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Intervistato da Franco Marcoaldi lo scienziato spiega l'illusione della crescita continua, la razzia dell’ambiente accompagnata a rapporti sociali violenti, perché la natura non è una reliquia. Ma il tempo della politica non combacia con quello dell’ecologia. La Repubblica, 16 settembre 2013

Era nelle cose che questa inchiesta sui rischi della “fine del limite” affrontasse anche il limite ultimo e ineludibile rappresentato dalla Terra, verso la quale continuiamo a comportarci secondo una logica di rapina cieca e scriteriata. Per rendersene conto basta leggere, tra i tanti, i bei libri che Pascal Acot ha pubblicato in Italia da Donzelli,
 Storia del clima 
e Catastrofi
 climatiche e disastri sociali.
 Ma la posizione del ricercatore francese è tanto più interessante perché non si appiattisce sulle tendenze ecologiste oggi più in voga. Con le quali anzi, spesso e volentieri, polemizza apertamente.


«Se pensiamo al nostro rapporto con la Terra, il problema del limite si pone sia in materia di risorse (energetiche, minerali, biologiche), che di crescita demografica. Entrambe oggetto di valutazioni controverse. Secondo alcuni, grazie a tecnologie sempre più raffinate, l’umanità sarà comunque in grado di trovare nuove risorse e occupare nuovi spazi. Dunque la crescita, in termini di ricchezza, non cesserà mai. Si tratta di una semplice credenza, perché nessun dato scientifico ci consente di suffragare tale ipotesi. Per contro, coloro che considerano le risorse limitate si appoggiano su costanti di ordine termodinamico: il globo terrestre è un sistema fermo perché non può scambiare materia con il resto dell’universo, pur utilizzando l’energia di calore che proviene dal sole. L’obiettivo dunque diventa quello
del riciclaggio o della scoperta di nuovi tipi di risorse, ma non sempre questo è possibile. Senza contare che il rinnovamento naturale di alcune di esse, come per esempio il fosforo sotto forma di fosfati, è troppo lento. Questa posizione è fatta propria dai fautori delle politiche di austerità e dai partiti ecologisti, che difendono l’ossimoro della cosiddetta “abbondanza frugale”».


Sembrano due posizioni assolutamente
inconciliabili.

«Almeno in linea di principio si può però superare tale antagonismo ponendo la questione in questi termini: le risorse del pianeta non sono affatto illimitate, ma non sono neppure limitate in modo fisso e predeterminato.
Bisogna far propria un’idea dinamica di limite, utilizzando al meglio i progressi compiuti e concentrando l’attenzione su una gestione razionale delle risorse. Innanzitutto proscrivendo tutte quelle produzioni che soddisfano soltanto bisogni immaginari o dettati da una mera logica di profitto e sopraffazione. Penso ad esempio agli Ogm, alle monocolture su base industriale che mettono in ginocchio le coltivazioni tradizionali. E penso anche al ritardo criminale in materia di transizione energetica al fine di rimpiazzare le risorse fossili con risorse rinnovabili. Senza contare, da ultimo, gli effetti disastrosi delle delocalizzazioni e della mondializzazione, a partire dai costi spropositati dei trasporti».


Lei insomma sposta l’attenzione dal rapporto ecologico uomo-natura a un piano più squisitamente politico.

«Assolutamente sì. La qualità delle relazioni tra gli esseri umani e la natura è strettamente legata al rapporto che gli esseri umani instaurano tra di loro. Il saccheggio delle risorse umane si accompagna sempre
al saccheggio delle risorse naturali. Se i rapporti sociali sono brutali e violenti, allora si verifica ciò a cui assistiamo oggi: la razzia indiscriminata dell’ambiente e la devastante mercificazione del patrimonio comune. Al contrario, in un mondo in cui prevalessero rapporti sociali più equi e rispettosi, si potrebbero creare le condizioni di un rapporto più armonioso anche con il pianeta».


Da qui anche una sua vis polemica contro certo ecologismo.


«Io riconosco a tutto il movimento ecologista uno straordinario merito: quello di aver posto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il rischio enorme dell’attuale situazione. Però non condivido alcuni aspetti dell’ideologia ecologista, lo svilimento dell’umanità rispetto a una fantasmatica “natura” che va protetta come una reliquia. Ad esempio, i fautori della decrescita felice non vedono che il problema vero è quello della ripartizione più equa delle risorse. Oppure, tanti ambientalisti pensano che tutto possa risolversi con un generico appello alla coscienza individuale. Ma che senso ha affermare che l’Uomo, in quanto tale, è colpevole? Che siamo tutti colpevoli in eguale misura? Che tutto si risolve attraverso il mutamento delle nostre abitudini? Non è vero. E sono i numeri a dircelo. Io posso anche convertirmi all’auto elettrica, ma il mio gesto risulterà ininfluente se si continua a perseguire la logica folle
della mondializzazione nella circolazione delle merci, con l’emissione spropositata di combustibili fossili necessaria al loro trasporto. Mi chiedo: quando finirà l’assurdità di gamberetti pescati nella baia di Baffin, sgusciati in Marocco e impacchettati in Danimarca che arrivano poi sugli scaffali dei nostri centri commerciali? Magari ad opera di quelle stesse catene distributive che hanno anche la faccia tosta di spingerci ad acquistare buste di plastica ecologiche con il logo del Wwf».


Lei però è anche molto critico sull’eventualità che la politica affidi le sue scelte a quanto indicato dalla comunità scientifica.

«È un’idea rovinosa. Intanto perché la scienza non è affatto neutrale. È condizionata da mille fattori: i pregiudizi del momento, l’ideologia delle classi dominanti, la logica del profitto, il percorso biografico degli scienziati, gli investimenti verso questo o quel settore di ricerca a scapito di altri. No, io continuo a credere che solo all’interno di un autentico processo democratico gli uomini possano finalmente riappropriarsi del loro destino, e invertire la rotta che ha condotto a mille catastrofi: da Bhopal a Chernobyl. I veri produttori della ricchezza – coltivatori, tecnici, allevatori, pescatori – sono stati espropriati degli strumenti necessari per intervenire sui processi che hanno portato a quelle sciagure. E questo è accaduto sia all’interno delle società cosiddette socialiste che in quelle liberali. Ciò detto, certo, la politica deve saper ascoltare quanto la scienza le dice. E la scienza ci dice in modo inequivocabile che l’attività dell’uomo influisce sul clima del pianeta e che, se non si fa nulla per bloccare il riscaldamento globale, si va verso il disastro».


Lei ritiene che siamo già arrivati a un punto di non ritorno?

«Posso solo dirle questo: il tempo della politica e quello dell’ecologia non combaciano. La politica ha uno sguardo sempre più corto, mentre, se anche noi oggi prendessimo finalmente le decisioni giuste, gli effetti benefici si vedrebbero soltanto dopo molto tempo, a causa delle inerzie ecologiche su scala planetaria. Provo a spiegarmi con un’immagine che ho già utilizzato in altre occasioni: è come se fossimo a bordo di un camion e, nell’imminenza di un potenziale incidente, decidessimo all’improvviso di frenare. Ma l’inerzia è tale che il camion, prima di fermarsi, percorrerà ancora un bel tratto di strada. Inutile aggiungere che non stiamo affatto frenando, ma al contrario
continuiamo a correre a rotta di collo….».


Quindi?

«Quindi, sulle cause astronomiche dell’andamento climatico non possiamo certo intervenire, ma sui fattori che dipendono da noi sì: in particolare, sulle emissioni di gas a effetto serra. Non è detto che tutto ciò sia sufficiente, ma è evidente che non si può assolutamente eludere quel passaggio. L’ho già scritto e lo ripeto qui: siamo nella stessa situazione di Pascal rispetto a Dio; pur non esistendo la prova, lui scommise sulla sua esistenza. E noi a nostra volta dobbiamo scommettere che non sia troppo tardi per salvare la specie umana e il pianeta Terra. Anche se le confesso che, a momenti, mi sembra una scommessa disperata».

In vista della Terza Conferenza internazionale per la sostenibilità ecologica e l'equità sociale Da Barcellona in bicicletta, passando per la Val di Susa. Da Ferrara in asino, e in trekking lungo il Po. Seicento iscritti al meeting>

Da Barcellona arriveranno in bicicletta (sono partiti a fine luglio passando per la Val di Susa). Da Ferrara a piedi con gli asini. Dal Piemonte con un trekking lungo il Po. Da Kathmandu, da Lagos, da Reykjavik, da San Salvador e da altre città di 45 paesi diversi arriveranno molto probabilmente in aereo, ma seguendo i consigli contenuti in una lettera inviata dai Bilanci di Giustizia (il gruppo creato da don Gianni Fazzini che da anni monitora le spese di un migliaio di famiglie) per abbassare al minimo e compensare gli impatti ambientali.

Stiamo parlando dei seicento iscritti alla 3a Conferenza internazionale sulla decrescita per la sostenibilità ecologica e l'equità sociale che si apre mercoledì 19 settembre a Venezia (tutto l'articolato programma su: www.venezia2012.it). A promuoverla un pool di associazioni (Research & Degrowth, Kuminda, l'Arci e altre), due università (l'Università di Architettura di Venezia e l'Università di Udine) e il Comune di Venezia.

Chi sono i decrescenti o decrescisti o «partigiani della decrescita», come li chiama Serge Latouche? In Italia il più noto sul versante della promozione della riconversione tecnologica mirata alla riduzione dei consumi energetici è sicuramente Maurizio Pallante con il suo Movimento per la Decrescita Felice. Mentre sul piano della ricerca teorica interdisciplinare, la Associazione per la decrescita di Marco Deriu, Mauro Bonaiuti, Gianni Tamino, Alberto Castagnola e altri, è sicuramente la più prolifera di pubblicazioni, scuole e divulgazioni culturali. Ma la base del movimento - è il caso di cominciare a trattarlo come tale - è costituita da una miriade di gruppi locali autonomi e molto diversi tra di loro (i partner italiani della Conferenza sono 73, aggregatisi lungo un percorso di avvicinamento e preparazione durato un anno e costellato da incontri, laboratori, campi scuola), ma tutti impegnati nella ricerca di soluzioni capaci di accompagnare l'uscita dall'era del «dopo-sviluppo», cioè di una situazione di crisi irreversibile dei modelli economici e sociali fondati sull'idea ingannevole dell'accrescimento indefinito dei profitti, dell'accumulazione monetaria, dell'intensificazione dei consumi delle risorse naturali e dello sfruttamento umano.

Le loro premesse analitiche e le loro attività pratiche, quindi, si presentano in modo molto radicale. Alcuni, come l'Associazione degli ecofilosofi, vedono un legame molto stretto tra decrescita e deep ecology che arriva ad abbracciare animalisti ed antispecisti. (Inutile dire che il menù alla 3° Conferenza sarà per metà vegetariano e per metà vegano, preparato dalla più antica cooperativa di ristoratori La ragnatela fondatori di Slow Food, già Gambero Rosso per gli affezionati lettori de il manifesto). Per altri, invece, la decrescita è semplicemente la ricerca di stili di vita individuali il più informati e responsabili possibili. Non a caso l'anteprima della Conferenza (15 e 16 alla Centrale dell'altreconomia di Mestre) sarà un convegno nazionale dei Gruppi di acquisto e dei distretti di economia solidale dal titolo «Ricostruire comunità territoriali capaci di futuro». Per altri ancora la decrescita non si chiama decrescita, ma «Transition Town» (il movimento che opera come se il petrolio fosse già finito, fondato in Inghilterra da Rob Hopkins, presente a Venezia il giorno della inaugurazione), o «semplicità volontaria» (come la chiamava Kumarappa, l'economista di Gandhi, che sarà presentato in un Focus sulle fonti del pensiero della decrescita), o economie dei «beni comuni», come sempre più spesso si usa dire e come riferirà Silke Helfrich della Heinrich Boll Foundation di Berlino presentando uno studio decisivo sull'argomento appena pubblicato negli Stati Uniti: «The Wealth of the Commons. A World Beyond Market & State». Per altri ancora decrescita significa «Prosperità senza crescita», come dimostrano possibile i ricercatori della New Economy Fondation di Londra.

Il ventaglio delle declinazioni possibili del tema della transizione, del passaggio di civiltà, utilizzando la matrice della decrescita può essere quindi ampio: si va dalle proposte più moderate vicine alla green economy a quelle esplicitamente anticapitalistiche. Alla 3a Conferenza l'arduo compito di metterle a confronto e, soprattutto, di capirne le connessioni. Per questo servono approcci interdisciplinari e multilivello. A partire dal recupero di una visione di genere sulle relazioni umane, per il superamento della divisione sessuale del lavoro. Promette bene la presenza di un significativo gruppo di studiose ecofemministe con Veronika Bennholdt-Thomsen, Alicia Puleo, Mary Mellor, Helena N. Hodge.

Forse la scommessa più interessate della formula della Conferenza di Venezia è quella di tentare di far interagire buone teorie e buone pratiche, persone impegnate sul versate «accademico» e attivisti impegnati nei movimenti della cittadinanza attiva.

Pare (lo sostiene Le Figaro), che il governo Hollande abbia scoperto che non ci siano i soldi per tutte le grandi opere avviate da Sarkozy e che occorra stabilire delle priorità. Tra i progetti in forse c’è anche la linea ferrovia-ria Torino-Lione, malamente soprannominata Tav. Apriti cielo! Ma non era un progetto irrinunciabile, da cui non si poteva tornare indietro, e che la Francia tutta voleva realizzare? Anche Hollande si era espresso a favore durante la campagna elettorale. Ma poi, forse, un qualche realismo ha prevalso, anche indipendentemente dalla crisi. Molti studiosi francesi indipendenti avevano infatti già espresso forti dubbi, esattamente come in Italia; e anche lì altrettanto inascoltati, dato il peso degli interessi intorno a queste “fontane di soldi pubblici”.

É un bene per l’Italia? Non sappiamo ancora, né sappiamo se la Torino-Lione uscirà dall’elenco o no. Ma sicuramente è un bene che si evidenzi l’assoluta necessità di determinare una gerarchia tra progetti. C’è da sperare che questa gerarchia sia determinata sulla base di valutazioni economiche e finanziarie trasparenti, democraticamente conoscibili e discutibili. Questo è il nocciolo della questione, che non vuol dire che alla fine la scelta non debba essere politica, anzi. Ma esplicita sì, si tratta di un prerequisito irrinunciabile, quando ci sono in gioco tantissimi soldi pubblici e lobby molto potenti.

In particolare, il quadro macroeconomico (per entrambi i paesi) richiede che ogni euro di spesa pubblica sia indirizzato a creare la massima occupazione possibile, il più rapidamente possibile. Dobbiamo rilanciare la domanda interna e farlo rapidamente. I lavoratori spendono subito, non possono accumulare. Le grandi opere hanno caratteristiche opposte: per ogni euro, creano poca occupazione rispetto alle piccole opere e alle manutenzioni, e la creano nel lungo periodo. Poi il settore ferroviario richiede molti più soldi pubblici di quello stradale, nonostante le sue benemerenze ambientali (che spesso vengono sovrastimate, e non certo in modo innocente). Speriamo che il governo Monti faccia tesoro di questa evoluzione francese, e si decida a fare un po’ di analisi economiche indipendenti e comparative, cosa mai fatta fin’ora da nessun governo.

Al vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro Susan George non c’è. Troppo prevedibili gli esiti, troppo smaccati – sostiene la chair of board del Transnational Institute di Amsterdam – i tentativi messi in atto dalle grandi corporation transnazionali: trasformare anche la natura in merce, privatizzarne l’accesso, escluderne i più poveri. Una deriva mercantile che l’autrice di Le loro crisi, le nostre soluzioni (Mondi media 2012), fiera oppositrice del modello neoliberista, contesta da decenni, e a cui sin dal 2007 oppone un «New Green Deal»: un nuovo grande piano di investimenti, che punti al rinnovamento ecologico del sistema produttivo ed energetico, coniugando sostenibilità ambientale e giustizia sociale. Nulla a che vedere con il concetto di green economy, tiene a precisare Susan George;Dopo giorni di incontri, dibattiti, accese discussioni e contestazioni, si è concluso il vertice di Rio. Qual è il suo giudizio?

«A Rio tutto questa volta è andata perfino peggio del solito, se possibile. Il World Business Council per lo sviluppo sostenibile, la Camera di commercio internazionale e altre lobbies delle corporation hanno perseguito la stessa agenda per 20 anni, e pare che siano riuscite ad aggiudicarsi una vittoria importante: le Nazioni Unite hanno completamento abdicato e si sono ritrovate a sostenere l’agenda di questi attori, a discapito di tutti gli altri, rimasti esclusi. Da quel che ho avuto modo di leggere o ascoltare, non mi sembra che i governi abbiano avuto niente di veramente “progressista” da dire. L’unica cosa degna di nota, che andava seguita, erano gli eventi laterali, quelli che hanno fatto capo a People Rio+20, la contro-conferenza del vertice».

Lei non ha mai nascosto il suo scetticismo nei confronti del concetto di «green economy», di cui molto si è discusso a Rio. Ci spiega meglio il suo punto di vista?

«Sulla green economy continuo a mantenere posizioni critiche, come quasi tutti gli altri sostenitori della giustizia climatica e della sostenibilità intesa nel senso più genuino del termine, perché sono le corporation che ne stanno definendo i contenuti, secondo i propri interessi. Non è un caso che stiano per essere introdotti dei prezzi veri e propri per i “servizi” che la natura fornisce all’uomo; che i principi mercantili stiano per essere installati in ogni settore, incluso quello della conservazione della natura, mentre i “prodotti” della natura vengono progressivamente privatizzati. Oggi bio-diversità non significa altro che un’ulteriore fonte di materiali grezzi, da cui trarre profitto. A ben guardare, le compagnie che si occupano di biologia sintetica sono così avanti rispetto a noi che non abbiamo ancora la minima idea delle conseguenze delle loro attività, penso per esempio agli organismi ibridi o alle “chimere”, che renderanno gli Ogm, che abbiamo a lungo contestato, delle innocue verdure da orto domestico. Su questo, dovremmo provare a chiedere qualcosa a Pat Mooney, dell’Etc Group, l’associazione che monitora il potere connesso alle tecnologie»

Per lei dunque dietro il concetto di green economy si nascondono molte insidie; eppure per molti bisogna comunque puntare sulla green economy, nonostante i rischi che implica, perché possiede quella carica «evocativa» necessaria affinché tutti riconoscano che è ora di trasformare le nostre società...

«Se mi sta chiedendo se dobbiamo tentare di prevenire il cambiamento climatico e mitigare a tutti i costi l’innalzamento delle temperature, allora rispondo di sì, che sono d’accordo: se il mondo del business è l’unico in grado di farlo, allora che lo faccia, visti i rischi enormi che abbiamo di fronte. Ma rifiuto di adottare un atteggiamento così rinunciatario, perché sono convinta che ci sia ancora l’opportunità di investire in un “Green New Deal”, riappropriandoci del nostro sistema finanziario, impazzito e disfunzionale, socializzando le banche, tassando le transazioni finanziarie a livello internazionale e investendo nel bene comune, in altri termini in quello che definisco, appunto, “Green New Deal”. Ciò significa che dovremmo tenere a mente, come priorità, le preoccupazioni sociali, i bisogni umani, la preservazione e la condivisione delle risorse scarse, e allo stesso tempo rispettare le comunità indigene. La green economy è tutt’altra cosa. Non dimentichiamo poi che ogni volta che abbiamo ceduto alle richieste o alle lusinghe del mondo del business abbiamo sempre dovuto pagare un prezzo eccessivo. Si guardi alla crisi attuale, ormai al suo quinto anno. Se dovessimo cedere anche questa volta, perderemmo tutto, inclusi i beni comuni, materiali e immateriali, probabilmente per sempre»



Chiude Rio+20 Per le ONG

una «occasione sprecata»

cronaca di Emidio Russo

Oggi si chiude, non senza polemiche, il vertice Onu sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro con 190 Paesi. Dopo vent'anni dal primo summit sulla Terra, che ha lasciato eredità importanti soprattutto sul clima, Rio+20 ha prodotto un testo che ha diviso la comunità. Bene per i Paesi decisori, anche se la Bolivia ha aperto un fronte contro il «colonialismo ambientale» seguita da altri Stati dell'America latina e alcuni africani, sonora bocciatura da parte delle associazioni e della società civile che in una lettera parlano di un documento «mediocre» e di un esito del vertice «segnato da gravi omissioni». Il documento presentato ai capi di Stato e ai rappresentanti di governo tre giorni fa, e ormai, a meno di sorprese dell'ultima ora, destinato a essere il testo finale, mette nero su bianco la green economy e avvia un lavoro per arrivare a inserire il conto ambientale nei Pil dei Paesi. Greenpeace, Oxfam, Wwf , Legambiente, ma anche la società civile e i popoli che hanno manifestato in questi giorni restano convinti della debolezza del vertice. Il Wwf parla di «occasione sprecata» ma sottolinea anche che «lo sviluppo sostenibile ha già messo radici e crescerà». Ieri è arrivato anche il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che propone un nuovo meccanismo di sovvenzioni per l'energia pulita.

La dichiarazione finale del vertice Rio+20 è un documento di 49 pagine e 283 articoli per lo sviluppo sostenibile. Le «Politiche di economia verde» sono definite «uno degli strumenti importanti» per lo sviluppo sostenibile; non dovranno imporre delle «regole rigide» ma «rispettare la sovranità nazionale» dei singoli Paesi senza diventare «mezzo di discriminazione» o «restrizione al commercio internazionale». Per quel che riguarda la governance mondiale per lo sviluppo sostenibile, il testo chiede un «rafforzamento del quadro istituzionale» mentre la Commissione ad hoc esistente viene sostituita da un «forum intergovernativo ad alto livello». Nel testo viene anche riaffermato il ruolo del programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, rafforzato mediante delle risorse finanziarie «sicure» (ad oggi sono su base volontaria) e con una rappresentanza di tutti i Paesi membri dell'Onu (ad oggi sono solo 58). Obiettivi dello sviluppo sostenibile: sul modello degli obbiettivi del Millennio dell'Onu (con scadenza nel 2015) il vertice insiste nel fissare delle mete «in numero limitato, concise ed orientate all'azione».

SUSAN GEORGE, Economista, è considerata una delle maggiori studiose sulla fame nel Terzo mondo. Già vicepresidente di Attac France e membro del Board di Greenpeace

Benvenuti a Rio meno 20. Al vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile vincono la burocrazia e la governance che ha prodotto la crisi. A perderci sono l’umanità e la democrazia, ostaggi degli interessi di banche e multinazionali. Il documento scaturito da quello che è ormai un circo itinerante non contiene assolutamente nulla di concreto per affrontare la realtà del disastro ecologico e della crisi sociale ed economica. Una visione economicista pregna un documento vago e privo di qualsiasi ambizioni. L’assenza dei capi di Stato dei principali Paesi responsabili della degradazione planetaria e delle politiche finanziarie che hanno collassato l’umanità, rende impossibile pensare di ottenere cambiamenti e impegni concreti nella due giornate finali del vertice. La green economy che emerge dal testo è indefinita e si affida al mercato, rivendicando libertà di azione e nessuna regola. Con buona pace di chi ha colpevolmente affidato le proprie speranze alle inesistenti virtù di quello che è ad oggi un palese tentativo di finanziarizzazione della crisi ecologica. Il documento elogia addirittura il ruolo positivo dei grandi organismi finanziari nel raggiungimento dello sviluppo sostenibile. Come dire che la centrale Enel a carbone di Porto Tolle è green economy e fa bene alla salute.

Molte delegazioni governative affermano che non si poteva fare di più. Ma perché non si poteva fare di più? Chi e cosa impedisce di prendere le decisioni di cui abbiamo bisogno per il nostro futuro? È questo il grande tema che interroga l’etica e la politica, più che la tecnica e la scienza. Il forum dei popoli oggi ha indetto la grande manifestazione per la Terra. «La speranza è nelle strade e nelle piazze che si riempiono di nuove soggettività impegnate a difendere ed affermare diritti, beni comuni, economie sostenibili, lavoro e democrazia. Le strade e le piazze sono gli unici luoghi rimasti pubblici dove si può fare politica. Dentro i palazzi della burocrazia non c’è più niente che possa aiutarci», il commento del sociologo portoghese Boaventura De Sousa. La sfida è quella di costruire nuovi paradigmi e modelli in grado di farci superare le crisi.

ONU Vertice verde. La conferenza dei negoziatori scodella un documento di compromesso per il vertice onu sullo sviluppo sostenibile. Cancellati i punti controversi, sulla natura vince il mercato

RIO DE JANEIRO .Oggi Dilma Roussef dà l'avvio ufficiale al vertice. Mentre i movimenti mondiali scendono in piazza

Alla fine, dopo una notte di attesa e di continui rimandi, ieri mattina il governo brasiliano ha imposto con forza la sua linea al termine di un negoziato confuso e problematico, scodellando il testo della dichiarazione finale del vertice di Rio. Molte punti controversi sono così state «tagliati». La presidente Dilma Rousseff voleva avere un testo quasi finale da distribuire al G20 di Los Cabos, in modo da ricevere una legittimazione anche dai tanti presidenti e capi di stato, Barack Obama e Angela Merkel in testa, che non si sono presi la briga di volare dal Messico fino in Brasile viste le persistenti turbolenze economiche e finanziarie mondiali.

Per i padroni di casa il Vertice delle Nazioni unite sullo sviluppo sostenibile, che si apre oggi, si deve chiudere a tutti i costi con una qualche forma di consenso. Ma c'è di più: oramai il Brasile, come gli altri paesi Brics, ha l'ambizione di accreditarsi quale potenza globale capace di gestire i conflitti e negoziare materie economiche alla pari con i paesi più forti, non necessariamente nell'interesse del resto dei paesi del Sud del mondo. Proprio la parte «finanziaria» del testo, cara al gruppo dei G77 che comprende 130 paesi in via di sviluppo, è stata «spostata» al G20 nella convinzione che il vertice di Rio non sia adatto a trattare tali questioni. D'altronde i Brics hanno finalmente messo sul tavolo i contributi destinati all'Fmi per salvare l'Europa dalla crisi, e chiedono qualcosa in cambio.

Dunque Rousseff ha portato a Los Cabos un testo al ribasso, chiedendo un'accettazione del compromesso sui fondi richiesti dai paesi in via di sviluppo per pagare la transizione verso l'«economia verde». In cambio i paesi ricchi l'hanno spuntata su molte questioni, annacquando gli impegni siglati alla conferenza di Rio del 1992 e ricevendo il via libera a un'idea di green economy che privilegia la logica di mercato senza cambiare gli equilibri esistenti, né preservare l'ambiente.

Analizzando il testo approvato a fatica dai negoziatori, sorprende che la definizione di economia verde non faccia riferimento al principio 7 della carta di Rio su una «responsabilità condivisa ma differenziata» tra paesi del Nord e del Sud del mondo. Così manca ogni riferimento forte al bisogno di controllare l'operato delle multinazionali e del settore privato. Una vittoria netta per gli Usa. Di contro, le pressioni della società civile e di alcuni governi del Sud sono riuscite a tenere fuori dal testo il riferimento al commercio dei servizi degli ecosistemi, e la forte enfasi sul settore privato come principale attore dell'economia verde.

L'Unione europea è riuscita a strappare il processo richiesto per la definizione dei nuovi obiettivi di «sviluppo sostenibile» che dopo il 2015 andranno a rimpiazzare i già limitati obiettivi di sviluppo del millennio, probabilmente non raggiungibili. Di nuovo, le questioni economiche e l'approccio differenziato Nord-Sud restano fuori da questo processo. Il programma delle Nazioni Unite sull'ambiente, dominato da visioni liberiste, sarà rinforzato, anche se non come pretendeva l'Ue prima del vertice. La menzione del diritto umano all'acqua per fortuna ha resistito, ma nella sezione sull'energia manca alcun impegno serio a tagliare i sussidi ai combustibili fossili.

Il Sud del mondo porta a casa qualcosa, ma non tutto quello avanzato nella sua proposta di compromesso per la sezione sui mezzi di attuazione degli impegni, ossia finanza e trasferimento di tecnologie. Sarà definita una strategia per finanziare lo sviluppo sostenibile in un processo intergovernativo alle Nazioni Unite, e almeno in questa sede si potrà discutere anche di questioni economiche. Ma non c'è nessun impegno sui fondi, se non l'invito alle solite e controverse istituzioni finanziarie internazionali a produrre risorse adeguate per i poveri. Gli impegni già presi e ormai vuoti sull'aiuto allo sviluppo sono ribaditi per far contenti i paesi africani, ma in pochi ci credono. E il trasferimento di tecnologie resta su base volonaria, una barzelletta se si pensa alle occasioni perse.

Da vedere ora chi oserà, anche tra i paesi del Sud del mondo, rompere le uova nel paniere al governo brasiliano nel giorno di apertura del vertice. Lo stesso fronte potrebbe finire per spaccarsi, come successo in altri casi nei negoziati sul clima. Alla fine è l'ennesimo fallimento, e in futuro sarà difficile riporre fiducia nei processi Nazioni Unite. Ma i movimenti mondiali prenderanno le strade di Flamengo oggi proprio quando Dilma avvierà il vertice ufficiale, rigettando l'economia verde delle élite globali e cercando altre strade per risolvere le crisi del pianeta e del capitalismo.

Dighe devastanti ma «pulite»

di Antonio Tticarico

Di fronte alla crisi energetica e ai cambiamenti climatici, nel dibattito sull'economia verde e sulla ripresa economica incoraggiata dalle grandi infrastrutture, le grandi dighe stanno ritrovando spazio sull'agenda di governi e settore privato. Il vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro non fa eccezione, anzi. Nonostante i devastanti impatti sociali e ambientali che hanno segnato la storia dei mega sbarramenti nel Novecento, l'idroelettrico viene sempre più promosso come energia «verde».

In Brasile più di un milione di persone ha dovuto lasciare le proprie case e terre per far spazio ai bacini delle dighe. Ben 24mila chilometri quadrati di terre sono state sommerse, 1.500 riserve naturali sacrificate, il 70 % degli impattati non ha ricevuto alcun risarcimento. Nel paese sono state costruite più di 615 mega dighe e 64 sono in costruzione. Negli ultimi anni il governo ha riaffermato la centralità dell'idroelettrico nella strategia energetica nazionale. Entro il 2020 sarà necessario trovare 45.000 megawatt aggiuntivi, che deriveranno in buona parte dalle dighe. Ma a differenza di quanto reclamizzato dalle istituzioni, alla fine l'idroelettrico non risulta così economico. Il Brasile è il quinto paese al mondo per le tariffe elettriche più elevate e 2,7 milioni di persone non hanno ancora accesso all'elettricità, soprattutto nelle aree dove sono state realizzate le dighe!

Dopo una lunga controversia legale, nel nord del paese è ormai in fase di costruzione la diga di Belo Monte, che sarà la terza più grande al mondo. Proprio questo mastodontico progetto è diventato il simbolo della resistenza del Mab, il movimento nazionale degli «impattati delle dighe», che oggi come membri attivi include più di 20mila famiglie. Non è un caso, visto che i grandi sbarramenti in Brasile sono sinonimo di violazione dei diritti umani: la stessa Commissione sulla biodiversità, promossa dall'allora presidente Lula, lo ha ammesso, evidenziando le paghe da fame de lavoratori.

La strategia del Mab è un'ispirazione per tutti i movimenti sociali. Per uscire dalla criminalizzazione della resistenza, il movimento ha puntato sulla strutturazione a livello locale per radicarsi così nella società brasiliana e promuovere un ampio dibattito su un nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.

Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché «l'acqua e l'energia non devono essere merci!».

nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.

Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché «l'acqua e l'energia non devono essere merci!».

Dighe devastanti ma «pulite»

RUBRICA - ANTONIO TRICARICO

Di fronte alla crisi energetica e ai cambiamenti climatici, nel dibattito sull'economia verde e sulla ripresa economica incoraggiata dalle grandi infrastrutture, le grandi dighe stanno ritrovando spazio sull'agenda di governi e settore privato. Il vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro non fa eccezione, anzi. Nonostante i devastanti impatti sociali e ambientali che hanno segnato la storia dei mega sbarramenti nel Novecento, l'idroelettrico viene sempre più promosso come energia «verde».

In Brasile più di un milione di persone ha dovuto lasciare le proprie case e terre per far spazio ai bacini delle dighe. Ben 24mila chilometri quadrati di terre sono state sommerse, 1.500 riserve naturali sacrificate, il 70 % degli impattati non ha ricevuto alcun risarcimento. Nel paese sono state costruite più di 615 mega dighe e 64 sono in costruzione. Negli ultimi anni il governo ha riaffermato la centralità dell'idroelettrico nella strategia energetica nazionale. Entro il 2020 sarà necessario trovare 45.000 megawatt aggiuntivi, che deriveranno in buona parte dalle dighe. Ma a differenza di quanto reclamizzato dalle istituzioni, alla fine l'idroelettrico non risulta così economico. Il Brasile è il quinto paese al mondo per le tariffe elettriche più elevate e 2,7 milioni di persone non hanno ancora accesso all'elettricità, soprattutto nelle aree dove sono state realizzate le dighe!

Dopo una lunga controversia legale, nel nord del paese è ormai in fase di costruzione la diga di Belo Monte, che sarà la terza più grande al mondo. Proprio questo mastodontico progetto è diventato il simbolo della resistenza del Mab, il movimento nazionale degli «impattati delle dighe», che oggi come membri attivi include più di 20mila famiglie. Non è un caso, visto che i grandi sbarramenti in Brasile sono sinonimo di violazione dei diritti umani: la stessa Commissione sulla biodiversità, promossa dall'allora presidente Lula, lo ha ammesso, evidenziando le paghe da fame de lavoratori.

La strategia del Mab è un'ispirazione per tutti i movimenti sociali. Per uscire dalla criminalizzazione della resistenza, il movimento ha puntato sulla strutturazione a livello locale per radicarsi così nella società brasiliana e promuovere un ampio dibattito su un nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.

Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché

Senza grandi divinazioni il futuro si può già vedere oggi. È sufficiente cambiare occhiali. Togliersi quelli della politica, che non ha mai fatto così tanta difficoltà a capire cosa succede. Ma via anche gli occhiali di quegli intellettuali immersi nel paradigma socio-economico che ci ha portato a una crisi generalizzata.

Cominciamo a scoprire che la necessità di cambiamento sta diventando un sentimento avvertito un po’ da tutti. Si registrano perfino improvvise "conversioni". Vediamo che c’è chi inizia a sostenere che un po’ di utopia forse fa bene alla salute e alla società. Siamo circondati da movimenti della società civile che riescono a imporsi: gli indignados, i tanti occupy, le piazze Nord-Africane, ma anche soltanto quelli che negli Usa hanno bloccato in un anno 166 nuove centrali a carbone. Oppure il Forum dei Movimenti per l’Acqua in Italia con i suoi referendum vittoriosi; i tanti comitati locali che, su altre tematiche, con passione ed energia fanno politica con il porta a porta, con la rete, e arrivano lontano.

Siamo sempre più d’accordo che il cambiamento serve e si comincia a intravedere, ma non ce ne siamo accorti fino a ieri, e tanti continuano a non capire. Per esempio se qualcuno dice che è necessario un "ritorno alla terra", una rivalutazione delle economie agricole, dei mestieri manuali e dell’artigianato, di sistemi produttivi e di consumo locali e sostenibili, viene immediatamente visto come un personaggio naif e fuori dal mondo. Ben che vada come una specie di guru che dice cose interessanti, ma pur sempre irrealizzabili. Invece è necessario cambiare occhiali, e allora si comincia a vedere. Si capisce che nel mondo tutto questo sta già avvenendo, da anni. Perché le buone pratiche che si possono mettere in atto riguardo al cibo, all’agricoltura, all’ambiente, agli antichi saperi che rimodernizzano i mestieri, sono tutte in essere in molte parti del Pianeta. Compresa la nostra Italia, che da questo punto di vista ha un serbatoio di memoria ed esempi virtuosi cui attingere senza pari. Molti giovani stanno distinguendosi, ma non soltanto loro. Più viaggio nel nostro Paese e più ne incontro: sensibilità per l’ambiente, nuovi progetti di vita partendo da tradizioni sopite o ritenute passate e marginali. Il segreto è semplice: se è vero che queste sono buone "pratiche", la gente allora può metterle in pratica. E i cittadini i cambiamenti li realizzano così: iniziando a fare. Chi, come quasi tutta la nostra politica, potrebbe semplicemente guardarsi attorno per capire cosa sta succedendo (e quindi come sarà il futuro), si rifiuta di farlo o è distratto da altro: indossa gli occhiali sbagliati. In questo momento la politica non intercetta chi sta cambiando il mondo a casa propria, non bisogna dunque escludere che è proprio da questi che nascerà la classe politica del futuro.

Il ritorno alla terra, foss’anche un diverso modo di fare la spesa, per coloro che vestono vecchi occhiali è utopico o "di nicchia". Ma sono sicuro che tante piccole realtà li travolgeranno, relegandoli, loro sì, in una nicchia dimenticata. Nessuno pensa - anche molti profeti del cambiamento - che queste persone stiano facendo vera economia. Ma oggi un pastore giovane riesce a fare più economia reale di tanti che vi sarebbero preposti, ve lo garantisco. «Finalmente la primavera sta arrivando», mi ha detto un entusiasta Ermanno Olmi una sera a margine di un convegno dedicato ai nuovi mestieri del cibo e dell’ambiente dove sono intervenuti tanti giovani già impegnati. Sottoscrivo in pieno, e gli altri si mettano il cuore in pace. La primavera sta arrivando: si può sentire, si può vedere.

Oggi di ambiente si parla ormai moltissimo: giornali, riviste, radio, tv, tutti sembrano ritenere doveroso offrire articoli, servizi, programmi riguardanti la materia, che solo raramente però sono tali da creare una consapevolezza adeguata alla sua complessità e crescente gravità. Quasi mai infatti ai affronta il problema nella sua interezza, come sarebbe necessario: per lo più limitandosi a singole tematiche, che possono riguardare la scarsità di carburanti, il doveroso rispetto dei boschi, l’acquisto di frutta e verdura non trattate chimicamente, che altro. Frammenti di “sapere ecologico” insomma, spesso proposti come decisivi, ma di fatto lontani dalla complessità del problema e dalla possibilità di crearne una consapevolezza adeguata. Tanto più che la logica economica dominante nel mondo, quella che dovunque ormai ne definisce e detta scelte e obiettivi, obbedisce all’indiscusso e onnipresente precetto capitalistico della “crescita”.

Precetto dalla grande maggioranza di fatto accettato, anzi “assimilato” senza discutere, forse senza nemmeno avere coscienza della sua rilevanza, e pertanto passivamente messo in opera, non di rado anche da parte di chi sarebbe professionalmente tenuto a criticarlo. Ricordo a questo proposito il grande e complesso edificio in cui, quattro anni fa, ebbe luogo il “summit” ambientale di Copenhagen: su tutte le pareti correvano scritte luminose, intese a testimoniare grande apprezzamento per le energie rinnovabili e l’”economia verde”; le quali venivano proposte in un entusiastico crescendo di slogan quali “green production”, “green market”, “green trade”, “green business”, “green affairs”, “green economy”, “green affluence“, “green growth”… Auspici di fatto lontanissimi da quella rimessa in causa dell’intero sistema economico dominante che, sola, potrebbe riportare in salute l’equilibrio ecologico del mondo; e di fronte ai quali il fior-fiore dell’ ambientalismo istituzionale del mondo, presente al convegno, non dava segni di avvertire contraddizione alcuna…

Di fatto ancora oggi questo accade, e sempre più diffusamente. Anche tra i tanti sinceramente volonterosi di salvare il mondo dal rischio ambientale, spesso (forse in un tentativo di autodifesa dalla tremenda magnitudine della questione) si verifica la tendenza a prestar fede a una delle tante terapie proposte, isolandola e magnificandola come “la soluzione”: e tra queste le energie rinnovabili, capaci (con insistenza si afferma) di alimentare l’attività di grandi industrie senza inquinare, o inquinando poco, si propongono come una soluzione oltremodo seducente.

Molti infatti se ne lasciano sedurre, e si entusiasmano dei risultati del loro lavoro, spesso però senza considerare che, certo, le energie rinnovabili (quale più, quale meno) sono in grado di alimentare anche potenti attività produttive senza inquinare, o inquinando limitatamente, l’ambiente circostante; e però hanno inquinato non poco, spesso anzi assai, nell’essere prodotte. Le pale dell’eolico, gli specchi del solare, le strutture di trasporto dell’energia prodotta, ecc., sono tutte cose che, prima di entrare in funzione, debbono essere fabbricate, trasportate, impiantate in un complesso “indotto”…, mediante tutta una serie di attività diverse, ognuna delle quali, inevitabilmente, poco o tanto ha inquinato… Di tutto ciò nessuno fa cenno. Eppure sono fatti che tutti conoscono, su cui sarebbe doveroso riflettere. Perché sempre, poco o tanto, “produrre inquina”: lo si leggeva qualche tempo fa anche su “La Repubblica”, in un articolo firmato da Paul Krugman, che non è un “verde”, ma un economista con tanto di Nobel.

Il fatto è che le battaglie meritoriamente portate avanti da tutti i “Verdi” (utilissime, anzi necessarie, anche quando si limitano alla difesa di un bosco o di un solo albero) per operare in modo davvero utile non dovrebbero perdere di vista il problema nella sua interezza; non dovrebbero cioè prescindere dal fatto che tutto quanto vediamo, tocchiamo, compriamo, usiamo nei modi più diversi (un abito, un mobile, un grattacielo, un’automobile, un cellulare, un computer, un’astronave…) tutto è “fatto” di natura, minerale, vegetale, animale: cioè di frammenti del pianeta Terra, su cui e di cui viviamo. D’altro non disponiamo.

Ma il pianeta Terra, per quanto grande, è una “quantità” data, non dilatabile secondo i nostri bisogni o sogni, e nemmeno secondo le regole dettate da un sistema economico, per quanto potente e - di fatto - indiscusso, come è oggi il capitalismo. La Terra non è pertanto in grado né di alimentare una crescita produttiva illimitata, quale ossessivamente l’economia persegue e invoca, né di neutralizzare i rifiuti - solidi, liquidi, gassosi - che poco o tanto da ogni produzione derivano. Sono cose che, certo, ogni ambientalista serio conosce, ma che non tutti sanno, e che anche non pochi ambientalisti di tutto rispetto sovente “rimuovono”, quando lavorano alla possibile soluzione di singoli problemi, di per sé estremamente complessi.

Questo d’altronde era il tema portante del primo libro ambientalista che ha fatto epoca a partire dai primi anni Settanta: “Limits to growth”, firmato dai coniugi Meadows dell’MIT, in Italia sponsorizzato e lanciato dal Club di Roma; opera centrata appunto su quella che dovrebbe essere una verità non solo indiscutibile ma ovvia (d’altronde affermata e gridata da tutti i “grandi” dell’ambientalismo, a partire da Georgescu Roegen) secondo cui i limiti quantitativi del pianeta Terra dovrebbero appunto indicare, e imporre, limiti precisi e non valicabili all’operare di ciascuno e dell’umanità tutta. Nell’edizione italiana il titolo è diventato “I limiti dello sviluppo”; e il dubbio che la modifica non sia stata casuale è inevitabile, se appena ci si volta indietro a ripensare questi ultimi quarant’anni.

Ora il libro verrà ristampato. Recuperarlo e leggerlo, per i giovani in vario modo impegnati nella difesa del pericolante equilibrio in cui viviamo, potrebbe essere il migliore ausilio per una corretta e completa lettura del problema, e per la messa a fuoco di una politica davvero utile.

Sono nato in una terra di contadini. Ed è anche per questo che è un onore, per me che da sempre difendo la biodiversità, prendere la parola oggi al Forum dell’Onu sulle questioni indigene. Credo infatti che fra chi ama la Terra e le popolazioni indigene si debba stringere un’alleanza. Sono convinto che questi popoli sono stati, sono e soprattutto saranno da stimolo per costruire un futuro migliore che non può che partire dalla terra, dal suo rispetto, e dalla salvaguardia della biodiversità. Perché per troppi anni abbiamo calpestato il diritto al cibo e alla sussistenza di molte comunità indigene e di allevatori rincorrendo un progresso miope. L’analisi della realtà ci dice che molte buone pratiche e il sapere empirico tradizionale dei popoli indigeni meritano di essere studiati con attenzione per il bene della nostra Madre Terra. Per questo voglio anticipare ai lettori di Repubblica le parole che leggerò. Eccole.

Lavorare per la salvaguardia della biodiversità in campo agricolo e alimentare come strumento per garantire un futuro al nostro pianeta e all’umanità intera è importante.

La perdita progressiva della diversità di specie vegetali e razze animali può rappresentare, insieme al cambiamento climatico, il più grave flagello per gli anni a venire. Occorre tuttavia precisare che difendere la biodiversità senza tutelare la diversità delle culture dei popoli e il loro diritto di governare sui propri territori è un’impresa insensata. Tale diversità è la più grande forza creatrice della Terra, è l’unica condizione per mantenere e trasmettere un patrimonio straordinario di conoscenze alle generazioni future. Su questi principi Slow Food ha basato la propria esistenza e per mantenere questi principi ha realizzato nel 2004 Terra Madre, una rete di comunità del cibo che si è propagata in oltre 170 Paesi. Terra Madre non è un partito e nemmeno un sindacato, è semplicemente una rete, un movimento di persone che, nel rispetto delle proprie diversità, cercano il dialogo, lo scambio culturale, la solidarietà. Il diritto al cibo sta al centro di tutto. Il cibo, per essere condiviso, deve essere buono per il piacere di tutti; pulito perché non distrugge l’ambiente e le risorse della Terra; giusto perché rispetta i lavoratori, procurando il nostro sostentamento, garantiscono la vita della comunità terrestre. Tutti i popoli devono avere accesso al cibo buono, pulito e giusto. Tutti i popoli devono avere cibo adeguato che provenga dalle proprie risorse naturali o dai mercati da loro scelti. Tutti i popoli, nel produrre il proprio cibo, hanno il diritto di mantenere le loro pratiche tradizionali e la propria cultura.

Su questi principi e su queste basi molte comunità indigene di tutti i continenti hanno animato la rete di Terra Madre e hanno partecipato attivamente alle conferenze globali che dal 2004 si svolgono ogni due anni a Torino. Nell’ultima la cerimonia di apertura fu consacrata alle riflessioni delle comunità indigene espresse nelle loro lingue ancestrali. Da allora molte iniziative si sono attivate. Nel 2011 si è tenuta "Terra Madre Indigenous People" a Jokmokk, nel nord della Svezia, terra delle popolazioni Sami. Il congresso ha visto la partecipazione di indigeni provenienti da 61 Nazioni. Questi incontri generano autostima tra i partecipanti. Si avverte forte il senso di appartenere a una grande comunità di destino, di non essere soli nei propri territori, di avere un ruolo importante e costruttivo. Questa consapevolezza è stata rafforzata ed esaltata nel 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, con la Dichiarazione dei Diritti delle Popolazioni Indigene, ha affermato con chiarezza il contributo straordinario alla diversità e alla ricchezza della civiltà.

Slow Food non solo condivide questi principi ma ritiene che, in questo particolare momento storico caratterizzato da una crisi economica, ecologica e finanziaria, mettere a valore la diversità culturale del pianeta possa contribuire a innescare pratiche virtuose e sostenibili. Il benessere umano passa attraverso il diritto universale a un cibo di qualità per tutti. Obesità e fame, che dilagano nel mondo, sono i due volti di una stessa medaglia, sono il simbolo del fallimento di un sistema alimentare globale basato principalmente su una produzione industriale che dipende in massima parte dalle risorse energetiche fossili. Mai come in questo momento si avverte l’esigenza di cambiare alla radice questo sistema. Saper guardare indietro alle nostre tradizioni e a sistemi alimentari più sostenibili non è stupida nostalgia. La reintroduzione di produzioni alimentari locali è la risposta per nutrire il pianeta, è l’attivazione della vera democrazia, la partecipazione di tutti per il bene comune.

Per troppo tempo la produzione del cibo ha voluto estromettere o limitare i saperi delle donne, degli anziani e degli indigeni, relegandoli al fondo della scala sociale. L’umanità ha coltivato un’idea di sviluppo e di progresso basata sulla convinzione che le risorse del pianeta fossero infinite. Oggi la "gloriosa marcia" del progresso è arrivata sull’orlo del baratro e la crisi è figlia dell’avidità e dell’ignoranza. Ma il monito della Natura è ben più grave della crisi finanziaria, esso ci chiama a riflettere su un destino tragico per l’esistenza stessa dell’umanità, se non si cambiano marcia e percorso. Sarà giocoforza ritornare sui nostri passi, ecco allora che gli "ultimi" saranno quelli che indicheranno la strada giusta. Avremo bisogno della sensibilità delle donne e del loro pragmatismo, della saggezza degli anziani e della loro memoria, ci accorgeremo che i popoli indigeni hanno la chiave per un approccio più sostenibile al Diritto al cibo, perché da sempre praticano l’economia della natura.

Ma attenzione: dovrà essere evidente a tutti quanto male è stato procurato a questi soggetti nel nome del progresso e della supremazia del mercato. Quanti saperi, conoscenze e prodotti della Terra sono stati piratescamente derubati alle comunità indigene da multinazionali farmaceutiche e alimentari. Prima di rimetterci in marcia occorre restituire il maltolto, occorre impedire qualsiasi logica di agricoltura industriale insostenibile nelle aree indigene. Tutti abbiamo bisogno di rispettare e valorizzare l’economia della Natura e della sussistenza, per troppo tempo considerata inferiore all’economia della finanza globale.

Cresce nel mondo la consapevolezza che rafforzare l’economia locale, l’agricoltura locale e il rispetto delle piccole comunità sia una giusta pratica per riconciliarci con la Terra e la Natura. Mancanza d’acqua, perdita di fertilità dei suoli, erosione genetica di piante e animali, spreco di alimenti mai visto nella storia dell’umanità, sono problemi che, se si continua a produrre, a distribuire e a consumare il cibo con questo sistema alimentare, resteranno senza soluzione. In campo agricolo la nuova disciplina dell’agroecologia altro non è che la capacità di riproporre in chiave moderna il dialogo tra i saperi tradizionali e la comunità scientifica. Non sarebbe onesto non riconoscere che i popoli indigeni hanno un approccio alla produzione del cibo che è storicamente sostenibile. Sanno mantenere la fertilità dei suoli utilizzando risorse e metodi naturali, rafforzando la resilienza delle colture e degli allevamenti. La politica di molti governi e agenzie di sviluppo di contrapporsi e minacciare le pratiche agricole dei popoli indigeni, come la rotazione delle coltivazioni e la pastorizia, è una politica miope e sbagliata.

Slow Food condivide la sfida di questo Forum Permanente delle Nazioni Unite nel difendere le pratiche indigene che in molte parti del mondo operano per il mantenimento della coltura itinerante. Non è giusto appropriarsi dei beni comuni della Terra, ma come dicevano i Nativi Americani: «Insegna ai tuoi figli che la Terra è nostra madre, tutto ciò che accade alla Terra, accadrà ai figli della Terra. Se gli uomini sputano in terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la Terra non appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla Terra. La Terra vale più del denaro e durerà per sempre».

Anche se in questo momento, in molte parti del mondo, gli arroganti prevalgono sugli umili; anche se le alte gerarchie del sapere e della politica non lasciano spazio ai contadini, ai pastori, ai pescatori e alla parte più sensibile di essi: le donne, gli anziani e gli indigeni; malgrado ciò siamo sempre più coscienti che riconciliarci con la Terra è l’unico modo per uscire dalla crisi. Le buone pratiche della lotta allo spreco, della condivisione e del dono, del ritorno alla Terra si realizzano con lentezza, senza frenesia e ansia. Tutta l’umanità è in debito con i popoli indigeni che hanno saputo nella pratica quotidiana mantenere questi principi, insegnando ai figli che tutte le cose sono collegate tra loro e che prenderci cura di tutte le creature è il dono più grande che ci è stato fatto.

Ieri, 15 marzo, ricorreva la giornata europea del consumo e non sembra che sui media la notizia abbia avuto il giusto rilievo, soprattutto per quanto riguarda la necessità di riflessione e di azione che tutti dovremmo avvertire rispetto ad un tema che è sempre più cruciale e strategico nella riflessione sulle prospettive del nostro futuro.

Infatti, la domanda semplice e banale che la politica, l'economia, la diplomazia internazionale, il mondo delle imprese, l'intera società civile ecc. dovrebbe porsi in maniera chiara è: ma è possibile andare avanti così? E' possibile continuare a perseguire modelli di consumo e di impatto sugli stock ed i flussi di materia ed energia sempre crescenti? E' possibile credere che il modello economico che abbiamo scelto per le nostre società, basato su di una crescita continua del consumo di risorse, possa continuare ancora? Queste sono anche le domande cruciali alle quali dovrebbe fornire risposte esaurienti e di forte indirizzo per il cambiamento di rotta che si fa sempre più evidente e necessario, la grande Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile che avrà luogo a Rio de Janeiro nel giugno prossimo (www.uncsd2012.org) .

A Copenhagen, in occasione della giornata europea del consumo, l'Agenzia Europea per l'Ambiente (European Environment Agency www.eea.europa.eu ) ha organizzato, insieme all'European Economic and Social Committee un seminario sul tema "Sustainable Consumption in a Time of Crisis".

E' di tutta evidenza che la situazione complessiva che moltissime società umane stanno attraversando dal 2008 (anno di avvio di questa profonda crisi economica e finanziaria internazionale) ad oggi può stimolare una significativa riflessione su come avviare percorsi di consumo sostenibile, riuscendo a dare così risposte concrete alla crisi stessa. La necessità quindi di avviare finalmente una decisa inversione verso un consumo responsabile, consapevole, equo e sostenibile, non è più una scelta opzionale ma assume i caratteri di una scelta obbligata. Non è un caso che la notizia sul sito dell'EEA sia titolata "Unsustainable consumption - the mother of all environmental issues ?" (il consumo insostenibile, la madre di tutti i problemi ambientali?).

Il consumo di prodotti e servizi esercita impatti in diversi modi sui sistemi naturali. L'incremento planetario del fenomeno del sovraconsumo vede negli ultimi anni fasce significative delle popolazioni di diversi paesi, definiti ormai i New Consumers (dalla Cina all'India, dalla Malesia all'Indonesia, dal Brasile al Sud Africa ecc.) che stanno raggiungendo livelli di consumismo simili a quelli dei paesi ricchi, con il risultato di un impatto complessivo sui sistemi naturali divenuto ormai totalmente insostenibile.

Infatti le nostre modalità di scelta e di acquisto dei prodotti contribuiscono direttamente o indirettamente a pesare sul cambiamento climatico, sull'inquinamento di aria, acqua e suolo, sulla perdita complessiva di biodiversità, sulla modificazione degli ecosistemi terrestri e marini e sulla continua riduzione delle risorse in tutto il mondo.

Il fatto che si possa continuare con gli attuali pattern di consumo non può più essere considerata un opzione praticabile, come è stato chiaramente ed ulteriormente ribadito dal seminario dell'EEA a Copenhagen. E' necessario ed urgente esplorare nuovi modelli di consumo che non compromettano i bisogni delle future generazioni ed ovviamente non continuino a distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali. Il meeting di Copenhagen ha sottolineato quanto la situazione di grave recessione presente in Europa possa stimolare ad accelerare la decisa transizione verso nuove e diffuse modalità di consumo sostenibile basate anche sull'avvio e il rafforzamento di una nuova impostazione economica, definita in maniera molto mediatica Green Economy che costituisce uno dei temi prioritari oggetto della Conferenza Rio+20 prevista nel prossimo giugno.

Un cittadino europeo consuma almeno quattro volte più risorse di un cittadino medio in Africa e tre volte di più i quelle di un cittadino asiatico ma ne consuma la metà di quelle consumate da un cittadino statunitense, canadese o australiano. Ormai, come abbiamo più volte considerato nella pagine di questa rubrica, la conoscenza scientifica ci ha permesso di disporre di numerosi dati significativi da questo punto di vista (ricordo, per tutte, la bella ed agile pubblicazione del Sustainable Europe Research Institute (SERI) uno dei più autorevoli think-tank sulla sostenibilità a livello europeo ed internazionale, realizzata nel 2009, insieme ai Friends of the Earth, dal titolo "Overconsumption? Our use of the world's natural resources" (scaricabile dal sito http://old.seri.at/documentupload/SERI%20PR/overconsumption--2009.pdf) e l'iniziativa di ricerca internazionale sempre coordinata dal SERI che ci ha permesso di ottenere un calcolo dei flussi di materia dal 1980 ad oggi, sia a livello mondiale che per ogni nazione, vedasi www.materialflows.net ) .

L'utilizzo delle risorse naturali in Europa è in crescita: nel 2007 l'uso di risorse era di 8.2 miliardi di tonnellate delle quali più della metà riguardava minerali e metalli mentre i combustibili fossili e le biomasse erano approssimativamente un quarto ciascuno. Ogni cittadino europeo utilizzava risorse per 17 tonnellate l'anno.

Secondo i sondaggi sin qui svolti a livello europeo, ricordati dall'EEA, l'87% dei cittadini europei ritiene che l'Europa dovrebbe utilizzare in maniera molto più efficiente le risorse naturali, ed il 41% pensa che produce troppi rifiuti.

Gli europei utilizzano più spazio per vivere; la media dello spazio necessario per le loro abitazioni si è incrementato di almeno 6 metri quadrati dal 1990 ad oggi mentre il numero medio di abitanti per appartamento è sceso da 2.8 a 2.4.

Per quanto riguarda i rifiuti gli attuali livelli di consumo comportano una media di rifiuti solidi urbani prodotti da ogni cittadino europeo che, nel 2008, era di 444 kg e che, indirettamente generavano almeno 5.2 tonnellate di rifiuti nell'economia europea. Si tratta di dati nell'ambito dell'Unione Europea perché non si dispongono di molti dati sui rifiuti derivanti dalla produzione di prodotti e materiali importati dalle altre regioni. I dati mondiali che circolano sulla produzione di rifiuti sono abbastanza generici: il ponderoso rapporto del Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) sulla Green Economy ("Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication" pubblicato nel novembre 2011 vedasi http://www.grida.no/publications/green-economy/ ) nel capitolo rifiuti ricorda che la produzione mondiale di rifiuti derivanti dalle aree urbane e dall'industria si aggirano, ogni anno, tra i 3.4 ed i 4 miliardi di tonnellate, dei quali rifiuti industriali non pericolosi sono intorno a 1.2 miliardi, mentre i rifiuti solidi urbani sono tra 1.7 ed i 1.9 miliardi di tonnellate.

Tornando all'Europa si stimano in 89 milioni di tonnellate il cibo che viene buttato via ogni anno nelle case, nei ristoranti, nei negozi, lungo le filiere produttive, una media di circa 180 kg per cittadino europeo. Nel solo Regno Unito il 25% del cibo acquistato viene poi buttato.

Insomma il consumo, il sovraconsumo, sta divenendo sempre di più un problema centrale per il nostro futuro: moltissimi problemi legati a quanto già oggi minaccia la sopravvivenza del genere umano sono legati all'incremento del consumo di energia, di acqua e di materie prime, all'aumentata produzione dei rifiuti, degli scarti e alle emissioni ed all'incremento delle trasformazioni, da noi indotte, sui suoli e gli ecosistemi di tutto il mondo.

Il primo marzo scorso sono passati 40 anni dalla presentazione de I limiti dello sviluppo. Anche se negli Stati Uniti, a Washington, vi è stata una celebrazione ufficiale e negli altri Paesi occidentali alcuni giornali hanno pubblicato articoli rievocativi e commenti, la ricorrenza è passata in un generale inquietante silenzio dei media e in una scarsissima attenzione persino della rete e dei social networks.

I limiti dello sviluppo, ma sarebbe meglio usare la traduzione letterale del titolo originale: “I limiti della crescita” (Limits to growth, in inglese), è frutto di un lavoro di ricerca sul futuro del pianeta commissionato e poi presentato dal Club di Roma (dal luogo in cui si riunì per la prima volta nel 1968) e realizzato da un gruppo di ricercatori del Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston. Aurelio Peccei, un imprenditore “illuminato” italiano, Alexander King uno scienziato scozzese consulente di diverse agenzie governative, Elisabeth Mann Borgese intellettuale tedesca figlia dello scrittore Thomas Mann, erano stati fondatori del Club assieme ad un nutrito gruppo di premi Nobel, intellettuali e leader politici e ne erano i più noti rappresentanti.

Il gruppo di ricerca del MIT era coordinato da Donella Meadows, chimica e biofisica. Per la realizzazione del rapporto i ricercatori misero a punto un modello interamente computerizzato in grado di elaborare grandi quantità di dati per produrre scenari che consentissero di prevedere a quale futuro andavano incontro l'umanità e il pianeta. Per inciso, quel modello (World 3) che accrebbe ulteriormente il prestigio scientifico, già alto, del MIT, è arrivato fino ai giorni nostri ed è stato impiegato con poche successive modifiche per produrre aggiornamenti degli scenari originali a distanza di uno, due, tre decenni.

Il modello fu costruito sulla base del concetto, oggi acquisito ma allora non così scontato, di fare interagire tra loro i i diversi “sistemi” di riferimento utilizzati per rappresentare la realtà e la sua dinamica temporale: il sistema “agricolo e della produzione di cibo”; il sistema “industriale”, il sistema “popolazione”, il sistema “risorse non rinnovabili”, il sistema “inquinamento”.

Il “limite” nel titolo del rapporto sintetizzava molto efficacemente le conclusioni della ricerca in cui, detto molto in breve, si sosteneva che, senza modificazioni drastiche all'esistente dinamica (reference run() demografica, industriale, agricola, di sfruttamento delle risorse, di inquinamento, la crescita economica avrebbe incontrato, o per meglio dire generato, un rapido declino entro i cento anni (lo scenario temporale prescelto) successivi, manifestandosi sensibilmente a partire dal 2015-2030.

Il grafico dello scenario “reference run” de “I limiti dello sviluppo”.

Gli autori, tuttavia, comparando i diversi scenari, sostenevano che un'alternativa a tale esito era possibile, modificando profondamente il “modello di sviluppo” per renderlo più “sostenibile” (diremmo oggi) ambientalmente e socialmente. Devono essere proprio queste “fosche” previsioni sulla crescita che, al tempo d'oggi in cui la parola è evocata da ogni parte con identici accenti di venerazione e desiderio passionale, ha fatto sì che l'anniversario sia passato per molti sotto silenzio.

Del resto anche nel 1972 il Rapporto non incontrò che un favore limitato. Da un lato veniva criticata la fonte del Rapporto: il Club di Roma, una élite aristocratica per alcuni, un intreccio sospetto fra scienza e politica sotto l'ombrello di Associazioni semisegrete come la Massoneria per altri. Dall'altro si tentava di screditarlo come scenario apocalittico più vicino ad un romanzo di Asimov (lo scrittore di fantascienza in gran voga al tempo) che come serio e fondato prodotto scientifico. Infine le sue conclusioni parevano, ad alcuni, o conveniva loro considerarle, un cedimento alla “controcoltura” che da un quindicennio stava percorrendo tutto il mondo occidentale.

Già dalla fine degli anni '50, infatti, maturava in America, sulla scia della Beat Generation, la cultura Hippie. Gli Hippies, più che un “movimento” formavano (anche questo è un tratto che li rende attuali) una “comunità” tenuta insieme da valori che ogni individuo sentiva propri e praticava nella sua esistenza. Oltre ad uno spiritualismo mistico di origine orientale, forte era il rifiuto dell'industrialismo e delle convenzioni fondato sull'insegnamento e l'esempio di Henry David Thoreau e di San Francesco che portava gli Hippies a praticare un ecologismo anarchico di profonda matrice etica sostanziato in modelli di vita naturisti e comunitari, liberi costumi sessuali, pacifismo, alimentazione sana (biologica) e vegetariana, rispetto della terra e della natura. Molti di questi valori influenzarono profondamente i movimenti studenteschi dei college e delle università americane e poi anche parte di quelli europei culminati nel '68.

Esattamente dieci anni prima del 1972, Rachel Carson una biologa marina e scrittrice (aveva già pubblicato nel 1951 un libro di successo: (Il mare intorno a noi() diede alle stampe “Primavera silenziosa” nel quale, sulla base di evidenze scientifiche ed epidemiologiche, raccolte in un lungo lavoro di preparazione, si denunciava la morte di ogni forma di vita nelle campagne e di lì nei fiumi, nei laghi e fino al mare, provocata dai pesticidi e in special modo dal DDT (para dicloro difenil tricloroetano), utilizzati indiscriminatamente e fuori di ogni controllo per le colture agricole. Si evidenziava quale incombente minaccia la presenza di tali composti chimici persistenti nella catena alimentare esercitasse sulla salute umana. La Carson fu minacciata e derisa in campagne di discredito scientifico (definita una birdwatcher dilettante) e umano (accusata di isteria) orchestrate dalle potenti lobbies chimiche, agricole e anche accademiche americane, ma il libro diventò un best seller non solo negli Stati Uniti e influenzò profondamente l'opinione pubblica americana e mondiale.

Un decennio, gli anni '60, in cui la riflessione sulle conseguenze di un modello di produzione e consumo portò tra le altre cose a nuove consapevolezze sul rapporto fra l'uomo e la natura sulle quali è largamente fondata l'attuale, seppure ancora poco diffusa, cultura scientifica ed etica dell'ambiente. Un decennio in cui maturano studi come, appunto, “I limiti dello sviluppo”, ma anche positive reazioni istituzionali come la costituzione (1970) della prima agenzia per la protezione dell'ambiente: l'Environmental Protection Agency(EPA) americana o la prima presa di posizione strutturata di un organismo politico: l'ONU con la “Conferenza” e la “Dichiarazione di Stoccolma sull'ambiente umano”, nel Giugno dello stesso 1972. Documento nel quale si pongono le basi dei diritti della natura, dei diritti dell'uomo ad un ambiente sano, dei doveri dei popoli e delle istituzioni per la conservazione del patrimonio naturale per il benessere proprio e delle future generazioni.

Quattro decenni dopo molte conoscenze sono evolute: basti pensare alla sistematizzazione del tema dei servizi ecosistemici e della biodiversità; molte nuove regole sono state introdotte per salvaguardare l'ambiente: il DDT è scomparso per divieto dalle colture agricole del primo mondo (ma non ancora da quelle dei paesi sottosviluppati); i diritti della natura sono stati scritti in convenzioni internazionali e persino in alcune costituzioni, etc. Cambiamenti che, però, non hanno sovvertito le dinamiche previste nel rapporto del Club di Roma.

Uno studio del 2008 di un ricercatore australiano G. Turner del CSIRO (istituto di ricerca per il Commonwealth) e un recentissimo lavoro pubblicato nel Gennaio di quest'anno su (New Scientist( e dovuto a D. McKenzie (solo per citare i lavori più recenti) convengono in buona sostanza sul fatto che lungi dall'avere fallito sia sul piano degli assunti (come molti pretendevano) che su quello delle previsioni, “I Limiti” si è rivelato capace di ritrarre con grandissima approssimazione il divenire della realtà da quarant'anni a questa parte. Basta peraltro osservare con attenzione il grafico originale delle curve che rappresentano i “servizi pro capite” o le “risorse alimentari pro capite”, l'”inquinamento” o la “produzione industriale” per capire che quelle drammatiche inversioni o cadute libere delle curve parlano di noi e di oggi. Di quanto servizi essenziali come la scuola, la sanità, l'assistenza ad anziani e disabili siano ogni giorno ridotti; di quanto l'aria delle città sia dannosa per la salute; di quanto la biodiversità, base di ogni servizio che l'ecosistema fornisce all'umanità sia sempre più compromessa (si vedano i recenti rapporti EU e UNEP); di quanto, ogni anno sempre più precocemente, venga superata la per uno sfruttamento eccessivo delle risorse la “biocapacità” del pianeta cioè la sua capacità di ricostituirle, come ci dice l'elaborazione dell'”impronta ecologica” il più accreditato indicatore di sostenibilità. La crescita, così come intesa dal modello di sviluppo esistente nel 1972 e con poche modifiche, molte delle quali peggiorative (si pensi alla finanziarizzazione senza regole dell'economia), anche oggi, è finita. Persino illustri economisti (Sen, Myrdal, Fitoussi) sostengono che l'identità del PIL (il Prodotto Interno Lordo, l'indicatore moloch della crescita) con la misura del benessere è sempre più falsa.

Che sia proprio la crescita, il problema? e non come preteso da molti-Monti la sua soluzione? Molti dati reali inducono a pensarlo. La semplice affermazione che anche nei paesi ricchi, una crescita, seppure bassa, sia nel tempo sostenibile usando meglio le risorse naturali o sostituendo sempre più le non-rinnovabili con le rinnovabili (la sostanza della Green Economy) non è per nulla convincente. Senza scomodare il secondo principio della termodinamica che ne svelerebbe l'inconsistenza teorica, va notato che nelle politiche di “sviluppo e crescita” che ci si appresta a varare, nel nostro o negli altri paesi, al massimo in modo marginale è presente il tema dei limiti o degli effetti che quelle politiche sono destinate ad avere sulle risorse, sulla natura, sui servizi ecosistemici e in definitiva sul benessere delle persone e della società (devo sottolineare l'attualità di tale aspetto relativamente alla questione della TAV?).

«Una crisi di crescita come quella che viviamo presuppone un approccio sviluppista». Non ci gira certo intorno Guido Gentili, in prima pagina sul Sole24Ore, per indicare la via da seguire da parte del governo. Ed è francamente preoccupante che nel 2012 si possa ancora parlare di "sviluppismo" dimenticando i danni che ha prodotto fino ad oggi.

La tesi di Gentili ruota attorno alla lettera sulla crescita e le liberalizzazioni inviata al Consiglio e alla Commissione Ue da dodici Governi europei e che non è stata firmata da Germania e Francia. Iniziativa voluta da David Cameron, Mark Rutte e dal nostro Mario Monti, secondo l'editoriale del Sole «punta a una svolta modernizzatrice: apertura del mercato interno dei servizi, abbattimento delle restrizioni anticompetitive, creazione di un mercato unico digitale entro il 2015 e di un mercato efficiente e interconnesso nel settore energia entro il 2014, compresa l'eliminazione degli ostacoli, normativi e procedurali, che rallentano gli investimenti nelle infrastrutture».

In concreto bisognerebbe puntare «sugli investimenti indispensabili per un Paese in deficit di modernità. Ci sono cose, opere (compiute e incompiute) che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Sono le reti visibili, a volte anche troppo perché lo spettacolo è pessimo in tutti i sensi. Parliamo di autostrade, ferrovie, porti, aeroporti che hanno bisogno di investimenti per offrire un servizio migliore e a costi migliori. Parliamo dei rigassificatori visibili, sì, ma solo su carta mentre da anni si discute di vulnerabilità dell'assetto energetico (...). Ci sono poi le reti meno visibili o invisibili. Telecomunicazioni, banda larga ed ultralarga, insomma l'economia dell'innovazione digitale che dalla pubblica amministrazione ai nuovi media "attraversa" gli interessi dei cittadini e delle imprese».

Insomma, di tutto un po'. E la domanda nasce spontanea: se la spesa dello Stato è risicata per non dire ridotta a zero, come è possibile chiedere investimenti a tappeto? Dentro una logica - che peraltro noi non sposiamo neppure - di rigore dei conti, la crescita (sarebbe meglio dire lo sviluppo) un governo deve ottenerla secondo quello che crede essere il migliore modo possibile. Quindi scegliere su cosa investire: e se lo fai puntando sulle reti digitali, per restare nell'esempio, avrai meno soldi per il resto e dovrai ulteriormente scegliere. E lo farai secondo una logica di sostenibilità, altro che approccio "sviluppista".

Sembra davvero un approccio totalmente ideologico e fuori contesto, che arriva tra l'altro nel giorno in cui meritoriamente il Wwf riporta l'economia con i piedi per terra attraverso il nuovo studio ‘Market Transformation - Sostenibilità e mercati delle risorse primarie', realizzato dall'associazione ambientalista e dal Sustainable Europe Research Institute (Seri). Mentre si discute infatti di come risolvere la crisi finanziaria e far ripartire la crescita quale che sia, come se niente fosse accaduto negli ultimi tre anni e mezzo e la crisi ecologica fosse un intralcio allo sviluppo, qualcuno si è preso la briga di analizzare la pressione esercitata dai mercati globali sulle risorse naturali, con un focus specifico su quattro "commodities" prioritarie per il mercato italiano (caffè, cotone, carta e olio di palma).

Bene, ecco i risultati: quasi 8 miliardi di metri cubi di acqua utilizzati, oltre 34 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti emesse in atmosfera, 8,5 milioni di ettari di terra sottratti ad agricoltura e biodiversità, più di 20 milioni di tonnellate di materiali ‘biotici' (ovvero la biomassa coltivata) prelevati dagli ecosistemi, 38 milioni di tonnellate di materiali ‘abiotici' (come sedimenti, rocce, minerali) erosi. Un totale che vale mezza tonnellata di risorse all'anno prelevate in natura per ogni cittadino italiano. È il peso del ‘fardello ecologico' che ‘trascinano' con sé le importazioni italiane di caffè (470mila tonnellate in un anno), carta e pasta di carta (7,6 milioni t), cotone (670mila t) e olio di palma (720mila t): quattro risorse naturali collegate a settori industriali strategici del mercato italiano, quali il tessile, l'alimentare e il cartario, il cui prelievo in natura e relativa filiera produttiva hanno un forte impatto sull'ambiente, e di cui i protagonisti del mercato, a partire dalle imprese, devono assumersi la responsabilità. E stiamo parlando di solo quattro commodity...

«L'umanità ha superato i 7 miliardi di abitanti e ricava risorse naturali dalla terra per oltre 60 miliardi di tonnellate l'anno (erano 40 nel 1980, saranno 100 miliardi entro il 2030 se continuiamo su questa strada), un peso ecologico totalmente insostenibile per il futuro - ha detto Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia e editorialista di greenreport.it. Più che mai in una situazione di crisi economico-finanziaria che dura ormai da anni, dobbiamo dare la massima centralità al capitale naturale, alla sua cura, al suo ripristino, perché senza di esso l'intera economia mondiale non ha futuro. La Conferenza di Rio+20 sarà un momento molto importante, ed è fondamentale che istituzioni, consumatori e soprattutto imprese, dalle grandi multinazionali alle piccole e medie imprese dei nostri distretti industriali, si assumano la responsabilità di trasformare i mercati e condurli a modelli meno insostenibili, sviluppando una produzione di qualità anche sotto il profilo ambientale».

Per ridurre il proprio ‘fardello ecologico' il Wwf ha elaborato una serie di proposte specifiche rivolte a imprese, istituzioni e cittadini. Alle imprese chiede ad esempio di: svolgere un'analisi delle politiche di approvvigionamento delle materie prime, valutando i rischi ambientali e sociali connessi alla catena di fornitura e identificando le aree di miglioramento; avviare piani per la riduzione degli input di materie prime ed energia nella produzione di beni e servizi; formulare strategie di indirizzo della politica di approvvigionamento che prevedano l'adesione a standard di sostenibilità e schemi di certificazione internazionalmente riconosciuti (es. FSC) e, ove possibile, la riduzione della domanda di risorse; mentre alle istituzioni finanziarie chiede di sviluppare politiche finanziarie e strumenti per la valutazione del rischio ambientale connesso a un approvvigionamento non sostenibile di risorse prioritarie.

Alle istituzioni chiede invece tra le altre cose di "definire riforme che spostino il peso fiscale dal lavoro e dal reddito all'utilizzo delle risorse; supportare con politiche pubbliche, comprese quelle relative al public procurement, i sistemi di produzione sostenibile; creare un ambiente favorevole allo sviluppo di standard volontari relativi all'uso delle risorse e alle pratiche di management che impattano sull'ambiente attraverso il coinvolgimento di imprese, NGO, associazioni dei consumatori, centri di ricerca ecc; agire sulle condizioni economiche del commercio internazionale, sia con tariffe che nell'ambito dello sviluppo di accordi commerciali con altri Paesi (es. abolizione tariffe su importazione di materie certificate); imporre per via legislativa il rispetto di norme minime relative alla produzione di scarti, ad esempio proibendo l'utilizzo di imballaggi eccessivi o materiali non riciclabili; usare i canali delle relazioni diplomatiche per fare pressioni affinché i governi dei Paesi produttori delle risorse primarie assumano iniziative a difesa dell'ambiente e dei diritti dei lavoratori e delle comunità minacciate. Infine ai cittadini si chiede di avere comportamenti di consumo che aiutino, con le loro scelte sui prodotti, ad ottenere modifiche verso la sostenibilità.

Noi ci permettiamo di aggiungere la necessità di una no fly zone sulle materie prime agricole e soprattutto un Consiglio di sicurezza dell'Onu per un governo mondiale sulle materie prime e sull'energia. Una cornice dentro la quale l'Italia può fare la sua parte se sa cogliere tutte le potenzialità della green economy a partire dal mercato del riciclo che è la migliore strada per chi non ha commodity a disposizione; l'efficienza energetica; lo sviluppo delle reti digitali; la manutenzione del territorio. Alla faccia degli approcci sviluppisti!

Ma la cosa che colpisce, infine, è la contraddittorietà dei messaggi che arrivano dai governi e dai "tecnici" europei (e non solo): da una parte documenti che dimostrano consapevolezza della finitezza e crisi delle risorse e dei limiti (già superati) del pianeta, dall'altra la riproposizione del modello di competitività/sfruttamento delle risorse/infrastrutturazione pesante che tende a perpetuare/salvare il modello della globalizzazione che non funziona più e che ha prodotto la crisi di sistema del capitalismo. Di fronte alla necessità di una rivoluzionaria riforma del sistema la si annuncia a parole mentre la si contraddice nella pratica e nei progetti politici, governo tecnico italiano compreso. Il vecchio vizio della riduzione della complessità all'interno dei soliti schemi non sembra finito.

Titolo originale: Thousands 'forcibly relocated' in Ethiopia, says HRW report – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Il governo etiopico sta spostando forzosamente decine di migliaia di persone nella remota regione occidentale di Gambella, agli abitanti dei villaggi viene spiegato che questo si deve all’affitto di vaste superfici concesso a operatori agricoli privati, come riferisce una associazione per i diritti umani.

Secondo il rapporto Waiting for Death di Human Rights Watch i trasferimenti di persone nell’ambito del programma cosiddetto villagisation avvengono senza consenso e indennizzo. Le persone vengono spostate in luoghi privi di adeguato sostentamento, servizi sanitari, scuole. E non sono mancate minacce, aggressioni, arresti del tutto arbitrari, per chi oppone resistenza. Human Rights Watch l’anno scorso ha condotto fra maggio e giugno cento interviste in Etiopia, e fra abitanti di Gambella fuggiti nei campi profughi del Kenya, rilevando ripetute e “generalizzate” violazioni di diritti in ogni fase del programma.

“Il programma di villaggizzazione del governo etiopico non migliora certo la condizione dei servizi per le popolazioni indigene di Gambella, mettendone invece a repentaglio qualità della vita e sopravvivenza” spiega il direttore europeo dell’associazione Jan Egeland. “Si devono sospendere le operazioni fino alla predisposizione dei servizi indispensabili, adeguate consultazioni con gli abitanti e indennizzi per la perdita dei terreni”.

Gambella è grande come il Belgio, ha una popolazione di 307.000 persone, principalmente indigeni Anuak e Nuer. Il suolo fertile interessa gli investitori anche internazionali, che hanno affittato a prezzi convenienti ampie superfici. Complessivamente in Etiopia dal 2008 al gennaio 2011 si sono affittati così almeno 3,6 milioni di ettari.

Altri 2,1 milioni di ettari sono disponibili attraverso la governativa banca federale terreni per gli investimenti agricoli. In Gambella, ben il 42% della superficie secondo i dati del governo è stata già concessa o è disponibile agli investitori. E molti dei territori da cui vengono spostate le popolazioni si trovano all’interno dei queste zone destinate all’affitto commerciale.

Gli investitori sono come il miliardario saudita Mohammed al-Amoudi, che sta costruendo un canale di irrigazione da trenta chilometri per dare acqua a 10.000 ettari a risaia, o imprese etiopi che operano anche su meno di 200 ettari.

Secondo il rapporto il governo continua a negare il rapporto fra deportazioni a Gambella e affitti per l’agricoltura commerciale, però agli abitanti dei villaggi è stato detto dai funzionari che è proprio questo il motivo del trasferimento.

Un agricoltore racconta a Human Rights Watch che all’assemblea di villaggio convocata, il rappresentane del governo ha detto: “Ci sono investitori che possono far crescere prodotti meglio di voi, che non sapete sfruttare i terreni, lasciati incolti”.

Entro il 2013 secondo il governo dovranno essere spostate così un milione e mezzo di persone, in quattro regioni: Gambella, Afar, Somali, e Benishangul-Gumuz. Si è cominciato nel 2010 in Gambella, con circa 70.000 abitanti da trasferire entro il 2011. Secondo il programma dovrebbe trattarsi di spostamenti volontari, con assicurati nei nuovi villaggi infrastrutture e servizi per il sostentamento.

E invece, secondo il rapporto, nei nuovi villaggi non c’è nulla.

I primi trasferimenti si sono effettuati nel periodo peggiore dell’anno – l’inizio del raccolto - e i terreni agricoli delle nuove aree sono molto poco fertili e secchi. C’è da disboscare, senza alcun sostegno per sementi o fertilizzanti. L’assenza di sostegni anche solo alimentari ha determinato denutrizione e fame endemica, secondo Human Rights Watch.

Si chiede perciò che a livello internazionale si sospendano tutti gli aiuti per quella che è una deportazione forzata e una violazione dei diritti umani con la scusa dello sviluppo. L’Etiopia rappresenta una delle principali voci nella spesa mondiale sia per lo sviluppo che per l’assistenza alimentare. Solo nel 2010 ha ricevuto oltre 700.000 tonnellate di alimenti e più di due miliardi di euro. Fra i principali paesi donatori il Regno Unito, che dovrebbe dare 500 milioni di euro l’anno fino al 2015.

Si tratta solo dell’ultimo rapporto critico di Human Rights Watch sull’Etiopia. Nel 2010, un altro accusava il governo Meles Zenawi di usare gli aiuti allo sviluppo per reprimere il dissenso, condizionandone l’erogazione al sostegno per il partito di maggioranza, accusa sempre fermamente respinta.

L’Europa agricola gira pagina. Più soldi andranno a chi proteggerà il paesaggio rurale. A chi curerà i terrazzamenti, le siepi, gli stagni, i fossi, i filari di alberi. A chi, invece delle immense estensioni di solo grano o di solo mais, preferirà differenziare le colture e quindi la biodiversità. A chi farà dell’agricoltura un fronte per frenare i cambiamenti climatici. La svolta era nell’aria. Ora è nero su bianco nella bozza della nuova Pac (la Politica agricola comunitaria) messa a punto dalla Commissione europea e valida dal 2014 al 2020. Adesso comincia un faticoso lavorìo perché i singoli paesi proporranno aggiustamenti. La traccia resta però questa ed è chiara la prescrizione a praticare un’agricoltura che recupera metodi tradizionali a scapito di un’agricoltura industriale.

«Stavolta, invece di una vaga esortazione, l’Europa investe fondi nella tutela del paesaggio, favorendo chi limita le emissioni di carbonio e i concimi chimici e contrastando un’agricoltura divoratrice di energia», spiega Mauro Agnoletti, professore alla Facoltà di Agraria di Firenze, fra i promotori di questa inversione di tendenza.

La Pac destina in sette anni 400 miliardi di euro all’agricoltura comunitaria. 1 miliardo e 200 milioni ogni anno sono indirizzati a interventi agro-ambientali, il cosiddetto greening. Uno dei punti di svolta è l’incentivo a chi diversifica le colture. L’articolo 30 stabilisce che per accedere ai finanziamenti, ogni agricoltore che possiede oltre 3 ettari di superficie deve praticare almeno 3 diverse coltivazioni: chi possiede 100 ettari può seminarne a granturco, per esempio, non più del 70 per cento, il 15 deve destinarlo a pomodori o melanzane, il restante 15 a legumi o ad alberi da frutta. «L’Europa finanzia chi salvaguarda un mosaico paesaggistico complesso, che è una delle caratteristiche più apprezzate del paesaggio rurale italiano e che però nel nostro paese si è andata perdendo, si è semplificata e banalizzata, non solo a causa dell’espansione edilizia, ma anche per l’abbandono dei terreni, circa 130 mila ettari l’anno, e per l’incedere dei boschi, che aumentano di 80 mila ettari l’anno», aggiunge Agnoletti.

L’Europa indica un’altra strada. Almeno il 7 per cento di ogni proprietà (recita l’articolo 32) deve essere costituito da "aree di interesse ecologico", che possono avere al loro interno terreni a riposo, terrazzamenti e altri "elementi caratteristici del paesaggio", che poi andranno definiti territorio per territorio, ma di cui la Commissione stila una prima lista: terrazzamenti, siepi, alberi in filare... «L’Italia dovrebbe includere altri elementi, come colture promiscue, viticoltura, olivicoltura e frutticultura tradizionale», insiste Agnoletti. E poi vanno conservati i prati permanenti e le superfici per il pascolo, che in Italia sono diminuiti da 6 milioni (1861) a 3 milioni di ettari odierni.

«È molto significativa l’attenzione ai terrazzamenti, che hanno caratterizzato per secoli il paesaggio italiano, dalla Valtellina alla Toscana alla costiera amalfitana», spiega Agnoletti. Laddove sono stati conservati, hanno anche impedito le frane, come in Liguria: «Per conto del Fai abbiamo condotto un’indagine nelle zone distrutte dall’alluvione di ottobre. Solo in 5 casi su 88 le frane hanno interessato terrazzamenti. Nel 95 per cento hanno investito terrazzi abbandonati e invasi da vegetazione arborea o arbustiva».

Restituzione fiscal drag, aumento pensioni, reddito minimo. Proponiamo una serie di misure: a) l'introduzione della 14° per i pensionati sotto i mille euro lordi mensili, b) la restituzione del fiscal drag ai lavoratori dipendenti; c) la reintroduzione del Reddito Minimo d'Inserimento (cancellato nella 14ma legislatura) per i disoccupati e per chi non gode di altre forme di ammortizzatori sociali. Stima della spesa: 10,5 miliardi di euro in tre anni.

Ammortizzatori sociali per co.pro e paraubordinati. Proponiamo l'istituzione di un'indennità minima netta di 700 euro fino a 9 mesi per tutti i lavoratori a progetto monocomittenti e i lavoratori parasubordinati che perdano il posto di lavoro. Costo della misura in tre anni 3,6 miliardi di euro.

Sostegno innovazione e ricerca. Proponiamo di destinare almeno 700 euro l'anno adinvestimenti nell'innovazione e nella ricerca pubblica attraverso una serie di misure specifiche come i crediti di imposta per l'assunzione dei ricercatori, l'aumento della retribuzione dei dottoroandi di ricerca, il finanziamento di progetti di ricerca pilota.

Sostegno alle produzioni ed ai consumi della green economy. Proponiamo di stanziare 1miliardo e 200 milioni l'anno per una politica industriale volta a sostenere con incentivi e servizi le produzioni della green economy: dalle energie rinnovabili alla bioedilizia, dalla mobilità sostenibile, alle produzioni in generale a impatto ambientale zero. Proponiamo la formazione di distretti di economia verde.

Fondo per l'agricoltura biologica. Si propone uno stanziamento triennale di 100 milioni di euro l'anno sul capitolo per il Fondo di sviluppo per l'agricoltura biologica vincolato alla realizzazione di un nuovo Piano d'Azione per l'Agricoltura biologica, con lo scopo di incrementare la domanda di prodotto biologico da parte dei consumatori, sia migliorando il sistema dell’offerta da parte dei produttori.

Sostegno all'altra economia. Proponiamo di stanziare almeno 50 milioni di euro l'anno per sostenere le diverse forme dell'altra economia, attraverso la creazione di 50 distretti di economia solidale in Italia per il sostegno delle diverse attività dell'altra economia: finanza etica, commercio equo e solidale, gruppi di acquisto solidale, ecc.

Programma di “piccole opere” . Di fronte ai faraonici programmi di “grandi opere” che producono ingente spesa pubblica, scarsi benefici sociali e danni ambientali per il territorio (e business per poche imprese), si propone invece un programma di “piccole opere” che riguardi interventi integrati –sociali, ambientali, urbanistici, ambientali- che possono andare dalla sistemazione della rete idrica locale, al recupero urbanistico dei piccoli centri, al risanamento ambientale di coste e aree montane. Ovviamente tra le “piccole opere” non rientrano i porti turistici ed altri interventi invasivi e ambientalmente distorsivi. Proponiamo di spendere in 3 anni 1,3 miliardi di euro.

Ferrovie locali per i pendolari. Sempre nell’ottica di ridurre la mobilità privata, al fine di incentivare al massimo il trasporto su rotaia, si propone un intervento straordinario dell’ammontare complessivo di 750 milioni di euro per l’ammodernamento e il potenziamento delle linee locali di collegamento, in particolare al Sud, all’interno dei cosiddetti Sistemi Locali del Lavoro.

L'applicazione del protocollo di Kyoto, nel rispetto, almeno, dei nuovi obiettivi europei al 2020 (riduzione di almeno il 20% delle emissioni di Co2, traguardo del 20% di produzione energetica da rinnovabili e miglioramento dl 20% nell’efficienza energetica), la riconversione ecologica delle attività produttive, avendo però come obiettivo ottimale la riduzione delle emissioni nazionali per i Paesi sviluppati tra il 25% e il 40% sotto il livello del 1990 entro il 2020, che si sostanzi anche nell’individuazione di un percorso di riduzione delle emissioni che consenta di rimanere ben al di sotto di un aumento medio globale di 2 gradi centigradi della temperatura (rispetto ai livelli pre-industriali), conseguendo il raggiungimento del picco e la diminuzione delle emissioni di CO2 entro 10-15 anni e con il conseguimento entro il 2050 dell’obiettivo di riduzione dell’80%, rispetto ai livelli del 1990. Chiediamo di stanziare 200milioni di euro sul “fondo rotativo destinato a finanziare le misure di attuazione del protocollo di Kyoto”, dal 2007 non finanziato.

Trasporto pubblico locale. Il rilancio e la riforma del trasporto pubblico locale con servizi integrati su scala metropolitana e con potenziamento dei servizi ferroviari sulla media e corta distanza (IC, regionali e locali), dove si concentra l’80% circa dell’utenza, incentivando la formazione di Consorzi ed Agenzie interistituzionali al servizio della città diffusa. Si chiede di stanziare 750 milioni di euro in tre anni per rafforzare e sviluppare la mobilità sostenibile ed il trasporto pubblico locale.

il testo integrale della "Contromanovra" è scaricabile direttamente da qui. Ulteriori informazioni al sito Sbilanciamoci

Sostenibilità è un concetto che ci parla di "quanto a lungo può reggere" qualcosa. Nasce in riferimento ad uno dei pedali del pianoforte, che in inglese si chiama "sustain", quello che serve per allungare le note, per farle durare nel tempo. Non per niente i francesi traducono con durabilité, capacità di durata. La consapevolezza che le nostre azioni debbano essere sostenibili è senz’altro uno degli elementi chiave per il futuro delle attività umane. Oggi, in tempi d’incertezza, al futuro forse ci si pensa un po’ di più, anche perché a ben vedere il futuro non è roba nostra così come non lo sono le risorse naturali. Sono patrimoni condivisi, che tocca alle generazioni in vita preservare per quelle che verranno.

In tema di sostenibilità il cibo è un fattore centrale, determinante, che non si può non considerare e che può essere la leva principale su cui agire per "far durare di più". Attraverso la scelta del cibo scegliamo il tipo di agricoltura che si pratica nel mondo e a casa nostra, se essa debba rispettare o no la fertilità dei suoli, una presenza umana consistente nelle zone rurali, la difesa della biodiversità, il corretto impiego dell’acqua e il mantenimento dei paesaggi insieme alla sicurezza idrogeologica dei territori.

Scelte che oltretutto di solito si coniugano perfettamente con il bello e il buono i quali, infatti, sono al contempo sia conseguenze sia presupposti della sostenibilità. È qualcosa di rivoluzionario. Ben presto - se non l’abbiamo già fatto - scopriremo che mangiare può essere un’attività che è tanto più piacevole e salutare quanto più è sostenibile, e che dunque la nostra parte possiamo farla ampiamente senza grandi sacrifici ma anzi, aggiungendo piccole ma importanti porzioni di felicità alle nostre vite.

"Mangiare è un atto agricolo", ha scritto il poeta contadino Wendell Berry. Possiamo aggiungere che è un atto ecologico, un atto paesaggistico, un atto di profondo rispetto per le culture, un atto politico. E deve diventare un atto sostenibile, perché mangiare è la cosa più direttamente, intimamente collegata - tanto in maniera evidente quanto in maniera nascosta perché ancora insondabile per le nostre conoscenze scientifiche - con tutto ciò che ci circonda: quel grande sistema complesso che è il pianeta che ci ospita. In poche parole la nostra casa, di cui però non siamo semplici inquilini, ma parte integrante.

Siamo dentro il sistema naturale e ormai per troppo tempo abbiamo fatto finta di esserne un corpo estraneo. Per questo motivo non agire in maniera sostenibile, "che fa durare", fa male alla Terra ma ne fa anche a noi umani. Ed è dunque anche soltanto per l’egoismo che ha sempre caratterizzato la nostra specie che dovremmo rivedere molte nostre scelte, partendo proprio da quelle che per molti nel tempo sono diventate insignificanti, semplicemente perché quotidiane. Come la scelta di che cosa mangiare ogni giorno, che ha il potere di migliorare il mondo, per noi e per chi verrà dopo di noi.

Il fenomeno è globale, è noto come «land grab», accaparramento di terre: si dice così quando ricchi investitori si assicurano concessioni o contratti d'affitto pluridecennali su grandi estensioni di terra coltivabile in paesi «in via di sviluppo». Da un lato multinazionali dell'agrobusiness di paesi ricchi (Europa e Stati uniti o anche paesi del Golfo, o Corea del sud), dall'altro governi di paesi rurali e poveri come Etiopia, Madagascar - ovunque ci sia spazio, povertà, e governi disponibili.

Ora però la geografia del land grab riserva qualche sorpresa. Di recente infatti nel grande business internazionale della terra arabile si sono buttati anche paesi come la Cina e l'India - perfino il Bangladesh. Del caso indiano parla in modo approfondito uno studio ripreso da Grain, rete internazionale di ricerca sull'agricoltura (Rick Rowden, India's role in the new global farmland grab, 2011). Conta ben 80 aziende indiane che hanno già investito 2,4 miliardi di dollari nell'acquisto o leasing di piantagioni nella sola Africa orientale - Etiopia, Kenya, Madagascar, Mozambico - e Senegal (altre compagnie indiane guardano al sud America e in almeno un caso al sud-est asiatico).

Uno dei contratti più importanti descritti nello studio di Grain riguarda l'Etiopia, paese diventato una sorta di esempio negativo di come un governo può svendere d'autorità grandi parti del suo territorio nazionale ignorando i suoi stessi cittadini. Si tratta dell'acquisizione di circa 300mila ettari di terra arabile nella regione di Gambela da parte dell'azienda indiana Karuturi Global Ltd. Il governo etiope sostiene che si trattava di terre marginali e/o non sfruttate, che ora saranno messe "a frutto" e rese produttive. Ma questa versione è contestata da diversi osservatori locali: non ci sono terre "inutilizzate", ci sono coltivatori con mezzi artigianali e pastori nomadi - e quando le terre date in concessione a grandi aziende viene recintata, loro perdono l'accesso ai pascoli e all'acqua. Altri fanno notare che le nuove pratiche agricole sono efficenti perché sono meccanizzate, fanno grande uso di fertilizzanti e agrochimici (che poi inquineranno le falde idriche) e soprattutto usano parecchia acqua - che tolgono ai piccoli coltivatori locali.

Secondo il contratto firmato con il governo etiopico, leggiamo, Karuturi prende in concessione i primi 100mila ettari per 50 anni all'equivalente di 60 dollari per ettaro, e pagherà un "affitto" annuale di 1,18 dollari per ettaro. Con questo acquisisce il «diritto» a disporre di quella terra, a scavare pozzi, costruire dighe se lo ritiene necessario - l'acqua è inclusa nel prezzo, e non è fissato alcun limite alla quantità che può attingere. Sarà esente da tasse e dogane ogni bene che l'azienda importerà (macchinari, ecc.) e che esporterà (derrate agricole) e anche il rimpatrio dei capitali.

Il contratto non fa menzione alcuna a norme di protezione del lavoro, salari e trattamento dei lavoratori agricoli, né impone di destinare una qualche quota delle derrate prodotte al mercato interno. Una economista indiana osserva, con orrore, che secondo il contratto firmato con Karaturi il governo etiopico si impegna a consegnare la terra pattuita «libera da impedimenti»: ovvero sfratterà gli abitanti locali, se saranno di ostacolo al progetto, se necessario con la forza (Jayati Ghosh, su Frontline, 10-23 settembre 2011). Così, fa notare l'economista, aziende indiane vanno a fare in un paese terzo proprio ciò che in India stessa ormai provoca tante polemiche, resistenze, proteste ogni volta che popolazioni rurali sono costrette a sfollare per fare spazio a progetti agro-industiali. Ironie della storia - o delle geografie globalizzate.

Caro direttore, per incassare 6 miliardi, circa l'8% di quanto paghiamo di interessi sul debito pubblico ogni anno, pare andranno in vendita 338.000 ettari di terreni agricoli che oggi sono proprietà pubblica. Se non si farà attenzione, le conseguenze di una tale scelta, che in Africa è nota comeland grab(appropriazione di terra) operata da grandi gruppi multinazionali, potrebbero essere serie, e portarci verso la dipendenza alimentare dall'agrobusiness. Potrebbero derivarne danni sociali ingenti subitiin primisdai nostri piccoli agricoltori che non potendo competere con quei colossi nell'acquistare, finirebbero per vendere anche i loro appezzamenti (come già avvenne quando i latifondisti comprarono le proprietà comuni messe in vendita da Quintino Sella).

La scelta di vendere è definitiva e ci riguarda tutti, presenti e futuri. Andrebbe fatta con grande cautela soprattutto quando ci si trova sotto pressione internazionale. Il processo di elaborazione teorica e pratica della categoria giuridico-costituzionale dei beni comuni discende da questa considerazione. Il cambiamento dei rapporti di forza fra settore privato azionario e settore pubblico a favore del primo rende i governi così deboli da non poter operare nell'interesse del popolo sovrano. La necessità urgente di forte tutela giuridica dei beni comuni come proprietà di tutti che i governi devono amministrare fiduciariamente nasce da questo squilibrio di potere prodotto dalla globalizzazione.

Lo Stato italiano è proprietario, direttamente o tramite enti pubblici, di ingenti beni che fanno gola a molti. Gran parte di questi, che forniscono utilità indispensabili per garantire la sovranità dello Stato o la sua capacità di offrire servizi pubblici, non possono essere trattati come fossero proprietà privata del governo in carica. Alcuni dei beni dello Stato sono costituiti da edifici, acquedotti e terreni agricoli che soccorrono direttamente bisogni fondamentali della persona come coprirsi, bere o nutrirsi. Altri sono infrastrutture, come strade, autostrade, aeroporti, e porti che richiedono un assiduo investimento in manutenzione. Altri sono beni che i giuristi classificano come immateriali come le frequenze radiotelevisive, glislotaeronautici (per esempio la tratta aerea Milano-Roma), i brevetti ottenuti con la ricerca pubblica, le partecipazioni pubbliche nell'industria produttrice di beni o servizi.

Ancora, importanti beni servono allo Stato per erogare i suoi servizi alla collettività: scuole, ospedali, caserme, università, cimiteri, discariche, ambasciate. Ci sono poi i beni culturali: statue, monumenti, dipinti, reperti archeologici, lasciti del passato che dobbiamo trasmettere ai nostri successori. Per farlo occorre mantenerli accessibili a tutti godendone in comune, al di fuori dal modello del «divieto di accesso» che è tipico della proprietà (sia essa pubblica o privata). Beni comuni, governati dalla stessa logica di accesso sono poi i parchi, le foreste, i ghiacciai, le spiagge, il mare territoriale, l'aria da respirare o l'acqua da bere, a loro volta beni di grande valore collettivo il cui ingente valore d'uso non è tradizionalmente patrimonializzato.

Sebbene dotato di un patrimonio ingentissimo (fra cui ingenti riserve auree), il nostro settore pubblico è impoverito. I Comuni sono sul lastrico; gli edifici pubblici cadono spesso a pezzi e il territorio non riceve manutenzione. L'Italia è come un nobile decaduto che non sa gestire le sue ingenti proprietà, viene truffato dal maggiordomo e continua a indebitarsi per poter mantenere il proprio dispendioso stile di vita. Proprio come la nobiltà francese finì per svendere i propri palazzi, anche l'Italia, oberata dai debiti, sta vendendo (spesso svendendo) il suo patrimonio pubblico per «far cassa» e tirare avanti. Eppure se il patrimonio pubblico rimasto fosse amministrato davvero nell'interesse comune si potrebbero ottenere parecchi quattrini: molte concessioni (acque sorgive, autostrade, stabilimenti balneari, frequenze radiotelevisive, cave) sono rilasciate molto al di sotto del valore di mercato. La Gran Bretagna dando in affitto il suo etere ottiene circa 5 miliardi di sterline l'anno (grosso modo quanto si incasserebbe vendendo una tantum i terreni agricoli) contro i poco più di 50 milioni di euro che ottiene l'Italia.

Una buona amministrazione del patrimonio pubblico richiede sopratutto ordine, chiarezza nelle regole del gioco e democrazia nel decidere sulle cose di tutti. Le regole attualmente vigenti sono obsolete, oscure e quindi agevolmente eludibili. È importante farne di nuove e dotarle di innovativi strumenti applicativi. Una legge delega sulla riforma di beni pubblici predisposta dalla Commissione Rodotà contenente chiarezza su quali beni siano comuni e come vadano amministrati non è mai stata neppure discussa. Proprio nei momenti di maggior crisi sarebbe bene che alla logica della svendita subentrasse quella del buon padre di famiglia.

Postilla

Il rischio espresso da Mattei è così grave, devastante e imminente che nessun governo composto di persone intelligenti potrebbe ignorarlo. Se, almeno, non fosse inquinato. E purtroppo l'inquinamento del governo Monti risiede proprio in alcuni settori (l'ambiente, lo sviluppo, le infrastrutture) più delicati ai fini della minaccia che grava: sul consumo di energia, sulla sopravvivenza fisica degli umani, sull'asservimento dell esigenze locali alla sovranità del mercato globale sulle esigenze locali e su quello della democrazia e della politica alla sovranità dell'economia data. Un appello, quindi, al quale è necessario che molti aderiscano..

Divertente è un aggettivo che non si predica di solito per un vocabolario, non più che per un elenco telefonico. Eppure è proprio piacevole il Dizionario tecnico-ecologico delle merci di Giorgio Nebbia (Jaca Book, pp. 336, euro 25). Le sue 98 voci, che vanno da Acciaio a Zucchero passando tra gli altri per Bambù, Celluloide, Gabinetti, Luce, Nylon, Patata, Vento e Zolfo, si leggono come capitoli di una storia di cui il lettore vuole sapere come va a finire, poiché attraverso queste merci proprio la storia della nostra modernità (e postmodernità) è presa di sguiscio, attraversata di sbieco.

Intanto ti accattiva la curiosità per i dettagli, come per esempio l'origine dell'espressione «matto come un cappellaio» che si ritrova in Toscana e in Inghilterra (il cappellaio matto è uno dei personaggi di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll): nell'800 sali di mercurio erano usati per tingere in nero le fibre proteiche come la lana dei feltri per la preparazione dei cappelli e gli stessi capelli umani, ma presto ci si accorse degli «effetti devastanti del mercurio sulla mente degli operai che lo maneggiavano in fabbrica». Anche l'espressione «spirito di patata» in voga nella prima metà del '900 per indicare una battuta fiacca, che non fa ridere, deriva dalla bevanda alcoolica che si estrae dal fermentato di patata che è «simile all'acquavite ma di sapore più blando». Oppure, nella voce «Spinaci», apprendiamo non solo che Braccio di Ferro (PopEye) è il primo personaggio a fumetti cui è stata dedicata una statua, ma che questo personaggio è nato durante la grande depressione, in un'area del Texas in cui si coltivavano e s'inscatolavano spinaci, che proprio a questo fumetto l'industria conserviera attribuì l'aumento del 30 % del consumo di spinaci in scatola tra il 1931 e il 1936 e che infine il nome originale della partner di Braccio di Ferro, Olivia, era in realtà Olive Oyl, anch'esso teso a pubblicizzare un genere alimentare, il nostro olio d'oliva.

Montagne di bambù

Ma al di là delle curiosità che pure lo rendono tanto gradevole, questo dizionario mantiene fisso il suo interesse su alcune direttrici costanti. La prima è restituire all'ignaro lettore l'immensa, inimmaginabile portata della produzione nel nostro mondo industriale: voce dopo voce, siamo martellati dai milioni, e miliardi di tonnellate delle singole merci: ogni anno si producono nel mondo 10 milioni di tonnellate di gomma naturale, 13 milioni di tonnellate di gomma sintetica. Di un materiale che ci appare tanto marginale quanto il bambù, se ne smerciano nel mondo ben 25 milioni di tonnellate all'anno, soprattutto per il suo uso nell'edilizia: è impressionante vedere in Cina le silhouettes di ipermoderni grattacieli in acciaio e vetro ergersi solo grazie alle esili, flessibili impalcature del bambù. Ma poi si passa ai 35milioni tonnellate l'anno di alluminio (estratti da 200 milioni tonnellate di bauxite), ai 400 milioni di tonnellate di carta, per arrivare ai pesi massimi come i 2 miliardi di tonnellate di cemento, i 4 miliardi di tonnellate di petrolio e i 6 miliardi di tonnellate di carbone.

Con queste cifre martellanti Giorgio Nebbia ci ricorda quanto sia fallace l'idea di una postmodernità immateriale: l'immaterialità della nostra società si basa su un'incredibile materialità di supporto. Niente lo dimostra meglio dell'acciaio, il simbolo stesso del Moderno («età dell'acciaio») che ci appare ormai alle spalle, il termine da cui Iosif Vissarionovic Dzugasvili prese il suo pseudonimo Stalin: acciaio si dice in russo sta'l, in tedesco Stahl, in inglese steel. Nel corso del XX secolo l'acciaio è stato sempre più sostituito da altri materiali in un numero sempre maggiore di prodotti, per esempio le carrozzerie delle auto, o i motori delle motociclette (ormai in alluminio), eppure nel corso del '900 la produzione mondiale di acciaio è passata dai 30 milioni di t nel 1900 ai 140 milioni del 1940, ai 700 milioni del 1973 ai 1.400 milioni di oggi: ovvero la produzione si è moltiplicata 50 volte, mentre la popolazione mondiale si è quintuplicata: il consumo pro capite è decuplicato! Alla faccia del postmoderno

Nello stesso tempo, se è vero che il mondo nel suo insieme è un immane stabilimento industriale sempre più gigantesco, è anche vero però che i paesi industriali si deindustrializzano. Questo Dizionario è cosparso di fabbriche abbandonate come tutte le grandi acciaierie integrali italiane (tranne Taranto), di miniere chiuse come quelle di carbone in Belgio, o quelle di mercurio sul Monte Amiata che ancora negli anni '60 producevano 1.200 t l'anno, e furono chiuse attorno al 1980.

La produzione di acido borico (dai soffioni boraciferi di Larderello) aveva fatto la ricchezza della Toscana, ma dopo la seconda guerra mondiale declinò e nel 1997 cessò del tutto. Oppure la canapa, di cui l'Italia ancora nel 1957 produceva 30.000 tonnellate e che ora è scomparsa dai nostri campi. O ancora le fabbriche di glutammato come la Insud-Ajinomoto costruita con i contributi della Cassa per il Mezzogiorno a Barletta, che funzionò più male che bene dal 1965 al 1977 e poi fu chiusa. Così è stato chiuso l'ultimo impianto che produceva acido solforico, quello di Scarlino in provincia di Grosseto, quando nell'800 lo zolfo era praticamente un monopolio siciliano sotto i Borboni. Persino impianti che hanno fatto la storia dell'industria moderna, come la raffineria La Palma di nitrato in Cile, che aveva dominato il mercato mondiale per tutto l'800, è stata definitivamente chiusa dopo la seconda guerra mondiale e, come epitaffio funebre, nel 2005 è stata dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità.

Questo inesausto nascere e morire di impianti, fabbriche, cave, miniere, questo migrare da un continente all'altro si esprime anche nella transitorietà delle merci che sembravano pilastri della civiltà e poi invece svaniscono nell'oblio. Così è avvenuto alla Celluloide, che ha addirittura designato un mondo, quello del cinema, e che oggi viene usata solo per produrre palline da pingpong per cui pare sia insostituibile.

Materie prime, semilavorati, merci finali sembrano dotati così di una loro vita, un loro nascere e morire. Per esempio i metalli sono da sempre presenti sulla terra, ma alcuni sono noti da millenni, come il rame, lo zinco, lo stagno, il ferro. Altri invece, presenti solo in composti difficilmente scindibili, sono noti solo da poco. Per esempio, l'alluminio, il metallo oggi più diffuso e più usato dopo l'acciaio, è noto solo dal 1827 e ottenerlo era così complicato che quando infine «arrivò sul mercato, costava più dell'oro».

Le merci non solo sono dotate di una propria vita, ma sono intrise della vita - e della morte, e dei dolori e dei patimenti - degli umani che le hanno prodotte. Come non ricordare il luogo su cui sorgeva la più grande fabbrica tedesca di gomma e benzina sintetiche durante la seconda guerra mondiale, e cioè Auschwitz? Il coltan è indispensabile per i nostri telefonini, ma ognuno di essi gronda del sangue della guerra civile in Congo. E lo stesso avviene per i diamanti. Per i nitrati Cile, Perù e Bolivia combatterono una guerra nell'800. A volte invece la storia s'insinua in un materiale in modo più subdolo. È il caso del butanolo, un carburante ottenibile dai vegetali, con più ottani rispetto all'alcol etilico. Il butantolo fu scoperto dal chimico ebreo russo Chaim Weizman (1874-1952) che era dovuto emigrare prima in Svizzera, poi in Germania e infine in Inghilterra. Weizman scroprì che un batterio trasforma gli zuccheri in butanolo e acetone. «Durante la prima guerra mondiale l'Inghilterra aveva bisogno, per la produzione dell'esplosivo cordite, di acetone che fino ad allora era stato importato dalla Germania. Weizman accettò di cedere al governo inglese il suo brevetto se avesse dichiarato - la dichiarazione Balfour del 2 novbembre 1917 - di "vedere con favore la costituzione in Palestina di una 'sede nazionale' per il popolo ebraico"». Weizman fu non solo un grande chimico, ma anche il primo presidente dello stato d'Israele dal 1949 al 1952.

Piombo letale

In altri casi la storia delle lotte dei popoli si affievolisce con l'estinguersi della merce che le aveva generate. Così, i fiammiferi sono una merce in via di estinzione, sostituiti dagli accendini. Nessuno ricorda le grandi lotte che scossero l'Italia di fine '800 per protestare contro la tassa sui fiammiferi, una tassa inasprita per far fronte alla guerra coloniale in Africa che si concluse con le sconfitte di Amba Alagi (1895), Macallè e Adua (1896) e con voragini nel bilancio dello stato.

Ma proprio i fiammiferi ci portano all'altro grande filo conduttore di questo Dizionario, quello ecologico, come si vede già dal titolo. L'industria dei fiammiferi era fiorente nell'800, ma usava per il rivestimento delle capocchie fosforo bianco che era estremamente dannoso per gli operai che lo maneggiavano. Ma le pressioni dei fabbricanti ostacolarono per più di mezzo secolo qualunque misura che difendesse la salute degli operai. E anche dopo che l'Italia aveva firmato la convenzione di Berna (1906), grazie all'«emergenza nazionale» della prima guerra mondiale, i padroni dello zolfanello riuscirono a rimandarne l'applicazione al 1924 a prezzo di migliaia di malattie e morti premature degli operai. Sono tanti i casi in cui si ripete la storia di produttori che in nome del «progresso» o dell'«occupazione» difendono produzioni tossiche. Esemplare è quella del piombo tetraetile che serviva ad aumentare il numero di ottano nella benzina, e dei decenni che ci sono voluti per bloccarne la produzione e avere «benzina senza piombo». La storia della Società lavorazioni organiche inorganiche (Sloi) è da manuale. Spostata a Ravenna nel 1940, già nel '45 aveva fatto almeno 8 morti tra gli operai e aveva inquinato i terreni circostanti. Nell'inondazione di Trento del 1966 la fabbrica fu allagata e provocò un'esplosione. Si moltiplicarono campagne stampa per gli operai ricoverati a ripetizione per avvelenamento. Ma quando nel 1971 il giudice chiuse la fabbrica, gli stessi operai protestarono per non perdere il posto di lavoro. Solo un'altra esplosione nel 1978 chiuse questo capitolo tossico.

Tutto il libro non fa che sottolineare la doppiezza della tecnologia, il suo doppio volto che produce benefici ma veicola pericoli e veleni. Così è per tutta la filiera del cloro, usato nello sbiancamento della carta e che portò ai gas asfissianti della prima guerra mondiale, al Ddt, il potente insetticida messo fuori legge; ai defolianti usati dagli Stati uniti nella guerra del Vietnam, agli erbicidi, ai clorofluorocarburi usati nei frigoriferi e considerati in parte responsabili del buco dell'ozono, al cloruro di vinile, una materia plastica rivelatasi cancerogena, e alla diossina prodotta dal suo incenerimento.

L'ozono è un altro esempio dell'ambivalenza ambientale di un materiale. Alla sua diminuzione negli strati alti dell'atmosfera è attribuita la responsabilità dell'aumento di radiazioni ultraviolette che giungono al livello del mare e quindi dell'aumento dei tumori cutanei e delle malattie degli occhi. Ma nello stesso tempo la combustione degli autoveicoli produce un eccesso di ozono nella «troposfera», al livello del suolo, che a sua volta provoca disturbi respiratori e irritazioni e facilita la formazione di altri agenti inquinanti e tossici.

Ingegno generale

Perciò grande attenzione dedica questo Dizionario alle tecnologie alternative che potrebbero attutire l'impatto ambientale, generare posti di lavoro «verdi». Mettendoci però in guardia da innovazioni che poi si sono rivelate miti: «Ogni tanto ritorna in circolazione la speranza della scoperta di una plastica biodegradabile, adatta, soprattutto, per i sacchetti della spesa, gli shopper, il cui consumo ammonta a miliardi di unità all'anno, a centinaia di migliaia di tonnellate all'anno», speranza che si è sempre rivelata vana perché proprio biodegradabili quei sacchetti non erano. Nebbia ci insegna che riciclare è un'arte difficile, che andrebbe appresa e insegnata (per esempio vetro bianco e vetro colorato non possono essere riciclati insieme). E poi fa curioso venire a sapere che dopo la seconda guerra mondiale il governo italiano aveva creato un ente pubblico, l'Azienda Rilievo Alienazione Residuati, l'Arar, per riciclare i residuati bellici che l'esercito americano si era lasciato dietro.

Insomma questo dizionario è uno straordinario ritratto del nostro mondo e della nostra società. Intanto ci ricorda della centrale importanza di una scienza, la chimica, spesso e a torto considerata ancella delle altre discipline. Poi ci sciorina davanti agli occhi l'incredibile, multiforme, capillare ingegnosità di tanti umani che hanno creato procedimenti, scoperto metodi, inventato prodotti, vero proprio general intellect che ha provocato la radicale rivoluzione tecnologica e sociale di cui ormai non ci rendiamo più conto. General intellect che è fatto non solo di intelligenza, estro, fantasia, tenacia, ma anche di furbizia, scaltrezza, capacità di raggirare in una versione imprenditoriale di «Ulisse dal multiforme ingegno». Di questa opinabile ma stupefacente scaltrezza Nebbia ci dà un'ampia illustrazione nel capitolo sulle Frodi, tra cui personalmente mi ha colpito una sull'olio d'oliva che richiese davvero tanta immaginazione, quando si scoprì che l'olio di semi di tè è l'unico olio vegetale che presenta caratteristiche uguali a quelle dell'olio di oliva. «Fu così organizzato un 'commercio triangolare': veniva acquistato a basso prezzo olio di tè dalla Cina, questo arrivava in qualche porto dell'Africa settentrionale dove, senza nessuno spostamento, con un abile cambiamento dei documenti di trasporto, veniva fatto figurare che la nave aveva scaricato olio di tè e imbarcato olio di oliva. L'olio di tè entrava così in Italia come regolare olio di oliva». Come avrebbe detto il nipote di Rameau: «Questo è genio!»

La finanza sta lentamente distruggendo la società, cancellando al tempo stesso il problema più drammatico, quel riscaldamento climatico che potrebbe determinare la cancellazione stessa della civiltà umana. Per questo occorre individuare delle strategie che fermino questa macchina di guerra. Un'intervento della studiosa statunitense, ospite all'incontro annuale dell'editoria sociale, che inizierà domani a Roma i suoi lavori

In Europa la crisi finanziaria è quella che preoccupa la maggioranza della popolazione e gode della copertura più ampia sulla stampa, ma non è l'unica. Uomini e donne fanno bene a preoccuparsi della finanza, visto che nella vita reale l'attuale caos finanziario si traduce in alta disoccupazione giovanile, pesanti tagli ai servizi pubblici e in tutte quelle misure di austerità che sono destinate ad aggravare la crisi. Ci troviamo inoltre in una grave crisi di disuguaglianza. In Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti, dagli anni Venti o Trenta del Novecento il benessere non è mai stato così mal distribuito. Gli indignados, gli «indignati» hanno completamente ragione a identificarsi con il «99 per cento»: hanno compreso che l'uno per cento al top ha aumentato enormemente il proprio reddito mentre tutti gli altri lo stanno perdendo. Tuttavia, ritengo che la crisi più drammatica sia quella di cui meno parliamo, il global warming e il cambiamento climatico. La crisi climatica avrà infatti gli effetti più profondi sulla stessa civiltà, e in paragone renderà irrilevanti le nostre preoccupazioni finanziarie. Provo a spiegare con un'immagine ciò che intendo.

Immaginiamo che il mondo sia governato da cerchi concentrici o sfere di potere, in cui il più potente sia collocato nella sezione più esterna. Oggi, il cerchio più potente, quello che più influenza le nostre vite, è la finanza. La finanza globalizzata manda letteralmente avanti il mondo, basta osservare la quantità di soldi che le banche hanno ricevuto dai governi (il che significa dai contribuenti, in altri termini da me e da voi). Un recente rapporto stilato dalla Federal Reserve (Fed) americana stima in sedici trilioni di dollari (16.000.000.000.000) la somma di soldi spesi dalla Fed per salvare le banche. Una cifra che non tiene conto di quel che gli inglesi, i tedeschi, i francesi e via dicendo hanno speso per le loro banche. Una cifra di cui non conosco l'esatto ammontare. Immaginiamo comunque che ogni dollaro speso dalla Fed per salvare le banche corrisponda a un secondo sul nostro orologio. Sedici trilioni di dollari, tradotto in secondi, corrisponde a cinquecentomila (500.000) anni.

La voracità della finanza

Le banche, da parte loro, hanno speso grandi somme di denaro per fare lobbying sui governi, affinché rimuovessero tutte le restrizioni ai loro movimenti. Questo tipo di deregulation ha contribuito in modo significativo alla crisi: le banche hanno assunto grandi rischi con i soldi miei e vostri. Dal loro punto di vista, erano nel giusto, dal momento che erano too big to fail e sapevano che i governi sarebbero dovuti intervenire per salvarle, in caso di crollo. Allo stesso tempo, hanno fatto ampio ricorso ai prestiti, spesso assumendo rischi di 30 o 40 dollari per ogni dollaro proprio. Ma nonostante questo sono state salvate senza alcuna condizione. Non hanno dovuto cambiare alcunché nel loro operato e rimangono too big to fail. In questo senso, la finanza è senz'altro il cerchio più ampio, quello collocato all'esterno.

Il successivo cerchio di potere è l'economia reale, dove la gente investe, produce, distribuisce e consuma. Negli Stati Uniti, quest'economia reale riceve soltanto il 20 per cento dell'investimento disponibile, mentre il resto finisce direttamente al settore finanziario. Marx ha fondato la sua analisi sull'economia reale: gli industriali ottengono profitti producendo beni e servizi reali, sfruttando i lavoratori nel processo di produzione e tenendo per sé stessi il surplus di valore. Oggi, non c'è più bisogno che l'economia reale faccia soldi. Negli ultimi venti anni circa, si è potuto ottenere molto di più scommettendo direttamente sui prodotti finanziari e vendendo sempre di nuovo lo stesso prodotto finanziario.

Il terzo circolo di potere è la società, che include il governo, il quale deve obbedire alle regole della finanza e dell'economia. I governi obbediscono a tali regole, anziché fare in modo che siano la finanza e l'economia ad obbedire loro, cosa che porterebbe benefici alla popolazione. I sistemi di protezione sociale e perfino la salute e l'educazione sono sotto attacco ovunque, anche in quell'Europa che si ritiene sia il continente più ricco. Negli scorsi 3 o 4 anni i governi sono diventati sempre più indebitati, soprattutto a causa delle somme che hanno dovuto impiegare per salvare le banche. E oggi ci si aspetta che la gente paghi di nuovo: dopo aver già pagato il salvataggio delle banche, ora deve pagare nuovamente perché i debiti governativi sono troppo alti. L'ultimo cerchio è quello ambientale, la biosfera, un cerchio molto limitato a paragone degli altri tre.

Per la maggior parte dei governi, prendersene cura rappresenta una sorta di lusso, che oggi non ci si può permettere di affrontare. Si tratta di un atteggiamento miope, e tragico. Ora, non sarete certo sorpresi nel sentire che la soluzione a tutti i problemi è semplice da affermare ma estremamente difficile da realizzare. E' la prima volta nella storia umana che la gente è sollecitata a compiere un simile cambiamento fondamentale: dobbiamo capovolgere l'ordine dei cerchi che ho appena descritto. La biosfera deve venire per prima e divenire il più potente dei cerchi, perché è il più potente. Non possiamo contraddire le leggi della fisica e della chimica, e se lo facciamo siamo sicuri di perdere. Non ho mai parlato di «salvare il pianeta» perché il pianeta si prenderà cura di sé come ha fatto per 4 miliardi e mezzo di anni. La vera questione non è tanto se il pianeta sopravviverà, quanto se gli esseri umani in quanto specie sopravviveranno sul pianeta. La conferenza sul cambiamento climatico che si terrà a Durban alla fine del prossimo mese sembra sia destinata a un altro colossale fallimento, alla stregua delle precedenti conferenze di Copenhagen o Cancun. Presto, sarà troppo tardi, se non lo è già. Scienziati molto rispettabili ci suggeriscono che l'aumento della temperatura potrebbe raggiungere i 4 o 5 gradi Celsius e che ciò decimerebbe letteralmente la popolazione umana. Il secondo cerchio sarebbe la società, una società democraticamente organizzata in cui i governi rispondano al popolo e il popolo sia la base della loro autorità.

Una democrazia reale non è possibile fino a quando i governi governano per conto del sistema finanziario. Il cerchio successivo, il terzo, sarebbe la vera economia, con genuini investimenti nel lavoro, nell'educazione e nella salute, e con un alto livello di spesa pubblica e più equi sistemi di tassazione e distribuzione delle rimesse. Preferisco evitare di parlare di società «socialista» o «comunista», così come di qualsiasi altro tipo di società che si presume perfetta, perché sono estremamente diffidente della gente e dei partiti che già credono di sapere esattamente come dovrebbero essere organizzate le future società libere. Spero ci possa essere una varietà di forme organizzative, adeguate alle diverse culture, storie e preferenze. Desidero conservare la biodiversità, e ritengo la sociodiversità un valore positivo. Per ultimo, ci sarebbe la finanza, il più piccolo e fragile dei quattro cerchi: semplicemente uno strumento, tra molti altri, al servizio dell'economia reale, della società e della biosfera. Questo non è - ripeto non è - un progetto utopico. È del tutto realizzabile se noi, il popolo, riusciamo a strappare il controllo dalle mani del sistema finanziario.

Quando la crisi finanziaria è divenuta più grave, nel 2007-2008, ho cominciato a occuparmi dei modi in cui avremmo dovuto usare la crisi finanziaria per risolvere le altre due gravi crisi della disuguaglianza economica e sociale e del clima. Ciò significherebbe prendere il controllo della finanza e investire immediatamente in una transizione verde, creatrice di posti di lavoro, cercando i soldi là dove ci sono, tra la persone e le corporations che ora si trovano al top. Una transizione sociale e verde significa anche che dobbiamo socializzare le banche, e scrivo socializzare e non nazionalizzare perché, insieme al governo, parte dell'autorità spetterebbe ai cittadini, agli impiegati di banca e ai clienti. A quel punto le banche dovrebbero concedere prestiti alle imprese di piccole e medie dimensioni, in particolare a quelle con un progetto ambientalmente innovativo e alle famiglie che intendano comprare o costruire case a risparmio energetico o energeticamente neutrali. Molti studi hanno dimostrato che un'economia ecologica è anche un'economia che crea posti di lavoro, e a tutti i livelli della società, dai lavoratori edili agli scienziati della classe media.

Il clima al primo posto

Per le banche socializzate, l'altra priorità sarebbe di estendere il credito alle imprese sociali, le compagnie con qualche forma di controllo da parte del lavoratore. Nessuna legge sostiene che la democrazia debba fermarsi là dove comincia l'economia, e l'economia ha bisogno di essere democratizzata. Le banche dovrebbero essere viste come parte del network del servizio pubblico. Le attività economiche di piccole e medie dimensioni hanno un gran bisogno di credito. Piuttosto che salvare le aziende in via di fallimento per fare esattamente ciò che finora hanno fatto - per esempio produrre automobili - si paghi il personale, dai lavoratori agli ingegneri e così via, per inventare nuovi prodotti che siano i più socialmente utili e che possano essere prodotti negli attuali luoghi di lavoro. Abbiamo speso centinaia di anni trascurando la creatività di metà della razza umana - vale a dire le donne - e ancora oggi trascuriamo la creatività, quasi tutta, della gente che lavora. Ci sono molte altre misure da adottare, che richiederebbero una descrizione troppo dettagliata. Mi limito a elencarle: cambiare gli statuti e i mandati della Banca centrale europea, in modo tale che conceda prestiti direttamente ai governi, non alle banche, che a loro volta li concedono ai governi a interessi più alti.

La Banca centrale europea non dovrebbe limitarsi a «controllare l'inflazione» (unico suo compito oggi), ma favorire la creazione di lavoro. Emettere Eurobond e impiegare gli investimenti per network intra-europei di trasporto ed energia puliti. Creare una tassa europea su tutte le transazioni finanziarie, incluse valute, stock, bond e derivati a 1 punto base (1/1000); chiudere i paradisi fiscali; cancellare l'intero debito africano nei confronti dell'Europa, in cambio di progetti di riforestazione localmente orientati e partecipati, che possano essere monitorati (uno «scambio debito per clima»); rivedere tutti gli accordi di libero commercio e scegliere gli elementi che favoriscono i diritti umani, del lavoro e dell'ambiente, scartando gli altri; accordare preferenza ai prodotti del commercio equo (monitorato). Soprattutto, mai dimenticare che le banche sono nostre, in un senso piuttosto letterale.

In quanto contribuenti, infatti, abbiamo pagato per loro con i nostri soldi e se non l'avessimo fatto non esisterebbero più. Dunque, non preoccupiamoci di dirlo! Altrimenti, continueremo a vivere in una crisi morale, in una crisi finanziaria, sociale ed ecologica. Finora, abbiamo ricompensato i colpevoli e punito gli innocenti. E' arrivato il momento di capovolgere le cose.

(Traduzione di Giuliano Battiston)

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