I fantasmi respinti
Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah èil più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro ediciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musicaafro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fannoprostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommatelungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlavacosì forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamanoalla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci deimuezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’iniziodel massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduticome schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche dicerti fanatici islamisti di oggi.
Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova adormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro nonc’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman,24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumacheaggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani lecomprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Maservono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiestoasilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositoreperseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere idocumenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so.E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento dicollaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano dellalotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere miasorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. Laterra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi èquest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No.«Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie.«Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anchemangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tuvieni in moschea?».
Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti arifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri seraquasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti dalavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualchecompagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente adormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietrol’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spallail muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio comebersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti.
Le spie dei gangster nigeriani
L'assalto dei cani randagi
Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondocui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Allaprefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questoGhetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato dicani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori.Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono inbicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le lorosagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiamaun’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono unadecina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentementetornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro.
Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una seraparliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzalevicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra.È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme allaPista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare iprezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani paganobene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiegaNasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In seianni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito unabella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiestoasilo in Italia».
Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati comematerassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando dueuova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e unrotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, unpiatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nelcortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo diCumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’ariaintorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. Èstata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchiodi cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne egli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro diaccoglienza.
Lo sconto sulla dignità
I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiatodei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce nesono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane,accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllanogli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestiniper i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hannostrappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catenaalimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire alloscoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, prepararei richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, irisultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un repartooncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadinio moriremo da clandestini?
Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noiitaliani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti perpensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale arendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova giànella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribassopercentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra dipartenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo”di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassatola diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. Lalogica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefetturadi Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coopsapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunqueil ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti diqualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senzagara. Così perfino lo sconto è rimborsato.
La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per contodi “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo.Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazioneannuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono allamissione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categoriepiù bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce èaccesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti peri campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonnacentrale, che martella la vista: «Benvenuti».Senzatregua.it, 3 luglio 2016
L’attentato terroristico in Bangladesh, con la morte di nove italiani merita una condanna senza appello. Quella del terrorismo islamico finanziato e sostenuto per anni dai settori imperialisti per la destabilizzazione di interi paesi, che uccide persone innocenti, che vuole far piombare l’umanità in un medioevo senza precedenti. Un terrorismo che colpisce alla rinfusa, che non ha nulla a che fare con rivendicazioni progressiste e neanche lontanamente sostenibili o giustificabili, che è riflesso dell’imperialismo e non certo lotta per l’emancipazione, la liberazione dei popoli.
Ma che ci facevano tanti italiani imprenditori, o lavoratori del settore tessile in Bangladesh? L’orribile attentato di pochi giorni fa - orribile al pari di tutti gli altri attentati dell’Isis di questi mesi, in qualsiasi parte del mondo, e quale sia la nazionalità delle vittime - ha colpito diversi cittadini italiani, imprenditori o lavoratori del settore tessile. Non un caso isolato, ma una frequentazione sempre maggiore quella del sud est asiatico per le imprese tessili della penisola, che getta ormai un’ombra sul made in Italy, divenuto a tutti gli effetti marchio di sfruttamento planetario.
Nell’imbarazzo dei media e della stampa, che si sono tenuti ben lontani dall’approfondire questa questione, viene fuori ancora una volta quel legame tra le peggiori condizioni di lavoro, bassi salari, lavoro minorile, orari massacranti e un settore che è insieme all’agroalimentare il fiore all’occhiello della produzione nazionale, che vanta una forte tradizione imprenditoriale, di qualità e riconoscimento mondiale. Non è un mistero che da tempo la delocalizzazione al di fuori dei confini nazionali abbia comportato una crisi del settore e delle piccole aziende italiane delle filiere dei grandi marchi, che oggi preferiscono appaltare i propri lavori a veri e propri centri di sfruttamento, in cambio di maggiore profitto. Il Bangladesh è uno dei centri privilegiati di questo meccanismo.
«Nel periodo gennaio-febbraio 2016 - ha scritto un dispaccio dell’AdnKronos - ammontava a 274 mln il valore delle importazioni dal Bangladesh all’Italia. Oltre 271 mln di questi, quasi il 99%, è rappresentato da prodotti tessili, articoli di abbigliamento e articoli di pelle. Per altro, secondo gli ultimi dati disponibili dell’agenzia Ice, in crescita del 13% rispetto allo stesso bimestre del 2015. Non è un caso, infatti, che più della metà degli italiani morti nell’assalto terroristico di ieri sera a Dacca, in Bangladesh, lavorasse nel tessile. La Lombardia è una delle regioni dove pesa di più, in termini di ricchezza prodotta, l’interscambio commerciale con il Bangladesh, rappresentando circa il 15% del totale nazionale. Secondo gli ultimi dati disponibili della Camera di commercio di Milano, nella prima parte del 2015 gli scambi valevano 132 milioni di euro, di cui 80 di import e 52 di export, un valore in crescita del 94% rispetto a 5 anni fa, 64 milioni di euro in più. Le importazioni, che riguardano per il 97,3% prodotti tessili, hanno vissuto un boom lo scorso anno e sono salite del 30% con punte del +496% a Cremona e del +264% a Pavia.»
Qualcuno ricorderà la tragedia a Dacca nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Allora un’importante catena di abbigliamento italiana risultò coinvolta, in quanto appaltatrice di decine di migliaia di capi, inchiodata dalle foto del crollo e dalle etichette ben evidenti, nonostante un tentativo iniziale di negare ogni coinvolgimento.
Non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi. Alcune stime economiche hanno verificato che sui capi di abbigliamento prodotti tramite subappalti nel sud est asiatico le grandi marche riescano a ricavare un profitto di oltre venti volte il costo pagato alla fabbrica che esegue il lavoro. Una polo ad esempio, venduta in Italia a 80 euro ne costa appena 4, 5. Di questi una parte misera finisce ai lavoratori, pagati meno di 2 euro al giorno, nonostante le grandi rivendicazioni delle organizzazioni sindacali e operaie di quei paesi, sempre più coscienti della condizione di sfruttamento.
Per capire cosa sta accadendo in Italia basta farsi un giro nei distretti tessili di un tempo oggi ridotti a un cumulo di macerie o rilevati da aziende che usano manodopera straniera costituendo una sorta di zone economiche speciali (Prato), tollerate dallo stato, in cui le condizioni di lavoro del sud est asiatico sono di fatto importate in Italia.
La particolarità del tessile si evince da un dato che lo differenzia da altri settori industriali. Mentre le aziende italiane di meccanica, automobili, farmaceutica ecc, producono principalmente per il mercato locale , «in molti comparti del Made in Italy, invece – scrive l’Istat nel suo rapporto annuale nel 2014 – quote rilevanti della produzione realizzata all’estero sono riesportate in Italia, in particolare nei settori tessile e abbigliamento (58,2%)…» Tradotto si delocalizza all’estero una parte di semilavorati per poi apporre il marchio in Italia: il prodotto resta “made in Italy” ma la maggior parte del lavoro è svolta fuori dall’Italia, per consentire maggiori guadagni alle grandi imprese. Le piccole falliscono, o si convertono in una sorta di agenti intermedi che fanno anche loro questo tipo di lavoro, per conto di grandi gruppi, che così mascherano le loro responsabilità adducendo rapporti di terzi intermediari e la loro non diretta responsabilità.
Sappiamo cosa accade, sappiamo quanto gravi siano le responsabilità delle aziende italiane, dell’elitè della moda, e del made in Italy in tutto questo. Quando apriremo una riflessione collettiva? In Bangladesh oggi ci sono migliaia di operai sottopagati che lavorano in condizioni misere. Migliaia di Iqbal Masih, il bambino pakistano che denunciò la condizione di sfruttamento del lavoro minorile. E le imprese italiane lo sanno. E non sono lì a fare filantropia.
La Repubblica, 31 marzo 2016
Un altro no. L’apertura dell’arbitrato internazionale dell’Aja su chi debba celebrare il processo ai marò per l’uccisione di due pescatori indiani è l’ennesima delusione per Roma, che alla richiesta di concedere anche a Salvatore Girone di lasciare Delhi in attesa degli sviluppi dell’arbitrato si è vista allegare l’opposizione formale dell’India. Il dibattimento prosegue oggi e ci vorrà un mese perché il Tribunale dell’Aja decida se consentire o meno il rientro, ma la speranza italiana che la richiesta fosse avallata dal silenzio assenso dell’India si è subito dissolta.
Il rientro anticipato di Girone «fino alla decisione finale» dell’arbitrato sulla competenza giuridica, attesa non prima di tre anni, ricomporrebbe una vicenda che, al di là della questione giudiziaria, è ormai estremamente scomoda per entrambi i paesi. Visto che la decisione spetta all’Aja, la soluzione sarebbe a costo zero: nessuno smacco per l’India e via libera alla ricomposizione dei rapporti incrinati. Proprio ieri, tra l’altro, il dossier “marò” è finito di traverso sul tavolo del vertice Ue-India convocato a Bruxelles con un’agenda fitta di accordi politici ed economici. La conferenza stampa congiunta di fine giornata del premier Narendra Modi, dei presidenti di Consiglio e Commissione Ue Donald Tusk e Jean Claude Juncker e dell’Alto rappresentante Federica Mogherini è saltata per evitare domande (e risposte) scomode. Ma dietro le quinte il disgelo è in corso, al di là delle schermaglie all’Aja: «Entrambe le parti si impegnano a trovare una soluzione », è scritto nelle conclusioni.
La posizione italiana espressa ieri mattina in aula dall’ambasciatore Francesco Azzarello era chiara: l’arbitrato «potrebbe durare almeno 3 o 4 anni» durante i quali Girone rischia di rimanere «detenuto a Delhi, senza alcun capo d’accusa per un totale di sette o otto anni. Un essere umano non può essere usato come garanzia della condotta di uno Stato». E visto che «abbiamo già preso l’impegno di rispettare qualsiasi decisione di questo Tribunale», che senso avrebbe accanirsi in attesa che inizi il processo vero e proprio?
La replica è una doccia fredda: la richiesta italiana è «inammissibile» perché «c’è il rischio che Girone non ritorni in India nel caso venisse riconosciuta a Delhi la giurisdizione. Non è in prigione. Vive bene nella residenza dell’ambasciatore italiano a Delhi e la sua famiglia può rendergli visita ». Insomma, per l’India sono «condizioni ragionevoli» in proporzione alla gravità delle accuse. Tant’è, la partita è in corso: l’eventuale rientro di Girone disinnescherebbe anche la miccia del rientro del collega Latorre, che a fine mese - senza proroghe - dovrebbe tornare in India costringendo l’Italia a una scomodissima resa o a una pericolosa rottura. La soluzione? Sembra averla voluta indicare proprio Delhi: «Sarebbero necessarie assicurazioni» sul rientro di Girone. Quelle arrivate fino a oggi «sono insufficienti».
Comune.info, 2 settembre 2015
Nota introduttiva ad “Alba di Mondi Altri. I nuovi movimenti dal basso in América Latina”, l’ultimo libro di Raul Zibechi edito in Italia da Museodei by Hermatena, 200 pagine, 15 euro
È un destino inevitabile, naturale, quello di riprodurre nei mondi nuovi società di dominanti e dominati anche dopo aver combattuto e sconfitto sistemi fondati su quella relazione di dominio? No, non lo è. C’è un modo per evitare di assumere quel veleno coloniale? Sì, deve esserci ma non sappiamo come e dove cercarlo. Sappiamo però che tutto il pensiero critico che ha ispirato le grandi rivolte del passato è stato segnato dall’eurocentrismo. L’ultimo libro di Raúl Zibechi, “Alba di mondialtri”, suggerisce ai movimenti di cercare altrove, tenendo un riferimento importante nel cammino immaginato da Fanon e percorso dagli zapatisti del Chiapas. Nella nota che introduce l’edizione italiana del libro, presentato in questi giorni: la critica all’avanguardia e alla militanza politica “dalla parte del popolo”, l’urgenza di ripensare i concetti di geografia e territorio, le radici coloniali italiane e il traffico di armi e di braccia dei giorni nostri, la disumanizzazione delle vittime, il tramonto di un’egemonia culturale e il riconoscimento di mondi altri
Non avevamo mai creduto davvero alla presenza di idee politiche corrette tra los de abajo. Nella lotta per migliorarne la condizione, avevamo sempre cercato di imporre loro le nostre. Il rigore di un’affermazione tanto cruda quanto leale, non certo inedita nella (auto)critica di Raúl Zibechi alla storia della militanza politica “dalla parte del popolo”, si arricchisce di nuovi significati. Li porta alla luce l’esperienza recente che più lo ha segnato: la Escuelita zapatista de la libertad. In questo libro la racconta nei dettagli, in modo impareggiabile.
Da molti anni Zibechi esprime avversione per le pratiche che rinverdiscono la punta dell’iceberg di quel tratto peculiare – e sostanziale – della militanza. La voglia di imporre idee ritenute giuste per il bene di altri (o di tutti) è la proteina nobile di un avanguardismo muscolare che, mascherato o meno, dilagava nelle grandi organizzazioni sociali e nelle formazioni politiche di sinistra del Novecento. L’avversione di Zibechi si fa più intensa quando la critica investe l’avanguardia nel pensiero teorico astratto. Un pensiero più o meno raffinato ma sempre sterile, perché separato dalla vita di ogni giorno e dai principi etici su cui si è scelto di fondarla. Un pensiero che spesso esprime disprezzo per le persone comuni, rinuncia a misurarsi con le spinte contraddittorie della realtà, e mira a rapide e univoche risposte snobbando la precisione e la fantasia delle domande.
Come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”
Nella comunità 8 Marzo del Caracol di Morelia gli è parso d’improvviso evidente quel che ignorava: “Diciamo che non avevo compreso la parte elementare”, spiega stupito ed entusiasta. Quel che lo muove è la ricerca appassionata, quasi febbrile, di sempre: scovare e interpretare i mutamenti profondi della realtà. Questo libro nasce da quella ricerca e aiuta a configurarne un passaggio rilevante. Non è un’affermazione incidentale quella in cui Zibechi scrive: “Negli ultimi anni, lavoro per dare una risposta a una domanda che considero centrale: come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”, cioè dal luogo di coloro a cui viene negata la condizione umana?”. È un’opzione che comporta una rottura rilevante, forse perfino dolorosa, quella rinuncia a un punto di vista di classe generale, a una visione planetaria, ancor prima che universale.
Perché scegliere la prospettiva della “zona del non-essere”, ispirata ai testi di Frantz Fanon e alla rilettura che ne fa Ramon Grosfóguel? Perché sono i “dannati della terra” dei giorni nostri, quelli che vivono nel “mas abajo”, secondo il linguaggio zapatista, a essere genuinamente interessati a cambiare il mondo, risponde Raúl (il corsivo è mio e qui indica un’inquietudine sull’uso di quell’avverbio). È la primazia dell’etica, più che il gusto per la provocazione, a condurre Zibechi all’inevitabile conseguenza della rottura indicata: il pensiero critico che l’ha formato in Uruguay e nell’esilio in Spagna si è generato e sviluppato solo nel Nord, negli ambienti della “zona dell’essere”. Non può dunque essere trapiantato (più o meno meccanicamente) alla “zona del non essere”. Nel farlo, si perpetuerebbe il “fatto coloniale” in nome della rivoluzione.
Viene da chiedersi: rifarsi (criticamente) a Marx (o a Bakunin) significa dunque adottare una lettura del mondo sempre intrisa di eurocentrismo e colonialità? La teoria della rivoluzione che conosciamo, dal Capitale ai testi odierni, è viziata dall’origine e ne mostra gli evidenti limiti. Serve altro, risponde Zibechi. Bisogna percorrere altri sentieri. Fanon ha aperto la via e, decenni dopo, gli zapatisti sono quelli andati più lontano nel cammino di una creazione di un mondo nuovo dalla parte degli oppressi. L’attualità del pensiero di Fanon, aggiunge, affonda le radici proprio nell’impegno a pensare e mettere in pratica la resistenza e la rivoluzione a partire dal luogo fisico e spirituale degli oppressi. Dal luogo in cui gran parte dell’umanità vive in condizioni di indicibile oppressione, aggravata dalla ri-colonizzazione dei territori e delle menti che comporta il modello neoliberista. Ci parrebbe assai curioso, naturalmente, che a indicare quei “luoghi fisici” fossero un mappamondo o le astratte coordinate di un meridiano. Non è facile sostenere che un cameriere peruviano indigeno emigrato in Argentina viva un’oppressione più “indicibile” di quella di una ragazza nigeriana costretta a prostituirsi sulle strade del litorale domiziano. Non può essere quella la geografia che dice dove si è los de abajo e dove si è, o si è diventati, los de arriba.
Dal 10 al 19 febbraio, durante la battaglia dell’Amba Aradam, l’artiglieria italiana spara 1367 proiettili caricati ad arsine. Al termine l’aviazione insegue, mitraglia e bombarda col vescicante le colonne di nemici in ritirata. Lo stesso Badoglio riferirà l’utilizzo, in questa circostanza, di sessanta tonnellate di iprite. Raccontando di questo giorno, il generale Colombini scriverà: «Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopici si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerrieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi».
Dai resoconti e ricordi edulcorati della strage deriverà il termine scherzoso «ambaradàn», che gli italiani useranno per dire baraonda, trambusto, grande confusione.
L’impiego dei gas non è la sola atrocità. Fra il 1935 e il 1936, l’aviazione italiana bombarda ospedali e ambulanze. Impazzano i rastrellamenti, le fucilazioni di massa, gli stupri, decine di migliaia le capanne incendiate. Dalla campagna d’Etiopia, con la proclamazione dell’impero di Vittorio Emanuele III, alla conquista della Tripolitania e della Cirenaica (Libia) il passo (indietro) è breve. L’avventura comincia nel 1911, con l’invio di 1732 marinai contro l’Impero Ottomano. Non porta la firma di Mussolini ma del quarto governo Giolitti, quello eletto col voto dei socialisti. Il “progressismo” del tempo nazionalizzerà le assicurazioni e introdurrà il “suffragio universale”. Da cui sono escluse le donne, ça va sans dire.
Cento anni più tardi, nel 2011, l’Italia smetterà di vendere armi a Gheddafi, linciato in strada – dopo la pioggia di bombe Nato – in una sequenza indimenticabile. In quanto a orrore, fa impallidire anche quelle, più sofisticate, girate dai registi dell’Isis. Tra il 2005 e il 2012, comunque, l’Italia ha fornito, prima al colonnello e poi ai suoi carnefici, armi per 375,5 milioni di euro, seconda solo alla Francia di Sarkozy, il leader più assatanato nella caccia grossa a Gheddafi. Quelle armi sono poi state saccheggiate, più volte, da varie fazioni avverse al regime di Tripoli e dai gruppi jihadisti, Sono dunque state determinanti a far diventare il territorio (che per convenzione chiamiamo ancora) libico quel che è oggi. Dove ha volato la Nato non c’è più un paese, come in Somalia dopo i Caschi Blu, come in Afghanistan, in Iraq…
Dalle coste libiche parte oltre l’80 per cento delle persone che affrontano il mare nostrum per affogare nelle sue profondità o essere accolte come fossero un’epidemia nel paese dei mercanti, quello dalle colonie “dal volto umano”. Sono persone in fuga dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dal Sudan, dalla Nigeria, dal Mali, dall’Iraq, dalla Siria. I media ci avvertono: attenzione, tra loro, negandosi al riconoscimento identitario, si annidano furbi e spregevoli truffatori. Si fingono perseguitati ma non lo sono affatto. Sono semplici migranti, colpevoli d’un reato imperdonabile: cercare una vita migliore nella terra in cui non sono nati. Per fortuna il dio del mare è giusto e li punisce.
Ogni tanto le istituzioni politiche europee, i media e l’opinione pubblica fingono di commuoversi. È accaduto il 19 aprile, con la maggior strage mediterranea della storia contemporanea: 7-800 persone annegate in un solo “incidente”. Gli incidenti si ripetono da oltre 15 anni. Hanno ucciso venti-trentamila persone, forse di più. I numeri ingannano: non raccontano i volti, l’agitazione delle mani, il respiro che annaspa ma soprattutto le storie, le speranze e le sofferenze di chi affoga nel Mediterraneo. Forse, a comprendere la portata e le ragioni della tragedia che viviamo, può aiutare più la storia. Una storia esemplare, a leggerla in una prospettiva coloniale: l’Europa è abituata a buttare la gente in mare. Lo ha fatto per quattro secoli durante il commercio di vite africane che riempiva i forzieri delle nazioni che oggi danno lezioni sui diritti umani e la democrazia al resto del mondo. Si buttavano a mare gli schiavi per sfuggire ai pattugliamenti, oppure quando venivano considerati invendibili. Un negro ogni dieci, si calcola, finiva agli squali. Merce difettosa, con i denti cariati o i seni flaccidi.
È solo negando la condizione umana, quello che secondo Zibechi avviene nella “zona del non essere”, che si può lasciar affogare le persone. Per questo i migranti, nella migliore delle ipotesi, devono essere numeri. Come i palestinesi intrappolati a Gaza nel diluvio delle bombe israeliane. Come gli ebrei, gli zingari, i polacchi e i russi chiusi a Birkenau, come i ribelli etiopi che Mussolini ordinò di stroncare con “qualsiasi mezzo”. Renzi, Salvini e gli amici di Casa Pound oggi darebbero, dispiaciuti, lo stesso ordine ma il discorso sui fini e i mezzi sarebbe lungo… Negare la condizione umana, dicevamo, perché ammettendo l’umanità delle vittime sarebbe inevitabile mettere in discussione anche quella dei carnefici e di chi consente i massacri o vi si mostra indifferente. Per questo i razzisti europei dovrebbero temere più d’ogni altra cosa la ri-umanizzazione dei migranti nei media. Dovrebbero temerla, per la verità, i razzisti di tutto il mondo, da quelli austrialiani a quelli sudafricani. Sì, avete letto bene: sudafricani.
C’è tuttavia una specificità occidentale, declinata con chiarezza nella storia coloniale e nelle diverse forme di colonialità contemporanea. Deriva dall’incapacità di “pensare con il mondo”, come avrebbe detto Édouard Glissant, compagno di liceo di Fanon in Martinica. Deriva dalla credenza secolare secondo cui il “nostro” mondo – la letteratura, la filosofia, la medicina, le forme religiose e di governo, ilmodus vivendi – sarebbe superiore a quello degli altri. Anzi gli altri – gli indigeni, i turchi, gli arabi, i pigmei, i cinesi, i mongoli, i contadini – sarebbero in fervente attesa del nostro progresso-sviluppo. Dopo cento anni, quella egemonia culturale sembra finalmente finita. Non esercita più incontrastata nemmeno qui il suo invincibile potere, un potere non divino ma molto coloniale e molto “naturalizzato”. Che quel mondo non fosse il solo possibile lo hanno cominciato a gridare tutte le più significative società in movimento apparse all’alba del nuovo millennio. Di più,in felice risonanza con certe comunità indigene mascherate delle montagne del sud-est messicano, quella gente dice che esistono molti altri mondi. Tutti diversi e tutti capaci di affermare straordinarie dignità. Quel che sembra impossibile, dicono, arriva. Si tratta solo di aspettarlo un po’.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 4 luglio 2015. con postilla
Questo amico ama moltissimo Eataly, e ci va spesso «to buy some of their fantastic produce, mortadella and fresh mozzarella». Ma certo non si aspettava di trovare, nel settore dedicato alla pasta, una statua originale del secondo Quattrocento proveniente dal Duomo di Milano, buttata nel mezzo della sala dentro una scatola di plexiglass. In effetti questa fotografia illustra la mercificazione del patrimonio culturale italiano meglio di un intero volume dedicato all'argomento.
Perché la preziosa opera d'arte di un museo italiano deve decorare il negozio di un privato? Ed è opportuno che un'opera d'arte del passato (per giunta di soggetto sacro) venga estratta da un museo per essere straniantemente inscatolata in mezzo alla pasta e alla mortadella? Domande retoriche, visto che la mostra Tesoro d'Italia replica questo modello su vastissima scala, mescolando capolavori dei musei pubblici a opere private, e addirittura a opere in vendita (come la robbiana appoggiata per terra che si vede in questo incredibile filmato).
Molti pensano che questo sia un modo per avvicinare «la gente» all'«arte». Io credo che sia solo un modo per piegare il patrimonio artistico bene comune agli interessi commerciali dei nuovi padroni del vapore. Padroni a cui quelle opere d'arte interessano solo come strumenti del proprio marketing: presentando questo incredibile prestito, Oscar Farinetti parlò di una statua di Santa Lucia incinta, fraintendendo, fantozzescamente, la veste tardogotica allacciata sotto il seno, e ignorando evidentemente tutto della storia della vergine siracusana in generale, e di questa statua in particolare. Naturalmente non è questo il punto: ma dovrebbe far riflettere il fatto che chi parla continuamente di bellezza non ha in realtà la minima idea di quella bellezza.
Lo sfruttamento dell'arte da parte dei potenti di turno è una storia antica, ma la Costituzione italiana aveva messo le premesse di un futuro diverso, indicando un uso dell'arte del passato che fosse indirizzato verso la conoscenza, l'uguaglianza, il pieno sviluppo della persona umana. Ma era un'altra Italia. Oggi, anche agli occhi di un newyorkese è evidente che Eataly si è mangiata Italy.
Il manifesto, 12 giugno 2015, con postilla
Da settimane si agita lo spettro delle persone sbarcate in Italia per cercare rifugio nel nostro o negli altri paesi europei. In realtà, il loro numero dall’inizio dell’anno al 7 giugno è di 52.671. Quindi, poco più dei 47.708 registrati nello stesso periodo dell’anno scorso. Sulla base di questo trend è calcolabile un numero di 190.000 a fine anno (200.000 secondo altri). Come si giustificano, allora, le posizioni estreme e i toni, talora quasi paranoici, raggiunti nel dibattito su questo fenomeno in Italia e in Europa? Davvero si vuol far credere che l’arrivo di alcune centinaia di migliaia di persone costituisca una minaccia per gli equilibri economici e sociali di un gruppo di paesi tra i più ricchi del mondo?
In realtà, stiamo assistendo a una grossolana mistificazione.
Intanto, sembra smarrito ogni senso delle proporzioni e si parla come se s’ignorassero dati di fatto significativi. I paesi membri dell’Ue, alla fine del 2013, contavano un numero di immigrati di prima generazione (cioè nati all’estero), regolarmente registrati ed attivi nelle rispettive economie assommanti a più di 50 milioni, di cui circa 34 milioni nati in un paese non europeo. Questi immigrati, come gli altri che li hanno preceduti, concorrono direttamente alla produzione e alla ricchezza di quei paesi. E non si vede proprio come nuovi flussi che si aggiungono a quelli registratisi negli anni precedenti non possono essere assorbiti con vantaggi demografici, economici e socio-culturali, solo che si adottino politiche appropriate e positive d’inclusione sociale.
In secondo luogo, invece di contrastare sentimenti xenofobi, che pure allignano in parti della popolazione, li si strumentalizza e incoraggia pur di guadagnare consensi elettorali nel modo più spregiudicato. L’esempio più vicino di tale irresponsabile comportamento viene dalle dichiarazioni dei governatori di alcune delle regioni più ricche del paese. Il loro lepenismo sembra ignorare che proprio la vantata ricchezza di quelle regioni è dovuta anche al massiccio sfruttamento del lavoro degli immigrati. Sfruttamento tanto più facile e pesante con i clandestini. E questo ci porta dritto alla seconda mistificazione cui stiamo assistendo in Italia e in Europa.
Indicare gli immigrati come una minaccia serve a motivare misure di contrasto e leggi restrittive che in realtà servono a sfruttare al massimo il loro lavoro, inducendoli a lavorare in nero, in impieghi pesanti e mal pagati, in affitto, a chiamata e simili. Infatti, sono proprio le soglie di sbarramento all’integrazione, poste sempre più in basso, e il mancato o difficoltoso riconoscimento dei diritti ai lavoratori immigrati che permettono ai gruppi dirigenti economici e ai loro alleati politici di sfruttare anche l’immigrazione per spingere verso la concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro. In tal modo, si rendono più agevoli le politiche di restrizione dei diritti dei lavoratori e di smantellamento dello Stato sociale.
In terzo luogo, agitare lo spettro del pericolo immigrazione occulta altre responsabilità. Il fatto, cioè, che i maggiori paesi europei, Gran Bretagna e Francia in testa, ma seguiti anche da Germania e Italia si sono fatti promotori, accanto agli Stati Uniti e insieme ad altri, di pesanti interventi politico-militari in Africa e in Medio Oriente. L’elenco è lungo. Si può cominciare dall’interminabile guerra in Afghanistan. Si può proseguire con il supporto dato alla ribellione contro il regime siriano, rinfocolando conflitti civili e religiosi che ora sfuggono ad ogni controllo. Ancor più diretto è stato l’intervento in Libia, col risultato di una situazione, se possibile, ancor più confusa e ingovernabile. Si è soffiato sul fuoco di vecchi conflitti tra le popolazioni in Africa Centro-orientale perseguendo obiettivi tutt’altro che chiari. E lo stesso può dirsi per gli interventi in Mali e altri paesi.
Nel 2013, il numero di profughi che hanno cercato di fuggire da zone di guerra, conflitti civili, persecuzioni e violazioni dei diritti umani è stato di 51,2 milioni. Anche a considerare circa un quinto di essi, vale a dire gli 11,7 milioni di persone che, in quell’anno, si trovavano sotto il diretto mandato dell’Alto commissariato per i rifugiati delle nazioni unite e per i quali disponiamo di dati certi, vediamo che più della metà era costituito da persone che fuggivano dalla guerra in Afghanistan (2,5 milioni), dall’improvvisa deflagrazione del conflitto in Siria (2,4 milioni), dalla recrudescenza degli scontri da tempo in atto in Somalia (1,1 milione). Ad essi seguivano i profughi provenienti dal Sudan, dalla Repubblica democratica del Congo, dal Myanmar, dall’Iraq, dalla Colombia, dal Vietnam, dall’Eritrea. Per un totale di altri 3 milioni, sempre nel solo 2013. Altri richiedenti asilo cercavano di scampare dai «nuovi» conflitti in Mali e nella Repubblica Centrafricana.
La grande maggioranza di queste e altri milioni di persone fuggite da situazioni di pericolo e sofferenza, sempre nel 2013, non hanno cercato e trovato accoglienza nei paesi più ricchi d’Europa o negli Usa, bensì nei paesi più vicini. Paesi con un Pil pro capite basso e variante tra i 300 e i 1.500 dollari l’anno. Infatti, fin dallo scoppio della guerra del 2001, il 95% degli afgani ha trovato rifugio in Pakistan. Il Kenya ha accolto la maggioranza dei somali. Il Ciad molti sudanesi. Mentre altri somali e sudanesi hanno trovato rifugio in Etiopia, insieme a profughi eritrei. I siriani si sono riversati in massima parte in Libano, Giordania e Turchia. Di fronte all’entità di questi flussi, il numero delle persone che, sempre nel 2013, hanno cercato protezione internazionale in 8 dei paesi più ricchi dell’Ue, con Pil pro capite dai 33.000 ai 55.000 dollari, assommava a 360mila (pari all’83% dei rifugiati in tutta l’Ue).
Questi dati di fatto dimostrano l’assoluta mancanza di fondamento e la totale strumentalità che caratterizza la discussione in atto tra i paesi membri e le stesse istituzioni dell’Ue. Si discute di pattugliamenti navali, bombardamenti di barconi, per concludere con quello che viene definito un «salto di qualità» nel dibattito e che consisterebbe nella proposta di accogliere nei 28 paesi membri dell’Ue un totale di 40.000 rifugiati in due anni. Mentre, nel 2013, Pakistan, Iran, Libano, Giordania, Turchia, Kenya, Ciad, Etiopia, da soli, ne hanno accolti 5.439.700. Il che significa che un gruppo di paesi, il cui Pil è 1/5 di quello dei paesi dell’Ue, ha accolto in un anno un numero di immigrati e rifugiati che è 136 volte più grande del numero di quelli che sono disposti ad accogliere i paesi della grande Europa in due anni! Ma perfino questa misera proposta viene ora messa in discussione, dato anche l’atteggiamento negativo di paesi come la Gran Bretagna e la Francia, che pure si autodefiniscono grandi e civili. Lo spettacolo di tanta pochezza politica e morale induce a chiedersi se i nostri governanti e i dirigenti di Bruxelles si rendono conto che stanno assestando un altro colpo alla credibilità dell’Unione europea.
postilla
Tanto più indignano le reazioni - di troppi eletti e troppi elettori - in quanto la penisola chiamata Italia è abitata da popoli che hanno conosciuto tutti analoghe storie di fuga dalla miseria o dalla guerra. Quanti di noi italiani sono stati profughi nella prima guerra mondiale dopo la disfatta di Caporetto, o durante la Seconda per i bombardamenti e l'avanzata nel Sud, o cacciate dai campi e fuggiti nel Belgio o in Argentina, o cacciati dal loro Polesine dall'esondazione del Po... Sono ben pochi che hanno compreso come quella che viviamo sia l'esodo inarrestabile di un un'area che comprende più ancora che un intero continente, e che moltissime responsabilità delle catastrofi attuali hanno la loro origine (e la loro prosecuzione) nelle politiche di sfruttamento rapace delle risorse altrui compiuto dal Primo mondo. Quanto solitario, e quando alto, appare al confronto quel mite argentino che ammaestra il Vaticano.
L'Espresso online, 12 maggio 2015
Uno sbarco a Pozzallo Dalla recinzione escono solo le grida. Voci di bambini, che urlano in arabo. Frasi che gli interpreti volontari traducono come un appello disperato: «Vogliamo uscire!». Gli viene chiesto: siete stati picchiati? La risposta è presentata in modo raccapricciante: «Si, con la corrente elettrica». Sono le cronache del centro ragusano di Pozzallo, dove vengono raccolti i profughi che hanno attraversato il Mediterraneo, riferite dai volontari siciliani in un video pubblicato il 24 aprile da MeridioNews .
La polizia ha smentito con decisione questa ricostruzione, presentando una querela. Ma la questione di Pozzallo adesso arriva a Bruxelles con un'interrogazione di Barbara Spinelli , che chiede di fare chiarezza: «Cittadini stranieri, anche minori, hanno dichiarato di aver subito percosse con manganelli elettrici, e un adulto ha mostrato segni di una bruciatura». L'eurodeputata invoca un'indagine perché in quel centro si sarebbe verificato «un uso illegittimo della forza». E domanda se «ciò che continua a registrarsi non violi la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione».
Dietro la denuncia c'è una questione decisiva, che rischia di esplodere con il nuovo esodo di disperati dalle coste dell'Africa. I profughi non vogliono essere registrati in Italia, perché questo li obbliga a restare nel nostro paese fino al completamento dell'istruttoria. Che da noi – come ha evidenziato un'inchiesta de “l'Espresso” - spesso richiede più di un anno. Durante Mare nostrum migranti e rifugiati venivano lasciati andare senza imporre la registrazione, in modo che potessero presentare la domanda di asilo in altri paesi. Più ospitali o più efficienti: solo nel 2014 in centomila hanno attraversato la frontiera senza lasciare traccia negli schedari della polizia. Adesso, in base alle ultime intese tra governi, questo non viene più tollerato.
Migranti, in centomila sono scomparsi
La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari
Secondo l'Ansa, nel giorno in cui è stato reso noto il video, il 24 aprile 2015, sarebbe scattata una protesta dei rifugiati nella struttura di Pozzallo. I profughi, in prevalenza siriani e palestinesi, avevano rifiutato il pasto e la colazione, perché volevano essere trasferiti al più presto dalla Sicilia. Quel giorno la struttura ospitava 113 migranti. L'indomani il direttore, Angelo Zaccaria, ha assicurato che tutti avevano consumato il pranzo di mezzogiorno.
Ma la videodenuncia è arrivata fino a Bruxelles. Scrive Barbara Spinelli (che ha appena lasciato la lista Tsipras) : «Il 25 aprile 2015, nel centro di Pozzallo, risultavano trattenuti da sette giorni 113 cittadini siriani e palestinesi. Con particolare riferimento a Pozzallo, fonti diverse e concordanti documentano l’uso illegittimo della forza per costringere i migranti, anche minori, all’identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali in violazione delle salvaguardie previste dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo».
La Polizia ha smentito questa versione: «Sono state seguite con la consueta professionalità le rituali procedure relative all'accoglienza e alla successiva identificazione dei migranti», ha scritto la Questura di Ragusa in una nota diffusa lo stesso giorno del video: «Coloro che hanno mostrato resistenze, sono stati puntualmente denunciati per il rifiuto di sottoporsi alle procedure di foto-segnalamento», e conclude dichiarando di aver depositato alla procura della Repubblica una denuncia per diffamazione.
Ma le tensioni per il segnalamento dei profughi sono destinate ad aumentare con i nuovi sbarchi. Siriani, eritrei, palestinesi, spesso anche afghani, iracheni e nigeriani in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni religiose chiedono di potere raggiungere altri paesi europei, dove vivono i loro familiari e ci sono maggiori possibilità di inserimento. La legge europea, applicata ora con rigore dalle nostre forze dell'ordine, non lo permette.
E almeno al Brennero adesso le polizie tedesche e austriache bloccano tutti i profughi. Solo l'approvazione delle nuove misure sulla distribuzione dei rifugiati in tutte le nazioni dell'Unione potrebbe offrire una soluzione diversa. Ma le trattative sono lontane da un accordo. Adesso però i governi europei si devono domandare quali siano i limiti per costringere all'identificazione e se sia tollerabile che venga imposta con la forza.
La Repubblica, 1° maggio 2015
di Vladimiro Polchi
«I controlli su base etnica sono inaccettabili: fermate la caccia al nero». Negli uffici della Caritas e delle organizzazioni internazionali esplode il caso “apartheid sui treni”. Col Pd che chiede immediati chiarimenti al Viminale: «È una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile».
Il fatto: in questi mesi, come ha raccontato ieri Repubblica , i treni in partenza da Bolzano e diretti oltre confine vengono controllati da pattuglie miste di poliziotti italiani, tedeschi e austriaci che bloccano chi non è bianco e impediscono ai migranti di salire sulle carrozze. «La polizia di frontiera sta facendo qualcosa di inaccettabile — attacca Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas — i controlli legati al colore della pelle fanno tornare in mente vicende terribili che non vorremmo più vedere in Europa. Anche la Caritas di Bolzano ci ha confermato queste ispezioni. Lo stesso avveniva nel 2011 coi tunisini alla frontiera francese.
Una vicenda quasi incomprensibile per quanto anacronistico e detestabile è il criterio applicato dalle pattuglie italo-austro-tedesche che hanno l’incarico (tra l’altro del tutto velleitario) di frenare l’approdo nel Nord Europa dei profughi africani che cercano di raggiungere i parenti in Germania, Svezia, Norvegia.
Il presidente del Consiglio ha dichiarato nei giorni scorsi che, finito il travaglio spossante della riforma elettorale, il governo si occuperà di diritti. Viene da dire: si occuperà della sostanza della politica e non più solamente della sua forma, con tutto il rispetto per la forma e per la faticosissima, contrastatissima ri-forma. Ecco una eccellente occasione per farlo. Chiedersi come sia potuto accadere, per quale assurdo accidente procedurale o per quale dolosa rozzezza, che in territorio italiano uomini in uniforme siano costretti, umiliando anche se stessi e il proprio ruolo, a dire “tu no” e “tu sì” ai passeggeri di un treno a seconda della loro razza, abbiano o non abbiano un biglietto in tasca.
Di questi rifiutati, compresi i bambini, esistono bivacchi che vivono ai margini delle stazioni affidandosi al soccorso di volontari e di associazioni umanitarie. Sono la testimonianza vivente dell’inesistente visione europea sulla questione, enorme, dell’esodo africano, malamente avviato alle coste italiane e poi rimpallato dai nostri partner europei. Una risacca che trova lungo le Alpi un secondo vaglio, dopo il mare le montagne, replicando anche su terra ferma quella negazione del diritto di viaggiare (non di risiedere: di viaggiare) che a ogni europeo sembra il più naturale dei diritti, almeno dalla caduta del Muro in poi. E per molti africani è diventato un azzardo, una scommessa, un rischio assurdo. Per quanto enorme sia il problema, per quanto delicato affrontarlo, lo spettacolo di un treno sgomberato dai neri e riservato ai bianchi non è ammissibile, rimanda a discriminazioni la cui fine è giustamente celebrata come una liberazione in ogni parte del mondo dove vigevano forme di segregazione. La liberazione da un incubo. Il ministro degli Interni e le altre figure istituzionali interessate riaprano i loro cassetti (pare che quelle pattuglie “trilaterali” siano un portato degli accordi di Schengen), cerchino di capire come rimediare a un così maldestro obbrobrio, non costringano uomini dello Stato a individuare la pelle nera come un pericolo e la pelle bianca come un lasciapassare.
Per quanto difficile sia capire, sulla questione dei migranti e dei profughi, che cosa bisogna fare, è facilissimo capire che cosa non bisogna fare. Non bisogna che il criterio razziale trovi una benché minima forma di leggibilità, di dicibilità. “Tu non puoi perché sei nero” è indicibile, e basta. Che il governo Renzi si occupi di diritti non è, in questo caso, un buon proposito o un punto della futura agenda politica. È qualcosa da fare e da risolvere oggi, stamattina. Adesso.
Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno minimizzato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei poliziotti intervenuti, è nota come la «macelleria messicana».
La sentenza, decisa all’unanimità, per la prima volta condanna l’Italia per violenze qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come «trattamenti inumani e degradanti» e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione: «La tensione – scrivono i giudici – non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che non garantivano la tutela dei diritti umani».
La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano a ciò che avvenne.
«Gli esecutori materiali dell’aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti, molto semplicemente, impuniti» e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla «mancata collaborazione della polizia alle indagini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le autorità competenti nell’identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura». I giudici ricordano che gli agenti devono portare un «numero di matricola che ne consenta l’identificazione». Per quanto riguarda le condanne «nessuno è stato sanzionato per le lesioni personali» a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni funzionari per i «tentativi di giustificare i maltrattamenti». Ma anche costoro hanno beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni.
La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la «colpa» della prescrizione. Anzi, al contrario, i magistrati hanno operato «diligentemente, superando ostacoli non indifferenti nel corso dell’inchiesta».
Il problema, secondo la Corte, è «strutturale»: «La legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata all’esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni simili».
Infatti «la prescrizione in questi casi è inammissibile», come inammissibili sono amnistia e indulto.
La Corte ritiene necessario che «i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna». Esattamente il contrario di quanto accaduto. Forse anche per questo «il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo».
Dall’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva. Per molti di loro è arrivata nel frattempo l’agognata pensione, per gli altri nessuna destituzione da parte del Viminale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati.
«I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e solidarietà» commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto l’accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di credere che lo stato non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati». «Quando nel corso dei processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu ci guardavano come fossimo pazzi», ricorda con un pizzico di amarezza mista alla soddisfazione per una sentenza che considera però «scontata». Per il magistrato, che spesso si trovò isolato anche all’interno della stessa Procura nell’inchiesta più scomoda «bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all’interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell’allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno».
La sentenza che ha condannato l’Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla Cedu, esprimono soddisfazione: «Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte ha rilevato l’enorme mancanza dell’ordinamento interno italiano, vale a dire la non previsione del reato di tortura e lo invita quindi a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato — parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è svilente».
«La sentenza della Corte di Strasburgo – commenta il sindaco di Genova Marco Doria — riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione, lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente». «Uno stato democratico – aggiunge il sindaco — non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell’uomo. È, questa, una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i principi della Costituzione».
L’Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una legge ad hoc.
«Il modello – spiega l’avvocato Paoletti – potrebbe essere per esempio quello francese, che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottemperare con molta lentezza alle sentenze della Cedu».
Nell’attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati.
Il video del Tg3 Liguria la mattina dopo la mattanza alla Diaz.
Cronache di ordinario razzismo
Ieri sera, Piazza Pulita, trasmissione trasmessa da La7 e condotta da Corrado Formigli, era dedicata alla “Lega capoccia” – questo il titolo della puntata. Ospiti, tra gli altri, Dijana Pavlovic, attrice e attivista serba rom, e Gianluca Buonanno, europarlamentare leghista. Il quale ha sintetizzato così il proprio pensiero: “I rom sono la feccia della società”.
Alla reazione di Pavlovic, che ha invitato il parlamentare a prendersela “con i borseggiatori, con i criminali”, Buonanno ha proseguito, quasi sorridendo: “Purtroppo il 90% della vostra gente è così”, “Usate i bambini, dovreste vergognarvi”, “Ditelo che è vero che ci sono un sacco di rom e di zingari che sono dei ladri e dei farabutti”.
Il tutto letteralmente urlato davanti al volto di Dijana Pavlovic. La quale ha dato a Buonanno un foglio da leggere, relativo alla tragedia subita dalle donne rom in Svizzera, sottoposte a sterilizzazione dagli anni venti fino al 1974, proprio sulla base di dichiarazioni come quella gridata da Buonanno in diretta televisiva. “Una storia che pochi conoscono, e che rappresenta la continuazione, nel cuore dell’Europa e in quello che si considera un paese civile, del Porrajmos, lo sterminio nazista dei Rom.” Erano parole, quelle di Dijana, che meritavano di essere seguite dal silenzio, dalla riflessione e dal rispetto. Sono state accompagnate, invece, dall’ennesima manifestazione di razzismo”, leggiamo – e condividiamo- sul sito glistatigenerali.com.
Quando Buonanno è uscito dallo studio, Pavlovic si è rifiutata di stringergli la mano. Un gesto comprensibile e condivisibile, dopo gli insulti che le sono stati urlati contro. “Ecco, avete visto? Questa è l’integrazione! Avete visto?”, ha ripetutamente urlato Buonanno, gridando ancora una volta, a scanso di equivoci: “Siete la feccia dell’umanità”. Ancora applausi, e risa, dell’europarlamentare e degli spettatori.
Non tutti, fortunatamente. Alcuni hanno applaudito piuttosto a Formigli, quando ha espressovergogna per la reazione del pubblico alla frase di Buonanno. “Lui – ha sottolineato il conduttore – lo pensa, lo dice, ci mette la faccia. Io disapprovo completamente la sua frase”.
Questo ciò che è successo.
La sensazione sempre più forte è che ci si trovi ormai di fronte a un sipario, con delle maschere che recitano la propria parte, di solito urlando, per lo più slogan. Questo è il livello del dibattito politico, almeno durante i talk show televisivi. Banditi l’analisi sociale e politica, il ragionamento, il confronto. Così come assente è il rispetto per le persone: degli ospiti in studio – in questo caso Djana Pavlovic, contro la quale sono state urlate in faccia, quasi con il sorriso, offese razziste –, di interi gruppi sociali e, infine, degli spettatori: perché, almeno in teoria, questi programmi dovrebbero consentire a chi li guarda di approfondire la conoscenza dei temi trattati e di avere maggiori elementi di valutazione per elaborare la propria opinione.
Ma tra slogan urlati e insulti, cosa si capisce? Si riduce tutto a tifo, in uno stadio in cui i protagonisti sono sempre gli stessi: le persone, quasi sempre rappresentanti politici, di cui conosciamo quasi sempre già le idee e le opinioni.
Ma allora, domandiamo ai conduttori, siamo sicuri che il format prescelto, quello che troppo spesso da salotto degenera in un vero agone televisivo che sacrifica l’informazione allaspettacolarizzazione, sia quello giusto?
ITALIANI brava gente, si è sempre detto. Soprattutto quando si parla di Shoah. È vero, ci furono i “giusti”. Ma è anche vero che dietro la cattura di ogni ebreo ci furono almeno altrettanti italiani implicati: prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, finanzieri, repubblichini, compilatori di liste, impiegati, delatori della porta accanto, traditori, autisti di camion, ferrovieri, persone che nel 1943-1945 non obbedirono solo agli ordini tedeschi, ma dichiararono gli ebrei “stranieri” e “nemici”, li identificarono su base razziale, li stanarono casa per casa, li arrestarono, li depredarono dei beni, li rinchiusero in campi di concentramento, li consegnarono al III Reich rendendosi colpevoli di genocidio, se, come si intende e come ha detto Raul Hilberg, furono responsabili tutti i gangli della macchina della morte e non solo gli esecutori finali. Le vittime furono oltre seimila. Il libro di Simon Levis Sullam dimostra questo.
Ogni caso ha la sua storia. Lo storico dell’università Ca’ Foscari, autore di molti saggi sull’argomento, ci avvolge di vicende cupe. All’inizio nomina gli ideologi, le leggi razziali del ‘38, la lenta disumanizzazione dell’“avversario”, gli antisemiti, i sostenitori della “totale eliminazione de- gli ebrei”. Ma è quando passa alle singole città, ai singoli provvedimenti, che vediamo quanto il veleno avesse conquistato spazio.
Andiamo a Roma, nel marzo 1944, la grande retata era già avvenuta da tempo, una bambina di sei anni, Emma Calò, e un cuginetto riescono a nascondersi mentre il commissario di Ps sta arrestando i genitori, i nonni e quattro fratelli. Il funzionario cerca e trova personalmente i piccoli. Tutta la famiglia non farà ritorno. A Venezia, 163 ebrei “puri”, in maggioranza anziani, vengono individuati, piantonati e infine rastrellati mentre, alla Fenice, Ar- turo Benedetti Michelangeli tiene un concerto. È il volenteroso Questore Filippo Cordova ad anticipare il ministero e a muovere la macchina, così come faranno molti colleghi e anche i prefetti. Trovano gli ebrei, i militari li scortano, qualcuno scova il vaporetto e lo conduce alla stazione. Un treno parte per Fossoli, dove giorni dopo due agenti ricongiungono dei bimbi tra i 3 e i 6 anni ai genitori: partiranno tutti in un convoglio per Auschwitz con oltre 640 prigionieri, tra cui Primo Levi. A nessuno venne in mente di salvare i piccoli, di ostacolare in qualche modo la ricerca delle vittime e il viaggio verso la morte. E così in tutta Italia.
Le delazioni riempivano le scrivanie dei funzionari. Migliaia. Anonime e no. E i funzionari non ne saltavano una. Così come le guide verso la Svizzera consegnarono spesso, depredandoli, i clienti alle guardie. Oppure era il vicino di casa che denunciava il condomino. Per invidia, rancore, soldi, per appropriarsi dei beni, andavano a prendere anche un solo ebreo nel mezzo della campagna. Perché in Italia catturarli, eliminarli dalla società, non fu un incidente, ma un cardine del totalitarismo.
«In visita alla famiglia di uno dei pescatori uccisi tre anni fa ». La Repubblica, 15 febbraio 2015
Anche su questo l’ambasciata italiana di Delhi preferisce mantenere il silenzio, per timore che ogni azione o parola possa essere male interpretata. Lo stesso riserbo hanno quasi sempre seguito La Torre e Girone, mentre una speciale agenzia investigativa nazionale, la Nia, prepara i documenti dell’indagine per i magistrati di una Corte altrettanto speciale. Neanche sul fronte del governo indiano c’è disponibilità a parlare per confermare un’eventuale trattativa in corso. «È tutto in mano alla magistratura », è la posizione ufficiale.
A due passi da casa Galestine incontriamo A. Andrews, il leader dell’associazione dei pescatori del distretto, secondo il quale «spetterebbe a noi il diritto di processare e condannare i responsabili ». «Se le famiglie hanno perdonato - dice Andrews sotto a un colorato crocifisso di Cristo che pende su una parete - noi non lo faremo mai. È nella nostra tradizione punire chi uccide degli innocenti».
In un paese dove migliaia di processi aspettano molto più di tre anni per rendere giustizia, la vicenda dei marò resta un caso a sé, per il clamore internazionale e i troppi dettagli ancora avvolti nel mistero. La fantomatica nave greca, le presunte segnalazioni dei militari alla barca “pirata” in rotta di collisione, le raffiche di mitra sparate da 20 metri di altezza e destinate in teoria a finire in acqua, la decisione del capitano di entrare in porto e consegnare i due marò.
Il manifesto, 9 febbraio 2014
«Certo che bisogna tornare sulle foibe, ogni volta, ogni anno». A dieci anni esatti dall’istituzione del Giorno del Ricordo (il 10 febbraio), il bilancio di Predrag Matvejevic è ancora una volta critico e insiste a «ricordare tutti i ricordi». Nel 2004 un’iniziativa revisionista storica della destra post-fascista, riciclata e diventata di governo ed elettoralmente candidabile grazie a Silvio Berlusconi, portò a buon fine la sua battaglia negazionista del passato di crimini italiani nell’ex Jugoslavia. Centrando l’obiettivo di ridurre la prospettiva all’ultimo, infausto periodo, delle responsabilità slave. A questo punto di vista tutto l’arco costituzionale s’inchinò. Favorendo negli anni processi cosiddetti culturali — fiction, cerimonie, opere teatrali — di rimozione della verità storica. Su questo abbiamo voluto ancora una volta ascoltare per i lettori del manifesto il grande scrittore dell’asilo e dell’esilio, l’autore di Breviario mediterraneo — per citare solo una delle sue opere — che ama ancora definirsi jugoslavo. «A proposito di storia, che vergogna che qui, in Croazia, la Chiesa che ha così gravi responsabilità nella connivenza con il nazifascismo e con l’ideologia ustascia, abbia praticamente disertato due settimane fa le celebrazioni del Giorno della Memoria» ci dichiara subito Predrag Marvejevic.
Sono passati dieci anni dall’istituzione di questa Giornata da parte delle istituzioni italiane, che ha sempre visto la protesta dei nostri storici democratici. Che bilancio va fatto?
Intanto che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: «Bisogna ripetere…nessuno ascolta». Ognuno, soprattutto in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche post-fascisti abili a cancellare i crimini del fascismo italiano nelle terre slave. E ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto, nella forma e nei contenuti, alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho avuto modo di sostenere gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia (detti “esodati”). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via “fra asilo ed esilio”. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Condivido il cordoglio italiano, nazionale e umano, per le vittime innocenti. Credevo comunque che le polemiche su questa tragedia, spesso unilaterali e tendenziose, fossero finite. Invece si ripetono ogni anno, sempre più strumentalizzate.
C’è qualche episodio particolare di strumentalizzazione che ricorda?
Voglio ricordare il caso del 2008 dello scrittore di confine, il grande Boris Pahor. Ecco uno scrittore che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, e infatti ha raccontato la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza che gli offriva il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che avrebbe detto no, l’avrebbe rifiutata, se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi perpetrati da Mussolini.
Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?
Sì, le foibe sono un crimine grave. Sì, la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell’ “infoibamento”. La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (non certo casuale la scelta della località). E dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla “pulizia etnica”. Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra… Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della “foiba”. È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di “Giulio Italico”, a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria» (da “Gerarchia”, IX, 1927). Affermazione alla quale lo stesso ministro aggiungerà anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin», che ha fatto bene a ricordare su il manifesto nei giorni scorsi Giacomo Scotti nel suo saggio. Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai “lavori coatti” in questa zona durante la seconda guerra mondiale ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): «Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone, cittadino italiano, fa venire brividi.
Come è vissuto il Giorno del Ricordo nell’ex Jugoslavia, quali “ricordi” reali va a risvegliare?
La storia (con la S maiuscola) potrebbe aggiungere alcuni altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è certamente il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. E il campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto, con la differenza che lì il lavoro micidiale veniva fatto “a mano”, mentre i nazisti lo facevano in modo “industriale”. Aggiungiamo che quello stesso criminale Pavelic con la scorta dei suoi più abietti seguaci, poté godere negli anni trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi. Le “camicie nere” hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e di singoli individui. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. A ciò bisogna aggiungere una catena di campi di concentramento, di varia dimensione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si transitava in questi luoghi per raggiungere la risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva anche ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano immediatamente sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine delle guerra accaniti: “infoibarono” gli innocenti, non solo d’origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto. La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Abbiamo comunque cercato di parlarne. Purtroppo, oggi ne parlano a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di “neo-missini” slavi. Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su altre esperienze. Ad esempio culturali… Per questo auspico la proclamazione congiunta de “Il giorno dei ricordi”. E questo mi sembra il nuovo intendimento che emerge e per i quale dobbiamo batterci.
Riferimenti
Rinviamo all'ampia documentazione raccolta in eddyburg nella cartella Italiani brava gente, e in particolare agli articoli degli storici Enzo Collotti (11 febbraio 2007), Giacomo Scotti (13 febbraio 2007), Claudia Cernigol (27 febbraio 2005) e dai giornalisti Simonetta Fiori (3 maggio 2005) e Corrado Staiano (4 febbraio 2005). Nell'immagine bambini jugoslavi internati dai fascisti italiani nel campo di Arbe
omune_info, 21 ottobre 2013
Cercavo un appellativo o una metafora che potesse calzare l’iniquo operato del governo delle larghe intese in tutto l’iter degli annegamenti al largo di Lampedusa dal 3 ottobre fino alla celebrazione farsa dei funerali di Stato in absentia dei corpi degli oltre 300 annegati da respingimento (ossia giovani per lo più provenienti dal Corno d’Africa annegati a causa di leggi inique approvate da entrambe le compagini governative e che sono state oggetto di oltre 100 richiami per violazioni dei diritti umani da parte dei massimi organismi internazionali per i diritti umani). Mi sono venute in mente locuzioni bibliche del tipo “sepolcri imbiancati” per denunciarne l’ipocrisia ma alla fine ho dovuto coniare la neo-locuzione “governo tombarolo”. Per tombarolo, nel significato classico del termine, si intende un violatore di tombe, ladruncolo alla ricerca di tesori o di modesti averi che al malcapitato defunto i familiari avevano fatto indossare o messi al loro fianco per accompagnarli nel viaggio dell’aldilà. L’attività di addobbare la salma si può considerare un’attività consolatoria per chi restava nel senso che nel rito si riaffermava una certa “normalità” dello status del defunto, continuava a condividere interessi anche estetici con chi continuava invece a vivere. L’attività del tombarolo invece consisteva nella cinica, egoista raccolta dei frutti del rito.
Oggi ad Agrigento, dopo vari tentennamenti, il governo italiano, in tutte le sue compagini e colori di pelle, si presta a un’ulteriore operazione di spoliazione dei morti, cioè cercheranno di spogliare nuovamente il corpo in absentia di oltre trecento giovani eritrei, somali e altri provenienti dal bacino mediterraneo di qualsiasi gioiello potessero ancora avere addosso. Nelle varie piazze di Italia nelle scorse settimane, si sono sentiti spesso i rappresentanti istituzionali locali rammaricarsi per il “tragico naufragio”, versare lacrime, forse anche sentite, per le vite spezzate. Ma come dice una canzone del cantautore lampedusano Giacomo Sferlazzo “Unnavi curpi u mari” (cioè il mare non ha colpe) se la barca in pericolo non è stata soccorsa da ben tre pescherecci per paura di ritorsioni da parte del sistema penale italiano. Non sono le forze della natura a respingere bensì precise forze politiche che hanno codificato sistemi iniqui per impedire la libera circolazione anche di persone in pericolo di vita, mentre si sforzano in ogni modo di fare leggi che consentano la libera circolazione di merci e capitali (questi ultimi senza controllo alcuno).
Nei media a grande diffusione si sono spese migliaia di parole e di righe di scrittura per fare ipotesi su scafisti, navi madre e non si è quasi mai sentito pronunciare il nome “Isaias Afewerki” il dittatore che in Eritrea impone il servizio militare a vita, che ha il maggior numero di giornalisti al mondo ospiti delle sue prigioni e i cui arsenali sono rimpinguati dalle armi provenienti dall’industria bellica del fiorente nord–est italiano. Il paese è stato definito dalle più importanti associazioni per i diritti umani una prigione a cielo aperto eppure a quasi a nessun giornalista viene la tentazione di fare un collegamento tra le condizioni politico-sociali economiche di quel paese e l’arrivo di tanti giovani in fuga. Non si è trovata traccia nella stampa italiana di un giornalismo d’indagine che si prenda la briga di investigare le committenze del governo eritreo per quanto riguarda industrie tessili e molti altri prodotti di imprenditori italiani. Né si è fatta alcuna illazione sul perché sia stato consentito a rappresentanti ed ufficiali eritrei di ispezionare e riconoscere le salme, proprio quelle di giovani provenienti da un paese per cui l’italia finisce per riconoscere lo status di rifugiato politico. Non si palesa nessuna contraddizione nel fatto che ai rappresentanti delle istituzioni eritree sia lecito curiosare tra i corpi dei morti e non ai parenti venuti con gran sacrificio da lontano per avere almeno la consolazione di dare l’ultimo saluto al proprio congiunto. Infatti nella fretta e furia del governo italiano di far sparire i corpi un gran numero di essi non sa neppure dove sia ubicata la tomba del proprio congiunto. E tutto questo per non parlare della sorte toccata ai sopravvissuti a cui sono state prese le impronte e che sono stati prontamente accusati del reato di clandestinità. Quindi paradossalmente per i morti si è prospettata la possibilità di garantire la cittadinanza mentre per i vivi si è proceduto a dare ben altra ospitalità nei famigerati centri di identificazione di espulsione.
Si possono in un certo senso anche scusare i sindaci, gli assessori, rappresentanti dell’italiano medio al cui “ruolo” (per usare una parola di cui ci si riempie molto la bocca in Italia) non compete la conoscenza approfondita di politica estera, ma ai massimi rappresentanti del governo italiano questo compete e come. Eppure, in questo strano rito funebre, dove saranno assenti i corpi degli annegati da respingimento, accanto alle massime rappresentanze del governo italiano sederanno non i genitori e gli amati delle persone annegate ma i rappresentanti del governo eritreo, cioè gli aguzzini dalle due sponde. In un discorso classico delle migrazioni queste “istituzioni” rappresenterebbero le forze di “push” e “pull” (cioè le forze che “spingono” a lasciare un paese e le forze che “attraggono” verso un altro paese) solo che nel caso, dell’Italia e della sua ex colonia Eritrea perfino queste incombenze sono svolte con una grande doppiezza per cui il paese che teoricamente dovrebbe “attirare” è quello che in realtà respinge (e adesso si munisce perfino di droni per farlo con maggiore efficienza) e il paese che spinge è quello che attraverso tutta una serie di sotterfugi ci guadagna dall’esodo di massa dei suoi giovani “attirando” dentro le sue casse parte dei loro magri guadagni (le ambasciate eritree dotate in tutto il mondo di una fittissima rete di informatori esigono una tassa mensile del 2 per cento sugli introiti dai loro connazionali anche se sono fuggiti all’estero come rifugiati politici).
Quindi oggi i tombaroli nostrani e quelli del regime di Afewerki pure in assenza delle salme, dopo aver creato le condizioni che hanno portato alla morte di oltre 300 persone che cercavano la vita, procederanno con le belle parole a spogliare la parte più fulgida della loro impresa. Cioè, le “istituzioni” ben lontano dal prodigarsi in un atto di cambiamento, cercheranno con una narrazione pietistica di trafugare la narrazione di fiducia nel futuro, di progetto di realizzare le proprie aspirazioni che era insita nella fuga delle persone annegate. Il loro corpo in fuga da e in arrivo a rappresentava la possibilità di una diversa narrazione, troncata appunto non dalla natura ma dalle leggi inique degli esseri umani. La maggior parte di loro, attraverso sacrifici di intere famiglie, era alla ricerca di un posto in cui la vita non fosse compressa dai voleri e dagli interessi di un regime (un desiderio di cambiamento di condiviso da milioni di giovani in tutto il Nord Africa e Medio Oriente, appunto quelli che in altre nazioni si trovano protagonisti di rivolte e rivoluzioni).
Credo che il miglior tributo che possiamo dare alle loro speranze nel futuro è di spegnere il canale sulla dissacrazioni dei tombaroli governativi, di unirci ai fratelli e alle sorelle eritrei che venerdì prossimo organizzeranno una manifestazione a Montecitorio per far rivivere la narrazione alternativa. Ed impegnarci perché questa storia non venga dimenticata appena spente le luci dei riflettori, non solo perché quella storia merita di vivere ma anche perché non è poi una storia tanto diversa dalla nostra, è la ricerca di una diversa narrazione di quelle che possono essere le nostre vite, il nostro presente e il nostro futuro.
Pina Piccolo, traduttrice e insegnante italo-americana, vive a Imola e, tra le altre cose, si occupa di xenofobia e antirazzismo. Questo articolo è stato pubblicato anche su Alma blog
La Repubblica, 8 marzo 2013
LE TERRIBILI tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.
Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.
LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.
The Guardian, 10 settembre 2013 (f.b.)
Titolo originale: Italy's racism is embedded – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Settimana scorsa a Roma poco prima della visita del ministro Cécile Kyenge, prima esponente di pelle nera a occupare questa carica, sono stati trovati davanti all'edificio pubblico dei manichini spruzzati di finto sangue. E sparpagliati dei volantini che dicevano: “L'immigrazione è genocidio dei popoli, Kyenge dimettiti!”. Si tratta solo dell'ultimo di una serie di sconvolgenti attacchi e minacce da quando la Kyenge è entrata in carica a aprile. L'ha paragonata a un orango un ex ministro; l'ha accostata a una prostituta un vicesindaco; le hanno scagliato addosso delle banane mentre teneva un discorso.
Con la sua nomina non solo ha gettato luce sui problemi del paese con la tolleranza razziale, ma si è anche cominciato a capire quanto sia stereotipato il concetto di italiano caro e gentile, affettuoso e sorridente, capace soltanto di cercare le migliori cose. Un popolo in fondo più mediterraneo che europeo, magari un po' disorganizzato, ma sempre pronto ad accogliere tutti a braccia aperte, mai a insultare o minacciare. Un'idea riassunta dal modo di dire “italiani brava gente” [in italiano nel testo n.d.t.]. Questa è l'idea che mi ha condotta in Italia a preparare il mio libro. Perché contrastava con l'esperienza di mio nonno, della sua generazione che aveva combattuto contro l'invasione fascista dell'Etiopia, subendo poi cinque anni di occupazione italiana. Una contraddizione che mi ha portata a Roma, dove ho abitato per parecchio tempo, e dove ho fatto ricerche negli archivi dell'era coloniale.
Benito Mussolini e il suo partito fascista hanno governato dal 1922 al 1943, periodo nel quale l'Italia ha costruito il suo impero allargandosi dalla Libia, Eritrea e Somalia. Nel 1935 viene invasa l'Etiopia. Quel popolo subisce in modo devastante e contemporaneo un assalto dall'aria e da terra. Vengono usati i gas, i campi di concentramento, i massacri. Tattiche che l'Italia aveva già usato il Libia, nel corso di una brutale guerra durata trent'anni, ed eufemisticamente definita “campagna di pacificazione”.
I resoconti dalla guerra di Etiopia erano regolarmente censurati, e gli articoli enfatizzavano invece la missione civilizzatrice del paese. Il linguaggio dei pezzi è accuratamente scelto per per convincere gli italiani non solo del loro diritto ad occupare quel territorio, ma delle ottime intenzioni del gesto. Si sottolineano le realizzazioni di infrastrutture, senza dire che quelle strade, ponti, linee telefoniche, servono a migliorare le comunicazioni tra le forze militari, e costano anche vite umane per la costruzione. Certo il tentativo dell'Italia di mascherare gli aspetti sanguinari delle proprie ambizioni imperiali non è diverso da quello delle altre potenze coloniali, ma la cosa che colpisce è la quasi assenza di queste cose dai libri di storia e dal dibattito nazionale. Solo nel 1996 – 60 dopo gli eventi – il ministero della difesa italiano ammetterà che sono stati usati i gas.
La Germania ha avuto il Processo di Norimberga, il Sud Africa la sua Commissione per la Riconciliazione, ma in Italia manca del tutto quel tipo di bilancio post-bellico che obbliga a far luce sugli aspetti più gravi, e iniziare il difficile percorso di riconciliazione. Questi momenti di riflessione collettiva ci hanno dimostrato come affrontare fatti dolorosi possa contribuire a costruire una memoria condivisa, fissare un ethos, sviluppare un dialogo. Unire quelli che avevano il potere di colpire, e quanti hanno quello di perdonare. Attraverso questo tipo di linguaggio un paese si trasforma, costruisce identità nazionale. Dal momento dell'unificazione nel 1861, l'obiettivo dell'Italia è stato di forgiare unità a partire da gruppi straordinariamente diversi e spesso in conflitto. C'è una frase molto nota, attribuita allo statista Massimo d'Azeglio, che recita: “Abbiamo fatto l'Italia. Adesso dobbiamo fare gli italiani”. Qualunque carattere collettivo deriva da una consapevole e attenta costruzione. E storicamente questa costruzione comprende la pelle bianca. Quanto la presenza della Kyenge mette in discussione.
L'Italia, che le piaccia o meno, sta subendo una trasformazione. Nuovi italiani di prima e seconda generazione, e italiani da sempre, la stanno innescando: lottano contro leggi discriminatorie, e lottano non solo per una maggiore consapevolezza del passato, ma anche per le potenzialità del futuro. C'è speranza, ma molta strada da fare. Ricordo di una cena a Roma insieme a degli amici e colleghi. L'occasione festosa fu guastata da un commento urlato a proposito del colore della mia pelle, condito da allusioni sessuali. Gli amici attorno a me erano esterrefatti. Mi guardai attorno, e c'era un anziano che mi faceva l'occhiolino. Alle mie proteste rispose con una risata e sollevando le mani. E immediatamente tornò alla sua conversazione, ignorandomi.
Se non si fosse fatto caso a quel che aveva detto, la scena poteva sembrare quella di un piccolo equivoco da parte di un simpatico signore, e una reazione un po' esagerata. Insomma un altro italiano bonaccione, uno della “brava gente”. Certo gli attacchi alla Kyenge sono molto più violenti: difficile vederci l'italiano gioviale. Ma il mito resiste, finché non si interviene in qualche modo contro i politici e i gruppi che ne sono responsabili. Ci deve essere una riflessione nazionale che coinvolga tutti. Ascoltato dell'ultimo insulto alla Kyenge, ho sentito un'amica italiana di origine somala per chiederle cosa ne pensa. “Questo è il mio paese – mi ha risposto – e lavoriamo per cambiarlo. Ora più che mai l'Italia ha bisogno di persone come me”.
Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg un'intera cartella raccoglie scritti su "italiani brava gente". In particolare vi raccomando gli scritti di Nello Aiello, Angelo Del Boca e moltissimi altri che scoprirete sfogliando le pagine dei sommari di quella cartella.
Inversioni semantiche:Oggi si chiamano “benpensanti" perché pensano male e si comportano peggio: i razzisti di casa nostra.
La Repubblica, 26 agosto 2013
INSULTARE Cecile Kyenge è diventato una forma di neoconformismo. Bastano una buona dose di razzismo volontario o involontario; una notevole mancanza di fantasia; e una pagina Facebook. Di suo il vicesindaco di Diano Marina, signor Cristiano Za Garibaldi (Pdl) ci ha messo un sovrappiù così surreale da risultare quasi divertente: scusandosi, ha spiegato di averlo fatto perché era stressato dalle tasse.
A ben vedere, nella sua caotica autodifesa il vicesindaco dice anche qualcosa di più: è irritato perché il ministro Kyenge ha accennato (solo accennato) alla possibilità di usare qualche alloggio vuoto e inutilizzato per i senza tetto e per i nomadi. Si capisce che in una terra come la Liguria, scempiata dalle seconde case, buona parte delle quali sfitte e in vendita, l'argomento non sia molto popolare. Anche perché costringe gli amministratori liguri, compreso il vicesindaco Za Garibaldi, a riflettere sulla pluridecennale svendita del loro territorio, massacrato dal cemento. Ma sono, questi, solo dettagli, minime variazioni di un ritornello davvero monotono, quello che ha fatto del primo ministro afroitaliano il bersaglio di ogni sconcezza e di ogni sberleffo.
È già stato detto e scritto molte volte, in circostanze identiche a questa, che il bersaglio finale di queste esternazioni è il politicamente corretto, cioè quell’insieme di consuetudini e di inibizioni linguistiche utili a non offendere le minoranze razziali e non solo. Nato non per caso negli Stati Uniti, Paese che prima e più di ogni altro ha dovuto fare i conti con una composizione sociale multietnica e multireligiosa, una colossale immigrazione, le difficili convivenze che ne conseguono, le incomprensioni, gli scontri di sensibilità.
Per quanto ipocrita, e spesso foriero di neologismi davvero goffi, il politicamente corretto discende da un’intenzione virtuosa, che è quella di far convivere le diversità, di renderle governabili. È esattamente per questo — non certo per scrupoli lessicali ai quali in genere non sono aduse — che le destre populiste di mezzo mondo, quella italiana in primo luogo, lo odiano. Perché lo vedono come il sintomo più evidente di una volontà di convivenza che non condividono e non vogliono. E così come per Bossi chiamare gli africani “bingo bongo” non era solamente una manifestazione del suo razzismo privato, ma anche un modo per far sapere ai suoi elettori terrorizzati dall’immigrazione e dal “mondialismo” che finalmente in Italia si poteva dare libero sfogo a qualunque fobia sociale, e anzi farne uno strumento di consenso e di governo; allo stesso modo l’avvento sulla scena politica di Kyenge è stata un’occasione imperdibile per chiarire una volta per sempre che no, un ministro nero non fa parte delle cose tollerabili.
Più in generale, insieme al fragile tappo del politicamente corretto made in Italy, saltato ormai da tempo, sono le buone maniere nel loro insieme a risultare di impiccio alla destra populista. Come molte delle regole in vigore, sono imputate di imbrigliare i cosiddetti “umori popolari”. Rifarsi alla orgogliosa maleducazione fascista, turpiloquente e manganellatrice, è probabilmente congruo ma rimanda troppo indietro nel tempo. Bastino, come esempio corrente, le interruzioni e le urla nei talk-show, il sorriso di scherno e lo scuotimento della testa mentre parla l’avversario, la totale mancanza di contraddittorio politico nel ventennale (e rudimentale) soliloquio berlusconiano, la titolazione incredibilmente becera e aggressiva dei due principali quotidiani di destra, l’odio di classe per “gli intellettuali” che parlano difficile, per la cultura “che non dà da mangiare”, nonché (cito dalla pagina Facebook del vicesindaco di Diano Marina) per “i benpensanti”.
Parola che, usata in quel contesto, e da una persona che ha appena insultato Cecile Kyenge, colpisce molto. Il termine “benpensanti” tanti anni fa serviva per indicare i borghesucci timorati e baciapile, quelli che votavano per la Dc e per i suoi alleati, e che oggi probabilmente votano per il vicesindaco di Diano Marina, il Pdl e la Lega. Oggi la parola viene torta al punto da indicare quelli che non ritengono normale né giusto insultare “i negri”, e ancora si sforzano di chiamarli “neri” o “africani” o “afroitaliani” (è il caso della signora Kyenge). Vedi come mutano i tempi: l’antirazzismo è nato rivoluzionario e per tanti versi lo è ancora, dovendo risalire una potente corrente contraria. Ma oggi i suoi nemici di destra, per deriderlo, per liberarsene, per non farci i conti, lo liquidano come “benpensante”.
La Repubblica, 24 agosto 2013
MAI registrata a memoria d’uomo cotanta sensibilità umanitaria della destra italiana di fronte alla piaga del sovraffollamento nelle carceri. Nel novembre 2002 non bastò l’appello rivolto da Giovanni Paolo II davanti alle Camere riunite per convincere il governo Berlusconi a promulgare un atto di clemenza nei confronti dei detenuti. Né si ricordano pressioni in tal senso dai cattolicissimi ciellini riuniti a Rimini, dove quest’anno scrosciano applausi per i ministri Mauro e Cancellieri fautori di un provvedimento d’amnistia.
Per la verità un indulto fu poi approvato nel luglio 2006 su iniziativa del governo Prodi, che ne pagò per intero il prezzo d’impopolarità, anche perché la destra, per votarlo, ne impose l’estensione a reati per cui era sotto processo, guarda un po’, Silvio Berlusconi. Il quale, ritornato alla guida del Paese, introdusse nuovi reati (come quello di clandestinità) e aggravi di pena, che contribuirono in maniera determinante all’abuso della custodia cautelare e al sovraffollamento incivile delle nostre carceri. Fino alla condanna della Corte di giustizia europea; del tutto ignorata dai forcaioli che oggi si riscoprono estimatori di Pannella, pronti a firmarne i referendum e a garantire una corsia preferenziale per l’amnistia che esimerebbe il loro leader dall’anno di detenzione cui è stato definitivamente condannato.
Avvertiamo quindi una speciale viltà in quest’ultima, ennesima trovata che mira a trasformare un atto di clemenza – per sua natura rivolto a mitigare la pena di una moltitudine di persone colpevoli ma derelitte, precipitate all’ultimo gradino della scala sociale – in ossequio alla prepotenza di un oligarca che vorrebbe imporsi al di sopra e al di fuori dello stato di diritto. Il ministro Lupi ora smentisce che sia all’ordine del giorno del governo una tale oscena strumentalizzazione della vergogna in cui versano le carceri: deve essersi reso conto che il “no” secco del Pd rende impossibile una maggioranza parlamentare favorevole a un’amnistia ad personam.
Ma nel frattempo è stato davvero imbarazzante udire le voci di tanti forcaioli del Pdl salutare con favore l’improvvida proposta della ministra della Giustizia e del ministro della Difesa.Quest’ultimo, Mario Mauro, giunge a definire impossibile una riforma della giustizia, nel senso della malintesa pacificazione, «senza un gesto di clemenza, cioè l’amnistia». Così Mauro la missione dell’esecutivo di larghe intese si estenderebbe fino a trasformarlo in governo di “riconciliazione nazionale”. Già in passato, senza esito alcuno, fu prospettata una soluzione politica di vicende drammatiche che avevano gravemente colpito la comunità nazionale: se ne parlò per il terrorismo politico degli anni Settanta e per la Tangentopoli degli anni Novanta. In entrambi quei casi si trattava di affrontare piaghe dolorose, lutti e ladrocini, che avevano però a che fare con comportamenti devianti di natura collettiva, purtroppo assai diffusi nella nostra società. Alla fine la soluzione politica risultò improponibile perché cozzava con le regole fondamentali dello stato di diritto.
Ma è davvero singolare che Mauro non si renda conto della differenza sostanziale fra quelle devianze estese e il caso eminentemente personale, individuale, con cui si misurano oggi la giustizia e la politica: la responsabilità penale di un singolo cittadino, per quanto potente e prepotente egli sia.
Stiamo trattando il caso di un oligarca che frodando il fisco ha sottratto centinaia di milioni all’erario pubblico e danneggiato gli altri azionisti della sua stessa azienda. La propaganda cui si assoggettano i fautori della soluzione politica tende a presentare come vittima un uomo di governo che – per arricchirsi e costituire riserve di denaro all’estero – ha recato danno allo Stato che si era impegnato a servire.
Si prova imbarazzo a elencare – prima dell’amnistia ad personam
– gli altri innumerevoli sotterfugi escogitati giorno dopo giorno per sottrarre Berlusconi alla condanna inappellabile comminatagli il 1° agosto scorso. La richiesta di una grazia presidenziale. La commutazione della pena detentiva in sanzione pecuniaria. La pretesa superiorità del Parlamento rispetto a una sentenza definitiva della Cassazione. La richiesta sovversiva di mantenere capo politico della lista elettorale, ai sensi della legge Calderoli, un cittadino privato dei diritti politici. La non retroattività della decadenza automatica dai pubblici uffici del parlamentare condannato, sancita meno di un anno fa dalla legge Severino. E infine, più beffardo che mai, il dubbio di costituzionalità adombrato sulla medesima legge Severino che pure il Pdl aveva votato in Parlamento senza alcuna obiezione. Ha proprio ragione Cirino Pomicino: ce ne sarebbe abbastanza perché Berlusconi licenzi gli avvocati che paga profumatamente e che per giunta ha fatto eleggere in Parlamento, se solo ora scoprono di aver votato una legge anti-corruzione incostituzionale!
La contraddittoria, grottesca sequela di escamotage dalla vita breve con cui il Pdl cerca di mascherare la pretesa dell’impunità per Berlusconi, comprova la natura eversiva della sua leadership e non trova appigli nelle regole dello stato di diritto. Al massimo riusciranno a strappare ancora qualche settimana di dilazione prima che la pena diventi esecutiva e comporti la decadenza dell’evasore fiscale dal suo incarico pubblico.
Ma certo la strumentalizzazione del dramma delle carceri, con la proposta di amnistia, appare, fra tutte, la più detestabile delle furbizie. Maldestra, perché l’approvazione di una legge di amnistia richiede tempi lunghi. Odiosa, perché abusa della sofferenza altrui per il vantaggio di un impunito.
a Repubblica, 23 agosto 2013, con postilla
Dopo aver per mesi insultato il ministro Kyenge, nei giorni scorsi la Lega ha deciso di promuovere un referendum per abolire il ministero dell’Integrazione. In verità la Lega ha da anni agito consapevolmente per abolire l’integrazione degli immigrati. Il linguaggio cruento, il terrore sparso tra la popolazione autoctona, le leggi promulgate quando era al governo hanno un comune denominatore: impedire una qualsiasi forma di integrazione. Bene ricordarsi di quando l’allora ministro degli Interni Maroni, in compagnia del ministro della Difesa La Russa, preconizzava sbarchi biblici dal Nordafrica, con due milioni e mezzo di lavoratori stranieri pronti a sbarcare dalla sola Libia. Ci sarebbero voluti almeno 12.500 barconi (quando oggi l’intera Marina militare italiana non dispone di più di 50 navi), con 200 persone a bordo ciascuna, roba da rendere il canale di Sicilia più ingolfato del grande raccordo anulare nelle ore di punta. A cosa serviva sparare cifre alla cieca, prive di qualsiasi riscontro con la realtà, se non a mobilitare gli italiani contro le legioni straniere? Bene ricordare che da allora sono sbarcate in Italia in più di tre anni circa 60.000 persone, molte delle quali sono poi emigrate altrove o tornate in patria.
La legge Bossi-Fini, che oggi Lega e Pdl difendono strenuamente, non impedisce certo l’immigrazione clandestina, ma sembra fatta apposta per far permanere illegalmente decine di migliaia di immigrati nel nostro Paese, una condizione spesso contigua al coinvolgimento in attività criminali, mentre gli immigrati regolari hanno tassi di criminalità in linea con quelli della popolazione italiana. La riduzione della criminalità e della popolazione carceraria straniera (dunque dei costi della detenzione a carico del contribuente) passano proprio attraverso la regolarizzazione.
Uno studio condotto dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti (www.frdb.o rg) mostra che coloro che si sono visti rifiutare la domanda di regolarizzazione nel “click day” del 2007 solo perché sono riusciti ad accedere al sito del ministero degli Interni pochi secondi dopo le 8 e 29 (a Milano) o le 8 e 10 (a Napoli) hanno tra il doppio e il triplo della probabilità di commettere reati gravi nell’anno successivo rispetto a coloro
che si sono visti accettare la domanda. Sono da noi e non possono lavorare. Di qualcosa dovranno pur vivere… L’integrazione è quindi fondamentale per gestire meglio l’immigrazione, per renderla non solo economicamente (lo è già, dato che contribuisce a più del 10% del nostro reddito naziona-le), ma anche socialmente sostenibile. Da quando è iniziata la crisi, i flussi in entrata, gli arrivi di immigrati, sono fortemente diminuiti (attorno al 10 per cento in meno all’anno) e quelli in uscita sono aumentati (quasi +20% nel 2012). Per questo oggi è fondamentale concentrarsi sull’integrazione di chi è già da noi. Non è detto che sia necessario un ministero dell’integrazione, soprattutto se privo di risorse e di poteri come quello creato con un forte connotato simbolico dal governo Letta. Più che un ministero serve una politica dell’integrazione. Dovrebbe reggersi sulla concessione di permessi di soggiorno a tempo indeterminato (al posto dei permessi tutti a breve termine della Bossi-Fini) per i minori stranieri (anche di irregolari) e per tutti quegli immigrati che hanno mostrato di volersi integrare. Servirà anche ad attrarre immigrati che investono nell’integrazione, dunque nel nostro Paese. Dovrebbe questa politica anche favorire in tutti i modi l’accesso all’istruzione da parte degli immigrati di seconda generazione, senza richiedere in alcun modo l’esibizione del permesso di soggiorno da parte del minore o del suo genitore. Dovrebbe anche permettere allo straniero legalmente soggiornante l’accesso a posizioni nella pubblica amministrazione al pari dei cittadini italiani, quando oggi invece gli immigrati di seconda generazione non possono partecipare ai concorsi pubblici. A proposito, perché il ministro Kyenge non ha detto nulla quando paradossalmente il disegno di legge europea varato dal suo governo ha, per un errore materiale, finito per escludere dall’accesso al pubblico impiego molti immigrati legalmente soggiornanti in Italia o che hanno acquisito titoli di studio da noi? Infine, bisognerebbe rimuovere una serie di ostacoli burocratici all’acquisizione della cittadinanza, ad esempio assimilando a questi fini gli anni di residenza legale a quelli di iscrizione all’anagrafe. È possibile farlo anche agendo sui soli provvedimenti attuativi. Non c’è bisogno di grandi proclami e di nuove leggi con il loro inevitabile strascico di demagogia e di polemiche, alla ricerca di un qualche dividendo elettorale.
Postilla
Postilla
D’accordo. Ma forse bisognerebbe intendersi su che cosa significa “integrazione”: Significa italianizzare che viene da altre culture, oppure rendere l’Italia un paese nel quale molte culture convivono e si arricchiscono contaminandosi?. Io propendo per la seconda concezione. Forse perché sono napoletano e so che la storia del mio popolo è stata quella della contaminazione; e forse perché so che la grandezza degli USA non è nata dall’aver fatto diventare olandesi o svedesi gli immigrati calabresi veneti britannici francesi kenioti cinesi…
La Repubblica, 13 agosto 2013
Il pregiudizio non è innocuo. Il suo braccio armato è il razzismo, un’ideologia che unisce gli uguali contro i diversi e che mobilita parole e, quando può, il potere della legge per realizzare il piano di ripulire la società degli indesiderati. Un’ideologia che miete adepti con facilità perché facile da coniugare, elementare ed esprimibile con le parole dell’ignoranza ordinaria, istintiva. Scriveva John Stuart Mill nell’introduzione del Saggio sulla soggezione delle donne
(1869) che l’idea che la donna sia inferiore nell’intelletto e nelle capacità è così diffusa e radicata da apparire a tutti (perfino alle sue vittime) naturale: poiché istintiva e irriflessa, essa deve essere naturale! Diversamente come potrebbe annidarsi con tanta spontaneità nelle menti di milioni di persone?
È vero proprio il contrario: quel pregiudizio è una costruzione sociale, tutto fuor che naturale e spontaneo. Creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderle – questo il vero obiettivo – così spontanee da farle accettare senza sforzo. Lo stesso accade con tutti i pregiudizi: l’eterosessualità è la condizione naturale; la razza bianca è naturalmente superiore; il genere maschile ha una naturale disposizione alla leadership; i settentrionali sono naturalmente più intraprendenti ... e si potrebbe continuare, con una lista davvero lunga al punto che perfino tra gli uguali salterebbe fuori prima o poi una ragione di discriminazione. Si parte dall’umanità per cercare le forme inferiori e si arriva alla gente del proprio villaggio, tra la quale certamente albergano dei reietti. La logica del razzismo è quella dell’esclusione e si diffonde a macchia d’olio, per cui non si finisce mai di escludere.
La pericolosità del razzismo deriva dalla sua facilità di attecchire, alimentato da ignoranza e rifiuto di riflessione. È una gemmazione della pigrizia mentale, il consolidamento di un’atavica tendenza ad orientarsi nel mondo senza troppo sforzo. A Zurigo, nella civilissima e bianchissima Svizzera, qualche giorno fa la star della televisione americana (e una delle persone più ricche degli Usa), Oprah Winfrey è stata trattata come Julia Roberts in Pretty woman: voleva acquistare una borsa da 28mila euro e si è sentita rispondere che era troppo costosa per lei, che avrebbe potuto comprare l’intero negozio. In Italia, continuano gli attacchi e gli insulti feroci al ministro Kyenge.
Il pregiudizio vive di inettitudine mentale e di faciloneria. Per questo rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d’accordo tra loro, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda. Proprio perché genera emulazione il razzismo non è mai un fenomeno isolato: infatti, se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione. Ecco perché quando si legge che l’ex leader della Lega Nord arringa i suoi a ricorrere ai fucili perché non si può riconoscere uno Stato che ha tra i suoi ministri una donna nera, occorre reagire. Non si possono rubricare quelle parole come un commento sbagliato, una frase infelice, un’uscita propagandistica folcloristica: il razzismo non è mai innocente. E umilia tutti.
Il manifesto, 30 luglio 2013
Gli insulti alla ministra dell'Integrazione Kyenge, ma anche le offese alla presidente della Camera Laura Boldrini e le violenze quotidiane contro le donne. «E' come un coacervo di tutti i pregiudizi e soprattutto della relazione machista con le donne» osserva Nadia Urbinati, politologa e docente di Teoria della politica alla Columbia University di New York. Non proprio stupita dall'impennata di episodi di razzismo delle ultime settimane. «E' da diversi anni ormai che parliamo e scriviamo di razzismo in Italia. Io ricordo alcuni anni fa, all'inizio del governo Berlusconi, numerosi casi di razzismo nei confronti degli immigrati, la campagna contro gli illegali e i boat-people. C'è stato un processo di consolidamento di pratiche e pregiudizi che è andato insieme alla depoliticizzazione delle relazioni pubbliche, rendendo la società più permeabile al razzismo.
Va bene, stiamo raccogliendo i frutti di venti anni di politica leghista sull'immigrazione. Ma il ministro Kyenge viene presa di mira in quanto donna e nera.
Ritengo che i pregiudizi si siano rafforzati in questi anni insieme alla decadenza della cultura civica e politica, perché il linguaggio si è privatizzato; invece che cittadini che si relazionano come estranei in uno spazio pubblico, ci scambiamo opinioni personali, le quali si accavallano senza cura alla forma del linguaggio, al fatto che esso può offendere e far male. Parlerei di decadenza del linguaggio della politica e di egemonia pubblica di modelli soggettivi di comportamento. Non mi stupisce per niente in questo senso il legame donne e etnia. Anche nella cultura americana è così. I pregiudizi si attraggono l'un l'altro, si accumulano. Negli Stati del Sud degli Stati uniti, o nella zone del Midwest dove è più forte il radicamento del partito repubblicano, questo connubio tra cultura contro l'affermative action, cioè contro le pari opportunità, si coagula con i pregiudizi contro i neri e tutte le minoranze che reclamano un trattamento comparato alla loro condizione di svantaggio.
Ma il fatto che Kyenge oltre a essere nera sia una donna di governo influisce? Dopo l'elezione di Obama in America, nel 2008, aumentarono le aggressioni nei confronti dei neri. Fa paura un nero che ha potere?
Sì che fa paura. Io ricordo che appena si comprese che Obama stava sopravanzando Bush alcuni gruppi legati al partito repubblicano (poi confluiti nel Tea Party) cominciarono a diffondere dubbi sulla sua identità americana. Dichiarandolo non americano, lo si decretò escluso, ma anche un nemico totale se provava a scalare le istituzioni dello Stato. Per i razzisti del Tea Party non era concepibile avere un presidente che fosse nero e americano. C'è quasi un'idea incorporata nel pregiudizio che chi è oggetto di pregiudizio appartiene a un sotto non a un sopra, quindi non può diventare parte della leadership politica. Quando questo succede è un motivo di scandalo. Anzi, provoca la perdita di autorevolezza delle istituzioni. Un ministro nero vuol dire che il ministero ha meno valore. Per anni (e ancora oggi) questo è valso anche nel caso delle donne.
E questo si riflette anche sul ministro Kyenge.
Certo perché è nera e donna, un "difetto" dal quale, oltretutto, lei non si può emancipare. Essere nera e donna intacca le istituzioni dello Stato.
Tra le donne finite nel mirino c'è anche la presidente Boldrini.
Come tutti coloro che difendono una cultura dei diritti contro la non-cultura della sopraffazione pregiudiziale.
Non è la prima volta che in Italia abbiamo un presidente della Camera donna. Penso a Nilde Iotti e Irene Pivetti. Eppure non hanno scatenato gli attacchi che adesso è costretta a subire la presidente Boldrini.
Direi che i tempi erano diversi. Entrambe le precedenti due presidenti si collocavano in un'Italia che non aveva ancora questa forte presenza multiculturale e multietnica. Ora invece abbiamo una situazione in cui queste espressioni di diversità hanno addirittura voce politica nello Stato. Quindi difendere Kyenge, come ha fatto la presidente Boldrini, significa esporsi a due rischi: essere oggetto di offese come donna e come sostenitrice di posizioni che per chi ha pregiudizi razziali sono insostenibili.
Ma cos'è che fa più paura: l'essere donna o l'essere neri?
Qui in Italia l'essere neri. Tuttavia l'attacco alle donne è gravissimo e rientra nello stesso discorso sul razzismo; un nuovo esempio di debolezza del cosiddetto mondo maschile, prepotente e violento.
Questi episodi sono l'espressione di una minoranza becera oppure su certi temi è proprio il sentire nazionale che sta cambiando?
Guardi io non so quantificare quante persone si identificano con simili atti, però il nostro paese ha subito profonde trasformazioni dopo tre decenni di influenza nella cultura popolare dalle televisioni commerciali, che hanno formato intere generazioni imponendo un linguaggio spesso molto povero e soprattutto inadatto a dialogare ma pronto invece a pontificare e asserire. Modi del discorso diffusi anche in politica. E questi episodi di razzismo sono così ripetuti e continui che viene quasi da pensare che quel che si dice, la condanna di questi fatti, non abbia presa, non abbia più influenza.
Come vede il futuro?
Non lo so. Penso però che questa situazione di blocco che stiamo vivendo, questa alleanza politica anomala deve finire prima possibile, perché non stimola la chiarezza delle idee, non lascia la libertà agli attori di essere se stessi. Perché c'è un veto incrociato, per cui non si può fare tutto ma non si può nemmeno dire tutto. Se in politica non esistono più differenze, che sono il sale della politica, esse si travasano altrove. Vanno a finire nei rapporti privati, diventano divisioni identitarie di etnie e genere. Ecco una ragione non secondaria della recrudescenza del razzismo e della violenza contro le donne. Certo, sarebbe sbagliato pensare che questa è una ragione del razzismo - non è questo che voglio dire. Voglio semplicemente mettere l'accento sul fatto che l'impotenza della politica, il blocco della dialettica politica o tra avversari politici, rende più agevole aprire nuovi terreni di contrapposizione, dove non le idee ma i pregiudizi hanno cittadinanza.