loader
menu
© 2024 Eddyburg

Intervista di Tommaso Di Francesco allo storico del nostro colonialismo Angelo Del Boca: «Il governo può chiamarlo sanitario-militare ma è un intervento di soldati a terra. Ci infiliamo dentro la seconda guerra civile libica, in un imbuto rischioso e senza fine». Il manifesto, 14 settembre 2015


Abbiamo rivolto alcune domande sull’attuale crisi libica e sul ruolo dell’Italia ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italianio, esperto di Libia e di Africa e autore tra l’altro di una biografia di Gheddafi.
Ieri alla camere, la ministra della difesa Pinotti e il ministro degli esteri Gentiloni hanno presentato il piano del governo sulla Libia, subito operativo. Il Parlamento è ridotto ad ascoltatore, non decide nulla. E la portaerei Garibaldi con il suo carico è già partita.

Interverremo in Libia con una missione «sanitaria-militare» che si chiama Ippocrate, con «60 sanitari tra medici e personale infermieristico» ma con «135 uomini a supporto logistico e 100 parà» della Folgore, più i droni e i cacciabombadieri della base di Trapani, più la portaerei Garibaldi. Che ne pensi?
«Direi che siamo in guerra e stavolta con i soldati sul terreno, non si tratta più solo di raid dall’alto dei cieli. E un intervento sanitario dovrebbe essere caratterizzato da una presenza militare più che ridimensionata, assolutamente diversa e di supporto. Qui è proprio il contrario: i militari appaiono predominanti. In genere si comincia così, poi si aggiungono sempre altri soldati».

Che cosa è accaduto perché si arrivasse a questa decisione, in qualche modo annunciata e che diventa operativa nel momento, ci pare, peggiore visto che in Libia è sempre più caos e guerra civile?
«È accaduto che la battaglia di Sirte non sta andando come si immaginava. Da più di un mese la città è data, anche dai media, per caduta e nelle mani delle truppe fedeli a Tripoli, e invece le milizie dello Stato islamico non cedono. Si è sottovalutato la struttura quasi blindata della città, costruita così da Gheddafi come la nuova Tripoli ma turrita e di cemento.

«Tra l’altro continuiamo a presentare le milizie di Misurata che combattono a Sirte come l'"esercito libico", quando sono solo alleate del governo di Al Serraj, ora internazionalmente riconosciuto anche dall’Onu, un governo che non controlla nemmeno tutta la Tripolitania e che si è insediato solo per chiedere l’intervento internazionale e perché vuole l’unità nazionale. Probabilmente è il peggior momento anche per Serraj».

Qual è la situazione sul terreno e quali schieramenti si contrappongono?
«Dall’inizio di agosto è cominciata una nuova fase della guerra. In appoggio a Serraj sono intervenuti anche gli Stati uniti con massicci bombardamenti aerei che, vista la struttura della città di Sirte, a quanto pare non hanno sortito l’effetto definitivo, nonostante le tante perdite dell’Isis. Misurata, dove arrivano centinaia di feriti, morti e vittime dei combattimenti, è sempre più in prima linea, non è solo una retrovia di intelligence, vettovaglie, addestramento, ospedali.

«È iniziata ora la fase concreta della spartizione della Libia. Perché intanto, dall’altra parte, la Francia, che ha mire sulla Cirenaica e sul Fezzan collegato alle crisi africane di Mali, Ciad e Niger, insieme all’Egitto di Al Sisi, tanto esaltato da Matteo Renzi, stanno appoggiando anche militarmente il generale Khalifa Haftar, il leader militare del governo di Tobruk. Che non riconosce quello di Tripoli e che rivendica il fatto che, un anno fa, era proprio l’esecutivo della capitale della Cirenaica ad essere riconosciuto dalla comunità internazionale che diffidava degli islamisti al potere a Tripoli.
«Proprio in questi giorni il generale Haftar, mentre continua a bombardare Derna in mano alle milizie di Al Qaeda, è all’attacco e sta conquistando città e porti petroliferi libici decisivi per la continuazione della guerra e del controllo futuro della Libia. Come di ogni possibile trattativa diplomatica sul campo. Ecco perché inviare ora tanti soldati a copertura di una esigua missione sanitaria vuol dire partecipare alla seconda guerra civile libica, infilarci dentro un imbuto rischioso e senza fine».

Ma il governo italiano sostiene che l’invio dei nostri soldati è un «obbligo morale» perché non possiamo permettere che al di là delle sponde del Mediterraneo si rafforzi lo Stato islamico
«È un’affermazione perfino giustificabile. Se non ci fosse di mezzo il piccolo particolare davvero immorale: che l’Italia con i partner della Nato, in primis la Francia e in seguito gli Stati uniti, sono responsabili del disastro dello Stato libico. Qualcuno dovrà prima o poi ammettere ufficialmente il fallimento dell’intervento militare internazionale della Nato nel 2011 che abbatté Gheddafi garante almeno dell’unità del Paese. E che, pochi giorni prima di venire ucciso, ammoniva che se fosse stato eliminato lui allora sarebbero arrivati i veri nemici integralisti dell’Occidente.

«Siamo in guerra. Stavolta non la chiamano umanitaria ma sanitaria-militare, "Ippocrate", c’è una evoluzione. La chiamassero come vogliono, di fatto stiamo partecipando della spartizione della Libia e delle sue preziose fonti petrolifere».

Un appello di Eugenio Scalfari su Repubblica ci sollecita a pubblicare questo reportage, pubblicato domenica scorsa. Si tratta di uno scandalo denunciato da tempo da chi segue le vicende delle migrazioni, di cui trovate ampia documentazione su questo sito (vedi in calce). L'Espresso, 12 settembre 2016

Fabrizio Gatti è entrato clandestinamente nel Centrodi accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Dove la legge nonesiste.. Ecco il suo diario
La quinta notte apro la portasull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa earroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa didecine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Nientelenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte dilana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sonosparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischiodi calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica dadue fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare alavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage.

No, questa non è una bidonville. È unghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centrod’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce nesono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengonosfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” dellaLega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”,amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione,incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona,quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto intre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze delmomento.

La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto igangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da farprostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria adasciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion perl’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non lapolizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico delcancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille.Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nellarecinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso,una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Unasettimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il miodiario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato.


Telecamere e buchi nella rete

Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazionedi fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianuraai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza.Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’èun varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entranoaddirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritornodalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungola pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sonousciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Unastratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltorifoggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli èarrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hannoaperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notteil riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttostointegralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio chevende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista,appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione delGhetto di Stato.

I fari sono puntati a terra e letelecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Ilprimo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati.Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri perdue, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello.Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirlabrutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazzacentrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moscheae i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondocapannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in unadozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte,alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietrocancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altraschiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lousano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che ilsecondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lìvigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione delCara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornatadi sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso possoentrare.

I fantasmi respinti

Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah èil più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro ediciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musicaafro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fannoprostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommatelungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlavacosì forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamanoalla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci deimuezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’iniziodel massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduticome schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche dicerti fanatici islamisti di oggi.

Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova adormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro nonc’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman,24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumacheaggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani lecomprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Maservono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiestoasilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositoreperseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere idocumenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so.E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento dicollaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano dellalotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere miasorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. Laterra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi èquest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No.«Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie.«Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anchemangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tuvieni in moschea?».


Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare neipochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire allapovertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale proteggesoltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali emaliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Sulemanverrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia difantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori.

Gli schiavi in bicicletta

Un altro giorno è passato. È laseconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il lorotormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è giàla coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con lebottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmenol’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricolturapugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedentiasilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporalinigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista:per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro algiorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capibianchi, gli sgherriitaliani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Cosìmolti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli.

Le biciclette nel Cara sono groviglidi manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcunonelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsirubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, ilguadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Statovengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata,piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto ealloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensionetra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati,disposti a lavorare a meno.

Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti arifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri seraquasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti dalavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualchecompagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente adormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietrol’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spallail muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio comebersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti.
Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo,in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta èrespinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire “cumpà”.Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati,analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa allacooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari,una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinatosi aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba.

Le spie dei gangster nigeriani


«Ehi Steve, South Africa, come stai?», chiede in inglese Nazim. Ha 17 annianche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Vieneda Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dallanotte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta dellamensa, una scatola di carne, una mela, due panini. «Steve, prendi», hainsistito: «Sono piatti avanzati oggi». Vuole raggiungere l’Inghilterra o laGermania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europeechiuse. «Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca.Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amicia bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?». È l’una di notte.Meglio non esporsi troppo.

Precauzione inutile. La polizia non si è mai fattavedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco conla faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibiliconfini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corsodella notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con duepakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato azona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento,arriva lui. «Cumpà, che succede?», chiede il picciotto in italiano. Puzza dibirra. «Cumpà, di dove sei?». Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà siarrabbia: «Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amicinigeriani da fuori, tu passi dei guai». Entra nel suo loculo. Riappare con unmaterasso sporco. «Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai». Ora si sistema sulsuo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso.Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. «Cumpà, allora mi dici checosa fai qui?».

I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lohanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato finoa farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con unmachete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga,il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. «Io non parloinglese», torna ad arrabbiarsi Cumpà: «Ho capito: tu sei un poliziotto. Adessochiamo gli altri». Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per iltelefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: “Vaivia” seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sulmaterasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanerenel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia.Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo delmuezzin, un connazionale viene a scuoterlo: «Madou, la preghiera». Non simuove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco.

L'assalto dei cani randagi

Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondocui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Allaprefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questoGhetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato dicani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori.Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono inbicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le lorosagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiamaun’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono unadecina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentementetornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro.

Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una seraparliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzalevicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra.È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme allaPista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare iprezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani paganobene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiegaNasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In seianni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito unabella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiestoasilo in Italia».


Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Unamacchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per unanotifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Leragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se sianoospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavatanell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causadell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. Escompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le lucicolorate, la palla di specchi al centro del soffitto.

La corrente la rubano dalla rete di illuminazionepubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, aloro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attentiai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e incostruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonvillee il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro dabanalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bellascarica.

Benvenuti all'inferno


Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbeessere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovonascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo piùsicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato alreggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghierasfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Siricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dalbuio: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...». Parte una fila dibraccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: «Viviamonel sogno di poi...». Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengonotutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere.Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato difogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono albuio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce deifari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, maancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Unragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata allacolonna al centro del salone saluta beffarda: «Benvenuti». Un orsacchiottosotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita ètutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchiotelevisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suoorizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti.

Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati comematerassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando dueuova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e unrotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, unpiatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nelcortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo diCumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’ariaintorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. Èstata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchiodi cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne egli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro diaccoglienza.


Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sonouscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastranoprima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire anon far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio,questa è una trappola.

Lo sconto sulla dignità

I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiatodei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce nesono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane,accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllanogli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestiniper i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hannostrappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catenaalimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire alloscoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, prepararei richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, irisultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un repartooncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadinio moriremo da clandestini?

Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noiitaliani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti perpensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale arendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova giànella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribassopercentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra dipartenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo”di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassatola diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. Lalogica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefetturadi Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coopsapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunqueil ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti diqualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senzagara. Così perfino lo sconto è rimborsato.

La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per contodi “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo.Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazioneannuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono allamissione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categoriepiù bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce èaccesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti peri campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonnacentrale, che martella la vista: «Benvenuti».


Riferimenti

Su eddyburg vedi i molti articoli nella nella cartella EsodoXXI . Sulla prima accoglienza vedi in particolare l'intervento di Gianna De Masi, l'articolo di Stefano Galen Breve storia dei 35 euro , l'appello per la chiusura dei CIE, Sull'analisi della questione delle migrazioni e le risposte vedi Ospitalità e cittadinanza: un diritto e un dovere di Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici, Edoardo Salzano, e i numerosi scritti di Guido Viale ospitati in questo sito

«Qualcuno ricorderà la tragedia a Dacca nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi».

Senzatregua.it, 3 luglio 2016

L’attentato terroristico in Bangladesh, con la morte di nove italiani merita una condanna senza appello. Quella del terrorismo islamico finanziato e sostenuto per anni dai settori imperialisti per la destabilizzazione di interi paesi, che uccide persone innocenti, che vuole far piombare l’umanità in un medioevo senza precedenti. Un terrorismo che colpisce alla rinfusa, che non ha nulla a che fare con rivendicazioni progressiste e neanche lontanamente sostenibili o giustificabili, che è riflesso dell’imperialismo e non certo lotta per l’emancipazione, la liberazione dei popoli.

Ma che ci facevano tanti italiani imprenditori, o lavoratori del settore tessile in Bangladesh? L’orribile attentato di pochi giorni fa - orribile al pari di tutti gli altri attentati dell’Isis di questi mesi, in qualsiasi parte del mondo, e quale sia la nazionalità delle vittime - ha colpito diversi cittadini italiani, imprenditori o lavoratori del settore tessile. Non un caso isolato, ma una frequentazione sempre maggiore quella del sud est asiatico per le imprese tessili della penisola, che getta ormai un’ombra sul made in Italy, divenuto a tutti gli effetti marchio di sfruttamento planetario.

Nell’imbarazzo dei media e della stampa, che si sono tenuti ben lontani dall’approfondire questa questione, viene fuori ancora una volta quel legame tra le peggiori condizioni di lavoro, bassi salari, lavoro minorile, orari massacranti e un settore che è insieme all’agroalimentare il fiore all’occhiello della produzione nazionale, che vanta una forte tradizione imprenditoriale, di qualità e riconoscimento mondiale. Non è un mistero che da tempo la delocalizzazione al di fuori dei confini nazionali abbia comportato una crisi del settore e delle piccole aziende italiane delle filiere dei grandi marchi, che oggi preferiscono appaltare i propri lavori a veri e propri centri di sfruttamento, in cambio di maggiore profitto. Il Bangladesh è uno dei centri privilegiati di questo meccanismo.

«Nel periodo gennaio-febbraio 2016 - ha scritto un dispaccio dell’AdnKronos - ammontava a 274 mln il valore delle importazioni dal Bangladesh all’Italia. Oltre 271 mln di questi, quasi il 99%, è rappresentato da prodotti tessili, articoli di abbigliamento e articoli di pelle. Per altro, secondo gli ultimi dati disponibili dell’agenzia Ice, in crescita del 13% rispetto allo stesso bimestre del 2015. Non è un caso, infatti, che più della metà degli italiani morti nell’assalto terroristico di ieri sera a Dacca, in Bangladesh, lavorasse nel tessile. La Lombardia è una delle regioni dove pesa di più, in termini di ricchezza prodotta, l’interscambio commerciale con il Bangladesh, rappresentando circa il 15% del totale nazionale. Secondo gli ultimi dati disponibili della Camera di commercio di Milano, nella prima parte del 2015 gli scambi valevano 132 milioni di euro, di cui 80 di import e 52 di export, un valore in crescita del 94% rispetto a 5 anni fa, 64 milioni di euro in più. Le importazioni, che riguardano per il 97,3% prodotti tessili, hanno vissuto un boom lo scorso anno e sono salite del 30% con punte del +496% a Cremona e del +264% a Pavia.»

Qualcuno ricorderà la tragedia a Dacca nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Allora un’importante catena di abbigliamento italiana risultò coinvolta, in quanto appaltatrice di decine di migliaia di capi, inchiodata dalle foto del crollo e dalle etichette ben evidenti, nonostante un tentativo iniziale di negare ogni coinvolgimento.

Non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi. Alcune stime economiche hanno verificato che sui capi di abbigliamento prodotti tramite subappalti nel sud est asiatico le grandi marche riescano a ricavare un profitto di oltre venti volte il costo pagato alla fabbrica che esegue il lavoro. Una polo ad esempio, venduta in Italia a 80 euro ne costa appena 4, 5. Di questi una parte misera finisce ai lavoratori, pagati meno di 2 euro al giorno, nonostante le grandi rivendicazioni delle organizzazioni sindacali e operaie di quei paesi, sempre più coscienti della condizione di sfruttamento.

Per capire cosa sta accadendo in Italia basta farsi un giro nei distretti tessili di un tempo oggi ridotti a un cumulo di macerie o rilevati da aziende che usano manodopera straniera costituendo una sorta di zone economiche speciali (Prato), tollerate dallo stato, in cui le condizioni di lavoro del sud est asiatico sono di fatto importate in Italia.

La particolarità del tessile si evince da un dato che lo differenzia da altri settori industriali. Mentre le aziende italiane di meccanica, automobili, farmaceutica ecc, producono principalmente per il mercato locale , «in molti comparti del Made in Italy, invece – scrive l’Istat nel suo rapporto annuale nel 2014 – quote rilevanti della produzione realizzata all’estero sono riesportate in Italia, in particolare nei settori tessile e abbigliamento (58,2%)…» Tradotto si delocalizza all’estero una parte di semilavorati per poi apporre il marchio in Italia: il prodotto resta “made in Italy” ma la maggior parte del lavoro è svolta fuori dall’Italia, per consentire maggiori guadagni alle grandi imprese. Le piccole falliscono, o si convertono in una sorta di agenti intermedi che fanno anche loro questo tipo di lavoro, per conto di grandi gruppi, che così mascherano le loro responsabilità adducendo rapporti di terzi intermediari e la loro non diretta responsabilità.

Sappiamo cosa accade, sappiamo quanto gravi siano le responsabilità delle aziende italiane, dell’elitè della moda, e del made in Italy in tutto questo. Quando apriremo una riflessione collettiva? In Bangladesh oggi ci sono migliaia di operai sottopagati che lavorano in condizioni misere. Migliaia di Iqbal Masih, il bambino pakistano che denunciò la condizione di sfruttamento del lavoro minorile. E le imprese italiane lo sanno. E non sono lì a fare filantropia.

«Nella civilissima Parma, un delitto particolarmente efferato che non sembra attirare i riflettori come altri casi simili. Forse perché la vittima è un ragazzo tunisino, torturato e ucciso per futili motivi da un commando che ha agito sotto la guida di due "insospettabili" cittadini italiani». Il manifesto, 25 maggio 2016

Nella notte fra il 9 e il 10 maggio scorsi, una sorta di squadrone della morte, capeggiato da due individui di mezz’età, fa irruzione nel modesto appartamento di un uomo sui trent’anni. I sei, a volto scoperto, indossano guanti di lattice e sono armati di una mazza da baseball, una spranga di ferro, un martello, un tirapugni, una pinza a pappagallo, perfino un guanto in maglia d’acciaio. Non v’è dubbio alcuno, dunque, che intendano dare una lezione assai dura alla loro vittima.

Colto di sorpresa e abbandonato dall’amico ch’era in casa - forse fuggito in preda al panico alla vista dello squadrone - lo sventurato dapprima tenta di difendersi, poi soccombe alla violenza dei suoi carnefici. Così che questi, in specie i due capibanda, potranno svolgere con tutta calma l’opera di sevizie, torture, mutilazioni. Nonostante siano imbottiti, si dice, di una miscela di cocaina e alcool, eseguiranno il lavoro con meticolosità quasi scientifica: gli recidono un orecchio, gli strappano parte del naso e con la pinza gli tranciano di netto un mignolo e un alluce, che poi gettano nel lavandino.
Nella notte silenziosa del borgo risuonano le urla strazianti della vittima. Eppure per circa un’ora nessuno interviene a fermare il massacro. Infine, qualcuno dà l’allarme. Ma quando le forze dell’ordine si risolveranno a fare irruzione nell’appartamento sarà troppo tardi: il poveruomo è ormai morto. Martoriato, mutilato, dissanguato da emorragie interne ed esterne, ha patito una lunga agonia.

Ma dove diavolo siamo

Non siamo nel Cile di Pinochet o nell’Argentina di Videla, neppure nell’Egitto del generale al Sisi. Bensì, più modestamente, a Basilicagoiano, frazione di Montechiarugolo, a pochi chilometri dalla civilissima Parma, ove risiedono i due principali carnefici. Gli altri quattro della banda, operai romeni, sarebbero stati arruolati in funzione ausiliaria, per così dire. Anch’essi sono in carcere con l’imputazione di concorso in omicidio e le aggravanti della premeditazione e della crudeltà.
I due aguzzini - persone «assolutamente insospettabili», secondo le cronache locali - sono rei confessi ed è perciò che ci permettiamo di nominarli. L’uno, il 42enne Alessio Alberici, fermato la notte stessa del delitto, è un grafico e illustratore «ben noto a Parma». In quanto fumettista di un «noir d’atmosfera», lo ritroviamo, tramite la rete, tra gli ospiti «illustri» di una serata «dedicata al giallo e al mistero»: cosa che oggi suona come un terribile paradosso. L’altro, Luca Del Vasto, di 46 anni, l’ideatore della spedizione punitiva e il carnefice più spietato, è titolare di un’impresa di pulizie, ma anche gestore di un locale ben noto, il Buddha Bar di Sala Baganza: un dettaglio, anche questo, atrocemente beffardo, data l’inclinazione alla crudeltà e al sadismo di cui darà prova il barista “buddista”, che proprio all’interno di quel bar organizza il raid fatale in cui si distinguerà per le mutilazioni inflitte alla vittima.

Confinato nella cronaca locale

Nonostante questo caso non sia certo tra i più consueti e banali, è stato confinato nella cronaca locale. I maggiori quotidiani nazionali, che di solito non disdegnano la nera più truculenta, gli hanno dedicato solo alcuni pezzi nelle edizioni locali (parliamo delle versioni online). Eppure, non foss’altro che per l’efferatezza dell’assassinio, preceduto da sevizie e torture, esso presenta qualche analogia con l’omicidio di Luca Varani. E questo è stato oggetto non solo di lunghe serie di articoli di cronaca in giornali mainstream, ma anche di commenti e analisi.

Una delle ragioni di una tale sottovalutazione è facilmente intuibile. Gli ideatori e principali esecutori dell’atroce martirio avevano sì «piccoli precedenti per spaccio», ma, italiani e per di più parmigiani doc, erano considerati cittadini rispettabili. La vittima, invece, non era che un «extracomunitario»: Mohamed Habassi, di trentatre anni e cittadinanza tunisina, oltre tutto disoccupato.

Il rovesciamento dello schema privilegiato da buona parte dei media, che vuole le persone immigrate nel ruolo dei criminali, probabilmente non li ha incoraggiati a occuparsi di un tale delitto “anomalo”.
Quanto al movente, almeno quello confessato dai due aguzzini, non potrebbe essere più meschino: Mohamed non pagava la pigione dell’appartamento di proprietà della “convivente” di Del Vasto, a suo tempo preso in fitto dalla sua compagna, morta lo scorso agosto in un terribile incidente d’auto. Ma si sospetta che vi siano anche altri moventi.

Tra i posti migliori al mondo

Nel 2014 il quotidiano britannico The Telegraph ha classificato Parma al quarto posto tra i luoghi migliori al mondo per qualità della vita, sorvolando su scandali e corruzione. Comunque sia, la città del parmigiano e del Parmigianino, con la sua provincia, non ha certo portato fortuna a Mohamed, né alla sua compagna, postina di professione, lei stessa immigrata, sia pur da Trapani. E ha sorriso poco anche al loro bambino, che oggi ha sei anni: sopravvissuto all’incidente che è costato la vita alla madre, quindi gravemente scioccato, ormai orfano anche del padre, che amava molto e dal quale era altrettanto riamato.

Dopo la prima disgrazia, per decisione del tribunale, il piccolo Samir era stato dato in custodia al padre. E Mohamed, a sua volta, lo aveva affidato alle cure della nonna paterna, anche per sottrarlo a conflitti familiari e probabilmente in attesa di tornare lui stesso in patria. Il bimbo, dunque, non abita più a pochi chilometri da Parma, bensì in una località del governatorato di Tunisi. Se un giorno, divenuto adulto, fosse costretto a emigrare, chissà se aspirerebbe a tornare nella quarta città al mondo per qualità della vita.
Nonostante la vicenda di questa famiglia sia così coerentemente tragica da apparire letteraria, così struggente da non poter sollecitare altro se non commozione e pietas, e il delitto così mostruoso da lasciare attoniti, vi è chi non ha resistito alla tentazione di diffamare la vittima. L’autrice del primo articolo che Parma.repubblica.it ha dedicato al caso, invece d’interrogarsi sull’identità dei carnefici, scrive che «alcune risposte» sui «punti oscuri di questa vicenda (…) possono essere cercate nell’identità della vittima». Mohamed Habassi, infatti, «non era per nulla amato nel vicinato», cui «arrecava disturbo», tra l’altro ascoltando «musica ad alto volume». C’è da trasecolare. Se per Del Vasto è normale che non pagare la pigione possa essere punito con un tale martirio, le allusioni della giornalista rivelano nient’altro che pregiudizio verso la vittima e indulgenza verso i carnefici: Habassi se l’è cercata, in definitiva. Gli «extracomunitari» stiano attenti quando ascoltano musica: la loro vita vale così poco che rischiano d’essere suppliziati dai vicini.
Da parte del movimento antirazzista e della sinistra più “radicale”, nessuna protesta pubblica è intervenuta finora a bucare un così spesso muro di orrore, ma anche di pregiudizio e cinismo. Tuttavia, qualche piccolo barlume di solidarietà riesce a trapelare. Per esempio, alcune educatrici e altre persone che hanno conosciuto Samir in tempi migliori e lo hanno curato, protetto, amato, hanno pubblicato un appello su Parmatoday per sapere in che modo possano aiutare il bambino: «Caro piccolo, non ti dimentichiamo, ci stringiamo a te e combatteremo per un mondo in cui il denaro non valga più della vita, dell’amore, della cura verso i più deboli e i più piccoli».
Domanda modestamente antinazionalista: aver pagato 150mila euro alle famiglie dei due pescatori indiani crivellati dai colpi di mitra dei due signori Girone e Latorre è prezzo sufficiente per consentire allo Stato cui appartengono di difenderli come "eroi"?

La Repubblica, 31 marzo 2016

Un altro no. L’apertura dell’arbitrato internazionale dell’Aja su chi debba celebrare il processo ai marò per l’uccisione di due pescatori indiani è l’ennesima delusione per Roma, che alla richiesta di concedere anche a Salvatore Girone di lasciare Delhi in attesa degli sviluppi dell’arbitrato si è vista allegare l’opposizione formale dell’India. Il dibattimento prosegue oggi e ci vorrà un mese perché il Tribunale dell’Aja decida se consentire o meno il rientro, ma la speranza italiana che la richiesta fosse avallata dal silenzio assenso dell’India si è subito dissolta.

Il rientro anticipato di Girone «fino alla decisione finale» dell’arbitrato sulla competenza giuridica, attesa non prima di tre anni, ricomporrebbe una vicenda che, al di là della questione giudiziaria, è ormai estremamente scomoda per entrambi i paesi. Visto che la decisione spetta all’Aja, la soluzione sarebbe a costo zero: nessuno smacco per l’India e via libera alla ricomposizione dei rapporti incrinati. Proprio ieri, tra l’altro, il dossier “marò” è finito di traverso sul tavolo del vertice Ue-India convocato a Bruxelles con un’agenda fitta di accordi politici ed economici. La conferenza stampa congiunta di fine giornata del premier Narendra Modi, dei presidenti di Consiglio e Commissione Ue Donald Tusk e Jean Claude Juncker e dell’Alto rappresentante Federica Mogherini è saltata per evitare domande (e risposte) scomode. Ma dietro le quinte il disgelo è in corso, al di là delle schermaglie all’Aja: «Entrambe le parti si impegnano a trovare una soluzione », è scritto nelle conclusioni.

La posizione italiana espressa ieri mattina in aula dall’ambasciatore Francesco Azzarello era chiara: l’arbitrato «potrebbe durare almeno 3 o 4 anni» durante i quali Girone rischia di rimanere «detenuto a Delhi, senza alcun capo d’accusa per un totale di sette o otto anni. Un essere umano non può essere usato come garanzia della condotta di uno Stato». E visto che «abbiamo già preso l’impegno di rispettare qualsiasi decisione di questo Tribunale», che senso avrebbe accanirsi in attesa che inizi il processo vero e proprio?

La replica è una doccia fredda: la richiesta italiana è «inammissibile» perché «c’è il rischio che Girone non ritorni in India nel caso venisse riconosciuta a Delhi la giurisdizione. Non è in prigione. Vive bene nella residenza dell’ambasciatore italiano a Delhi e la sua famiglia può rendergli visita ». Insomma, per l’India sono «condizioni ragionevoli» in proporzione alla gravità delle accuse. Tant’è, la partita è in corso: l’eventuale rientro di Girone disinnescherebbe anche la miccia del rientro del collega Latorre, che a fine mese - senza proroghe - dovrebbe tornare in India costringendo l’Italia a una scomodissima resa o a una pericolosa rottura. La soluzione? Sembra averla voluta indicare proprio Delhi: «Sarebbero necessarie assicurazioni» sul rientro di Girone. Quelle arrivate fino a oggi «sono insufficienti».

Lo storico Nicola Labanca ricostruisce la nostra politica in Abissinia concentrandosi sulla vergogna delle leggi razziste: una vera e propria apartheid. La Repubblica, 25 ottobre 2015

Nell’autobiografia delle vergogne nazionali è rimasto sullo sfondo, come una fotografia imbarazzante. Italiani che non sposano le nere. Di più: non frequentano gli stessi locali e gli stessi luoghi di lavoro. E ai “meticci”, figli della colpa, impediscono ogni diritto: di essere riconosciuti dal genitore cittadino o di andare a scuola con i colonizzatori bianchi. Quello impiantato negli anni Trenta in Africa Orientale fu l’impero più razzista, più sistematicamente vessatorio e divisivo, tra quasi tutti i regimi coloniali delle potenze europee. È la tesi sostenuta da Nicola Labanca, studioso dell’espansione coloniale, nel suo nuovo libro che documenta la costruzione in Etiopia, Eritrea e Somalia di un razzismo legalizzato in anticipo di un anno e mezzo sulle leggi antisemite adottate nella penisola. Un altro colpo inferto al mito degli “italiani brava gente”.

Il saggio di Labanca ha anche il merito di sottrarre la guerra d’Etiopia alla veste un po’ stretta di impresa coloniale, collocandola all’interno di un gioco di interessi internazionali che sfoceranno nella seconda guerra mondiale. E guarda a quella vicenda anche con gli occhi di uomini e donne africani vessati dalle nostre pretese imperiali: ancora troppo poco sappiamo degli amministratori coloniali costretti a improvvisare la gestione di un impero sproporzionatamente grande, tra buona volontà, inesperienza e talvolta malafede. Una rimozione testimoniata anche dal silenzio che ha avvolto in queste settimane l’ottantesimo anniversario della guerra d’Etiopia, in un paese che ha fatto degli anniversari il nuovo totem memoriale. Certo è difficile essere fieri della legislazione che il 19 aprile del 1937 diede avvio alla istituzionalizzazione del razzismo, con il divieto di relazioni matrimoniali con gli indigeni. Una norma che allora non turbò le coscienze, in linea con “la superiorità civile e morale” dell’uomo bianco sull’uomo nero.

La norma del 1937 segnò il principio di un nuovo canone razzista che secondo Labanca ha poche analogie con il resto del mondo coloniale. Non che gli altri imperi si distinguessero per liberalità e inclusione, essendo la separazione razziale pratica quotidiana. Ma ciò che distinse gli italiani fu la traduzione in norma codificata di quella che altrove rimase una consuetudine. E in una classificazione generale di razzismo coloniale che va dal silenzio omertoso di tanti sistemi giuridici alle gerarchie razziali degli spagnoli in America Latina (fondate su un’inventata limpieza de sangre ), l’Italia si mostra molto più vicina alla «brutale semplificazione binaria del sistema sudafricano » (nel dopoguerra si sarebbe chiamato apartheid). Solo nel 1947 ci saremmo liberati di quelle leggi ingombranti. A condizione però di non parlarne più.
Per cambiare il mondo bisogna porsi anche esistenzialmente dalla parte di quelli che patiscono di più per colpa del mondo comeè oggi. A proposito del libro di Raul Zibechi "All'alba di mondi 'Altri'" , con un sintetico ricordo del colonialismo italiano.

Comune.info, 2 settembre 2015

Nota introduttiva ad “Alba di Mondi Altri. I nuovi movimenti dal basso in América Latina”, l’ultimo libro di Raul Zibechi edito in Italia da Museodei by Hermatena, 200 pagine, 15 euro

È un destino inevitabile, naturale, quello di riprodurre nei mondi nuovi società di dominanti e dominati anche dopo aver combattuto e sconfitto sistemi fondati su quella relazione di dominio? No, non lo è. C’è un modo per evitare di assumere quel veleno coloniale? Sì, deve esserci ma non sappiamo come e dove cercarlo. Sappiamo però che tutto il pensiero critico che ha ispirato le grandi rivolte del passato è stato segnato dall’eurocentrismo. L’ultimo libro di Raúl Zibechi, “Alba di mondialtri”, suggerisce ai movimenti di cercare altrove, tenendo un riferimento importante nel cammino immaginato da Fanon e percorso dagli zapatisti del Chiapas. Nella nota che introduce l’edizione italiana del libro, presentato in questi giorni: la critica all’avanguardia e alla militanza politica “dalla parte del popolo”, l’urgenza di ripensare i concetti di geografia e territorio, le radici coloniali italiane e il traffico di armi e di braccia dei giorni nostri, la disumanizzazione delle vittime, il tramonto di un’egemonia culturale e il riconoscimento di mondi altri

Non avevamo mai creduto davvero alla presenza di idee politiche corrette tra los de abajo. Nella lotta per migliorarne la condizione, avevamo sempre cercato di imporre loro le nostre. Il rigore di un’affermazione tanto cruda quanto leale, non certo inedita nella (auto)critica di Raúl Zibechi alla storia della militanza politica “dalla parte del popolo”, si arricchisce di nuovi significati. Li porta alla luce l’esperienza recente che più lo ha segnato: la Escuelita zapatista de la libertad. In questo libro la racconta nei dettagli, in modo impareggiabile.

Da molti anni Zibechi esprime avversione per le pratiche che rinverdiscono la punta dell’iceberg di quel tratto peculiare – e sostanziale – della militanza. La voglia di imporre idee ritenute giuste per il bene di altri (o di tutti) è la proteina nobile di un avanguardismo muscolare che, mascherato o meno, dilagava nelle grandi organizzazioni sociali e nelle formazioni politiche di sinistra del Novecento. L’avversione di Zibechi si fa più intensa quando la critica investe l’avanguardia nel pensiero teorico astratto. Un pensiero più o meno raffinato ma sempre sterile, perché separato dalla vita di ogni giorno e dai principi etici su cui si è scelto di fondarla. Un pensiero che spesso esprime disprezzo per le persone comuni, rinuncia a misurarsi con le spinte contraddittorie della realtà, e mira a rapide e univoche risposte snobbando la precisione e la fantasia delle domande.

Come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”

Sono proprio gli interrogativi, invece, a sostenere di solito l’urgenza, il senso profondo e l’invenzione di una diversa modalità della vita. Queste pagine ne forniscono limpidi esempi: a che serve la rivoluzione se il popolo che vince si limita poi a riprodurre l’ordine coloniale, una società di dominanti e dominati? Delle essenziali questioni poste in questo libro, resta probabilmente questa la più significativa. Almeno per chi – come Zibechi – dopo aver trascorso buona parte della vita a studiare, raccontare e condividere i tentativi di cambiare il mondo, non considera un’utopia giovanile, un esercizio accademico o un lavoro da professionisti l’opportunità di farne uno nuovo. Il tema della soggettività resta decisivo. Eludendolo, chi è oppresso non potrà che occupare il posto dell’oppressore, riproducendo il profilo del sistema che combatte. Lo racconta la storia, che non dice invece quali soggetti possa esprimere, di per sé, la decolonizzazione.

Dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso,Zibechi consuma le scarpe percorrendo in lungo e in largo l’América. Attraverso autopistas e impervi caminos insegue le tracce della resistenza al dominio del capitale e delle merci sulle persone. Le ha trovate ovunque: nelle periferie di Asunción e lungo le steppe della Patagonia, sugli altopiani andini e tra le nebbie delle selve tropicali. A volte è tornato per mettere in discussione quel che gli era sembrato di capire. Come in Chiapas, quando – alunno semplice della Escuelita – a vent’anni dal primo viaggio a La Realidad (vent’anni di innamoramento e costante attenzione), pensava d’aver capito abbastanza dello zapatismo. E invece no.

Nella comunità 8 Marzo del Caracol di Morelia gli è parso d’improvviso evidente quel che ignorava: “Diciamo che non avevo compreso la parte elementare”, spiega stupito ed entusiasta. Quel che lo muove è la ricerca appassionata, quasi febbrile, di sempre: scovare e interpretare i mutamenti profondi della realtà. Questo libro nasce da quella ricerca e aiuta a configurarne un passaggio rilevante. Non è un’affermazione incidentale quella in cui Zibechi scrive: “Negli ultimi anni, lavoro per dare una risposta a una domanda che considero centrale: come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”, cioè dal luogo di coloro a cui viene negata la condizione umana?”. È un’opzione che comporta una rottura rilevante, forse perfino dolorosa, quella rinuncia a un punto di vista di classe generale, a una visione planetaria, ancor prima che universale.

Perché scegliere la prospettiva della “zona del non-essere”, ispirata ai testi di Frantz Fanon e alla rilettura che ne fa Ramon Grosfóguel? Perché sono i “dannati della terra” dei giorni nostri, quelli che vivono nel “mas abajo”, secondo il linguaggio zapatista, a essere genuinamente interessati a cambiare il mondo, risponde Raúl (il corsivo è mio e qui indica un’inquietudine sull’uso di quell’avverbio). È la primazia dell’etica, più che il gusto per la provocazione, a condurre Zibechi all’inevitabile conseguenza della rottura indicata: il pensiero critico che l’ha formato in Uruguay e nell’esilio in Spagna si è generato e sviluppato solo nel Nord, negli ambienti della “zona dell’essere”. Non può dunque essere trapiantato (più o meno meccanicamente) alla “zona del non essere”. Nel farlo, si perpetuerebbe il “fatto coloniale” in nome della rivoluzione.

Viene da chiedersi: rifarsi (criticamente) a Marx (o a Bakunin) significa dunque adottare una lettura del mondo sempre intrisa di eurocentrismo e colonialità? La teoria della rivoluzione che conosciamo, dal Capitale ai testi odierni, è viziata dall’origine e ne mostra gli evidenti limiti. Serve altro, risponde Zibechi. Bisogna percorrere altri sentieri. Fanon ha aperto la via e, decenni dopo, gli zapatisti sono quelli andati più lontano nel cammino di una creazione di un mondo nuovo dalla parte degli oppressi. L’attualità del pensiero di Fanon, aggiunge, affonda le radici proprio nell’impegno a pensare e mettere in pratica la resistenza e la rivoluzione a partire dal luogo fisico e spirituale degli oppressi. Dal luogo in cui gran parte dell’umanità vive in condizioni di indicibile oppressione, aggravata dalla ri-colonizzazione dei territori e delle menti che comporta il modello neoliberista. Ci parrebbe assai curioso, naturalmente, che a indicare quei “luoghi fisici” fossero un mappamondo o le astratte coordinate di un meridiano. Non è facile sostenere che un cameriere peruviano indigeno emigrato in Argentina viva un’oppressione più “indicibile” di quella di una ragazza nigeriana costretta a prostituirsi sulle strade del litorale domiziano. Non può essere quella la geografia che dice dove si è los de abajo e dove si è, o si è diventati, los de arriba.

L'italico colonialismo
E a proposito di storia e geografia, s’impone la domanda madre per l’edizione italiana di questo libro: alla luce della dimensione “minore” dell’italico colonialismo, ha senso anche qui la necessità di de-colonizzare? Le poche righe che seguono azzardano una traccia per rispondere. Intanto, è noto che il colonialismo storico vive e prospera nella (neo)colonialità del potere, della mente, dell’immaginario, ecc. Non mancano testi in lingua italiana che hanno trattato con dovizia e acutezza di questo e dell’influenza e del lascito di Fanon sulla ribellione e l’antirazzismo contemporanei. Ben altra musica suona ancora, salvo eroiche eccezioni, il racconto storico di quella dimensione “minore”. Non è questa la sede per far giustizia della narrazione tossica sull’esuberanza sessuale dei “nostri” soldati, sul mito degli “italiani brava gente” e sulla immane censura calata sui libri di storia. Lasciamo la parola all’eccellente Point Lenana, di Wu Ming1 e Roberto Santachiara (Einaudi, 2013)

Dal 10 al 19 febbraio, durante la battaglia dell’Amba Aradam, l’artiglieria italiana spara 1367 proiettili caricati ad arsine. Al termine l’aviazione insegue, mitraglia e bombarda col vescicante le colonne di nemici in ritirata. Lo stesso Badoglio riferirà l’utilizzo, in questa circostanza, di sessanta tonnellate di iprite. Raccontando di questo giorno, il generale Colombini scriverà: «Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopici si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerrieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi».

Rossa è la carne viva esposta dall’azione dell’iprite. Come diceva quel divertente stornello? «Se l’abissino è nero, gli cambierem colore».

Dai resoconti e ricordi edulcorati della strage deriverà il termine scherzoso «ambaradàn», che gli italiani useranno per dire baraonda, trambusto, grande confusione.

L’impiego dei gas non è la sola atrocità. Fra il 1935 e il 1936, l’aviazione italiana bombarda ospedali e ambulanze. Impazzano i rastrellamenti, le fucilazioni di massa, gli stupri, decine di migliaia le capanne incendiate. Dalla campagna d’Etiopia, con la proclamazione dell’impero di Vittorio Emanuele III, alla conquista della Tripolitania e della Cirenaica (Libia) il passo (indietro) è breve. L’avventura comincia nel 1911, con l’invio di 1732 marinai contro l’Impero Ottomano. Non porta la firma di Mussolini ma del quarto governo Giolitti, quello eletto col voto dei socialisti. Il “progressismo” del tempo nazionalizzerà le assicurazioni e introdurrà il “suffragio universale”. Da cui sono escluse le donne, ça va sans dire.

Cento anni più tardi, nel 2011, l’Italia smetterà di vendere armi a Gheddafi, linciato in strada – dopo la pioggia di bombe Nato – in una sequenza indimenticabile. In quanto a orrore, fa impallidire anche quelle, più sofisticate, girate dai registi dell’Isis. Tra il 2005 e il 2012, comunque, l’Italia ha fornito, prima al colonnello e poi ai suoi carnefici, armi per 375,5 milioni di euro, seconda solo alla Francia di Sarkozy, il leader più assatanato nella caccia grossa a Gheddafi. Quelle armi sono poi state saccheggiate, più volte, da varie fazioni avverse al regime di Tripoli e dai gruppi jihadisti, Sono dunque state determinanti a far diventare il territorio (che per convenzione chiamiamo ancora) libico quel che è oggi. Dove ha volato la Nato non c’è più un paese, come in Somalia dopo i Caschi Blu, come in Afghanistan, in Iraq…

Dalle coste libiche parte oltre l’80 per cento delle persone che affrontano il mare nostrum per affogare nelle sue profondità o essere accolte come fossero un’epidemia nel paese dei mercanti, quello dalle colonie “dal volto umano”. Sono persone in fuga dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dal Sudan, dalla Nigeria, dal Mali, dall’Iraq, dalla Siria. I media ci avvertono: attenzione, tra loro, negandosi al riconoscimento identitario, si annidano furbi e spregevoli truffatori. Si fingono perseguitati ma non lo sono affatto. Sono semplici migranti, colpevoli d’un reato imperdonabile: cercare una vita migliore nella terra in cui non sono nati. Per fortuna il dio del mare è giusto e li punisce.

Ogni tanto le istituzioni politiche europee, i media e l’opinione pubblica fingono di commuoversi. È accaduto il 19 aprile, con la maggior strage mediterranea della storia contemporanea: 7-800 persone annegate in un solo “incidente”. Gli incidenti si ripetono da oltre 15 anni. Hanno ucciso venti-trentamila persone, forse di più. I numeri ingannano: non raccontano i volti, l’agitazione delle mani, il respiro che annaspa ma soprattutto le storie, le speranze e le sofferenze di chi affoga nel Mediterraneo. Forse, a comprendere la portata e le ragioni della tragedia che viviamo, può aiutare più la storia. Una storia esemplare, a leggerla in una prospettiva coloniale: l’Europa è abituata a buttare la gente in mare. Lo ha fatto per quattro secoli durante il commercio di vite africane che riempiva i forzieri delle nazioni che oggi danno lezioni sui diritti umani e la democrazia al resto del mondo. Si buttavano a mare gli schiavi per sfuggire ai pattugliamenti, oppure quando venivano considerati invendibili. Un negro ogni dieci, si calcola, finiva agli squali. Merce difettosa, con i denti cariati o i seni flaccidi.

È solo negando la condizione umana, quello che secondo Zibechi avviene nella “zona del non essere”, che si può lasciar affogare le persone. Per questo i migranti, nella migliore delle ipotesi, devono essere numeri. Come i palestinesi intrappolati a Gaza nel diluvio delle bombe israeliane. Come gli ebrei, gli zingari, i polacchi e i russi chiusi a Birkenau, come i ribelli etiopi che Mussolini ordinò di stroncare con “qualsiasi mezzo”. Renzi, Salvini e gli amici di Casa Pound oggi darebbero, dispiaciuti, lo stesso ordine ma il discorso sui fini e i mezzi sarebbe lungo… Negare la condizione umana, dicevamo, perché ammettendo l’umanità delle vittime sarebbe inevitabile mettere in discussione anche quella dei carnefici e di chi consente i massacri o vi si mostra indifferente. Per questo i razzisti europei dovrebbero temere più d’ogni altra cosa la ri-umanizzazione dei migranti nei media. Dovrebbero temerla, per la verità, i razzisti di tutto il mondo, da quelli austrialiani a quelli sudafricani. Sì, avete letto bene: sudafricani.

C’è tuttavia una specificità occidentale, declinata con chiarezza nella storia coloniale e nelle diverse forme di colonialità contemporanea. Deriva dall’incapacità di “pensare con il mondo”, come avrebbe detto Édouard Glissant, compagno di liceo di Fanon in Martinica. Deriva dalla credenza secolare secondo cui il “nostro” mondo – la letteratura, la filosofia, la medicina, le forme religiose e di governo, ilmodus vivendi – sarebbe superiore a quello degli altri. Anzi gli altri – gli indigeni, i turchi, gli arabi, i pigmei, i cinesi, i mongoli, i contadini – sarebbero in fervente attesa del nostro progresso-sviluppo. Dopo cento anni, quella egemonia culturale sembra finalmente finita. Non esercita più incontrastata nemmeno qui il suo invincibile potere, un potere non divino ma molto coloniale e molto “naturalizzato”. Che quel mondo non fosse il solo possibile lo hanno cominciato a gridare tutte le più significative società in movimento apparse all’alba del nuovo millennio. Di più,in felice risonanza con certe comunità indigene mascherate delle montagne del sud-est messicano, quella gente dice che esistono molti altri mondi. Tutti diversi e tutti capaci di affermare straordinarie dignità. Quel che sembra impossibile, dicono, arriva. Si tratta solo di aspettarlo un po’.

[I sottotitoli sono nostri - n.d.r.]
Sono tante le ragioni per vergognarsi d'essere italiani. Quella offerta dalla vicenda raccolta (spero che si sia messo i guanti nel farlo) dall'autore di questa nota supera l'immaginabile. Se riuscite ad aprire il filmato fuggirete anche voi.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 4 luglio 2015. con postilla

Un amico newyorchese mi manda questa fotografia, chiedendomi cosa sia successo all'Italia.

Questo amico ama moltissimo Eataly, e ci va spesso «to buy some of their fantastic produce, mortadella and fresh mozzarella». Ma certo non si aspettava di trovare, nel settore dedicato alla pasta, una statua originale del secondo Quattrocento proveniente dal Duomo di Milano, buttata nel mezzo della sala dentro una scatola di plexiglass. In effetti questa fotografia illustra la mercificazione del patrimonio culturale italiano meglio di un intero volume dedicato all'argomento.

Perché la preziosa opera d'arte di un museo italiano deve decorare il negozio di un privato? Ed è opportuno che un'opera d'arte del passato (per giunta di soggetto sacro) venga estratta da un museo per essere straniantemente inscatolata in mezzo alla pasta e alla mortadella? Domande retoriche, visto che la mostra Tesoro d'Italia replica questo modello su vastissima scala, mescolando capolavori dei musei pubblici a opere private, e addirittura a opere in vendita (come la robbiana appoggiata per terra che si vede in questo incredibile filmato).

Molti pensano che questo sia un modo per avvicinare «la gente» all'«arte». Io credo che sia solo un modo per piegare il patrimonio artistico bene comune agli interessi commerciali dei nuovi padroni del vapore. Padroni a cui quelle opere d'arte interessano solo come strumenti del proprio marketing: presentando questo incredibile prestito, Oscar Farinetti parlò di una statua di Santa Lucia incinta, fraintendendo, fantozzescamente, la veste tardogotica allacciata sotto il seno, e ignorando evidentemente tutto della storia della vergine siracusana in generale, e di questa statua in particolare. Naturalmente non è questo il punto: ma dovrebbe far riflettere il fatto che chi parla continuamente di bellezza non ha in realtà la minima idea di quella bellezza.

Lo sfruttamento dell'arte da parte dei potenti di turno è una storia antica, ma la Costituzione italiana aveva messo le premesse di un futuro diverso, indicando un uso dell'arte del passato che fosse indirizzato verso la conoscenza, l'uguaglianza, il pieno sviluppo della persona umana. Ma era un'altra Italia. Oggi, anche agli occhi di un newyorkese è evidente che Eataly si è mangiata Italy.

Postilla
C'è da domandarsi con quale coraggio persone che tollerano questa demolizione del nostro patrimonio culturale, o addirittura vi collaborano, mostrino di indignarsi da quelle compiute dai barbari dell'Isis.

Il manifesto, 12 giugno 2015, con postilla

Da set­ti­mane si agita lo spet­tro delle per­sone sbar­cate in Ita­lia per cer­care rifu­gio nel nostro o negli altri paesi euro­pei. In realtà, il loro numero dall’inizio dell’anno al 7 giu­gno è di 52.671. Quindi, poco più dei 47.708 regi­strati nello stesso periodo dell’anno scorso. Sulla base di que­sto trend è cal­co­la­bile un numero di 190.000 a fine anno (200.000 secondo altri). Come si giu­sti­fi­cano, allora, le posi­zioni estreme e i toni, talora quasi para­noici, rag­giunti nel dibat­tito su que­sto feno­meno in Ita­lia e in Europa? Dav­vero si vuol far cre­dere che l’arrivo di alcune cen­ti­naia di migliaia di per­sone costi­tui­sca una minac­cia per gli equi­li­bri eco­no­mici e sociali di un gruppo di paesi tra i più ric­chi del mondo?

In realtà, stiamo assi­stendo a una gros­so­lana mistificazione.

Intanto, sem­bra smar­rito ogni senso delle pro­por­zioni e si parla come se s’ignorassero dati di fatto signi­fi­ca­tivi. I paesi mem­bri dell’Ue, alla fine del 2013, con­ta­vano un numero di immi­grati di prima gene­ra­zione (cioè nati all’estero), rego­lar­mente regi­strati ed attivi nelle rispet­tive eco­no­mie assom­manti a più di 50 milioni, di cui circa 34 milioni nati in un paese non euro­peo. Que­sti immi­grati, come gli altri che li hanno pre­ce­duti, con­cor­rono diret­ta­mente alla pro­du­zione e alla ric­chezza di quei paesi. E non si vede pro­prio come nuovi flussi che si aggiun­gono a quelli regi­stra­tisi negli anni pre­ce­denti non pos­sono essere assor­biti con van­taggi demo­gra­fici, eco­no­mici e socio-culturali, solo che si adot­tino poli­ti­che appro­priate e posi­tive d’inclusione sociale.

In secondo luogo, invece di con­tra­stare sen­ti­menti xeno­fobi, che pure alli­gnano in parti della popo­la­zione, li si stru­men­ta­lizza e inco­rag­gia pur di gua­da­gnare con­sensi elet­to­rali nel modo più spre­giu­di­cato. L’esempio più vicino di tale irre­spon­sa­bile com­por­ta­mento viene dalle dichia­ra­zioni dei gover­na­tori di alcune delle regioni più ric­che del paese. Il loro lepe­ni­smo sem­bra igno­rare che pro­prio la van­tata ric­chezza di quelle regioni è dovuta anche al mas­sic­cio sfrut­ta­mento del lavoro degli immi­grati. Sfrut­ta­mento tanto più facile e pesante con i clan­de­stini. E que­sto ci porta dritto alla seconda misti­fi­ca­zione cui stiamo assi­stendo in Ita­lia e in Europa.

Indi­care gli immi­grati come una minac­cia serve a moti­vare misure di con­tra­sto e leggi restrit­tive che in realtà ser­vono a sfrut­tare al mas­simo il loro lavoro, indu­cen­doli a lavo­rare in nero, in impie­ghi pesanti e mal pagati, in affitto, a chia­mata e simili. Infatti, sono pro­prio le soglie di sbar­ra­mento all’integrazione, poste sem­pre più in basso, e il man­cato o dif­fi­col­toso rico­no­sci­mento dei diritti ai lavo­ra­tori immi­grati che per­met­tono ai gruppi diri­genti eco­no­mici e ai loro alleati poli­tici di sfrut­tare anche l’immigrazione per spin­gere verso la con­cor­renza al ribasso delle con­di­zioni di lavoro. In tal modo, si ren­dono più age­voli le poli­ti­che di restri­zione dei diritti dei lavo­ra­tori e di sman­tel­la­mento dello Stato sociale.

In terzo luogo, agi­tare lo spet­tro del peri­colo immi­gra­zione occulta altre respon­sa­bi­lità. Il fatto, cioè, che i mag­giori paesi euro­pei, Gran Bre­ta­gna e Fran­cia in testa, ma seguiti anche da Ger­ma­nia e Ita­lia si sono fatti pro­mo­tori, accanto agli Stati Uniti e insieme ad altri, di pesanti inter­venti politico-militari in Africa e in Medio Oriente. L’elenco è lungo. Si può comin­ciare dall’interminabile guerra in Afgha­ni­stan. Si può pro­se­guire con il sup­porto dato alla ribel­lione con­tro il regime siriano, rin­fo­co­lando con­flitti civili e reli­giosi che ora sfug­gono ad ogni con­trollo. Ancor più diretto è stato l’intervento in Libia, col risul­tato di una situa­zione, se pos­si­bile, ancor più con­fusa e ingo­ver­na­bile. Si è sof­fiato sul fuoco di vec­chi con­flitti tra le popo­la­zioni in Africa Centro-orientale per­se­guendo obiet­tivi tutt’altro che chiari. E lo stesso può dirsi per gli inter­venti in Mali e altri paesi.

Nel 2013, il numero di pro­fu­ghi che hanno cer­cato di fug­gire da zone di guerra, con­flitti civili, per­se­cu­zioni e vio­la­zioni dei diritti umani è stato di 51,2 milioni. Anche a con­si­de­rare circa un quinto di essi, vale a dire gli 11,7 milioni di per­sone che, in quell’anno, si tro­va­vano sotto il diretto man­dato dell’Alto com­mis­sa­riato per i rifu­giati delle nazioni unite e per i quali dispo­niamo di dati certi, vediamo che più della metà era costi­tuito da per­sone che fug­gi­vano dalla guerra in Afgha­ni­stan (2,5 milioni), dall’improvvisa defla­gra­zione del con­flitto in Siria (2,4 milioni), dalla recru­de­scenza degli scon­tri da tempo in atto in Soma­lia (1,1 milione). Ad essi segui­vano i pro­fu­ghi pro­ve­nienti dal Sudan, dalla Repub­blica demo­cra­tica del Congo, dal Myan­mar, dall’Iraq, dalla Colom­bia, dal Viet­nam, dall’Eritrea. Per un totale di altri 3 milioni, sem­pre nel solo 2013. Altri richie­denti asilo cer­ca­vano di scam­pare dai «nuovi» con­flitti in Mali e nella Repub­blica Centrafricana.

La grande mag­gio­ranza di que­ste e altri milioni di per­sone fug­gite da situa­zioni di peri­colo e sof­fe­renza, sem­pre nel 2013, non hanno cer­cato e tro­vato acco­glienza nei paesi più ric­chi d’Europa o negli Usa, bensì nei paesi più vicini. Paesi con un Pil pro capite basso e variante tra i 300 e i 1.500 dol­lari l’anno. Infatti, fin dallo scop­pio della guerra del 2001, il 95% degli afgani ha tro­vato rifu­gio in Paki­stan. Il Kenya ha accolto la mag­gio­ranza dei somali. Il Ciad molti suda­nesi. Men­tre altri somali e suda­nesi hanno tro­vato rifu­gio in Etio­pia, insieme a pro­fu­ghi eri­trei. I siriani si sono river­sati in mas­sima parte in Libano, Gior­da­nia e Tur­chia. Di fronte all’entità di que­sti flussi, il numero delle per­sone che, sem­pre nel 2013, hanno cer­cato pro­te­zione inter­na­zio­nale in 8 dei paesi più ric­chi dell’Ue, con Pil pro capite dai 33.000 ai 55.000 dol­lari, assom­mava a 360mila (pari all’83% dei rifu­giati in tutta l’Ue).

Que­sti dati di fatto dimo­strano l’assoluta man­canza di fon­da­mento e la totale stru­men­ta­lità che carat­te­rizza la discus­sione in atto tra i paesi mem­bri e le stesse isti­tu­zioni dell’Ue. Si discute di pat­tu­glia­menti navali, bom­bar­da­menti di bar­coni, per con­clu­dere con quello che viene defi­nito un «salto di qua­lità» nel dibat­tito e che con­si­ste­rebbe nella pro­po­sta di acco­gliere nei 28 paesi mem­bri dell’Ue un totale di 40.000 rifu­giati in due anni. Men­tre, nel 2013, Paki­stan, Iran, Libano, Gior­da­nia, Tur­chia, Kenya, Ciad, Etio­pia, da soli, ne hanno accolti 5.439.700. Il che signi­fica che un gruppo di paesi, il cui Pil è 1/5 di quello dei paesi dell’Ue, ha accolto in un anno un numero di immi­grati e rifu­giati che è 136 volte più grande del numero di quelli che sono dispo­sti ad acco­gliere i paesi della grande Europa in due anni! Ma per­fino que­sta misera pro­po­sta viene ora messa in discus­sione, dato anche l’atteggiamento nega­tivo di paesi come la Gran Bre­ta­gna e la Fran­cia, che pure si auto­de­fi­ni­scono grandi e civili. Lo spet­ta­colo di tanta pochezza poli­tica e morale induce a chie­dersi se i nostri gover­nanti e i diri­genti di Bru­xel­les si ren­dono conto che stanno asse­stando un altro colpo alla cre­di­bi­lità dell’Unione europea.

postilla

Tanto più indignano le reazioni - di troppi eletti e troppi elettori - in quanto la penisola chiamata Italia è abitata da popoli che hanno conosciuto tutti analoghe storie di fuga dalla miseria o dalla guerra. Quanti di noi italiani sono stati profughi nella prima guerra mondiale dopo la disfatta di Caporetto, o durante la Seconda per i bombardamenti e l'avanzata nel Sud, o cacciate dai campi e fuggiti nel Belgio o in Argentina, o cacciati dal loro Polesine dall'esondazione del Po... Sono ben pochi che hanno compreso come quella che viviamo sia l'esodo inarrestabile di un un'area che comprende più ancora che un intero continente, e che moltissime responsabilità delle catastrofi attuali hanno la loro origine (e la loro prosecuzione) nelle politiche di sfruttamento rapace delle risorse altrui compiuto dal Primo mondo. Quanto solitario, e quando alto, appare al confronto quel mite argentino che ammaestra il Vaticano.

Barbara Spinelli presenta un'interrogazione a Bruxelles. Per chiedere alla Commissione europea d'indagare sul rispetto dei diritti dei profughi in Italia. Partendo da un video in cui i bambini dichiarano di aver subito percosse nella struttura di prima assistenza di Ragusa. Mentre la questura smentisce: Sono calunnie».

L'Espresso online, 12 maggio 2015
Uno sbarco a Pozzallo Dalla recinzione escono solo le grida. Voci di bambini, che urlano in arabo. Frasi che gli interpreti volontari traducono come un appello disperato: «Vogliamo uscire!». Gli viene chiesto: siete stati picchiati? La risposta è presentata in modo raccapricciante: «Si, con la corrente elettrica». Sono le cronache del centro ragusano di Pozzallo, dove vengono raccolti i profughi che hanno attraversato il Mediterraneo, riferite dai volontari siciliani in un video pubblicato il 24 aprile da MeridioNews .

La polizia ha smentito con decisione questa ricostruzione, presentando una querela. Ma la questione di Pozzallo adesso arriva a Bruxelles con un'interrogazione di Barbara Spinelli , che chiede di fare chiarezza: «Cittadini stranieri, anche minori, hanno dichiarato di aver subito percosse con manganelli elettrici, e un adulto ha mostrato segni di una bruciatura». L'eurodeputata invoca un'indagine perché in quel centro si sarebbe verificato «un uso illegittimo della forza». E domanda se «ciò che continua a registrarsi non violi la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione».

Dietro la denuncia c'è una questione decisiva, che rischia di esplodere con il nuovo esodo di disperati dalle coste dell'Africa. I profughi non vogliono essere registrati in Italia, perché questo li obbliga a restare nel nostro paese fino al completamento dell'istruttoria. Che da noi – come ha evidenziato un'inchiesta de “l'Espresso” - spesso richiede più di un anno. Durante Mare nostrum migranti e rifugiati venivano lasciati andare senza imporre la registrazione, in modo che potessero presentare la domanda di asilo in altri paesi. Più ospitali o più efficienti: solo nel 2014 in centomila hanno attraversato la frontiera senza lasciare traccia negli schedari della polizia. Adesso, in base alle ultime intese tra governi, questo non viene più tollerato.

vedi anche:

Migranti, in centomila sono scomparsi

La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari

Secondo l'Ansa, nel giorno in cui è stato reso noto il video, il 24 aprile 2015, sarebbe scattata una protesta dei rifugiati nella struttura di Pozzallo. I profughi, in prevalenza siriani e palestinesi, avevano rifiutato il pasto e la colazione, perché volevano essere trasferiti al più presto dalla Sicilia. Quel giorno la struttura ospitava 113 migranti. L'indomani il direttore, Angelo Zaccaria, ha assicurato che tutti avevano consumato il pranzo di mezzogiorno.

Ma la videodenuncia è arrivata fino a Bruxelles. Scrive Barbara Spinelli (che ha appena lasciato la lista Tsipras) : «Il 25 aprile 2015, nel centro di Pozzallo, risultavano trattenuti da sette giorni 113 cittadini siriani e palestinesi. Con particolare riferimento a Pozzallo, fonti diverse e concordanti documentano l’uso illegittimo della forza per costringere i migranti, anche minori, all’identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali in violazione delle salvaguardie previste dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo».

La Polizia ha smentito questa versione: «Sono state seguite con la consueta professionalità le rituali procedure relative all'accoglienza e alla successiva identificazione dei migranti», ha scritto la Questura di Ragusa in una nota diffusa lo stesso giorno del video: «Coloro che hanno mostrato resistenze, sono stati puntualmente denunciati per il rifiuto di sottoporsi alle procedure di foto-segnalamento», e conclude dichiarando di aver depositato alla procura della Repubblica una denuncia per diffamazione.

Ma le tensioni per il segnalamento dei profughi sono destinate ad aumentare con i nuovi sbarchi. Siriani, eritrei, palestinesi, spesso anche afghani, iracheni e nigeriani in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni religiose chiedono di potere raggiungere altri paesi europei, dove vivono i loro familiari e ci sono maggiori possibilità di inserimento. La legge europea, applicata ora con rigore dalle nostre forze dell'ordine, non lo permette.

E almeno al Brennero adesso le polizie tedesche e austriache bloccano tutti i profughi. Solo l'approvazione delle nuove misure sulla distribuzione dei rifugiati in tutte le nazioni dell'Unione potrebbe offrire una soluzione diversa. Ma le trattative sono lontane da un accordo. Adesso però i governi europei si devono domandare quali siano i limiti per costringere all'identificazione e se sia tollerabile che venga imposta con la forza.

Apartheid nella "civilissima" Europa. Una cronaca di Vladimiro Polchi e un commento di Michele Serra sul gravissimo episodio avvenuto ieri ai confini italiani, con la complicità dei nostri.

La Repubblica, 1° maggio 2015

“LACACCIA AL NERO È UNO SCANDALO
I PROFUGHI SIANO LIBERI DI VARCARE IL CONFINE”

di Vladimiro Polchi

«I controlli su base etnica sono inaccettabili: fermate la caccia al nero». Negli uffici della Caritas e delle organizzazioni internazionali esplode il caso “apartheid sui treni”. Col Pd che chiede immediati chiarimenti al Viminale: «È una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile».

Il fatto: in questi mesi, come ha raccontato ieri Repubblica , i treni in partenza da Bolzano e diretti oltre confine vengono controllati da pattuglie miste di poliziotti italiani, tedeschi e austriaci che bloccano chi non è bianco e impediscono ai migranti di salire sulle carrozze. «La polizia di frontiera sta facendo qualcosa di inaccettabile — attacca Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas — i controlli legati al colore della pelle fanno tornare in mente vicende terribili che non vorremmo più vedere in Europa. Anche la Caritas di Bolzano ci ha confermato queste ispezioni. Lo stesso avveniva nel 2011 coi tunisini alla frontiera francese.

È una vicenda preoccupante. I controlli ci sono sempre stati, ora si è superata la misura. L’Europa dimostra la sua incapacità nel gestire un fenomeno che non può rimanere solo italiano. Il nostro governo deve attivarsi con quello austriaco per fermare la caccia allo straniero». Va giù duro anche Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano rifugiati: «Questa è una storia incredibile. La sostanza è sempre la stessa: sono responsabili la polizia italiana e l’Europa, che preme sul nostro Paese per non far uscire gli immigrati, in applicazione del sistema di Dublino che impedisce la circolazione dei rifugiati. Ma sono le modalità nuove e incivili a stupire: ricordano il 1937. E attenzione, non accade solo sui treni. Mi è capitato di assistere a controlli basati sul colore della pelle anche di ritorno da Algeri. I passeggeri africani venivano controllati sulla pista, appena scesi dall’aereo, senza neppure farli entrare nel terminal.
Si sta diffondendo una cultura di chiusura. L’Europa deve permettere la libera circolazione di chi scappa dalle guerre». Hein chiede due interventi urgenti: «Il ministero dell’Interno deve impartire istruzioni affinché cessino questi controlli. E l’Italia deve chiedere al Consiglio europeo di superare le rigidità di Dublino». A essersi già rivolto al Viminale è Khalid Chaouki (Pd) coordinatore dell’intergruppo parlamentare sull’immigrazione: «Ciò che sta accadendo al confine con l’Austria è una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile. Ho sentito informalmente il ministero dell’Interno. Non ci possono essere controlli su base etnica. I Paesi europei stanno dando il peggio di sé, non rispettando neppure gli impegni di collaborazione presi a Bruxelles. L’Italia non può fare il guardiano dei rifugiati. Credo che quello che sta avvenendo alla frontiera debba spingerci ad aprire un fronte di crisi diplomatica con alcuni Paesi confinanti». Critico anche Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: «Molti migranti che arrivano in Italia via mare vogliono ricongiungersi con i propri familiari residenti in altri Stati Ue. Sarebbe opportuno prevedere un approccio all’accoglienza di queste persone a livello europeo, per evitare che diventino vittime dei trafficanti anche all’interno dell’Unione».

LA VERGOGNA DI QUEI TRENI
CON I NERI DIVISI DAI BIANCHI
di Michele Serra
L’UOMO bianco può salire sul treno. L’uomo nero no. Il criterio è il colore della pelle, una forma di identificazione a vista che più primitiva, più rude, più discriminante non ce n’è. Lo raccontava ieri un reportage di Jenner Meletti dalla stazione di Bolzano.

Una vicenda quasi incomprensibile per quanto anacronistico e detestabile è il criterio applicato dalle pattuglie italo-austro-tedesche che hanno l’incarico (tra l’altro del tutto velleitario) di frenare l’approdo nel Nord Europa dei profughi africani che cercano di raggiungere i parenti in Germania, Svezia, Norvegia.

Il presidente del Consiglio ha dichiarato nei giorni scorsi che, finito il travaglio spossante della riforma elettorale, il governo si occuperà di diritti. Viene da dire: si occuperà della sostanza della politica e non più solamente della sua forma, con tutto il rispetto per la forma e per la faticosissima, contrastatissima ri-forma. Ecco una eccellente occasione per farlo. Chiedersi come sia potuto accadere, per quale assurdo accidente procedurale o per quale dolosa rozzezza, che in territorio italiano uomini in uniforme siano costretti, umiliando anche se stessi e il proprio ruolo, a dire “tu no” e “tu sì” ai passeggeri di un treno a seconda della loro razza, abbiano o non abbiano un biglietto in tasca.

Di questi rifiutati, compresi i bambini, esistono bivacchi che vivono ai margini delle stazioni affidandosi al soccorso di volontari e di associazioni umanitarie. Sono la testimonianza vivente dell’inesistente visione europea sulla questione, enorme, dell’esodo africano, malamente avviato alle coste italiane e poi rimpallato dai nostri partner europei. Una risacca che trova lungo le Alpi un secondo vaglio, dopo il mare le montagne, replicando anche su terra ferma quella negazione del diritto di viaggiare (non di risiedere: di viaggiare) che a ogni europeo sembra il più naturale dei diritti, almeno dalla caduta del Muro in poi. E per molti africani è diventato un azzardo, una scommessa, un rischio assurdo. Per quanto enorme sia il problema, per quanto delicato affrontarlo, lo spettacolo di un treno sgomberato dai neri e riservato ai bianchi non è ammissibile, rimanda a discriminazioni la cui fine è giustamente celebrata come una liberazione in ogni parte del mondo dove vigevano forme di segregazione. La liberazione da un incubo. Il ministro degli Interni e le altre figure istituzionali interessate riaprano i loro cassetti (pare che quelle pattuglie “trilaterali” siano un portato degli accordi di Schengen), cerchino di capire come rimediare a un così maldestro obbrobrio, non costringano uomini dello Stato a individuare la pelle nera come un pericolo e la pelle bianca come un lasciapassare.

Per quanto difficile sia capire, sulla questione dei migranti e dei profughi, che cosa bisogna fare, è facilissimo capire che cosa non bisogna fare. Non bisogna che il criterio razziale trovi una benché minima forma di leggibilità, di dicibilità. “Tu non puoi perché sei nero” è indicibile, e basta. Che il governo Renzi si occupi di diritti non è, in questo caso, un buon proposito o un punto della futura agenda politica. È qualcosa da fare e da risolvere oggi, stamattina. Adesso.

Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per le violenze della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato specifico e l’identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti. Il manifesto, 8 aprile 2015

Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qua­li­fi­cato come «tor­tura», alla poli­zia è stato con­sen­tito di non col­la­bo­rare alle inda­gini e la rea­zione dello Stato ita­liano non è stata effi­cace vio­lando l’articolo 3 della Con­ven­zione euro­pea dei diritti dell’uomo. Lo ha sta­bi­lito la Corte euro­pea di Stra­sburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 mani­fe­stanti, pic­chiati e ingiu­sta­mente arre­stati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con frat­ture a brac­cia, gambe e costole che hanno richie­sto nume­rosi inter­venti negli anni successivi.

Una sen­tenza che pesa come un maci­gno per un Paese le cui isti­tu­zioni hanno mini­miz­zato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, gra­zie alle parole di uno dei poli­ziotti inter­ve­nuti, è nota come la «macel­le­ria messicana».

La sen­tenza, decisa all’unanimità, per la prima volta con­danna l’Italia per vio­lenze qua­li­fi­ca­bili come tor­tura, esclu­dendo che i fatti pos­sano essere con­si­de­rati solo come «trat­ta­menti inu­mani e degra­danti» e sot­to­li­neando la gra­vità delle sof­fe­renze inflitte e la volon­ta­rietà deli­be­rata di inflig­gerle. La Corte respinge anche la difesa del governo ita­liano secondo cui gli agenti inter­ve­nuti quella notte erano sot­to­po­sti a una par­ti­co­lare ten­sione: «La ten­sione – scri­vono i giu­dici – non dipese tanto da ragioni ogget­tive quanto dalla deci­sione di pro­ce­dere ad arre­sti con fina­lità media­ti­che uti­liz­zando moda­lità ope­ra­tive che non garan­ti­vano la tutela dei diritti umani».

La Cedu entra poi nel cuore del pro­blema: la rea­zione (o non rea­zione) dello Stato ita­liano a ciò che avvenne.

«Gli ese­cu­tori mate­riali dell’aggressione non sono mai stati iden­ti­fi­cati e sono rima­sti, molto sem­pli­ce­mente, impu­niti» e la prin­ci­pale respon­sa­bi­lità di ciò è adde­bi­ta­bile alla «man­cata col­la­bo­ra­zione della poli­zia alle inda­gini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla poli­zia ita­liana è stato con­sen­tito di rifiu­tare impu­ne­mente di col­la­bo­rare con le auto­rità com­pe­tenti nell’identificazione degli agenti impli­cati negli atti di tor­tura». I giu­dici ricor­dano che gli agenti devono por­tare un «numero di matri­cola che ne con­senta l’identificazione». Per quanto riguarda le con­danne «nes­suno è stato san­zio­nato per le lesioni per­so­nali» a causa della pre­scri­zione men­tre sono stati con­dan­nati solo alcuni fun­zio­nari per i «ten­ta­tivi di giu­sti­fi­care i mal­trat­ta­menti». Ma anche costoro hanno bene­fi­ciato di tre anni di indulto su una pena totale non supe­riore ai 4 anni.

La respon­sa­bi­lità di tutto ciò non è stata né della Pro­cura né dei giu­dici ai quali il Governo ita­liano secondo la Corte ha pro­vato ad attri­buire la «colpa» della pre­scri­zione. Anzi, al con­tra­rio, i magi­strati hanno ope­rato «dili­gen­te­mente, supe­rando osta­coli non indif­fe­renti nel corso dell’inchiesta».

Il pro­blema, secondo la Corte, è «strut­tu­rale»: «La legi­sla­zione penale ita­liana si è rive­lata ina­de­guata all’esigenza di san­zio­nare atti di tor­tura in modo da pre­ve­nire altre vio­la­zioni simili».

Infatti «la pre­scri­zione in que­sti casi è inam­mis­si­bile», come inam­mis­si­bili sono amni­stia e indulto.

La Corte ritiene neces­sa­rio che «i respon­sa­bili di atti di tor­tura siano sospesi durante le inda­gini e il pro­cesso e, desti­tuiti dopo la con­danna». Esat­ta­mente il con­tra­rio di quanto acca­duto. Forse anche per que­sto «il Governo ita­liano non ha mai rispo­sto alla spe­ci­fica richie­sta di chia­ri­menti avan­zata dai giu­dici di Strasburgo».

Dall’ex capo dell’Ucigos Gio­vanni Luperi al diret­tore dello Sco Fran­ce­sco Grat­teri al suo vice Gil­berto Cal­da­rozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vin­cenzo Can­te­rini, i mas­simi ver­tici della poli­zia hanno pro­se­guito le loro bril­lanti car­riere fino alla con­danna defi­ni­tiva. Per molti di loro è arri­vata nel frat­tempo l’agognata pen­sione, per gli altri nes­suna desti­tu­zione da parte del Vimi­nale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pub­blici uffici dispo­sta dai giu­dici, ter­mi­nata la quale potranno rien­trare in ser­vi­zio. Per i capi­squa­dra dei pic­chia­tori del nucleo spe­ri­men­tale anti­som­mossa di Roma, con­dan­nati ma pre­scritti prima della Cas­sa­zione (rite­nuti però respon­sa­bili agli affetti civili) non risul­tano san­zioni disci­pli­nari, tan­to­meno per i loro sot­to­po­sti mai identificati.

«I ver­tici delle forze di poli­zia hanno rice­vuto in que­sti anni sol­tanto atte­sta­zioni di stima e soli­da­rietà» com­menta il pro­cu­ra­tore gene­rale di Genova Enrico Zucca, che ha soste­nuto l’accusa con­tro i poli­ziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di cre­dere che lo stato non abbia fun­zio­nari migliori di quelli che sono stati con­dan­nati». «Quando nel corso dei pro­cessi insieme al col­lega Car­dona par­la­vamo di tor­tura citando pro­prio casi della Cedu ci guar­da­vano come fos­simo pazzi», ricorda con un piz­zico di ama­rezza mista alla sod­di­sfa­zione per una sen­tenza che con­si­dera però «scon­tata». Per il magi­strato, che spesso si trovò iso­lato anche all’interno della stessa Pro­cura nell’inchiesta più sco­moda «biso­gna pre­ve­nire fatti di que­sto genere e in Ita­lia non abbiamo anti­doti all’interno del corpo di appar­te­nenza. Le dichia­ra­zioni dopo la sen­tenza defi­ni­tiva dell’allora capo della poli­zia Man­ga­nelli non sono solo insuf­fi­cienti ma dimo­strano la man­cata presa di coscienza di quello che è suc­cesso. Fece delle scuse, sì, ma par­lando di pochi errori di sin­goli, senza riflet­tere sulla vastità del fenomeno».

La sen­tenza che ha con­dan­nato l’Italia a un risar­ci­mento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quat­tro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvo­cati Nic­colò e Nata­lia Pao­letti, che non hanno nep­pure atteso la sen­tenza di Cas­sa­zione per rivol­gersi alla Cedu, espri­mono sod­di­sfa­zione: «Siamo molto con­tenti, soprat­tutto per il fatto che la corte ha rile­vato l’enorme man­canza dell’ordinamento interno ita­liano, vale a dire la non pre­vi­sione del reato di tor­tura e lo invita quindi a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risar­ci­mento supe­riore a quanto nor­mal­mente dispo­sto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato — par­lare di cifre rispetto alla vio­la­zione di deter­mi­nati diritti, è svilente».

«La sen­tenza della Corte di Stra­sburgo – com­menta il sin­daco di Genova Marco Doria — rico­no­sce la tra­gica realtà delle vio­lenze per­pe­trate alla Diaz e mette a nudo la respon­sa­bi­lità di una legi­sla­zione che non pre­vede il reato di tor­tura e, per que­sta ragione, lascia sostan­zial­mente impu­niti i col­pe­voli. È una sen­tenza di grande valore, non solo da rispet­tare, ma da con­di­vi­dere pie­na­mente». «Uno stato demo­cra­tico – aggiunge il sin­daco — non deve mai tol­le­rare che uomini che agi­scono in suo nome com­piano atti di bru­tale vio­lenza con­tro le per­sone e i diritti dell’uomo. È, que­sta, una con­di­zione essen­ziale anche per difen­dere la dignità di quanti ope­rano invece negli appa­rati dello Stato secondo i prin­cipi della Costituzione».

L’Italia, che potrebbe fare ricorso con­tro la sen­tenza, sarà costretta a ottem­pe­rare con una legge ad hoc.

«Il modello – spiega l’avvocato Pao­letti – potrebbe essere per esem­pio quello fran­cese, che pre­vede per la tor­tura una pena base di 15 anni, aumen­tata a 20 in caso sia un pub­blico uffi­ciale a com­met­terla e a 30 in caso di infer­mità per­ma­nente per la vit­tima, ma si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottem­pe­rare con molta len­tezza alle sen­tenze della Cedu».

Nell’attesa, comun­que lo Stato ita­liano potrebbe essere costretto a sbor­sare molto per risar­cire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sen­tenza defi­ni­tiva. Se quella di Cestaro può essere con­si­de­rata una sentenza-pilota, si può ipo­tiz­zare un risar­ci­mento di quasi 3 milioni di euro. Senza con­tare i pro­cessi civili per le vit­time non solo della Diaz ma anche di Bol­za­neto, che sono appena cominciati.

Il video del Tg3 Ligu­ria la mat­tina dopo la mat­tanza alla Diaz.

«».

Cronache di ordinario razzismo

Ieri sera, Piazza Pulita, trasmissione trasmessa da La7 e condotta da Corrado Formigli, era dedicata alla “Lega capoccia” – questo il titolo della puntata. Ospiti, tra gli altri, Dijana Pavlovic, attrice e attivista serba rom, e Gianluca Buonanno, europarlamentare leghista. Il quale ha sintetizzato così il proprio pensiero: “I rom sono la feccia della società”.

Alla reazione di Pavlovic, che ha invitato il parlamentare a prendersela “con i borseggiatori, con i criminali”, Buonanno ha proseguito, quasi sorridendo: “Purtroppo il 90% della vostra gente è così”, “Usate i bambini, dovreste vergognarvi”, “Ditelo che è vero che ci sono un sacco di rom e di zingari che sono dei ladri e dei farabutti”.

Il tutto letteralmente urlato davanti al volto di Dijana Pavlovic. La quale ha dato a Buonanno un foglio da leggere, relativo alla tragedia subita dalle donne rom in Svizzera, sottoposte a sterilizzazione dagli anni venti fino al 1974, proprio sulla base di dichiarazioni come quella gridata da Buonanno in diretta televisiva. “Una storia che pochi conoscono, e che rappresenta la continuazione, nel cuore dell’Europa e in quello che si considera un paese civile, del Porrajmos, lo sterminio nazista dei Rom.” Erano parole, quelle di Dijana, che meritavano di essere seguite dal silenzio, dalla riflessione e dal rispetto. Sono state accompagnate, invece, dall’ennesima manifestazione di razzismo”, leggiamo – e condividiamo- sul sito glistatigenerali.com.

Quando Buonanno è uscito dallo studio, Pavlovic si è rifiutata di stringergli la mano. Un gesto comprensibile e condivisibile, dopo gli insulti che le sono stati urlati contro. “Ecco, avete visto? Questa è l’integrazione! Avete visto?”, ha ripetutamente urlato Buonanno, gridando ancora una volta, a scanso di equivoci: “Siete la feccia dell’umanità”. Ancora applausi, e risa, dell’europarlamentare e degli spettatori.

Non tutti, fortunatamente. Alcuni hanno applaudito piuttosto a Formigli, quando ha espressovergogna per la reazione del pubblico alla frase di Buonanno. “Lui – ha sottolineato il conduttore – lo pensa, lo dice, ci mette la faccia. Io disapprovo completamente la sua frase”.

Questo ciò che è successo.

La sensazione sempre più forte è che ci si trovi ormai di fronte a un sipario, con delle maschere che recitano la propria parte, di solito urlando, per lo più slogan. Questo è il livello del dibattito politico, almeno durante i talk show televisivi. Banditi l’analisi sociale e politica, il ragionamento, il confronto. Così come assente è il rispetto per le persone: degli ospiti in studio – in questo caso Djana Pavlovic, contro la quale sono state urlate in faccia, quasi con il sorriso, offese razziste –, di interi gruppi sociali e, infine, degli spettatori: perché, almeno in teoria, questi programmi dovrebbero consentire a chi li guarda di approfondire la conoscenza dei temi trattati e di avere maggiori elementi di valutazione per elaborare la propria opinione.
Ma tra slogan urlati e insulti, cosa si capisce? Si riduce tutto a tifo, in uno stadio in cui i protagonisti sono sempre gli stessi: le persone, quasi sempre rappresentanti politici, di cui conosciamo quasi sempre già le idee e le opinioni.

Ma allora, domandiamo ai conduttori, siamo sicuri che il format prescelto, quello che troppo spesso da salotto degenera in un vero agone televisivo che sacrifica l’informazione allaspettacolarizzazione, sia quello giusto?

«La Repubblica, 15 febbraio 2015

ITALIANI brava gente, si è sempre detto. Soprattutto quando si parla di Shoah. È vero, ci furono i “giusti”. Ma è anche vero che dietro la cattura di ogni ebreo ci furono almeno altrettanti italiani implicati: prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, finanzieri, repubblichini, compilatori di liste, impiegati, delatori della porta accanto, traditori, autisti di camion, ferrovieri, persone che nel 1943-1945 non obbedirono solo agli ordini tedeschi, ma dichiararono gli ebrei “stranieri” e “nemici”, li identificarono su base razziale, li stanarono casa per casa, li arrestarono, li depredarono dei beni, li rinchiusero in campi di concentramento, li consegnarono al III Reich rendendosi colpevoli di genocidio, se, come si intende e come ha detto Raul Hilberg, furono responsabili tutti i gangli della macchina della morte e non solo gli esecutori finali. Le vittime furono oltre seimila. Il libro di Simon Levis Sullam dimostra questo.

Ogni caso ha la sua storia. Lo storico dell’università Ca’ Foscari, autore di molti saggi sull’argomento, ci avvolge di vicende cupe. All’inizio nomina gli ideologi, le leggi razziali del ‘38, la lenta disumanizzazione dell’“avversario”, gli antisemiti, i sostenitori della “totale eliminazione de- gli ebrei”. Ma è quando passa alle singole città, ai singoli provvedimenti, che vediamo quanto il veleno avesse conquistato spazio.

Andiamo a Roma, nel marzo 1944, la grande retata era già avvenuta da tempo, una bambina di sei anni, Emma Calò, e un cuginetto riescono a nascondersi mentre il commissario di Ps sta arrestando i genitori, i nonni e quattro fratelli. Il funzionario cerca e trova personalmente i piccoli. Tutta la famiglia non farà ritorno. A Venezia, 163 ebrei “puri”, in maggioranza anziani, vengono individuati, piantonati e infine rastrellati mentre, alla Fenice, Ar- turo Benedetti Michelangeli tiene un concerto. È il volenteroso Questore Filippo Cordova ad anticipare il ministero e a muovere la macchina, così come faranno molti colleghi e anche i prefetti. Trovano gli ebrei, i militari li scortano, qualcuno scova il vaporetto e lo conduce alla stazione. Un treno parte per Fossoli, dove giorni dopo due agenti ricongiungono dei bimbi tra i 3 e i 6 anni ai genitori: partiranno tutti in un convoglio per Auschwitz con oltre 640 prigionieri, tra cui Primo Levi. A nessuno venne in mente di salvare i piccoli, di ostacolare in qualche modo la ricerca delle vittime e il viaggio verso la morte. E così in tutta Italia.

Le delazioni riempivano le scrivanie dei funzionari. Migliaia. Anonime e no. E i funzionari non ne saltavano una. Così come le guide verso la Svizzera consegnarono spesso, depredandoli, i clienti alle guardie. Oppure era il vicino di casa che denunciava il condomino. Per invidia, rancore, soldi, per appropriarsi dei beni, andavano a prendere anche un solo ebreo nel mezzo della campagna. Perché in Italia catturarli, eliminarli dalla società, non fu un incidente, ma un cardine del totalitarismo.

Una volta tanto su un giornale italiano si riconosce che i due "eroici marò" hanno ucciso due giovani e inoffensivi pescatori.

«In visita alla famiglia di uno dei pescatori uccisi tre anni fa ». La Repubblica, 15 febbraio 2015

NELLA casa linda e spoglia della famiglia di Celestine Galestine, ucciso esattamente tre anni fa dai militari di una petroliera italiana, una volta tanto si ride di gusto. Dora, la vedova di Celestine, ha una voce argentea in un corpo massiccio, e sorridono con gli occhi bassi anche i figli Derrick, 21 anni, al terzo anno di ingegneria, e Jwen, 13 anni.
È il racconto di un sacerdote del Kerala di ritorno da un anno in Italia a riportare un po’ di buon umore nel terzo anniversario di una vicenda dolorosa che coinvolge diverse famiglie: anche quella di Ajesh Binki, il giovane tamil ucciso il 15 febbraio 2012 insieme a Celestine su una barca da pesca scambiata per una goletta di pirati, così come le famiglie dei due marò italiani sospettati di aver sparato.
Padre Tommy era stato parroco in Abruzzo e ricorda a Dora di quando lo scorso anno si recò a visitare i suoi ex parrocchiani. «Una signora mia amica era molto arrabbiata con l’India perché secondo lei teneva in ostaggio ingiustamente Massimiliano La Torre e Salvatore Girone. Allora propose a un gruppo di persone che era con lei di sequestrarmi per uno scambio...».
Anche Dora è una kadel puram kaar, il popolo della spiaggia, uomini e donne che conoscono il mare e odiano le grandi navi che da tutto il mondo vengono a pescare con enormi reti nelle acque internazionali lasciando senza cibo i pescatori locali. Per questo - ci dice il loro leader - «gente come me e Celestine deve andare sempre più al largo con delle barchette e il rischio che comporta, come si è visto ».
Tutti nel villaggio di Muthakkara conoscono bene le ultime vicende: le dure prese di posizioni dell’Ue rivolte all’India, l’operazione al cuore di La Torre e l’autorizzazione dei giudici al rinvio del suo rientro per il processo, che non si è ancora celebrato né sembra destinato a iniziare presto. Ma per Dora è un capitolo chiuso. «Ho già detto di non serbare alcun rancore - ci spiega - e per me i due marò possono tornare per sempre dalle loro famiglie, perché so bene cosa significa l’assenza di chi è caro». Seduto col fratello e la madre sotto al ritratto del padre morto, il figlio maggiore Derrick ci tiene però a dire che - a parte aver ricevuto i soldi per gli studi di ingegneria - «nessuno ci ha mai chiesto scusa».

Anche su questo l’ambasciata italiana di Delhi preferisce mantenere il silenzio, per timore che ogni azione o parola possa essere male interpretata. Lo stesso riserbo hanno quasi sempre seguito La Torre e Girone, mentre una speciale agenzia investigativa nazionale, la Nia, prepara i documenti dell’indagine per i magistrati di una Corte altrettanto speciale. Neanche sul fronte del governo indiano c’è disponibilità a parlare per confermare un’eventuale trattativa in corso. «È tutto in mano alla magistratura », è la posizione ufficiale.

A due passi da casa Galestine incontriamo A. Andrews, il leader dell’associazione dei pescatori del distretto, secondo il quale «spetterebbe a noi il diritto di processare e condannare i responsabili ». «Se le famiglie hanno perdonato - dice Andrews sotto a un colorato crocifisso di Cristo che pende su una parete - noi non lo faremo mai. È nella nostra tradizione punire chi uccide degli innocenti».

In un paese dove migliaia di processi aspettano molto più di tre anni per rendere giustizia, la vicenda dei marò resta un caso a sé, per il clamore internazionale e i troppi dettagli ancora avvolti nel mistero. La fantomatica nave greca, le presunte segnalazioni dei militari alla barca “pirata” in rotta di collisione, le raffiche di mitra sparate da 20 metri di altezza e destinate in teoria a finire in acqua, la decisione del capitano di entrare in porto e consegnare i due marò.

La rabbia delle comunità locali - come ci racconta un testimone di quei giorni a Kochi - montò a maggio quando ai due marò consegnati dal capitano alla polizia del Kerala fu concesso di stare in un albergo da 10mila rupie a notte, 180 dollari, con pasti di uno chef italiano, e ospitalità per 20.30 persone in occasione degli arrivi dei familiari. Al loro seguito c’erano sempre anche tre ufficiali di Marina, un colonnello dei carabinieri e una psicologa, con un cambio trimestrale del team, tanto che per tagliare le spese ormai stratosferiche si pensò di affittargli una casa.
La fine delle costose missioni è arrivata con la decisione di ospitare Girone e La Torre nell’ambasciata di Delhi. Da allora nessun rappresentante dell’Italia è tornato in Kerala, né ha mai pensato di mandare un segno a lungo atteso da Dora e dai suoi figli che non credono più alla giustizia degli uomini: «Almeno una corona di fiori o una preghiera» - dicono - in occasione delle tre messe celebrate ogni vigilia del 15 febbraio nella chiesetta del Bambin Gesù, dov’è sepolto un onesto pescatore scambiato per pirata.
Riprendiamo dal nostro archivio e ripubblichiamo uno scritto sulla strumentale deformazione storica delle "foibe", stoltamente ripresa quest'anno dal presidente Mattarella. È un'intervista di Tommaso di Francesco, fuori dal coro dei nazionalisti nostrani dalla memoria dimezzata.

Il manifesto, 9 febbraio 2014

«Certo che biso­gna tor­nare sulle foibe, ogni volta, ogni anno». A dieci anni esatti dall’istituzione del Giorno del Ricordo (il 10 feb­braio), il bilan­cio di Pre­drag Mat­ve­je­vic è ancora una volta cri­tico e insi­ste a «ricor­dare tutti i ricordi». Nel 2004 un’iniziativa revi­sio­ni­sta sto­rica della destra post-fascista, rici­clata e diven­tata di governo ed elet­to­ral­mente can­di­da­bile gra­zie a Sil­vio Ber­lu­sconi, portò a buon fine la sua bat­ta­glia nega­zio­ni­sta del pas­sato di cri­mini ita­liani nell’ex Jugo­sla­via. Cen­trando l’obiettivo di ridurre la pro­spet­tiva all’ultimo, infau­sto periodo, delle respon­sa­bi­lità slave. A que­sto punto di vista tutto l’arco costi­tu­zio­nale s’inchinò. Favo­rendo negli anni pro­cessi cosid­detti cul­tu­rali — fic­tion, ceri­mo­nie, opere tea­trali — di rimo­zione della verità sto­rica. Su que­sto abbiamo voluto ancora una volta ascol­tare per i let­tori del mani­fe­sto il grande scrit­tore dell’asilo e dell’esilio, l’autore di Bre­via­rio medi­ter­ra­neo — per citare solo una delle sue opere — che ama ancora defi­nirsi jugo­slavo. «A pro­po­sito di sto­ria, che ver­go­gna che qui, in Croa­zia, la Chiesa che ha così gravi respon­sa­bi­lità nella con­ni­venza con il nazi­fa­sci­smo e con l’ideologia usta­scia, abbia pra­ti­ca­mente diser­tato due set­ti­mane fa le cele­bra­zioni del Giorno della Memo­ria» ci dichiara subito Pre­drag Marvejevic.

Sono pas­sati dieci anni dall’istituzione di que­sta Gior­nata da parte delle isti­tu­zioni ita­liane, che ha sem­pre visto la pro­te­sta dei nostri sto­rici demo­cra­tici. Che bilan­cio va fatto?

Intanto che non biso­gna smet­tere di rac­con­tare la verità. André Gide diceva: «Biso­gna ripetere…nessuno ascolta». Ognuno, soprat­tutto in que­sta epoca sem­bra chiuso nella pro­pria sor­dità. Il bilan­cio non è posi­tivo, se a cele­brare il Giorno della memo­ria alla Risiera di San Sabba, il lager nazi­sta al con­fine tra due popoli, accor­rono anche post-fascisti abili a can­cel­lare i cri­mini del fasci­smo ita­liano nelle terre slave. E ogni anno abbon­dano fic­tion e rap­pre­sen­ta­zioni che invece di rac­con­tare il pathos col­let­tivo che riguarda almeno due popoli, ridu­cono tutto, nella forma e nei con­te­nuti, alla sola tra­ge­dia delle vit­time ita­liane. Ho scritto sulle vit­time delle foibe anni fa in ex Jugo­sla­via, quando se ne par­lava poco in Ita­lia. Ero cri­ti­cato. Ho avuto modo di soste­nere gli esuli ita­liani dell’Istria e della Dal­ma­zia (detti “eso­dati”). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via “fra asilo ed esi­lio”. Con­ti­nuo anche ora che sono ritor­nato a Zaga­bria. Con­di­vido il cor­do­glio ita­liano, nazio­nale e umano, per le vit­time inno­centi. Cre­devo comun­que che le pole­mi­che su que­sta tra­ge­dia, spesso uni­la­te­rali e ten­den­ziose, fos­sero finite. Invece si ripe­tono ogni anno, sem­pre più strumentalizzate.

C’è qual­che epi­so­dio par­ti­co­lare di stru­men­ta­liz­za­zione che ricorda?

Voglio ricor­dare il caso del 2008 dello scrit­tore di con­fine, il grande Boris Pahor. Ecco uno scrit­tore che ha fatto della cora­lità del dolore la sua mate­ria, e infatti ha rac­con­tato la tra­ge­dia dei cri­mini com­messi dai fasci­sti in terra slava e il lascito di odio rima­sto. Di fronte all’onorificenza che gli offriva il pre­si­dente della repub­blica Gior­gio Napo­li­tano, insorse dichia­rando che avrebbe detto no, l’avrebbe rifiu­tata, se dalla pre­si­denza ita­liana non arri­vava una chiara presa di posi­zione con­tro i silenzi sugli eccidi per­pe­trati da Mussolini.

Che cosa fu in realtà il cri­mine delle Foibe?

Sì, le foibe sono un cri­mine grave. Sì, la stra­grande mag­gio­ranza di que­ste vit­time furono pro­prio gli ita­liani. Ma per la dignità di un dolore corale biso­gna dire che que­sto delitto è stato pre­pa­rato e anti­ci­pato anche da altri, che non sono sem­pre meno col­pe­voli degli ese­cu­tori dell’ “infoi­ba­mento”. La tra­gica vicenda è infatti comin­ciata prima, non lon­tano dai luo­ghi dove sono stati poi com­piuti quei cri­mini atroci. Il 20 set­tem­bre 1920 Mus­so­lini tiene un discorso a Pola (non certo casuale la scelta della loca­lità). E dichiara: «Per rea­liz­zare il sogno medi­ter­ra­neo biso­gna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, infe­riore e bar­bara». Ecco come entra in scena il raz­zi­smo, accom­pa­gnato dalla “puli­zia etnica”. Gli slavi per­dono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, ave­vano, di ser­virsi della loro lin­gua nella scuola e sulla stampa, il diritto della pre­dica in chiesa e per­sino quello della scritta sulla lapide nei cimi­teri. Si cam­biano mas­sic­cia­mente i loro nomi, si can­cel­lano le ori­gini, si emi­gra… Ed è appunto in un con­te­sto del genere che si sente pro­nun­ciare, forse per la prima volta, la minac­cia della “foiba”. È il mini­stro fasci­sta dei Lavori pub­blici Giu­seppe Caboldi Gigli, che si era affib­biato da solo il nome vit­to­rioso di “Giu­lio Ita­lico”, a scri­vere già nel 1927: «La musa istriana ha chia­mato Foiba degno posto di sepol­tura per chi nella pro­vin­cia d’Istria minac­cia le carat­te­ri­sti­che nazio­nali dell’Istria» (da “Gerar­chia”, IX, 1927). Affer­ma­zione alla quale lo stesso mini­stro aggiun­gerà anche i versi di una can­zo­netta dia­let­tale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin», che ha fatto bene a ricor­dare su il mani­fe­sto nei giorni scorsi Gia­como Scotti nel suo sag­gio. Le foibe sono dun­que un’invenzione fasci­sta. E dalla teo­ria si è pas­sati alla pra­tica. L’ebreo Raf­faello Came­rini, che si tro­vava ai “lavori coatti” in que­sta zona durante la seconda guerra mon­diale ha testi­mo­niato nel gior­nale trie­stino Il Pic­colo (5. XI. 2001): «Sono stati i fasci­sti, i primi che hanno sco­perto le foibe ove far spa­rire i loro avver­sari». La vicenda «con esito letale per tutti» che rac­conta que­sto testi­mone, cit­ta­dino ita­liano, fa venire brividi.

Come è vis­suto il Giorno del Ricordo nell’ex Jugo­sla­via, quali “ricordi” reali va a risvegliare?

La sto­ria (con la S maiu­scola) potrebbe aggiun­gere alcuni altri dati poco cono­sciuti in Ita­lia. Uno dei peg­giori cri­mi­nali dei Bal­cani è cer­ta­mente il duce (pogla­v­nik) degli usta­scia croati Ante Pave­lic. E il campo di Jase­no­vac è stato una Ausch­witz in for­mato ridotto, con la dif­fe­renza che lì il lavoro mici­diale veniva fatto “a mano”, men­tre i nazi­sti lo face­vano in modo “indu­striale”. Aggiun­giamo che quello stesso cri­mi­nale Pave­lic con la scorta dei suoi più abietti seguaci, poté godere negli anni trenta dell’ospitalità mus­so­li­niana a Lipari, dove rice­ve­vano aiuto e corsi di adde­stra­mento dai più rodati squa­dri­sti. Le “cami­cie nere” hanno ese­guito nume­rose fuci­la­zioni di massa e di sin­goli indi­vi­dui. Tutta una gio­ventù ne rimase fal­ciata in Dal­ma­zia, in Slo­ve­nia, in Mon­te­ne­gro. A ciò biso­gna aggiun­gere una catena di campi di con­cen­tra­mento, di varia dimen­sione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si tran­si­tava in que­sti luo­ghi per rag­giun­gere la risiera di San Sabba a Trie­ste e, in certi casi, si finiva anche ad Ausch­witz e soprat­tutto a Dachau. I par­ti­giani non erano pro­tetti in nes­sun paese dalla Con­ven­zione di Gine­vra e per­tanto i pri­gio­nieri veni­vano imme­dia­ta­mente ster­mi­nati come cani. E così molti giun­sero alla fine delle guerra acca­niti: “infoi­ba­rono” gli inno­centi, non solo d’origine ita­liana. Sin­gole per­sone esa­cer­bate, di quelle che ave­vano per­duto la fami­glia e la casa, i fra­telli e i com­pa­gni, ese­gui­rono i cri­mini in prima per­sona e per pro­prio conto. La Jugo­sla­via di Tito non voleva che se ne par­lasse. Abbiamo comun­que cer­cato di par­larne. Pur­troppo, oggi ne par­lano a loro modo soprat­tutto i nostri ultra-nazionalisti, una spe­cie di “neo-missini” slavi. Ho sem­pre pen­sato che non biso­gne­rebbe costruire i futuri rap­porti in que­sta zona sui cada­veri semi­nati dagli uni e dagli altri, bensì su altre espe­rienze. Ad esem­pio cul­tu­rali… Per que­sto auspico la pro­cla­ma­zione con­giunta de “Il giorno dei ricordi”. E que­sto mi sem­bra il nuovo inten­di­mento che emerge e per i quale dob­biamo batterci.

Riferimenti

Rinviamo all'ampia documentazione raccolta in eddyburg nella cartella Italiani brava gente, e in particolare agli articoli degli storici Enzo Collotti (11 febbraio 2007), Giacomo Scotti (13 febbraio 2007), Claudia Cernigol (27 febbraio 2005) e dai giornalisti Simonetta Fiori (3 maggio 2005) e Corrado Staiano (4 febbraio 2005). Nell'immagine bambini jugoslavi internati dai fascisti italiani nel campo di Arbe

omune_info, 21 ottobre 2013

Quello di Agrigento è uno strano rito funebre, nel quale sono assenti i corpi dei migranti annegati da respingimento e accanto alle massime rappresentanze del governo italiano siedono non i genitori e gli amati delle persone annegate ma i rappresentanti del governo eritreo, cioè gli aguzzini dalle due sponde. Nei “grandi” media si sono spese migliaia di parole per fare ipotesi su scafisti, navi madre e non si è quasi mai sentito pronunciare il nome “Isaias Afewerki” il dittatore che in Eritrea impone il servizio militare a vita, che ha il maggior numero di giornalisti al mondo ospiti delle sue prigioni e i cui arsenali sono rimpinguati dalle armi provenienti dall’industria bellica del fiorente nord–est italiano. Il paese è stato definito dalle più importanti associazioni per i diritti umani una prigione a cielo aperto. “Né si è fatta alcuna illazione sul perché sia stato consentito a rappresentanti e ufficiali eritrei di ispezionare e riconoscere le salme, proprio quelle di giovani provenienti da un paese per cui l’Italia finisce per riconoscere lo status di rifugiato politico – scrive Pina Piccolo – Non si palesa nessuna contraddizione nel fatto che ai rappresentanti delle istituzioni eritree sia lecito curiosare tra i corpi dei morti e non ai parenti venuti con gran sacrificio da lontano per avere almeno la consolazione di dare l’ultimo saluto al proprio congiunto”. Se l’attività del tombarolo consiste nella cinica ed egoista raccolta dei frutti del rito funebre, allora questo non è che un governo tombarolo, di larghe intese naturalmente.

Cercavo un appellativo o una metafora che potesse calzare l’iniquo operato del governo delle larghe intese in tutto l’iter degli annegamenti al largo di Lampedusa dal 3 ottobre fino alla celebrazione farsa dei funerali di Stato in absentia dei corpi degli oltre 300 annegati da respingimento (ossia giovani per lo più provenienti dal Corno d’Africa annegati a causa di leggi inique approvate da entrambe le compagini governative e che sono state oggetto di oltre 100 richiami per violazioni dei diritti umani da parte dei massimi organismi internazionali per i diritti umani). Mi sono venute in mente locuzioni bibliche del tipo “sepolcri imbiancati” per denunciarne l’ipocrisia ma alla fine ho dovuto coniare la neo-locuzione “governo tombarolo”. Per tombarolo, nel significato classico del termine, si intende un violatore di tombe, ladruncolo alla ricerca di tesori o di modesti averi che al malcapitato defunto i familiari avevano fatto indossare o messi al loro fianco per accompagnarli nel viaggio dell’aldilà. L’attività di addobbare la salma si può considerare un’attività consolatoria per chi restava nel senso che nel rito si riaffermava una certa “normalità” dello status del defunto, continuava a condividere interessi anche estetici con chi continuava invece a vivere. L’attività del tombarolo invece consisteva nella cinica, egoista raccolta dei frutti del rito.

Oggi ad Agrigento, dopo vari tentennamenti, il governo italiano, in tutte le sue compagini e colori di pelle, si presta a un’ulteriore operazione di spoliazione dei morti, cioè cercheranno di spogliare nuovamente il corpo in absentia di oltre trecento giovani eritrei, somali e altri provenienti dal bacino mediterraneo di qualsiasi gioiello potessero ancora avere addosso. Nelle varie piazze di Italia nelle scorse settimane, si sono sentiti spesso i rappresentanti istituzionali locali rammaricarsi per il “tragico naufragio”, versare lacrime, forse anche sentite, per le vite spezzate. Ma come dice una canzone del cantautore lampedusano Giacomo Sferlazzo “Unnavi curpi u mari” (cioè il mare non ha colpe) se la barca in pericolo non è stata soccorsa da ben tre pescherecci per paura di ritorsioni da parte del sistema penale italiano. Non sono le forze della natura a respingere bensì precise forze politiche che hanno codificato sistemi iniqui per impedire la libera circolazione anche di persone in pericolo di vita, mentre si sforzano in ogni modo di fare leggi che consentano la libera circolazione di merci e capitali (questi ultimi senza controllo alcuno).

Nei media a grande diffusione si sono spese migliaia di parole e di righe di scrittura per fare ipotesi su scafisti, navi madre e non si è quasi mai sentito pronunciare il nome “Isaias Afewerki” il dittatore che in Eritrea impone il servizio militare a vita, che ha il maggior numero di giornalisti al mondo ospiti delle sue prigioni e i cui arsenali sono rimpinguati dalle armi provenienti dall’industria bellica del fiorente nord–est italiano. Il paese è stato definito dalle più importanti associazioni per i diritti umani una prigione a cielo aperto eppure a quasi a nessun giornalista viene la tentazione di fare un collegamento tra le condizioni politico-sociali economiche di quel paese e l’arrivo di tanti giovani in fuga. Non si è trovata traccia nella stampa italiana di un giornalismo d’indagine che si prenda la briga di investigare le committenze del governo eritreo per quanto riguarda industrie tessili e molti altri prodotti di imprenditori italiani. Né si è fatta alcuna illazione sul perché sia stato consentito a rappresentanti ed ufficiali eritrei di ispezionare e riconoscere le salme, proprio quelle di giovani provenienti da un paese per cui l’italia finisce per riconoscere lo status di rifugiato politico. Non si palesa nessuna contraddizione nel fatto che ai rappresentanti delle istituzioni eritree sia lecito curiosare tra i corpi dei morti e non ai parenti venuti con gran sacrificio da lontano per avere almeno la consolazione di dare l’ultimo saluto al proprio congiunto. Infatti nella fretta e furia del governo italiano di far sparire i corpi un gran numero di essi non sa neppure dove sia ubicata la tomba del proprio congiunto. E tutto questo per non parlare della sorte toccata ai sopravvissuti a cui sono state prese le impronte e che sono stati prontamente accusati del reato di clandestinità. Quindi paradossalmente per i morti si è prospettata la possibilità di garantire la cittadinanza mentre per i vivi si è proceduto a dare ben altra ospitalità nei famigerati centri di identificazione di espulsione.

Si possono in un certo senso anche scusare i sindaci, gli assessori, rappresentanti dell’italiano medio al cui “ruolo” (per usare una parola di cui ci si riempie molto la bocca in Italia) non compete la conoscenza approfondita di politica estera, ma ai massimi rappresentanti del governo italiano questo compete e come. Eppure, in questo strano rito funebre, dove saranno assenti i corpi degli annegati da respingimento, accanto alle massime rappresentanze del governo italiano sederanno non i genitori e gli amati delle persone annegate ma i rappresentanti del governo eritreo, cioè gli aguzzini dalle due sponde. In un discorso classico delle migrazioni queste “istituzioni” rappresenterebbero le forze di “push” e “pull” (cioè le forze che “spingono” a lasciare un paese e le forze che “attraggono” verso un altro paese) solo che nel caso, dell’Italia e della sua ex colonia Eritrea perfino queste incombenze sono svolte con una grande doppiezza per cui il paese che teoricamente dovrebbe “attirare” è quello che in realtà respinge (e adesso si munisce perfino di droni per farlo con maggiore efficienza) e il paese che spinge è quello che attraverso tutta una serie di sotterfugi ci guadagna dall’esodo di massa dei suoi giovani “attirando” dentro le sue casse parte dei loro magri guadagni (le ambasciate eritree dotate in tutto il mondo di una fittissima rete di informatori esigono una tassa mensile del 2 per cento sugli introiti dai loro connazionali anche se sono fuggiti all’estero come rifugiati politici).

Quindi oggi i tombaroli nostrani e quelli del regime di Afewerki pure in assenza delle salme, dopo aver creato le condizioni che hanno portato alla morte di oltre 300 persone che cercavano la vita, procederanno con le belle parole a spogliare la parte più fulgida della loro impresa. Cioè, le “istituzioni” ben lontano dal prodigarsi in un atto di cambiamento, cercheranno con una narrazione pietistica di trafugare la narrazione di fiducia nel futuro, di progetto di realizzare le proprie aspirazioni che era insita nella fuga delle persone annegate. Il loro corpo in fuga da e in arrivo a rappresentava la possibilità di una diversa narrazione, troncata appunto non dalla natura ma dalle leggi inique degli esseri umani. La maggior parte di loro, attraverso sacrifici di intere famiglie, era alla ricerca di un posto in cui la vita non fosse compressa dai voleri e dagli interessi di un regime (un desiderio di cambiamento di condiviso da milioni di giovani in tutto il Nord Africa e Medio Oriente, appunto quelli che in altre nazioni si trovano protagonisti di rivolte e rivoluzioni).

Credo che il miglior tributo che possiamo dare alle loro speranze nel futuro è di spegnere il canale sulla dissacrazioni dei tombaroli governativi, di unirci ai fratelli e alle sorelle eritrei che venerdì prossimo organizzeranno una manifestazione a Montecitorio per far rivivere la narrazione alternativa. Ed impegnarci perché questa storia non venga dimenticata appena spente le luci dei riflettori, non solo perché quella storia merita di vivere ma anche perché non è poi una storia tanto diversa dalla nostra, è la ricerca di una diversa narrazione di quelle che possono essere le nostre vite, il nostro presente e il nostro futuro.

Pina Piccolo, traduttrice e insegnante italo-americana, vive a Imola e, tra le altre cose, si occupa di xenofobia e antirazzismo. Questo articolo è stato pubblicato anche su Alma blog

«Contro una misura ragionevole e urgente si leveranno obiezioni per non turbare fragili equilibri, fare i conti con varie “sensibilità” all’interno della maggioranza. Miserie di una politica che rivelerebbe l'incapacità a cogliere i temi del nostro tempo».

La Repubblica, 8 marzo 2013

LE TERRIBILI tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.

Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.

LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.

In questi anni sono stati soltanto i pericolosi giudici, la detestata Corte costituzionale, a cercar di porre parzialmente riparo a questa vergognosa situazione, a reagire a questa perversa “cultura”. Già nel 2001 la Corte costituzionale aveva scritto che vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutte le persone, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sì che “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti”. Un orientamento, questo, ripetutamente confermato negli anni seguenti, motivato riferendosi all’“insopprimibile tutela della persona umana”.
Le persone che ci spingono alla commozione, allora, non possono essere soltanto quelle chiuse in una schiera di bare destinata ad allungarsi. Sono i sopravvissuti che, con “atto dovuto” della magistratura”, sono stati denunciati per il reato di immigrazione clandestina. Di essi non possiamo disinteressarci, rinviando tutto ad una auspicata strategia comune europea.
I rappresentanti delle istituzioni, presenti a Lampedusa o prodighi di dichiarazioni a distanza, non possono ignorare questo problema, mille volte segnalato e mille volte eluso. Così come non possono ignorare il fatto che lo stesso soccorso “umanitario” ai migranti in pericolo di vita è istituzionalmente ostacolato da una norma che, prevedendo il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, fa sì che il soccorritore possa essere incriminato. A tutto questo si aggiunge la pratica dei respingimenti in mare, anch’essa illegittima e pericolosa per i migranti, sì che non deve sorprendere che proprio in questi giorni il Consiglio d’Europa abbia definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell’immigrazione.
L’unica seria risposta istituzionale alla tragedia
di Lampedusa è l’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con norme rispettose dei diritti delle persone. Contro una misura così ragionevole e urgente si leveranno certamente le obiezioni e i distinguo di chi invoca la necessità di non turbare i fragili equilibri politici, di fare i conti con le varie “sensibilità” all’interno dell’attuale maggioranza. Miserie di una politica che, in tal modo, rivelerebbe una volta di più la sua incapacità di cogliere i grandi temi del nostro tempo. Siano i cittadini attivi, spesso protagonisti vincenti di un’“altra politica”, ad indicare imperiosamente quali siano le vie che, in nome dell’umanità e dei diritti, devono essere seguite.

Verifica anche con i commenti a questo articolo.

The Guardian, 10 settembre 2013 (f.b.)

Titolo originale: Italy's racism is embedded – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Settimana scorsa a Roma poco prima della visita del ministro Cécile Kyenge, prima esponente di pelle nera a occupare questa carica, sono stati trovati davanti all'edificio pubblico dei manichini spruzzati di finto sangue. E sparpagliati dei volantini che dicevano: “L'immigrazione è genocidio dei popoli, Kyenge dimettiti!”. Si tratta solo dell'ultimo di una serie di sconvolgenti attacchi e minacce da quando la Kyenge è entrata in carica a aprile. L'ha paragonata a un orango un ex ministro; l'ha accostata a una prostituta un vicesindaco; le hanno scagliato addosso delle banane mentre teneva un discorso.

Con la sua nomina non solo ha gettato luce sui problemi del paese con la tolleranza razziale, ma si è anche cominciato a capire quanto sia stereotipato il concetto di italiano caro e gentile, affettuoso e sorridente, capace soltanto di cercare le migliori cose. Un popolo in fondo più mediterraneo che europeo, magari un po' disorganizzato, ma sempre pronto ad accogliere tutti a braccia aperte, mai a insultare o minacciare. Un'idea riassunta dal modo di dire “italiani brava gente” [in italiano nel testo n.d.t.]. Questa è l'idea che mi ha condotta in Italia a preparare il mio libro. Perché contrastava con l'esperienza di mio nonno, della sua generazione che aveva combattuto contro l'invasione fascista dell'Etiopia, subendo poi cinque anni di occupazione italiana. Una contraddizione che mi ha portata a Roma, dove ho abitato per parecchio tempo, e dove ho fatto ricerche negli archivi dell'era coloniale.

Benito Mussolini e il suo partito fascista hanno governato dal 1922 al 1943, periodo nel quale l'Italia ha costruito il suo impero allargandosi dalla Libia, Eritrea e Somalia. Nel 1935 viene invasa l'Etiopia. Quel popolo subisce in modo devastante e contemporaneo un assalto dall'aria e da terra. Vengono usati i gas, i campi di concentramento, i massacri. Tattiche che l'Italia aveva già usato il Libia, nel corso di una brutale guerra durata trent'anni, ed eufemisticamente definita “campagna di pacificazione”.

I resoconti dalla guerra di Etiopia erano regolarmente censurati, e gli articoli enfatizzavano invece la missione civilizzatrice del paese. Il linguaggio dei pezzi è accuratamente scelto per per convincere gli italiani non solo del loro diritto ad occupare quel territorio, ma delle ottime intenzioni del gesto. Si sottolineano le realizzazioni di infrastrutture, senza dire che quelle strade, ponti, linee telefoniche, servono a migliorare le comunicazioni tra le forze militari, e costano anche vite umane per la costruzione. Certo il tentativo dell'Italia di mascherare gli aspetti sanguinari delle proprie ambizioni imperiali non è diverso da quello delle altre potenze coloniali, ma la cosa che colpisce è la quasi assenza di queste cose dai libri di storia e dal dibattito nazionale. Solo nel 1996 – 60 dopo gli eventi – il ministero della difesa italiano ammetterà che sono stati usati i gas.

La Germania ha avuto il Processo di Norimberga, il Sud Africa la sua Commissione per la Riconciliazione, ma in Italia manca del tutto quel tipo di bilancio post-bellico che obbliga a far luce sugli aspetti più gravi, e iniziare il difficile percorso di riconciliazione. Questi momenti di riflessione collettiva ci hanno dimostrato come affrontare fatti dolorosi possa contribuire a costruire una memoria condivisa, fissare un ethos, sviluppare un dialogo. Unire quelli che avevano il potere di colpire, e quanti hanno quello di perdonare. Attraverso questo tipo di linguaggio un paese si trasforma, costruisce identità nazionale. Dal momento dell'unificazione nel 1861, l'obiettivo dell'Italia è stato di forgiare unità a partire da gruppi straordinariamente diversi e spesso in conflitto. C'è una frase molto nota, attribuita allo statista Massimo d'Azeglio, che recita: “Abbiamo fatto l'Italia. Adesso dobbiamo fare gli italiani”. Qualunque carattere collettivo deriva da una consapevole e attenta costruzione. E storicamente questa costruzione comprende la pelle bianca. Quanto la presenza della Kyenge mette in discussione.

L'Italia, che le piaccia o meno, sta subendo una trasformazione. Nuovi italiani di prima e seconda generazione, e italiani da sempre, la stanno innescando: lottano contro leggi discriminatorie, e lottano non solo per una maggiore consapevolezza del passato, ma anche per le potenzialità del futuro. C'è speranza, ma molta strada da fare. Ricordo di una cena a Roma insieme a degli amici e colleghi. L'occasione festosa fu guastata da un commento urlato a proposito del colore della mia pelle, condito da allusioni sessuali. Gli amici attorno a me erano esterrefatti. Mi guardai attorno, e c'era un anziano che mi faceva l'occhiolino. Alle mie proteste rispose con una risata e sollevando le mani. E immediatamente tornò alla sua conversazione, ignorandomi.

Se non si fosse fatto caso a quel che aveva detto, la scena poteva sembrare quella di un piccolo equivoco da parte di un simpatico signore, e una reazione un po' esagerata. Insomma un altro italiano bonaccione, uno della “brava gente”. Certo gli attacchi alla Kyenge sono molto più violenti: difficile vederci l'italiano gioviale. Ma il mito resiste, finché non si interviene in qualche modo contro i politici e i gruppi che ne sono responsabili. Ci deve essere una riflessione nazionale che coinvolga tutti. Ascoltato dell'ultimo insulto alla Kyenge, ho sentito un'amica italiana di origine somala per chiederle cosa ne pensa. “Questo è il mio paese – mi ha risposto – e lavoriamo per cambiarlo. Ora più che mai l'Italia ha bisogno di persone come me”.

Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg un'intera cartella raccoglie scritti su "italiani brava gente". In particolare vi raccomando gli scritti di Nello Aiello, Angelo Del Boca e moltissimi altri che scoprirete sfogliando le pagine dei sommari di quella cartella.

Inversioni semantiche:Oggi si chiamano “benpensanti" perché pensano male e si comportano peggio: i razzisti di casa nostra.

La Repubblica, 26 agosto 2013

INSULTARE Cecile Kyenge è diventato una forma di neoconformismo. Bastano una buona dose di razzismo volontario o involontario; una notevole mancanza di fantasia; e una pagina Facebook. Di suo il vicesindaco di Diano Marina, signor Cristiano Za Garibaldi (Pdl) ci ha messo un sovrappiù così surreale da risultare quasi divertente: scusandosi, ha spiegato di averlo fatto perché era stressato dalle tasse.

A ben vedere, nella sua caotica autodifesa il vicesindaco dice anche qualcosa di più: è irritato perché il ministro Kyenge ha accennato (solo accennato) alla possibilità di usare qualche alloggio vuoto e inutilizzato per i senza tetto e per i nomadi. Si capisce che in una terra come la Liguria, scempiata dalle seconde case, buona parte delle quali sfitte e in vendita, l'argomento non sia molto popolare. Anche perché costringe gli amministratori liguri, compreso il vicesindaco Za Garibaldi, a riflettere sulla pluridecennale svendita del loro territorio, massacrato dal cemento. Ma sono, questi, solo dettagli, minime variazioni di un ritornello davvero monotono, quello che ha fatto del primo ministro afroitaliano il bersaglio di ogni sconcezza e di ogni sberleffo.

È già stato detto e scritto molte volte, in circostanze identiche a questa, che il bersaglio finale di queste esternazioni è il politicamente corretto, cioè quell’insieme di consuetudini e di inibizioni linguistiche utili a non offendere le minoranze razziali e non solo. Nato non per caso negli Stati Uniti, Paese che prima e più di ogni altro ha dovuto fare i conti con una composizione sociale multietnica e multireligiosa, una colossale immigrazione, le difficili convivenze che ne conseguono, le incomprensioni, gli scontri di sensibilità.

Per quanto ipocrita, e spesso foriero di neologismi davvero goffi, il politicamente corretto discende da un’intenzione virtuosa, che è quella di far convivere le diversità, di renderle governabili. È esattamente per questo — non certo per scrupoli lessicali ai quali in genere non sono aduse — che le destre populiste di mezzo mondo, quella italiana in primo luogo, lo odiano. Perché lo vedono come il sintomo più evidente di una volontà di convivenza che non condividono e non vogliono. E così come per Bossi chiamare gli africani “bingo bongo” non era solamente una manifestazione del suo razzismo privato, ma anche un modo per far sapere ai suoi elettori terrorizzati dall’immigrazione e dal “mondialismo” che finalmente in Italia si poteva dare libero sfogo a qualunque fobia sociale, e anzi farne uno strumento di consenso e di governo; allo stesso modo l’avvento sulla scena politica di Kyenge è stata un’occasione imperdibile per chiarire una volta per sempre che no, un ministro nero non fa parte delle cose tollerabili.

Più in generale, insieme al fragile tappo del politicamente corretto made in Italy, saltato ormai da tempo, sono le buone maniere nel loro insieme a risultare di impiccio alla destra populista. Come molte delle regole in vigore, sono imputate di imbrigliare i cosiddetti “umori popolari”. Rifarsi alla orgogliosa maleducazione fascista, turpiloquente e manganellatrice, è probabilmente congruo ma rimanda troppo indietro nel tempo. Bastino, come esempio corrente, le interruzioni e le urla nei talk-show, il sorriso di scherno e lo scuotimento della testa mentre parla l’avversario, la totale mancanza di contraddittorio politico nel ventennale (e rudimentale) soliloquio berlusconiano, la titolazione incredibilmente becera e aggressiva dei due principali quotidiani di destra, l’odio di classe per “gli intellettuali” che parlano difficile, per la cultura “che non dà da mangiare”, nonché (cito dalla pagina Facebook del vicesindaco di Diano Marina) per “i benpensanti”.

Parola che, usata in quel contesto, e da una persona che ha appena insultato Cecile Kyenge, colpisce molto. Il termine “benpensanti” tanti anni fa serviva per indicare i borghesucci timorati e baciapile, quelli che votavano per la Dc e per i suoi alleati, e che oggi probabilmente votano per il vicesindaco di Diano Marina, il Pdl e la Lega. Oggi la parola viene torta al punto da indicare quelli che non ritengono normale né giusto insultare “i negri”, e ancora si sforzano di chiamarli “neri” o “africani” o “afroitaliani” (è il caso della signora Kyenge). Vedi come mutano i tempi: l’antirazzismo è nato rivoluzionario e per tanti versi lo è ancora, dovendo risalire una potente corrente contraria. Ma oggi i suoi nemici di destra, per deriderlo, per liberarsene, per non farci i conti, lo liquidano come “benpensante”.

Al di là del bene e del male, del ragionevole e del folle, del giusto e dell’ingiusto, dell’onesto e dl disonesto – al di là ( al di sotto) –dell’immaginabile i tentativi di corruzione collettiva in atto per portare sugli altari un ladro di beni pubblici. Se questa è l’Italia…

La Repubblica, 24 agosto 2013

MAI registrata a memoria d’uomo cotanta sensibilità umanitaria della destra italiana di fronte alla piaga del sovraffollamento nelle carceri. Nel novembre 2002 non bastò l’appello rivolto da Giovanni Paolo II davanti alle Camere riunite per convincere il governo Berlusconi a promulgare un atto di clemenza nei confronti dei detenuti. Né si ricordano pressioni in tal senso dai cattolicissimi ciellini riuniti a Rimini, dove quest’anno scrosciano applausi per i ministri Mauro e Cancellieri fautori di un provvedimento d’amnistia.

Per la verità un indulto fu poi approvato nel luglio 2006 su iniziativa del governo Prodi, che ne pagò per intero il prezzo d’impopolarità, anche perché la destra, per votarlo, ne impose l’estensione a reati per cui era sotto processo, guarda un po’, Silvio Berlusconi. Il quale, ritornato alla guida del Paese, introdusse nuovi reati (come quello di clandestinità) e aggravi di pena, che contribuirono in maniera determinante all’abuso della custodia cautelare e al sovraffollamento incivile delle nostre carceri. Fino alla condanna della Corte di giustizia europea; del tutto ignorata dai forcaioli che oggi si riscoprono estimatori di Pannella, pronti a firmarne i referendum e a garantire una corsia preferenziale per l’amnistia che esimerebbe il loro leader dall’anno di detenzione cui è stato definitivamente condannato.

Avvertiamo quindi una speciale viltà in quest’ultima, ennesima trovata che mira a trasformare un atto di clemenza – per sua natura rivolto a mitigare la pena di una moltitudine di persone colpevoli ma derelitte, precipitate all’ultimo gradino della scala sociale – in ossequio alla prepotenza di un oligarca che vorrebbe imporsi al di sopra e al di fuori dello stato di diritto. Il ministro Lupi ora smentisce che sia all’ordine del giorno del governo una tale oscena strumentalizzazione della vergogna in cui versano le carceri: deve essersi reso conto che il “no” secco del Pd rende impossibile una maggioranza parlamentare favorevole a un’amnistia ad personam.

Ma nel frattempo è stato davvero imbarazzante udire le voci di tanti forcaioli del Pdl salutare con favore l’improvvida proposta della ministra della Giustizia e del ministro della Difesa.Quest’ultimo, Mario Mauro, giunge a definire impossibile una riforma della giustizia, nel senso della malintesa pacificazione, «senza un gesto di clemenza, cioè l’amnistia». Così Mauro la missione dell’esecutivo di larghe intese si estenderebbe fino a trasformarlo in governo di “riconciliazione nazionale”. Già in passato, senza esito alcuno, fu prospettata una soluzione politica di vicende drammatiche che avevano gravemente colpito la comunità nazionale: se ne parlò per il terrorismo politico degli anni Settanta e per la Tangentopoli degli anni Novanta. In entrambi quei casi si trattava di affrontare piaghe dolorose, lutti e ladrocini, che avevano però a che fare con comportamenti devianti di natura collettiva, purtroppo assai diffusi nella nostra società. Alla fine la soluzione politica risultò improponibile perché cozzava con le regole fondamentali dello stato di diritto.

Ma è davvero singolare che Mauro non si renda conto della differenza sostanziale fra quelle devianze estese e il caso eminentemente personale, individuale, con cui si misurano oggi la giustizia e la politica: la responsabilità penale di un singolo cittadino, per quanto potente e prepotente egli sia.

Stiamo trattando il caso di un oligarca che frodando il fisco ha sottratto centinaia di milioni all’erario pubblico e danneggiato gli altri azionisti della sua stessa azienda. La propaganda cui si assoggettano i fautori della soluzione politica tende a presentare come vittima un uomo di governo che – per arricchirsi e costituire riserve di denaro all’estero – ha recato danno allo Stato che si era impegnato a servire.

Si prova imbarazzo a elencare – prima dell’amnistia ad personam

– gli altri innumerevoli sotterfugi escogitati giorno dopo giorno per sottrarre Berlusconi alla condanna inappellabile comminatagli il 1° agosto scorso. La richiesta di una grazia presidenziale. La commutazione della pena detentiva in sanzione pecuniaria. La pretesa superiorità del Parlamento rispetto a una sentenza definitiva della Cassazione. La richiesta sovversiva di mantenere capo politico della lista elettorale, ai sensi della legge Calderoli, un cittadino privato dei diritti politici. La non retroattività della decadenza automatica dai pubblici uffici del parlamentare condannato, sancita meno di un anno fa dalla legge Severino. E infine, più beffardo che mai, il dubbio di costituzionalità adombrato sulla medesima legge Severino che pure il Pdl aveva votato in Parlamento senza alcuna obiezione. Ha proprio ragione Cirino Pomicino: ce ne sarebbe abbastanza perché Berlusconi licenzi gli avvocati che paga profumatamente e che per giunta ha fatto eleggere in Parlamento, se solo ora scoprono di aver votato una legge anti-corruzione incostituzionale!

La contraddittoria, grottesca sequela di escamotage dalla vita breve con cui il Pdl cerca di mascherare la pretesa dell’impunità per Berlusconi, comprova la natura eversiva della sua leadership e non trova appigli nelle regole dello stato di diritto. Al massimo riusciranno a strappare ancora qualche settimana di dilazione prima che la pena diventi esecutiva e comporti la decadenza dell’evasore fiscale dal suo incarico pubblico.

Ma certo la strumentalizzazione del dramma delle carceri, con la proposta di amnistia, appare, fra tutte, la più detestabile delle furbizie. Maldestra, perché l’approvazione di una legge di amnistia richiede tempi lunghi. Odiosa, perché abusa della sofferenza altrui per il vantaggio di un impunito.

Razzisti: con la giacca blu e la cravatta a pois, ma comunque razzisti. Al governo, con centro e sinistra. (s)parlando a un meeting di cattolici con la patente CL. C'est l'Italie! L

a Repubblica, 23 agosto 2013, con postilla

Ieri al meeting di Rimini il vice-presidente del Consiglio, Angelino Alfano, ha proposto di far pagare vitto e alloggio dei detenuti stranieri ai paesi da dove provengono gli immigrati. Ci sono quasi 25.000 detenuti stranieri nelle carceri italiane. Non pochi di questi si trovano in questa condizione per il solo fatto di essere entrati illegalmente nel nostro paese, grazie al reato di immigrazione clandestina introdotto da un governo di cui Alfano faceva parte. Quasi tutti questi detenuti sono in carcerazione preventiva, messi in prigione senza quel “giusto processo” che oggi il vice-presidente del Consiglio torna nuovamente ad invocare per chi è già passato attraverso ben tre gradi di giudizio. Solo uno straniero su dieci può accedere a quelle forme alternative alla detenzione che oggi Alfano vorrebbe per altri conciliare addirittura con la presenza in Parlamento. Come pensa il ministro di farsi liquidare i quasi 250 milioni che sarebbero richiesti per pagare vitto e alloggio per un anno ai più di 12.000 detenuti africani presenti nelle nostre prigioni? A chi chiederà Alfano questi soldi in Egitto? E nei paesi dell’Africa sub-sahariana dove il reddito pro-capite è di circa un euro al giorno contro i 50 del costo medio della detenzione in Italia? Vuol far morire di fame questi detenuti per riportarli alle condizioni dei paesi d’origine? Oppure vuole abbassare ulteriormente il salario dei secondini? E perché al “meeting dell’amicizia” nessuno ha avuto alcunché da ridire su questa proposta?

Dopo aver per mesi insultato il ministro Kyenge, nei giorni scorsi la Lega ha deciso di promuovere un referendum per abolire il ministero dell’Integrazione. In verità la Lega ha da anni agito consapevolmente per abolire l’integrazione degli immigrati. Il linguaggio cruento, il terrore sparso tra la popolazione autoctona, le leggi promulgate quando era al governo hanno un comune denominatore: impedire una qualsiasi forma di integrazione. Bene ricordarsi di quando l’allora ministro degli Interni Maroni, in compagnia del ministro della Difesa La Russa, preconizzava sbarchi biblici dal Nordafrica, con due milioni e mezzo di lavoratori stranieri pronti a sbarcare dalla sola Libia. Ci sarebbero voluti almeno 12.500 barconi (quando oggi l’intera Marina militare italiana non dispone di più di 50 navi), con 200 persone a bordo ciascuna, roba da rendere il canale di Sicilia più ingolfato del grande raccordo anulare nelle ore di punta. A cosa serviva sparare cifre alla cieca, prive di qualsiasi riscontro con la realtà, se non a mobilitare gli italiani contro le legioni straniere? Bene ricordare che da allora sono sbarcate in Italia in più di tre anni circa 60.000 persone, molte delle quali sono poi emigrate altrove o tornate in patria.

La legge Bossi-Fini, che oggi Lega e Pdl difendono strenuamente, non impedisce certo l’immigrazione clandestina, ma sembra fatta apposta per far permanere illegalmente decine di migliaia di immigrati nel nostro Paese, una condizione spesso contigua al coinvolgimento in attività criminali, mentre gli immigrati regolari hanno tassi di criminalità in linea con quelli della popolazione italiana. La riduzione della criminalità e della popolazione carceraria straniera (dunque dei costi della detenzione a carico del contribuente) passano proprio attraverso la regolarizzazione.

Uno studio condotto dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti (www.frdb.o rg) mostra che coloro che si sono visti rifiutare la domanda di regolarizzazione nel “click day” del 2007 solo perché sono riusciti ad accedere al sito del ministero degli Interni pochi secondi dopo le 8 e 29 (a Milano) o le 8 e 10 (a Napoli) hanno tra il doppio e il triplo della probabilità di commettere reati gravi nell’anno successivo rispetto a coloro

che si sono visti accettare la domanda. Sono da noi e non possono lavorare. Di qualcosa dovranno pur vivere… L’integrazione è quindi fondamentale per gestire meglio l’immigrazione, per renderla non solo economicamente (lo è già, dato che contribuisce a più del 10% del nostro reddito naziona-le), ma anche socialmente sostenibile. Da quando è iniziata la crisi, i flussi in entrata, gli arrivi di immigrati, sono fortemente diminuiti (attorno al 10 per cento in meno all’anno) e quelli in uscita sono aumentati (quasi +20% nel 2012). Per questo oggi è fondamentale concentrarsi sull’integrazione di chi è già da noi. Non è detto che sia necessario un ministero dell’integrazione, soprattutto se privo di risorse e di poteri come quello creato con un forte connotato simbolico dal governo Letta. Più che un ministero serve una politica dell’integrazione. Dovrebbe reggersi sulla concessione di permessi di soggiorno a tempo indeterminato (al posto dei permessi tutti a breve termine della Bossi-Fini) per i minori stranieri (anche di irregolari) e per tutti quegli immigrati che hanno mostrato di volersi integrare. Servirà anche ad attrarre immigrati che investono nell’integrazione, dunque nel nostro Paese. Dovrebbe questa politica anche favorire in tutti i modi l’accesso all’istruzione da parte degli immigrati di seconda generazione, senza richiedere in alcun modo l’esibizione del permesso di soggiorno da parte del minore o del suo genitore. Dovrebbe anche permettere allo straniero legalmente soggiornante l’accesso a posizioni nella pubblica amministrazione al pari dei cittadini italiani, quando oggi invece gli immigrati di seconda generazione non possono partecipare ai concorsi pubblici. A proposito, perché il ministro Kyenge non ha detto nulla quando paradossalmente il disegno di legge europea varato dal suo governo ha, per un errore materiale, finito per escludere dall’accesso al pubblico impiego molti immigrati legalmente soggiornanti in Italia o che hanno acquisito titoli di studio da noi? Infine, bisognerebbe rimuovere una serie di ostacoli burocratici all’acquisizione della cittadinanza, ad esempio assimilando a questi fini gli anni di residenza legale a quelli di iscrizione all’anagrafe. È possibile farlo anche agendo sui soli provvedimenti attuativi. Non c’è bisogno di grandi proclami e di nuove leggi con il loro inevitabile strascico di demagogia e di polemiche, alla ricerca di un qualche dividendo elettorale.
Postilla
Postilla
D’accordo. Ma forse bisognerebbe intendersi su che cosa significa “integrazione”: Significa
italianizzare che viene da altre culture, oppure rendere l’Italia un paese nel quale molte culture convivono e si arricchiscono contaminandosi?. Io propendo per la seconda concezione. Forse perché sono napoletano e so che la storia del mio popolo è stata quella della contaminazione; e forse perché so che la grandezza degli USA non è nata dall’aver fatto diventare olandesi o svedesi gli immigrati calabresi veneti britannici francesi kenioti cinesi…

Il pregiudizio (degli uomini nei confronti delle donne, di tutti nei confronti dei diversi) è creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderlo così spontaneo da farlo accettare senza sforzo. Riflessioni sul razzismo dell'Italia di questi anni

La Repubblica, 13 agosto 2013

Il pregiudizio non è innocuo. Il suo braccio armato è il razzismo, un’ideologia che unisce gli uguali contro i diversi e che mobilita parole e, quando può, il potere della legge per realizzare il piano di ripulire la società degli indesiderati. Un’ideologia che miete adepti con facilità perché facile da coniugare, elementare ed esprimibile con le parole dell’ignoranza ordinaria, istintiva. Scriveva John Stuart Mill nell’introduzione del Saggio sulla soggezione delle donne

(1869) che l’idea che la donna sia inferiore nell’intelletto e nelle capacità è così diffusa e radicata da apparire a tutti (perfino alle sue vittime) naturale: poiché istintiva e irriflessa, essa deve essere naturale! Diversamente come potrebbe annidarsi con tanta spontaneità nelle menti di milioni di persone?

È vero proprio il contrario: quel pregiudizio è una costruzione sociale, tutto fuor che naturale e spontaneo. Creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderle – questo il vero obiettivo – così spontanee da farle accettare senza sforzo. Lo stesso accade con tutti i pregiudizi: l’eterosessualità è la condizione naturale; la razza bianca è naturalmente superiore; il genere maschile ha una naturale disposizione alla leadership; i settentrionali sono naturalmente più intraprendenti ... e si potrebbe continuare, con una lista davvero lunga al punto che perfino tra gli uguali salterebbe fuori prima o poi una ragione di discriminazione. Si parte dall’umanità per cercare le forme inferiori e si arriva alla gente del proprio villaggio, tra la quale certamente albergano dei reietti. La logica del razzismo è quella dell’esclusione e si diffonde a macchia d’olio, per cui non si finisce mai di escludere.

La pericolosità del razzismo deriva dalla sua facilità di attecchire, alimentato da ignoranza e rifiuto di riflessione. È una gemmazione della pigrizia mentale, il consolidamento di un’atavica tendenza ad orientarsi nel mondo senza troppo sforzo. A Zurigo, nella civilissima e bianchissima Svizzera, qualche giorno fa la star della televisione americana (e una delle persone più ricche degli Usa), Oprah Winfrey è stata trattata come Julia Roberts in Pretty woman: voleva acquistare una borsa da 28mila euro e si è sentita rispondere che era troppo costosa per lei, che avrebbe potuto comprare l’intero negozio. In Italia, continuano gli attacchi e gli insulti feroci al ministro Kyenge.

Il pregiudizio vive di inettitudine mentale e di faciloneria. Per questo rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d’accordo tra loro, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda. Proprio perché genera emulazione il razzismo non è mai un fenomeno isolato: infatti, se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione. Ecco perché quando si legge che l’ex leader della Lega Nord arringa i suoi a ricorrere ai fucili perché non si può riconoscere uno Stato che ha tra i suoi ministri una donna nera, occorre reagire. Non si possono rubricare quelle parole come un commento sbagliato, una frase infelice, un’uscita propagandistica folcloristica: il razzismo non è mai innocente. E umilia tutti.

Un'intervista a proposito delle violenze subita da Cecilia Kyenge, nera e donna. «I pregiudizi si sono rafforzati in questi anni insieme alla decadenza della cultura civica e politica, perché il linguaggio si è privatizzato; invece che cittadini che si relazionano come estranei in uno spazio pubblico, ci scambiamo opinioni personali, le quali si accavallano senza cura alla forma del linguaggio».

Il manifesto, 30 luglio 2013
Gli insulti alla ministra dell'Integrazione Kyenge, ma anche le offese alla presidente della Camera Laura Boldrini e le violenze quotidiane contro le donne. «E' come un coacervo di tutti i pregiudizi e soprattutto della relazione machista con le donne» osserva Nadia Urbinati, politologa e docente di Teoria della politica alla Columbia University di New York. Non proprio stupita dall'impennata di episodi di razzismo delle ultime settimane. «E' da diversi anni ormai che parliamo e scriviamo di razzismo in Italia. Io ricordo alcuni anni fa, all'inizio del governo Berlusconi, numerosi casi di razzismo nei confronti degli immigrati, la campagna contro gli illegali e i boat-people. C'è stato un processo di consolidamento di pratiche e pregiudizi che è andato insieme alla depoliticizzazione delle relazioni pubbliche, rendendo la società più permeabile al razzismo.

Va bene, stiamo raccogliendo i frutti di venti anni di politica leghista sull'immigrazione. Ma il ministro Kyenge viene presa di mira in quanto donna e nera.

Ritengo che i pregiudizi si siano rafforzati in questi anni insieme alla decadenza della cultura civica e politica, perché il linguaggio si è privatizzato; invece che cittadini che si relazionano come estranei in uno spazio pubblico, ci scambiamo opinioni personali, le quali si accavallano senza cura alla forma del linguaggio, al fatto che esso può offendere e far male. Parlerei di decadenza del linguaggio della politica e di egemonia pubblica di modelli soggettivi di comportamento. Non mi stupisce per niente in questo senso il legame donne e etnia. Anche nella cultura americana è così. I pregiudizi si attraggono l'un l'altro, si accumulano. Negli Stati del Sud degli Stati uniti, o nella zone del Midwest dove è più forte il radicamento del partito repubblicano, questo connubio tra cultura contro l'affermative action, cioè contro le pari opportunità, si coagula con i pregiudizi contro i neri e tutte le minoranze che reclamano un trattamento comparato alla loro condizione di svantaggio.

Ma il fatto che Kyenge oltre a essere nera sia una donna di governo influisce? Dopo l'elezione di Obama in America, nel 2008, aumentarono le aggressioni nei confronti dei neri. Fa paura un nero che ha potere?
Sì che fa paura. Io ricordo che appena si comprese che Obama stava sopravanzando Bush alcuni gruppi legati al partito repubblicano (poi confluiti nel Tea Party) cominciarono a diffondere dubbi sulla sua identità americana. Dichiarandolo non americano, lo si decretò escluso, ma anche un nemico totale se provava a scalare le istituzioni dello Stato. Per i razzisti del Tea Party non era concepibile avere un presidente che fosse nero e americano. C'è quasi un'idea incorporata nel pregiudizio che chi è oggetto di pregiudizio appartiene a un sotto non a un sopra, quindi non può diventare parte della leadership politica. Quando questo succede è un motivo di scandalo. Anzi, provoca la perdita di autorevolezza delle istituzioni. Un ministro nero vuol dire che il ministero ha meno valore. Per anni (e ancora oggi) questo è valso anche nel caso delle donne.

E questo si riflette anche sul ministro Kyenge.
Certo perché è nera e donna, un "difetto" dal quale, oltretutto, lei non si può emancipare. Essere nera e donna intacca le istituzioni dello Stato.

Tra le donne finite nel mirino c'è anche la presidente Boldrini.
Come tutti coloro che difendono una cultura dei diritti contro la non-cultura della sopraffazione pregiudiziale.

Non è la prima volta che in Italia abbiamo un presidente della Camera donna. Penso a Nilde Iotti e Irene Pivetti. Eppure non hanno scatenato gli attacchi che adesso è costretta a subire la presidente Boldrini.
Direi che i tempi erano diversi. Entrambe le precedenti due presidenti si collocavano in un'Italia che non aveva ancora questa forte presenza multiculturale e multietnica. Ora invece abbiamo una situazione in cui queste espressioni di diversità hanno addirittura voce politica nello Stato. Quindi difendere Kyenge, come ha fatto la presidente Boldrini, significa esporsi a due rischi: essere oggetto di offese come donna e come sostenitrice di posizioni che per chi ha pregiudizi razziali sono insostenibili.

Ma cos'è che fa più paura: l'essere donna o l'essere neri?

Qui in Italia l'essere neri. Tuttavia l'attacco alle donne è gravissimo e rientra nello stesso discorso sul razzismo; un nuovo esempio di debolezza del cosiddetto mondo maschile, prepotente e violento.

Questi episodi sono l'espressione di una minoranza becera oppure su certi temi è proprio il sentire nazionale che sta cambiando?
Guardi io non so quantificare quante persone si identificano con simili atti, però il nostro paese ha subito profonde trasformazioni dopo tre decenni di influenza nella cultura popolare dalle televisioni commerciali, che hanno formato intere generazioni imponendo un linguaggio spesso molto povero e soprattutto inadatto a dialogare ma pronto invece a pontificare e asserire. Modi del discorso diffusi anche in politica. E questi episodi di razzismo sono così ripetuti e continui che viene quasi da pensare che quel che si dice, la condanna di questi fatti, non abbia presa, non abbia più influenza.

Come vede il futuro?
Non lo so. Penso però che questa situazione di blocco che stiamo vivendo, questa alleanza politica anomala deve finire prima possibile, perché non stimola la chiarezza delle idee, non lascia la libertà agli attori di essere se stessi. Perché c'è un veto incrociato, per cui non si può fare tutto ma non si può nemmeno dire tutto. Se in politica non esistono più differenze, che sono il sale della politica, esse si travasano altrove. Vanno a finire nei rapporti privati, diventano divisioni identitarie di etnie e genere. Ecco una ragione non secondaria della recrudescenza del razzismo e della violenza contro le donne. Certo, sarebbe sbagliato pensare che questa è una ragione del razzismo - non è questo che voglio dire. Voglio semplicemente mettere l'accento sul fatto che l'impotenza della politica, il blocco della dialettica politica o tra avversari politici, rende più agevole aprire nuovi terreni di contrapposizione, dove non le idee ma i pregiudizi hanno cittadinanza.

© 2024 Eddyburg