsione - sostituiscono i Cpt, acronimo che stava per Centri di permanenza temporanea. Sono queste alcune delle principali novità del disegno di legge approvato ieri definitivamente dal Senato. Le norme sono suddivise in tre "sezioni": immigrazione clandestina, criminalità organizzata e sicurezza pubblica.
Sarà dunque reato entrare o soggiornare in Italia senza permesso: il clandestino sarà punito con un ammenda dai 5 ai 10 mila euro e verrà immediatamente espulso dopo un processo davanti al giudice di pace. Pene dure per chi favorisce l´ingresso dei clandestini. Solo un po´ più lievi per chi affitta appartamenti agli irregolari. All´interno dei Cie, gli immigrati senza permesso potranno rimanere fino a 180 giorni in attesa di identificazione. Finora, la detenzione massima era di due mesi.
Sul versante criminalità organizzata, il regime di 41bis per i boss mafiosi verrà rinnovato ogni quattro anni e non più ogni due. Gli imprenditori saranno obbligati a denunciare le richieste di pizzo che subiscono, pena l´esclusione dalla possibilità di partecipare alle gare d´appalto.
Per la sicurezza pubblica, la legge istituisce le ronde, riconoscendo le associazioni di "volontari per la sicurezza", che potranno operare disarmati. Via libera alla vendita dello spray al peperoncino per l´autodifesa. Pene più severe per graffitari e vandali: la legge prevede carcere fino a 3 mesi per chi imbratta monumenti di interesse artistico o storico. Ripristinato anche il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, che era stato abrogato 10 anni fa.
Le polemiche sulla visita di Gheddafi hanno fatto perdere di vista il significato della foto che portava sul petto, quella di Omar al Mukhtar catturato nel 1931 dai militari italiani. Una finestra sulla nostra storia, che il Partito democratico e l'Italia dei Valori si sono precipitati a chiudere. Forse perché ancora di scottante attualità.
Agli inizi del Novecento l'Italia di Giolitti decise di occupare la Libia, parte dell'impero ottomano che si stava sgretolando. Dietro vi erano gli interessi della finanza, soprattutto quella vaticana già penetrata in Libia attraverso il Banco di Roma, e dei grossi industriali, che volevano una guerra perché aumentasse la spesa militare. Precedute da un bombardamento navale, le truppe italiane sbarcarono a Tripoli il 5 ottobre 1911. L'occupazione fu accompagnata da una forte propaganda. Mentre nei café-chantant si cantava «Tripoli, bel suol d'amore», sui giornali cattolici si scriveva «il nostro diritto su questa colonia è stato affermato col cannone» e nella chiesa pisana dei Cavalieri, addobbata di bandiere strappate ai turchi nel Cinquecento, il cardinale Pietro Maffi benediceva i fanti italiani in partenza per la Libia, esortandoli a «incrociare le baionette con le scimitarre» per portare nella chiesa «altre bandiere sorelle e redimere così l'Italia, la terra nostra, di novelle glorie».
L'invasione della Cirenaica e della Tripolitania, con un corpo di spedizione di oltre 100mila uomini al comando di 24 generali, suscitò l'immediata resistenza della popolazione. La repressione fu spietata: furono fucilati o impiccati circa 4.500 arabi, tra cui donne e ragazzi. Molti altri furono deportati a Ustica e in altre isole, dove morirono quasi tutti di stenti e malattie. Iniziava così la lunga storia della resistenza libica, che sfidò la sempre più dura repressione soprattutto nel periodo fascista. Nel 1930, per ordine di Mussolini e dei generali Badoglio e Graziani, vennero deportati dall'altopiano cirenaico 100mila abitanti, poi rinchiusi in una quindicina di campi di concentramento lungo la costa. Qualsiasi tentativo di fuga veniva punito con la morte. Per ordine di Mussolini e di Italo Balbo, l'aeronautica impiegò anche bombe all'iprite, proibite dal Protocollo di Ginevra del 1925. La Libia fu per l'aeronautica di Mussolini ciò che Guernica fu in Spagna per la luftwaffe di Hitler: il terreno di prova per armi e tecniche di guerra più micidiali.
I partigiani libici, guidati da Omar al Mukhtar, si batterono fino all'ultimo. Nel 1931, per tagliare loro i rifornimenti fu fatto costruire da Graziani, sul confine tra Cirenaica ed Egitto, un reticolato di filo spinato lungo 270 chilometri e largo alcuni metri. Individuato da un aereo, Omar al Mukhtar venne ferito e catturato. Fu impiccato il 16 settembre 1931, all'età di 73 anni, nel campo di concentramento di Soluch, di fronte a ventimila internati costretti ad assistere all'esecuzione, per «il reato più grave, quello di aver preso le armi per staccare questa Colonia dalla Madre Patria».
Sul petto di Muhammar l’immagine del leader della resistenza anti-italiana, al fianco suo figlio «Il leone del deserto» fu vietato perché «danneggia l’onore dell’esercito». Questa sera è su Sky
Quella foto in bianco e nero appuntata sul petto ha attirato subito le attenzioni di tutti i presenti sulla pista di Ciampino. Ma quel vezzo un po' pacchiano, in realtà, è l’ultima provocazione del dittatore libico. Perché ritratto in quella foto, in ginocchio e incatenato fra i soldati italiani, c’è Omar Al Muktar. «Il leone del deserto» che fra il 1923 e il 1931 guidò la resistenza libica contro l’esercito colonialista del Duce. Considerato uno dei “padri della patria libica”, Omar Al Muktar, dopo anni di guerriglia contro gli uomini del generale Rodolfo Graziani, venne catturato e su ordine di Mussolini fu impiccato il 16 settembre del 1931 dopo un processo sommario nel palazzo littorio di Bengasi. E così, nel giorno dell’accoglienza in pompa magna, Muammar Gheddafi ha sbattuto in faccia all’Italia il suo passato colonialista portando con sè nella delegazione ufficiale anche Mohamed Omar Al Muktar, il figlio dello “shaykh dei martiri” della tribù dei Minifa. Ormai ottantenne l’uomo ieri ha sceso lentamente i gradini della scaletta mettendo piede in quel paese con cui, come disse ad Al Jazira in occasione della visita in Libia di Berlusconi, non avrebbe mai avuto a che fare perché «odia il popolo libico e odia Omar Al Mukhtar».
Ma la vendetta morale per la morte del leader anticolonialista, evidentemente, deve essere una questione di principio per Gheddafi. Che infatti nel 1981 impegnò ben 35 milioni di dollari per la realizzazione del film “Il leone del deserto” affidato al regista Moustapha Akkad. Nel cast anche Anthony Quinn (interpretava l’eroe libico), Rod Steiger (nei panni del Duce), Raf Vallone e Gastone Moschin. La pellicola uscì in tutto il mondo nel 1982, tranne che in Italia dove fu censurato dal governo dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti in quanto «danneggia l’onore dell’esercito». Ad imporre il veto sulla distribuzione del film fu l’allora sottosegretario agli Esteri (fino a domenica scorsa presidente della Provincia di Cuneo per il Pdl) Raffaele Costa. ma il film, che finì persino sotto processo per vilipendio alle forze armate, in Italia circolò clandestinamente per anni. Nel 1987 alcuni pacifisti organizzarono una proiezione a Trento, ma furono bloccati e denunciati dalla Digos. L’anno successivo la pellicola venne mostrata per la prima e unica volta in Italia nel corso del festival Riminicinema.
E la situazione di clandestinità de “Il Leone del deserto” non è mai cambiata: tanto che nel 2003 il ministro dei Beni Culturali Giuliano Urbani rispondendo a un’interrogazione parlamentare in cui si intendeva promuovere la revoca della censura, dichiarò: «Nel caso del film in questione, si segnala che lo stesso non è corredato del prescritto nulla osta ai fini della sua circolazione interna ed internazionale, in quanto i soggetti interessati non hanno mai presentato la relativa istanza». Nonostante questo, però, il film questa sera sarà proiettato alle 21 sul canale SkyCinema Classic. Moustapha Akkad, però, non potrà rallegrarsene: un attacco kamikaze di Al Qaeda, infatti, l’ha ucciso assieme a sua figlia nel novembre 2005 di fronte all’Hotel Grand Hyatt di Amman.
Perchè quell’immagine
«La foto di Al Muktar è come la croce che alcuni di voi portano: il simbolo di una tragedia». Così Gheddafi ha risposto a chi gli chiedeva perché quella foto appuntata sul petto al suo arrivo a Roma. «La foto è quella dell'esecuzione, l'impiccagione di Omar Mukhtar, mentre ufficiali fascisti che assistevano ridevano e lo deridevano, nel sud di Bengasi dopo avergli fatto un processo farsa che lo ha condannato come un semplice ribelle».
Gheddafi ha ricordato che anche molti «italiani sono stati impiccati da quello stesso governo di allora che poi è finito con l'impiccagione, ma a piedi in giù, di Mussolini». Ha ripetuto che quell'esecuzione è stata una «tragedia» per il popolo libico. «È come l'uccisione di Gesù Cristo per i cristiani: per noi quell'immagine è come la croce che alcuni di voi portano», ha detto il leader libico sottolineando che è il «simbolo di una tragedia».
Ormai è chiaro, la campagna elettorale il governo la fa così. Con l’ostentazione pubblicitaria dei respingimenti. Con l’evocazione impudica dell’apartheid. Con l’esibizione della durezza “senza se e senza ma” – anzi, con l’invito esplicito a essere “cattivi” - contro i migranti. Insomma, mettendo in gioco quella risorsa potentissima sul piano emotivo e pericolosissima su quello civile, costituita dalle “retoriche del disumano”. E spingendoci così sempre più giù su quel piano inclinato della civiltà e dei diritti lungo il quale ormai da anni, ma in fine velocior, l’Italia sta cadendo.
C’è dentro ognuno di noi, e nella coscienza collettiva, un confine impalpabile ma fondamentale, che distingue il modo di guardare l’Altro come “uno di noi” (diverso ma, almeno in qualcosa simile), o come una “natura estranea”. Appartenente a un altro “regno”: “animale”, “vegetale”, “minerale”. O semplicemente al Nulla. Le “retoriche del disumano” lavorano su quella linea di confine. La spostano “in qua”, riducendo l’area degli inclusi nella dimensione di “uomini” e allargando l’esercito dei “non-uomini”. Dei non-riconosciuti. Non degli “invisibili”, si badi. Bensì di coloro che si vedono ma non hanno importanza. Possono essere indifferentemente usati o abbandonati a se stessi. Accolti (se, e fin quando, servono) o respinti (come cose inutili o dannose). “Salvati” o “sommersi”, a seconda dell’interesse del momento.
Questo sta facendo il ministro dell’interno Maroni. Con la rozzezza che lo distingue. Ma anche con assoluta spregiudicatezza, spostando i confini della politica oltre un limite mai varcato finora, per lo meno nell’Italia repubblicana, da nessuna forza di governo: fin dentro al delicato intreccio che lega la dimensione del biologico a quella del senso morale. La natura dei rapporti “genericamente umani” e l’esercizio del potere pubblico. Si può ben comprendere quanta terribile efficacia possa avere, in una società che si va impoverendo rapidamente, e in cui strati sempre più ampi di popolazione avvertono il rischio imminente del proprio declassamento e della perdita di posizioni faticosamente conquistate, una retorica di questo tipo: quale devastante potenziale di mobilitazione negativa abbia un meccanismo fondato sulla creazione di una porzione, limitata, di umanità esplicitamente privata per via statuale, attraverso lo strumento universale della Legge, dello status di uomini.
Esso permette un apparente, ma psicologicamente efficace, “risarcimento” dei “penultimi” – di coloro che hanno perduto buona parte dei propri diritti sociali -, attraverso l’esibizione della deprivazione più radicale degli “ultimi”, di coloro che sono del tutto senza diritti. Gratifica chi ha perduto (quasi) tutto, o teme di perderlo - lavoro, casa, reddito, salute… – ma ha mantenuto lo status di “uomo” grazie alla sua appartenenza territoriale, mostrandogli in chiave pubblicitaria lo spettacolo di chi di quella prerogativa è stato destituito. E può essere pubblicamente dichiarato “fuori”. Dunque “sotto”.
E’, non possiamo nascondercelo, un meccanismo politicamente “irresistibile”. Mettendo al lavoro un sentimento ambiguo, ma incendiario, come l’”invidia sociale”, nell’epoca della conclamata impossibilità di realizzare efficaci politiche redistributrici e di sfidare in modo credibile chi “sta in alto”, esso si rivela capace di “sfondare” in aree sociali estese, e potenzialmente immense. Spesso negli insediamenti tradizionali della vecchia sinistra. Diventa, una volta accettato di varcare quel confine morale da parte di imprenditori politici spregiudicati, per usare un eufemismo, una risorsa decisiva. Infatti Berlusconi e i suoi ci si sono buttati a pesce, nel momento in cui la priorità sembra quella di vincere la “guerra psicologica” della crisi (e, cosa non secondaria, di “dimenticare Veronica”…). E bene ha fatto Franceschini a denunciare, con forza, l’uso propagandistico della nuda vita offesa, ma già l’immediata, e davvero improvvida, contromossa di Fassino ci dice quanto fascino, o imbarazzo, esercita, su tutti i fronti politici, l’entrata in gioco di quella nuova perversa risorsa. E quanta difficoltà ci sia a contrastare, se ci si attiene al piano strettamente politico, dei nudi rapporti di forza, il processo di pietrificazione delle coscienze che esso comporta.
Se una resistenza può nascere oggi, credo che non possa che costituirsi su un fronte per così dire “impolitico”. Tale da operare sui registri trasversali della morale, della memoria, del senso di dignità e su residui di cultura, che non si misurano sui rapporti di forza, sulle regole della ragion di stato o di partito, sui machiavellismi dell’azione utile e di quella efficace.
L’effetto principale delle “retoriche del disumano” è quello di disumanizzare per primi coloro che le condividono. Occorre mettere insieme chi continua a non voler rinunciare alla propria residua umanità. E intende difendere quel brandello di condivisione del proprio stato di uomini con tutto il resto del genere umano.
Nessuna pietà per le donne incinte, disidratate e prossime alla gravidanza. Nessuno scupolo su eventuali bimbi a bordo. Tutti i 227 migranti naufraghi, intercettati e abbandonati per un giorno nelle acque del Canale di Sicilia perché infuriava l’ennesimo bisticcio tra Malta e Italia sul salvataggio, alla fine sono stati deportati a Tripoli. Un respingimento collettivo senza precedenti, al di fuori di ogni regola consolidata. L’Onu gela l’Italia: «Il cambio di politica è un errore. Il principio internazionale del non respingimento vale anche nelle acque internazionali». Da qui l’appello alla retromarcia affichè questa prassi non si ripeta più. Allibite tutte le organizzazioni umanitarie. Protesta anche la Cei: «Migranti a rischio».
L’italia e Malta hanno deciso nella notte di risolvere la questione sbarchi nel Mediterraneo, avvitandosi nelle pratiche di negazione del diritto e brindando alla «svolta» storica. E invece la prospettiva che attende i migranti è una sola: le carceri libiche. Ma all’Italia come a Malta questo non interessa. Anzi, sono state proprio tre motovedette italiane a consegnare i naufraghi immigrati, stanchi e provati dalla lunga traversata, nelle mani dei soldati del colonnello Gheddafi. E senza alcuna verifica preventiva su chi fossero quelle persone disperate: da quali paesi scappavano o quali torture e persecuzioni si erano lasciate alle spalle. A nessuno è stato consentito riposare sulla terra ferma neppure un minuto. Tutti, sono stati trasbordati dai barconi alle navi e rispediti in tutta fretta in Libia. Un paese che non ha firmato la Convezione di Ginevra sui rifugiati e non ha alcuna cultura sull’asilo.
Violazione dei diritti
Prima Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, poi Antonio Guterres (Unhcr) in persona, sottolineano che «l’incidente mostra un radicale mutamento nelle politiche migratorie del governo italiano e rappresenta una fonte di grave preoccupazione». La mancanza di trasparenza dell’operazione ha fatto sì che Maroni quasi coniasse un principio dell’esternalizzazione dell’asilo che non sta scritto da nessuno parte, se non nell’accordo segreto tra Italia-Libia. Da qui l’invocazione Onu: «Malta e l’Italia continuino ad assicurare alle persone salvate in mare e bisognose di protezione internazionale pieno accesso al territorio e alla procedura di asilo nell’Unione Europea». Fra le persone respinte in Libia ci potrebbero essere dei profughi dell’Africa sub sahariana. E protesta anche la Cei: «L’effettivo trattamento di chi viene mandato in Libia va verificato», ha detto Giandomenico Gnesotto, direttore dell’Ufficio pastorale della Fondazione Migrantes dell’episcopato italiano.
Allibite tutte le organizzazioni umanitarie. Mentre il commissario europeo Jacques Barrot, esprime soddisfazione per il salvataggio dei migranti ma tace sul respingimento dell’Italia.
SCHEDA
Già condannati all’Europa per quei rimpatri forzati
Tra il 2004 e il 2005 il governo inaugurò le espulsioni collettive Il provvedimento violava la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo
Era già successo cinque anni fa, a partire dall’ottobre del 2004 e fino al 17 marzo del 2005. Quel giorno, per decongestionare Lampedusa, il governo (presidente del Consiglio Berlusconi, ministro dell’Interno Pisanu) aveva autorizzato il rimpatrio forzato in Libia di 180 cittadini stranieri. L’operazione era stata subito denunciata dall’Alto commissariato delle nazioni unite e dal Consiglio italiano dei rifugiati. Quindi un gruppo di europarlamentari aveva presentato una risoluzione che il 15 aprile del 2005 era stata approvata. Una risoluzione di condanna. «Il Parlamento europeo - c’era scritto - ritiene che le espulsioni collettive di migranti verso la Libia costituiscano una violazione del principio di non espulsione e che le autorità italiane siano venute meno ai loro obblighi internazionali omettendo di assicurarsi che la vita delle persone espulse non fosse minacciata nei loro paesi d’origine».
Il metodo adottato dal governo italiano violava non solo l’articolo 10 della Costituzione (quello che prevede il diritti d’asilo) ma anche la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati (che esige un esame caso per caso dei provvedimenti) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta le espulsioni collettive). L’orientamento espresso dal parlamento di Strasburgo fu confermato, nel mese di maggio, dalla Corte europea che accolse un ricorso contro le espulsioni.
Il «respingimento» nel porto di Tripoli dei 227 migranti intercettati nel Canale di Sicilia ha, dal punto di vista formale, una diversa natura: i migranti non hanno messo piede nel territorio italiano ma sono stati messi nell’impossibilità di raggiungerlo. Sul piano sostanziale, tuttavia, i rilievi del 2005 valgono integralmente. La condanna dell’Italia si fondava anche sul fatto che la Libia «non offre garanzie efficaci dei diritti dei rifugiati e pratica arresti, detenzioni ed espulsioni arbitrari». La risoluzione inoltre sottolineava le «deplorevoli» condizioni di vita dei reclusi nei campi libici. Dei lager dove i prigionieri vengono spesso sottoposti a violenze. Sorte toccata anche a molti degli espulsi dall’Italia.
L’intervento dell’Europa nel 2005 era stato accolto con grande soddisfazione dalle associazioni umanitarie. La speranza era che il forte richiamo al dovere di rispettare le norme internazionali avrebbe spinto il governo italiano a interrompere le espulsioni sommarie. Nessuno, allora, poteva immaginare che il metodo condannato dall’Europa sarebbe diventato la regola.
Angelo Del Boca non nasconde la sua delusione. Altro che "giornata della memoria" per le vittime delle imprese imperiali fasciste, come lo storico più importante del colonialismo italiano propone da decenni: nel trattato con la Libia non c’è nemmeno il riconoscimento dei crimini commessi in Africa.
Professor Del Boca, come giudica il trattato di amicizia con Tripoli?
«Ho studiato molto bene il trattato, anche con l’amico Nicola Labanca. Non discuto la parte economica, né quella politica, discuto quella "storica". Ho scoperto che c’è appena un accenno di sfuggita al passato. Insomma, l’Italia versa 5 miliardi di dollari, sostanzialmente come indennizzo per i crimini compiuti in trent’anni di presenza in Libia e per i centomila morti provocati, ma nel Trattato non se ne fa riferimento».
Come mai?
«Non so se sia stata una specifica richiesta di Berlusconi o di chi ha discusso la formulazione del trattato, o piuttosto una dimenticanza. Ma quest’ultima ipotesi è davvero improbabile. Gheddafi ha sempre voluto sottolineare l’esigenza di conservare la memoria delle vittime dei massacri italiani. Se però è solo un’operazione economica, per il gas, cinque miliardi mi sembrano davvero molti, anzi troppi. Se non c’è la richiesta di perdono, che cos’è tutta questa premura, con i regali personali a Gheddafi?».
Professore, lei vorrebbe da Berlusconi un gesto come quello di Willy Brandt al ghetto di Varsavia?
«Figuriamoci! Non lo credo proprio adatto a gesti del genere. Berlusconi non festeggia il 25 aprile, parla della condanna al confino per i dissidenti come di una vacanza... Non mi meraviglio di questa assenza».
Non crede che un obiettivo importante di questo trattato sia l’intesa sull’immigrazione?
«Potrebbe servire ad accontentare i leghisti, che pensano a come fermare i clandestini. Ma per la verità negli ultimi tempi i libici stanno già mettendo le mani avanti, sostengono - ma è una bugia - di avere sul loro territorio sei milioni di migranti, dicono apertamente che sarà difficile per loro riuscire a controllare confini così vasti».
Gli accordi prevedono anche una partecipazione italiana.
«I due paesi dovrebbero organizzare una flottiglia mista per pattugliare le coste libiche e impedire le partenze, si parla anche di radar volti verso il deserto per controllare gli arrivi. Ma ho molti dubbi sull’operazione».
Che cosa pensa dei centri di detenzione in territorio libico, su cui si sono rivolte le critiche durissime di Amnesty International?
«Sono completamente d’accordo con Amnesty. Da quanto si riesce a sapere sono in realtà campi di concentramento. Nel mio ultimo libro (Il mio Novecento, edito da Neri Pozza, ndr) ho riportato diverse testimonianze di chi li ha visitati: Jas Gawronski parla di "inumanità", il prefetto Mori racconta di 650 persone rinchiuse in condizioni terribili dove ne erano previste 100, e così via. Ora mi chiedo: come può l’Italia partecipare alla costruzione di opere del genere?».
Per fortuna, neanche stavolta c'entra il razzismo. Un poliziotto ammazza a fucilate il vicino senegalese a Civitavecchia: è una banale lite di condominio. Tre ragazzi bruciano vivo un senza casa indiano a Nettuno: è una ragazzata, magari quasi omicida, ma si sa, i ragazzi si annoiano e tutti siamo in cerca di emozioni. E davvero, sono quasi tentato di crederci: il razzismo c'entra, ma non è un ingrediente isolabile, un'ideologia motivante; è piuttosto una componente ormai intrinseca e indistinguibile di un senso comune di violenza e sopraffazione che se non è diventato egemonico, poco ci manca.
Coltellate, fucilate, violenze sessuali fanno tutte parte di un'unica grammatica dell'annientamento e dell'umiliazione dell'altro (anche la violenza sessuale è una forma di assassinio, in cui nonostante le strizzate d'occhio del nostro presidente del consiglio il desiderio sessuale non c'entra per niente). E questo senso comune è condiviso tanto dai cinque romeni stupratori di Guidonia o dai tre marocchini che avrebbero violentato una donna (romena) a Vittoria in Sicilia, quanto dall'italiano stupratore di una cilena, dai ragazzetti di Campo de' Fiori accoltellatori di un americano, dal bravo ragazzo violentatore di Capodanno a Roma. E da tanti episodi meno sanguinosi ma diffusi nelle famiglie, nelle strade, negli stadi, nelle scuole, nelle caserme...
La sola differenza - e qui il razzismo c'entra espressamente - è la strategia di depistaggio messa in modo da politici e media. Quando, sempre a Guidonia, nel 2006, fu una donna romena a essere violentata per ore da un italiano la notizia non riempì le prime pagine ma si esaurì in due righe in fondo a un comunicato Ansa e a un trafiletto del Corriere della Sera. Non ci furono ronde di patrioti indignati nei bar e nelle carceri, circondate da simpatia e complicità della brava gente circostante. Perciò far credere che la violenza sia un portato dell'immigrazione, è un modo per parlare d'altri e non di noi - a cominciare dall'altra cosa che tutti questi episodi hanno in comune: il genere maschile degli aggressori e la debolezza delle vittime.
Molti anni fa, il sociologo David Riesman diceva che nella società di massa la fiaba di Pollicino ammazza-giganti si sarebbe trasformata nella fiaba di Pollicino ammazza-nani. Infatti adesso siamo tutti dalla parte di Golia: anche le guerre, dall'Iraq a Gaza, esibiscono e addirittura vantano la sproporzione tra i deboli e i forti.
Essere o sembrare deboli, nella modernità della competizione, della deregolazione, dell'individualismo e del mercato elevati a religione, è una colpa in sé. È una colpa essere donna, è una colpa essere senza casa, è una colpa essere nero. E forse la colpa peggiore di tutte queste minacciose debolezze sta nel fatto che mettono a nudo la debolezza profonda dei «forti», la precarietà del loro diritto, la tranquillità del loro dominio. I potenti non riescono a vincere davvero le guerre, i violenti non fanno che mettere in scena la loro paura, i razzisti non riescono a sentirsi superiori alle loro vittime, la finanza globale va in rovina e porta rovina con sé. La rabbia frustrata di chi si crede forte e si accorge di non esserlo più produce violenza.
Fermarla, o almeno porvi un limite, è un lavoro di profondità e di lungo periodo, una costruzione di socialità nuova, di rapporti civili fa le persone, di politica coraggiosa e anticonformista. Altro che «essere cattivi» con i «clandestini» - cioè, essere come quelli che li bruciano vivi - come vaneggia nella sua frustrazione il povero Maroni. Non la fermeranno certo i poliziotti per le strade, i vigili urbani con la pistola e la licenza di sparare: anzi, saranno un'ulteriore modello di ruolo per i futuri aggressori, un'altra esibizione di forza impotente, e un altro esempio di quella politica bipartitica - quella sì, «cattiva» politica - che alimenta queste paure e se ne nutre.
Il comune di Visco, 800 abitanti a poca distanza da Palmanova, cerca investitori per la valorizzazione di un’area di 130.000 metri quadrati. Per quanto sia una dimensione enorme per un comune che, con i suoi 3 chilometri quadrati, è uno dei più piccoli d’Italia, se si trattasse “solo” dell’ennesima ipotesi di cementificazione, la notizia potrebbe restare inosservata.
Ma sull’area in questione sorgeva un campo di concentramento nel quale, fra il 1942 ed il 1943, vennero rinchiusi 3000 civili jugoslavi, rastrellati a colpi di lanciafiamme durante la campagna per “bonificare la provincia italiana di Lubiana” e ”neutralizzare gli elementi pericolosi per l’ordine pubblico”.
Per trasformare il campo in un mobilificio, un “centro logistico per la sedia e del mobile”, o comunque un complesso per attività produttive e commerciali, il comune ha già approvato cambi nelle destinazioni d’uso previste dal piano regolatore ed ha demolito le torrette ed il corpo di guardia, perchè la loro presenza “allontana gli investitori”.
Il Corriere della Sera del 17 settembre riporta le dichiarazioni del vicesindaco, nelle quali, alle motivazioni finanziarie - “mantenere quella roba sono un sacco di soldi che pesano sui contribuenti” - si mescola il disinteresse, se non il disprezzo, per “quello che poi non era un lager, ma solo un campo di concentramento”.
L’intenzione di distruggere il campo ha suscitato reazioni contrastanti. Accanto a manifestazioni di sdegno per quello che viene interpretato come il tentativo di cancellare, assieme alle tracce materiali, il ricordo di una vergogna nazionale, non sono mancate le espressioni di sostegno ai progetti dell’amministrazione e le esplicite rivendicazioni di fierezza neofascista.
Ed è per questo che la vicenda dovrebbe indurci a una riflessione sui cosiddetti luoghi della memoria,partendo dall’ormai classica distinzione fra lieux et milieux de mémoire, introdotta da Pierre Nora nel 1984 e attorno alla quale si è poi sviluppato un ricco dibattito.
Riassunta molto schematicamente, l’idea di Nora è che i luoghi della memoria non esistono di per sé, ma devono essere prodotti intenzionalmente per sostituire la scomparsa degli ambienti (modi di vita, condizioni materiali, organizzazione sociale) che si vogliono ricordare. La loro funzione è quella di “luoghi di compensazione alla perdita della memoria”, dove il tempo viene artificialmente fermato al momento che si intende sottrarre all’oblio. In altre parole, per poter ricordare, è innanzitutto necessario che ci sia la volontà di ricordare. Altrettanto importante, però, è che nella consapevolezza la memoria, in quanto esperienza collettiva e soggettiva, può essere deformata, manipolata, appropriata, si mantenga viva la dialettica tra memoria e storia.
In quest’ottica, il caso di Visco assume un significato che va oltre la dimensione locale. Di luoghi della memoria si parla in occasione di cerimonie e commemorazioni ufficiali, non esenti da retorica se non da rozze forme di spettacolarizzazione dell’orrore, ma non si assiste a una deliberata creazione di luoghi che consentano il confronto tra memoria/e e storia .
La mobilitazione delle associazioni italoslovene, e di quanti chiedono venga bloccato il progetto del comune di Visco, va in questa direzione e merita il più ampio e convinto sostegno da parte di tutti noi.
Su alcune delle cose che andrebbero ricordate si veda, su eddyburg, questa nota dell'ANPI e, più in generale, la cartella Italiani rava gente.
All’appuntamento col settimo decennale delle leggi razziali - ma sarebbe meglio chiamarle col loro vero nome, leggi razziste - l’Italia, il suo governo, la sua scuola, ma anche larga parte della sua popolazione si presentano più distratti del solito, il che non è poco. Sono gli eredi politici del regime fascista, oggi al governo in Italia, che ne parlano. Lo fanno ricorrendo a un linguaggio di sapore religioso: si chiedono, col sindaco di Roma Alemanno, se quelle leggi furono il male assoluto. Il veleno dell’argomento è scoperto, ingenuo.
«Assoluto» è una parola che appartiene al linguaggio apocalittico dell’ideologia nazista. Così quelle leggi vanno sul conto del razzismo nazista e il regime fascista è assolto da ogni colpa. La tendenza italica all’autoassoluzione è antica e ben nota. Ma è necessario fare i conti con le leggi razziste che operarono nell’Italia di Mussolini dal 1938 al 1945. In questo settantesimo anniversario spinge a ricordarle non la minaccia di un ritorno dell’antisemitismo e nemmeno quel razzismo volgare che oggi in Italia è prodotto e alimentato dalla paura dello straniero, dell’immigrato: si tratta piuttosto di capire che cosa significarono allora quelle leggi nel mondo della scuola e nella cultura religiosa italiana. La ragione è semplice: le memorie di quegli anni parlano di una assenza di reazioni proprio nei luoghi che dovevano esserne più direttamente colpiti e più capaci di reazione - quelli della scuola e quelli della Chiesa. Oggi è sul fronte della scuola e su quello della integrazione fra culture e religioni diverse che il disagio della società italiana è più forte. E la mancata elaborazione di quel passato ne è insieme sintomo e causa.
Lo stato della memoria della cosiddetta società civile è quello che è. «Priebke? Boh!»: così hanno reagito qualche giorno fa le candidate a un premio di bellezza in quel di Frosinone, a poca distanza dalle Fosse Ardeatine, dove qualcuno ha avuto l’idea di invitare come testimonial quella cariatide di assassino nazista. Idea in sé non nuova - lo sanno bene i «mostri» della cronaca nera - se non fosse che i criminali di guerra sono vecchi e soprattutto ignoti ai più. Altro che memoria divisa. Il fiume di un’opinione pubblica politicamente indifferente e infastidita dalle dispute ideologiche li ha cancellati.
La stagione della post-politica perfeziona così la mancata resa dei conti col proprio passato con cui l’Italia ufficiale chiuse tra parentesi il fascismo. E ritorna in auge l’immagine negativa della politica e dei politici di mestiere, simile in apparenza soltanto a quella instillata dalla propaganda del ventennio fascista. Allora nella deliberata ignoranza e rifiuto della politica le menti più lucide videro il prodotto e la radice stessa del fascismo italiano. Lo testimoniano i bellissimi Diari di un partigiano ebreo di Emanuele Artom (editi da Guri Schwarz per Bollati Boringhieri). Emanuele Artom fu fatto prigioniero e ucciso dopo atroci torture dai militi della RSI - quelli per i quali si osa oggi chiedere parità di onore pubblico con le loro vittime. Il suo è uno dei nomi che quelle leggi cancellarono dal mondo degli studi e della scuola. Accanto al suo ci sarebbero tanti altri nomi da ricordare. Ma il fatto su cui si deve tornare a riflettere è l’importanza della scuola per l’attuazione delle leggi del 1938. Qui il regime fascista fu più rapido e più duro di quel nazismo di cui lo si vorrebbe un passivo imitatore in materia di razzismo, un succubo, un ingenuo scolaro traviato da cattivi compagni. L’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche reca la data del 5 settembre 1938 col Regio decreto n. 1390: «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola». Come ha fatto presente Michele Sarfatti, a Berlino la stessa misura fu presa solo due mesi e mezzo più tardi. Ne fu attore primario Giuseppe Bottai ministro di quella che si chiamava allora l’Educazione Nazionale. Fu lui a far sì che le scuole si riaprissero cancellando studenti e professori ebrei e libri di testo di autori ebrei. Spirito religioso, quel Bottai: il carteggio che intrecciò con don Giuseppe De Luca ha accenti di grande devozione. Sotto di lui la struttura burocratica e la catena di comando della scuola dettero prova di una durezza e di un’efficienza insolite.
Quando le scuole si riaprirono, gli studenti definiti ebrei da quelle leggi erano scomparsi e così pure i professori. Dov’erano finiti? E soprattutto: qualcuno se lo chiese? Oggi le carte di polizia ci permettono di ricostruire i percorsi degli scomparsi. E anche in questo caso l’efficienza dimostrata allora da un paese noto per la sua sciatteria istituzionale desta stupore.
Le spie che si incollarono al professor Paul Oskar Kristeller ne annotarono ogni passo. Elenchi di nomi e cognomi ebraici preparati da tempo permisero di seguire i movimenti delle persone. Quando venne il momento della deportazione nei lager, si fu in grado di rintracciare e chiudere nelle carceri fiorentine di Santa Verdiana la professoressa Enrica Calabresi, studiosa di scienze naturali cacciata dall’università in esecuzione del decreto del 5 settembre 1938: e solo la fiala di solfuro di zinco che la professoressa portava con sé le offrì una via d’uscita prima di salire sul treno per Auschwitz.
Con la scuola va insieme la religione: il linguaggio del razzismo fascista, profondamente diverso da quello nazista, esaltava la superiore spiritualità della «razza italiana». Era un’ambigua mistura di fumisterie idealistiche e di termini religiosi. Quanto contribuì quel linguaggio a oscurare la coscienza della realtà delle cose? Che cosa era la religione che si insegnava nelle scuole italiane dopo il Concordato del ?29? Qui non si tratta solo di misurare la timidezza e l’unilateralità delle reazioni ufficiali delle autorità centrali della Chiesa cattolica, che si preoccupò solo per la legislazione sui matrimoni misti e bloccò la protesta preparata dal defunto papa Pio XI. Si tratta di capire quanto pesasse allora nella cultura scolastica e nella vita sociale l’antica, plurisecolare tradizione di diffamazione degli ebrei e dell’ebraismo portata avanti dal magistero della Chiesa e diffusa dall’alto attraverso i veicoli della capillare presenza ecclesiastica in Italia. Bisogna tornare a scavare in questo passato italiano. Bisogna che quel che se ne sa diventi patrimonio comune.
E per questo è necessario ma non sufficiente che sia chiusa per sempre la porta ai tentativi di rilegittimare il fascismo. Bisogna che la scuola pubblica sia attrezzata come si deve nei confronti dell’intolleranza e dell’ignoranza religiosa e culturale. Oggi il linguaggio senza tempo delle pretese vaticane rivendica nuovi privilegi per le scuole cattoliche. Eppure la scuola pubblica ospita un insegnamento della religione pagato dallo Stato e gestito dai vescovi che di fatto cancella la parità dei diritti costituzionali e tende a vaccinare i giovani contro ogni pluralismo culturale e religioso.
Il fatto che oggi in Italia non siano gli ebrei a essere minacciati più direttamente dall’intolleranza niente toglie all’urgenza del problema. Il passato può insegnare qualcosa. E la scuola pubblica merita che vi si investano tutti i pensieri di un paese che vuole avere un futuro. «Se si pensa a com’è disarmata la giovinezza, - diceva Cesare Garboli - e a com’è fragile davanti ai cattivi maestri... ».
A Parma, nella civile Parma, la polizia municipale ha massacrato di botte un giovane ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, e ha scritto sulla sua pratica la spiegazione: "negro". Davano la caccia agli spacciatori e hanno trovato Emmanuel, che non è uno spacciatore, è uno studente. Anzi è uno studente che gli spacciatori li combatte. Stava cominciando a lavorare come volontario in un centro di recupero dei tossici. Ma è bastato che avesse la pelle nera per scatenare il sadismo dei vigili, calci, pugni, sputi al "negro".
Parma è la stessa città dove qualche settimana fa era stata maltrattata, rinchiusa e fotografata come un animale una prostituta africana. L’ultimo caso di inedito razzismo all’italiana pone due questioni, una limitata e urgente, l’altra più generale.
La prima è che non si possono dare troppi poteri ai sindaci. Il decreto Maroni è stato in questo senso una vera sciagura. La classe politica nazionale italiana è mediocre, ma spesso il ceto politico locale è, se possibile, ancora peggio. Delegare ai sindaci una parte di poteri, ha significato in questi mesi assistere a un delirio di norme incivili, al grido di "tolleranza zero". In provincia come nelle metropoli, nella Treviso o nella Verona degli sceriffi leghisti, come nella Roma di Alemanno e nella Milano della Moratti. A Parma il sindaco Pietro Vignali, una vittima della cattiva televisione, ha firmato ordinanze contro chiunque, prostitute e clienti, accattoni e fumatori (all’aperto!), ragazzi colpevoli di festeggiare per strada. Si è insomma segnalato, nel suo piccolo, nel grande sport nazionale: la caccia al povero cristo. Sarà il caso di ricordare a questi sceriffi che nella classifica dei problemi delle città italiane la sicurezza legata all’immigrazione non figura neppure nei primi dieci posti. I problemi delle metropoli italiane, confrontate al resto d’Europa, sono l’inquinamento, gli abusi edilizi, le buche nelle strade, la pessima qualità dei servizi, il conseguente e drammatico crollo di presenze turistiche eccetera eccetera. Oltre naturalmente alla penetrazione dell’economia mafiosa, da Palermo ad Aosta, passando per l’Emilia.
I sindaci incompetenti non sanno offrire risposte e quindi si concentrano sui "negri". Nella speranza, purtroppo fondata, di raccogliere con meno fatica più consensi. Di questo passo, creeranno loro stessi l’emergenza che fingono di voler risolvere. Provocazioni e violenze continue non possono che evocare una reazione altrettanto intollerante da parte delle comunità di migranti. Al funerale di Abdoul, il ragazzo ucciso a Cernusco sul Naviglio non c’erano italiani per testimoniare solidarietà. A parte un grande artista di teatro, Pippo Del Bono, che ha filmato la rabbia plumbea di amici e parenti. La guerra agli immigrati è una delle tante guerre tragiche e idiote che non avremmo voluto. Ma una volta dichiarata, bisogna aspettarsi una reazione del "nemico".
L’altra questione è più generale, è il clima culturale in cui sta scivolando il Paese, senza quasi accorgersene. Nel momento stesso in cui si riscrive la storia delle leggi razziali, nell’urgenza di rivalutare il fascismo, si testimonia quanto il razzismo sia una malapianta nostrana. L’Italia è l’unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno. Poiché oltre il novanta per cento degli stupri, per fare un esempio, sono compiuti da italiani, diventa difficile credere a una forzatura dovuta all’emergenza. L’altra sera, da Vespa, tutti gli ospiti italiani cercavano di convincere il testimone del delitto di Perugia che "nessuno ce l’aveva con lui perché era negro". Negro? Si può ascoltare questo termine per tutta la sera da una tv pubblica occidentale? Non lo eravamo e stiamo diventando un paese razzista. Così almeno gli italiani vengono ormai percepiti all’estero.
Forse non è vero. Forse la caccia allo straniero è soltanto un effetto collaterale dell’immensa paura che gli italiani provano da vent’anni davanti al fenomeno della globalizzazione. La paura e, perché no?, la vergogna si sentirsi inadeguati di fronte ai grandi cambiamenti, che si traduce nel più facile e abietto dei sentimenti, l’odio per il diverso. La nostalgia ridicola di un passato dove eravamo tutti italiani e potevamo quindi odiarci fra di noi. In questo clima culturale miserabile perfino un sindaco di provincia o un vigile di periferia si sentono depositari di un potere di vita o di morte su un "negro".
Ma i sindaci sono spesso come li descrive Maltese perché sono i più vicini alla “gente”. La tragedia è questa: la “gente” italiana è diventata così. E la domanda è: perchè?
Qui si commenta una non notizia, un silenzio. Si dice: cane che morde uomo non fa notizia. E’ la massima fondamentale del mondo dell’informazione: quel che è abituale, ripetitivo, fissato nelle regole della natura e non vietato dalla legge non fa notizia. Applichiamo la regola a un fatto dei nostri giorni. Un fatto a tutti gli effetti grave – una tentata strage – che però non ha fatto notizia. Ecco il fatto: nella tarda serata di lunedì 29 luglio anonimi attentatori a bordo di un "quad" hanno lanciato una bottiglia molotov contro roulottes in sosta nell’area industriale di un piccolo centro toscano. L’atto criminale è rimasto solo potenzialmente assassino perché la molotov non è scoppiata. Un caso fortunato, che non riduce la responsabilità di chi ha tentato di uccidere. Eppure la notizia, emersa per un attimo nella cronaca (ad esempio, su del 30 luglio, sezione Firenze, pag. 7), è affondata immediatamente nel silenzio.
Chi scrive queste righe ha tentato di capire meglio i fatti e soprattutto i silenzi attraverso un contatto diretto con gli abitanti di un luogo che gli è per ragioni biografiche specialmente familiare. Ma si è dovuto arrendere davanti a gente distratta, disinformata, simpatizzante più o meno apertamente per gli attentatori. Molti affettavano di non sapere, pochi ammettevano che si era trattato di cosa spiacevole, ma minimizzando: una ragazzata, un gesto innocuo, che aveva fatto pochi danni (appena una carrozzeria ammaccata). Il resto, il pericolo corso da una famiglia, lo spavento di bambini e adulti, la loro rapida decisione di fuggire dal luogo dell’aggressione, non sembrava suscitare nessuna partecipazione. Bilancio: solidarietà evidente con gli autori dell’attentato, ostilità verso chi ne era stato minacciato. Quasi un clima mafioso. Ma a differenza dei casi di mafia, in questo caso omertà e silenzio locali hanno avuto un riscontro nazionale. Il silenzio è rapidamente calato sul caso . E le indagini ufficiali, che di norma qualcuno deve pur svolgere, non avranno vita facile.
L’enigma ha una soluzione facilissima. Nel luogo dell’attentato era in sosta per la notte una carovana di automobili e roulottes di nomadi sinti. Solo per caso non ci sono stati dei morti: nelle roulottes c’erano dei bambini. E ancora una volta, come accadde anni fa al criminale che, non lontano da quel piccolo centro toscano, pose in mano a una piccola mendicante zingara una bambola carica di esplosivo, i potenziali assassini sono stati coperti dalla solidarietà collettiva . Chi conosce la banalità del male, la quotidiana serpeggiante avanzata della barbarie che precede e sostiene le modificazioni profonde dei rapporti sociali, tenga d’occhio l’episodio. O meglio: annoti il silenzio che ha inghiottito quella che solo per caso è stata una mancata tragedia. Ne è stata teatro una regione – la Toscana – che è d’obbligo definire «civile». Non si sa bene perché. «Civile» appartiene all’esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza. Da quando la specie umana ha riconosciuto in documenti solenni che non deve esistere nessuna differenza di dignità e di diritti tra i suoi membri, la civiltà si definisce dall’assenza di razzismi e dalla lotta contro le discriminazioni di ogni genere. E la cultura che si studia e si insegna ha la sua misura fondamentale nell’educare ai valori della cittadinanza attiva. Certo, la Toscana ha un patrimonio grande di cultura. La sua economia ne vive: cultura di terre incise dal lavoro come da un sapiente bulino, disegnate nelle opere di una grandissima tradizione pittorica. Bellezze naturali e bellezze d’arte vi sono inestricabilmente legate. Anche patiscono insieme le minacce del mercato. Per esporre meglio la merce si affaccia periodicamente nelle opinioni locali la proposta di eliminare dalla vista dei clienti le presenze sgradevoli: i "vu cumprà", i mendicanti, gli storpi e naturalmente gli zingari. "Corruptio optimi pessima", diceva la massima antica: la caduta è tanto più pericolosa quanto più dall’alto si precipita. Gli abitanti della regione che vanta tra i suoi titoli di nobiltà la prima abolizione legale della pena di morte oggi ospitano e nascondono un virus antico e pericoloso. Non sono i soli. E non basterà il voto di condotta restaurato nelle scuole a educare i futuri cittadini se chi getta una bottiglia molotov contro gli zingari viene impunemente vissuto dalla collettività come «uno di noi»: noi in lotta contro loro – i diversi, i senza diritti.
Un’ultima osservazione: l’ostilità nei confronti dei nomadi, degli zingari, è antica e diffusa, in Toscana come in tutta Italia. Ma nessuno aveva mai pensato di ricorrere alle molotov contro di loro. E’ un salto di qualità senza precedenti, il gradino più alto toccato da aggressioni e tentativi di linciaggio che non fanno nemmeno più notizia. E una cosa è evidente: non ci saremmo mai arrivati senza la campagna di diffamazione e di criminalizzazione condotta da partiti politici di governo e senza la recente legittimazione giuridica della discriminazione nei confronti delle presenze «aliene» – zingari, immigrati clandestini, esclusi dalla comunità («extracomunitari»). Il cattivo esempio viene da chi ha la responsabilità di governare gli umori collettivi e non sa rinunziare a eccitarli. Se quella molotov fosse esplosa, oggi saremmo qui a contare le prime vittime di una campagna irresponsabile alimentata dall’alto. Chi favoleggia di proteste in difesa dei diritti di libertà in Cina cominci a prendere sul serio quel che si dice nel mondo sulla situazione dei diritti umani in Italia.
Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un «campo» dove esseri umani – provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali – possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative.
Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato «entro stasera vi scoperemo tutte». Agli uomini, «sei un gay o un comunista?». Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C’è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un «trauma testicolare». C’è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l’altro piede». C’è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I. M. T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.
Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B. B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». Percuotono S. D. «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti». S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere – tranne che in un caso – l’inumanità degli abusi e delle violenze. Era questo il cuore del processo. Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l’ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere – contro i custoditi – atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.
È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo – in venti anni – di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione.
Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico.
Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti – governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune – di archiviare il caso come un imponderabile «episodio» (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa «degli altri». Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che – per tre giorni – ci è già appartenuta.
I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell’autentica posta del processo fin dal primo momento. «Bolzaneto è un "segnale di attenzione"», hanno detto. È «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell’uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».
I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l’ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l’attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inhumana, «tutto è possibile». Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l’ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato. Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti». E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c’è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati – dove i corpi vengono rinchiusi – dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto). L’invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti – e soprattutto le istituzioni – a guardarsi da ogni minima tentazione d’indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d’eccezione che lasciano cadere l’ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell’orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, ministro di giustizia dell’epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.
«Bolzaneto» è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della «sicurezza», dell’«ordine pubblico», del «pericolo concreto e imminente», della «sicurezza dello Stato» si potesse configurare un’inattesa zona d’indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio. Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un «diritto di polizia» che prevede – anche per i bambini – lo screening etnico, la nascita di «campi di identificazione» che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il «campo». Avverte che in questi luoghi «fuori della legge», dove le regole sono sospese come l’umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.
La Stampa
"Pestaggi, umiliazioni e torture quella vergogna non sarà mai sanata"
di Marco Preve
GENOVA - E´ la memoria la vera condanna per i responsabili dei fatti di Bolzaneto. «Dunque in quei giorni si sono verificati comportamenti nei rapporti tra le Forze dell´Ordine e i cittadini italiani e stranieri, che, se anche dovessero incontrare la prescrizione, tuttavia difficilmente potranno essere dimenticati». Comincia così la parte conclusiva della requisitoria finale dei pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. Nessuno andrà in carcere, le pene verranno cancellate, le richieste di risarcimento si trascineranno per anni. Ma nella monumentale quantità di materiale del processo, i verbali di interrogatorio e le centinaia di testimonianze serviranno a tramandare la storia del carcere speciale. Una prigione che ancor prima che luogo di violenze, abusi e umiliazioni è un luogo di confusione. «Il numero complessivo sicuramente accertato delle persone private della libertà transitate nella struttura di Bolzaneto giunge quindi a 252 persone - scrivono i pm -. Tuttavia deve essere ribadito che la mancata tenuta di un registro d’ingresso nella struttura e l’accertata assenza di un elenco ufficiale dei fermati per identificazione rendono questo dato non sicuro potendo il numero anche essere superiore». Frasi che la dicono lunga sulle capacità organizzative di varie amministrazioni: quella penitenziaria che manda sul campo i propri vertici e i nuclei d’elite; quella delle forze dell’ordine che si dividono la gestione delle varie fasi di registrazione degli arrestati, e quella della magistratura che alla vigilia, consentendo il differimento di 24 ore del colloquio con i legali, non si rende conto di partecipare alla realizzazione di una "mostruosità" giuridica, un buco nero del diritto, dove agli arrestati viene impedito di contattare un avvocato ben oltre i termini previsti, così come di telefonare alla propria ambasciata o ai famigliari, dove i fermati non si rendono neppure conto di quello che stanno firmando. E così capita che nella ricostruzione delle parti civili almeno quattro siano i detenuti fantasma. Giovani manifestanti che non compaiono nel registro dei fermati. Ma le tracce del loro passaggio a Bolzaneto sono state scoperte dagli inquirenti spulciando brogliacci ed elenchi della scientifica o di altri uffici.
Un caos organizzativo in cui gli abusi trovano un humus ideale. Altro che l’invito che il magistrato coordinatore del Dipartimento penitenziario, Alfonso Sabella, racconta di aver rivolto al personale quel 19 luglio 2001, giorno dell’anniversario della morte del giudice Borsellino: «Dovrete essere per i detenuti di Bolzaneto come "i caschi blu dell’Onu». «Non c’è giustificazione» scrivono i due pubblici ministeri. Non c’è per «il taglio di ciocche di capelli per E. Taline, per M. Teresa e per C. Pedro; per lo strappo della mano per A. Giuseppe; per l’umiliazione di B. Marco costretto a mettersi carponi e ad abbaiare come un cane; per il pestaggio di T. Mohamed, persona con un arto artificiale; per le profonde offese ad A. Massimiliano, per la sua bassa statura; per gli insulti razzisti ad A. Francisco Alberto per il colore della sua pelle; per la sofferenza di K. Anna Julia cui alla Diaz per le percosse hanno fratturato la mascella e rotto i denti, persona neppure in grado di deglutire; per il disagio di H. Jens che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non fu consentito di lavarsi; per l’umiliante foggia del cappellino imposto ad H. Meyer Thorsten (un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello); per l’etichettatura sulla guancia per i ragazzi arrestati alla Diaz; per i colpi sui genitali, per molti». Non c’è giustificazione per tutto questo.
Colpevoli o innocenti comunque impuniti
di Paolo Colonnello
Quella sera Massimo Luigi Pigozzi, assistente capo della Polizia di Stato, si fece portare il giovane Giuseppe Azzolina nell’infermeria della caserma di Bolzaneto dopo aver saputo che lo avevano prelevato dall’ospedale San Martino dove era andato a farsi medicare dopo gli scontri di via Tolemaide. Gli altri agenti erano adrenalinici e dicevano che un carabiniere era stato ucciso. Così l’assistente Pigozzi prese l’anulare e il medio della mano del ragazzo e iniziò a divaricarli sempre più forte, finchè tra le grida disumane del giovane, non arrivò a spaccargli le ossa lacerandogli perfino la carne tra le due dita. Azzolina svenne. Si risvegliò poco dopo nella stessa infermeria mentre un medico della polizia penitenziaria lo stava ricucendo senza anestesia. Il giovane si lamentava, chiedeva se potevano dargli «qualcosa». Gli misero uno straccio in bocca e il medico gli disse di non urlare. Ieri Pigozzi è stato condannato, uno dei 15 «colpevoli» (su 45) per gli orrori di Bolzaneto.
Il peggio di questa sentenza non è l’indulto che cancellerà ogni residuo di pena entro gennaio del prossimo anno. E non è nemmeno l’esiguo numero di anni chiesto simbolicamente dall’accusa come condanna per gli imputati, tutti poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici. Il peggio di questa sentenza è che condanna e assolve senza cogliere il vero senso di quanto accadde in quel luglio 2001 nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della Polizia di Stato, meglio nota come «caserma di Bolzaneto». E’ che consegna tutto all’oblio, senza poter riconoscere che anche da noi, nella civilissima Genova, a un passo dall’Autostrada che tutti i week end percorrono frenetici migliaia di milanesi e di torinesi, è accaduto qualcosa che pensavamo potesse succedere solo in America latina, solo nei paesi in guerra o del Terzo Mondo. Bisognerà attendere le motivazioni, ovviamente. Ma in quei tre giorni di autentica follia, nella casermetta in cima alla collina di Bolzaneto, due anni di processo e 326 persone ascoltate, per i giudici hanno dimostrato solo in parte che si consumò uno dei reati più odiosi che si possano concepire contro degli individui: quello di tortura. Che un colpevole vuoto legislativo non contempla nel nostro codice, obbligando i pubblici ministeri a contestare reati da niente, come abuso d’ufficio, abuso di autorità, violenza privata, con l’inevitabile condono e quindi la prescrizione.
Ma quando ti spezzano le dita lacerandoti la carne, quando ti picchiano sui genitali con dei grossi insaccati, ti costringono a dormire tra le tue feci, oppure a rimanere in piedi per ore senza bere nè mangiare, a passare tra corridoi di manganellate, a urlare «Viva il Duce», «Viva Mussolini», a girare nuda o nudo tra nugoli di agenti sghignazzanti, quando ti costringono a tutto ciò e a molto di più, allora non è più soltanto «abuso». Non è più semplice «violenza». E’ tortura, è rinuncia obbligata alla propria dignità umana. E’ degrado, è violazione dell’articolo 13 della Costituzione: «La libertà personale è inviolabile. E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà».
E’ quanto hanno ricostruito i pm Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello nella loro requisitoria durata due giorni nel febbraio scorso. Tanto c’è voluto per raccontare quanto accadde tra il 20 e il 22 luglio dietro i muri e le reti metalliche del «centro temporaneo di detenzione» per giovani arrestati durante le violente manifestazioni anti-G8. Ed è bastato appena per restituire almeno con il racconto, con la parola viva, un po’ di giustizia a Anna Julia Kutschkau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella «non fu in grado di deglutire per settimane»; a Thorsten Meyer Hinrric, costretto a girare nel piazzale della caserma con «un cappellino rosso con la falce e un pene al posto del martello»; a A.F schiacciata con la faccia contro un muro mentre le urlavano: «Troia, devi fare pompini a tutti»; a M. che aveva bisogno di un assorbente e alla quale gettarono giornali appallottolati e che si «arrangiò così» strappandosi un lembo della propria maglietta. Tutti nudi, tutti «perquisiti», insultati, calpestati, minacciati da ufficiali, semplici guardie, poliziotti, carabinieri, medici perfino.
Uomini e donne in divisa che avrebbero dovuto garantire un minimo di legalità e trasformarono invece la caserma in un «Garage Olimpo» argentino. Tutti ancora in servizio, tutti impuniti. E probabilmente ancora convinti di aver compiuto, al massimo, «qualche abuso».
A emettere il primo acuto è Il Giornale d’Italia. Lì, il 14 luglio 1938 (sotto la data del 15 trattandosi di un quotidiano della sera) appare un manifesto intitolato «Il fascismo e i problemi della razza», attribuito a «un gruppo di studiosi fascisti», di cui non si fanno i nomi. Il testo, diviso in dieci punti, culmina in una rivendicazione della purezza razziale degli italiani e denuncia il rischio che il loro sangue venga contaminato dall’incrocio con ceppi extra-europei, portatori di varietà biologiche diverse da quella ariana. Il punto 9 del manifesto porta un titolo rivelatore: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana».
Solo il 26 luglio, il Partito nazionale fascista rivela le generalità degli autori del manifesto. Tra i quali i più celebri sono il patologo Nicola Pende, il biologo Sabato Visco e lo psichiatra Arturo Donaggio. Si informa che gli estensori del documento, redatto sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare, sono stati ricevuti dal segretario del Partito, Achille Starace. Poco più tardi Pende e Visco protestano, sostenendo che il testo originario è stato "rimaneggiato". Ma ben presto tacciono.
Chi non tacque affatto, fin da principio, furono gli intellettuali "militanti" - letterati, storici, giornalisti - quasi che l’avvio ufficiale della campagna antisemita rientrasse nei loro più fervidi voti. L’acuto risuonato sulle colonne del Giornale d’Italia diventò così un coro. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio Interlandi, Il Regime fascista di Farinacci, ma anche i quotidiani meno etichettati aderirono alla nuova missione. E per un certo numero di scrittori l’antisemitismo rappresentò una palestra per esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici.
Fu proprio Interlandi a proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni dell’agosto 1938, che la campagna antisemita mirava alla «liberazione dell’Italia dai caratteri remissivi» che le erano «stati imposti dalle precedenti classi politiche». Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e «rivoluzionari»? In un saggio pubblicato in quattro puntate nella rivista Il Ponte fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa avrebbe poi offerto una nutrita antologia di scritti di chiara obbedienza razzistica. Altrettanto ricca in questo senso è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Si tratta di una documentazione inquietante.
Per questo genere di letteratura, il 1938 è un anno privilegiato. Esce un trattato di Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario. Vi si sostiene «l’identità ebraismo=comunismo», binomio al quale si oppone con i fatti «l’asse Roma-Berlino»: l’Italia, specifica l’autore, sta combattendo «in terra di Spagna non l’iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica, quella creata dall’ingegno giudaico-massonico del Komintern». Gli fanno eco, tra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D’Andrea.
Critici delle più varie discipline denunziano, intanto, i danni che l’ebraismo infligge alla creazione artistica. In agosto un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce la musica moderna «un vero e proprio monopolio della razza ebraica». Il critico letterario Francesco Biondolillo cerca di dimostrare che «il pericolo maggiore è nella narrativa». Qui, «da Svevo, ebreo di tre cotte, a Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti».
Moravia non era nuovo a simili attacchi. Già nel 1931, in visita a Giovanni Papini, era stato da lui accolto con le parole: «Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose». Era una frase almeno in parte inesatta, avrebbe poi commentato il romanziere. Essa rientrava comunque nello stile dello scrittore fiorentino il cui romanzo Gog, edito proprio nel ‘31, si ispirava al più schietto antisemitismo.
Ora, nei tardi anni Trenta, quei precedenti si amalgamavano al seguito di una parola d’ordine unitaria. Gli intellettuali razzisti di sentimenti razzisti si moltiplicavano. Fra quelli destinati a diventare proverbiali figura Guido Piovene. È lui a firmare, sul Corriere della sera del 15 dicembre 1939, una recensione entusiastica al libello di Interlandi Contra judaeos. Gli attribuisce il merito di «aver ridotto all’osso la questione ebraica». Salvarsi dagli influssi semitici, suggerisce, non è difficile: «si deve sentire d’istinto, e quasi per l’odore, quello che v’è di giudaico nella cultura». Nella Coda di paglia (1962), lo scrittore formulerà una drammatica abiura, confessando di aver «obbedito da schiavo», senza sentirsene mai «partecipe», alle direttive del regime.
In altri casi, come quello di Amintore Fanfani - il quale sostenne nel ‘39 che «per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri» - un’abiura altrettanto recisa non ci sarà. E neppure qualcosa di simile verrà espressa dallo storico Gioacchino Volpe (1876-1971), al quale la politica della razza pura parve una tappa verso la costruzione di un’Europa «veramente unita e solidale».
Ma torniamo a letterati e giornalisti. Con lo scoppio della guerra l’antisemitismo assurge a epidemia. Dal ghetto di Varsavia, nel ‘39, Paolo Monelli scrive per il Corriere della sera: «Nulla ci pare di avere in comune con questa schiatta ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli esotici costumi, i gesti paurosi, l’andare sbilenchi il più rasente al muro possibile». Dalla Cecoslovacchia Curzio Malaparte denunzia sullo stesso giornale «il pericolo sociale che rappresenta», per le città boeme, «l’enorme massa del proletariato giudaico»; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla Gazzetta del Popolo che sono stati gli ebrei ad aggravare il conflitto mondiale: «i "rabbi" di Nuova York, spingendo l’America alla guerra, hanno seguito l’istinto e la tradizione della razza».
Ci sono poi gli ossessi, come Mario Appelius e Marco Ramperti. Il primo definisce «Israele traditore del mondo». Per il secondo «più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo». Fra questi mostri, egli ne privilegia uno: «il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot».
Furono tutti così, gli "osservatori" italiani degli anni Trenta? Perfino nelle file fasciste si riscontrano casi di adesione al razzismo solo parziale, o perfino di ripudio. Pur ufficialmente antisemita, Giuseppe Bottai, a detta di un suo biografo, Alexander J. De Grand, «fu in grado di limitare l’applicazione alla cultura» delle teorie discriminatorie. Martinetti espresse la sua disapprovazione fin dal novembre 1938. A contrasti significativi si assiste anche nel dibattito sul tema «arte e razza». Ugo Ojetti si riconosce nel "pollice verso". Di parere opposto è Carlo Carrà: «Chiamare ebraizzante l’arte moderna», dichiara, «è tutto sommato molto puerile». Non per motivi di estetica, ma di fede, si oppone al razzismo Giorgio La Pira.
In campo cattolico le posizioni in materia sono variegate. Papa Pio XI, Achille Ratti, non smetterà di deprecare le «ideologie totalitarie», di cui sono frutto il «nazionalismo estremo» e il «razzismo esagerato», mentre meno reciso risulta l’atteggiamento di buona parte della gerarchia. Un simile quadro, già noto, s’arricchisce in questi giorni di nuovi particolari. Nel prossimo numero della Civiltà cattolica padre Giovanni Sale, storico della Compagnia di Gesù, ripercorre la vicenda, pubblicando una lettera inedita di Bonifacio Pignatti, ambasciatore d’Italia in Vaticano. In questa lettera, datata 20 luglio 1938 (cinque giorni dopo la pubblicazione del manifesto antisemita), il conte Pignatti scrive che «il Papa medita le contromisure da adottare dinnanzi alla campagna anti-israelitica progettata dall’Italia, e che verrà condotta in base ai principi di purezza di razza, redatti dai professori universitari italiani».
L’articolista ricorda che una settimana più tardi lo stesso Pio XI - in un discorso agli studenti di Propaganda Fide attaccò con forza l’indirizzo filo-tedesco adottato dal regime in campo razziale. La stessa severità il pontefice avrebbe mostrato il 6 settembre del ‘38 - quasi in extremis: sarebbe morto il 10 febbraio successivo - sostenendo di fronte a un gruppo di pellegrini belgi «che l’antisemitismo è inammissibile e che spiritualmente siamo tutti semiti perché discendenti da Abramo, nostro padre nella fede». Era, osserva padre Sale, «la prima volta che un pontefice in modo chiaro ed esplicito condannava l’antisemitismo». Ci si può chiedere se ci sarebbero state altre volte.
Ho appena comprato un clandestino. Roy, 31 anni, arrivato cinque anni fa come turista dal Bangladesh, costa meno di un pieno di benzina. Chiede 30 euro a giornata per lavorare come muratore. Anche quattordici ore al giorno, dall'alba a sera tardi. Fanno due euro e 14 centesimi di paga l'ora. Una stretta di mano conclude l'accordo. Senza che lui sappia molto di me né io di lui. Ogni mattina presto Roy appare in piazzale Roma, l'ultimo brandello di strada davanti alla laguna di Venezia. E se nessuno lo chiama nella città d'arte, torna ad aspettare alla stazione di Mestre. Alla fine dei lavori potrei anche non pagarlo. Potrei prenderlo a schiaffi: se lui fosse così pazzo da chiamare la polizia e beccarsi l'espulsione, rischierei al massimo sei mesi di reclusione. Potrei rubargli il portafoglio: ammesso che mi voglia denunciare, il furto è punito da sei mesi a tre anni. Potrei fargli credere che gli procurerò un permesso di soggiorno in cambio dei suoi risparmi e truffarlo: non rischierei più di tre anni. Potrei essere lo sgherro di un'associazione a delinquere e sfruttarlo: la mia condanna partirebbe comunque da un anno. Sempre meno di quanto rischierà Roy quando verrà approvato il disegno di legge sul reato di immigrazione clandestina: fino a quattro anni di carcere, per essere semplicemente un muratore.
Perfino una parte autorevole dei vertici di carabinieri e polizia sostiene che è anche colpa della legge firmata nel 2002 da Umberto Bossi e Gianfranco Fini, se in Italia ci sono tanti clandestini: perché restringe all'infinito le possibilità di ingresso, punisce i lavoratori stranieri non in regola e garantisce sempre una via d'uscita indolore ai datori di lavoro che li sfruttano. È tutto scritto in un rapporto riservato, consegnato al ministero dell'Interno nell'ottobre 2006, all'indomani dell'inchiesta de 'L'espresso' sulla schiavitù e il caporalato in Puglia. L'analisi riguarda le condizioni degli stranieri in tutta Italia. "Sono gli imprenditori, che si avvalgono dell'intermediazione abusiva, i soggetti principali che avviano questo sistema di illegalità", denuncia il rapporto, "incentivati sia dai maggiori profitti derivanti dal lavoro nero, e dunque dalla mancata regolarizzazione delle posizioni lavorative, sia dalla celerità e dalla flessibilità con le quali possono essere soddisfatte le richieste di manodopera".
Lo studio suggerisce di introdurre sanzioni per i datori di lavoro, oltre che per intermediari e caporali. È firmato dall'allora vicecapo della polizia, Alessandro Pansa, diventato poi prefetto a Napoli, che presiedeva la commissione formata anche dal generale di brigata dei carabinieri, Salvatore Scoppa, e dal colonnello Luciano Annichiarico, responsabile del comando carabinieri per la tutela del lavoro. Il dossier è puntualmente scomparso in un cassetto. Prima per l'instabilità del governo di Romano Prodi. Ora per le decisioni diametralmente opposte annunciate da Silvio Berlusconi e dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni.
Altro che badanti da salvare. La visione coloniale, secondo cui l'immigrazione da regolarizzare è soltanto la servitù di casa, esclude dalla legalità una parte importante dell'economia italiana. Lavoratori che, pur non essendo in regola con i documenti, partecipano attivamente al nostro prodotto interno lordo. Dati di Unioncamere: il 9,2 per cento del Pil italiano deriva dal lavoro degli stranieri, regolari e irregolari. L'agricoltura che riempie le nostre tavole di frutta e verdura ne è un esempio: il 95 per cento dei braccianti stranieri in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Lazio è ingaggiato senza contratto di lavoro e più dell'80 per cento è senza permesso di soggiorno. Lo denuncia il dossier 'Una stagione all'inferno' presentato a metà maggio dalla missione in Italia di Medici senza frontiere. È l'aggiornamento di un'inchiesta pubblicata nel 2005 sull'agricoltura al Sud. "Dopo tre anni", spiega Loris De Filippi, responsabile delle operazioni di Msf, "abbiamo constatato che nulla è cambiato". Pochi giorni fa l'Istituto nazionale di economia agraria, ente di ricerca del ministero per le Politiche agricole, ha quantificato il numero di lavoratori stranieri nel settore: 150 mila, di cui 70 mila al Nord. Nel 1995 erano 30 mila in tutta Italia. Non esistono censimenti sui clandestini e solo queste cifre permettono di stimare il numero di lavoratori non in regola sfruttati nell'agricoltura. Secondo i dati consegnati dai carabinieri al ministero, sui 22 mila 295 stranieri occupati nelle aziende agricole controllate in Italia nel primo semestre 2006, il 24,21 per cento era senza permesso di soggiorno: significa che dalla Sicilia al Friuli i clandestini ingaggiati come braccianti sono più di 36 mila. Così se un giorno il governo volesse eliminare il lavoro irregolare in agricoltura attraverso il reato di immigrazione clandestina, dovrebbe far arrestare 36 mila lavoratori. E trovar loro posto nelle carceri già affollate da 48.600 persone. Senza contare il costo della detenzione e delle espulsioni: servirebbero almeno 103 voli a pieno carico di Boeing 747 per riportare tutti ai Paesi d'origine. Dovremmo poi dire addio più o meno al 24 per cento della produzione agricola italiana. Pomodori e uva marcirebbero sulle piante, i prezzi di vino, formaggi e verdure correrebbero più del petrolio. La carta e l'inchiostro per stampare i permessi di soggiorno costerebbero sicuramente molto meno. "Ma gli imprenditori non rinunceranno alle braccia a basso costo", spiega l'avvocato di Milano, Domenico Tambasco, esperto di diritto dell'immigrazione: "L'economia sostituirebbe gli espulsi con altri lavoratori irregolari. Altri migranti passerebbero le frontiere lungo le rotte più pericolose. E poiché è impensabile l'espulsione di decine di migliaia di persone, la nuova legge spingerebbe i lavoratori a vivere da latitanti, a nascondersi. A essere ancora più schiavi. Ci vorrebbe uno sciopero di tutti gli immigrati: solo così emergerebbe il vero peso dell'immigrazione nel sistema economico nazionale". Il carcere non è comunque una novità: la legge già prevede la detenzione fino a quattro anni per i clandestini sorpresi una seconda volta. "Prima dell'indulto", ricorda l'avvocato di Padova, Marco Paggi, "il 25 per cento della popolazione penitenziaria era composto da stranieri detenuti unicamente per non aver rispettato il decreto di espulsione".
L'edilizia è un altro settore di grande sfruttamento. Il rapporto di polizia e carabinieri consegnato al ministero dell'Interno rivela che su 2943 imprese controllate in Italia nel 2006, ben 2004 avevano violato le norme di assunzione del personale straniero e 45 erano completamente sommerse. Perfino nel Nord-Est, modello dell'economia rampante e xenofoba che piace alla destra nazionale, i clandestini hanno ormai una funzione insostituibile. "La presenza di lavoratori irregolari", spiega Stefania Bragato, del Consorzio per la ricerca e la formazione, "varia dal 24 per cento della provincia di Rovigo, al 22 della provincia di Venezia, al 20 di Verona, scendendo al 15 di Treviso. Una media intorno al 18 per cento".
Certo, colpire i datori di lavoro vorrebbe dire essere disposti ad arrestare decine di industriali nel Veneto leghista dove, secondo dati raccolti anche dalla Cgil, l'impiego di clandestini nella filiera produttiva del tessile sale al 27 per cento. Oppure ammanettare le migliaia di casalinghe anziane che, alla ricerca di una badante, una colf o un muratore per piccoli lavori, non ne vogliono sapere di pagare uno straniero a posto con documenti, assicurazione e bollettini. "Il paradosso è che un clandestino trova lavoro più facilmente di un regolare. Vengono perfino qui a chiedere come fare", dice Leonardo Menegotto, responsabile immigrazione della Cgil di Mestre: "Rifiutano i regolari perché, dicono, vogliono essere messi a contratto. Io rispondo che queste informazioni non le diamo".
La denuncia nel rapporto riservato di polizia e carabinieri è un'accusa senza alibi: "Il lavoro nero e l'economia irregolare, per dimensioni e pervasività, hanno assunto la configurazione di una componente strutturale del sistema produttivo nazionale... Le sanzioni previste dalla legge Biagi sono inadeguate a fronteggiare il fenomeno nel suo complesso... Il ricorso diffuso al lavoro nero rende scarsamente efficaci anche i meccanismi sanciti dalla normativa prevista per i flussi di ingresso di stranieri". Da sempre le quote non rispondono alle esigenze dell'economia. Ma nessun governo, nemmeno di centrosinistra, si è adeguato. Così quest'anno si è toccato un altro record: 758 mila dichiarazioni di assunzione per appena 170 mila permessi stabiliti dal decreto flussi.
Il risultato è catastrofico. Soprattutto al Sud dove la paura e l'insicurezza sono sentimenti quotidiani per migliaia di braccianti. Il 64 per cento vive in case abbandonate senza acqua. Il 62 senza servizi igienici. Il 92 per cento senza riscaldamento. Ad Alcamo, in Sicilia, il Comune ha allestito un dormitorio per i lavoratori stagionali stranieri. Ma la legge impedisce di accogliere clandestini. Mentre gli agricoltori del posto vogliono soprattutto clandestini. "Lo scenario è dei più impressionanti", è scritto nel rapporto di Medici senza frontiere, "il 39 per cento dei lavoratori dorme per le strade cittadine, il 27 in case abbandonate, il resto arrangiato in tende nei campi limitrofi". Una sera di ottobre a Gioia Tauro, in Calabria, viene investito Mamadou, 18 anni, bracciante emigrato dal Mali: dopo un mese con una ferita infetta alla coscia sinistra "al pronto soccorso gli operatori sanitari dichiarano di curarlo a titolo di favore. L'ortopedico non è presente, la gamba è dolorante e gonfia. Il paziente viene dimesso senza aver consultato lo specialista, senza bendatura di supporto e senza terapia".
L'Italia è spietata e cinica anche con chi è in regola. Abdou, 32 anni, laurea in lettere presa in Senegal, parla italiano, francese, inglese e capisce lo spagnolo. Lavora come assistente del direttore commerciale in un ditta a Pordenone. Potrebbe girare il mondo e fare carriera. Nell'aprile 2007 ha chiesto il rinnovo del suo permesso di soggiorno. Data dell'appuntamento in questura, per la foto segnaletica come fosse un delinquente: febbraio 2009. Il permesso lo riceverà dopo altri quattro mesi di attesa: "Spero", sorride, "intanto non posso uscire dall'Italia. Questa è una discriminazione". Abdou chiede di non rivelare il suo cognome. Per paura.
Ogni settimana 22 mila stranieri presentano alle poste la richiesta di rinnovo del soggiorno. E aspettano la convocazione in questura: "Qui a Treviso non rispondono nemmeno perché il sistema informatico non è tarato per fissare appuntamenti nel 2010", avvertono agli sportelli immigrazione in città. Proprio in questi mesi stanno entrando in Italia gli stranieri del decreto flussi 2006. Dopo due anni molti trovano che i loro datori di lavoro sono nel frattempo falliti, si sono trasferiti o sono morti. A loro le prefetture concedono permessi provvisori di sei mesi: verranno convocati tra un anno e mezzo, per ritirare un documento già scaduto da un anno.
Roy, il muratore bengalese, confessa che adesso ha paura di essere buttato fuori di casa. Ha saputo del decreto che da lunedì prevede la confisca degli appartamenti affittati agli stranieri senza permesso di soggiorno: "Dormo con quattro connazionali in regola. Mi hanno detto che devo trovarmi un altro posto". Può essere l'inizio di un assalto che porterà gli squali immobiliari a riappropriarsi a prezzi stracciati di interi quartieri storici. Il decreto non sembra così innocente: negli uffici dei broker di Milano si parla di appartamenti di cinesi, egiziani e peruviani che saranno confiscati e messi all'asta. Mentre migliaia di lavoratori clandestini già si chiedono dove andranno a dormire il prossimo inverno.
Benvenuti all'inferno
La brutalità del 'sistema Italia' non risparmia nemmeno gli immigrati regolari che lavorano nelle fabbriche.
È il risultato di un'indagine su quasi 100 mila operai presentata pochi giorni fa dalla Fiom-Cgil che dedica una sezione ai lavoratori stranieri (www.fiom.cgil.it/ inchiesta/default.htm). Il 20 per cento dei dipendenti con permesso di soggiorno ha subito intimidazioni sul posto di lavoro, il 5,3 violenze fisiche da parte dei colleghi, il 27,6 discriminazioni legate alla nazionalità. Il 7,8 per cento delle donne ha sopportato attenzioni sessuali indesiderate e il 4,7 ha subito violenze fisiche.
Il 35 per cento degli intervistati lavora in Italia da più di dieci anni. Solo il 20 da meno di cinque anni. Il 44 svolge il suo lavoro da almeno sei anni e il 36,8 lavora sempre nella stessa azienda. Il 64 per cento vive con la propria famiglia e nella metà dei casi ha figli piccoli.
Il 10,7 per cento degli operai immigrati ha una laurea, contro lo 0,4 degli italiani. Il 37,9 ha un diploma di scuola superiore (contro il 25,1). Le donne hanno il livello più alto di istruzione: il 21,2 per cento delle immigrate ha una laurea. Ma nella gerarchia del lavoro gli stranieri occupano i livelli di inquadramento più bassi: il 52,1 per cento è al terzo livello, il 14,6 sotto il terzo. In media un immigrato guadagna 1.186 euro al mese. Ma nella metà dei casi si tratta di famiglie monoreddito: il 22 per cento degli stranieri vive con più di cinque persone. Solo il 29,3 per cento ha redditi familiari superiori a 1.900 euro contro il 55,1 degli italiani. Nonostante gli immigrati lavorino più ore degli italiani, più spesso la notte e nel 73 per cento dei casi facciano anche il turno del sabato. Quanto agli incidenti sul lavoro, il 18,2 per cento degli stranieri non ha ricevuto una adeguata informazione sui rischi dovuti agli strumenti o ai prodotti che usa.
Poche righe in cronaca, e nemmeno su tutti i giornali, per l'anziana signora che ha ridotto in schiavitù la badante rumena a Lainate (Milano). A differenza dei delinquenti stranieri (di cui si pubblica nome e cognome), e a differenza dei rapinatori italiani (di cui si pubblicano le iniziali), della signora schiavista non si sa nulla, se non l'età avanzata, 75 anni, e la dignitosa semiricchezza dell'abitazione, una villetta. E così, volendo usarla come metafora, un nome glielo devo trovare io, e la chiamerò Italia. Dunque, la storia: Italia è vecchia. Italia vuole qualcuno che la accudisca essendo i giovani d'Italia incapaci di accudire i vecchi, o svogliati, o scontrosi ed avendo Italia servizi sociali inesistenti. Italia si serve di mano d'opera straniera. Ma Italia fa in modo che questa mano d'opera straniera non conosca i suoi diritti, che sia sfruttata e terrorizzata. Italia non la paga e la ricatta con l'incubo dell'espulsione o dell'arresto. Italia le fa fare la doccia fredda, una volta al mese. Italia le dà da mangiare i suoi avanzi. La rinchiude in un seminterrato. Italia spende poco per pagare la straniera che lavora per lei, ma spende molto in tecnologia per il controllo e la repressione: telecamere a circuito chiuso e addirittura sensori acustici per conoscere i movimenti della sua schiava. Italia usa parole come «serva» e frasi come «è solo una rumena». Italia ha vicini di casa che conoscono la situazione, ma stanno zitti, perché sono italiani anche loro, complici, in qualche modo figli d'Italia. Il capitano dei carabinieri intervenuto ha descritto bene Italia: «Un mix di cattiveria, ignoranza e razzismo». Forse qualche mese fa, osando un po', avrei potuto chiamarla Padania, ma oggi non ho dubbi sul nome da dare alla vecchia schiavista: Italia le sta benissimo, ci canta, per così dire. E non capisco cosa aspettino i governanti d'Italia e la loro melliflua opposizione, a recarsi in blocco fuori dalla villetta di Lainate a intonare qualche canto corale. Per esempio Fratelli d'Italia. Che diamine, un po' di coerenza!
IN TV Nel febbraio del ’43 i militari italiani fecero una rappresaglia nel villaggio greco di Dominikon uccidendo 150 civili. Racconta questa strage il documentario «La guerra sporca di Mussolini» in onda domani sera su History Channel su Sky e poi su Rete4
Domenikon, 16 febbraio 1943. Il piccolo villaggio rurale della Tessaglia, non lontano dal confine greco con la Macedonia, quel giorno vede un’azione partigiana contro gli occupanti dell’Asse. Dalle colline sparano sui convogli italiani, nove militari perdono la vita. La rappresaglia, durissima, si rivolge contro la popolazione civile. Le case vengono incendiate. I maschi, dai 14 anni in su, vengono strappati alle famiglie e fucilati. «Una salutare lezione» dirà il generale Cesare Benelli, che comandava la divisione Pinerolo. Sono 150 i morti civili di questa Marzabotto greca e il massacro, questa volta, è perpetrato dalle forze dell’esercito italiano. Domenikon nel 1998 è stata proclamata in Grecia città martire ma, ancora oggi, è difficile ricostruire la storia di questa e di altre atrocità compiute dalle forze di occupazione italiane in Grecia nella Seconda guerra mondiale. Sarebbero 1500 i militari che si macchiarono, dal 1942, di crimini contro l’umanità: stupri, uccisioni di massa, incendi, saccheggi.
È questo il tema del film-documentario «La guerra sporca di Mussolini», prodotto da Gioia Avvantaggiato, diretto da Giovanni Donfrancesco, che sarà trasmesso domani alle 21 da History Channel su Sky e, in seguito, da Rete 4. La Rai, invece, non aveva manifestato interesse al progetto. Il documentario si avvale delle ricerche di Stathis Psomiadis, che nel massacro perse il nonno e che si è dedicato alla raccolta delle testimonianze di ciò che avvenne nel suo villaggio di origine. E di Lidia Santarelli, storica italiana, docente alla Columbia University a New York. Nel film i vecchi sopravvissuti rievocano: alcuni che capivano l’italiano, sentendo i militari dire «bruciamo tutto», avvertirono gli altri. «Qui ci ammazzano tutti». Ci fu chi riuscì a salvare un figlio buttandolo in un fosso.
Dice Lidia Santarelli, che ha dedicato molte ricerche alle testimonianze e alla memoria in Grecia negli anni dell’occupazione italiana, che c’è una strana discrasia fra i documenti che riportano le testimonianze immediate sulle atrocità italiane e le memorie degli anni successivi al 1950. «Subito dopo la Liberazione il governo greco sottopose alle Nazioni Unite centinaia di casi in cui i militari italiani erano ritenuti responsabili di crimini di guerra contro l’umanità» ed è documentato, sostiene la storica, che le truppe italiane furono impiegate massicciamente nelle operazioni volte a stroncare la lotta partigiana e a sradicare le organizzazioni della Resistenza nelle aree rurali della penisola. «Esiste la documentazione storica che testimonia che, a cominciare dalla fine del 1942, la politica repressiva degli italiani si trasformò in una guerra condotta contro i civili».
Insomma, anche quella italiana fu, come sono tutte le guerre e particolarmente quelle di occupazione che fronteggiano l’ostilità delle popolazoni civili, una «guerra sporca». In Grecia come nei Balcani, in Slovenia, in Etiopia. E però le denunce non ebbero corso. Per questo, e poiché i crimini di guerra sono sempre perseguibili, il sostituto procuratore militare di Padova, Sergio Dini (presente alla proiezione del film, ieri a Roma alla Casa del Cinema) ha presentato una denuncia formale alla procura militare di Roma, l'unica competente per tali reati commessi da italiani all'estero.
Eppure, le testimonianze successive cambiano, nella stessa Grecia, dove si tende a distinguere fra gli italiani bonari e i nazisti tedeschi. «Italiani brava gente - dice un altro storico intervistato nel film documentario, Lutz Klinkhammer - non è una invenzione ma è falso che questo fosse l'aspetto dominante nell'occupazione di quei territori». Klinkhammer cita le fucilazioni italiane in Slovenia che, nella provincia di Lubiana, ebbero le stesse dimensioni delle fucilazioni tedesche in Alta Italia dopo l'8 settembre. Oltre 100 mila slavi transitarono per i campi di concentramento italiani in Jugoslavia. Nell'isola di Rab, di cui il film mostra cadaveri scheletrici, morì il 20% dei prigionieri. Cosa avvenne? Perché quella discrasia che ancora oggi pesa sulle «macchie bianche» della storia italiana, sulla difficoltà nostra a fare i conti con la storia? Nel 1946 cambia tutto. C’è il roll back, c’è il mondo spaccato in due. La Grecia infiammata dalla guerra civile tra comunisti e monarchici è il primo banco di prova della confrontation nel mondo bipolare. La guerra fredda mette fine alle aspirazioni di giustizia.
Quarant’anni ci son voluti perché un autore simile fosse conosciuto appieno nel suo Paese. Ci sono voluti decine di libri stampati all’estero, una Legion d’Onore, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. E’ il destino di Boris Pahor, triestino di lingua slovena, noto quasi ovunque tranne che in Italia. Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c’era un grande capace di scrivere in un’altra lingua - la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino - e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga.
Necropoli - Fazi, pagg. 270, euro 16, prefazione di Claudio Magris e traduzione di Ezio Martin - è dedicato alla prigionia nei Lager nazisti e salda il conto con molte cose: l’oppressione fascista che - si voglia o no - fu la premessa dei forni crematori; la scandalosa anticamera di questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967); con la sua umiltà, la sua onorata cittadinanza e la sua limpida passione civile. Ma soprattutto con la bellezza di un testo che si situa a pieno titolo accanto ai capolavori di Primo Levi e Imre Kertész sullo sterminio.
Per Pahor il Muro cade solo ora, ma il ritardo si riscatta con una perfetta scelta di tempo, col libro che esce nel Giorno della Memoria, il primo celebrato dopo la definitiva cancellazione della frontiera tra Italia e Slovenia. E chissà che questo bel rilancio non serva a esorcizzare gli ultimi fantasmi in circolazione sulla Cortina di Ferro che non c’è più, offrendo una base nuova di conoscenza reciproca alle sospettose comunità che la abitano. Un libro importante, perché non recrimina ma guarda al domani, e perché l’Autore - scrive Magris - è uscito dall’inferno integro e vitale, ricco di una «confidenza con la fisicità elementare della vita».
Il libro ha una forte anima slava e non indulge in autocommiserazioni. Non rimane imbrigliato nemmeno nel «tortuoso senso di colpa» di chi è ritornato e sente il peso di essere sopravvissuto ai compagni. Pahor sa di appartenere al suo Lager sui Vosgi, di essergli legato per sempre, ma quando, vent’anni dopo, vede due giovani baciarsi vicino alle camere a gas, anziché indignarsi, sente il richiamo potente del sentimento. Dice: «Noi eravamo immersi nella totalità apocalittica della dimensione del nulla», e quei due ora «galleggiano su qualcosa di altrettanto infinito e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose».
Il richiamo della natura - indifferente ma consolatrice - è presente nel mutismo del bosco cui egli, durante la prigionia, non riesce affatto a guardare come simbolo partigiano di libertà.
Durante l’esecuzione di un centinaio di giovani prigioniere francesi, egli al contrario gli rimprovera «di offrire, fitto com’è, un nascondiglio alla dannazione». A guerra finita poi, durante una visita guidata al campo della morte, Pahor si sente selvaggiamente respinto da quella buia massa resinosa che a distanza di vent’anni si rivela come una massa di ombre trapassate pronte a difendere «il proprio territorio dalla curiosità di un uomo che passeggia, vestito decentemente, con i suoi sandali estivi».
Il bosco è un incubo che svela il nulla cosmico, sveglia inquietanti presenze ostili, «feti» coscienti del fatto che «il loro sterminio collettivo si era legato all’infinito isolamento della natura e dell’universo». Ma, a viaggio finito, è pur sempre il bosco ad accogliere e consolare il sopravvissuto nell’angolo di un camping solitario, concedendogli di infrattarsi, diventare «libero pellegrino» e assaggiare in un pentolino bollente un sorso di buon latte dei Vosgi che gli riporta alla memoria il profumo di quello munto prima della catastrofe in Slovenia. Un latte mitologico, che «sembrava sapesse di Nigritella» e - sogna Pahor - con «la linfa dei nostri monti ci rafforzava nella lotta contro il terrore nero».
Il libro offre grandiose immagini collettive. Il «formicaio zebrato», la «massa multicefala», le «ossute zanzare acquatiche, ragni bruciacchiati con i sederi a X», le file di «tartarughe che di quando in quando sollevano le teste nude nello sforzo di guardare fuori dal regno delle tenebre». Intorno, un orrore che svela la sua tremenda dimensione acustica: «l’ululato dei cani nel ventre della montagna nera», la tempesta di urla rauche, quando sembrava che la paura «fosse diventata un vento impetuoso che investisse tutte insieme le corde vocali tedesche». Sopra di tutto, il Camino: il suo rosso tulipano acceso nel cielo di piombo, l’odore dolciastro, la cenere che si mescola alle nubi, genera polipi, piovre apocalittiche, elefanti fuligginosi.
Quando arriva al campo di Natzweiler-Struthof, Pahor ventenne non ha già più illusioni. Il manganello delle camice nere le ha già spazzate via dalla sua coscienza, contribuendo però a creare, nella scorza dell’Autore, un «sistema di difesa» che non permette ai sentimenti di penetrare fino al nocciolo dove è «concentrato l’istinto di sopravvivenza». Ricorda i fascisti che incendiano il teatro sloveno di Trieste, il loro danzare «come selvaggi attorno al grande rogo», la sua incredulità di fronte alla soppressione della lingua con cui ha «imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo». Una soppressione, durata un quarto di secolo, che «raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l’individuo a un numero».
«Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati dalle scuole di Trieste». Diventai, scrive Pahor, «razza condannata, un negro». Ecco perché nel campo sui Vosgi gli slavi della costa, pur portando la «I» sulla casacca a strisce, si dicevano «yugoslavi» davanti al kapò. Non volevano essere confusi con gli oppressori, ma anche non subire le conseguenze del disprezzo tedesco verso un popolo che per due guerre mondiali aveva tradito l’alleato. In una scena memorabile verso la fine del libro, degli istriani riescono a scampare al gas semplicemente dichiarandosi «austriaci», per il fatto di esse stati fino al 1918 sudditi di Francesco Giuseppe.
Ma il fascino del Bel Paese riesce egualmente a sfondare il muro del sospetto, anche lì nel Lager, davanti all’occhio di Medusa.
Quando il giovane Boris trova un vecchio giornale italiano, basta «il fruscio della carta» a dar luogo a «un’ondata di calore, quasi un’ondata di luce». Il cima alle colonne degli articoli c’erano nomi di città che «sorsero all’improvviso davanti a me con tutte le loro volte medievali, con gli archi gotici, i portali romanici, gli affreschi di Giotto, i mosaici di Ravenna». E poi la foto dell’attrice Alida Valli, bellissima sotto la luce della lampada a carburo, che evoca la memoria di un amore perduto e si fa ritagliare per essere incollata accanto al pagliericcio gelido.
Quella foto italiana è forse l’unica deroga all’inflessibile comandamento degli internati: non pensare mai al mondo dei vivi, perché quella memoria uccide. «La regola era non stuzzicare mai la morte con immagini di vita, perché la morte è una femmina vendicativa». L’istriano Tomaz, un uomo vulcanico e allegro che non smette mai di evocare il suo mare, il suo vino e i profumi della sua terra, non rivedrà mai casa e sparirà di scena con una lunga cucitura verticale dal pube alla gola, simile a una treccia, sul tavolo autoptico della morgue.
Non si deve ricordare, perché tanto i due mondi sono e resteranno incompatibili, anche dopo l’Olocausto. Pahor non sembra trovare rimedio a quella che chiama «la grande apatia dell’uomo standardizzato». L’Europa è una vecchia stanca che nel dopoguerra, anziché «compiere la propria purificazione», si è lasciata applicare occhi di vetro «per non spaventare i bravi cittadini con le sue occhiaie vuote». L’uomo europeo, ogni tanto, prova vergogna per questa sua situazione da eunuco: ma - conclude Pahor - esso ha già abbondantemente «scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni».
A giudicare dalla stampa slovena e croata che arriva a Trieste, i discorsi pronunciati in Italia per la «Giornata del ricordo», da quello del Capo dello Stato agli altri in centinaia di località, hanno destato interesse ma anche preoccupazione negli ambienti politici e nella popolazione della Slovenia e della Croazia, soprattutto in Istria. In questa regione, teatro degli eventi ricordati per le foibe e l'esodo, proprio in questi primi giorni di febbraio le associazioni della Resistenza e le famiglie delle vittime delle stragi fasciste e naziste, hanno commemorato le vittime di alcune stragi compiute nel febbraio 1944 dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti repubblichini italiani al loro servizio - militanti nella X Mas, nella Milizia Territoriale, nei reparti armati del Partito Fascista Repubblicano e in altre formazioni.
La «Giornata del Ricordo» del 10 febbraio, coincide dunque con anniversari altrettanto tragici e tristi per le popolazioni italiane, slovene e croate dell'Istria che, dopo una breve parentesi «partigiana» (dal 9 settembre ai primissimi giorni di ottobre 1943) conobbero l'occupazione nazista, l'annessione all'«Adriatische Kunstenland» tedesco e - soprattutto nei mesi di ottobre, novembre e dicembre del 1943 - un'interminabile serie di massacri di civili, di incendi di villaggi e di deportazioni. Con l'aiuto dei fascisti italiani i tedeschi diedero la caccia agli «infoibatori», ai combattenti della Resistenza, ai cosiddetti «badogliani» e a tutti coloro che gli si opponevano, massacrando nel giro di pochi mesi oltre 5.000 civili italiani e slavi e deportandone 12.000 nella sola Istria. Un'altra ondata di stragi e di distruzioni si ebbe nel febbraio-marzo-aprile 1944, sempre con la complicità e il sostegno dei fascisti italiani. Quello che la stampa slovena e croata rimprovera agli uomini politici italiani è il fatto che «la memoria italiana è una memoria selezionata»: è giusto rievocare le tragedie delle foibe e dell'esodo, ma perché - si chiedono il Novi List di Fiume, il Vjesnik di Zagabria, la Slobodna Dalmacija di Spalato, il Delo di Lubiana ed altri - non si ricordano i venti anni di persecuzioni fasciste contro gli slavi in Istria e le stragi in Montenegro, Dalmazia e Slovenia sotto l'occupazione dell'esercito italiano dall'aprile 1941 all'8 settembre 1945? Perché non si ricordano le vendette compiute «dopo le foibe del settembre 1943», nel litorale adriatico?
Il pubblicista e storico zagabrese Darko Dukovski, intervistato dal Novi List ha duramente condannato i «crimini della rivoluzione» riconoscendo che «la storia delle foibe è strettamente collegata alla storia dell'esodo degli italiani dall'Istria e da Fiume», aggiungendo che «una delle conseguenze delle foibe fu l'esodo e, quindi, lo stravolgimento della fisionomia etnica dei territori ceduti dall'Italia alla Jugoslavia col trattato di pace. Il che non significa, però, che fascisti e non fascisti furono gettati nelle foibe per stravolgere la fisionomia etnica della regione». Anche perché, sloveni e croati che pure finirono nelle foibe furono dieci volte più numerosi degli italiani. «Si offende la verità - continua lo storico - quando da parte italiana, oggi, si parla di genocidio e di pulizia etnica. Si tratta del tentativo di falsificare la verità storica, di presentare il movimento resistenziale croato e sloveno come criminale». Dukovski cita - senza però relativa data - un documento fascista: il tenente della Mvsn Domenico Motta che in una relazione segreta alla questura di Pola affermò che gli insorti istriani, nella prima metà di settembre 1943 avevano «liquidato» per lo più segretari del Fascio, podestà ed altri gerarchi insieme a innocenti vittime di vendette personali. E Conclude il suo intervento (due paginoni del quotidiano) difendendo le posizioni del presidente croato Stjepan Mesic. Affermando che «la vendetta delle foibe posta in atto dagli insorti-partigiani istriani» nel settembre 1943 ma anche nell'immediato dopoguerra, «non giustifica i crimini: le foibe restano un crimine ingiustificabile»; infine afferma che, «le ricerche devono continuare e bisognerà continuare a trattare questa tematica ma con obiettività, restituendola agli storici; purtroppo - sono certo che la verità e l'obiettività continueranno ad essere calpestate dai politici fino a quando le foibe e l'esodo serviranno a raccogliere consensi politici e voti. Il crimine non può essere dimenticato, deve essere ammonimento alle future generazioni, ma bisogna ricordare i crimini compiuti da ambo le parti».
Più o meno questa è la posizione degli osservatori croati e sloveni: sarebbe ora che i responsabili politici in Croazia e Slovenia riconoscessero apertamente, pubblicamente, le stragi compiute in Istria nel settembre 1943, a Zara e Fiume, a Trieste e Gorizia e dintorni nell'immediato dopoguerra da parte delle truppe jugoslave; non si deve però parlare di odio anti-italiano, perché migliaia di soldati italiani furono aiutati dai partigiani e civili croati e sloveni a salvarsi dai tedeschi. Gli eccidi che portarono alla morte o alla scomparsa si circa diecimila fascisti e non fascisti furono crimini e basta, non prodotto di odio anti-italiano. Al tempo stesso sloveni e croati chiedono che anche da parte italiana, e al più alto livello, ufficialmente, vengano riconosciute e condannate le stragi compiute dai fascisti e dall'esercito italiano in Montenegro, Dalmazia, Croazia e Slovenia dall'aprile 1941 all'inizio di settembre 1943, e le stragi dei repubblichini al servizio dei nazisti dall'ottobre 1943 a fine aprile 1945 sul «Litorale Adriatico». Solo così si potrà costruire una memoria condivisa.
Una cronaca in presa diretta di avvenimenti storici avvolti in un dramma. Lo sfondo è insolito. Il tempo è quel decennio che va dall’ottobre del 1935 - data d’inizio dell’ultima conquista africana dell’Italia, che si concluse l’anno dopo, in maggio, con la proclamazione dell’Impero - alla metà del decennio successivo. Il punto di vista della narrazione è quello dei vinti. Il libro s’intitola Memorie di una principessa etiope (Neri Pozza, pagg. 256, euro 16,50, con prefazione di Angelo Del Boca) e lo firma Martha Nasibù, figlia di un aristocratico etiopico, Nasibù Zamanuel, braccio destro e fedele consigliere dell’imperatore Hailè Sellassiè, ex «degiac», cioè sindaco, di Addis Abeba e, durante la guerra, comandante dell’«armata Sud» del suo paese. Una lettura interessante, come testimonia il fatto che, in breve tempo, quest’autobiografia (che viene oggi presentata a Roma, alle 17,30, nella sala della Protomoteca in Campidoglio) è già arrivata alla seconda edizione.
Nel lungo esordio del suo libro l’autrice, classe 1931, riferisce episodi che non poté vivere in maniera cosciente, perché troppo piccola, e infatti informa il lettore di essersi documentata con l’aiuto di sua madre. Il paesaggio, l’ambiente, i personaggi si sciolgono in una sorta di mimesi dell’infanzia. Ne risulta un quadro estatico, popolato dall’aristocrazia etiopica degli anni Trenta: i palazzi nei quali essa viveva, il sentore di privilegio che ne accompagnava atti, modi, linguaggio, frequentazioni. Di queste realtà, noi italiani non avevamo affatto sentore. Quelli che all’epoca già leggevano qualche giornale, vedevano il Negus effigiato come un vecchietto che avanzava a piedi nudi nel deserto portando per la cavezza un cammello, con un piccolo seguito di diseredati armati tutt’al più di lance. Figure da presepio. Erano queste le immagini che la propaganda fascista riservava al nemico, proprio per rafforzare l’ipotesi che l’Italia fosse accorsa in quelle contrade per liberarle dalla barbarie.
Qui, invece, le figure «di vertice» del mondo etiopico riacquistano l’originaria dignità storica. Le circonda un popolo animato da quella millenaria religiosità copto-ortodossa, che ne fa un’enclave cristiana nel cuore dell’Africa. Gente orgogliosa delle proprie attitudini guerriere, devota all’Imperatore.
Culturalmente progressista all’interno di un mondo feudale, ras Nasibù è insieme il dio e l’eroe di un simile Olimpo. Lo affianca la sua seconda moglie (madre di Martha e dei suoi quattro fratelli): giovane, bella, poliglotta, è la figlia di un aristocratico russo, diventato etiopico per elezione. La sontuosità ariosa del ghebì, cioè della dimora principesca dove Martha è nata e vive, gli ottanta servitori, le istitutrici che addestrano i bambini, i giardini nei quali essi scorrazzano: voci, profumi, cerimonie, giochi, aneddoti, figure statuarie che s’intravedono fra i visitatori del capo-famiglia: ecco gli scorci di questo contesto «prodigioso» (così lo definisce Del Boca). Nel tessuto di quel mondo a noi noto, all’epoca, attraverso un’ottica in buona sostanza denigratoria, s’intrecciano dei fili che fanno capo anche all’Italia e ai suoi remoti deliri imperiali.
A un certo punto, ecco che la fiaba interpretata dalla piccola Martha si tramuta in elegia. È scoppiata la guerra, uno dei più tremendi conflitti coloniali del secolo. Il generale Nasibù è un pilastro nella difesa dell’Impero. Difesa resa vana dalla disparità delle forze in campo oltre che dall’impiego di strumenti di guerra, come i gas, che le convenzioni internazionali proibiscono. L’Etiopia è sola. L’Europa le volta le spalle. Le sanzioni contro l’Italia, decretate dalla Società delle Nazioni, sono una farsa. I familiari del ras, moglie e cinque figli, si rifugiano in una piantagione di proprietà del nonno russo-etiope, e lì arrivano dal capofamiglia notizie frammentarie. Echi d’un eroismo vano. Da ultimo, giungono le voci che parlano di un’Addis Abeba nella quale i «ferenj» - cioè gli stranieri bianchi - marciano al seguito del loro condottiero Pietro Badoglio «con enormi scarponi chiodati ai piedi, facendo un grande rumore, cantando a squarciagola inni di vittoria e urlando: Duce! Duce!».
I ghebì del Negus e quello del suo braccio destro vengono assaliti e saccheggiati. Le strade si colmano di cadaveri. Il papà dell’autrice, costretto alla ritirata, ripara in Europa insieme all’Imperatore, di cui fiancheggia gli ultimi tentativi per alleviare i tormenti inflitti al suo popolo; poi muore a Davos, in Svizzera, a quarantadue anni, per i postumi dell’aggressione chimica dei gas. Un figlio che egli ha avuto dal primo matrimonio, Keflè Nasibù, cadetto della scuola militare di Olettà, è stato fucilato per ordine del generale Rodolfo Graziani.
Si apre per Martha e per i suoi un lungo periodo di esilio. Trasferimenti insensati, in Italia e fuori, che obbediscono a volte a logiche interne al regime fascista, per il quale la famiglia del capo etiopico rappresenta un nemico, benché sconfitto, da tenere a bada e dal quale (assurdamente) si può temere qualche iniziativa di rivincita. Prima un soggiorno a Napoli, dove Martha, fra i suoi compagni di giochi nella villa Comunale accanto al mare, conosce Francesco Tortora Brayda, che sarà assai più tardi suo marito. Poi trasferte a Rodi, per due volte a Tripoli dove la famiglia scampa alla morte in una delle periodiche «punizioni dei vinti», predisposte da Graziani. E ancora Napoli, Firenze, le Dolomiti. Non si contano le peripezie affrontate dai familiari di quel Ras che era stato potente.
Con l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, nel giugno del ‘40, il destino di questi aristocratici africani è di nuovo stravolto. Si vedono coinvolti in eventi bellici che non dovrebbero riguardarli. Ma nel maggio del ‘41, il Negus Hailé Selassié ritorna sul trono, recuperando il titolo d’Imperatore che gli era stato sottratto e che il fascismo aveva regalato a re Vittorio Emanuele III. Ecco che allora lo «stato civile» dei Nasibù diventa surreale. In quanto cittadini d’un paese tornato sovrano, non possono più considerarsi prigionieri della potenza ex-occupante. Restano esuli, ma perché? Lucrano un magro sussidio, che l’intervento di qualche amico italiano vale un po’ a rimpolpare. Così vanno avanti.
Ben presto è di scena la disfatta dell’Italia. Percosse dai bombardamenti anglo-americani, le città si sfollano. Piccoli villaggi si gremiscono di profughi: gli «sfollati», appunto. La penisola è percorsa da eserciti stranieri che vi si combattono fra mille atrocità. Una potenza che s’era dipinta come imperiale assume i colori patetici della sconfitta. Il razzismo - che pure, a tratti, durante l’esilio, ha angustiato l’autrice e i suoi familiari, ma che sempre è stato attraversato da oasi di tolleranza - si attenua. La razza dominante, se pure c’è, non è ormai più quella italiana.
La famiglia Nasibù torna in Addis Abeba. Ma la diaspora è cosa compiuta per sempre. Martha sposa prima un funzionario del ministero degli esteri etiopico, Immirù Zelleke, parente dell’Imperatore, e si stabilisce successivamente in vari paesi d’Europa. Poi, nel ‘64, si unisce in matrimonio (come abbiamo visto) con il marchese Francesco Tortora Brayda di Belvedere, «quel bambino», sono sue parole, «con cui avevo giocato nel parco della villa comunale di Napoli» e con il quale «ci eravamo incontrati per caso durante una mia permanenza a Zurigo».
Questa, però, è un’altra storia, che si prolunga nell’oggi. Lontana dagli splendori, dai bagliori e dalle ingiustizie d’un secolo terribile.
Il 22 maggio 2006 il quotidiano la Repubblica pubblicava, su due intere pagine e con un richiamo in prima, un articolo di Paolo Rumiz su uno dei peggiori crimini consumati in Etiopia dalle truppe fasciste. L’articolo raccontava, in sintesi, ciò che lo storico Matteo Dominioni aveva scoperto nei dintorni di Ankober, seguendo l’itinerario indicato da una mappa dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito.
Si tratta di un’immensa caverna nella quale alcune migliaia di etiopici, partigiani combattenti ma anche donne e bambini, si rifugiarono il 9 aprile 1939, durante uno dei frequenti rastrellamenti ordinati da Amedeo di Savoia e dal comandante delle truppe, generale Ugo Cavallero.
Per snidare gli arbegnuoe (i partigiani) dalla caverna, il plotone chimico della divisione “Granatieri di Savoia” utilizzò i lanciafiamme e, quando queste armi si rivelarono inefficaci, impiegò l’artiglieria, con bombe caricate a iprite e arsine. Tuttavia, occorsero tre giorni di intensi bombardamenti per eliminare “il focolaio di rivolta”. Secondo i documenti militari italiani, i morti “accertati” furono 800, ma gli etiopici, che Dominioni ha interrogato nella regione, parlano invece di migliaia di uccisi. Cifra convalidata anche da ciò che di macabro e di terrificante Dominioni ha rinvenuto nella sua ispezione della caverna.
L’episodio, certamente tra i più gravi accaduti in Etiopia (ma neppure il più angoscioso, se confrontato con le stragi di Addis Abeba del 19-21 febbraio 1937 e con la totale distruzione della popolazione della città conventuale di Debrà Libanòs), è il risultato di una di quelle “operazioni di grande polizia coloniale” che hanno caratterizzato il periodo della presenza italiana in Etiopia. Dopo aver sconfitto in 7 mesi, con una serie di battaglie campali, gli eserciti dell’imperatore Hailè Selassiè, Mussolini era persuaso di aver concluso le operazioni belliche. Invece, non era che all’inizio. Per cinque anni avrebbe dovuto contrastare una generale e insidiosa guerriglia, ricorrendo a una controguerriglia fra le più feroci e cruente. In effetti, gli italiani non riuscirono mai a conquistare tutto l’impero del Negus.
L’Etiopia è il paese che maggiormente ha pagato, in termini di vite umane, le aggressioni dell’imperialismo italiano. Ma la repressione è stata durissima anche in altre colonie africane, come la Libia e la Somalia. Nel Memorandum presentato dal governo imperiale etiopico al consiglio dei ministri degli esteri, riunitosi a Londra nel settembre del 1945, si parlava di 760mila morti, facendo riferimento solo alle perdite subite tra il 1935 e il 1943 e non a quelle della prima guerra italo-abissina del 1895-96. Alcuni storici libici e lo stesso governo di Gheddafi indicano, dal canto loro, in mezzo milione gli uccisi tra il 1911 e il 1943. Si tratta di due cifre non scientificamente documentate.
Tuttavia, i morti etiopici accertati non sono meno di 350mila e quelli libici superano certamente i 100mila. Nelle repressioni ordinate in Somalia dal quadrumviro fascista Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, tra il 1926 e il 1928, sono stati uccisi almeno 20mila somali. Gli eritrei non hanno subito dure repressioni (se si eccettua quella del 1894 contro il degiac Batha Hagos), ma hanno perso almeno 30mila ascari nelle campagne di conquista libiche, somale ed etiopiche. Tirando le somme, i governi di Crispi, Giolitti e Mussolini sono responsabili della morte di 500mila africani.
L’articolo di Paolo Rumiz sulla “foiba abissina” ha suscitato commenti e proposte di notevole rilievo. Il giurista Antonio Cassese, ad esempio, suggeriva di seguire l’esempio della Germania, che ha reagito al nazismo scavando a fondo nel proprio passato recente, facendolo conoscere alle giovani generazioni, erigendo monumenti e musei alla memoria. Egli proponeva, inoltre, di creare una commissione di storici che esaminasse ciò che è avvenuto in Etiopia (e nelle altre colonie italiane, aggiungiamo noi) e preparasse «una documentazione e un’analisi rigorose».
In seguito alla proposta di Antonio Cassese (apparsa sulla Repubblica del 23 maggio), noi chiedevamo ospitalità allo stesso giornale per avanzare un ulteriore suggerimento: quello di istituire una Giornata della memoria per i 500mila africani che l’Italia crispina, giolittiana e fascista hanno sacrificato nelle loro sciagurate campagne di conquista. Nello stesso giorno (27 maggio) in cui Nello Ajello esponeva la nostra proposta sul giornale romano, scrivevamo una lettera al ministro degli affari esteri, Massimo D’Alema, per metterlo al corrente della nostra iniziativa.
La scelta di D’Alema non era casuale o solo dettata dalla stima che nutriamo per lui. In realtà egli è stato il primo – e unico – capo del governo italiano che, dinanzi al monumento ai martiri di Seiara Sciat, nel corso del suo viaggio a Tripoli del 1° dicembre 1999, ammise in modo esplicito la colpa coloniale. Contiamo sulla sua sensibilità e capacità di leggere la storia, anche quella che si vorrebbe rimuovere a tutti i costi.
Nella lettera a D’Alema, facevamo osservare che gli attuali rapporti con le nostre ex colonie non sono sereni, a cominciare da quelli con Tripoli, turbati dal mancato risarcimento dei danni di guerra. Una ricerca a tutto campo, eseguita con metodi scientifici, sui crimini commessi in Africa, non potrebbe che allontanare dal nostro paese il sospetto che si voglia rimuovere il passato e negarne gli aspetti più deteriori, come sta facendo da tempo il Giappone. Ciò potrebbe anche agevolare la soluzione del problema del contenzioso, che si trascina da anni.
Quanto alla Giornata della memoria per i 500mila africani uccisi, ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simbolico. Noi siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effimeri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e 1’Aids, ma anche cercano disperatamente anche una propria identità. Se questa Giornata venisse fatta propria dal nostro governo, – scrivevamo nella lettera a Massimo D’Alema – si raggiungerebbe anche l’obiettivo di riconoscere ufficialmente le colpe e gli orrori del nostro passato coloniale nella maniera più esplicita, nobile e definitiva.
Del Boca: "Le stragi fasciste in Etiopia rimosse per volontà politica"
di Anais Ginori
Una strage dimenticata che riaffiora insieme agli orrori commessi dall’esercito italiano in Etiopia. La foiba abissina scoperta da uno studioso di Torino, Matteo Dominioni, e raccontata ieri da , rilancia la polemica sui massacri commessi durante l’avventura colonialista di Mussolini. Tra il 9 e l’11 aprile 1939 a Debra Brehan, 100 chilometri a nord di Addis Abeba, furono fucilati e avvelenati con i gas centinaia di guerriglieri che si erano rifugiati in una grotta insieme alle loro famiglie. Donne, vecchi, bambini. Mille morti, almeno. «Ed è soltanto uno dei tantissimi massacri che devono essere pienamente indagati» racconta Angelo Del Boca, il maggior storico del colonialismo italiano che nel suo ultimo libro, Italiani, brava gente?, ha invitato l’Italia repubblicana ad ammettere i crimini di quegli anni.
Nel massacro di Debra Brehan furono usati contro la popolazione gas e persino lanciafiamme. Come spiegare una tale ferocia?
«Alla fine del 1938 la resistenza abissina era ancora fortissima e Mussolini era molto scontento di come stavano andando le cose nell’Africa Orientale. Il Duce voleva una repressione ancora più violenta. I gas iprite e fosgene furono usati in maniera continuativa durante la guerra».
Perché settant’anni dopo la nostra memoria rimuove ancora episodi come questo?
«La mia prima ricerca del 1966 sui massacri in Etiopia fu accolta in maniera disastrosa da gran parte del mondo politico. Non solo dai fascisti e neo-fascisti ma anche dagli ambienti conservatori per cui certe cose non si possono dire perché siamo, appunto, brava gente».
Adesso siamo pronti a riscrivere la storia?
«E’ un lento cammino. Fino agli Ottanta nei libri di scuola si parlava ancora di "battaglia di civilizzazione". Adesso la storiografia è più moderata ma certo non si fanno studiare ai ragazzi stermini come questo».
E invece ci sarebbero tanti altri eccidi da raccontare.
«Deportazioni di massa, bombardamenti con bombe di iprite, campi di concentramento, rappresaglie indiscriminate, stragi di civili, confisca di beni e terreni. Uno degli episodi più gravi fu il massacro nella città santa di Debre Libanos dove nel maggio 1937 furono uccise quasi duemila persone, in gran parte preti, sacerdoti e pellegrini».
Pensa che il governo etiope dovrebbe chiedere un risarcimento?
«Credo sia impossibile. Alla fine degli anni Cinquanta, quando sono state ristabilite le relazioni tra l’Italia e l’Etiopia, il nostro governo costruì una diga e versò dei soldi come risarcimento. Non era certo una somma che pagava i 300mila morti della guerra ma fu comunque un atto simbolico».
Continuerà a indagare su questi crimini della colonizzazione?
«Per anni l’archivio del ministero degli Esteri è stato inaccessibile. Soltanto quando al centro di documentazione è arrivato Enrico Serra, un partigiano come me, sono riuscito a fare le mie ricerche. Lo Stato rende difficile il lavoro d’indagine sul colonialismo, ci sono ancora migliaia di faldoni intonsi proibiti agli studiosi. E chissà quante cose potremmo scoprire se solo ci fosse la volontà di fare luce sul nostro passato».
Il coraggio di indagare sui fantasmi del passato
di Antonio Cassese
Sul massacro di etiopi compiuto nel 1939 a Debre Birhan dalle truppe italiane il diritto ha poco da dire. La Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra e il Protocollo del 1925 sulle armi chimiche non si applicavano che alle guerre internazionali, mentre il massacro avvenne nel quadro di una guerra civile: la Potenza colonialista cercava di spegnere nel sangue un’insurrezione, in un territorio che, seppur conquistato a seguito di un’aggressione contraria al Patto della Società delle Nazioni, rimaneva tuttavia sottoposto all’autorità italiana, come territorio coloniale. E’ dubbio poi che le truppe italiane avessero violato le norme italiane, assai permissive in materia di lotta all’insurrezione. Le norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei civili in tempo di conflitto armato interno non esistevano ancora. L’unica conclusione amara per il giurista è che la sovranità degli Stati rimaneva ancora sconfinata e nessun limite era posto dalle regole internazionali all’arroganza e all’arbitrio delle grandi e medie Potenze. Consoliamoci pensando che da allora si sono fatti straordinari progressi, almeno sul piano della stigmatizzazione normativa e della criminalizzazione. Oggi quelle atrocità sono almeno vietate, e possono essere punite.
Che fare dunque, dopo la scoperta di questo specifico massacro? (altri sono noti e li ha documentati, tra gli altri, lo storico Del Boca). A mio giudizio una risposta dignitosa si potrebbe articolare lungo varie direttrici. Anzitutto, il Presidente del Consiglio dei ministri dovrebbe nominare una commissione di pochi storici, ma indipendenti e di grande valore (quale che sia la loro affiliazione politica o ideologica), perché esaminino con acribìa ciò che è avvenuto in Etiopia in quel periodo, e preparino una documentazione ed un’analisi rigorose. In secondo luogo, le nostre autorità dovrebbero diffondere nelle scuole una maggiore conoscenza del colonialismo italiano. Ad esempio, Del Boca si è chiesto più volte perché non venga proiettata l’inchiesta televisiva della Bbc "Fascist Legacy", acquistata e mai trasmessa. Il Governo italiano potrebbe poi costruire un museo della memoria, per documentare le azioni del nostro colonialismo ed il modo in cui sono stati sterminati circa 300.000 etiopi tra il 1935 ed il 1939.
Dovremmo inoltre destinare una somma considerevole per "risarcire" moralmente l’Etiopia. Non si tratta di pagare danni di guerra (tra l’altro, abbiamo già versato all’Etiopia sei milioni di sterline, contro i 184 milioni richiesti) o indennizzi alle vittime. Si tratta di un’opera spontanea ed unilaterale di espiazione morale, che potrebbe consistere nel costruire ospedali, scuole e strade in Etiopia, consentire a giovani di quel paese di ottenere gratuitamente un addestramento professionale in Italia, e prestare in Italia cure mediche sofisticate a malati gravi.
Infine, dovremmo ispirarci al modo esemplare con cui la Germania ha reagito al nazismo: a differenza ad esempio del Giappone, quel paese ha saputo scavare a fondo nel proprio passato recente, documentandolo, facendolo conoscere ai giovani, erigendo musei e monumenti alla memoria. Soprattutto, la Germania ha capito che uno dei modi più efficaci di riscattarsi dalle proprie colpe consiste nell’adoperarsi fattivamente perché né le autorità tedesche né altri Stati commettano in futuro quei crimini. E così la Germania ha adottato importanti iniziative internazionali per promuovere e diffondere la giustizia penale e prevenire e punire crimini contro l’umanità. Facciamo altrettanto, avanzando idee e proposte in sedi internazionali quali l’Onu, il Consiglio di Europa e l’Unione Europea. Daremo così un piccolo contributo allo sforzo immane, che la comunità internazionale sta da qualche anno intraprendendo, di evitare il ripetersi di crimini intollerabili.
La scena è otto volte orrenda. Una volta perché l’uomo pestato a sangue è ubriaco, non sta in piedi, basta uno spintoncino e va giù come un birillo, allora perché pestarlo in tanti? Una seconda volta perché è un extracomunitario, lo si sapeva fin da subito, han chiamato i carabinieri dicendogli: «Venite, c’è un marocchino ubriaco, sfascia tutto». La terza volta perché a pestare con pugni e calci sono carabinieri, due in divisa, uno in borghese: e i carabinieri sono la Legge, lo Stato, quindi qui è la Legge, lo Stato che picchia un uomo indifeso, incapace di reggersi in piedi.
La quarta aggravante perché l’uomo picchiato è nudo: s’è spogliato lui, è in mutandoni bianchi, e dunque pestandolo pesti la carne spoglia, vai direttamente sulle costole, ne senti lo schiocco. Il filmato trasmesso in tv è diviso in due tempi. Nel primo tempo il marocchino è attorcigliato a terra, viene colpito con pugni e calci, tirar calci a un uomo caduto a terra fa parte di un istinto primordiale, l’uomo civile lo riscopre in guerra (o nel lager).
Ogni uomo è tuo nemico. Se il nemico cade, colpiscilo prima che si rialzi, colpiscilo perché non si rialzi. E questa - la riscoperta degli istinti arcaici - è la quinta aggravante. Perché questa riscoperta la fa la Legge, lo Stato. Nel secondo tempo il marocchino è in piedi, forse l’han tirato su, qualcuno lo tiene fermo e intanto uno lo colpisce, ci volta le spalle, vediamo il braccio destro che rotea in aria per prender forza, poi viene scaricato dall'alto in basso, e il pugile che lo scarica fa un saltino, per dare al pugno più violenza.
E questa è la sesta aggravante, la gragnola di colpi su un uomo in ko. La scena dei pugni con saltino dura tanto a lungo che il nostro cervello fa in tempo a formulare un pensiero: «Questo è odio, odio personale». E questa è la settima aggravante. L’ottava, l’ultima che vediamo, è la più lugubre: l’uomo è di nuovo a terra, stramazzato, e uno dei carabinieri balza sopra il suo corpo, a piedi giunti. Non si vede bene, tutto il filmato è confuso, girato in fretta, di nascosto. Se qualcosa fosse meno grave di quanto ci è parso, saremmo i primi a esserne contenti. Lo dico in piena coscienza. Nostro massimo desiderio sarebbe che il filmato fosse tutto inventato. Ma purtroppo anche il Comando dei Carabinieri sa che è buono, e ha provveduto a punire immediatamente col trasferimento i militi protagonisti.
Ed ecco la coda velenosa dell'argomento: gli italiani residenti nel quartiere (siamo a Sassuolo, in provincia di Modena, la capitale delle piastrelle) han sottoscritto una petizione per chiedere che i carabinieri non vengano puniti, facevano quel che facevano per fermare la criminosità della zona, l’invivibilità, che rovina l'esistenza di tutti. Il marocchino pestato è un clandestino. Ma la zona è piena di extracomunitari regolari, i quali pure si sentono danneggiati dalla criminosità che detta legge.
La tentazione da respingere è quella di stare con una parte, contro l’altra. Se quello è un irregolare malavitoso (ripeto: se), non va massacrato, va espulso, che per lui è anche peggio. Se i carabinieri son pronti a metterci tanto impegno per bonificare le aree di loro competenza dalla criminosità, devono avere mezzi e leggi, non andare nel corpo a corpo, a farsi una giustizia tribale. Non vanno usati come barriera umana, a scaraventare il loro corpo contro il corpo dell’illegalità. Qui il gesto più saggio, più utile, più moderno, l’ha compiuto il marocchino che ha filmato la scena col suo cellulare, e ha mandato il filmatino alla stampa. Son passati dieci giorni, ed ecco, sappiamo tutto. Se non sapessimo niente, poteva anche succedere che tutto venisse coperto. Invece sappiamo, e scoppia lo scandalo, e la giustizia non può più fermarsi. Perché la giustizia non è la Giustizia. Siamo noi. Sono gli articoli, compreso questo.
Nota: sulla diffidenza generale che circonda a Sassuolo gli immigrati, per Eddyburg avevamo mesi fa proposto un articolo di Elisabeth Rosenthal (f.b.)
Chi potrà ancora sostenere che se si ritirano le truppe straniere dall'Iraq scoppierà la guerra civile? Quello che è successo ieri a Samarra - un'esplosione ha distrutto la cupola d'oro della moschea al Aksari, luogo santo sciita, cui sono seguite proteste e rappresaglie contro imam e moschee sunnite - toglie ogni velo di ipocrisia ai fautori dell'occupazione. Non è la prima volta che vengono attaccati i luoghi santi sciiti e probabilmente non sarà l'ultima. Bisogna fermare il massacro non alimentarlo, come hanno fatto finora gli occupanti acuendo la divisione fra le varie componenti etnico-confessionali irachene. Il ritiro dall'Iraq toglierebbe ogni alibi a coloro che non sono interessati alla sua liberazione dall'occupazione ma alla destabilizzazione del paese sfruttando le diverse appartenenze religiose (sunniti e sciiti) per perseguire il proprio disegno terroristico. Non si può assistere al dissanguamento di un popolo sfuggendo alle proprie responsabilità. Che non sono solo americane, ma anche italiane. La testimonianza resa a Rainews 24 da Ali Shalal al Kaisi, «l'incappucciato» di Abu Ghraib, ci rivela qualcosa che purtroppo non ci può sorprendere: tra i torturatori del tristemente famoso carcere c'erano anche italiani. Non i soldati in «missione di pace» a Nassiriya, ma i mercenari. Perché ci sono anche italiani tra i mercenari presenti in Iraq, insieme a sudafricani, cileni, bosniaci, colombiani, francesi, etc. etc. Io stessa a Baghdad avevo cercato di intervistarne uno ma non sono riuscita perché, da vero mercenario, voleva essere pagato. Sono quei contractors che costituiscono il secondo esercito di occupazione in Iraq, il cui numero è di decine di migliaia. Sono i fautori della privatizzazione della guerra sostenuta dalle americane Balckwater, Caci, Titan corp e altre società che così rimpinguano i loro bilanci.
E' la parte più sporca della guerra: sono infatti i contractors a fare quello che nemmeno i soldati regolari possono permettersi di fare. E sono superpagati. Tanto da far nascere tensioni con soldati americani che si erano ribellati a questo doppio trattamento. Non si può certo impedire a chi vuole fare della guerra una propria fonte di reddito di farlo, ma almeno potremmo evitare di celebrarli come eroi. Possiamo invece evitare che i nostri soldati continuino a essere complici di un'occupazione che non può avere nessuna giustificazione. L'Iraq è in guerra, per questo gli americani hanno sparato un anno fa alla macchina su cui viaggiavamo verso l'aeroporto uccidendo Nicola Calipari. E anche i nostri soldati sono in guerra e non in «missione di pace». Ancora una volta è stata Rainews 24 a svelarci una realtà che solo l'ipocrisia poteva farci ignorare: la guerra è la guerra e chi si trova su un teatro di guerra imbracciando le armi non svolge attività umanitaria. E spara anche sulle autoambulanze, lo ha confessato il caporalmaggiore Raffaele Allocca confermano le affermazioni del giornalista americano Micah Garen. Di fronte a tanta barbarie come è possibile che la campagna elettorale non faccia della posizione sulla guerra e l'Iraq un punto qualificante?