il manifesto
L’ITALIA CONDANNATA PER TORTURA
NELLE CARCERI DI BOLZANETO E ASTI
di Eleonora Martini
«La Corte europea dei diritti dell’uomo ordina risarcimenti per oltre 4 milioni di euro. È la prima sentenza che riconosce il reato commesso in una "regolare" prigione italiana»
Due condanne in un solo giorno provenienti da Strasburgo confermano ancora una volta l’uso della tortura nelle carceri italiane, reato per il quale lo Stato non ha mai chiesto scusa alle vittime e non ha mai punito i responsabili (ma non li ha neppure sospesi durante l’inchiesta e il processo, come sottolinea la Corte europea dei diritti dell’uomo).
Sono 63 in totale le persone che, da recluse, hanno subito violenze fisiche e psicologiche da parte di autorità di polizia: due durante la detenzione nel carcere di Asti nel 2014, quando vennero sottoposte a maltrattamenti di vario tipo da parte di cinque agenti penitenziari, e 61 a Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova. A tutti loro la Cedu ha riconosciuto ieri un indennizzo che va dai 10 mila agli 88 mila euro a testa (a seconda delle gravità delle violenze subite e della «conciliazione amichevole» eventualmente già pattuita con il governo italiano), condannando così Roma al pagamento complessivo di 4 milioni e 10 mila euro per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani.
«A giudizio della corte, i giudici nazionali hanno fatto un vero e proprio sforzo per stabilire i fatti e individuare i responsabili», scrive la Cedu, ma a causa della lacuna normativa di allora i torturatori sono rimasti impuniti. Il problema, sul quale i giudici di Strasburgo ovviamente non si soffermano ma che viene sottolineato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, è che il reato di tortura rischia di rimanere impunito in alcuni casi anche in futuro, perché la legge entrata in vigore il 18 luglio scorso che introduce finalmente quella fattispecie di reato nell’ordinamento italiano è volutamente contorta e difficilmente applicabile.
Anche se il ministro Orlando un paio di giorni fa si è detto convinto che la nuova legge abbia recepito le direttive della Cedu contenute nella sentenza Cestaro del 2015 e ha spiegato che comunque il testo ha bisogno di essere applicato per verificare eventuali «elementi di fragilità normativa», caso in cui, ha detto, «non escludiamo una riflessione».
Dopo la condanna del giugno scorso per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz, i giudici di Strasburgo riconoscono ad altre 61 persone, alcune delle quali arrestate proprio durante quell’irruzione, il diritto ad essere risarcite per le violenze subite «dagli ufficiali di polizia e dal personale medico» a Bolzaneto, una delle due caserme, insieme a Forte San Giuliano, adibite a centri temporanei di detenzione dei manifestanti “rastrellati”. Per due giorni, le vittime vennero «aggredite, picchiate, spruzzate con gas irritanti, subirono la distruzione degli effetti personali e altri maltrattamenti – ricorda la Corte – Mai avrebbero ricevuto adeguate cure per le ferite riportate, e la violenza sarebbe continuata anche durante le visite mediche», oltre a non aver potuto contattare familiari, avvocati e consolati.
Per questi fatti «la procura di Genova indagò 145 tra poliziotti e medici, di cui 15 vennero poi condannati a pene tra i 9 mesi e i 5 anni di reclusione». Ricorda la Corte che successivamente «dieci di loro hanno beneficiato di una grazia, tre di una completa remissione della pena detentiva e due di una remissione di 3 anni; quasi tutti i delitti sono stati prescritti».
Undici dei ricorrenti davanti alla Cedu hanno già accettato di ricevere dal governo italiano 45 mila euro per una «conciliazione amichevole» e perciò hanno diritto ad un risarcimento minore. Ma a nessuna delle tante vittime dei torturatori di Genova, sottolinea Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum del 2001, «a 16 anni dai fatti, dopo varie condanne italiane e internazionali, non è ancora arrivata alcuna parola di scusa a nome dello Stato da parte dei suoi massimi rappresentanti, primi tra tutti il presidente della Repubblica. Una vergogna nella vergogna».
Forse perfino più importante e incisiva è la seconda sentenza emessa ieri dalla Cedu, perché è la prima volta che viene riconosciuta la tortura in un “regolare” carcere italiano e l’Italia viene condannata sia per il delitto in sé «(aspetto sostanziale») che per quanto riguarda la risposta delle autorità nazionali (aspetto procedurale)».
In questo caso, il governo dovrà risarcire con 88 mila euro ciascuno, due detenuti del carcere di Asti o i loro familiari (i torinesi Andrea Cirino e Claudio Renne, quest’ultimo morto in una cella a Torino nel gennaio scorso), per le torture subite nel dicembre 2014 da cinque poliziotti penitenziari, tutti assolti dal tribunale di Asti per mancanza di reato specifico. E perché «malgrado le sanzioni disciplinari imposte», ritenute dalla Cedu, «non sufficienti», gli agenti «non sono stati sospesi durante l’inchiesta o il processo».
Due sentenze che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, considera «un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni da parte dell’Italia».
BOLZANETO E ASTI,
LA TORTURA È NELLE CARCERI
di Patrizio Gonnella
«Stop all’impunità. La legge non basta contro i torturatori»
Oltre 4 milioni di euro di risarcimenti e l’ennesima brutta figura internazionale. A 16 anni di distanza dal G8 di Genova, dopo le sentenze sulla Diaz, e 13 anni da quanto accaduto nella prigione di Asti, arrivano altre due condanne da Strasburgo, le ennesime, per tortura. Non una parola qualunque ma tortura. Stavolta, tuttavia, ci sono alcune sostanziali differenze rispetto al passato nella decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
In primo luogo le condanne sono state due, per due fatti ben diversi tra loro. Da una parte ci sono le vicende del G8 di Genova e della caserma di Bolzaneto. Già in passato per le torture e le violenze avvenute nel luglio 2001 l’Italia era stata condannata dalla Corte di Strasburgo, sia per gli episodi della scuola Diaz che proprio per quanto avvenne a Bolzaneto. Dall’altro le brutalità commesse nelle prigioni di Asti nel 2004.
Ciò che accomuna tuttavia i due casi è che riguarda delle prigioni. Nel caso di Bolzaneto un carcere improvvisato. Nel caso di Asti una galera vera e propria (per la prima volta l’Italia viene condannata per tortura in un carcere). Prigioni dove sono avvenute violenze brutali, minacce fasciste, fino allo scalpo verificatosi nella sezione di isolamento del carcere piemontese.
La seconda novità rispetto al passato è l’entità dei risarcimenti alle vittime che superano di gran lunga quelli a cui finora la Corte di Strasburgo ci aveva abituato, arrivando in alcuni casi a riconoscere fino ad 85 mila euro ad un singolo ricorrente.
Ora l’Italia da qualche mese ha una legge e il termine tortura è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, come abbiamo avuto modo di dire già all’indomani dell’approvazione, il testo è molto lontano da quello della Convenzione delle Nazioni Unite che era quello che chiedevamo.
Altro elemento di queste sentenze che non può essere tralasciato è quello dell’impunità per gli autori delle violenze. Alcuni dei responsabili degli episodi oggi giudicati come tortura dalla Corte Europea sono ancora in servizio e a rispondere dei loro atti criminosi sarà solamente lo stato italiano dal punto di vista pecuniario.
Nei prossimi giorni l’Italia andrà sotto osservazione dinanzi al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Antigone ha presentato un rapporto indipendente sulla situazione del Paese sul quale vedremo come risponderanno le autorità italiane dopo questa ennesima condanna. In ogni caso, quello che oggi chiediamo è: che sia adottato un codice di condotta per i comportamenti in servizio di tutti gli appartenente alle forze dell’ordine; che ci sia sempre l’identificabilità di tutti coloro che svolgono compiti nei settori della sicurezza e dell’ordine pubblico; che si interrompano le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che difendono, anche in sede legale, i responsabili di questi comportamenti; che dinanzi a questi casi lo Stato si costituisca parte civile; che vengano assunti tutti i provvedimenti amministrativi del caso contro gli autori delle violenze; che venga istituito un fondo per il risarcimento delle vittime di tortura.
Avvenire,
Il caso Anna Frank ha riacceso il dibattito sull'antisemitismo nelle tifoserie ultras delle squadre sportive.
La cosiddetta «tradizione» non c’entra, dietro c’è una precisa strategia politica. La tradizione cittadina vuole il laziale più 'borghese' e il romanista più 'popolano', il primo residente nei quartieri alti di Roma Nord (con un’isola meridionale, l’Eur) e il secondo radicato a Roma Sud.
Per intenderci: Parioli-Trieste-Flaminio contro Testaccio- Garbatella-Magliana. Da qui la storica definizione del laziale 'di destra' e del romanista 'di sinistra' che, come tutte le generalizzazioni, è assai imprecisa. Molto più definita, invece, la collocazione all’estrema destra dei gruppi egemoni di entrambe le tifoserie ultras che, come accennato, fa parte di una strategia di reclutamento politico che affonda le sue radici storiche alla fine degli anni 80 e che si è fatta via via più incalzante. E che, sia detto per inciso, riguarda le curve di buona parte del Paese.
Lo ha spiegato con molta chiarezza, nemmeno due mesi fa, il leader nazionale di Forza Nuova, Roberto Fiore, annunciando che il suo movimento era in cerca di attivisti appartenenti in particolare a tre categorie: «I tifosi delle squadre di calcio, il cui attaccamento alle proprie città è forte e vivo; i tassisti, apprezzati per la loro conoscenza del territorio e l’impegno civico; i pugili noti per coraggio e disciplina».
L’obiettivo era l’organizzazione delle cosiddette «passeggiate per la sicurezza», un modo un po’ edulcorato per definire le ronde di quartiere. E durante una di queste, alla Magliana, il 23 settembre è stato denunciato (insieme ad altri 14 'camerati') Giuliano Castellino, responsabile romano di Forza Nuova e figura storica del tifo ultras giallorosso. Un passato dentro Casapound, da cui poi si è allontanato, Castellino è stato il fondatore del gruppo 'Padroni di casa' in Curva Sud. La stessa curva che frequentava Daniele De Santis, l’estremista di destra condannato per aver ucciso a colpi di pistola il tifoso del Napoli Ciro Esposito nel maggio del 2014, prima della finale di Coppa Italia tra gli azzurri e la Fiorentina. Ben nota, poi, la situazione nella Curva Nord laziale, che prima dei rivali è riuscita ad affermarsi come un punto di riferimento dell’estrema destra capitolina. Attualmente il gruppo principale, gli Irriducibili (nati nel 1987 e ben presto egemoni, ai danni dei vecchi Eagles’ Supporters), tende a parlare in nome collettivo, senza più sovraesporre i capi storici (il più noto alle cronache è Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik), spesso alle prese con problemi giudiziari di vario tipo.
Ma il momento di difficoltà degli ultimi anni, caratterizzati da uno scontro feroce con il presidente della Lazio Claudio Lotito, sembra passato e adesso sarebbe di nuovo Diabolik a comandare. Le 'truppe d’assalto' delle due curve romane (quelle che appiccicano - non solo allo stadio - adesivi come quelli di Anna Frank, oppure con la scritta 'Laziale non mangia maiale') sono invece formate per lo più da giovani e giovanissimi che si ritrovano spesso accomunati nelle manifestazioni politiche a gridare 'Roma ai romani' o 'Prima gli italiani', nei 'presidi' anti-immigrati, nei raid contro chi accoglie i rifugiati.
Insomma, non è vero – come ha detto il vicepresidente della Comunità ebraica Ruben Della Rocca – che gli ultras laziali «hanno esportato razzismo antisemita anche in Curva Sud». Non è vero per il semplice, triste fatto che razzismo e antisemitismo sono già presenti da tempo nella frange estreme di entrambe le curve dell’Olimpico, così come in molte altre curve italiane. Tanto che le espressioni «ebreo» e «giudeo» vengono utilizzate e percepite da entrambe le sponde come un’offesa.
Left
La storia inizia con gli accordi di Sykes-Picot, quando le due grandi potenze coloniali dell’epoca (inizi del Novecento) ridisegnarono sulla carta geografica il nuovo Medio Oriente, inventando Stati senza una propria identità nazionale, cancellando, prima con un tratto di penna e poi con le armi, comunità intere.
Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia, Algeria, Congo, Mozambico, Angola… È il passato che non passa, sono ferite che non si rimarginano. In periodi storici diversi, sotto regimi diversi, ma con la stessa, lunga scia di sangue. E con una verità che si vorrebbe cancellare. Una verità scomoda. Italia, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, così come Austria, Gran Bretagna, Germania: nel continente Africano, i colonialismi europei si sono spessi trasformati in terrorismo di Stato. Non è solo la storia di Paesi saccheggiati, di popoli sottomessi a forza, di ricchezze naturali depredate da multinazionali onnivore che mantenevano dittatori sanguinari. Questo è il colonialismo “classico”. Ma quello che si vorrebbe cancellare, seppellire nel dimenticatoio, è il terrorismo di Stato: sono le stragi di civili, le città e i villaggi dati alle fiamme, le popolazioni deportate, le fosse comuni, le pulizie etniche.
Un passato che chiama pesantemente in causa l’Italia. Altro che “italiani brava gente”. Angelo Del Boca, il più autorevole storico italiano del colonialismo fascista nel Nord Africa, ha dedicato anni di ricerche e diversi saggi per dimostrare i crimini di guerra e contro l’umanità che le truppe italiane commisero in Libia, Etiopia, Eritrea… Somalia. Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e torturate, teste mozzate portate in giro come trofei; torture anche su bambini e vecchi. Racconti documentati di massacri di massa, di uso sistematico dei gas contro la popolazione civile, di lager che nulla avevano ache “invidiare” a quelli nazisti. Il colonialismo italiano è stato brutale, selvaggio, e dietro di sé ha lasciato solo rovine e una memoria che il tempo, non solo in Libia, non ha cancellato. L’Italia ha tutto distrutto e nulla realizzato. A differenza di Francia e Gran Bretagna, rimarca in proposito Del Boca, che nei domini coloniali hanno formato una classe dirigente autoctona, l’Italia neanche questo ha fatto, impedendo anche l’istruzione, percepita come una minaccia.
Sono trascorsi quasi 80 anni da allora, ma la logica colonialista non è cambiata. Il terrorismo di Stato non viene più praticato direttamente ma per interposto regime. Cos’altro è il sostegno italiano alle milizie che in Libia si sono riciclate in guardiane dei lager nei quali vengono segregati e sottoposti alle più abominevoli torture, migliaia di migranti ricacciati indietro dalla Guardia costiera libica, spesso in combutta con i trafficanti di esseri umani, sostenuta, armata e addestrata dall’Italia? E cos’altro è, se non terrorismo di Stato per interposta persona, quello che si cela dietro all’appoggio dell’Italia, e dell’Europa, ad uno dei più brutali regimi africani: quello dell’Eritrea? Oggi come ieri, la diplomazia dei diritti non ha spazio nelle politiche neocoloniali dell’Europa: l’importante, l’imperativo categorico, è impedire una (inesistente) invasione di rifugiati e migranti dai Sud del mondo. Per ottenere questo risultato, le democrazie europee chiudono gli occhi e mettono mano ai portafogli, per arricchire i “Gendarmi” delle frontiere esterne: gli Erdogan, gli al-Sisi, i signori della guerra libici, i dittatori che spadroneggiano in Eritrea, Corno d’Africa, Sudan, Niger, Nigeria…
L’Italia non è stata la sola a praticare il terrorismo di Stato nel Vicino Oriente e in Africa. Vi sono pagine di vergogna, impastata di sangue, scritte da regni e democrazie europei che hanno depredato Paesi interi, massacrato popolazioni indigene, depredato le ricchezze naturali, sfruttato a livello di schiavitù anche i bambini. È la storia del colonialismo belga – nel Congo – di quello portoghese – in Mozambico e Angola – e poi della Francia, della Gran Bretagna, della Germania. Queste ferite sono ancora aperte. Perché hanno significato la morte di decine di milioni di persone, la negazione dei più elementari diritti umani ad altrettante. Ha significato schiavitù sessuale, fosse comuni, crimini che oggi la “civile” Europa imputa ai nazi-islamisti di Daesh. Senza memoria, non c’è futuro. E coltivare la memoria di un colonialismo “terrorista” significa non solo non mantenere viva una verità storica ma anche ragionare sui guasti del presente e su scelte rivelatesi scellerate. «L’Italia – dice a Left Angelo Del Boca – sembra aver rimosso non solo il passato coloniale del Ventennio fascista, con tutta la brutalità che l’ha caratterizzato, ma con le scelte compiute nel presente dimentica anche cosa abbia voluto dire aver fatto parte dei Paesi europei che nel 2011 hanno portato guerra e distruzione in Libia, usando strumentalmente il tema dei diritti umani, per eliminare un testimone scomodo, Muammar Gheddafi, con il quale mezza Europa, tra cui l’Italia, aveva fatto affari, e, per quanto riguarda Gran Bretagna e Francia, per scalzare l’Eni nella sua posizione petrolifera dominante. Le conseguenze di quella scellerata guerra – conclude Del Boca – sono, e non da oggi, sotto i nostri occhi. Il problema è che chi governa, quegli occhi li vuol tenere chiusi».
Un atteggiamento complice che l’Italia condivide con l’Europa. L’Europa che ha scelto di pagare raìs, generali, autocratici per fare il lavoro sporco. Che erige muri e militarizza frontiere per ricacciare indietro milioni di persone che fuggono da guerre, disastri ambientali, sfruttamento inumano di multinazionali onnivore, che sono, spesso, il frutto delle scelte europee o occidentali. È la democrazia imposta dall’esterno in Iraq, che ha liquidato Saddam Hussein consegnando il Paese ad al-Qaeda e alla dittatura sciita. È lo “scontro di civiltà” che ha ideologicamente supportato le guerre contro il terrorismo nel Grande Medio Oriente; guerre che invece di stabilizzare e pacificare, hanno destabilizzato e portato al potere tanti Pinochet mediorientali o africani. Uno per tutti: Abdel Fattah al-Sisi. È la doppia morale di chi si batte contro l’Isis, salvo poi fare affari con lo “Stato islamico” veramente realizzato: l’Arabia Saudita. Ieri era terrorismo di Stato colonialista. Oggi è usare la lotta al terrorismo jihadista per continuare a sfruttare popoli, alimentando guerre per procura. È il terrorismo di Stato del Terzo millennio. E l’Europa ne è parte attiva.
il manifesto, 3 settembre 2017
Ci aveva già provato la Lega Nord, anni fa. Forse la reazione, culturale e politica, dell’Italia democratica fu troppo debole, allora. Ci riprova ora uno dei tanti gruppuscoli neofascisti, quello probabilmente di maggior capacità di mobilitazione, nel silenzio pavido degli uni e nella oggettiva complicità degli altri – quella cospicua parte del popolo italiano che ha già introiettato la paura dell’immigrato.
Alludo al manifesto che Forza Nuova ha lanciato per accendere italiani e italiane di sacro fuoco etnico-nazionale, ricorrendo a un prodotto propagandistico del peggior periodo della nostra storia, quello della Repubblica Sociale Italiana: un manifesto murale, diffuso anche sulla stampa di regime, che mostrava un «negro» che ghermisce una donna bianca, e il testo recitava: «Difendila dai nuovi invasori» e poi, in piccolo: «Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia». Gli invasori erano, nel ’44 i soldati degli eserciti alleati, in quello che fu l’anno dello sbarco ad Anzio e in Sicilia, e la crisi del fascismo, succube del nazismo hitleriano, appariva ormai irreversibile. Il manifesto era firmato da un disegnatore sperimentato, Gino Boccasile, l’inventore della Signorina Grandi Firme, efficacissimo illustratore delle copertine della Domenica del Corriere, poi firmatario del Manifesto della razza, infine, appunto, convinto aderente alla Rsi.
Forza Nuova, riproponendo l’icona del negro stupratore di bianche fanciulle, nella Rete (ma si annuncia anche, pare, la stampa murale in grande formato), aggiunge un commento per così dire esemplare, dal punto di vista dell’uso politico della storia, una storia naturalmente manipolata, ignorata, o rovesciata. Si legge infatti: «Le violenze dell’epoca del manifesto a cui ci siamo ispirati furono contestualizzate all’interno della sconfitta che chiamarono "liberazione", quelle di questi anni e di questi giorni le occultano spudoratamente, tacendo il fatto che sono attuate da nuovi invasori a cui paghiamo vitto, alloggio, bollette, schede telefoniche, cellulari e sigarette. I nuovi barbari sono peggiori di quelli del ’43-45, oggi come allora fiancheggiati dai traditori della Patria».
Difficile sintetizzare meglio la morale politica del fascismo, e mostrarne l’eterno ritorno, per così dire, sotto le mutevoli vicende di nazioni e popoli. Difficile esplicitare in così poche parole una mentalità, ahinoi sempre più diffusa, che fondandosi su false informazioni, o su vere e proprie menzogne, gioca sulla ingannevole contrapposizione «noi/loro», accettandola supinamente. Il «successo» del post (oltre 10 mila like in poche ore) è una riprova in tal senso, ma ancor più lo è la gran massa dei commenti, un osceno florilegio del peggior razzismo cosciente o più spesso inconsapevole, un buco nero in cui annega ogni residuo di intelligenza. «L’emergenza» denunciata ogni giorno da un intero ceto politico, o quasi, non è quella dei migranti, ma quella degli stolti e degli ignoranti. La strada è lunga e in salita.
Internazionale, 31 agosto 2017, con postilla (i.b.)
Si è scritto molto sulla foto di Angelo Carconi che ritrae un poliziotto che accarezza una ragazza eritrea durante lo sgombero con gli idranti di piazza Indipendenza, a Roma. Lo sguardo tra i due ci parla di una relazione complicata (ambigua, coloniale, violenta) cominciata verso la fine del diciannovesimo secolo e mai terminata. Tracce di questa storia sono ancora presenti nel quartiere dove è avvenuto lo sgombero, tra piazza Indipendenza e la stazione Termini. Qui si sono intrecciate la storia delle prime migrazioni dal Corno d’Africa e la storia del colonialismo italiano.
Negli anni settanta del secolo scorso il Corno d’Africa era in fiamme. Si scappava dalle dittature. I somali scappavano da Siad Barre, gli etiopici-eritrei dal sanguinario Menghistu Hailè Mariàm. Le terre del corno si tingevano di sangue e l’Italia, di cui molti conoscevano già la cultura, fu considerata naturale terra d’approdo. L’Italia infatti – anche dopo la fine del colonialismo storico – ha avuto su quelle terre una forte influenza ideologica. Basti pensare che fino al 1974 le scuole in Somalia erano italiane, perché dire Italia era come dire Europa. E anche ad Asmara, in Eritrea, portare i figli alla scuola italiana era non solo prestigioso per le famiglie, ma anche una chiave d’ingresso (almeno molti lo speravano) assicurata per il futuro.
Gianni Morandi andava per la maggiore, ma anche Rita Pavone, Peppino di Capri, Mina e successivamente (ma erano già gli anni ottanta) i Ricchi e Poveri o Umberto Tozzi. Uno dei più famosi hotel di Mogadiscio, l’Uruba, per concludere le sue serate danzanti metteva su una serie di lenti e tutti sapevano che quando scattava Ciao di Pupo era l’ora di ritirarsi, il momento di rubare un bacio alla propria bella.
Il Corno d’Africa sognava l’Italia, la considerava la quintessenza della modernità, perché dopo la guerra molti (l’imperatore d’Etiopia per primo, grazie alla realpolitik) preferirono non rivangare quei cattivi ricordi di stragi, eccidi, uso di gas e andare avanti. Quindi basta con il generale Rodolfo Graziani e la sua violenza, meglio ballare sulle note di Adriano Celentano e dei suoi 24.000 mila baci.
Ma il passato se non lo rielabori ti arriva addosso come un boomerang. E se ne accorsero i primi emigranti somali ed eritrei che si trovavano negli anni settanta a passare proprio a piazza Indipendenza il tempo libero. Molte donne lavoravano come colf, ma c’era chi studiava, chi sperava in un futuro migliore. L’Italia non era quella terra del bello che avevano sognato. Niente Gianni Morandi o Adriano Celentano. Era un paese polveroso pieno di problemi, denso di pericoli (c’era il terrorismo) quasi quanto la terra d’origine. E non è un caso che fu proprio in quel momento che il passato coloniale riemerse con tutta la sua ferocia, con le sue idee di razza inferiore e razza superiore, con gli stereotipi di questi neri pigri, di queste nere da mangiare in un sol boccone (spopolavano allora i film sexy con l’eritrea Zeudy Araya). Fu in quel momento che il razzismo colpì con ferocia quei primi migranti.
Fu allora, esattamente nel 1979, che il somalo Ahmed Ali Giama fu bruciato vivo per scherzo da quattro ragazzi italiani annoiati sotto il portico di via della Pace. Il povero Ahmed era reo di essere povero ed essere nero. E lo stesso succederà negli anni ottanta, nel 1985 ad Udine, a Giacomo Valent, figlio di un italiano e di una somala, massacrato dai suoi compagni di scuola con 63 coltellate perché nero, benestante e di una famiglia cosmopolita. Si odiava il ricco come il povero se era nero.
Ed ecco che tutta la propaganda sul Corno d’Africa, sui perfidi abissini, di mussoliniana memoria, fece di nuovo capolino sia nelle chiacchiere in famiglia sia nei discorsi pubblici. C’era diffidenza verso questi migranti dalla pelle scura, verso i loro primi figli. Sguardi cattivi, non solo curiosi. E lì ci fu la delusione di molti somali e molti eritrei. Come racconta bene Garane Garane in un libro ormai mitico per gli studiosi postcoloniali, Il latte è buono, il protagonista del romanzo, Gashan, subisce al controllo passaporti il primo colpo:
«Il passaporto per cortesia…
Passaporto? Perché?, chiese Gashan con l’aria incredula.
Perché? Ma siamo in un altro paese. Ci saranno passaporti da voi? O mi sbaglio, disse con stizza il poliziotto.
Sono somalo. Non mi ha riconosciuto?»
Ecco quel “non mi ha riconosciuto” è il segno di una fratellanza mancata. Gashan sa tutto dell’Italia. Ha studiato l’italiano a scuola, ha mangiato i dolci italiani al Hazan vicino alla casa d’Italia dove il pasticcere è italiano, conosce la musica, conosce il cinema, sa cose dell’Italia che nemmeno l’Italia sa di se stessa. Gashan si sente tradito dall’ignoranza dell’Italia su di lui. E via via che il romanzo procede e capisce che nessuno lo conosce, né tantomeno conosce la Somalia, la sua delusione diventa sconcerto. Gashan si sente straniero proprio in quell’Italia che sentiva come casa. L’unico che lo riconosce è la statua di Giulio Cesare ai Fori imperiali, e solo a lui Gashan apre il cuore. Solo le tracce di marmo, solo le tracce nell’architettura conoscono ancora il suo nome. La fredda statua gli dà quell’asilo che l’Italia gli nega.
Lo stesso di fatto è successo con lo sgombero di via Curtatone. Lo sgombero sarebbe stato grave anche se si fosse trattato di romeni, nigeriani, maliani, bengalesi. Ma il fatto che si trattasse di eritrei lo ha reso più grave ai miei occhi. Se gli eritrei, che sono stati i primi a venire in questo paese, ancora si dibattono tra occupazioni e razzismo, come pensiamo di risolvere il problema di tutti gli altri? Vuol dire che c’è una dissociazione con la propria storia. Una volontà di vivere in perenne emergenza. E dire che basterebbe solo fare pochi passi da piazza Indipendenza verso la stazione Termini per capire quanto profonda sia questa relazione.
Piazza dei Cinquecento, Roma, 1950 circa |
Piazza dei Cinquecento, la piazza della stazione, è dedicata ai caduti italiani della battaglia di Dogali, una delle più grandi sconfitte militari che l’Italia abbia subìto in Africa insieme alla battaglia di Adua. Una sconfitta militare che costò caro all’Italia in termini di caduti e di consenso nel paese. Su Dogali gli italiani si divisero e molti si chiesero come mai proprio loro che si erano liberati da poco dal giogo coloniale austriaco ora volevano far subire la stessa sorte a degli africani che nemmeno conoscevano e con cui non c’era nessuna inimicizia.
Quei primi vagiti di colonialismo, voluto da politici e ufficiali (non dal popolo), furono fallimentari e ce lo illustra molto bene lo storico Angelo del Boca nel suo volume dedicato agli italiani in Africa Orientale. Del Boca in particolare spiega che a Dogali la battaglia fu una sconfitta perché gli ufficiali sottovalutarono di fatto il nemico, in quanto africano. Un ammasso di errori di strategia, di pressappochismo, di arroganza e di pensiero razzista portarono a un eccidio. Uno dei fatti che mi ha sempre colpito della battaglia in questione è che, all’interno di una cornice militare, tra eritrei-etiopici e italiani si siano consumate vendette private.
Certo potrei dirvi che la storia coloniale è stata rimossa e finirla qui. Ma il punto non è solo la rimozione (che c’è), ma anche la mancata rielaborazione di cosa stiamo stati insieme nel bene e nel male. Italia ed Eritrea, Italia e Somalia, Italia ed Etiopia, Italia e Libia non si sono mai guardati davvero in faccia e nelle relazioni (parlando dei potenti) c’è un ambiguo proseguimento di vecchi schemi. Una “fratellanza” sbandierata per poi poter fare affari con dittatori feroci (lo vediamo nella gestione della questione migranti con il generale libico Haftar) o per sversare rifiuti tossici in terre un tempo incontaminate. Elvira Frosini e Daniele Timpano nel loro spettacolo dedicato al colonialismo italiano Acqua di colonia dicono non a caso che “qualche affaruccio lo abbiamo combinato pure dopo”, cioè dopo il colonialismo, ed ecco elencati Enrico Mattei e Ilaria Alpi, gli affari sporchi che nel tempo hanno legato Italia e Africa. Come se questo maledetto colonialismo in verità non fosse mai finito.
C’è una mancata rielaborazione. Una mancata decolonizzazione. Un mancato guardarsi negli occhi e raccontarsi. Forse per questo quella foto mi ha colpito. Mi sono astratta e ho cercato di capire se prima o poi nel futuro ci sarà un vero riconoscimento reciproco. E guardando la donna, il suo pianto così dignitoso, ho pensato a un altro eritreo, Zerai Deres. Di lui circola una foto in rete: ha bei riccioli, baffetti ben curati. Una giacca elegante, uno sguardo fiero. Durante il fascismo, almeno secondo le fonti eritree-etiopiche, quest’uomo si rese protagonista di un atto d’insubordinazione contro il fascismo in pieno centro di Roma, zona stazione Termini, presso la stele di Dogali. Zerai Deres probabilmente era uno degli interpreti degli internati etiopici che per rappresaglia furono incarcerati dopo l’attentato al generale Rodolfo Graziani del 1937.
Stele di Dogali, Roma, luglio 2014 |
Il 13 giugno 1938 Zerai Deres si trovava nei pressi del monumento dei caduti di Dogali e guardando negli occhi il leone di Giuda (simbolo dell’Etiopia, trafugato dal fascismo e messo davanti alla stele, restituito all’Etiopia nel 1970 grazie ad Aldo Moro) cominciò a sentire nel petto una rabbia che lo portò prima a inneggiare all’imperatore Hailé Sellasié, poi a inveire contro l’Italia e il fascismo, e infine a colpire con una sciabola quanti più italiani possibile, ferendone alcuni. Qui la storia si fa nebulosa. Zerai Deres era un patriota? O il suo gesto era dettato da questioni personali? Davvero ci fu un atto d’insubordinazione al fascismo nella città di Roma e non ci è stato tramandato nulla?
La donna con le sue lacrime così dignitose mi ha ricordato quel Zerai Deres che si perde tra storia e leggenda. Anche la zona di Roma è più o meno la stessa. Piazza Indipendenza non è tanto lontana da dove si trova la stele di Dogali. Ed ecco che lo spazio tra il poliziotto e la ragazza diventa qualcosa di veramente importante. Lì dentro c’è un vuoto di senso che dobbiamo colmare. Ci si guarda negli occhi, certo, ma ci si riconosce? E questo forse quello che dovremmo fare nel prossimo futuro: riconoscerci come parte di una stessa storia.
postilla
E' difficile affrontare la decolonizzazione, senza cadere nel neocolonialismo, se di quel periodo non si ammettono e condannano gli errori e gli orrori commessi nel nome di una presunta superiorità culturale. Rimangono ancora troppi coloro che considerano quel capitolo della nostra storia un passato glorioso e che oggi ne condividono ancora i valori e gli ideali.
L'espresso, 10 Luglio 2013
Carlo Gubitosa
E' incredibile quante cose si imparano con una vignetta, soprattutto se arriva da qualcuno che sa rovistare nelle pieghe della storia. E' quello che ha fatto il fumettista Alessio Spataro tuffandosi di testa nell'archivio Youtube della Rai per una "anticommemorazione" illustrata di Indro Montanelli, di cui tra pochi giorni ricorre l'anniversario della morte.
Correva l'anno 1936, e quella che sarebbe diventata una delle penne piu' prestigiose d'Italia scriveva nel numero di gennaio del periodico "Civilta' Fascista" un articolo in cui si sosteneva che "non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà".
Ma evidentemente non tutti i tipi di "fraternizzazione" erano sgraditi a Montanelli, come ha raccontato il diretto interessato in una intervista rilasciata a Enzo Biagi per la Rai nel 1982: "aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle li' erano gia' donne. L'avevo comprata a Saganeiti assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire. (...) Era un animalino docile, io gli (sic) misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari".
L'episodio era gia' stato rievocato in precedenza nel 1969, durante il programma di Gianni Bisiach "L'ora della verita'", in cui Montanelli ha descritto la sua esperienza coloniale: "Pare che avessi scelto bene - racconto' Montanelli - era una bellissima ragazza, Milena, di dodici anni. Scusate, ma in Africa e' un'altra cosa. Cosi' l'avevo regolarmente sposata, nel senso che l'avevo comprata dal padre. (...) Mi ha accompagnato assieme alle mogli dei miei ascari (...) non e' che seguivano la banda, ma ogni quindici giorni ci raggiungevano (...) e arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita. (...) non c'e' stata nessuna violenza, le ragazze in Abissinia si sposano a dodici anni".
Un episodio che getta una pesante ombra sulla memoria del giornalista, ma al tempo stesso permette di fare luce su pagine oscure della nostra storia, che vanno ben oltre quella compravendita di una bambina dodicenne troppo giovane per fare da moglie a chicchessia.
L'occasione per approfondire il clima dell'epoca e' stata la polemica innescata dalla rievocazione di Spataro, dove il fronte degli indignati per quell'azione intrisa di colonialismo e in odore di pedofilia si e' scontrato con la frangia giustificazionista del "cosi' fan tutti" (o perlomeno cosi' facevano tutti all'epoca di quei fatti).
Ma siamo sicuri che fossero proprio tutti a fare cosi'? Sembra di no, visto che dalla nebbia cibernetica dei ricordi, oltre alla moglie bambina di Montanelli (abbandonata al suo Tucul e al suo destino quando il giornalista e' rientrato in Italia) e' emersa tra una replica e l'altra anche la storia dell'"imputato Seneca", l'uomo che ha sfidato per amore le leggi razziali in base alle quali era proibito elevare al rango di moglie vera e propria una "madama" acquistata per i soggiorni nelle colonie.
Il "madamato", infatti, non era un vero e proprio matrimonio con parita' di diritti e doveri, ma una forma di "contratto sociale" segnata dal dominio autoritario del colonizzatore sull'indigeno, dell'uomo sulla donna, dell'adulto sul bambino, del libero sul prigioniero, del ricco sul povero, del forte sul debole. E alla fine avevi qualcosa che era meno di una moglie e poco piu' che una schiava.
Era importante fare in modo che queste relazioni di dominio con le "belle abissine" non sconfinassero mai nel terreno dei sentimenti, e per questo nel Regio Decreto 740 del 19 aprile 1937, dal titolo eloquente "Sanzioni per rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi", si era stabilito che "il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d'indole coniugale con persona suddita dell'Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell'Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da uno a cinque anni".
La ragione di questo divieto alle "relazioni d'indole coniugale" l'ha spiegata Gianluca Gabrielli in un articolo del 2012 pubblicato sulla Rivista dell'Associazione Nazionale degli antropologi culturali:
La legge contro le unioni miste - scrive Gabrielli - vuole punire esemplarmente gli italiani che mostrano di non aver rispettato il codice di comportamento "razziale" dei dominatori. Il dispositivo quindi non è stato varato per colpire direttamente la donna africana, non è lei da educare in senso razzista. È l'italiano che interessa, che deve mantenere una distanza evidente e ostentare superiorità con le popolazioni del luogo, perché la distanza e la superiorità assicurano il dominio.
Ed e' per questo che tra i "capi d'accusa" a carico di Seneca vengono elencati normalissimi gesti di premura verso una compagna, tra cui la colpa "di aver preso con sé un'indigena, di averla portata con sé nei vari trasferimenti, di volerle bene, di averla fatta sempre mangiare e dormire con sé, di avere consumato con essa tutti i suoi risparmi, di avere fatto regali ad essa e alla di lei madre, di averle fatto cure alle ovaie perché potesse avere un figlio, di avere preso un'indigena al suo servizio, di avere preparato una lettera a S.M. il Re Imperatore per ottenere l'autorizzazione a sposare l'indigena o almeno a convivere con lei". Gesti che diventano crimini perche' l'oggetto di queste attenzioni e' un'africana, un'inferiore, un "suddito".
Sfogarsi nelle trasferte comprandosi le "madame" andava bene, ma nella sentenza che condanna Seneca si afferma che "in questo caso, non è il bianco che ambisce sessualmente la venere nera e la tiene a parte per tranquillità di contatti agevoli e sani, ma è l'animo dell'italiano che si è turbato ond'è tutto dedito alla fanciulla nera sì da elevarla al rango di compagna di vita e partecipe d'ogni atteggiamento anche non sessuale della propria vita".
E quando si passa dalle "ambizioni sessuali" ai "turbamenti dell'anima", aggiungendo la sfrontatezza di voler elevare la "fanciulla nera" al ruolo di "compagna di vita" anche fuori dal letto, non c'e' perdono possibile per la cultura fascista. Per i giudici che hanno condannato l'imputato Seneca quella donna non era rimasta un puro oggetto sessuale per "contatti agevoli e sani", ma c'era il rischio che potesse diventare non solo oggetto di affetti, ma anche moglie e cittadina dell'impero, e tutto questo per il colonizzatore e' una sciagura da evitare a tutti i costi.
Per smentire il "cosi' fan tutti" associato alla sottomissione delle donne, all'acquisto di minorenni, alla pratica del "madamato" basta una semplice controprova che sgretola in un attimo quel "tutti" cosi' perentorio. E pur essendo cosa comune a quei tempi comprare persone di cui disporre liberamente, e avere rapporti sessuali con dodicenni, c'e' sempre in ogni epoca della storia qualche "imputato Seneca" che spinge la civilta' lontano dalla barbarie.
E' a questa gente che dobbiamo guardare, e non alla morale corrente: ne' a quella in vigore al tempo delle "madame" dodicenni, ne' a quella attualmente in voga nella nostra epoca di "utilizzatori finali" di diciassettenni.
Ricostruire l'"acquisto" di Montanelli e il contesto in cui e' maturato, assieme all'esperienza speculare di Seneca che cercava una compagna di vita e non una "madama a tempo", potra' sembrare una inutile riesumazione di fatti gia' noti, o una mancanza di rispetto verso una firma storica del giornalismo italiano.
Resto comunque persuaso che il recupero della memoria storica, l'analisi critica dei dati di realta' e i racconti fatti senza piaggeria faranno contento il Montanelli giornalista ovunque egli si trovi, anche a costo di lasciare un po' amareggiato il Montanelli colonialista e acquirente di dodicenni, e i suoi fan talmente appassionati e devoti da perdonargli qualsiasi errore di gioventu', anche il piu' abominevole.
la Repubblica, 18 agosto 2017
«Rimini, la donna, di origini senegalesi, incinta di sei mesi, derubata del cellulare da una coppia e poi colpita a calci e pugni. Arrestati i due ragazzi, lei 19 anni, lui 22. Il pm: “Chiederò l’aggravante per odio razziale”»
Si chiama Barry, ha 39 anni ed è incinta di sei mesi. La sua colpa, mercoledì sera, è stata quella di essere nera e di avere un cellulare in borsa. «Tutti i passeggeri sono rimasti al loro posto, soltanto l’autista mi ha aiutata. Io pensavo a difendere il mio bambino», ha detto la donna di origini senegalesi alla polizia dopo essere stata rapinata, insultata, picchiata con calci e pugni e buttata a terra da una coppia di ragazzi italiani – 19 anni lei, 22 lui – su un autobus di Rimini.
I giovani le hanno gridato «negra di m.», «torna al tuo Paese». La ragazzina le urlava «ti faccio abortire», mentre badava a suo figlio di tre mesi. Entrambi sono stati arrestati con l’accusa di rapina, oggi davanti al giudice il pm Davide Ercolani chiederà l’aggravante dell’odio razziale. La vittima è finita in ospedale spaventata e sotto shock. Un’altra storia di razzismo in Romagna, dopo che a marzo un nigeriano è stato accoltellato e travolto in auto davanti a un supermercato.
Mercoledì sera Barry, che è regolare e da tempo vive a Rimini con la famiglia, è sull’autobus numero 11 che da Rimini porta a Riccione. Si accorge che un giovane, dietro di lei, ha infilato la mano nella sua borsa e ha preso il cellulare. «Ridammelo », gli dice. Il ragazzo, Gabriele Miele, originario della provincia di Caserta, le butta il telefono in mezzo alle gambe e comincia a urlare insulti razzisti. La sua ragazza, Alessia Mucci, di Ancona, rincara. Non solo la violenza verbale, è scritto sulla denuncia in mano ai pm, ma pure quella fisica: Gabriele la colpisce con calci e pugni «in varie parti del corpo». Barry si difende come può, pensa solo al figlio che aspetta, è terrorizzata.
Quando le cose si mettono male l’autobus si ferma, l’autista apre le porte, i passeggeri scendono e la donna incinta viene spinta e fatta cadere a terra. Qualcuno chiama la polizia, la coppietta non smette di insultare Barry nemmeno davanti agli agenti. Vengono sentiti dei testimoni. Una, in particolare, conferma di aver visto scendere dall’autobus due donne e che quella nera è stata fatta cadere. Ha confermato che la senegalese si lamentava per riavere il proprio telefonino, rubato sull’autobus. Vicino alle porte del mezzo pubblico, gli agenti hanno trovato a terra il cellulare, un portamonete e la borsa della donna aggredita.
Il 22enne è stato portato in carcere, la 19enne è finita ai domiciliari perché ha il bambino. Oggi il gip deciderà se convalidare l’arresto. «Il reato è di rapina pluriaggravata impropria, perché era nata come un furto, ma contesterò anche l’aggravante della discriminazione razziale », dice il pm della procura di Rimini Davide Ercolani. «C’è stato odio». La donna, soccorsa dal 118, è stata portata in ospedale in stato di shock ma è stata dimessa con una prognosi di 15 giorni. Il bambino che aspetta non dovrebbe correre alcun rischio.
Da sedici anni, l’8 agosto è la giornata nazionale del sacrificio del lavoratore italiano nel mondo. La data è quella della strage più grande, l’incendio nella miniera di Marcinelle nel Belgio centrale dove nel 1956 persero la vita 136 minatori italiani; Sergio Mattarella ha ricordato come ogni anno questo giorno.
«Generazioni di italiani hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione – ha detto tra l’altro il presidente, in un breve comunicato evidentemente preparato come sempre con qualche giorno di anticipo – hanno sofferto per la separazione dalle famiglie d’origine e affrontato condizioni di lavoro non facili, alla ricerca di una piena integrazione nella società di accoglienza. È un motivo di riflessione – ha aggiunto – verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione europea».
Un richiamo alla solidarietà e alla condivisione europea per nulla clamoroso, pienamente nel solco di diversi interventi del capo dello stato sul tema dell’immigrazione. Troppo forzato sarebbe vederci una correzione della linea dura, o quanto meno rigorosa, appoggiata appena lunedì sera nel comunicato informale con il quale il Quirinale si era schierato al fianco del ministro Minniti. Casomai è quella mossa, che ha preso la forma di una nota di «ambienti del Quirinale», che rappresenta qualcosa di assai inconsueto per il presidente Mattarella. Non solo per la formula ma anche per il deciso intervento nel merito di una discussione interna al governo. Intervento c’è da supporre richiesto al Colle, magari con l’argomento che bisognava evitare il rischio di offrire all’estero l’immagine di un esecutivo diviso sul tema immigrazione.
Le poche parole di Mattarella sono bastate però per offrire a Salvini l’occasione per la sua polemica quotidiana, che sempre più deve diventare insulto per guadagnare visibilità (una delle occasioni, di un’altra leggete qui sotto). «Mattarella si vergogni – riesce a dire il leghista – perché paragona gli italiani emigrati (e morti) ai clandestini mantenuti in Italia per fare casino».
Segue grande sforzo agostano del Pd e di un po’ di altri rappresentanti politici per difendere il capo dello stato dalla stupidaggine del segretario della Lega. «Si vergogni lui», dicono più o meno tutti senza troppa fantasia, «insopportabile e cinico». Mentre un deputato appena passato al Pd, Gianfranco Librandi (eletto con Monti dopo trascorsi berlusconiani), nota giustamente che «la Lega è nata contro i “terroni” che andavano al nord a lavorare esattamente come i nostri connazionali di Marcinelle, che dal sud Italia si sono mossi per andare nelle miniere del Belgio e anche lì sicuramente c’era un Salvini che li chiamava “clandestini mantenuti”». Quei lavoratori italiani che, secondo le parole di Mattarella, «hanno contribuito a edificare un continente capace di lasciarsi alle spalle le devastazioni della seconda guerra mondiale e di offrire alle generazioni più giovani un futuro di pace, di crescita economica, di maggiore equità sociale».
manifesto, 27 luglio 2017
Ancora una volta per capire la crisi libica e dintorni, ricorriamo ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e della Libia.
Gentiloni ha ricevuto Fajez al Sarraj di ritorno dal vertice con Haftar promosso da Macron a e ha comunicato che il leader di Tripoli «ha chiesto aiuto navale italiano in acque libiche contro i trafficanti di esseri umani»; ora la proposta «viene valutata con il ministro della Difesa». Che significa?
«Sembra un nuovo intervento militare, una nuova avventura italiana. Comunicato appena dopo il vertice voluto da Macron. Una specie di guerra d’immagine. Ma pericolosa, Non a caso è stato subito apprezzato dalla destra italiana che da tempo vuole schierare le cannoniere. Certo non è chiaro: si tratta di una sorta di blocco navale in acque libiche, solo della Tripolitania, quasi una sostituzione italiana dell’inutile e corrotta guardia costiera libica? Oppure in acque internazionali? Comunque sulla pelle dei profughi che a quel punto sarebbero sequestrati, dopo l’eventuale cattura dei “trafficanti” e rispediti nelle prigioni libiche o nella disperazione africana. Senza escludere il rischio di come avviene un blocco navale: dovremmo ricordarcelo come Italia: nel 1997 affondammo la barcarola albanese Kater I Rades con una corvetta della Marina e morirono 108 persone».
Qual è il suo giudizio sul vertice di Parigi promosso dal presidente francese?
«È come se Macron avesse voluto ricucire, ma solo recitandolo, l’affronto di Sarkozy che, nel marzo 2011 guidò la guerra a Gheddafi forzando la mano a tutti, a cominciare dall’Italia fino agli Stati uniti, un fatto che almeno Obama ha riconosciuto come un tragico errore. Uno strappo tra l’altro costato 30 mila miliardi di dollari in distruzioni di città, fabbriche, infrastrutture, secondo la valutazione fatta dalle Nazioni unite.
Eppure Sarraj e Haftar si sono stretti la mano per un cessate il fuoco, l’ipotesi di un governo unitario di transizione, elezioni nella primavera del 2018…
«Ma se si legge bene, sono gli stessi contenuti dell’incontro tra i due di Abu Dhabi nel maggio scorso. Sui quali Macron ha messo il cappello. Un vertice quello la la mediazione degli Emirati, in realtà schierati con il generale Khalifa Haftar che fa il lavoro sporco per la stessa Francia, l’Egitto e la Russia. Dietro Fajez al Sarraj c’è il riconoscimento dell’Onu e l’Italia, che lo ha insediato con la Marina militare – e quello nemmeno c’informa che va da Macron. Ma il «nostro» leader vive sotto assedio, non controlla a pieno nemmeno la città di Tripoli; tanto meno la Tripolitania divisa tra milizie in parte schierate con Tripoli, come quelle di Misurata che ricattano costantemente Sarraj, in parte con il precedente governo islamista di Khalifa al-Ghweil; ci sono poi l’enclave armata di Zintane che ha detenuto e liberato Seif Al Islam, il figlio di Gheddafi; il Fezzan delle tribù e dei clan e la Cirenaica di Haftar, ancora alle prese con il tentativo di ricostituzione delle milizie jihadiste, a Derna e Bani Walid dopo la sconfitta di Sirte. Dappertutto centinaia di milizie armate.
ytali, 24 luglio 2017 (p.d.)
E due. Appena pochi mesi dopo l’incontro a Riyadh della ministra della difesa italiana, Roberta Pinotti, con il suo omologo saudita, ora è stata la volta del ministro degli esteri della stessa Arabia Saudita, Adel al-Jubeir, che è stato ricevuto con tutti gli onori alla Farnesina dal suo omologo italiano, Angelino Alfano. Perché così frequenti incontri? Qual è la materia tanto interessante (e riservata: i comunicati dei due vis-à-vis si sono limitati all’annuncio e alla ovvia “cordialità”) da motivare questi insistiti rapporti? ytali un sospetto ce l’ha, e lo già manifestato più volte ancora prima della visita di Pinotti nella capitale saudita. E cioè che tanto reciproco interessamento possa avere per tema non solo i pur intensi rapporti economici (l’Italia è tra i maggiori esportatori nel paese mediorientale) ma, specificamente, gli enormi quantitativi di micidiali bombe MK82 che, con impressionante e sempre maggiore frequenza, partono dalla Sardegna, via navi-container, e sbarcano nei porti dell’Arabia.
Da qui i carichi vengono trasferiti negli aeroporti militari da dove i bombardieri della Royal Saudi Air Force partono per i raid sullo Yemen, dov’è sempre in corso una terribile guerra civile alimentata dalla coalizione a guida saudita impegnata a restaurare il governo di Hadi, deposto da una fazione avversa. Così vengono seminati morte e distruzioni che, secondo l’Alto commissariato per le Nazioni Unite per i diritti umani, i sauditi&alleati “hanno causato il doppio delle vittime civili rispetto a tutte le altre forze messe insieme, e quasi tutte in conseguenza degli attacchi aerei” partiti da Riyadh. (In uno dei bombardamenti del settembre scorso è stata anche colpita “per errore” una fabbrica italiana: “Utilizzano bomba italiane per bombardare italiani”, com’è stato detto nel successivo ottobre quando per l’unica volta la ministra Pinotti ha risposto alla Camera a un nugolo di interrogazioni sul vergognoso traffico di queste armi micidiali).
Si è detto che sono bombe italiane. Già, perché – lo ripetiamo per l’ennesima volta – le MK82 recano alcuni codici chiarissimi tra cui quelli delle due aziende italiane che le hanno prodotte: la Ims spa di Vicenza (che fabbrica gli involucri) e la Rwm-Italia spa di Domusnovas, in Sardegna, che fornisce gli esplosivi e gli inneschi per rendere “attivi” gli ordigni. E questa Rwm-Italia altra non è che una “figlia” (pur formalmente italiana) del gruppo tedesco Rwm. Ma il governo tedesco si guarda bene da intestarsi la fabbricazione delle bombe, e rispetta almeno formalmente i dettati dell’Onu e della Ue: tant’è che delega il lavoro sporco ma assai redditizio all’Italia, e così non compromette il proprio nome in un’operazione che viola le solenni raccomandazioni internazionali di non fornire armamenti di alcun genere alle parti in conflitto nello Yemen.
E Pinotti aveva confermato tutto questo. Primo: “La Rwm ha esportato [bombe] in Arabia Saudita in forza di una licenza rilasciata in base alla normativa vigente”. Secondo: “Le richieste [di esportazione] delle imprese italiane sono gestite dall’Unità per le autorizzazioni di materiale di armamento, Uama”, organo interministeriale Difesa-Esteri. Alt, per un momento. L’Uama è gestita in accordo tra Difesa ed Esteri? Ecco un punto-chiave, ecco come e perché viene avvalorato il sospetto (non solo di ytali ma, sin dall’inizio di questa storiaccia, da Famiglia Cristiana che per prima aveva pubblicato nell’autunno scorso la foto inequivocabile di uno di questi ordigni) sul motivo, almeno parallelo ad altri, dell’incontro dei governanti sauditi prima con la ministra della difesa e poi con il ministro degli esteri. Quale coincidenza, proprio i responsabili dei due dicasteri impegnati nell’Uama… Né solo questa, di coincidenza. La più grave è che proprio alla vigilia del cordiale incontro alla Farnesina, era avvenuta un’altra, ennesima spedizione delle solite MK82 – la settima o l’ottava spedizione? Se ne è perso il conto, anche perché non di tutte queste spedizioni si ha notizia dai portuali, dalle soffiate “anonime”, dalle indagini di un parlamentare sardo – dalla Sardegna verso Riyadh.
Questa volta tre tir anonimi, senza cioè intestazione della ditta di trasporto, e con l’insolita scorta di gipponi dei carabinieri e dei vigili del fuoco (quindi non bombe “inerti” come quella volta alla Camera volle sostenere la ministra Pinotti, ma bombe di cui era ammessa la pericolosità dallo stesso tipo di scorta), sono partiti da Domusnovas, all’estremo sud dell’isola, hanno percorso ben 270 chilometri lungo la statale 131 e la diramazione centrale nuorese sino a raggiungere, all’estremo nord della Sardegna, il porto industriale di Olbia per scaricare su di un cargo civile, italiano (della Moby), centinaia e centinaia di ordigni. Il cargo ha quindi attraversato il braccio tirrenico sino a Piombino dove le bombe sono state trasferite su altro mercantile, battente bandiera non italiana, che si è diretto a Riyadh.
Attenzione, per cercare di tacitare l’operazione, e a differenza di quanto era sin qui accaduto, il trasbordo del micidiale carico non è stato effettuato nel porto-canale di Cagliari (cioè vicino al Sulcis, sede della Rwm-Italia, e quindi sotto gli occhi e gli obiettivi fotografici di molti testimoni) ma all’altro capo dell’isola: quasi un agire da clandestini, in un angolo del porto più marginale della Sardegna, e questo per realizzare l’ennesima vendita di bombe ad uno stato in guerra guerreggiata con una fazione dello Yemen. Questa volta l’on. Mauro Pili, gruppo misto, ex presidente della regione Sardegna, ha segnalato alla Procura di Tempio tutta la dinamica dell’operazione, sottolineandone non solo tutta la sospetta irritualità ma soprattutto la sin troppo manifesta copertura di forze dello Stato: carabinieri, e quindi con l’ovvia autorizzazione della Difesa; e vigili del fuoco, corpo che dipende degli Interni che non possono non essere stati allertati e consenzienti.
E dire che il Parlamento europeo ha approvato qualche mese fa a larga maggioranza un emendamento (di socialisti, sinistra, verdi e liberali) ad una risoluzione che sottolinea la necessità e l’urgenza di porre fine alla guerra nello Yemen. Questo emendamento impegna l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, a lanciare una iniziativa volta a imporre a tutti i paesi comunitari un “severissimo” (l’aggettivo è testuale) embargo di armi nei confronti dell’Arabia Saudita. Nessun dubbio che l’iniziativa sia stata lanciata. Ma nessun dubbio anche, sul fatto che, per quanto riguarda l’Italia, tanto la ministra della Difesa quanto il ministro degli Esteri – nella loro qualità di corresponsabili dell’Unità per le autorizzazioni di materiale di armamento – non abbiamo raccolto il “severissimo” richiamo di Mogherini.
«la Repubblica, 20 luglio 2017 (c.m.c)
L’Italia appare come il secondo Paese più razzista d’Europa. È anche il Paese più islamofobo. Del resto, secondo i dati Istat, il 40% della popolazione ritiene che le religioni “altre” da quella maggioritaria siano un pericolo e che andrebbero contenute, tanto più nel caso della religione musulmana. Del sessismo pervasivo fino alla violenza abbiamo, ahimè, documentazione quasi quotidiana. Un po’ più del 50% degli 11-17enni è oggetto di qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di coetanei almeno una volta al mese.
Non si salvano neppure le persone con disabilità, che non solo devono abituarsi a sentire nominare la propria disabilità come forma di insulto corrente, ma sono anche oggetto di aggressioni e violenze più spesso delle persone normodotate. In particolare, i minori con disabilità corrono un rischio da tre a quattro volte maggiore dei coetanei non disabili di essere trascurati dai genitori, vivere in istituto, subire violenze fisiche o sessuali e di non venir presi in considerazione da servizi e agenzie che si occupano della protezione dei minori.
Tra le violenze che si possono effettuare o subire quelle verbali non vanno sottovalutate. «Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole. Di queste parole dell’odio e dell’intolleranza il catalogo può essere forse istruttivo ma a tratti è ripugnante ». Così scriveva Tullio De Mauro nel piccolo dizionario italiano delle parole dell’odio — parole per ferire — preparato per il rapporto sull’intolleranza, il razzismo, la xenofobia e i fenomeni d’odio curato dalla Commissione Jo Cox, istituita dalla presidente della Camera Laura Boldrini.
In una raccomandazione del Consiglio d’Europa il discorso dell’odio è stato definito come l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo. Chiunque può diventare oggetto di questa forma di odio e per i motivi più futili: un insegnante che boccia o dà un brutto voto, un automobilista che non cede il passo, un giovane che guarda la ragazza di un altro, una ministra che fa una riforma scomoda, un personaggio pubblico che esprime un parere da cui si dissente. Ma se si appartiene a particolari gruppi sociali, se si condividono caratteri somatici o culturali minoritari nella società in cui si vive si può essere oggetto di insulto, denigrazione e incitamento all’odio solo per questo, a prescindere da ciò che si è, si è fatto e si fa.
In questi casi il discorso dell’odio si innesta spesso su fenomeni di stereotipizzazione e discriminazione. Per questo la definizione sopra ricordata comprende anche le forme che si giustificano su motivi quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale. È proprio dell’incitamento all’odio per motivi di appartenenza a un gruppo identificato come inferiore, moralmente pericoloso, nemico o semplicemente debole che si occupa il Rapporto della Commissione Jo Cox che viene presentato oggi alla Camera. Esso documenta come essere donne, omosessuali, transessuali, migranti, rom o sinti, islamici, ebrei, portatori di disabilità esponga al rischio di essere non solo discriminati sul lavoro a prescindere dalle proprie competenze, o nell’accesso all’abitazione, ma oggetto di insulti, di accuse, a seconda dei casi, di pericolosità morale o politica, di vere e proprie forme di linciaggio.
Le persone che ne sono vittime spariscono con la loro individualità, storia, esperienza, divenendo parte indistinta di un gruppo negativo e stereotipato. Il linguaggio dell’odio si alimenta, infatti, di superficialità e ignoranza. A esempio, un quarto della popolazione italiana ritiene che i rom e sinti presenti in Italia — il gruppo in assoluto più disprezzato e più discriminato — siano tra uno e due milioni, a fronte di una consistenza effettiva stimata tra 120 e 180 mila. Analogamente si ritiene che siano tutti nomadi, laddove la maggioranza è stanziale.
Queste percezioni sbagliate sono a loro volta rafforzate da una informazione che enfatizza avvenimenti e comportamenti fuori dalla norma e da politiche che si definiscono emergenziali, evocando l’immagine di un fenomeno fuori controllo e potenzialmente catastrofico. È successo con “l’emergenza nomadi” e sta succedendo ora con “l’emergenza migranti”.
Nella società contemporanea, il linguaggio dell’odio non si affida più solo alla comunicazione faccia a faccia o tramite la carta stampata. Trova un potente mezzo di diffusione sui social media, caricandosi di una forza distruttiva troppo spesso fuori controllo. I dati disponibili segnalano che sono le donne le maggiori destinatarie del discorso d’odio online, seguite a distanza da omosessuali e immigrati.
Nelle sue raccomandazioni la Commissione insiste sull’azione di autocontrollo che dovrebbero esercitare i media, non solo rispetto al linguaggio che utilizzano, ma anche rispetto alla qualità della informazione. Lo stesso autocontrollo dovrebbe essere esercitato da chi ha un ruolo pubblico, a cominciare dai politici. Altrettanto, se non più importante è l’opera di formazione che dovrebbe essere messa in atto dalle scuole, per educare al rispetto degli altri nelle loro molteplici diversità e all’uso critico delle informazioni e degli strumenti di comunicazione. Sono necessarie anche norme punitive per chi incita all’odio e al dileggio. Ma senza una azione di prevenzione rischiano di rimanere inefficaci.
la Repubblica, 9 luglio 2017 (i.b.)
Benvenuti alla "Playa Punta Canna" di Chioggia, lido balneare da 650 lettini tra le ultime dune di Sottomarina verso la foce del Brenta. La spiaggia del Duce. Altro che stabilimenti marini ai tempi del Ventennio: in questo vasto pezzo di arenile, se possibile, il fascistissimo titolare Gianni Scarpa, 64 anni, da Mirano, bandana nera e ufficio straboccante di gadget mussoliniani con tanto di cannone che spunta da una finestrella, è riuscito a fare persino meglio. "Qui valgono le mie regole", mette in chiaro. Già.
Intanto questa mattina - dopo la denuncia di Repubblica - sulla spiaggia fascista sono arrivati agenti della Digos e della polizia scientifica, inviati dal questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi. Ma torniamo alle "regole". La polizia ha acquisito gli audio e le foto pubblicate da Repubblica.
All'inizio il "comandamento" di "Punta Canna" era "niente bambini e buzzurri" (in effetti di bambini non se ne vedono). Poi per la gioia dei clienti - la maggior parte giovani "di area", palestrati e tatuati anche con simboli runici, aquile, croci celtiche - si è aggiunto molto altro. "La legge della giustizia nasce dalla canna del fucile", ammonisce l'ennesima scritta choc. Di fronte c'è l'angolo doccia col nebulizzatore, protetto da una cinta di canne.
Sta di fronte alla cabina bianca dove il cartello sulla porta dice "camera a gas, vietato entrare". Lo slogan è parte di un crescendo. A destra, prima del bar e lungo il sentiero che porta alla spiaggia, su un pannello di legno è stampata in bella vista la "summa" del lido, il pantheon del proprietario. Sì, insomma: le sue regole. Diversi poster di Benito Mussolini e di saluti romani ("questo è più di un saluto, uno stile di vita"; "questo è il mio saluto, se non ti piace me ne frego"); la foto di un bambino che dice: "Nonno Benito, per un'Italia onesta e pulita torna in vita". Un corollario sfacciatamente nostalgico e apologetico.
Elementi d'arredo alla cui vista i numerosi clienti del lido sono talmente abituati che nessuno - tranne qualche nuovo avventore - ci fa più caso. Il motivo lo capisci appena prendi posto sui lettini (650 di cui 70 coperti da tende bianche tipo gazebo) tutti occupati. Ogni mezz'ora, o comunque quando ne ha voglia, il titolare della spiaggia "intrattiene" i bagnanti alla sua maniera: con delle "comunicazioni" diffuse dagli altoparlanti, dei mini comizi da spiaggia. Che non imbarazzano nessuno perché evidentemente condivisi dai clienti. Inni al regime e insulti alla democrazia ("mi fa schifo"), intemerate contro Papa Francesco ("Lui vuole costruire ponti e non muri? Gliene costruiamo uno noi da Roma a Buenos Aires, così lo rispediamo da dove è venuto"), lotta senza frontiere alla "sporcizia umana del mondo, che è il 50% e qui dentro per fortuna non entra", "tossici da sterminare".
Ieri, sabato pomeriggio, l'imprenditore balneare del "me ne frego" ha dato il meglio di sé sotto il sole delle tre e un quarto. Sentitelo. "Sono molto contento di avere una clientela esemplare. Guardatevi in giro, oggi siete 650, non c'è una cicca, non c'è una salvietta a terra. A me la gente maleducata mi fa schifo...a me la gente sporca mi fa schifo...A me la democrazia mi fa schifo...Io sono totalmente antidemocratico e sono per il regime. Ma non potendolo esercitare fuori da casa mia, lo esercito a casa mia. A casa mia si vive in totale regime... qui è casa mia e di conseguenza si vive a regime". Gianni Scarpa plaude ancora ai suoi clienti esaltandone il comportamento. Poi dalle casse spara un attacco modello Duterte. "Voi sapete che io sono per lo sterminio totale dei tossici (alcuni bagnanti sorridono). Di conseguenza penso che è meglio che girino molto al largo da qui. Chi viene qui sa come la penso io... se vuole viene se vuole non viene e io me ne frego... Perché qui dentro voglio gente educata ".
il manifesto, 6 luglio 2017 (p.d.)
Di fronte a un testo del genere, frutto di successivi compromessi al ribasso voluti dal Pd, soprattutto nell’ultimo passaggio al senato durato due anni, i sostenitori dell’introduzione del reato di tortura fuori dal parlamento si sono divisi tra chi apprezza comunque il passo in avanti (Amnesty Italia) e chi lo ritiene al contrario un passo falso, controproducente (A buon diritto, associazione Cucchi, comitato verità e giustizia per Genova). In parlamento ha votato a favore praticamente solo il Pd (gli alfaniani di Ap in teoria erano della partita, ma si sono presentati solo in 4 su 24); i democratici hanno registrato comunque il 40% di assenze. Segno di un forte malcontento, espresso giorni fa in un’intervista dal presidente del partito Orfini – «legge inutile, meglio non approvarla» – e in aula solo dalla deputata Giuditta Pini. Si sono astenuti i 5 Stelle, che tendono a vedere il bicchiere mezzo pieno, e infatti al senato sull’identico testo avevano votato a favore, Mdp che parla di «legge debole», i centristi di maggioranza del gruppo Civici e innovatori e anche Sinistra italiana che è assai più critica: «Abbiamo confezionato il reato impossibile per il retropensiero di alcuni che in questi tempi di terrorismo un po’ di tortura possa tornare utile», ha detto il deputato Daniele Farina. Mentre è noto che il senatore del Pd Luigi Manconi, che ha presentato il progetto di legge originario nel primo giorno della legislatura, ha parlato di un provvedimento «completamente stravolto». Contraria tutta la destra, che vede nella legge una minaccia alla libertà di azione delle forze di polizia. Con argomenti come quelli del «fratello d’Italia» Cirielli: «Il poliziotto che di fronte a uno stupratore o a un autonomo perde la pazienza e lascia partire qualche schiaffo o qualche calcio rischia più dei delinquenti».
Difficile però che si possa applicare a casi del genere – «meno di un occhio pesto», per citare sempre Cirielli – il reato di tortura. Perché così com’è stato approvato definitivamente ieri non è più un reato proprio del pubblico ufficiale ma un «delitto comune» che può essere compiuto da chiunque si trovi nelle condizioni di esercitare «vigilanza, controllo, cura o assistenza» nei confronti della vittima. È forse la peggiore novità imposta nel passaggio in senato, rispetto al testo già approvato dalla camera nel 2015. Le altre, tutte negative, sono la previsione che le violenze e le minacce debbano essere «gravi» (un po’ come dovevano essere «particolarmente efferate» le sevizie escluse dall’amnistia del ’46) «ovvero agendo con crudeltà», una circostanza difficile da dimostrare per i pm. Perché si verifichi tortura è adesso richiesto che siano commesse «più condotte», sembrerebbe cioè non bastare un singolo episodio e neanche un episodio reiterato della stessa natura. L’azione del pubblico ufficiale è adesso sempre giustificata «nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure limitative di diritti». Infine è necessario che l’azione del torturatore cagioni sulla vittima «un verificabile trauma psichico», sempre difficile da provare soprattutto a distanza dai fatti (quando in genere si arriva al processo).
Le pene sono alte, al massimo dieci anni aumentati a dodici nel caso in cui l’autore sia un pubblico ufficiale, ma la prescrizione non è del tutto scongiurata. Mentre è addirittura prevista la pena fissa, solo massima, di trent’anni e dell’ergastolo nel caso in cui dalla tortura derivi la morte, accidentale o intenzionale. «Tutti questi requisiti rendono difficile l’applicazione della nuova norma», ha spiegato il presidente della prima commissione, il centrista Mazziotti. D’altra parte nella legge è rimasto il divieto di espulsione dello straniero quando ci sono fondati motivi di ritenere che rischi di essere torturato, anche sulla base delle violazioni sistematiche dei diritti umani nel suo stato di origine. Ma 33 anni dopo la Convenzione dell’Onu e 29 anni dopo la legge italiana che la recepiva (al governo c’era Ciricaco De Mita), il nostro paese per adottare il reato di tortura ha avuto bisogno di snaturarlo.
il manifesto, 3 giugno 2017
Non c’è niente di più menzognero che far sfilare civili insieme a truppa armata, tank e cacciabombardieri. È il nuovo «politicamente corretto» che accompagna l’ideologia della guerra umanitaria disseminata a partire dalla guerra Nato del 1999 e confermata in Libia soltanto sei anni fa.
Un «politicamente corretto» andato in onda, come negli ultimi anni, anche ieri 2 giugno. Come se la ripetizione delle marce trionfali dell’Occidente militarizzato, imbellettata qui e là di presenze civili, possa giustificare fino a nascondere, la sostanziale maschera della vocazione alla guerra che ci circonda.
Certo, ha ragione il presidente Sergio Mattarella: vogliamo «per le giovani generazioni un futuro di pace». Che altro?! Ma come se, secondo il vecchio motto imperiale «para bellum», prepariamo la guerra? Perché spendiamo in armi e spese militari più di 70 milioni di euro al giorno (secondo gli ultimi dati internazionali dell’autorevole Sipri); perché raddoppia l’autorizzazione all’export di armi italiane e il governo se ne rallegra perché così “il Pil cresce”, arrivando a ben 14,6 miliardi di euro (l’85% in più rispetto al 2015), per esportazioni verso paesi come Arabia saudita, Kuwait, Turchia, Pakistan, Emirati Arabi, tutti – tanti i petro-regimi – impegnati in guerre sanguinose. Un commercio i cui effetti si faranno sentire proprio nei prossimi anni. Ecco che la guerra si riproduce a mezzo di guerra e deve continuare. Secondo il dettato del neofita presidente statunitense Donald Trump.
Così, pendendo incredibilmente dalle sue labbra, stiamo raddoppiando, fino al 2%, le nostre spese militari per sostenere la Nato, che pericolosamente si allarga a Est a cercare nuovi conflitti; e abbiamo impegnato ben 15 miliardi (per ora) per l’acquisto di 90 cacciabombardieri F35 (che possono montare armi nucleari).E, mentre trasformiamo la vocazione naturale di intere regioni italiane in vecchie e ammodernate servitù militari, siamo pronti alla Nuova Difesa Europea, non sostitutiva ma aggiuntiva dei costi atlantici; per una Unione europea che chiede alle aziende statali di ogni Paese di produrre armi: lì naturalmente nessuno pone vincoli di bilancio. Che invece tagliano salari, lavoro, società, giovani, sanità, scuola, servizi sociali. E per finire, i militari italiani sono impegnati – da Mosul a Kabul – su ogni fronte aperto di guerra. Lì dove a morire sono in prima fila i civili.
Stiamo in armi a raccogliere il dividendo dei falliti conflitti precedenti che abbiamo innescato. Dalla guerra in Iraq del 1991, poi in Afghanistan – la più lunga e controproducente della storia contemporanea – fino a quella del 2003 sempre in Iraq; e poi in Libia e in Siria, e chi più ne ha più ne metta. C’è un solo modo per festeggiare il 2 giugno, la festa della nascita della Repubblica. Rinunciare alla marcia trionfale, alla sfilata militare che strumentalmente vuole mimetizzare il macigno delle spese militari – che non preparano un «futuro di pace» – con pennellate di «civile».
Del resto è già accaduto. Nel 1976 i militari non vennero fatti sfilare per l’impegno a sostenere i terremotati del Friuli. Oggi c’è una evoluzione machiavellica e perversa: i sindaci delle zone terremotate hanno dovuto aprire la sfilata militare. Provocando gravi ed ulteriori divisioni nel cuore sconvolto del Belpaese, perché in tanti si sono rifiutati di marciare visti i risultati delle loro terre ancora sotto le macerie, dopo troppe parole e promesse.
Bene dunque hanno fatto i pacifisti a rendersi visibili, a tornare in piazza ieri a Roma, a Cagliari e a Camp Darby (Pisa-Livorno). Perché si festeggia la nascita della Repubblica praticando e facendo viva la Costituzione repubblicana che all’articolo 11 – maltrattato, cancellato, vilipeso – dice che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. La marce trionfali militari sono senza futuro.
Sbilanciamoci.info, newsletter, 30 maggio 2017
Nel 2016 l’export militare italiano ha registrato un aumento dell’85% rispetto all’anno precedente. Numeri da capogiro, documentati dalla Relazione annuale sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazioni di armi
“Nei concili di governo dobbiamo stare in guardia contro le richieste non giustificate dalla realtà del complesso industriale militare. Esiste e persisterà il pericolo della sua disastrosa influenza progressiva. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo la nostra democrazia. Solo il popolo allertato e informato potrà costringere ad una corretta interazione la gigantesca macchina da guerra militare….in modo che sicurezza e libertà possano prosperare insieme”. Queste parole non sono di un pacifista: le pronunciò nel lontano 1961 nel suo discorso di addio alla Nazione l’allora Presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, membro del Partito Repubblicano ed ex comandante delle Forze Armate statunitensi in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale e Capo di Stato Maggiore dell’esercito.
Parole che suonano strane se ripetute da un ex militare: perfino Eisenhower, politicamente molto conservatore, aveva capito il pericolo che può rappresentare il complesso militare – industriale per le istituzioni democratiche. Tuttavia, le sue affermazioni suonano ancora vuote ai nostri giorni, visto che il giro d’affari intorno ad armi e armamenti realizza lauti profitti, ed aumenta il suo volume di anno in anno.
Il caso del nostro Paese è emblematico: nel 2016 l’export militare italiano ha registrato un aumento dell’85% rispetto all’anno precedente. Numeri da capogiro, documentati dalla Relazione annuale sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazioni di armi, che il Governo ha consegnato al Parlamento lo scorso aprile.
Ma analizziamo i dati in termini assoluti. Nel 2016 il valore complessivo delle licenze di esportazioni è stato di 14,6 miliardi di euro, un vero e proprio boom se guardiamo agli anni precedenti: “solo” 7,8 miliardi nel 2015, mentre nel 2013 la cifra si attestava intorno ai 2,5 miliardi. Rispetto all’exploit degli ultimi anni, i numeri delle vendite dei primi anni 2000 appaiono irrisori (1,9 miliardi) e ancor di più lo sono quelli del lustro immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda, 1991 – 1995 (1 miliardo). Dati che, secondo Sergio Andreis, della campagna Sbilanciamoci! sono “sottostimati”, in quanto “il modo di calcolo non permette la trasparenza assoluta: in molti casi si tratta di contratti legati alla sicurezza nazionale coperti dal segreto di Stato, quindi non pubblicati né pubblicabili”.
Ma a chi vengono vendute queste armi? Dalla relazione emerge che il numero di Paesi destinatari delle licenze di esportazione nel 2016 è stato di 82, in diminuzione rispetto ai 90 dell’anno precedente. Inoltre, il volume dei trasferimenti militari ai membri Ue e Nato dello scorso anno ha rappresentato il 36,9% sul totale, mentre il restante 63,1% è andato a Stati extra Ue e extra Nato. Tendenza inversa rispetto al 2015, quando questi valori sono stati pari, rispettivamente, al 62,6% e 37,4%. Ad un primo sguardo, il dato potrebbe rafforzare la tesi di chi vede l’Unione e l’Alleanza Atlantica come due organismi oramai “obsoleti”. Ma se guardiamo alla lista dei principali partner a cui forniamo materiale bellico made in Italy, è interessante notare come al primo posti spunti il Kuwait – al quale abbiamo venduto armi per un valore complessivo di 7,7 miliardi – seguito da quattro Paesi europei, Regno Unito (2,4 miliardi, mentre nel 2015 era primo con 1,3 miliardi), Germania (1 miliardo), Francia (570 milioni) e Spagna (470 milioni).
Sono proprio i rapporti commerciali tra l’Italia e la monarchia mediorientale la causa principale di questo aumento vertiginoso dell’export militare: lo scorso l’anno il nostro Paese ha effettuato una commessa record al Kuwait di 28 Eurofighter Typhoon della Leonardo, per un valore di 7,3 miliardi di euro. Il progetto, sviluppato da un consorzio di 400 aziende italiane, inglesi, tedesche e spagnole, ha come capofila l’italiana Finmeccanica, impresa leader del settore della difesa partecipata dal Governo italiano (al 30,2%): proprio all’azienda di Via Monte Grappa, secondo gli analisti, andrà circa il 50% dell’intera somma. “Si tratta del traguardo commerciale più grande mai raggiunto” sosteneva un anno fa un entusiasta Mauro Moretti, amministratore delegato della società, durante la solenne firma del contratto a Kuwait City, alla quale erano presenti anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti ed il suo omologo Khaled Al Jarrah Al Sabah. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), tra il 2013 e il 2014 Finmeccanica ha occupato il nono posto nella classifica mondiale delle aziende fornitrici di materiali bellico, con un volume di vendite in armi pari, rispettivamente, a 10.540 e 10.560 milioni di dollari. Tra le altre società che occupano i primi otto posti, sette sono di origine statunitensi, mentre una, il Gruppo Airbus – al settimo posto – è un consorzio transeuropeo.
Ad oggi, il numero complessivo di Eurofighter venduti raggiunge quota 599 unità in otto Paesi diversi: secondo le stime, il giro d’affari che ruota intorno a quello che è considerato dal consorzio «il più avanzato aereo da combattimento multiruolo attualmente disponibile sul mercato mondiale» assicura in Europa oltre 100 mila posti di lavoro; tra i 20 e i 30 mila si trovano in Italia. Per il periodo 2017 – 2021 si prevede un aumento della redditività dell’azienda stimato tra il 3% e il 5% dopo la battuta d’arresto degli ultimi anni, possibilità non più remota grazie al complessivo aumento delle spese militari in tutto il mondo.
Ma non c’è solo il Kuwait. Tra gli acquirenti del nostro Paese figurano petro-monarchie come l’Arabia Saudita (427 milioni, al quinto posto), e subito dopo gli Stati Uniti il Qatar (341 milioni). La Turchia, invece, in decima posizione (133 milioni). Tutti Paesi che dei diritti umani se ne infischiano allegramente, e che ricorrono sistematicamente a pratiche illegali secondo il diritto internazionale, quali repressione della libertà di espressione, tortura e sfruttamento dei lavoratori migranti.
Il caso più grave è sicuramente quello dell’Arabia Saudita: un Paese che, oltre a reprimere duramente e sistematicamente i diritti delle donne e delle minoranze religiose, sta conducendo una guerra con il vicino Stato dello Yemen da circa due anni. Più che un conflitto si tratta di un vero e proprio massacro – che ha lasciato sul terreno, per l’Onu, oltre 10 mila morti e 40 mila feriti – per il quale Riyad è stata a più riprese condannata dalle Nazioni Unite e da altre Ong, come Amnesty. La causa principale delle stragi sistematiche, secondo l’Alto Commissario dell’Onu, sono i bombardamenti che la coalizione a guida saudita continua a perpetrare nei confronti dello Stato adiacente. Tra il 2014 e il 2015 la Relazione annuale del Governo italiano segnalava un aumento del 58% dell’export militare italiano verso il Paese degli Sceicchi, da 163 milioni a 257 milioni, prima di quadruplicare nel 2016. Un exploit riconducibile soprattutto alle bombe prodotte dallo stabilimento sardo della Rwm Italia Spa di Domusnovas, in provincia di Cagliari – ma con sede a Ghedi (Brescia). É la relazione a parlare: tra il 2014 e il 2015 abbiamo consegnato a Riyad 600 bombe Paveway (per 8,1 milioni di euro), 564 bombe Mk82 (3,6 milioni), 50 bombe Blu109 (3,6 milioni) e cento chili di esplosivo da carica Pbxn-109 (50mila euro). Recentemente il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che prevede il divieto di vendere armi ai Paesi coinvolti nel conflitto nello Yemen, ossia Arabia Saudita, Qatar ed Emirati. Risoluzione che l’Italia continua a violare. Come continua a infischiarsene, oltre che dell’articolo 11 della nostra Costituzione, anche della legge 185 del 1990 “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” approvata dal Parlamento sotto il Governo Andreotti sulla spinta dei movimenti pacifisti. Nello specifico, il provvedimento vieta l’esportazione e il transito dei materiali d’armamento verso Paesi in stato di conflitto armato, responsabili di violazioni accertate dei diritti umani e verso quelli in cui è in vigore un embargo da parte dell’Onu. In poche parole, Stati come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia: Paesi che oltretutto “hanno avuto influenze dirette nel fomentare organizzazioni radicali legate al terrorismo internazionale” sostiene Antonio Mazzeo, giornalista impegnato nei temi della pace. “Se da un lato dichiariamo di voler combattere il terrorismo internazionale” conclude Mazzeo, “dall’altro lo fomentiamo esportando armi, aumentando le spese militari o la proiezione italiana all’estero”.
Nonostante la palese violazione, perché nel dibattito pubblico quasi nessuno contesta all’Italia di non applicare la 185 né di rispettare le leggi? “Perché non c’è nessuno che le fa rispettare”, dice Sergio Andreis, “né che porta il Governo in Tribunale su queste inadempienze. Quindi tutti gli attori dell’esportazione di armi si muovono in questo quadro.” La soluzione, secondo Andreis è che “le organizzazioni schierate per la pace e i parlamentari a cui sta a cuore il tema dovrebbero intraprendere azioni giuridiche per portare il nostro Paese e gli altri che violano le risoluzioni di fronte ai tribunali nazionali e internazionali affinché queste violazioni abbiano fine”.
Ci sono poi i dati del Sipri, che fotografa attentamente la situazione a livello mondiale. Secondo il think tank svedese, il 2016 ha visto un aumento complessivo della spesa militare dello 0,4% (+1686 miliardi di dollari); con il suo +11% la pole position dell’aumento delle spese in Europa occidentale spetta proprio all’Italia. Anche le superpotenze hanno aumentato considerevolmente il proprio budget bellico: al primo posto gli Stati Uniti registrano un aumento dell’1,6%; seguono poi Cina (+5,4%), Russia (+ 5,9%), Arabia Saudita (che passa dal terzo al quarto posto rispetto al 2015) e India +8,5%.
Oltre a questo ci sono altre questioni aperte. In primo luogo i progetti di ammodernamento delle bombe nucleari in corso, che oltre ai Paesi minori coinvolgono soprattutto le grandi potenze, in primis gli Usa, che secondo Mazzeo “prevedono di spendere da qui a 20 anni circa 300 miliardi di dollari per rinnovare il proprio arsenale atomico”. Nel dicembre del 2016, l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato a larga maggioranza una risoluzione per l’inizio di negoziati che diano vita ad un Trattato che vieti le armi nucleari. Tra i Paesi, 123 hanno votato a favore, 16 si sono astenuti, mentre 38 erano contrari – e tra questi vi era anche l’Italia. La strada è in salita, ma nel 2017 sono previsti ulteriori sforzi per intensificare la cooperazione sul disarmo atomico. C’è poi il terrorismo, che secondo l’attivista diventa “la narrazione con la quale giustificare l’aumento delle spese militari e il coinvolgimento dei Paesi occidentali in nuove missioni internazionali”. Last but not least c’è il problema del dual use, le tecnologie che possono essere usate sia per scopi pacifici che per quelli militari. “L’Italia si era data una legge su questo” dice Sergio Andreis, “che fu poi abrogata dal Governo Berlusconi”. “C’è la necessità di normare queste tecnologie, e il Parlamento europeo sta finalmente discutendo una normativa Ue” continua Andreis, che poi conclude “sarebbe bene che anche il legislatore italiano adotti provvedimenti per regolare questo settore”.
C’è poi stato l’ultimo G7 di Taormina. La scelta della location del summit non è stata casuale: andando oltre l’apparente discordia tra i leader mondiali e la retorica trumpiana – e ora anche tedesca – della Nato come obsoleta, la Sicilia rimane uno dei principali hubmilitari del Mediterraneo, sia per gli Usa che per l’Alleanza atlantica. Soprattutto per la presenza della base Nato di Sigonella, che nei prossimi mesi, sostiene Antonio Mazzeo “sarà ulteriormente potenziata con un sistema di controllo di droni militari e potenziata sia rispetto agli scenari di guerra mediorientali, che a quelli dell’Est Europa, in quanto”, puntualizza il giornalista “in Ucraina e Crimea sono attivi droni che sono installati, di base a Sigonella”.
Insomma, l’Italia si muove in sintonia con le dinamiche di riarmo e ripresa delle tensioni e dei conflitti a livello internazionale, quando sarebbe invece urgente che Governo e Parlamento – nel rispetto dell’articolo 11 della Costituzione – facciano pressione sulle istituzioni europee affinché l’Unione diventi soggetto promotore in sede Onu di un dialogo globale sul tema del disarmo. Altrimenti possiamo solo sperare che si comincino a costruire nuove bombe intelligenti: come recita un famoso detto, “così intelligenti da non scoppiare più”.
la Repubblicail manifesto. 6 maggio 2017
«Renzi: basta errori e avanti con la legge. Grasso: “Meno male che c’è ancora la seconda Camera”. E Salvini minaccia il referendum»
L’ordine di Renzi è perentorio: «Sulla legittima difesa il Pd deve andare avanti perché la battaglia sulla sicurezza è strategica». Senza gli «errori» commessi alla Camera nelle ultime ore, togliendo dal testo subito l’espressione «tempo di notte», ma certamente senza mettere il ddl in un cassetto di palazzo Madama per dimenticarlo poi lì com’è avvenuto per tante altre leggi sulla giustizia. Renzi sa bene che i numeri del Senato sono ballerini per la maggioranza e che sarà necessario l’apporto dei verdiniani di Ala soprattutto dopo il deciso niet alla legge dei bersaniani di Mdp, ma è deciso ad andare avanti ugualmente.
Quando, a metà mattina, proprio il presidente del Senato Piero Grasso pronuncia una battuta chiaramente ironica e allusiva alla riforma costituzionale bocciata – «Diciamo meno male che c’è il Senato, se dobbiamo intervenire su questo tema, staremo a vedere le ulteriori proposte di modifica» – Renzi veicola ai suoi un messaggio chiaro che viene riassunto così: «Sulla sicurezza il Pd si gioca la prossima partita elettorale. La legittima difesa è una questione estremamente sentita dalla gente. La legge attuale non è né sufficiente, né adeguata, quindi dobbiamo andare avanti e cambiarla. Stavolta senza fare errori, né cedere a eccessivi compromessi». Come quelli che, invece, ci sono stati con i centristi di Alfano.
A 24 ore dal voto alla Camera, tra i renziani si apre la caccia al “colpevole”, a chi, pur di trovare un accordo con Alternativa popolare che minacciava di votare contro in aula, ha cambiato all’ultimo momento il testo della legittima difesa. Eh già, fanno notare adesso i Dem, perché fino a martedì sera, la legge che doveva andare in discussione non toccava affatto l’articolo 52 del codice penale, quello di Berlusconi e Castelli del 2006, cioè la legittima difesa vera e propria, ma un altro articolo, il 59 sulle circostanze in cui matura il reato.
Ma nell’ultima riunione di maggioranza, a poche ore dal voto, il ministro della Famiglia Enrico Costa, che ancora ieri difendeva la legge – «Non va cambiata, perché è sacrosanta» – ha puntato i piedi e preteso una modifica radicale della legittima difesa e dell’articolo 52. Il ministro Anna Finocchiaro, per evitare in aula una pesante spaccatura della maggioranza, ipotizza una possibile mediazione legislativa, che a quel punto mette d’accordo Pd e Ap. Il giorno dopo l’intero gruppo Dem, pur tra i mal di pancia degli orlandiani, la ratifica.
Dopo due anni di discussione parlamentare, per la prima volta, compare l’indicazione di un’irruzione “in tempo di notte”, oggetto di ironie politiche e scetticismo tra magistrati e giuristi. Ecco, ancora ieri, la bocciatura del presidente dell’Anm Eugenio Albamonte – «un intervento inutile» – e il suo invito «a cestinare il testo e lasciare le cose come stanno».
Ma è proprio questo che Renzi non è intenzionato a fare. Non vuole affatto fermarsi. Nelle stesse ore in cui il leghista Matteo Salvini ironizza sulla marcia indietro del Pd, «che vota una legge il giovedì per poi sconfessarla il venerdì», e lancia l’idea di un referendum per cancellare quella che battezza «una legge schifezza», Renzi chiede ai suoi di correggere e adeguare il testo.
Si muove subito un suo uomo, David Ermini, ex responsabile Giustizia del Pd e relatore della legittima difesa, che fa cadere il tabù del «tempo di notte ». «Se ci devono fare una campagna elettorale contro, noi lo togliamo» dice Ermini, anche se poi lui, la presidente Pd della commissione Giustizia Donatella Ferranti, il capogruppo Pd alla Camera Ettore Rosato, accusano la stampa di aver presentato la legge in modo distorto. Quelle parole – «in tempo di notte» – non escluderebbero affatto, secondo loro, che la legittima difesa sia possibile anche in qualsiasi ora della giornata quando un’irruzione in casa o nel luogo di lavoro avviene con violenza e inganno.
Dalla prossima settimana la battaglia si sposta al Senato. Mentre M5S tempesta il Pd con hashtag ironici, dal #legittimaignoranza di Vittorio Ferraresi, al #Renziinsegueivoti di Danilo Toninelli, al #legittimadifesanotturna di Alfonso Bonafede.
Il manifesto
SPARI ELETTORALI.
IL PD TRAVOLTO
DALLE CRITICHE E DAL RIDICOLO
di Andrea Colombo
«Legittima difesa. L’Anm boccia il testo. Grasso:«Meno male che c’è il senato». Renzi dà la colpa agli altri, cercando inutilmente il voto di Forza Italia. Ermini: “Via la parola notte”»
È peggio che un semplice disastro. La legge sulla legittima difesa affonda sommersa non solo dalle critiche ma anche dal ridicolo. La campagna securitaria decisa da Renzi con l’obiettivo di rubare voti alla destra si è risolta in una sgangherata rotta.I magistrati aprono il fuoco. «Intervento che non serviva e anche un po’ confuso», attacca il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte. Non si ferma qui e affonda la lama nella carne viva: non bisognerebbe «assecondare gli umori» popolari, «meglio desistere dal mettere mano a questa normativa». Nella pattumiera.
Grasso, presidente di quel Senato che Renzi voleva abolire e al quale ora si raccomanda per modificare la legge, si gode la rivincita: «Meno male che c’è il Senato». Le opposizioni si divertono, non lesinano in sarcasmo. «Se questa legge passa raccoglieremo le firme per abrogarla col referendum», si allarga Salvini.
La legge, oltretutto, ha ottime probabilità di non uscire viva dall’aula del Senato. Renzi si è impegnato a modificarla, cioè a peggiorarla, nella speranza di raccattare i voti di Fi ma Berlusconi non ha intenzione di fargli il favore sacrificando la ritrovata intesa col Carroccio. Neppure gli scissionisti dell’Mdp cambiano idea e in queste condizioni una maggioranza al Senato non c’è.
Non sarà neppure facile cavarsi d’impiccio ricorrendo all’eterna arma del cassetto. La legge arriverà in commissione tra due settimane e per il Pd la cosa migliore sarebbe seppellirla lì. Più facile a dirsi che a farsi. All’origine si tratta infatti di una delle proposte di legge in quota opposizione. E’ una legge della Lega e se il Carroccio insiste per portarla in aula non c’è alternativa.
Ma il peggio è la rete. La vecchia sigla del programma cult di Renzo Arbore, Ma la notte no, impazza, vive una seconda giovinezza. Le battutacce si contano a centinaia. Inutilmente il relatore Ermini, fedelissimo del capo e reduce da una lavata di testa che lèvati, prova a correggere: «Toglieremo la parola Notte». Non ce ne sarebbe bisogno per la verità, «ma se serve a correggere un’opinione completamente stravolta…». Inutile. La slavina è irrefrenabile, il coro sull’assurda legge che permette di sparare ai malfattori ma solo di notte prosegue. Il povero Ermini in realtà ha ragione. La legge è pessima ma la distinzione tra notte e giorno è frutto solo di un pasticcio mediatico di un testo confuso, che però il gran capo conosceva bene.
Renzi aveva fiutato l’aria malsana già giovedì sera, navigando in rete e traendo le conclusioni dal diluvio di critiche e ironie pesanti che già s’abbatteva sulla legge. In questi casi il suo schema è fisso: addossare la colpa agli altri. Si attacca al telefono, strapazza Ermini: «E’ scritta così male che si comunica male da sé. Bisogna rimediare, cambiarla, sparigliare». Poi ordina al suo portavoce, l’onorevole Anzaldi, di chiamare quattro giornalisti fidati per spiegare che il capo è fuori di di sé: «Così non si può andare avanti. Manca una regia. Su questa strada andiamo a sbattere». Trattandosi di una proposta di legge nata in Parlamento e fatta propria dal partito di cui Renzi è segretario, con un suo uomo come relatore, non si capisce bene chi, se non Renzi stesso, avrebbe dovuto occuparsi della regia. Particolari. L’importante è scaricare ogni responsabilità su qualcun altro, meglio se sul governo. Al resto penseranno i media.
Quando per la legge arriverà il momento della verità, Renzi è già pronto a sfruttare come d’abitudine la situazione a proprio vantaggio, insistendo sull’impossibilità di andare avanti a fronte di un Senato dove le divisioni interne alla maggioranza non permettono più di procedere. Tanto più che, subito dopo la legittima difesa, arriveranno a palazzo Madama altri due provvedimenti modello Mission Impossible, la legge sul testamento biologico e quella sulla cittadinanza e lo ius soli.
Lo sgambetto del capo è stato preso malissimo dal governo, anche se tutti cercano di non rendere palese l’irritazione. La ministra per i rapporti col parlamento, Finocchiaro, incaricata di cercare una difficilissima mediazione sia con Fi che con i centristi della maggioranza, decisi a rendere il testo più severo di quanto non intendesse Ermini, si è ritrovata sul banco degli imputati e mastica amaro. Il ministro Orlando, che al provvedimento leghista era contrario dall’inizio, vede ancora più rosso, tanto che i suoi sbottano: «Siamo alla presa in giro. L’intervento di Renzi è insopportabile». Ma anche tra i capibastone della maggioranza Pd, Franceschini e Martina, l’umore è cupo. Si erano illusi che dopo la batosta del 4 dicembre Renzi fosse cambiato. In meno di una settimana si sono resi conto che non è così. Matteo Renzi è sempre lo stesso.
il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2017 (p.d.)
La Repubblica, 7 aprile 2017
Con 16 anni di ritardo, l’Italia riconosce i propri torti e patteggia a Strasburgo per tentare di scongiurare una condanna per le torture inflitte ai manifestanti del Social Forum nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio del 2001, i giorni terribili del G8 di Genova. Proprio quest’anno l’Italia tornerà ad ospitare un incontro dei leader delle maggiori economie planetarie, il 26 e 27 maggio a Taormina. La notizia del patteggiamento è arrivata ieri, con il governo che ha infine deciso di risarcire alcune delle vittime nel corso di un procedimento di fronte alla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo: riceveranno 45mila euro ciascuno per indennizzare danni morali, materiali e spese processuali.
I giudici europei così prendono atto della «risoluzione amichevole tra le parti» e chiudono i procedimenti pendenti.
I casi in cui è stato possibile raggiungere il patteggiamento sono sei sui 65 aperti da cittadini italiani e stranieri che avevano fatto ricorso di fronte alla Corte, alla quale aderiscono tutti i 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa, istituzione esterna all’Unione europea che vigila sul rispetto dei diritti fondamentali in tutto il continente. Si tratta di Mauro Alfarano, Alessandra Battista, Marco Bistacchia, Anna De Florio, Gabriella Cinzia Grippaudo e Manuela Tangari. L’avvocato di due dei ricorrenti, Laura Tartarini, però sottolinea che «quella che lo Stato offre è un piccola cifra, ha accettato chi ha necessità economiche e personali, per gli altri il ricorso continua per ottenre la condanna dell’Italia».
Le denunce a Strasburgo sostenevano che lo Stato italiano avesse violato il diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e denunciavano l’inefficacia dell’inchiesta penale domestica sui fatti di Bolzaneto. Con l’accordo, si legge nelle due distinte decisioni della Corte, il governo afferma di aver «riconosciuto i casi di maltrattamento simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate ». Questo il dato politico, l’aver ammesso abusi e torture nei giorni del G8.
Così l’esecutivo italiano ora si impegna ad adottare le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre indagini efficaci e l’introduzione di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura. Nell’accordo il governo si impegna anche a «predisporre corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per le forze dell’ordine».In cambio del risarcimento di 45mila euro dal canto loro i ricorrenti rinunciano a ogni altra rivendicazione nei confronti dell’Italia per i fatti all’origine del loro ricorso.
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, sottolinea l’importanza che finalmente dopo 16 anni il governo riconosca che «a Bolzaneto si è trattato di tortura: a 30 anni dalla convenzione Onu il governo si è impegnato ad introdurre il reato di tortura, impegno che – auspica - va rispettato subito».
«Da 28 anni il nostro Paese attende la norma che l’Europa ci impone di introdurre Ecco perché finora è rimasta lettera morta»
Di fronte alla Corte Europea dei diritti umani, l’Italia riconosce che, nel luglio del 2001, nei giorni del G8 di Genova, le violenze inflitte ad innocenti trattenuti nella caserma della polizia stradale di Bolzaneto furono tortura. Che quegli abusi fisici e psicologici meritino per questo un risarcimento delle vittime che chiami le cose con il loro nome. Tortura, appunto. È un’ammissione dovuta, e tuttavia tardiva e penosa per la vergogna che ne è il presupposto. L’ingiustificabile assenza nel nostro ordinamento di una norma che preveda e punisca il reato di tortura. E per la cui introduzione nel nostro sistema penale, l’Italia, ventotto anni fa, si era solennemente impegnata, sottoscrivendo prima e recependo poi la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. Salvo farne, da allora, lettera morta.
Ancora nel maggio del 2014, in un magnifico libro (Gridavano e piangevano, Einaudi), Roberto Settembre, magistrato mite e giudice a latere della Corte di appello di Genova che giudicò i fatti e le responsabilità della Bolzaneto, ricordando il suo tormento di quei giorni, scriveva: «Ero di fronte a un evento non solo di dimensioni macroscopiche, ma di una particolare qualità: centinaia di cittadini non solo erano stati privati della libertà, non solo erano stati lesi nella loro incolumità fisica e psicologica. Erano stati vittime di comportamenti tesi a far sorgere sentimenti di paura, di angoscia, di inferiorità in grado di umiliarli così profondamente da ledere la dignità umana». Violenze per le quali lui, il giudice, non aveva uno strumento di legge proprio. Il reato di tortura.
Per non dire del Comitato dei ministri del Consiglio di Europa, che, nel marzo scorso, dopo una sentenza di due anni prima della Corte europea, intimava al nostro Paese di «introdurre, senza più attendere, i reati di tortura e trattamenti degradanti, assicurando che siano sanzionati adeguatamente e gli autori non restino più impuniti». Parole che non hanno increspato le acque limacciose di un Parlamento dove, nell’autunno scorso, in Senato, è silenziosamente affondato anche l’ultimo disgraziato disegno di legge che avrebbe dovuto allinearci agli standard normativi di rispetto dei diritti umani in vigore nelle altre democrazie occidentali.
In questa vergogna tutta italiana, come documentano gli atti parlamentari del dibattito che ha accompagnato l’ultimo tentativo abortito di introduzione del reato di tortura, c’è tutta la debolezza e ipocrisia di una classe politica, di maggioranza e di opposizione,incapace di sottrarsi all’intollerabile ricatto di settori, per altro minoritari, delle forze dell’ordine che nel reato di tortura sostengono si nasconda un formidabile strumento di vendetta nelle mani di chi delinque. È infatti accaduto che, nell’ultimo percorso parlamentare, che ha interessato prima il Senato, quindi la Camera, e nuovamente il Senato, una norma di agevole scrittura, necessaria a definire un comportamento proprio di un pubblico ufficiale (dal momento che è proprio questa qualità di chi esercita violenza che pone la vittima in una condizione di oggettiva sudditanza, fisica e psicologica rendendo l’abuso nei suoi confronti di particolare gravità) sia diventata prima “reato generico” e quindi oggetto di un singolare quanto capzioso dibattito. Che ha prima stabilito che per configurare una tortura si debba essere in presenza non di una semplice «violenza» (singolare), ma di «violenze» (plurale). E, quindi, che queste debbano essere «reiterate». Come se una violenza in un’unica soluzione sia troppo poco. Per giunta, che, in caso di abusi psicologici, la sopraffazione emotiva, per essere riconosciuta come tortura, debba avere caratteristiche particolari e «clinicamente accertabili».
Per altro, nel frenetico lavoro di depotenziamento del reato di tortura e del disegno di legge che lo istituiva, il Senato era riuscito anche a immaginare che, a dispetto del suo carattere di crimine contro l’umanità — e dunque in quanto tale non soggetto ad estinzione — nella sua declinazione italiana, la tortura fosse “prescrivibile”. Come una rissa al semaforo. Troppo. Persino per gli alfieri di un compromesso quale che fosse. Abbastanza, come detto, per avviare su un binario morto anche questo ennesimo tentativo in ventotto anni.
Nel patteggiamento di fronte alla Corte Europea, l’Italia torna ora con il governo Gentiloni a promettere ciò che non è stata capace di mantenere in ventotto anni e fino all’autunno scorso, assicurando, per altro, che lo sforzo sarà anche quello di una «formazione » permanente e «specifica» delle nostre forze dell’ordine «al rispetto dei diritti umani». Si vedrà.
Ma per capire l’aria che tira, e la qualità del dibattito parlamentare, è sufficiente registrare l’immediata risposta di Elvira Savino, capogruppo di Forza Italia in Commissione Politiche della Ue alla Camera e una carriera politica nata dall’amicizia con Giampaolo Tarantini e Sabina Began, i buttadentro delle cene eleganti dell’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi. «I corsi di formazione delle forze dell’ordine sono una vergogna».
Nel video che circola in rete ormai da ieri, tre dipendenti di un supermercato di Follonica, di cui uno dall’altra parte dello smartphone che riprende, dileggiano due donne rom, rinchiuse nel gabbiotto in cui viene riposta la «merce difettosa», i rifiuti del negozio. E proprio come prodotti andati a male, vengono trattate le due donne, mentre urlano stipate e incredule tentando di aprire la porta che però rimane sbarrata. Oltre alla solita colata maleodorante di commenti sui social, e all’immancabile saltarci sopra del segretario leghista Matteo Salvini che propone assistenza legale agli autori del video casomai ne avessero bisogno, ciò che va in scena è una nuova grammatica del sadismo, sdoganata da un clima di violenza politica qui come oltreoceano.
Internazionale online, 10 febbraio 2017 (c.m.c.)
Premessa
Fu negli anni del secondo governo Berlusconi che il Parlamento italiano approvò la legge 30 marzo 2004, n.92,
«Istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti
degli infoibati». Iniziò molto presto - come controcanto alle manifestazioni della destra neofascista e nazionalista -la civile protesta delle voci più riflessive. Il primo intervento critico fu forse quello di Corrado Staiano con un articolo sull'Unità, dal titolo emblematico: La memoria e gli avvoltoi. L'indignazione per la pesante mistificazione dei fatti ci spinse a raccogliere su eddyburg documenti che rivelassero ai frequentatori del sito la verità. Pubblicheremo presto una visita guidata che aiuti a ritrovare quegli scritti.
Stavamo per concludere un nostro scritto in occasione della nuova celebrazione di quell'iniziativa quando ci è capitato di leggere in anteprima l'eccellente servizio che la preziosa rivista Internazionale ha dedicato alla demistificazione della cerimonia, ahimè ripetuta ancora una volta. Ringraziando calorosamente Internazionale (il numero in edicola dovrebbe essere distribuito in tutte le scuole) riprendiamo di seguito gli interventi di Nicoletta Bourbaki, Federico Tenca Montini, Piero Purini, Anna Di Gianantonio, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Jože Pirjevec, Sandi Volk. Raccomandiamo di acquistare in edicola il testo cartaceo della rivista per giovarsi anche dell'apparato iconografico.
Infine, riprendiamo dal sito web "Burattini senza fili" una limpida testimonianza delle numerose falsificazioni compiute per accreditare le menzogne sull'"infoibamento" operato dai trucidi "comunisti slavi" : Come si manipola la storia attraverso le immagini"(e.s.)
di Nicoletta Bourbaki
Dal 2005, ogni 10 febbraio, sui mezzi d’informazione italiani viene raccontata una versione parziale e distorta di quel che accadde a Trieste, in Istria e in tutta quanta la “Venezia Giulia” nella prima metà del ventesimo secolo. La legge che nel 2004 ha istituito il “Giorno del ricordo” allude en passant alla “complessa vicenda del confine orientale”, ma non vi è alcuna complessità nella vulgata che tale ricorrenza ha fissato e cristallizzato. Una vulgata italocentrica, a dispetto della multiculturalità di quelle regioni.
L’inquadratura, strettissima e al tempo stesso sgranata, si concentra sugli episodi di violenza chiamati - per metonimia - “foibe” e sull‘“esodo”, ovvero l’abbandono di Istria e Dalmazia, a cominciare dal 1945, da parte della maggioranza della popolazione italofona di quelle regioni.
Nel discorso pubblico italiano, infatti, dagli anni novanta e seguendo una precisa agenda politica, due argomenti diversi sono stati collegati in modo sempre più stretto e frequente, fino a sovrapporsi. Il giorno del ricordo ha dato a tale sovrapposizione il crisma dell’ufficialità, e oggi le foibe sono presentate come causa immediata dell’esodo. È un nodo che va districato con pazienza.
Quando si parla di foibe, sul confine orientale la storia sembra cominciare a Trieste nell’aprile 1945. Retrocedendo, al massimo si arriva in Istria all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943. A essere amputato dalle ricostruzioni è soprattutto il continuo, violento spostamento a est del confine orientale d’Italia, con conseguente “italianizzazione” forzata delle popolazioni slavofone. Un processo cominciato con la prima guerra mondiale, portato avanti con fanatismo dal regime fascista e culminato nel 1941 con l’invasione italotedesca della Jugoslavia.
I crimini commessi dalle autorità italiane durante la guerra nei Balcani - stragi, deportazioni, internamenti in campi sparsi anche per la nostra penisola - sono un enorme non detto. La rimozione alimenta la falsa credenza negli “italiani brava gente” e al contempo delegittima e diffama la resistenza nei Balcani e lo stesso movimento partigiano italiano.
Il non detto pesa e condiziona tutte le ricostruzioni. Molti si stupirebbero nell’apprendere che alla resistenza “jugoslava” presero parte numerosi italiani: civili italofoni di quelle zone, ma anche disertori e sbandati del regio esercito. Nei territori oggi indicati come Friuli-Venezia Giulia, Repubblica di Slovenia e Repubblica di Croazia, l’opposizione armata al nazifascismo fu multietnica, irriducibile a qualsiasi agiografia nazionale.
Se si scostano i pesanti drappeggi scenici di una propaganda che separa le culture, descrive appartenenze nazionali certissime e indiscutibili, alimenta le “passioni tristi” del rancore e del revanscismo, il “confine orientale” si rivela - per citare il titolo di un importante libro dello storico Piero Purini - un mondo di “metamorfosi etniche”, identità multiple e continui spostamenti di popolazioni, dove i confini tra le identità sono instabili e indeterminati. Anche la frontiera postbellica tra Italia e Jugoslavia, oggi descritta come un solco invalicabile, in realtà rimase sempre porosa, permeabile, mutevole.
In una Lettera aperta sul Giorno del ricordo, abbiamo espresso le nostre critiche alla scheda Cosa sono le foibe pubblicata il 10 febbraio 2016 sul sito di Internazionale, e proposto alla rivista – che riteniamo un esempio di giornalismo scrupoloso, competente e indipendente – uno speciale che affrontasse la complessità di questa storia, coinvolgendo alcuni degli storici che, negli ultimi anni, hanno pubblicato le più interessanti ricerche storiografiche sul tema.
Ringraziamo Internazionale per la disponibilità e l’apertura.
Gli storici che hanno contribuito sono: Federico Tenca Montini, Piero Purini, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Anna Di Gianantonio, Jože Pirjevec e Sandi Volk. Le loro note biobibliografiche sono nei rispettivi articoli e interviste.
SUL CONFINE ORIENTALE,
LA STORIA TRASFORMATA IN OLOCAUSTO
di Federico Tenca Montini
La preminenza attribuita nel nostro paese alla storia del confine orientale non rappresenta un’esclusiva italiana, ma la variante locale di un fenomeno più ampio che ha interessato diversi paesi europei a partire dalla fine degli anni ottanta.
Il caso più simile è l’espulsione (Vertreibung) di svariati milioni di tedeschi dai territori del Großgermanisches Reich, il reich nazista nella massima estensione dei suoi ideatori, passati alla fine della guerra sotto l’amministrazione della Polonia e della Cecoslovacchia. La storia segreta del paese è riscoperta negli stessi anni anche in tanti stati dell’Europa centrale e orientale, nella fase di passaggio dal modello comunista all’economia di mercato.
Il contesto generale di queste “riscoperte” è la ritrovata popolarità di narrazioni storiche rimaste inutilizzabili per decenni a causa della guerra fredda.
Nonostante si ripeta ossessivamente che una congiura del silenzio avrebbe impedito di dare agli eventi dei confini orientali la meritata notorietà (meccanismo centrale nell’esposizione mediatica di cui sono oggetto all’improvviso), essi in realtà erano stati già assai dibattuti. Come accaduto per le foibe, anche il Vertreibung aveva occupato una posizione importante nel dibattito postbellico nella Germania Occidentale. Alcuni avevano pure tentato di porre le sofferenze inflitte ai tedeschi dalla vendetta dei confinanti orientali sullo stesso piano delle atrocità naziste, come testimonia la tesi dello storico e sociologo Eugen Lemberg, risalente al 1950, secondo cui «ciò che i tedeschi hanno fatto agli ebrei, i polacchi e i cechi l’han fatto ai tedeschi».
Le vicende del confine orientale nostrano furono assai frequentate dai mezzi d’informazione nazionali almeno fino al 1954. Lo dimostra, tra i vari contributi dedicati all’argomento, la mole di scritti sulle foibe e la questione di Trieste apparsi sulla stampa locale lombarda, raccolti nel 2008 da Antonio Maria Orecchia in La stampa e la memoria. Il fatto che la questione sia passata di moda con il ritorno di Trieste all’Italia nel 1954 si deve principalmente alla considerazione che simili argomenti erano ormai privi di sbocchi politici: gli effetti della ricostruzione e del boom economico erano ritenuti più appetibili dei ricordi di guerra.
La fine del blocco sovietico e i nuovi irredentismi
Le cose sono cambiate, appunto, sul finire degli anni ottanta, principalmente come effetto dell’agonia del socialismo reale in Europa orientale. Nel passaggio da una retorica basata sull’internazionalismo all’incontrastata affermazione di logiche centrate sullo stato-nazione si verifica quasi contemporaneamente l’unificazione della Germania e lo scioglimento delle compagini federative ex socialiste di Cecoslovacchia e Jugoslavia. Subito, poiché l’equilibrio politico disegnato dalla conferenza di pace di Parigi appare suscettibile di ulteriori revisioni, si attivano gli irredentismi. In Germania si valuta brevemente la possibilità di rinegoziare il confine con la Polonia, prima che il confine esistente, tecnicamente provvisorio dal 1945, sia accettato formalmente con una serie di trattati tra il 1990 e il 1991.
Allo stesso modo, la dissoluzione della Jugoslavia stimola in certi ambienti l’idea che i vari trattati stipulati tra questa e l’Italia, tra cui quello di Osimo che nel 1975 aveva stabilito definitivamente il confine, non sarebbero stati ereditati dalle nuove repubbliche di Slovenia e Croazia.
A farsi portavoce di una simile interpretazione fu soprattutto un partito di estrema destra, il Movimento sociale italiano. Il suo segretario, Gianfranco Fini, nel novembre del 1992, sebbene l’Italia avesse riconosciuto la Slovenia e la Croazia all’inizio dell’anno, si imbarcò con Roberto Menia, un rappresentante locale del partito, per lanciare nel golfo di Trieste 350 bottigliette con all’interno un suggestivo messaggio: «Istria, Fiume, Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Jugoslavia muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo nel 1975 oggi non valgono più… È anche il nostro giuramento: ‘Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!’».
Come anche nel caso tedesco, l’impraticabilità di una revisione del confine si risolse nella richiesta della restituzione dei beni abbandonati dai cittadini italiani dopo la guerra. Per questo motivo, per una specie di ricatto, l’Italia (sotto il primo governo Berlusconi) pose il veto all’ingresso della Slovenia nell’Unione europea nel 1994. Il veto fu sollevato dal successivo governo di centrosinistra, su preghiera del presidente americano Bill Clinton. Ancora nel 2006, per raccontare la vicenda, il quotidiano Libero non trovò titolo migliore che «I beni degli esuli regalati da Prodi alla Slovenia». In Germania, invece, la questione della restituzione dei beni durò fino al 2004, quando il cancelliere Gerhard Schröder prese pubblicamente le distanze dall’argomento.
In assenza di ripercussioni pratiche, la questione dei confini orientali ha continuato a operare sul piano culturale e simbolico per tutti gli anni duemila.
Dal plurale al singolare
Ma in che modo gli eventi storici legati ai confini orientali sono entrati nel discorso pubblico? Ancora una volta, le traiettorie di Italia e Germania mostrano importanti tratti di convergenza.
Entrambi paesi invasori di territori situati a oriente e organizzati in deboli stati di recente formazione, entrambi sconfitti in guerra, Italia e Germania subirono la vendetta dei popoli che avevano invaso, con alcune differenze. Se l’esodo dei tedeschi si misura sulla scala dei milioni, nel caso degli esuli istriani si può parlare di circa 250mila persone. I tedeschi furono cacciati dalla Cecoslovacchia con i provvedimenti emessi dal presidente Edvard Beneš ben prima del colpo di stato comunista del 1948, mentre nessun provvedimento di espulsione riguardò la minoranza italiana in Jugoslavia, a cui in buona parte fu consentito di optare per la cittadinanza italiana e il trasferimento nella madrepatria dalle clausole del trattato di pace del 1947.
In entrambi i paesi, poi, le complesse dinamiche storiche del periodo postbellico sono riassunte in semplici slogan. Nel caso del Vertreibung, il termine è usato per descrivere trasferimenti di popolazione che hanno occupato la durata di svariati anni, dai reinsediamenti ordinati dai nazisti già al termine degli anni trenta per rinforzare la componente etnica tedesca nei territori di recente occupazione (dagli stati baltici verso Polonia e Boemia), ai circa sei milioni di tedeschi evacuati dalle autorità naziste nell’ultimo anno di guerra, comprendendo infine tutti quelli che sono stati effettivamente cacciati dopo la liberazione dei paesi dell’Europa orientale. Allo stesso modo, nella categoria di “esodo istriano” sono inclusi movimenti di popolazione avvenuti in circostanze e situazioni diverse, dall’evacuazione forzata di Zara a seguito dei bombardamenti alleati ai trasferimenti clandestini a quelli operati legalmente e in forma variamente organizzata attraverso le opzioni, il tutto lungo un periodo più che decennale.
Il corollario naturale della trattazione pubblica di questi argomenti è l’incertezza, se non l’esagerazione, sul numero delle vittime. Gli “espulsi” tedeschi variano, nei rapporti dei mezzi d’informazione, da cinque a venti milioni, con una congettura sul numero delle vittime fissata attorno ai due milioni e mezzo. Nel caso italiano il numero degli esuli varia da duecentomila a 350mila, cifra citata nella maggior parte dei casi, mentre le stime degli “infoibati” variano a seconda dei casi da alcune centinaia – il numero dei corpi che secondo le ricerche disponibili è stato effettivamente individuato sul fondo delle grotte carsiche – a diverse migliaia di italiani che persero variamente la vita in territorio jugoslavo dopo l’armistizio.
Poiché il concetto di “infoibamento” è per lo più utilizzato in maniera simbolica, stime ancora più elevate sono state calcolate da ambienti militanti includendo anche tutti i soldati italiani caduti e dispersi in territorio jugoslavo per i più vari motivi, al punto che nel volume Albo d’oro di Luigi Papo, il tenente colonnello Cuiuli, comandante del campo di concentramento fascista di Rab/Arbe, morto suicida in stato d’arresto a seguito dell’insurrezione dei prigionieri del campo dopo l’8 settembre, risulta tra le vittime delle foibe. Nel cimitero monumentale costruito in prossimità del campo è ancora possibile osservare una frusta uguale a quella con cui amava picchiare personalmente gli internati.
Curiosamente, tanto in Italia quanto in Germania l’interesse giornalistico verso le storie riscoperte non si estende alle opere storiografiche che trattano l’argomento da un nuovo punto di vista o a partire da nuove acquisizioni archivistiche. Sebbene esistano lavori di buon livello scientifico usciti negli ultimi anni, questi, quando non sono osteggiati, non ricevono solitamente grande pubblicità, mentre sono in genere reclamizzate pubblicazioni di carattere sensazionalistico o libri di ricordi personali di testimoni diretti, dei loro discendenti nonché semplici ammiratori. In assenza di nuove ricerche di grande impatto, e dunque in un circuito per lo più parallelo rispetto a quello del dibattito e della ricerca storiografica, il “mutato atteggiamento” nei confronti della storia dei confini orientali rispecchia semplicemente un modo diverso – ma che in realtà somiglia alla visione sviluppata da ambienti militanti settant’anni fa – di interpretare eventi noti da tempo.
Il Giorno del ricordo
In Germania le espulsioni assumono una visibilità particolare nel corso del Tag der Heimat, la ricorrenza patriottica dal più ampio significato celebrativo che ricorre annualmente la seconda domenica di settembre. In Italia, invece, si è optato per l’istituzione di un’apposita giornata commemorativa, il Giorno del ricordo, il 10 febbraio. La giornata è stata introdotta dalla legge numero 92 del 30 marzo 2004, per iniziativa del secondo governo Berlusconi. Solo quattro anni prima, il precedente governo di centrosinistra aveva reso l’Italia uno dei primi paesi a commemorare le vittime della shoah il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata rossa, ben prima che le Nazioni Unite, con la risoluzione 60/7 del 2005, incoraggiasse tutti i paesi a fare lo stesso.
Al di là del diverso orientamento politico dei due governi, vi sono altri elementi che indicano una sorta di complementarietà tra le due date, in una tendenza che sembra accodarsi alla condanna dell’Unione europea degli opposti totalitarismi, fattore che alcuni autori indicano alla base della crisi del paradigma antifascista al livello continentale.
Se, soprattutto nella prima proposta di legge firmata dal già menzionato Menia, l’intento di commemorare ufficialmente le foibe conteneva effettivamente elementi di vendetta politica, nella formulazione definitiva della legge del Giorno del ricordo, approvata ad ampia maggioranza, è importante il ruolo di quel settore della sinistra ex comunista che accettò di buon grado l’occasione di segnare una cesura rispetto alla propria storia politica nonché sottolineare la propria adesione a quel neopatriottismo che negli ultimi anni stava prendendo il posto della discriminante antifascista messa in crisi dalla partecipazione dell’ex Msi al governo.
Questa critica è peraltro emersa durante la discussione della legge, quando il deputato Franco Giordano, tra i pochi a votare contro, disse che «non si può dedicare una giornata della memoria, al pari del 25 aprile e di quella dell’Olocausto, in quanto stiamo parlando di fenomeni che non sono assolutamente equivalenti e la proposta di renderli equivalenti […] in realtà allude ad un processo di revisionismo storico che cambia la natura dello Stato e della Costituzione antifascista».
La scelta della data, anzitutto, approvata su proposta delle associazioni degli esuli. Il 10 febbraio è infatti l’anniversario della ratifica del trattato di Parigi con cui le potenze alleate (Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica) stabilirono le condizioni per la fine delle ostilità con l’Italia. Tra le date alternative disponibili si possono elencare il 20 marzo, data della partenza dell’ultimo viaggio del piroscafo Italia carico di profughi da Pola, o il 15 settembre, data di entrata in vigore del trattato di pace stesso.
Il 10 febbraio 2007 il presidente della repubblica Giorgio Napolitano commemorò le foibe attribuendole a «un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947». Tale riferimento al trattato, per di più nell’anniversario della sua ratifica, suscitò l’allarmata reazione dell’omologo croato Mesić. Questi, oltre a denunciare quelli che riteneva «elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e ricerca di vendetta politica», dichiarò senza mezzi termini «disdicevole e potenzialmente pericoloso mettere in questione il Trattato di pace che l’Italia ha firmato nel 1947». Definiva anche «assolutamente inaccettabile per la Croazia qualsiasi tentativo di mettere in discussione gli accordi di Osimo (…) che la Croazia ha ereditato come uno dei paesi successori della Federazione jugoslava».
Tornando alla scelta del 10 febbraio, essa, come si è visto, da un lato suggerisce un nesso causale tra la pace imposta dalle potenze cui l’Italia aveva dichiarato guerra e gli eventi luttuosi che la festività si propone di commemorare e tramandare, dall’altro fa sì che le foibe e l’esodo siano ricordati esattamente due settimane dopo la Giornata della memoria della shoah. Considerato anche che in genere gli eventi legati alle due ricorrenze si sviluppano a cavallo delle giornate stesse e la somiglianza delle due denominazioni, oggetto di frequenti lapsus e malintesi sui mezzi d’informazione, ne deriva una certa confusione, come prova l’iniziativa di alcuni comuni di fare economia celebrando il Giorno della memoria e quello del ricordo in un unico evento posto a metà tra le due date.
Oltre agli effetti osmotici del calendario civile e delle gaffe, ne vanno considerati altri, altrettanto incisivi e significativi.
L’estetica dell’appiattimento
L’impianto di celebrazione della shoah, così ben strutturato e declinato in prodotti d’arte di qualità spesso elevata, tanto da essere divenuto patrimonio della cultura di massa e del senso comune, esercita, proprio in virtù del suo successo, un indubbio potere attrattivo sul tentativo di reclamizzare uccisioni e persecuzioni, nonostante queste abbiano spesso poco o nulla a che spartire con quelle commesse da Hitler e dai suoi volenterosi collaboratori di varie nazionalità. Non appena ci si accinge a raccontare una qualsiasi storia di massacri e persecuzioni, quindi, l’estetica della shoah emerge quasi naturalmente e procede a livellare per vaghi nessi associativi vittime di cui viene esaltata l’innocenza, la giovinezza e il candore a prescindere dalla natura della persecuzione subita, mentre i carnefici vengono nazificati.
Uno degli effetti di questo appiattimento si produce al livello iconografico, ed è il motivo per cui le fotografie sono usate in maniera indifferenziata: i profughi francesi che scappano dai nazisti diventano esuli istriani, immagini di fosse comuni naziste valgono per l’Holodomor (la grande carestia ucraina del 1929-1933). Le didascalie cambiano, ma stranamente il crimine ritratto è quasi sempre fascista.
Un altro effetto è l’utilizzo sempre più frequente della parola “genocidio”. Il termine è stato coniato in ambienti ebraici durante la seconda guerra mondiale e ratificato nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio nel 1948 con la risoluzione 260 dell’Onu: «Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro».
Tale definizione, come si vede, non menziona le persecuzioni politiche. Ciononostante, dato il capitale morale che deriva dall’accusa di genocidio, c’è una tendenza a usare il termine per un’ampia gamma di massacri e persecuzioni, abuso che ne ha mutato profondamente il significato e il valore di condanna eccezionale.
Il senso della storia
Si diceva di un modo nuovo e “nazionale” di guardare alla storia in un certo numero di paesi, sia ex fascisti sia tra quelli in via di transizione dal comunismo. Nel 1989 Franjo Tuđman, l’aspirante leader di un paese, la Croazia, che si candidava a rientrare in entrambe le categorie, pubblica un libro indicativamente intitolato L’assurdità della realtà storica. Il volume è una raccolta di riflessioni vagamente filosofiche sul ruolo della violenza nella storia, in cui, tra le altre cose, viene posta in dubbio la consistenza numerica delle vittime ebraiche nel corso della seconda guerra mondiale, sia al livello europeo sia in Jugoslavia.
Mentre l’élite politica croata cercava di liberarsi della pesante eredità del regime fascista di Pavelić, in Italia e in Germania, oltre alle “riscoperte” di cui si è detto, cominciava a manifestarsi un interesse nuovo anche per il comportamento degli alleati durante la seconda guerra mondiale. Negli eccessi più noti, come l’incendio di Dresda – ma si pensi anche alla recente insistenza, in Italia, sui bombardamenti di Zara –, tale comportamento viene considerato su un piano simile a quello delle atrocità nazifasciste, collocando tutti questi eventi nella categoria molto generica di una guerra in cui i partecipanti, tutti e senza distinzione, si sarebbero macchiati di crimini analoghi.
L’elevazione dei crimini nazisti – crimini contro l’essenza innata delle persone – a una categoria di ordine superiore, a crimine terribile e inedito, a orrore tramandato agli eredi politici (e perfino biologici) di chi lo ha compiuto o più semplicemente a precetto morale centrale della nostra civiltà, ha coinciso con l’inizio di un periodo storico che ha conosciuto l’espansione dei diritti civili e l’emancipazione e integrazione di ampie quote di umanità oppressa – si pensi all’emancipazione politica delle donne e alla decolonizzazione.
La sostanziale negazione dell’unicità di questi crimini, confusi in una variegata schiera di pretesi genocidi tra cui le vendette postbelliche ai danni di italiani e tedeschi, le sofferenze patite da determinate categorie sociali e politiche nei paesi comunisti e i crimini degli alleati occidentali nel corso della guerra scatenata dalla Germania e dai suoi sostenitori, rischia di ripristinare un antico ordine del mondo in cui la storia è accettata come un naturale susseguirsi di violenze e sopraffazioni.
Non è un caso che la rappresentazione dell’Europa centrale e orientale promossa dalla “nuova sensibilità storica” in Italia e Germania abbia riscoperto una serie di cliché razzisti – si pensi all’immagine degli slavi in molto del materiale divulgativo sulle foibe – sostanzialmente affine alle rappresentazioni prodotte all’inizio del novecento per giustificare l’intervento armato in quello che veniva definito un oriente barbarico in preda a odi ancestrali. Ci si può chiedere quale sarà il risultato dell’incontro di rappresentazioni di questo genere con le emergenze degli ultimi anni: la crisi della democrazia liberale, l’ascesa dei populismi e la tendenza alla chiusura dei confini.
In questo senso non può che preoccupare una recentissima dichiarazione di Björn Höcke, politico tedesco del partito populista di destra Alternative für Deutschland (Afd), in prima linea contro rifugiati e immigrati. Parlando non a caso a Dresda ha annunciato che “la Germania deve smetterla di sentirsi colpevole e operare una svolta nel modo di ricordare il periodo nazista” e i tedeschi sarebbero gli unici che “hanno costruito un monumento alla vergogna nel cuore della loro capitale”, riferendosi al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, eretto nel 2005 a Berlino.
IL PREQUEL DEL GIORNO DEL RICORDO.
LA VENEZIA GIULIA
DALLA PRIMA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
di Piero Purini
Non è possibile affrontare i temi del Giorno del ricordo senza prima analizzare il contesto in cui l’esodo e le foibe avvennero e senza conoscere la complessità umana e nazionale del “confine orientale”. Per fare questo è necessario fare un salto all’indietro ed esaminare la situazione del territorio che all’inizio del novecento era chiamato Litorale austriaco.
Il Litorale (Küstenland in tedesco, Primorska in sloveno e croato) si trovava alla confluenza delle tre macroaree linguistiche più grandi d’Europa: la neolatina, la germanica e la slava. Di conseguenza la popolazione era mista, con zone a maggioranza slovena (il vasto territorio a est e a nord di Gorizia, il Carso triestino, il nord dell’Istria), italiana (il centro di Trieste, gran parte della costa istriana, il Friuli orientale e la Bisiacaria – cioè la zona del monfalconese), croata (l’interno dell’Istria). Erano presenti anche numerosi gruppi minoritari (romeni, serbi, ebrei, greci, cechi, armeni): il gruppo più consistente era quello tedescofono, presente soprattutto nelle città medie e grandi.
Spesso l’identità linguistica non era nettamente definita: in parte dell’Istria gli abitanti parlavano dialetti che non erano chiaramente sloveni o croati, ma mescolavano le due lingue; nel Friuli orientale la popolazione si esprimeva in lingua friulana; in quasi tutta la regione il dialetto venetomorfo rappresentava il vero veicolo di comunicazione ed era molto più usato della lingua italiana dagli stessi italiani.
Il plurilinguismo era una situazione estremamente diffusa, sia per la frequenza dei matrimoni misti, sia per la necessità di parlare più lingue in un territorio multietnico. Il meticciato linguistico era piuttosto normale, con persone che nei vari ambiti della propria esistenza usavano una lingua o l’altra (tanto che a Fiume - che non faceva parte del Litorale, ma nel 1924 fu annessa alla Venezia Giulia - si diceva che “el più stupido omo parla quattro lingue”) e le stesse lingue e dialetti erano abbondantemente contaminati da molti forestierismi.
Negli ultimi decenni dell’ottocento e all’inizio del novecento, l’espansione del porto e della città di Trieste, l’indotto, le infrastrutture e i commerci provocarono un forte sviluppo industriale e causarono una forte immigrazione e un aumento esponenziale della popolazione dell’intera regione. Trieste in particolare presentava nel 1914 un numero doppio di abitanti rispetto al 1870 e quasi decuplicato rispetto agli inizi dell’ottocento.
In questa nuova immigrazione erano prevalenti gli sloveni (provenienti sia da altre zone del Litorale, sia dalla Carniola), gli italiani immigrati dalle città dell’Istria e dal vicino Regno d’Italia (soprattutto dal Veneto e dal Friuli), i croati dell’Istria interna e della Dalmazia, i cechi provenienti dalla Boemia e i tedeschi da tutto l’impero, ma anche dalla Germania e dalla Svizzera.
Sloveni e croati, almeno fino agli ultimi decenni dell’ottocento e prevalentemente nei grandi centri, tendevano ad assimilarsi alla componente italiana, in quanto cultura dominante, in una o due generazioni. Si trattava del gruppo più forte da un punto di vista culturale ed economico, anche perché la borghesia del Litorale era in gran parte italiana o italianizzata. Assimilarsi offriva dunque più possibilità di avanzamento sociale e un più rapido miglioramento economico individuale.
Inoltre la diversità dei dialetti in molti casi rendeva difficile ai singoli la percezione di un’identità nazionale comune: la presa di coscienza della propria nazionalità da parte di sloveni e croati fu un fenomeno successivo (basti pensare che una codificazione definitiva e unitaria dell’alfabeto sloveno era stata raggiunta solo verso il 1835). Solo nella seconda metà dell’ottocento la tendenza degli immigrati a italianizzarsi diminuì, grazie a una maggior coscienza nazionale dovuta all’apertura di numerose scuole slovene e all’aumento del livello d’istruzione tanto nelle zone d’origine quanto in quelle di arrivo. Contribuirono a fermare l’assimilazione anche l’aumento dell’immigrazione che rese i nuovi arrivati meno vulnerabili, dato che trovavano sul territorio comunità nazionali già coese, la nascita di una coscienza di classe nel proletariato che si contrapponeva alla borghesia – italiana –, e infine la politica delle autorità austriache che, temendo il crescente peso dell’irredentismo italiano, tentavano di contrapporvi le altre nazionalità presenti.
La popolazione italofona di Trieste era anch’essa composita: autoctoni residenti in città da molte generazioni, italiani immigrati da altre zone della duplice monarchia (soprattutto dall’Istria, dalle città della Dalmazia, dal Friuli orientale e dalla Bisiacaria) e cittadini italiani – i “regnicoli” – residenti a Trieste ma privi della cittadinanza austriaca. Politicamente solo una minoranza degli italiani del Litorale era favorevole all’irredentismo e all’annessione del territorio all’Italia, ma furono proprio i leader e gli intellettuali irredentisti, in particolare durante gli anni della prima guerra mondiale, a fornire gli strumenti interpretativi della situazione locale all’opinione pubblica italiana.
La popolazione tedesca, nella sola Trieste, contava quasi 12mila persone. Si trattava soprattutto di funzionari imperiali, di impiegati nelle filiali di imprese austriache e di commercianti che da oltre un secolo avevano sul territorio le proprie attività. Erano presenti anche nuclei consistenti di operai di lingua tedesca tra i ferrovieri e i cantierini.
Il censimento del 1910 registrò nel Litorale una popolazione totale di 928.046 persone, di cui 354.908 italiani, 466.730 sloveni e croati, 39.798 di altra lingua e 66.611 cittadini stranieri, compresi i regnicoli. L’appartenenza nazionale fu stimata in base alla “lingua d’uso”, ma tale criterio era ambiguo: poteva essere interpretato tanto come lingua d’uso nelle relazioni interpersonali e lavorative quanto come lingua d’uso in famiglia. Le rilevazioni furono affidate a funzionari comunali, ma in buona parte dei centri più grandi (in primis a Trieste) i comuni erano guidati dal partito liberalnazionale, cioè dalla borghesia irredentista italiana, per cui si ritenne già allora che gli addetti alla rilevazione avessero censito come italiani una parte significativa dei bilingui e trilingui. In alcune zone le autorità imperiali procedettero a una revisione dei dati: per esempio a Trieste gli italiani passarono da 170mila a 148.398, mentre gli sloveni da 38mila a 56.917.
I primi cambiamenti forzati
La complessità etno-nazionale del Litorale non diede comunque adito, nel periodo precedente alla grande guerra, a violenze. Gli attriti si limitarono quasi esclusivamente a polemiche o ad articoli derisori sui giornali. Maggiori tensioni si ebbero in occasione dell’apertura di alcune scuole slovene in città o per la proposta di istituire una università italiana a Trieste, ma la situazione non degenerò mai in scontri pesanti
Lo scoppio della guerra nel 1914 portò ai primi cambiamenti forzati della popolazione del Litorale: decine di migliaia di giovani del territorio furono arruolati e spediti sul fronte russo, qualche migliaio di renitenti anarchici o socialisti e di irredentisti si rifugiò nell’ancora neutrale Italia, mentre una parte dei regnicoli rimpatriò a causa del crollo economico causato alla città dal conflitto. Quando cominciò a prospettarsi l’entrata in guerra dell’Italia anche i regnicoli rimasti dovettero fuggire in massa per non trovarsi nella situazione di cittadini stranieri in un paese nemico. Al momento dell’inizio delle ostilità il Litorale aveva perso la grande maggioranza dei cittadini italiani in esso residenti, quasi 35mila persone.
Durante la guerra il Litorale subì un grave spopolamento: il Friuli orientale, la Bisiacaria e l’Isontino, zone di operazioni o immediata retrovia, furono evacuati. Lo stesso accadde per il sud dell’Istria, ritenuto un territorio strategicamente importante per la presenza del porto di Pola. Gli sfollati furono ammassati in campi profughi sparsi per il territorio austriaco, mentre chi non era riuscito ad andarsene fu trasferito verso l’interno dell’Italia dopo l’occupazione dei paesi friulani e bisiachi da parte delle truppe italiane. Altri abitanti del Litorale, sorpresi altrove all’interno della monarchia asburgica dallo scoppio della guerra, non poterono ritornare a causa della limitazione del movimento dei civili. Con il procedere del conflitto molte amministrazioni, ditte e fabbriche (e il loro relativo personale) furono spostate in luoghi più sicuri all’interno dell’Austria-Ungheria. A Trieste, che nel 1914 contava 243mila abitanti, la popolazione si ridusse a sole 150mila unità.
La metamorfosi successiva alla guerra
La sconfitta dell’Austria-Ungheria produsse una vera e propria metamorfosi nella composizione etno-linguistica del territorio: già nei giorni precedenti l’arrivo delle truppe italiane si verificarono i primi incidenti con vittime slovene. Le nuove autorità italiane presero una serie di iniziative che via via resero più difficile la permanenza di coloro che non erano italiani e ostacolarono il ritorno degli sfollati di nazionalità slovena, croata o tedesca: ai reduci dell’esercito austriaco fu permesso di restare nel Litorale (ormai ufficialmente ribattezzato Venezia Giulia) solo se nativi del territorio, mentre quelli di altre nazionalità dovevano trasferirsi oltre la linea di demarcazione. Ciò significava che tutti i non italiani immigrati di recente e anche sloveni, croati e tedeschi residenti nella regione ma malauguratamente nati altrove dovevano andarsene. In seguito fu previsto l’arresto per coloro che ancora non avevano ottemperato all’ordinanza e da dicembre scattarono forme di internamento per i reduci ancora presenti sul territorio.
Anche i civili non italiani cominciarono a subire pressioni: circa 800 insegnanti e sacerdoti, considerati il veicolo più pericoloso del nazionalismo slavo e croato, furono internati, altri furono espulsi. Provvedimenti del genere furono adottati anche per ex prigionieri di guerra austriaci in Russia, ritenuti potenziali bolscevichi.
Nel pubblico impiego si verificarono cambiamenti radicali: buona parte dei funzionari dell’apparato burocratico asburgico e degli organi imperiali di pubblica sicurezza partirono negli ultimi giorni di guerra o subito dopo. Molti addetti all’ordine pubblico non italiani furono trasferiti nel corso del 1919 nel neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in base a un accordo tra i due governi. Migliaia di persone lasciarono la Venezia Giulia, portando in alcune zone a un vero e proprio spopolamento: addirittura dalla sola Pola vi fu un esodo che coinvolse da venti a venticinquemila individui, nella maggioranza persone legate alle attività del porto militare.
La comunità tedesca fu particolarmente colpita: le sue scuole furono chiuse (e trasformate per dileggio in caserme), circoli e giornali dovettero sospendere le attività, si verificarono epurazioni e licenziamenti nei posti di lavoro, ci furono delazioni nei confronti di persone che in ambito familiare e privato continuavano a parlare tedesco e atti intimidatori per spingere i tedescofoni ad andarsene in Austria. La vox populi dell’epoca parlò di 40mila persone emigrate da Trieste soprattutto a Vienna e a Graz.
Anche verso la Jugoslavia si verificò un flusso di partenze (che continuò anche per tutto il ventennio fascista) di sloveni e croati che trovarono più opportuno lasciare la zona invece di rimanere nelle proprie case. Alcune organizzazioni di aiuto ai profughi fornirono la prima assistenza a questi profughi e crearono strutture di accoglienza: nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia in Jugoslavia oscillavano già dalle 30 alle 40mila persone (di cui 15mila alloggiate in campi profughi). Nella sola Lubiana erano presenti quasi cinquemila profughi dichiarati, ma tra questi non era conteggiato chi non si era rivolto a organizzazioni ufficiali.
La bonifica fascista
A fronte di questi mancati rientri e di queste partenze, le autorità italiane insediarono nei nuovi territori migliaia di neoimmigrati dal regno. I primi a esservi trasferiti furono membri delle forze dell’ordine, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione pubblica necessari per il controllo dei “territori redenti”. La politica dell’Italia fu analoga a quella che si adottava nei confronti dei territori coloniali e il numero delle forze militarizzate presenti nella Venezia Giulia aumentò a dismisura: 47mila unità contro le 25mila del periodo asburgico (di cui però ben 17mila concentrate nel porto militare di Pola).
Ben presto cominciarono a trasferirsi dal regno anche moltissimi civili. I primi furono i regnicoli già residenti prima della guerra, seguiti da un numero sempre più consistente di neoimmigrati italiani. Nel 1921 il numero complessivo dei nuovi immigrati civili nella sola Trieste era di circa 40mila persone, di cui 25.500 già residenti prima della guerra. Vi erano diverse motivazioni per l’insediamento nella città: la fama di ricchezza di cui Trieste godeva nell’immaginario collettivo italiano, gli inviti che i nuovi immigrati inoltravano ai parenti, l’effettiva migliore qualità della vita che Trieste, pur nella situazione di crisi postbellica in cui la città si trovava, offriva rispetto al contesto rurale di molte zone dell’Italia.
Tuttavia la nuova situazione geopolitica del territorio mostrò presto tutti i suoi limiti economici, generando marginalità sociale e disoccupazione tra gli italiani immigrati di recente. Nel 1921 le autorità dovettero bloccare il flusso in arrivo e imporre misure di rientro all’immigrazione: dall’inizio di quell’anno alla metà del 1922 furono respinte ai luoghi di partenza più di diecimila persone. Nel censimento del 1921 i nuovi abitanti di Trieste provenienti dal regno arrivavano circa al 10 per cento della popolazione complessiva. Negli anni del fascismo l’immigrazione ebbe nuovo impulso a causa della politica fascista di italianizzazione dei nuovi territori, ormai definita ufficialmente “bonifica etnica”. Tra il 1918 e il 1931 furono 128.897 gli italiani immigrati nella Venezia Giulia, dei quali 63.932 concentrati nella provincia di Trieste e 49.009 nella città, dove risiedevano dunque i due quinti dell’intera comunità italiana immigrata. Nel 1931 un abitante su sette risultava essersi stabilito nella Venezia Giulia dopo la guerra.
Comunità cancellate
La politica di bonifica etnica del fascismo non si attuò solo con l’immigrazione di italiani, ma soprattutto con la snazionalizzazione, l’assimilazione e la spinta all’emigrazione degli “allogeni” o “alloglotti”. Sloveni e croati della Venezia Giulia nel corso del ventennio fascista videro l’annientamento di tutte le iniziative economiche e culturali delle due minoranze. Nel giro di pochi anni le banche e gli istituti assicurativi di proprietà slovena e croata furono chiusi o assorbiti da istituti nazionali, i circoli e le istituzioni culturali soppressi, la stampa e l’editoria sospese, l’uso dello sloveno e croato vietato nei tribunali e negli uffici pubblici.
Ai contadini sloveni e croati che avevano ottenuto prestiti pubblici per l’aiuto postbellico furono aumentati talmente i tassi di interesse da costringerli a svendere le proprietà allo stato, che poi provvedeva a riassegnarle, a prezzo stracciato, a coloni italiani neoimmigrati. La “riforma Gentile” portò alla chiusura di tutte le scuole con lingua d’insegnamento non italiana, mentre i simboli delle due comunità furono distrutti. L’episodio più significativo fu l’incendio del Narodni dom, la casa del popolo che rappresentava il cuore culturale e simbolico delle comunità slovena, croata e ceca di Trieste, dato alle fiamme il 13 luglio 1920 in una delle prime “imprese” degli squadristi giuliani.
Le violenze colpirono istituzioni e singoli individui: scuole, circoli, giornali, negozi e studi professionali furono devastati dagli squadristi; intellettuali, attivisti o anche persone comuni colpevoli solo di esprimersi nella loro madrelingua furono brutalmente malmenati o addirittura assassinati dai militi fascisti. L’organista sloveno Lojze Bratuž, colpevole di dirigere un coro sloveno, fu ucciso dagli squadristi facendogli bere olio per motori; altre volte i fascisti spararono contro gli elettori che si recavano alle urne o contro operai in sciopero.
Lo sloveno e il croato furono cancellati addirittura dalla toponomastica: i nomi delle località slovene e croate furono modificati in lingua italiana, traducendoli (il monte Snežnik, da sneg, neve, divenne monte Nevoso), italianizzandoli per assonanza (Hrastovlje, bosco di querce, divenne Cristoglie) o addirittura inventandoli ex novo (Ricmanje divenne San Giuseppe della Chiusa). A volte furono fatti errori marchiani, come nel caso del monte Krn, italianizzato come monte Nero, confondendo il termine krn (mozzo, tronco) con črn (nero). Inoltre fu avviata una campagna per il cambiamento dei cognomi e nomi “allogeni” e la loro “restituzione” in italiano (spesso chi manteneva il cognome slavo non aveva accesso al posto di lavoro). Anche per i cognomi si procedette con traduzioni (Kovač=Fabbri, Lisjak=Volpe) e con assonanze (Kocijančič – Canciani, Jamsek – Giani). Come nel caso dei toponimi si verificarono episodi grotteschi: Smerdel (da smrditi, puzzare) divenne alternativamente Smeraldi oppure Odorosi; il cognome sloveno Starec (vecchio) divenne il fascistissimo Starace.
Molte famiglie smisero di esprimersi in sloveno e croato per adottare l’italiano; l’impossibilità di frequentare scuole dove si imparassero le due lingue staccò definitivamente numerosi giovani dal proprio ambito culturale d’origine. Altri scelsero di andarsene: circa centomila alloglotti lasciarono il Litorale tra le due guerre per dirigersi soprattutto in Jugoslavia, Argentina, Brasile, Francia, Belgio, Austria, Egitto. In Jugoslavia e in Argentina sorsero delle vere e proprie colonie di sloveni del Litorale che comprendevano decine di migliaia di persone.
La Jugoslavia fu la meta privilegiata di quest’emigrazione per il legame nazionale e culturale con la Venezia Giulia. Furono numerosi gli intellettuali, i professionisti, gli insegnanti, i funzionari di istituti che si trasferirono nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, andando incontro anche a prestigiose carriere. Molti di questi “profughi intellettuali” andarono a formare l’intellighenzia del nuovo stato jugoslavo, come docenti universitari, musicisti, architetti, avvocati, direttori di imprese. Operai, ferrovieri e cantierini trovarono lavoro nei porti adriatici, nelle nascenti industrie jugoslave e nel comparto ferroviario. I profughi senza specializzazione invece ebbero un destino meno fortunato: una parte considerevole dei contadini fu trasferita in Macedonia, una delle regioni più arretrate del nuovo stato jugoslavo.
La catena degli eventi
La snazionalizzazione diede i suoi frutti: nel 1921 il censimento segnalò nella regione 884.251 abitanti, di cui 503.134 italiani, 257.868 sloveni e 92.806 croati. Nel 1936 un altro censimento, i cui risultati però furono tenuti segreti, rilevò 1.001.719 abitanti (Fiume compresa), dei quali 606.623 italiani, 251.760 sloveni e 135.182 croati. Il risultato leggermente più alto fra i croati fu dovuto, oltre che all’annessione di Fiume, al fatto che in questo censimento ormai il grosso dell’operazione di bonifica etnica era già avvenuto, per cui le rilevazioni furono usate come una sorta di “verifica” della politica di snazionalizzazione e le pressioni sui censiti furono molto inferiori rispetto al 1921.
Contro la politica di bonifica etnica e le violenze fasciste nacquero movimenti clandestini di resistenza nazionale. I più importanti furono il Tigr – acronimo di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (Rijeka) – e Borba (Lotta) che attuarono azioni e attentati contro simboli e istituzioni legate alla politica di bonifica etnica fascista. Per piegare questi gruppi e per intimidire la popolazione fu impiegato il tribunale speciale per la difesa dello stato, una magistratura fascista istituita dopo l’attentato del 1926 a Mussolini, che non prevedeva né ricorsi né appelli. Il tribunale speciale fu largamente impiegato dallo stato contro gli sloveni e i croati: i processi a loro carico furono 131, gli anni di carcere irrogati a residenti nella Venezia Giulia 4.893 (il 17 per cento delle condanne complessive emesse dal tribunale in tutta Italia), le condanne a morte 33 su 42 totali, le condanne eseguite 23 su 31.
Durante e alla fine della seconda guerra mondiale si svolsero episodi di violenza che una certa vulgata istituzionale, attraverso il Giorno del ricordo, ha trasformato in eventi a sé stanti: le “foibe” e l‘“esodo”. Ma non sono eventi a sé stanti, non possono essere estrapolati da una situazione storica di violenza e di sopruso che continuava da oltre vent’anni. Per non parlare dei crimini avvenuti durante l’occupazione della Jugoslavia, di cui tratteranno in questo speciale altri studiosi.
Senza conoscere la catena di eventi che scatenò reazioni di tal genere, non è possibile dare una chiave di interpretazione corretta a quegli avvenimenti e il Giorno del ricordo, anziché essere un’occasione di riflessione storica, rimarrà esclusivamente uno strumento politico.
PERSECUZIONI, CRIMINI FASCISTI E RESISTENZE
NEI BALCANI E NELLA VENEZIA GIULIA, 1920-1945
di Anna Di Gianantonio, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Nicoletta Bourbaki
Una conversazione con gli storici Carlo Spartaco Capogreco, Anna Di Gianantonio ed Eric Gobetti.
Nicoletta Bourbaki. Nell’ottobre 1993, su iniziativa dei governi dei due paesi, si è costituita una commissione mista storico-culturale italo-slovena, che ha presentato la sua relazione nel 2000. Lo scopo dichiarato era ricostruire i processi storici che, nel periodo 1880-1956, influenzarono i rapporti tra italiani e sloveni, per poter avviare nuove relazioni tra i due stati. Come giudicate quella vicenda, sia riguardo a come è nato e si è svolto quel lavoro di ricerca storica comparata, sia alla luce della diffusione pressoché nulla – ai limiti della censura – che ha avuto in Italia la relazione finale?
Eric Gobetti. Ho forti perplessità sui tentativi di creare una “memoria condivisa”, cosa oggettivamente molto difficile in situazioni di violenze estreme e di lunga durata. Ritengo più logico un riconoscimento dei rispettivi torti e delle rispettive memorie, senza necessariamente condividerne gli assunti o trovare una, spesso impossibile, mediazione. Fatta questa premessa, il lavoro della commissione ha rappresentato un enorme sforzo, portato avanti con estrema abilità diplomatica e nobili obiettivi di pacificazione delle memorie. Si possono muovere molte critiche a quel lavoro (a titolo d’esempio si può notare la totale assenza del termine “crimini” nel descrivere le repressioni italiane durante la guerra), tuttavia l’elemento più significativo è proprio la sua mancata circolazione in Italia. L’impostazione oggettiva e fattuale di quel testo infatti andrebbe in contraddizione con la vulgata che si è preferito diffondere al livello politico e mediatico in questi anni. In definitiva, pur con tutti i suoi limiti, credo che quel documento potrebbe aiutare almeno a ristabilire corretti dati fattuali dai quali partire per una seria analisi di un fenomeno complesso. In questa fase storica, sarei favorevole a un utilizzo della relazione per esempio nelle scuole e nelle commemorazioni del 10 febbraio. Tutto sommato, su quei decenni di violenze l’Italia ha prodotto un vero e proprio documento ufficiale, perché non utilizzarlo nella data ufficialmente destinata a ricordarli?
Carlo Spartaco Capogreco. Infatti, la mancata diffusione della relazione da parte dell’Italia non depone bene. Soprattutto considerando la discutibile impostazione impressa dall’Italia, alcuni anni dopo, alla legge sul Giorno del ricordo. In questo senso, come scrissi nel 2007 in occasione della polemica intercorsa tra gli allora presidenti di Croazia e Italia, Mesić e Napolitano, il modo in cui era stata scritta la legge istitutiva di questa commemorazione finiva per consolidare una lettura degli eventi storici sospesa in un ambito metastorico privo di sfondo nazionale e internazionale.
Al di là di ogni altra considerazione, aggiungo solo che nelle “leggi memoriali” sulla shoah (2000) e sulle foibe (2004) l’omissione del contesto storico e, perfino, del termine “fascismo” non aiutano gli italiani di oggi a “fare memoria” realmente. A comprendere e a ricordare, anche, le sofferenze cagionate al nostro e ad altri popoli dalla dittatura fascista. Sulla legge del 2004 relativa alle foibe, confermo quanto scrivevo nel 2007 sul numero di aprile di L’Indice dei libri del mese: con la sua impostazione chiusa e nazionalistica, corre seriamente il rischio di “legalizzare il ricordo di crimini (altrui) sull’oblio di altri crimini (i nostri)”.
Anna Di Gianantonio. Si è tentato di trovare dei punti di equilibrio, dei punti di contatto incontrovertibili tra italiani e sloveni, in base all’idea che gli italiani hanno sbagliato con il fascismo e gli sloveni con le foibe, ma non so quanto possa reggere dal punto di vista storico questo tentativo di contemperare le varie responsabilità. Ultimamente un filone storiografico mette in discussione il rapporto causa-effetto nella storia.
Certamente i fatti storici hanno un’evoluzione più complessa dei processi chimici o meccanici, eppure il fascismo e la guerra hanno determinato le vicende al confine orientale in misura tale che risulta impossibile pensare che non abbiano avuto conseguenze nel 1945. Non mi pare che si possano accusare gli sloveni degli abusi da essi stessi subiti durante il ventennio. Al contrario, al razzismo antislavo tipico di queste terre si è accennato pochissimo, lo si è molto edulcorato, quando invece per loro è stata una cosa durissima. Questo razzismo si spiega in primis con una ragione sociale. Fino alla metà dell’ottocento, infatti, gli slavi occupavano i posti più bassi e più umili nella gerarchia sociale.
Tutta la cultura italiana legge lo slavo come l’Altro, compreso Scipio Slataper, che pure era una delle persone più attente alle implicazioni sociali del “problema slavo”. Nel suo libro Il mio Carso dipinge gli slavi come rozzi contadini senza cultura e senza storia. Certo ci sono intellettuali diversi, come Angelo Vivante, che nel suo Irredentismo adriatico si mostra molto consapevole del problema sociale ed economico che l’irredentismo può creare all’impero austroungarico, ma mi pare un caso molto isolato. Quando poi gli slavi già nei primi anni del novecento riescono a costruire le loro banche e le loro imprese, a emergere economicamente, si scatena anche una concorrenza. L’affermazione dell’italianità in ambienti misti porta a negare i legami che ci sono in una società come questa, dove è molto difficile dire chi è italiano e chi è sloveno. Aggiungo che la relazione del 2000 non è stata divulgata anche a opera degli stessi studiosi che l’hanno scritta. Gli stessi che ci hanno lavorato poi non hanno preteso che il lavoro fosse divulgato.
NB. Entriamo nel cuore delle questioni. Cosa rappresenta la Jugoslavia per l’Italia fascista?
EG. La Jugoslavia rappresenta il principale obiettivo strategico non solo dell’Italia fascista ma del nazionalismo italiano in generale. La prospettiva di espansione territoriale verso est è infatti precedente al fascismo e viene motivata storicamente con la secolare presenza veneziana lungo le sponde orientali dell’Adriatico. Con l’attacco del 1941 e l’annessione di ampie fette di territorio jugoslavo (della Dalmazia in particolare), il regime ottiene dunque un significativo successo politico e propagandistico, raggiungendo obiettivi strategici di lunga durata.
NB. L’aspetto che lei sottolinea, della volontà di espansione italiana nei Balcani anche prima del ventennio fascista e per tutta la sua durata, è centrale. Il razzismo antislavo a cui accennava Anna Di Gianantonio ne costituisce un aspetto davvero oscuro e poco conosciuto, che però serve a comprendere tutto ciò che avverrà in seguito. Ci torneremo più avanti. Prima analizziamo il culmine di questo processo: quello delle violenze belliche nei confronti delle popolazioni slovena, croata e montenegrina.
EG. Le forze d’occupazione italiane reagiscono subito con estrema durezza ai primi fenomeni di resistenza nei Balcani, che avvengono già poche settimane dopo la resa dell’esercito jugoslavo, e cioè nell’estate del 1941. In ogni diversa realtà geografica i fenomeni resistenziali e repressivi assumono forme differenti. In Montenegro l’apice della repressione si raggiunge immediatamente dopo l’insurrezione del 13 luglio 1941, quando l’esercito italiano impiega fino a 70mila uomini in quella che si caratterizza come una vera e propria spedizione punitiva. In quelle stesse settimane nelle città della Dalmazia cominciano a operare i tribunali speciali, che condannano a morte diversi attivisti comunisti. In Slovenia la svolta avviene nell’inverno del 1942, quando i comandi militari ricevono l’autorizzazione a operare senza più l’intromissione delle autorità civili, che dovrebbero amministrare un territorio ufficialmente annesso all’Italia. L’inizio di questa nuova fase repressiva coincide con la costruzione di una vera e propria cintura di filo spinato e posti di blocco attorno a Lubiana, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1942. Nei mesi successivi, poi, una serie di rastrellamenti sempre più massicci seminano morte e distruzione in Slovenia, Croazia, Bosnia e Erzegovina.
NB. Che ruolo hanno in tutto questo personaggi come Mario Roatta e Mario Robotti?
EG. Mario Roatta, ex capo del servizio informazioni militare (Sim) e delle forze fasciste in Spagna, è uno dei più apprezzati generali italiani. Non a caso viene scelto per comandare la seconda armata, che governa i territori jugoslavi annessi e occupati, dal confine italiano fino al Montenegro (escluso). Roatta guida l’esercito italiano in Jugoslavia nei mesi centrali dell’occupazione (essenzialmente nel corso del 1942) e imposta la strategia italiana su un doppio binario: un sistema di ampie alleanze militari con le realtà locali disposte a collaborare in una logica anticomunista, e una durissima repressione, codificata nella famosa circolare 3C (emessa in due versioni nella primavera e poi nell’estate del 1942) che identifica esplicitamente i civili come possibili favoreggiatori dei partigiani e dunque obiettivo privilegiato delle operazioni repressive.
CSC. La circolare 3C era un articolato repertorio rivolto alle forze di occupazione, contenente disposizioni per l’internamento dei civili e la lotta antipartigiana non molto diverse da quelle utilizzate dai nazisti nello stesso periodo. E dai rapporti della polizia segreta fascista dell’epoca emerge un forte apprezzamento dei comandi militari italiani per i metodi antiguerriglia usati dai tedeschi nei Balcani.
EG. Quanto a Robotti, già comandante militare in Slovenia, succede a Roatta al comando dell’armata nel febbraio del 1943. La sua nomina (che avviene però in una fase di recessione dell’impegno italiano in questi territori) è dovuta allo zelo con cui ha condotto la repressione in Slovenia nei mesi precedenti. Robotti è infatti noto agli studiosi per la severità con cui condusse le operazioni di rastrellamento, ma soprattutto per un atteggiamento particolarmente cinico verso le vittime delle repressioni italiane, esemplificato dalla famosa annotazione: «Si ammazza troppo poco!».
CSC. I nomi di Roatta e Robotti – accusati di crimini come fucilazione di ostaggi, terrore pianificato e atrocità e rappresaglie di vario genere – figurarono tra i primi negli elenchi degli italiani di cui, nel 1945, il governo di Belgrado chiese l’incriminazione alla War crimes commission dell’Onu.
NB. È possibile quantificare il numero di vittime dei crimini di guerra italiani in Jugoslavia?
EG. Non sarà mai possibile stabilire una cifra precisa. Esistono però cifre parziali, che danno un’idea di un fenomeno niente affatto estemporaneo o marginale. Gli sloveni fucilati dagli italiani sono tra i 1.500 e i duemila; cinquemila montenegrini sono vittime dell’ondata repressiva dell’estate 1941.
Le vittime dell’internamento italiano sono invece circa centomila, e tra questi si contano cinquemila morti per fame, malattie, inedia. E ovviamente non stiamo contando i profughi, le migliaia di persone rimaste senza casa e proprietà in seguito alle devastazioni, ai saccheggi, agli incendi ordinati dagli italiani. Poi bisognerebbe considerare le vittime “indirette” del sistema di occupazione italiano, ovvero uccise fisicamente per mano di ustascia, cetnici e altre forze collaborazioniste che operano grazie al supporto italiano.
NB. Nel suo I campi del Duce, edito anche in Slovenia e in Croazia, il professor Capogreco ha ricostruito l’intera rete del sistema concentrazionario fascista operante in Italia e in Jugoslavia. Quanti furono i campi italiani in Jugoslavia? Potrebbe parlarci di quelli operanti sulle isole di Rab (Arbe) e di Molat (Melada)?
CSC. L’internamento dei civili jugoslavi, nell’ambito più generale dell’internamento civile fascista, fu numericamente preponderante. Se prendiamo in considerazione anche i più piccoli campi di transito e quelli temporanei, il numero complessivo delle strutture concentrazionarie italiane attive in Jugoslavia tra la fine del 1941 e l’8 settembre 1943 fu alquanto alto. Considerando, invece, solo i campi maggiori, essi furono una decina. Furono impiantati soprattutto lungo la costa adriatica, mano a mano che si andò sviluppando la resistenza nei confronti degli occupanti. E per i campi più importanti gli italiani preferirono la localizzazione insulare, come avvenne, per esempio, ad Arbe (nel golfo del Quarnero), a Melada (nell’arcipelago Zaratino) e a Mamula (all’imbocco delle Bocche di Cattaro).
I campi di Arbe e Melada furono indubbiamente tra i più grandi per capienza, e i peggiori per condizioni di vita. Peraltro, le pratiche d’internamento “a tappeto” realizzate dall’Italia fascista in quei due campi – vista l’assoluta arbitrarietà del sistema di “internamento parallelo”, irrispettoso delle più elementari tutele previste per i civili dal diritto internazionale – rientrano nella fattispecie dei crimini di guerra.
La mortalità, ad Arbe e Melada, fu sempre molto alta e legata soprattutto alla fame, alle intemperie e agli stenti. Ad Arbe morirono 1.477 persone su un numero totale di reclusi che nell’anno di funzionamento oscillò dai duemila agli ottomila. È una cifra raccapricciante. Gli internati di Melada, talvolta, morivano anche per fucilazione: giustiziati in quanti ostaggi, in occasione di particolari azioni partigiane.
NB. Che memoria ha avuto l’Italia del dopoguerra dei campi di concentramento fascisti e dei luoghi a essi collegati?
CSC. All’indomani della seconda guerra mondiale, la storia dei campi allestiti, tra il 1940 e il 1945, dal Regno d’Italia e dalla Repubblica di Salò, fu pressoché rimossa dalla memoria collettiva. Questi argomenti – poco congeniali alla narrazione del passato che andò affermandosi dopo la fine della guerra – rimasero sostanzialmente avulsi dal sentire comune degli italiani e dall’interesse della ricerca accademica. Anche le strutture fisiche e i siti geografici dei campi italiani – al centro-nord non meno che al sud – furono oggetto di questa rimozione, restando privi di tutela e divenendo perciò, per così dire, “luoghi dell’oblio”…
La ricostruzione storica del sistema concentrazionario fascista, la relativa mappatura geografica e la riappropriazione di quel retaggio da parte della comunità nazionale richiesero tempi lunghissimi (e in parte restano ancora incompiuti). Anche perché – tra rimozione istituzionale e “latitanza” della storiografia ufficiale – a farsi carico delle ricerche e della riscoperta dei siti, il più delle volte, furono studiosi free-lance, che agivano unicamente per passione personale.
La rimozione o la lettura assolutoria del passato più scomodo – supportate dalla mancanza di una “Norimberga italiana” – ebbero, evidentemente, nei campi di concentramento fascisti uno dei propri momenti topici, dando luogo a un vuoto di memoria tra i più emblematici e persistenti del secondo dopoguerra: un buco nero che, oltre alle vicende dei siti legati alla shoah (i “campi provinciali” per ebrei istituiti dalla Rsi, a partire dal dicembre 1943), avvolse anche quelle dell’“internamento parallelo”, la rete di campi fascisti per slavi che interessò sia la penisola sia i territori jugoslavi occupati; e azzerò perfino la memoria dei campi coloniali, nonostante che il suo stesso ideatore, il generale Rodolfo Graziani, ne avesse ammessa e rivendicata la creazione fin dagli anni trenta.
Tant’è che, nel 1965, a una delegazione slovena giunta in Italia per rendere omaggio alle spoglie mortali di tanti propri connazionali internati a Monigo (Treviso), le autorità trevigiane non seppero dir nulla di quel campo, e neppure indicare il luogo di sepoltura degli internati deceduti. Un episodio che testimonia la rimozione dello stesso dato storico dell’esistenza di campi di concentramento italiani. Una cancellazione tanto tenace e diffusa che contagiò, talvolta, perfino le benemerite associazioni dei deportati nei lager. In un libro del 1963 – Notte sull’Europa, a cura di Fernando Entasi e Roberto Forti – l’Associazione nazionale ex-deportati (Aned) attribuì sbadatamente alcune delle immagini più raccapriccianti del campo fascista di Arbe all’universo concentrazionario hitleriano.
NB. Quando comincia la partecipazione degli italiani alla resistenza jugoslava nei territori occupati nel 1941? Che caratteristiche e dimensioni ha il fenomeno, e che rapporto c’è tra resistenza jugoslava e resistenza italiana?
EG. Sono circa 300mila gli italiani che sperimentano sulla propria pelle la straordinaria capacità organizzativa e militare della resistenza jugoslava. Molti di loro porteranno a casa questa esperienza e, per chi farà la scelta partigiana dopo l’armistizio, la Jugoslavia rappresenterà sempre un modello da imitare, un incredibile esempio di efficacia militare, coerenza politica e appoggio popolare.
Si calcola che siano almeno 50mila gli italiani che scelgono di resistere ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Si tratta di una cifra considerevole, ma va sottolineato che molti di questi uomini finiranno per essere uccisi o catturati nei primi mesi dopo l’armistizio. Per esempio i primi tentativi di resistenza nelle città dalmate di Spalato e Dubrovnik vengono subito stroncati dai tedeschi, che riconquistano le località e fucilano gli ufficiali catturati. Solo i più fortunati e i più motivati riescono a sfuggire ai rastrellamenti tedeschi e aderiscono o trovano un accordo con le unità partigiane jugoslave. Col tempo saranno costituite due divisioni partigiane interamente italiane – Italia e Garibaldi – che combattono agli ordini dell’esercito di liberazione jugoslavo fino alla fine della guerra; mentre molti volontari italiani restano inquadrati come singoli o piccoli gruppi nelle unità jugoslave.
Nel caso che ho studiato più a fondo, quello della resistenza italiana in Montenegro raccontata nel mio film Partizani, dei 20mila uomini che inizialmente scelgono la resistenza, solo cinquemila andranno a formare la divisione Garibaldi nel dicembre del 1943. Dopo aver subìto gravissime perdite ed essere stata integrata con numerosi rimpiazzi, la Garibaldi rientrerà in Italia nel marzo del 1945 con circa 3.800 uomini.
NB. Con Anna Di Gianantonio, i cui studi si basano molto sulla raccolta di fonti orali, focalizziamo lo sguardo sulle regioni dell’alto Adriatico, la cosiddetta Venezia Giulia, a partire dalle centinaia di interviste con i testimoni diretti che ha realizzato. Che caratteristiche ha la resistenza in queste regioni e perché si manifesta per certi versi molto prima? Qual è il collante che permette di tenere assieme le forme prima embrionali e poi più strutturate di collaborazione antifascista tra i diversi gruppi “nazionali” e linguistici fin dalla fine della prima guerra mondiale?
ADG. Per quanto riguarda le caratteristiche della resistenza, il punto di partenza è sicuramente il lavoro operaio nelle fabbriche, in particolare nei cantieri navali, sia di Trieste sia di Monfalcone. Qui la manodopera è mista, composta da italiani e sloveni, in un cantiere lavorano migliaia di operai ed è facile avere rapporti con persone di diverse nazionalità. Tra l’altro è molto significativo che gli operai italiani, che avevano mansioni più elevate, riescono a costruire con i colleghi sloveni un rapporto che dura per tutti gli anni trenta. Quindi il dibattito sul fascismo e successivamente la coesione nella resistenza hanno radici profonde. Le cellule erano miste, si riunivano in anfratti del cantiere, nelle navi in costruzione e discutevano della situazione politica nei momenti di pausa.
L’operaio qualificato spiegava agli altri non solo il lavoro ma anche la politica. C’erano stati poi dei collegamenti negli anni trenta con le organizzazioni come il Tigr (acronimo di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka – Fiume), composte da sloveni e croati che compivano attentati terroristici per reagire alle condizioni di vita cui erano costretti. Quindi nel 1941, al momento dell’occupazione italiana e tedesca del Regno di Jugoslavia e l’annessione della provincia di Lubiana, i contatti sono già attivi.
NB. Quali paure innesca la collaborazione tra antifascisti italiani e sloveni nelle classi dominanti dell’epoca?
ADG. Già all’indomani della prima guerra mondiale ci furono scontri di piazza e scioperi molto decisi nel cantiere, che il padronato tentò di sedare. Queste lotte erano nate soprattutto per il problema della casa, che era drammatico. Monfalcone era distrutta, gli operai erano costretti a vivere in alloggiamenti di fortuna precari, per di più in un territorio affetto da malaria, cui erano esposte soprattutto le donne. Lottavano per un aumento salariale, un orario di lavoro adeguato e contro gli incidenti sul lavoro, che erano all’ordine del giorno.
Gli operai quindi entrarono in azione subito, spinti da un lato dalla volontà di riscattare con più diritti i sacrifici patiti dai soldati e dai loro familiari durante la guerra, dall’altro dalle condizioni economiche e sociali in cui vivevano, dure e precarie.
E non solo gli operai. Dopo la guerra il clima insurrezionale è diffuso, nel periodo che nella storiografia italiana viene chiamato “biennio rosso”. Fin da subito ci sono occupazioni dei comuni nel 1920, nel 1921 un gruppo di fascisti assalta il cantiere di Monfalcone con lanci di bombe contro i lavoratori, uno dei quali viene ucciso. Dalla fine del 1919 a tutto il 1920 vengono colpite sedi dei circoli di cultura e delle camere del lavoro, subito entrano in gioco le squadre fasciste esterne e interne al cantiere, gli “operai a doppia paga” che si guadagnavano un surplus con il pestaggio dei loro colleghi di lavoro. Lo scontro è acuto, così come precocissimo è il manifestarsi del fascismo. La violenza si scatena immediatamente, dalla fine della guerra e sotto i regimi liberali, grazie all’intervento di squadre sovvenzionate dagli armatori Cosulich in risposta a scioperi e manifestazioni. Il clima è incandescente – come ho detto – e proprio per questo a Monfalcone le squadre entrano in azione praticamente da subito.
NB. Stiamo parlando di episodi di violenza squadristica, antislovena ma anche antioperaia, che avvengono già prima della presa del potere da parte del fascismo.
ADG. L’opera di repressione, sia nei confronti degli operai sia nei confronti degli sloveni, avviene già sotto il governo liberale. L’azione delle squadre fasciste è precoce, precede di molto la marcia su Roma, che è la data di inizio del fascismo al livello nazionale. I lavoratori di questo parlano, anche perché gli sloveni conoscono l’italiano. Trascorrono insieme le domeniche, fanno feste, si incontrano, discutono, quindi la situazione politica è nota a tutti e due i gruppi “nazionali”. Questi gruppi di operai però nel corso del tempo si assottigliano, con i licenziamenti in fabbrica da un lato e la repressione dall’altro le cellule si riducono a pochi operai.
Si tratta tuttavia di una fetta importante della popolazione, di un mondo sloveno che è da subito antifascista perché anche la persecuzione comincia subito. Il Tigr nasce e agisce alla fine degli anni venti e già nel 1930 si celebra il primo processo di Trieste che si conclude con le fucilazioni di Basovizza. In seguito si forma una larghissima aggregazione clandestina di tutte le componenti politiche slovene – cristiano-sociali, cattolici, liberali, comunisti – che subisce la sua battuta d’arresto con il secondo processo di Trieste nel 1941, un processo grandioso e unico nella storia europea, in cui decine di esponenti di una comunità linguistica, di ogni estrazione politica, furono processati perché non volevano scomparire, e cinque furono mandati a morte senza che fosse provato nulla contro di loro.
NB. Spostiamoci al secondo dopoguerra, al “controesodo” dei cantierini monfalconesi che dal 1946 decidono di trasferirsi in Jugoslavia. Per quella scelta viene proposta l’interpretazione del perseguimento dell’ideale socialista, o di adesione alle direttive di partito, quindi motivazioni tutte ideologiche, fino ad arrivare, pensiamo al libro di Claudio Magris, Alla cieca, a questa idea dei cantierini che se ne vanno come degli ingenui idealisti che non hanno capito che si stanno gettando tra le braccia di un potere dispotico. Leggendo le testimonianze nei suoi libri sembra emergere una questione spesso non considerata, ovvero quella di una classe operaia multietnica che è abituata fin dall’ottocento a muoversi in un’area geografica molto vasta, che non guarda per niente al fatto se ci si muova nel mondo slavo o meno.
ADG. Va considerata assolutamente la dimensione europea di questa ricerca del posto di lavoro. In molti casi parliamo di operai provetti che trovano lavoro facilmente, come i Fontanot che vanno a Vienna, dove trovano lavoro, poi vengono mandati in Bulgaria in un piccolo cantiere, infine ritornano a Trieste e poi a Monfalcone. Un altro pezzo della famiglia va in Francia, dopo un tentativo fatto negli Stati Uniti, ma anche in quel caso continua l’attività antifascista sul campo. Spartaco, per esempio, entra nel famoso gruppo partigiano composto esclusivamente da mano d’opera immigrata, cioè da stranieri, che ha compiti di guerriglia urbana. Finirà fucilato dai nazisti come i cugini Nerone e Jacques, ma anche in quel caso i superstiti tornano a Monfalcone alla fine. Sono persone che sanno lavorare, costruire una nave a quel tempo è un’operazione artigianale, c’è un sapere che viene fatto valere.
Per quanto riguarda coloro che vanno in Jugoslavia dopo la guerra, bisogna ricordare che nel periodo 1945-1947 operava il Partito comunista della regione Giulia (Pcrg) e permanevano i “poteri popolari”, forme di democrazia diretta instaurate dopo il conflitto e prima dell’amministrazione americana. Aleggiava l’idea che si potesse ancora “dare una spallata” e creare un mondo nuovo, ma ci fu anche una sequela spaventosa di attentati fascisti e una mancanza di posti di lavoro dovuta ai novemila licenziamenti minacciati e ai duemila messi in atto dal cantiere. A Monfalcone e a Trieste nel luglio del 1946 si svolse un enorme sciopero chiamato “dei dodici giorni” che cominciò con il blocco del Giro d’Italia a Pieris e proseguì con il blocco totale di tutte le fabbriche e le campagne, ma poi fu represso e fallì.
Va ricordato il clima nel dopoguerra alimentato dal Pcrg, che il partito di Togliatti cercò di “moderare” nel suo desiderio di passare alla Jugoslavia, cosa che riuscì solo con il ritorno a Trieste di Vittorio Vidali, che stroncò anche in modo violento coloro che non avevano rinnegato Tito dopo il 1948. Il Pcrg dunque aveva creato il mito della Jugoslavia e pertanto esitava a fermare le partenze degli operai.
In conclusione, c’è stata la spinta dei licenziamenti, della repressione, e l’idea che lì si potesse stare meglio, alimentata anche dal partito. Infine ci sono gli esuli dall’Istria, che si stabiliscono a Gorizia, Monfalcone, Trieste. Ci sono scontri, lotta per il posto di lavoro, licenziamenti da una parte e assunzioni dall’altra. Molti esuli vengono assunti in cantiere. Mario Udovisi, un esule e un fascista dichiarato che ho intervistato, sostiene di essere stato una specie di ufficio di collocamento del cantiere che suggeriva ai responsabili chi assumere e chi licenziare. Quindi si genera una situazione politica e sociale di grande tensione. E poi appunto i rapporti e i contatti che c’erano stati spingono la gente a cercare lavoro altrove, sia per motivi economici sia per ideali politici.
NB. Cosa comportò realmente la rottura tra Tito e Stalin per gli italiani trasferiti in Jugoslavia? Quali e quanti finirono stritolati nel conflitto? Negli ultimi anni si è parlato molto del campo di prigionia di Goli Otok, dove furono mandati i “cominformisti” e dove finirono anche italiani.
ADG. Non tutti cadono nella dinamica repressiva che segue la rottura tra Stalin e Tito del 1948. Centinaia di persone partecipano a un’assemblea a Fiume a favore dell’Unione Sovietica dopo lo strappo del Cominform, subito individuate dalla polizia e quindi incarcerate, anche se pochi italiani finirono a Goli Otok. A Fiume vi è una forte concentrazione di dissidenti che prende posizione pubblicamente, ma quelli che erano da altre parti della Jugoslavia, della risoluzione verranno a sapere molto tempo dopo, nessuno gli chiede da che parte stanno, non si pronunciano e continuano a lavorare. Non tutti sono repressi, e non tutti se ne andranno, alcuni torneranno in Italia molti anni dopo.
Pino Petean, uno dei miei intervistati, rimane e anche Silvano Cosolo, che vive a Sarajevo e ne parla come un mondo per lui meraviglioso, dove si fanno le lotte per migliori condizioni di lavoro. Ha scritto un libro intitolato Amare Sarajevo in cui descrive un mondo che sente più libero, parla di libertà religiosa e sessuale, di un mondo che non aveva nulla a che fare con la rigidità dei costumi nell’Italia degli anni cinquanta. È il racconto di una bellissima gioventù, con un rapporto molto aperto con le donne per esempio, in cui lui fa le lotte operaie nel contesto jugoslavo per avere maggior reddito, e dove non è che venga perseguitato perché è italiano. Lui torna molti anni dopo perché vuole tornare al suo paese, a San Canzian d’Isonzo.
Questi che vanno in Jugoslavia trovano un ambiente per loro stranamente liberale, riconducibile al fatto che non è un paese cattolico. A Sarajevo poi già nell’immediato dopoguerra sono rappresentate e praticate tutte le confessioni religiose, non c’è discriminazione religiosa. Infine diversi lavoratori con le loro famiglie tornano in Italia, ma dalla metà degli anni cinquanta. E magari poi diranno «eravamo sciocchi perché pensavamo di trovare le salsicce che cascavano dagli alberi»: erano partiti con l’idea di vivere in un mondo economicamente più ricco, solo perché socialista, mentre si erano ritrovati in una nazione distrutta dalla guerra.
Tutto questo non significa negare Goli Otok, ma collocare quella vicenda nella sua prospettiva di repressione politica mirata sugli oppositori interni, tant’è vero che vi finirono anche alti dirigenti militari, professionisti, professori jugoslavi. Il fatto è che Tito, oltre ai problemi di ricostruzione di un paese distrutto, non vuole avere anche il problema della quinta colonna sovietica al suo interno. A Goli Otok ci sono quelli che si schierano con l’Urss, e nemmeno tutti, e la maggior parte proviene da altre repubbliche jugoslave.
Conversazione avvenuta via email dal 10 al 24 gennaio 2017.
ESODO E FOIBE.
SEPARARE CIÒ CHE APPARE UNITO
di Jože Pirjevec, Nicoletta Bourbaki, Sandi Volk Intervista con gli storici Jože Pirjevec e Sandi Volk.
Nicoletta Bourbaki. Ogni anno si sente ripetere dai mezzi di informazione che gli infoibati tra 1943 e 1945 furono almeno diecimila, e si parla spesso di un genocidio della popolazione italiana paragonabile alla Shoah per crudeltà se non per i numeri. È credibile tutto ciò? Ci può dare una stima attendibile del numero di persone uccise nella Venezia Giulia dalle forze legate alla resistenza Jugoslava, nel corso di esecuzioni collettive, tra il settembre 1943 e il maggio-giugno 1945? Queste vittime sono tutte “infoibate”?
Jože Pirjevec****. Per quanto riguarda i morti in Istria dopo l’8 settembre 1943, il numero è stato frequentemente gonfiato. Penso che al massimo si possa parlare di 400 – 500 vittime.
Relativamente alle persone decedute a causa di tutte le forme di violenza – arresti, deportazioni, “infoibamenti” – dopo il 1 maggio 1945, secondo la storica slovena Nevenka Troha le vittime nella zona di Trieste sarebbero state 601. Claudia Cernigoi fornisce cifre leggermente più basse e parla di 498 morti. Sempre secondo Troha, nella zona di Gorizia morirono 901 persone, in Istria e a Fiume 670. Per queste ultime zone, determinare il numero dei morti risulta più difficile. Sono circa 2.200 morti, ai quali dovremmo aggiungerne alcuni altri, sebbene non ci siano a disposizione dati precisi. Per esempio, il 12 maggio 1945 intorno a Ilirska Bistrica i partigiani jugoslavi catturarono diverse migliaia di soldati tedeschi, e secondo alcune fonti almeno una parte di loro fu uccisa sommariamente. In totale dunque circa tremila, tremilacinquecento persone, circa due terzi delle quali di nazionalità italiana, per lo più soldati inquadrati in formazioni che, a diversi livelli, collaboravano con gli occupanti tedeschi.
Questi numeri trovano conferma in una recente ricerca: Urška Lampe, nella sua tesi di dottorato dell’Università del Litorale di Capodistria – Deportazioni dalla Venezia Giulia dopo la seconda guerra mondiale, 1945-1954 – cita documenti dell’ufficio zone di confine, tra i quali ha reperito i dati di uno studio sugli scomparsi, coordinato negli anni cinquanta dal commissariato generale del governo per il Territorio di Trieste. Nel 1959, dopo alcuni anni di ricerca, i risultati mostrarono che nel territorio di Trieste, Gorizia e Udine i morti per diverse cause – “infoibati”, fucilati o deceduti per malattia – furono 645; i deportati che poi rientrarono dai campi jugoslavi 1.239; quelli che non ritornarono 1.982.
Dunque, secondo questa indagine il numero totale delle vittime per mano jugoslava nel periodo dopo la liberazione non dovrebbe superare i 2.627, numero non dissimile dalle stime sopra menzionate. Inoltre possiamo ritenere che un certo numero di persone rimpatriate non sia stata registrata o non si sia presentata alle autorità per paura di un nuovo arresto dovuto al presunto passato fascista. Sono cifre che le autorità italiane avevano a disposizione già nel 1959, ma non sono mai state pubblicate. Ciò mi sembra significativo, perché dimostra che grande operazione propagandistica e politica sia stata portata avanti negli ultimi decenni.
NB. Quali persone furono uccise, e in quali contesti? Si parla di foibe istriane, dell’occupazione di Trieste nel maggio del 1945, di deportazioni…
JP. Si tratta di situazioni molto diverse. Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia crollò, l’amministrazione statale scomparve, l’esercito italiano e le forze dell’ordine si dissolsero. Di conseguenza, in Istria si verificò una sorta d’insurrezione popolare, fondamentalmente anarchica, che si manifestò con assalti a municipi, tentativi di distruggere i registri erariali e così via. Negli stessi giorni, però, si formarono in Istria le prime formazioni partigiane, composte da croati, ma anche da italiani che manifestavano il loro odio nei confronti della borghesia locale.
I maggiorenti fascisti erano già fuggiti, quelli rimasti erano pesci piccoli legati al regime: piccoli borghesi, commercianti, professionisti, maestri di scuola. Molti di questi vennero arrestati e concentrati in varie località, nella maggior parte dei casi in base alle decisioni degli organi centrali del movimento partigiano istriano, ma non mancarono episodi di vendetta personale. In seguito, come emerso dalle ricerche dello storico croato Darko Dukovski, un tribunale di guerra svolse indagini sugli arrestati e una settantina di persone fu condannata a morte. Nelle zone dove i fascisti avevano attuato repressioni più feroci contro la popolazione la reazione popolare fu ancora più radicale.
Quando all’inizio dell’ottobre 1943 i tedeschi cominciarono a occupare l’Istria per assicurarsi il controllo sulla neocostituita Zona di operazione Litorale Adriatico (Ozak), le forze partigiane non furono in grado di far fronte alla Wehrmacht. Per questa ragione decisero di sbarazzarsi dei prigionieri. Molti di questi furono frettolosamente fucilati. In altri casi si procedette invece al loro rilascio, in alcuni frangenti liberando, senza rendersene conto, anche criminali fascisti. Relativamente al numero delle vittime, nelle stime degli storici non ci sono grandi divergenze: dovrebbero aggirarsi tra 400 e 500, sebbene il numero delle persone realmente “infoibate” – cioè gettate nelle voragini carsiche – sia inferiore, tra le 250 e le 300. Le altre morirono in modi diversi e alcune semplicemente scomparvero. I morti sul territorio dell’attuale Repubblica di Slovenia dovrebbero essere 26, mentre le altre vittime si riferiscono alla parte dell’Istria che oggi si trova in Croazia.
Va sottolineato che i tedeschi, quando occuparono l’Istria nell’ottobre del 1943, fecero decisamente molte più vittime e deportarono moltissimi istriani a Dachau e in altri campi di concentramento, ma di questo non parla quasi nessuno.
A guidare la repressione sul Litorale Adriatico fu mandato Odilo Globočnik, uno degli alti ufficiali nazisti più vicini a Himmler. Globočnik ha una storia particolare: nato a Trieste da padre sloveno, emigrato in Austria dopo il crollo dell’impero asburgico, aveva fatto una notevole carriera dentro il partito, diventando uno dei leader del nazismo carinziano. Nel 1941 fu inviato in Polonia per pianificare lo sterminio degli ebrei. Nel 1943, accusato di malversazioni e di appropriazione indebita, fu mandato punitivamente a Trieste con i suoi collaboratori per combattere i partigiani.
Oltre a effettuare repressioni e rappresaglie, lo staff di Globočnik sfruttò la questione foibe in funzione antibolscevica, come era stato già fatto nel caso dell’eccidio di Katyń in Polonia. I corpi decomposti delle vittime istriane furono recuperati, le loro foto affisse nelle vie cittadine. Furono pubblicati opuscoli sull’argomento. Le autorità fasciste, quelle di Salò, si agganciarono immediatamente a quel filone, e l’azione propagandistica acquisì un’enorme risonanza, collegandosi poi – a guerra finita – alla questione delle foibe triestine e goriziane.
NB. Riguardo alle foibe triestine e goriziane e alle deportazioni, abbiamo visto che negli avvenimenti del 1943 le vittime appartengono alla borghesia dei paesi istriani. Invece nei fatti del 1945 le vittime chi sono?
JP. Negli ultimi giorni di guerra quasi tutti i nazisti fuggirono, cercando di raggiungere l’Austria o la Germania. In loco rimasero i collaborazionisti. Quando la quarta armata dell’esercito jugoslavo liberò e occupò Trieste e Gorizia, si scatenò una caccia all’uomo diretta contro quelle persone. Diverse cause convergevano in quella vicenda: da una parte la volontà di controllare e neutralizzare i possibili avversari, dall’altra ragioni di vendetta personale, di rivalsa. Si verificarono pure episodi di saccheggio, perché le nuove autorità non erano in grado di controllare la situazione.
NB. Si accusano spesso i partigiani jugoslavi di avere infoibato molti dirigenti e partigiani del Comitato di liberazione nazionale di Trieste, è vero? Perché le forze legate alla resistenza jugoslava, compresi diversi reparti formati da partigiani italiani comunisti, si scontrarono con le forze della resistenza italiana “moderata”?
JP. La resistenza italiana – che oltre a essere appunto “moderata”, era anche numericamente modesta – non fu in grado di comprendere che la frontiera stabilita nel 1920 a Rapallo era ormai obsoleta. Pensava ancora di poter conservare il vecchio confine, che privava la nazione slovena di un quarto del suo territorio. Quei “liberali” italiani riconoscevano i molti torti subiti dagli sloveni durante il fascismo, e assicuravano che in futuro i rapporti interetnici nella zona sarebbero stati più corretti, ma non erano disposti ad accettare una frontiera diversa tra Italia e Jugoslavia. Men che meno, l’idea di Trieste jugoslava.
Per questo motivo i rapporti tra le due resistenze furono conflittuali fin dall’inizio: alcuni esponenti della resistenza moderata, non molti per la verità, furono arrestati e rinchiusi nelle prigioni dell’Ozna, la polizia segreta della Jugoslavia. Vi rimasero per qualche mese e alla fine del 1945 alcuni furono fucilati.
NB. Di quante persone stiamo parlando?
JP. Non abbiamo dati certi. Grazie all’intervento di uno dei capi comunisti sloveni, Boris Kraigher, i membri del Cln incarcerati a Trieste – tra i più noti lo storico Carlo Schiffrer – furono tutti rilasciati tranne uno. Due membri del Cln goriziano furono deportati e probabilmente uccisi già a maggio. Uno dei capi del Cln di Trieste, Giovanni Paladin, pubblicò un elenco di trenta partigiani del Corpo volontari per la libertà a suo dire deportati o “infoibati”. Tra questi troviamo i nomi di alcuni morti in prigionia, ma anche di altri che riuscirono a ritornare dopo alcuni anni.
NB. Perché fin dall’immediato dopoguerra in Italia si comincia a parlare di foibe? E perché questo termine diventa così carico di significati simbolici?
JP. Bisogna dire innanzitutto che l’idea della voragine in cui sono gettati i nemici ha qualcosa di orrido, di spaventoso, è molto efficace nel colpire emozionalmente ed evocare paure primordiali.
Da un punto di vista politico, invece, in una situazione in cui la questione del confine orientale era ancora aperta, le forze di destra – non tanto la politica ufficiale, ma piuttosto i giornali ed i fascisti che si erano riscoperti “democratici” – sfruttarono a fondo le “foibe”, elaborando una narrazione che colpisse l’immaginario collettivo.
NB. La foiba di Basovizza è stata proclamata monumento nazionale perché vi sarebbero stati gettati i cadaveri di centinaia se non migliaia di persone. Su quali basi si afferma ciò?
JP. Su nessuna, per quanto mi risulta. Io ho visto i documenti statunitensi e britannici su Basovizza. Appena presero il controllo di Trieste, dopo il 12 giugno 1945, gli alleati furono sollecitati dalle forze politiche italiane a effettuare un’esplorazione della foiba. Nei primi giorni dopo la ritirata jugoslava ci furono alcune esplorazioni. Ricerche più concrete cominciarono alla fine di luglio o all’inizio agosto, e si protrassero fino alla fine di novembre. Nella voragine furono trovati i resti di 150 persone, tutti soldati tedeschi e un civile, oltre a carogne di cavalli. Tra la fine di aprile e l’inizio del maggio 1945, infatti, Basovizza fu teatro di intensi combattimenti tra tedeschi e partigiani. A scontri finiti era necessario liberarsi il più presto possibile dei nemici caduti e delle carogne degli animali, gettando tutto nella fossa più vicina. Non si trattava di una foiba naturale, tipica del Carso, ma del pozzo d’ingresso di una miniera di carbone, mai entrata in funzione. Da tempo era utilizzata dagli abitanti della zona come discarica, e in due o tre casi era stata teatro di suicidi. Sembra che anche fascisti e nazisti vi abbiano gettato i corpi dei loro avversari per sbarazzarsene.
Statunitensi e britannici svolsero una ricerca molto approfondita, cercando di individuare le vittime basandosi sulle uniformi. In particolare cercarono i bottoni, perché da essi si poteva capire a quale formazione appartenessero le vittime. Nonostante l’impegno profuso nella ricerca – speravano di poter sfruttare la vicenda a fini politici contro la Jugoslavia comunista – non riuscirono a trovare praticamente nulla oltre a quanto già citato. Negli anni successivi furono fatti altri sopralluoghi da speleologi triestini e anche dall’esercito italiano. Il risultato è stato nullo.
Negli anni cinquanta il pozzo di Basovizza fu usato per un certo periodo come discarica dal comune di Trieste. Gli alleati, prima di abbandonare Trieste nel 1954, vi gettarono a loro volta molta ferraglia. Successivamente, una ditta locale ottenne il permesso di sgomberare la “foiba” da quel materiale, per poterlo riutilizzare come ferrovecchio. Nemmeno gli operai che ci lavorarono trovarono resti umani.
Nel 1959 il pozzo fu sigillato con una lastra di pietra, affinché nessuno potesse procedere a ulteriori indagini, con il pretesto che la sua esplorazione era troppo pericolosa per la presenza di esplosivi o simili. C’era stato effettivamente un ferito, si trattava di uno degli operai della ditta incaricata di svuotare il pozzo. Aveva utilizzato durante il carnevale un petardo trovato nella fossa.
Nei primi anni sessanta il pozzo di Basovizza diventò una specie di simbolo di tutte le “foibe” della nostra zona, un luogo di pellegrinaggio, tanto che nel 1992 è stato proclamato monumento nazionale.
NB. È corretto a suo parere parlare di “negazionismo” in merito alle foibe come si fa riguardo alla shoah?
JP. È offensivo, francamente. Per il libro sulle foibe che ho pubblicato con Einaudi nel 2009 insieme ad alcuni collaboratori, sono stato accusato di essere un negazionista, alla stregua di David Irving, lo studioso che nega la shoah. Ma io non nego affatto le foibe: ne contesto l’uso politico e l’entità delle cifre riportate. Si tratta di conoscere la verità storica e inserirla in una realtà oggi lontana e difficilmente comprensibile nella sua drammaticità. Non va dimenticato che in ogni paese dove c’è stata la resistenza, a guerra finita ci furono episodi di repressione analoghi, anche feroci. Ma dove si sono ammazzati tra connazionali – italiani che uccidevano italiani, francesi che uccidevano francesi, norvegesi che uccidevano norvegesi… – la questione è stata lasciata cadere nell’oblio.
Nelle nostre terre, dove sloveni, croati, serbi, jugoslavi hanno ammazzato italiani, ovviamente la vicenda è stata coltivata e sfruttata da coloro che hanno interesse che i rapporti tra i nostri popoli non migliorino.
Il Territorio libero di Trieste (TlT), istituito dal trattato di pace del 1947 e diviso provvisoriamente in zona A (sotto amministrazione angloamericana) e zona B (sotto amministrazione jugoslava). Nel 1954, in base al memorandum di Londra, la zona A passò sotto amministrazione italiana. Con il trattato di Osimo nel 1975 Italia e Jugoslavia sancirono la definitiva spartizione del TlT tra i due stati.
Nicoletta Bourbaki. Parliamo dell’esodo dai territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia al termine della seconda guerra mondiale. I numeri dei profughi sono nebulosi e non c’è completa chiarezza nemmeno sull’arco temporale. Perché?
Sandi Volk. Perché quei numeri servivano allo stato italiano alla conferenza di pace, quale dimostrazione dell’attaccamento della popolazione all’Italia e proprio per questo sono numeri inattendibili. La verifica più facile, rispetto al numero canonico di 350mila, consiste nel prendere e sommare le cifre fornite per le varie ondate: da Zara e da Pola, ipotizzando che se ne siano andati tutti gli abitanti censiti nell’anteguerra, rispettivamente 21.372 e 32mila; da Fiume 38mila, e si tratta della stima più alta; dalla zona B del Territorio libero di Trieste 40mila (anche in questo caso è la stima più alta); dai territori annessi alla Slovenia dopo il trattato di pace, cioè dalla parte orientale e settentrionale dell’ex provincia di Gorizia, 21.322. Il risultato è 152.694 persone.
Anche i numeri del censimento effettuato dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati (Oapgd, più conosciuta come Opera profughi) agli inizi degli anni cinquanta sono tutt’altro che affidabili. L’Opera profughi reperì 140.091 persone con la qualifica ufficiale di profugo rilasciata dalle prefetture e 4.553 profughi deceduti dopo l’emigrazione. A questi furono aggiunte 46.260 persone non materialmente reperite, verosimilmente emigrate all’estero, e altre 10.536 persone che non avevano avuto la qualifica di profugo ma che, a dire dell’Opera profughi, “non potevano essere escluse”, compresi i familiari acquisiti dopo l’emigrazione. In questo modo l’Opera profughi è arrivata a “censire” 201.440 profughi ai quali ha però aggiunto 50mila persone “presumibilmente” sfuggite al censimento, arrivando così a 250mila profughi.
Questo tipo di “censimento” è alla base di tutte le ancor più fantasiose quantificazioni successive. Padre Flaminio Rocchi, artefice della cifra “ufficiale” dei 350mila, aggiunge al numero dei profughi anche i deceduti prima dell’esodo! Mi pare evidente che ci sia una volontà politica di non arrivare a una quantificazione seria, che peraltro potrebbe essere ottenuta tranquillamente ricorrendo alle schede di censimento dell’Opera profughi oppure, meglio ancora, alle anagrafi slovene e croate, dove sono annotate le cancellazioni dalla residenza e dalla cittadinanza.
NB. Per quale ragione si associano le foibe all’esodo, pur essendo fenomeni distinti?
SV. L’esodo è presentato come conseguenza di un tentativo di genocidio degli italiani in quanto tali. Le foibe, appunto. L’argomento degli intenti genocidi dei partigiani nei confronti degli italiani fu utilizzato dalla classe dirigente italiana dell’Istria già all’indomani l’8 settembre 1943, per cercare di ottenere un intervento angloamericano in Istria. Era chiaro che il movimento partigiano non le avrebbe mai consentito di conservare – o riprendere – il potere. Al contrario, come dimostrava quanto stava accadendo in Italia, l’arrivo degli angloamericani avrebbe garantito all’élite italiana dell’Istria il mantenimento del suo ruolo sociale e politico. Perciò i maggiorenti istriani cominciarono a inviare al governo del Regno del Sud, a Brindisi, una serie di relazioni, petizioni e appelli in cui si descrivevano gli intenti sterminatori degli “jugoslavi” e si preannunciava la partenza in massa della popolazione italiana. Fu anche sulla base di quelle comunicazioni che nel 1944 il governo Bonomi cercò di fare pressione sugli alleati – che le respinsero – perché sbarcassero in Istria, e di organizzare in segreto – la cosa fu tenuta nascosta ai partiti di sinistra nel governo, ma fu scoperta da Togliatti – l’alleanza tra X Mas e formazioni Osoppo contro l’esercito popolare di liberazione jugoslavo al momento del crollo tedesco.
L’esodo preannunciato fu di fatto organizzato dopo la fine della guerra, quando già a margine della conferenza di pace il ceto dirigente istriano cominciò a pianificare l’emigrazione della popolazione in caso di assegnazione dei territori contesi alla Jugoslavia, e a progettare il suo insediamento nel goriziano e a Trieste. Anche la Democrazia cristiana triestina si impegnò a insediare a Trieste il maggior numero possibile di profughi dall’Istria, per rafforzare il campo dei sostenitori del ritorno della città all’Italia, in quel momento inconsistente a livello numerico.
NB. Si dice che gli italiani d’Istria scelsero di andarsene per rimanere italiani e al tempo stesso che furono obbligati ad andarsene in quanto italiani: cosa c’è di vero – o di falso – in queste affermazioni? Quale fu il destino di chi scelse di rimanere?
SV. Chi rimase si trovò in una situazione in cui da gruppo dominante passava a gruppo minoritario. Sebbene la Jugoslavia si facesse vanto delle numerose minoranze che vivevano al suo interno, compresa quella italiana, e garantisse agli italiani posti negli organismi rappresentativi e nelle istituzioni politiche, ci furono anche spinte alla “slovenizzazione” o “croatizzazione”, con i diritti garantiti sulla carta alla minoranza italiana applicati in maniera molto diseguale.
Quanto alle interpretazioni citate, si tratta dell’ennesima semplificazione a uso politico. Se ne andarono italiani, sloveni e croati, come attestano le stesse organizzazioni dei profughi. Anche perché il diritto a optare per la cittadinanza italiana non era legato alla nazionalità, bensì alla “lingua d’uso italiana”.
Sul fatto che gli italiani furono tutti cacciati, diverse testimonianze di profughi e documenti delle associazioni attestano che la Jugoslavia rigettò parecchie domande d’opzione per la cittadinanza italiana. Credo che le cose vadano viste nel contesto complessivo: si trattò sicuramente di uno stravolgimento dell’ordine sociale, con episodi anche di discriminazione degli italiani da parte di alcune autorità locali (le autorità federali jugoslave erano decisamente contrarie a tali pratiche e intervennero in varie occasioni), ma fu anche un fenomeno inserito in un contesto economico e sociale in cui l’emigrazione è stata sempre presente, con significativi aumenti dopo l’annessione della regione all’Italia e dopo le distruzioni belliche. Il geografo Gianfranco Battisti ha descritto l’esodo come l’intensificazione di un processo, già in atto precedentemente, di spostamento degli italiani dalle zone del confine orientale verso l’interno dell’Italia, verso il “triangolo industriale”, che infatti fu una delle principali zone d’insediamento dei profughi del dopoguerra.
Inoltre vanno considerate le singole realtà dell’Istria, spesso molto diverse tra loro, e le realtà di singoli gruppi, per esempio i funzionari dello stato italiano immigrati tra le due guerre che “seguirono il posto di lavoro” tornando in Italia.
Sarebbe inoltre necessario indagare l’attività delle organizzazioni filoitaliane e il peso che ebbero nello spingere gli istriani a partire: il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria distribuiva denaro alle famiglie dei sostenitori e simpatizzanti dell’Italia e sovvenzionava attività di propaganda. Il fatto che all’inizio degli anni cinquanta, in una situazione di totale indigenza della popolazione, il Cln dell’Istria comunicasse che i sussidi sarebbero cessati e i soldi sarebbero stati utilizzati per il sostegno ai profughi in Italia, fu certamente un fattore che spinse la gente ad andarsene, come anche la propaganda volta a far partire gli istriani. Sicuramente ci fu chi se ne andò “per restare italiano”, ma si trattava di solito del ceto dominante. Si verificarono anche episodi di persone espulse, solitamente oppositori politici o attivisti delle organizzazioni filoitaliane, prese e accompagnate alla frontiera, ma si trattò di casi molto limitati.
NB. Si diceva che l’esodo è avvenuto in un arco temporale molto ampio, ma è corretto parlare di un unico esodo?
SV. È problematico, perché in realtà cominciò nella primavera del 1941, con l’esodo da Zara decretato dalle autorità militari italiane in previsione dell’attacco alla Jugoslavia, esodo che coinvolse alcune migliaia di persone. Se teniamo conto che la data limite “ufficiale” è il 1958 e in realtà le persone ebbero la qualifica di profughi anche più tardi, definirlo un unico esodo è piuttosto azzardato.
NB. Dipendeva anche dall’anno, dalla situazione internazionale?
SV. Sì, sicuramente. Infatti, come già detto, per capire contesti e motivazioni andrebbero approfondite le singole ondate. Ma evidentemente si preferisce ridurre tutto a una “partenza degli italiani per rimanere italiani”. Questa è una spiegazione politica che non spiega nulla, in ciò speculare a quelle date da parte jugoslava secondo cui quelli che se ne n’erano andati erano tutti fascisti ovvero “sfruttatori del popolo”.
NB. Qual è il ruolo dei Cln di Pola e Fiume nell’esodo dalle rispettive città? E quale fu l’atteggiamento dell’Italia rispetto a questi trasferimenti da Pola e Fiume, che sono un po’ diversi rispetto agli altri?
SV. Il Cln di Fiume fu il primo a usare apertamente l’invito all’esodo come strumento di lotta politica con il quale convincere gli alleati ad assegnare la città all’Italia. Ma, a parte qualche volantino, ebbe poco peso reale. Il Cln di Pola, invece, era un’organizzazione probabilmente maggioritaria in città, interlocutrice ufficiale del governo italiano e con in mano le leve del potere politico. Di fatto, decretò e organizzò l’esodo, sempre per convincere la conferenza di pace che quelle terre dovevano tornare all’Italia, nella speranza che ciò potesse accadere magari a lungo termine. Il governo italiano mise a disposizione del Cln di Pola denaro, trasporti e posti dove alloggiare gli emigrati, senza però un piano preciso per il loro insediamento definitivo. I profughi furono dunque sventagliati per tutta Italia in situazioni di alloggio e sanitarie pessime, in ex campi di concentramento, caserme, edifici abbandonati, campi profughi, spesso insieme ai profughi dalle ex colonie africane – che erano molto più numerosi – e agli sfollati causati delle distruzioni belliche. Nonostante la retorica sui loro meriti patriottici, molti rimasero in quelle condizioni per decenni. L’ultimo campo profughi fu chiuso alla metà degli anni settanta.
Ad allungare i tempi per la sistemazione definitiva di istriani e dalmati contribuì anche la scelta, collaudata proprio con l’esodo da Pola, di insediarli il più compattamente possibile, in particolare nelle zone del confine orientale, soprattutto a Trieste e nel goriziano, e in zone politicamente inaffidabili per i governi democristiani, come Emilia-Romagna e Toscana, allo scopo di “bonificare” nazionalmente o politicamente quelle zone. L’insediamento compatto in borghi destinati esclusivamente ai profughi istriani corrispondeva anche all’interesse delle organizzazioni degli esuli. Queste, evitando che i profughi – cioè la loro base – si “diluissero” nella società, potevano mantenere il proprio peso e il ruolo politico.
Tuttavia già negli anni cinquanta gli stessi dirigenti delle organizzazioni dei profughi cominciarono a porsi la domanda se fosse stato giusto scegliere la strada dell’emigrazione definitiva. Alcuni, come Guido Miglia, dirigente del Cln di Pola, giunsero a sostenere che l’esodo era stato usato strumentalmente dalle forze politiche italiane più reazionarie in funzione anticomunista e per mantenere tesi i rapporti con la Jugoslavia.
NB. Il nome Comitato di liberazione nazionale di solito è associato alla lotta antifascista. I Cln di Fiume, di Pola e dell’Istria sono coinvolti nella lotta antifascista?
SV. No, nascono dopo la fine della guerra. Durante la guerra, in Istria i Cln praticamente non ci sono. Quello di Pirano e quello di Isola sono gli unici di cui abbia conoscenza, ma la loro attività fu pressoché insignificante. Tutti gli altri Cln sono nati, come dicevo, dopo la guerra e avevano come obiettivo il mantenimento di quei territori all’interno dello stato italiano. Facevano anche attività clandestina: raccoglievano informazioni di tipo giornalistico, che venivano passate a Radio Venezia Giulia, e di tipo spionistico, che passavano ai servizi segreti. C’era anche un’attività di tipo “militare” (sabotaggi, eccetera), ed è uno degli aspetti meno studiati di questa vicenda.
Il più importante e duraturo di questi Cln fu quello dell’Istria, che fu organizzato a Trieste con i rappresentanti dei comitati clandestini delle varie località istriane. Una volta riorganizzato su base partitica, il Cln dell’Istria diventò l’interlocutore principale di Roma per quanto riguardava l’appartenenza statale dell’Istria, ma fu anche molto importante nella vita politica triestina. Per esempio, fu proprio il Cln dell’Istria a portare la maggioranza dei partecipanti alla prima manifestazione di massa del fronte favorevole all’Italia a Trieste nella primavera del 1946. Dopo il 1954 si trasformò da organizzazione dei filoitaliani dell’Istria in organizzazione dei profughi a tutto tondo, mantenendo rapporti privilegiati con il governo e aumentando il suo peso nella politica triestina.
NB. Quali altre organizzazioni si occupavano dei profughi?
SV. Ce n’erano una miriade, organizzate su base di provenienza geografica o di categoria, ma per quanto riguarda l’assistenza, la più importante fu di gran lunga l’Opera profughi, che ho già citato. L’Opera fu un organismo unico, nato su iniziativa dello stato italiano ma diretto da privati, che gestì completamente l’assistenza agli esuli in qualunque aspetto, dall’alloggio nei campi profughi, all’assistenza all’infanzia, alla sistemazione lavorativa. Ebbe un ruolo molto importante anche perché contribuì a costruire una nuova identità “profuga” che sostituì la precedente identità locale, fatta anche di dialetti diversi e di accentuate rivalità campanilistiche.
La costruzione di questa identità “profuga” comune avvenne nei vari enti, istituti e iniziative dell’Opera – dove giocoforza si trovarono insieme esuli di tutte le età e di tutte le località dell’Istria – attraverso l’uso del dialetto quale “lingua ufficiale”, attraverso la costruzione di una memoria storica patriottica comune, attraverso i mezzi d’informazione (negli anni cinquanta la radio Rai nazionale trasmetteva uno specifico programma per i profughi), attraverso i raduni e le celebrazioni delle organizzazioni degli esuli.
NB. Qual è l’identikit del profugo istriano?
SV. In realtà non c’è un identikit del profugo istriano, perché se ne andarono persone di tutti i tipi, provenienti da luoghi diversi, di condizioni sociali diverse, per ragioni diverse. Nell’Archivio centrale dello stato ci sono elenchi molto dettagliati dei profughi, divisi per categorie professionali o addirittura di mestiere, in cui si trova di tutto.
NB. Ma dunque esiste una statistica sui profughi?
SV. Esistono le statistiche basate sul censimento dell’Opera profughi, che sono del tutto inaffidabili. Tuttavia, potendo accedere ai moduli del censimento, che sono molto dettagliati, sarebbe sicuramente possibile fare delle statistiche. Ma l’archivio, con il pretesto che contiene dati personali, è consultabile solo da pochi eletti e, purtroppo, chi ha avuto modo di accedere a quei dati non ha mai prodotto nulla di interessante o di scientificamente significativo.
NB. L’orientamento politico dei profughi era determinante?
SV. Direi discriminante per poter accedere ai sostegni e agli aiuti dello stato. Per avere la qualifica di profugo, che dava diritto all’assistenza (aiuti economici, accesso al campo profughi, assistenza all’infanzia, ai giovani e agli anziani, impiego, assegnazione degli alloggi), si doveva passare per apposite commissioni al livello provinciale, di cui facevano parte, con ruolo decisivo, le organizzazioni dei profughi. Chi era considerato “non abbastanza italiano” non otteneva la qualifica. Va anche detto che non tutti i profughi erano ritenuti ugualmente meritevoli o affidabili per le iniziative di “rafforzamento dell’italianità” e di bonifica politica di zone ritenute “calde”. Spesso ai profughi le commissioni chiedevano anche di fornire informazioni su conoscenti e altro, e non tutti erano disponibili a farlo. I “cominformisti” istriani, cioè i comunisti che nel 1948 si schierarono con Stalin contro Tito e poi si rifugiarono in Italia, spesso nemmeno si rivolsero alle commissioni. E in queste ultime ci fu chi propose di non dare loro nessun tipo di assistenza. Alla fine, ai cominformisti fu concesso unicamente l’alloggiamento nei campi.
Ci furono inoltre notevoli differenze nel livello di assistenza, anche a seconda delle varie “ondate” di profughi. Ciò generò proteste e recriminazioni anche pesanti da parte di chi era partito già nel 1945 e considerava i profughi recenti “meno fedeli all’Italia” rispetto a chi se n’era andato subito. Una categoria particolare fu poi quella dei cosiddetti “muggesani”, quelli che abbandonarono alcune frazioni del comune di Muggia comprese nella zona A del Territorio libero di Trieste, cedute alla Jugoslavia nel 1954. Erano in gran parte operai dei cantieri navali di Muggia (che rimase in Italia) di orientamento comunista. Proprio per questo della loro sistemazione non si occuparono gli organismi di governo o l’Opera profughi, bensì l’amministrazione comunista del comune di Muggia. Fu l’unico caso in cui fu rotto il monopolio dei partiti di governo, della Dc in primis, nella gestione dell’assistenza ai profughi a Trieste. Un monopolio che fu segnato anche da pesanti scandali finanziari e da appropriazioni indebite.
NB. Al termine del secondo conflitto mondiale in Europa abbiamo diversi esempi di spostamenti forzati di popolazione, che a loro volta rientrano nel quadro degli scambi di popolazione che hanno interessato il continente per tutto il novecento. Quali sono le differenze e quali le similitudini con l’esodo dell’Adriatico orientale? Per esempio rispetto ai tedeschi della Polonia o dei Sudeti?
SV. La differenza sostanziale è che non c’è uno scambio di popolazioni, anche se l’Italia l’aveva proposto durante le trattative di pace, né un esodo forzato. Nulla di paragonabile con gli scambi di popolazione tra Polonia e Ucraina o con l’espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale, fenomeni accompagnati da massacri, campi di concentramento e scontri armati. Le stesse organizzazioni dei profughi hanno focalizzato le similitudini piuttosto sulla gestione della sistemazione dei profughi. In particolare, ho trovato richiami alla vicenda dei finlandesi emigrati dai territori annessi all’Urss dopo il 1945, in parte a quella dei tedeschi espulsi dai paesi dell’est, ma soprattutto a quella dei profughi greci dopo il 1923, quando i cristiani ortodossi dell’Anatolia dovettero emigrare in Grecia mentre i musulmani di Grecia dovettero trasferirsi in Turchia. In Grecia l’insediamento dei profughi ebbe un impatto molto maggiore che in Italia, dato che i profughi erano più di un milione su una popolazione totale di circa 4,5 milioni di abitanti. Il loro insediamento fu mirato, gestito da organizzazioni ad hoc ed ebbe anche precise finalità politiche, in questo caso opposte a quelle perseguite in Italia: i profughi greci erano infatti generalmente schierati su posizioni liberali e di sinistra e furono utilizzati per rafforzare il partito liberale di Venizelos.
NB. L’antropologa Pamela Ballinger paragona gli esuli istriani a quelli cubani, per l’ideologia, per l’uso politico dei profughi a Miami…
SV. Credo il paragone possa essere plausibile, anche se personalmente li vedo più simili ai pieds noirs, i coloni francesi emigrati dopo l’indipendenza algerina. I dirigenti e le organizzazioni degli ex coloni francesi usarono spesso argomentazioni razziste nei confronti degli algerini, sottolineando la “missione civilizzatrice” dei francesi nei confronti dei barbari indigeni, argomentazioni simili a quelle usate dalle organizzazioni degli esuli nei confronti degli “slavi”. Chiaramente questo paragone calza relativamente all’atteggiamento delle organizzazioni e delle loro dirigenze, non a quello della massa profuga.
IL VIAGGIO CONTINUA.
POSSIBILI PERCORSI DI APPROFONDIMENTO
di Nicoletta Bourbaki
Per questo speciale abbiamo camminato nelle terre attraversate dal confine orientale d’Italia guardando al di là dell’Adriatico. Abbiamo incontrato sette autori le cui ricerche ci hanno colpito per la capacità di far luce su aspetti poco noti, o per l’originale sguardo multidisciplinare e sovranazionale. Accanto ai loro saggi ne aggiungiamo alcuni altri per chi voglia proseguire su questo cammino, valorizzando anche lavori scritti da storici stranieri. Per ogni proposta spieghiamo cosa ci ha indotto a selezionarla nella vasta letteratura scientifica disponibile sul tema. Molto infatti si è scritto in Italia in proposito, talora con risultati molto validi, ma spesso rimane da superare la ritrosia a varcare letteralmente il confine e confrontarsi con l’altro.
Ecco perché ci sembra inevitabile, pur con tutti i limiti del caso evidenziati nelle interviste, partire da Relazioni italo-slovene 1880-1956. Il testo è stato
approvato all’unanimità il 27 giugno 2000 dalla commissione storico-culturale italo-slovena, costituita nel 1993 sotto l’egida dei ministeri degli esteri dei due paesi e formata da storici sia italiani sia sloveni. Purtroppo, la relazione non ha avuto in Italia alcuna diffusione ufficiale. Lo scritto è lungo 30 pagine ed è liberamente scaricabile in diversi formati.
Per una carrellata visiva sulle medesime vicende sipuò guardareMeja - guerre di confine, documentario di Giuseppe Giannotti, prodotto da Rai Educational nel 2008, della durata di 58 minuti. Realizzato con il supporto scientifico del Centro di ricerca e documentazione storica e sociale Leopoldo Gasparini di Gradisca d’Isonzo (Go), è stato presentato in pubblico nel 2011 e infine trasmesso su Rai Storia nel 2016. Il video intervalla le immagini dell’epoca e le interviste ai testimoni con l’intervento di storici di diverse nazionalità, affrontando le vicende del confine orientale dal 1918 alla firma del trattato di Maastricht. Qui è suddiviso in 4 puntate di 12-15 minuti.
Entrando in biblioteca proponiamo un percorso cronologico, a partire dalle tematiche analizzate in questo speciale.
Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955 (il Mulino, 2009). Dalla costruzione dell’identità nazionale, al nazionalismo come forma di rappresentanza politica, al fascismo, all’occupazione nazista, alla lotta partigiana e alla nascita della Jugoslavia socialista: la storia politica e sociale del confine orientale vista da uno storico tedesco che conduce un’analisi comparativa tra la storiografia italiana, tedesca e slovena.
Piero Purini, Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria (1914-1975) (Kappa Vu, 2014). I bruschi sovvertimenti demografici sul confine orientale cominciano con la grande guerra. Questo saggio segue attraverso fonti italiane, tedesche, inglesi, slovene e croate tutti gli spostamenti di popolazione nell’area dal 1914 fino alla firma del trattato di Osimo nel 1975, pacificazione finale di un’area soggetta a svariati traumi correlati ai diversi scenari politici internazionali.
Marta Verginella, Il confine degli altri: la questione giuliana e la memoria slovena (Donzelli, 2008). Il libro di Verginella, professoressa ordinaria di storia del diciannovesimo secolo all’università di Lubiana, racconta la storia del litorale sloveno in maniera empatica e originale, conducendo il pubblico italiano alla scoperta delle ragioni dell’altro.
Milica Kacin Wohinz, Alle origini del fascismo di confine: gli sloveni della Venezia Giulia sotto l’occupazione italiana 1918-1921 (Fondazione Sklad Dorce Sardoc, 2010). La storia della comunità slovena della Venezia Giulia dall’annessione del territorio all’Italia fino all’invasione della Jugoslavia: dalle promesse tradite da parte delle nuove autorità italiane, alle violenze fasciste, alla snazionalizzazione forzata, all’emigrazione, alla nascita del movimento antifascista sloveno.
Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943) (Bollati Boringhieri, 2003). Le politiche di occupazione italiane in Europa durante la seconda guerra mondiale sono inquadrate come parte integrante del progetto imperiale fascista. Con un occhio particolare alle vicende della Grecia e dei Balcani, Rodogno rende esplicito il progetto di sfruttamento economico alla base dell’espansionismo italiano nell’Europa orientale, e descrive in modo preciso la logica tipicamente coloniale con cui furono gestiti i rapporti con le popolazioni dei territori occupati.
Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Yugoslavia (1941-1943) (Laterza, 2013). L’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, l’esplodere della violenza su base “etnica” a opera di ustascia e cetnici (sostenuti rispettivamente da tedeschi e italiani nel quadro di una concorrenza tra alleati), il sorgere e lo sviluppo della resistenza guidata dai comunisti, le rappresaglie e le politiche repressive messe in atto dal regio esercito italiano. Attraverso citazioni e documenti non si tralascia di ricostruire le motivazioni e il vissuto delle parti in lotta.
Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943) (Einaudi, 2006). Il saggio descrive le diverse forme di reclusione dei civili a opera dell’Italia fascista nella seconda guerra mondiale e tratta la storia e il funzionamento di ogni singolo campo di prigionia, sia quelli posti sul territorio italiano sia quelli nei paesi occupati, tra cui spicca per dimensioni e mortalità quello dell’isola di Arbe/Rab, destinato ai familiari dei resistenti jugoslavi.
Alessandra Kersevan, Lager italiani: pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943 (Nutrimenti, 2008). Una ricostruzione minuziosa e documentata del sistema concentrazionario italiano allestito prima e durante l’invasione nazifascista della Jugoslavia. L’opera descrive struttura e funzionamento dei lager ubicati a Gonars, Arbe, Visco, Cairo Montenotte, Renicci, Colfiorito, luoghi dove morirono di fame, stenti ed esecuzioni sommarie migliaia di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini. Istituzioni oggi dimenticate, delle quali anche il paesaggio – come la coscienza nazionale italiana – reca pochi segni.
Galliano Fogar, Dalle aggressioni fasciste alla occupazione nazista, in Dallo squadrismo fascista alle stragi della risiera (con il resoconto del processo). Trieste-Istria-Friuli 1919-1945 (Aned-Trieste, 1974). Nella “Venezia Giulia” la resistenza e la conseguente repressione antipartigiana cominciarono già nell’autunno del 1941, dopo l’invasione della Jugoslavia. Lo stato fascista mise in moto una macchina repressiva che, senza soluzione di continuità, dopo l’8 settembre 1943 fu inglobata nell’amministrazione militare nazista dell’Ozak. Fogar analizza i vari aspetti del collaborazionismo giuliano: amministrativo, militare, confindustriale.
Karl Stuhlpfarrer, Le zone d’operazione Prealpi e Litorale Adriatico, 1943-1945 (Libreria Adamo, 1979). La ricostruzione dettagliata della storia della Zona d’operazioni Litorale Adriatico basata sull’analisi della documentazione esistente in lingua tedesca.
Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954: la lotta politica, etnica e ideologica (Mursia, 1973). Un libro non recentissimo (la prima edizione per la University of Chicago è del 1970), scritto da uno storico sloveno poi trasferitosi negli Stati Uniti. È stato uno dei primi studi ad analizzare comparativamente la storia di Trieste basandosi su fonti italiane, statunitensi e jugoslave, riuscendo in questo modo a inserire la questione della Venezia Giulia in un contesto realmente internazionale.
Nevenka Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due stati (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2009). La storia della questione di Trieste vista dall’altra parte, cioè da quella jugoslava. Questo volume ha permesso agli storici italiani di avere una visione degli avvenimenti non italocentrica, ma con un focus privilegiato sulla situazione e le aspettative degli abitanti del territorio di lingua slovena e sulle azioni e i provvedimenti delle autorità jugoslave.
Glenda Sluga. The problem of Trieste and the italo-yugoslav border, difference, identity, and sovereignty in twentieth-century Europe (SUNY Press, 2001). Analizzata da una prospettiva postcoloniale la questione della sovranità sulla città di Trieste nel secondo dopoguerra rivela l’inadeguatezza degli strumenti della “geopolitica” e la strumentalità delle retoriche nazionali di fronte a una realtà multiculturale e plurilinguistica.
Anna Di Gianantonio et alii, L’immaginario imprigionato. Dinamiche sociali, nuovi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese (Consorzio Culturale del Monfalconese; Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 2005). La vicenda dell’esodo dei cantierini monfalconesi in Jugoslavia e del turbolento dopoguerra in uno dei centri industriali più importanti dell’alto Adriatico, raccontata attraverso le testimonianze dei testimoni diretti e dei protagonisti.
Jože Pirjevec, Foibe: una storia d’Italia (Einaudi, 2009). Una ricerca che affronta il tema delle foibe inserendolo nella narrazione della storia dei rapporti tra le diverse popolazioni dell’alto Adriatico e nel contesto del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra. Il testo svolge l’analisi sia dei documenti d’archivio sia delle narrazioni che hanno sovraccaricato i corpi rinvenuti nelle cavità carsiche di significati politici e identitari.
Costantino Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952) (Ombre corte, 2007). Chi furono davvero gli infoibati? Nella maggior parte dei casi si trattò di deportati e talvolta di prigionieri di guerra. Quest’opera indaga in parte sul loro destino nei campi di prigionia jugoslavi nel drammatico dopoguerra di un paese devastato, ma soprattutto consente di esplorare la più vasta tematica dello scambio di prigionieri tra Italia e Jugoslavia nell’ambito dell’escalation politico-diplomatica avvenuta tra questi due paesi e di come essa abbia influenzato anche il discorso sulle foibe.
Claudia Cernigoi, Operazione foibe tra storia e mito (Kappa Vu, 2005). Elenchi di infoibati/deportati della Venezia Giulia cominciarono a essere diffusi già durante la guerra, ritornando in auge negli anni ottanta-novanta con numeri di vittime ancor maggiori. Con una verifica accurata negli archivi, Claudia Cernigoi ha scoperto molti dati inesatti (persone ancora vive, duplicazioni, morti per altre cause, eccetera), in molti casi la collaborazione attiva con i nazisti degli scomparsi da Trieste, e ha indagato sul passato spesso torbido dei personaggi che pubblicarono queste liste. È significativo che alcuni ambienti abbiano reagito con l’accusa di negazionismo: un’accusa solitamente riferita alla negazione della shoah e per estensione a realtà scientifiche incontrovertibili, che in questo caso è stata strumentalmente rovesciata di significato e da allora è utilizzata frequentemente per chiunque manifesti un approccio critico al tema delle foibe.
Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956 (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1980). A tutt’oggi il punto di partenza per ogni ricerca sull’esodo istriano del secondo dopoguerra. Un’indagine sulla situazione precedente alla partenza, sulle paure reali o indotte negli istriani, sulla dinamica dell’esodo, sulle sue ragioni, sulla propaganda sia jugoslava sia italiana. In questo studio sono trattate per la prima volta con sistematicità la varie fasi dell’esodo, i problemi di quantificazione dei profughi, le loro condizioni e il loro destino una volta giunti in Italia. Recentemente l’Irsml ha digitalizzato il volume, che è oggi liberamente consultabile su Google Books.
Sandi Volk, Esuli a Trieste: bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (Kappa Vu, 2004). Un libro che si focalizza soprattutto sulla condizione degli esuli dopo la partenza e sull’uso che fu fatto di essi da parte dei partiti di area governativa e da parte delle associazioni dei profughi per modificare gli equilibri etnico-nazionali e politici dei territori dove vennero insediati.
Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960 (LEG, 2015). Alla metà degli anni novanta Nemec ha condotto un’importante opera di ricerca nell’ambito della storia orale relativamente alla comunità di un piccolo paese istriano, Grisignana d’Istria. La ricercatrice ha raccolto le testimonianze di coloro che se ne andarono nel dopoguerra ma anche di alcuni rimasti. Il puntuale confronto tra le memorie degli intervistati e una ricostruzione della storia sociale e politica dell’Istria fa emergere le complesse realtà celate dietro la scelta dell’esodo così come di quella di rimanere nel proprio paese d’origine, nonché i processi di costruzione dell’identità legati a tali scelte.
Pamela Ballinger, La memoria dell’esilio. Esodo e identità al confine dei Balcani (Il Veltro Editrice, 2010). Gli istriani, esuli e rimasti, sono stati per l’antropologa statunitense Pamela Ballinger il case study perfetto per indagare l’intreccio tra identità, memoria e frontiera. Nel saggio passa al setaccio ogni narrazione dell’esodo, sia essa pubblica o privata, storiografica o letteraria, nazionale o internazionale. Il risultato è una cartina di tornasole delle rappresentazioni date nel tempo del confine orientale, dall’irredentismo fino alla “vigilia” del Giorno del ricordo (il testo originale in inglese è stato pubblicato nel 2003).
Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico (Kappa Vu, 2014). La ricostruzione di come il tema “foibe” è stato ed è trattato nel dibattito pubblico e sui mezzi d’informazione italiani, analizzando le semplificazioni e le distorsioni dei fatti storici in una chiave comparativa europea e rintracciando le radici e lo sviluppo delle narrazioni contemporanee.
il manifesto, 9 febbraio 2017
Da quando per legge fu istituito nel 2004, il 10 febbraio, come «Giorno del ricordo» (anniversario del Trattato di pace che nel 1947 aveva fissato i nuovi confini con la Jugoslavia), per «conservare e rinnovare», come scritto, «la memoria di tutte le vittime delle foibe» e della «tragedia dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra», abbiamo assistito a una sorta di accaparramento di questa giornata da parte delle destre, con il prevalere nel corso degli anni dei fascisti. Quasi un’egemonia.
Possiamo ora dire, in sede di valutazione storica, che la decisione di inserire nel calendario nazionale questa data, a dieci giorni dalla giornata per il ricordo dalla Shoah e di tutte le vittime e i perseguitati del nazifascismo, abbia indubbiamente segnato una svolta facendo parlare correntemente di foibe come «Olocausto degli Italiani».
Questo anniversario è più che altro servito a nascondere le responsabilità e gli orrori del fascismo nelle vicende di Trieste, della Venezia Giulia e del confine orientale; a riscrivere e a deformare la storia di quelle terre e delle sue popolazioni; a occultare i crimini di guerra italiani e le gesta infami di chi collaborò con i nazisti; a scorporare dal contesto l’esistenza a Trieste della Risiera di San Sabba, unico campo di concentramento in territorio italiano con forno crematorio; a tentare di porre, in una specie di «dualità della memoria», le vittime delle foibe sullo stesso piano di quelle dell’Olocausto. Una sorta di contraltare.
All’origine di questa deriva crediamo si debbano anche porre alcuni interventi, a partire dal 2007, tenuti solennemente dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che parlò apertamente di «cieca violenza», di «furia sanguinaria», di «parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana», nonché di «disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”». Il tutto senza alcun riferimento alla precedente oppressione fascista delle minoranze slovene, all’invasione della Jugoslavia e ai precedenti crimini di guerra italiani commessi in quel Paese dal 1941 al 1943.
Almeno 230mila furono i civili montenegrini, croati e sloveni massacrati, fucilati o bruciati vivi nelle loro case durante i rastrellamenti (alcuni storici parlano di più di 400mila), diverse migliaia i civili, uomini, donne e bambini, deportati e rinchiusi in decine di campi di concentramento (i «campi del Duce») disseminati nelle isole dalmate, in Friuli e nel resto d’Italia. Parole che suscitarono anche le rimostranze del presidente della Croazia Stipe Mesic.
Nella stessa celebrazione vennero, tra gli altri, decorati da Napolitano i parenti di Vincenzo Serrentino, ultimo prefetto di Zara, fucilato dagli jugoslavi nel 1947 come criminale di guerra e in quanto tale già inserito nel 1946 da un’apposita commissione d’inchiesta italiana fra i civili e i militari italiani passibili di essere posti sotto accusa presso la giustizia penale militare, in quanto nella loro condotta erano «venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell’umanità».
Poi, nel 2015 ci fu il caso della consegna, per mano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, dell’onorificenza (ritirata in aprile) «per cause riconducibili a infoibamenti», ai familiari del capitano del battaglione Benito Mussolini, Paride Mori. Il capitano Mori era stato ucciso in combattimento, il 18 febbraio 1944, in uno scontro con i partigiani titini, e non “infoibato”. Questo caso svelò come su mille riconoscimenti dal 2004, con tanto di medaglia, circa trecento riguardassero militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Tra loro carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi, poliziotti, finanzieri e volontari nella Guardia nazionale repubblicana. Il novanta per cento appartenenti a formazioni al servizio dei nazisti. Nella lista si rintracciarono anche cinque criminali di guerra.
Con il «Giorno del ricordo» così costruito, volto a ricordare «tutte le vittime», nascondendo i giudizi di valore sulle responsabilità storiche, era inevitabile che riemergessero le destre peggiori. Anche quest’anno saranno, infatti, loro in diverse città d’Italia a celebrare questa data, con una serie di convegni e iniziative in cui si esalteranno il fascismo e la Repubblica di Salò.
A Pavia sarà addirittura il locale gruppo naziskin a farsene carico con un presidio, a Firenze, sabato prossimo, con un convegno, la Lega e Lealtà azione, la finta associazione culturale dietro la quale operano gli Hammerskin, mentre a Milano il Municipio 4, presieduto dalla Lega, aveva addirittura organizzato, sempre con Lealtà azione, per lunedì 13 alla Palazzina Liberty (quella di Dario Fo e Franca Rame), un concerto nazi-rock, poi annullato a seguito delle proteste antifasciste. A suonare era stato chiamato Skoll, nome di battesimo Federico Goglio, un cantautore il cui nome d’arte, per sua stessa ammissione, si ispirerebbe a un «lupo feroce» della mitologia germanica, dedito «alla violenta cancellazione della vita sulla terra azzannando il pianeta e riempiendo l’universo di spruzzi di sangue». Già esibitosi per Casa Pound e per i nazisti di Varese (la Comunità militante dei dodici raggi), era appena stato condannato dal Tribunale di Milano per apologia di fascismo. Fatto che non aveva minimamente turbato i promotori.
Riferimenti
Nell'icona cinque sloveni fucilati dai soldati italiani del generalwìe Roatta ( quello di :«testa per dente») Dane, Slovenia, , 31 luglio 1942. Vedi Come si manipola la storia attraverso le immagini
In realtà Piscina una mappa dei luoghi di culto nella sua zona ce l'ha già. Ed è anche una mappa molto affollata, visto che quelli sui quali lui "governa" sono i quartieri più multietnici della città. Dunque chiede alla Regione di intervenire di "contrastare" la loro presenza che "crea problemi di sicurezza". Scrive Piscina all'assessora regionale alla Sicurezza, Simona Bordonali: "Pur sostenendo il principio della libertà di culto, riteniamo essenziale il rispetto delle normative esistenti che garantiscono la sicurezza di tutti i cittadini. Per tale motivo chiediamo all'assessorato che vengano contrastati i centri di culto irregolari, e quindi senza destinazione d'uso adeguata, presenti nel Municipio 2. Tali luoghi di culto non risultano a norma di legge e creano evidenti problemi di sicurezza (anche urbanistica) sia per chi li frequenta sia per i cittadini che vivono nelle immediate vicinanze".
Di seguito, un primo elenco dei "luoghi di culto irregolari":
- Moschea Bangladesh Cultural &Welfare association di via Cavalcanti 8;
- moschea di via San Mamete 76;
- moschea dell'associazione culturale Al Nur di via Carissimi 19;
- moschea Casa della Cultura islamica, Via Padova, 144;
- moschea Alleanza islamica d'Italia di viale Monza 50;
- moschea di via Arbe 93.
A queste aggiunge anche:
- la chiesa evangelica di via Teocrito 45;
- la chiesa cristiano copta di via Gluck 46;
- la chiesa evangelica cinese di via Antonio Fortunato Stella 2;
- la chiesa Unita Pentecostale Internazionale di via Carta 21;
- chiesa cristiana evangelica delle Assemblee di Dio in Italia di via Matteo Maria Boiardo, 10;
- la missione Evangelica Maranata D'Itália nella via Privata Pericle, 9.
Dura la presa di posizione spiegata in un consiglio di zona straordinario al quale è stata invitata anche l'assessora alla Sicurezza del Comune, Carmela Rozza: "Il Municipio 2 negli ultimi cinque anni è stato totalmente dimenticato sotto il profilo della sicurezza. I problemi sono conosciuti ormai da anni, ma l'amministrazione comunale nel recente passato non è mai intervenuta per tutelare i cittadini che, specialmente in quartieri quali ad esempio via Padova e stazione Centrale, hanno paura di uscire di casa, anche per la presenza dell'hub profughi di via Sammartini. Per tale motivo ci sembra
fondamentale mettere telecamere e riportare sia l'esercito, sia le forze dell'ordine e la polizia locale nelle strade delle periferie, dove sussistono i veri problemi. Importantissimo è in primis trasferire il comando zonale della Polizia locale all'interno del territorio del Municipio 2, dove ci sono i veri problemi dei cittadini, cercando possibilmente una sede lungo l'asse di via Padova". Che notoriamente è la strada simbolo della Milano multirazziale.
La Repubblica, 26 settembre 2016, con postilla
D’altronde, come abbiamo osservato altre volte, l’atteggiamento degli italiani verso l’Unione si è sensibilmente raffreddato, dopo l’ingresso nell’euro, nei primi anni 2000. Allora eravamo i più eu(ro)forici in Europa. Quasi il 60% esprimeva, infatti, fiducia verso le istituzioni comunitarie. Ma il clima d’opinione è cambiato in fretta. Fino a scendere sotto il 30%, negli ultimi anni. Oggi è al 27%. E i più delusi sono gli elettori incerti, che Renzi contende ai partiti decisamente euro- scettici. In primo luogo: Lega e M5s. Tuttavia, non bisogna pensare che gli italiani se ne vogliano andare dalla Ue, seguendo Salvini e la Lega. Né che intendano abbandonare l’euro, come vorrebbero Grillo e il M5s. La maggioranza, anche se largamente insoddisfatta, preferisce, comunque, restare. Perché la Ue e l’euro non ci piacciono. Però non si sa mai… Fuori potrebbe andarci molto peggio.
Tuttavia, se valutiamo le principali ragioni che concorrono ad alimentare questo orientamento, una, fra le altre, assume particolare rilievo. Il timore suscitato dagli immigrati. L’arrivo e la presenza degli stranieri. Più della sfiducia nell’Unione europea e nelle sue istituzioni di governo, infatti, è la “paura degli altri” che alimenta la domanda di rafforzare il controllo delle frontiere. E contribuisce, in qualche misura, a far crescere la nostalgia dei muri. Come se le frontiere e gli stessi muri potessero “chiudere” (e proteggere) un Paese “aperto” come il nostro. Verso Est, l’Africa e il Medio Oriente. Circondato, in larga misura, dal mare. In tempi di globalizzazione. Dove tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, può avere effetto immediato sulla nostra vita. Sulla nostra condizione. Sul nostro contesto. Per questo il dibattito politico sulle frontiere, in Europa ma anche in Italia, appare dettato da ragioni politiche e ideologiche. Perché le frontiere servono a riconoscere gli altri e de-finire noi stessi. E, in quanto tali, come ha scritto Régis Debray, possono costituire “un rimedio contro l’epidemia dei muri”. Ma quando diventano muri ci impediscono di guardare lontano. Alimentano solo la nostra in-sicurezza. Non alleviano le nostre paure. Ma rafforzano solo gli imprenditori politici
postilla
"Italiani brava gente"? Le “mosse” di Renzi nonstupiscono più nessuno, né stupisce la delusione degli italiani nei confrontidell’Unione europea. Sia pur confusamente una parte molto consistente deglieuropei patisce sulla propria pelle il disagio dell’austerity imposta ai popolibenestanti dall’ideologia e dalle pratiche del neoliberismo, di cui UE è fedeleinterprete; sebbene non molti ne vedano le ragioni e ne individuino iburattinai. Neppure stupisce molto l’ansia che molti nutrono di ritornare nellacuccia della nazione, protetta da una sicura frontiera.
Meraviglia invece, e addolora, che la paura del “diverso” renda tanti italiani ciechidi fronte alla sofferenza delle persone che fuggono dai paesi dell’Africa versol’Europa. Ciechi e sordi dinnanzi a una fuga di massa che è stata ingrandissima parte provocata dallo sfruttamento diretto e indiretto dellerisorse della Terra esercitato dagli stati e dalle aziende del Primo mondo conil colonialismo dei secoli scorsi, e che prosegue indisturbato con quelneocolonialismo che il Primo e il Secondo mondo - governi e aziende italianecompresi - esercitano in modo ancora più virulento oggi.
“Italiani brava gente”,è il titolo che abbiamo dato a questa cartella. Lo riprendemmo da un film delregista Giuseppe De Santis del 1964; lo riprese a sua volta nel 2005 lo storicoAngelo Del Boca aggiungendovi un punto interrogativo e rovesciandone il senso, ripercorrendoin un suo libro la storia delle numerose atrocità compiute dagli italiani dalRisorgimento al Fascismo. Allora, ai tempi cui si riferiva la narrazione di DelBoca la mancanza di pietas poteva essere attribuita ai Capi (dai Savoia aiMussolini e ai loro generali), non vorremmo che oggi dovesse essere attribuitaa un intero popolo, quello cui apparteniamo.
Il trionfalismo dell’establishment non riesce a nascondere la realtà: la nuova linea ferroviaria Torino-Lione, come hanno spiegato domenica scorsa su queste pagine Pagliassotti e Vittone, è ancora di là da venire. Intanto, dopo ventisette anni, i No Tav, gli «indiani di Valle» non demordono e anzi rilanciano, contrapponendo all’alta velocità l’alta felicità (per riprendere il titolo della grande festa di Venaus del luglio scorso che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone e di artisti di prim’ordine). A sostegno dell’opera resta una repressione crescente e sempre più scoperta. Non bastavano l’evocazione di una valle di black bloc, i 1.500 indagati negli ultimi sei anni e mezzo (con una punta di 327 nel 2011 e di 183 dal luglio 2015 al giugno 2016: più di un indagato ogni due giorni), un centinaio di misure cautelari, una gamma di reati che vanno dalle violazioni della zona rossa a fantasiosi attentati con finalità di terrorismo (dichiarati infine insussistenti, dopo lunghe carcerazioni in isolamento, dai giudici di merito e dalla Cassazione). Non bastavano e, puntuali, sono arrivati nuovi dispositivi repressivi. Un caso per tutti, tra i molti quest’estate.
Chiunque è stato in Valsusa sulle tracce del movimento No Tav conosce l’osteria «La Credenza» di Bussoleno (luogo di incontro e di confronto di persone provenienti da ogni dove) e la sua animatrice, Nicoletta Dosio, per tutti semplicemente Nicoletta, già professoressa nel locale liceo, esponente politica della sinistra non omologata, personaggio di primo piano nell’opposizione al Tav. Ebbene, con ordinanza 26 maggio 2016 del gip di Torino, a Nicoletta è stata imposta la misura cautelare dell’obbligo di presentazione quotidiana all’autorità di polizia per fatti commessi un anno prima di fronte al cantiere di Chiomonte, integranti, nell’ipotesi accusatoria, il delitto di resistenza e violenza a pubblico ufficiale (consistente nel lancio di oggetti contundenti e di artifici pirotecnici). Nicoletta non ha lanciato pietre o alcunché ed era, come sempre, a viso scoperto. Ciò che le viene contestato è altro: aver «contribuito a consegnare una fune munita di arpione ad altra persona che, arrampicata sulla griglia di un betafence, agganciato l’arpione alla griglia, ne determinava il successivo abbattimento». La battitura e l’abbattimento delle reti e delle strutture connesse è, come tutti sanno, uno degli obiettivi di sempre del movimento per dimostrare che il cantiere può essere violato e che la determinazione della valle è più forte della militarizzazione.
La posta in gioco, anche in termini generali, è elevata e ben chiara ai valsusini, che hanno lanciato la campagna «mettiamoci la faccia» facendosi fotografare a centinaia con il manifesto: «Io sto con chi resiste violando le imposizioni ingiuste del tribunale di Torino».