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«La vittoria del SÌ al referendum del 17 aprile potrebbe dare una spallata ad un castello di bugie e mostrare che la strada verso la democrazia energetica, verso una promozione sostenibile dei talenti sani dei nostri territori è segnata e che non si torna più indietro», Sbilanciamoci.info, newsletter 467, 31 marzo 2016

Pensavo fosse incompetenza o mancanza di visione. Fresca di laurea, folgorata sulla via dell’energia come “madre di tutte le battaglie” da combattere (contro le crisi internazionali, i ricatti dei potenti detentori delle risorse, contro le crisi sociale, ambientale e poi anche economica), ero ingegneristicamente innamorata dell’idea che sole, vento, biomassa, maree e calore della Terra, assieme alle intelligenti evoluzioni della tecnologia, avrebbero mostrato di lì a poco la via per costruire una nuova “democrazia energetica” e, ingenuamente, pensavo il freno fosse causato “solo” dalla manifesta incapacità strategica di un apparato politico/burocratico stanco, cinico e clientelare.

E invece sbagliavo di grosso. La strategia esiste. Esiste e appare dettata da un potere apartitico (evidente se si analizza l’assoluta continuità nelle scelte fossili degli ultimi 4 governi, dalla destra di Berlusconi/Romani, ai tecnici Monti/Passera, passando per la “sinistra” di Letta/Zanonato, fino al governo del partito della “nazione” di Renzi/Guidi, il più fossile di tutti) gestito attraverso schiere di azzeccagarbugli che usano la normativa contro i cittadini, contro la partecipazione, contro le migliori idee ed energie del Paese.

L’ascolto è riservato esclusivamente ai soliti noti, per i quali un varco nel ginepraio della burocrazia si riesce sempre ad aprire (le autostrade, gli inceneritori, il cemento, le trivelle dello “sbloccaItalia” ne sono la manifestazione plastica).

La “strategia” esiste, e ci sono almeno due campi di gioco.

Il primo campo è quello del sistematico affossamento di uno dei settori economici più promettente del nostro Paese, quello delle fonti rinnovabili, che hanno l’enorme colpa di aver iniziato a dimostrare di essere pronte, da subito, a fare la propria parte (il 40% dell’energia elettrica prodotta in Italia nel 2014 deriva da fonti rinnovabili), senza restare confinate nella nicchia che si era pensata per loro. Lungi dal considerare un successo questa straordinaria progressione, ci si è immediatamente preoccupati per la progressiva inutilità delle turbo-gas a metano, installate come funghi nel recente passato.

Ne è seguita una campagna mediatica impressionante che punta il dito sul “costo delle rinnovabili in bolletta”, che sarebbero le responsabili della pesantezza della spesa energetica sulle famiglie italiane; si tace però sul fatto che le risorse fossili ricevono dallo Stato agevolazioni di ogni genere e finanziamenti diretti/indiretti stimati in circa 14 miliardi di euro/anno, e che il grande beneficio delle rinnovabili sul prezzo dell’energia all’ingrosso rimane spartito nel mercato dei grossisti, a causa di un complicatissimo meccanismo con il quale tale prezzo viene stabilito.

Alla campagna mediatica si sono associate azioni gravissime:
- sistemi di incentivazione di respiro breve/brevissimo (in primis il conto energia per il fotovoltaico), modificati “in corsa” senza interlocuzione con gli operatori e poi troncati (persino sugli interventi che consentivano le bonifiche di coperture in eternit),
- normative monche che paralizzano per anni settori promettenti (solare termo-dinamico e bio-metano, ad esempio),
- incapacità del sistema di tenere sotto controlli i tempi per le autorizzazioni (eolico o idroelettrico), anche per la presenza di interlocutori multipli e ridondanti, con procedure variabili nei diversi territori.

Come se non bastasse, grazie al governo Renzi, è arrivato lo “spalmaincentivi” che ha ritoccato retroattivamente al ribasso, su impianti già attivi, il valore dell’incentivo previsto; poi i bastoni tra le ruote all’autoconsumo, poi gli attacchi all’efficienza energetica, poi il nuovo decreto sulle rinnovabili non fotovoltaiche in cui spicca un contributo esplicito per gli inceneritori. Poi una lista che potrebbe continuare per pagine di rabbia, il cui effetto si può facilmente sintetizzare con un paio di numeri: investimenti passati dai 31 miliardi di dollari del 2011, a meno di un miliardo nel 2015, decine di migliaia di posti di lavoro persi (con un nucleo attualmente resistente di circa 75.000 addetti, ma un potenziale occupazionale incredibilmente maggiore, che non aspetta altro di essere liberato da trappole e trucchi, per poter correre correttamente sul mercato).

Sul campo numero due si gioca la partita che interessa più direttamente il referendum: la costruzione del miraggio della irrinunciabilità, per il nostro sistema Paese, dell’utilizzo delle fonti fossili (metano e petrolio) presenti nel sottosuolo.

Il governo Monti, con il decreto sviluppo, riaprì la strada a permessi di ricerca e coltivazione (estrazione) entro le 12 miglia marine dalla costa, che la Prestigiacomo, sull’onda del terribile incidente nel golfo del Messico, aveva bloccato; più recentemente, nello sbloccaItalia di Renzi, sono arrivati una serie di “semafori verdi” per rilanciare lo sfruttamento degli idrocarburi (attività con una filiera ad altissimo impatto ambientale e a bassissima densità lavorativa), agendo pesantemente anche sulla possibilità delle Regioni di partecipare almeno “alla pari” alle decisioni relative ai permessi.

Il tutto per favorire lo sfruttamento di risorse fossili che darebbero all’Italia una “indipendenza energetica” complessiva di alcune settimane, in un reale “accanimento terapeutico” contro l’ambiente (espressione di Leonardo Maugeri, per 10 anni direttore delle strategie di ENI), per cercare di prolungare di qualche anno un sistema per il quale molti territori italiani hanno già pagato e stanno pagando un prezzo altissimo (come la Basilicata: 80% della produzione nazionale di petrolio, il PIL tra i più bassi d’Italia, zone spopolate a causa dei gravissimi danni ambientali e preziosissime falde acquifere a rischio; Regione in prima linea contro il governo).

Si vuole, cioè, insistere con un sistema che si inchina alle compagnie a svantaggio dei territori, con le royalties tra le più basse al mondo drogate da agevolazioni che prevedono che le prime 20.000 ton di petrolio e 25 milioni di Smc di gas estratti in terraferma, come le prime 50.000 ton e 80 milioni di Smc in mare, siano esenti dal pagamento di aliquote.

Stiamo parlando, attualmente, di un introito complessivo nelle casse dello Stato che oscilla tra i 300-400 M€/anno (più o meno la stessa cifra che il governo ha “bruciato” in un solo giorno, per evitare l’accorpamento del referendum con le elezioni amministrative).

Quello che il governo non si aspettava è stato il trovarsi sbarrato il passo da una corposissima azione su più livelli (campagne di associazioni ambientaliste, comitati spontanei e organizzati, raccolte firme per attivare referendum popolari, cortei nazionali come quello di Lanciano con 60.000 persone in strada) che è confluita nella decisione di ben 10 Regioni (in molti casi a guida politica del medesimo colore del governo) a ricorrere all’estrema ratio del referendum.

Grazie a quest’onda d’urto, il governo ha dovuto rimangiarsi gran parte delle scelte fatte (in particolare circa la strategicità delle opere e circa la possibilità di riaprire il campo a moltissime concessioni entro le 12 miglia), scegliendo però un’azione legislativa all’interno della legge di stabilità molto poco trasparente, che, di fatto, nel cedere su più punti alla pressione #NOTriv, ha creato le condizioni per un vero e proprio condono alle concessioni già attive entro le 12 miglia.

Le compagnie concessionarie, improvvisamente e contro ogni principio di gestione dei beni pubblici e della concorrenza, in barba ad ogni considerazione relativa al rispetto dei parametri ambientali concordati (il 70% delle piattaforme operano in gravissimo sforamento dei parametri) vedrebbero cambiare i termini del contratto, avendo la possibilità di gestire le concessioni “fino ad esaurimento dei giacimenti”.

Un regalo che si tradurrebbe in una pericolosa incertezza circa gli obblighi di messa in sicurezza delle aree e di ripristino delle condizioni ambientali a fine concessione, in una riduzione ulteriore delle royalties (nel combinato disposto di tempi più lunghi e della citata “franchigia” sui primi quantitativi estratti), e che farebbe rientrare dalla finestra, potenzialmente, persino la realizzazione di nuovi impianti di estrazione, in barba al divieto entro le 12 miglia, purché previsti dalle concessioni già attive.

Il voto del 17 aprile sarà centrato sulla richiesta di annullare i benefici di tale condono. Ma la partita che si gioca, nell’ottica della strategia complessiva qui sinteticamente descritta, è di tutt’altro livello.

Il cavallo di battaglia dei promotori del “no” (o, peggio, dell’astensione), sarebbe quello dell’inutilità di questo quesito, descritto come il suicidio di un popolo che rinuncia al proprio futuro: in pochissimi, però, ricordano che una scelta del genere arriverebbe in assoluta coerenza con i recentissimi impegni che il nostro governo ha sottoscritto assieme ad altri 194 Paesi durante la COP21 di Parigi, che a dicembre scorso ha messo per sempre le fossili “dalla parte sbagliata della storia”.

Per contenere i cambiamenti climatici entro una soglia sostenibile per il pianeta (2 gradi centigradi di innalzamento della temperatura media, ma meglio se 1,5), il processo strategico di decarbonizzazione dell’economia deve vedere un’immediata e importantissima accelerazione che prevede, tra le altre cose, che i 2/3 delle risorse fossili (metano compreso) debbano restare nel sottosuolo, senza “se” e senza “ma”.

La vittoria del si bloccherebbe progressivamente, in circa 10 anni, la produzione di quantitativi di gas metano pari al 3% del consumo nazionale e di petrolio di meno dell’1%: in un tempo decisamente minore si può compensare tale perdita con interventi minimi di efficientamento energetico (di strutture pubbliche, di processi produttivi, di abitazioni), potenziando un settore strategico, perfettamente in grado di riassorbire le eventuali perdite di posti di lavoro “oil&gas”.

Davvero un Paese che dovrà, assieme all’Europa, ridurre le proprie emissioni almeno del 60-70% entro il 2050 può temere un impegno così contenuto?

Davvero, in un Paese che ha pagato lo scorso anno il prezzo di 84.400 morti premature per inquinamento, si vuole credere che esista ancora una possibilità di cedere al ricatto salute-lavoro?

Davvero si pensa che il lavoro o l’indipendenza energetica verranno da un’industria fortemente sovvenzionata, destinata inesorabilmente ad esaurirsi, mentre si sceglie di riempire di zavorra i percorsi di costruzioni delle filiere industriali nazionali legate alle rinnovabili, all’efficienza energetica e si dimentica sistematicamente di investire su quei sistemi di mobilità nuova e sostenibile che ridurrebbero i consumi e gioverebbero a salute e benessere?

Questo referendum, dalla gittata apparentemente contenuta, ha invece un potere dirompente, perché la vittoria del SI può dare una spallata ad un castello di bugie, può mostrare che la strada verso la democrazia energetica, verso una promozione sostenibile dei talenti sani dei nostri territori (paesaggio, cultura, turismo, pesca e agricoltura sostenibili, eccellenze agro-alimentari) è segnata e che non si torna più indietro.

Un “sì” fermo e collettivo può essere il sasso che Davide scaglia contro Golia. Può essere la mossa del cavallo, che balza fuori dal piano della discussione su cui fittiziamente vuole tenerti l’avversario, e vince la partita intera.

«Referendum trivelle. Lo stato dell’arte è il seguente: ad oggi nessuna società petrolifera può chiedere nuovi permessi e nuove concessioni. Ma quel che la legge non consente non significa che venga impedito. Ad alcune condizioni». Il manifesto, 29 marzo 2016

Il prossimo 17 aprile i cittadini italiani si recheranno alle urne per decidere se cancellare la norma che attualmente consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Lo stato dell’arte è il seguente: ad oggi nessuna società petrolifera può chiedere nuovi permessi e nuove concessioni. Ma quel che la legge non consente non significa che venga impedito. Ad alcune condizioni.

I procedimenti amministrativi che erano in corso al momento dell’entrata in vigore della legge di stabilità 2016, finalizzati al rilascio di nuovi permessi e di nuove concessioni, sono stati chiusi; le attività di ricerca e di estrazione di gas e petrolio attualmente in essere sono state tuttavia procrastinate dalla legge di stabilità 2016 senza limiti di tempo, ossia per tutta la “durata di vita utile del giacimento”. Ciò significa che quelle attività cesseranno solo in due casi: qualora le società petrolifere concluderanno che sia ormai antieconomico estrarre oppure qualora il giacimento sarà esaurito.

Dal punto di vista normativo, aver procrastinato senza limiti di tempo quelle attività non può dirsi del tutto coerente con la ratio che informa la decisione legislativa, in quanto il divieto di effettuare nuove ricerche e nuove estrazioni si giustificherebbe sulla base di “gravi ragioni di carattere ambientale”; così almeno si leggeva nella relazione illustrativa al decreto sviluppo adottato dal Governo Monti, con il quale si introduceva il limite delle 12 miglia marine. Eppure, tertium non datur: o quelle ragioni sussistono sempre o quelle ragioni non sussistono mai.

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi – che ha definito il referendum “inutile” – è però di altro avviso: egli sostiene che l’attuale quadro normativo sia perfettamente coerente, in quanto, nonostante le attività di estrazione già autorizzate e ricadenti entro le 12 miglia marine potranno continuare ad essere esercitate, non sarà più possibile installare nuove piattaforme e perforare nuovi pozzi. In altre parole, non sarà più possibile “trivellare”.

Questa affermazione è, però, inesatta: attualmente, la legge non consente che entro le 12 miglia marine siano rilasciate nuove concessioni, ma non impedisce, invece, che a partire dalle concessioni già rilasciate siano installate nuove piattaforme e perforati nuovi pozzi. La costruzione di nuove piattaforme e la perforazione di nuovi pozzi è, infatti, sempre possibile se il programma di sviluppo del giacimento (o la variazione successiva di tale programma) lo abbia previsto. Questa conclusione è avvalorata anche da un parere del Consiglio di Stato del 2011, reso al Governo Berlusconi, che chiedeva lumi sulla portata del divieto di ricerca ed estrazione di petrolio entro le 5 miglia marine introdotto l’anno prima nel Codice dell’ambiente. La risposta del Consiglio di Stato è stata la seguente: il divieto non riguarda i permessi e le concessioni già rilasciati e non ricomprende le seguenti attività: l’esecuzione del programma di sviluppo del campo di coltivazione come allegato alla domanda di concessione originaria; l’esecuzione del programma dei lavori di ricerca come allegato alla domanda di concessione originaria; la costruzione degli impianti e delle opere necessarie, degli interventi di modifica, delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili all’esercizio; i programmi di lavoro già approvati con la concessione originaria; la realizzazione di attività di straordinaria manutenzione degli impianti e dei pozzi che non comportino modifiche impiantistiche.

Ora, è sufficiente andare a verificare quali siano le concessioni tutt’ora vigenti (e ricadenti entro le 12 miglia marine) e leggere l’originario programma di sviluppo del giacimento per capire che nuove trivellazioni ci saranno eccome. Basti pensare alla concessione C.C 6.EO nel Canale di Sicilia, che interessa le 12 miglia marine per circa 184 kmq: rilasciata nel 1984, essa ha ottenuto una proroga il 13 novembre scorso, con scadenza al 28 dicembre 2022. Ebbene, in base a tale proroga, la società Edison potrà costruire una nuova piattaforma – denominata Vega B – e perforare 12 nuovi pozzi.

Se vincerà il “no” (o se il referendum non raggiungerà il quorum) la piattaforma potrà essere realizzata, i pozzi perforati e l’estrazione potrà darsi senza limiti di tempo, fino a quando la società petrolifera lo vorrà; se, al contrario, vincerà il “sì”, potrebbero profilarsi due differenti epiloghi: o si riterrà – come sarei propenso a ritenere – che la piattaforma Vega B non potrà essere realizzata, i pozzi non potranno essere perforati e l’estrazione non potrà essere avviata (e questo in quanto il quesito originariamente proposto dalle regioni aveva ad oggetto anche l’abrogazione della norma sui “procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi” e sulla “esecuzione” delle attività relative); oppure dovrà ritenersi che la Edison potrà comunque completare la sua attività, ma fino alla scadenza della proroga, e cioè fino al 2022; il che, per ragioni di mero calcolo economico, potrebbe anche comportare una rinuncia preventiva da parte della società petrolifera alla realizzazione degli impianti e all’estrazione del greggio. Ma quale che sia l’epilogo, una cosa sembra certa: che il referendum del 17 aprile proprio inutile non sarà.

Gli sfruttatori delle risorse dei popoli impoveriti dallo sfruttamento avevano minacciato la dirigente ambientalista di farle fare la fine degli altri attivisti delle comunità indigene. Nonostante la "vigilanza" del governo lo hanno fatto. Articoli di F. Martone e G. Colotti. Il manifesto, 4 marzo 2016

LA VIOLENZA DEL «CAPITALISMO ESTRATTIVO»

di Fracesco Martone
Honduras. L’impatto di quella che David Harvey ha definito la seconda fase del capitalismo, quella «estrattivista». È piuttosto questione di vita o di morte come dimostra la tragica notizia di ieri dell’assassinio della leader indigena dell’Honduras Berta Caceres, ennesima cronaca di una morte annunciata. Insignita lo scorso anno del prestigiosissimo Goldman Environmental Prize , Berta era un esempio, un punto di riferimento, una compagna per chi lavora accanto a comunità indigene, chi sostiene la resistenza contro le grandi opere, il diritto all’autodeterminazione
Ha suscitato ammirazione il discorso di accettazione del premio Oscar per The Revenant nel quale Leonardo di Caprio esprime il suo sostegno ai popoli indigeni, alle loro lotte contro le imprese multinazionali, e per proteggere la Terra dai cambiamenti climatici. Non va però dimenticato che non è un pranzo di gala la realtà sul terreno, per le migliaia e migliaia di indigeni, campesinos, uomini e donne che soffrono un impatto devastante.

L’impatto di quella che David Harvey ha definito la seconda fase del capitalismo, quella «estrattivista». È piuttosto questione di vita o di morte come dimostra la tragica notizia di ieri dell’assassinio della leader indigena dell’Honduras Berta Caceres, ennesima cronaca di una morte annunciata. Insignita lo scorso anno del prestigiosissimo Goldman Environmental Prize , Berta era un esempio, un punto di riferimento, una compagna per chi lavora accanto a comunità indigene, chi sostiene la resistenza contro le grandi opere, il diritto all’autodeterminazione.

Nel 2010 aveva partecipato come testimone alla sessione del Tribunale Permanente dei Popoli dedicata alle imprese europee in America Latina, in occasione del vertice- Euro-Latinoamericano di Madrid. Dal 2013 in Honduras erano state assassinate altre tre donne compagne di Berta, che lottavano accanto a lei contro la diga di Agua Zarca sul fiume Gualcarque, dalla quale proprio a seguito delle campagne di pressione di Berta e delle reti di solidarietà internazionali si erano ritirate la International Finance Corporation della Banca Mondiale e l’impresa statale cinese Sinohydro. Va sottolineato che dal golpe del 2009 che portò alla destituzione del presidente Zelaya il paese ha registrato un aumento esponenziale di progetti idroelettrici per la generazione di energia a basso costo necessaria per alimentare le attività di estrazione mineraria.

Ed è proprio da allora che il mondo sembra essersi dimenticato dell’Honduras. Poco più di una settimana fa Berta e 200 esponenti delle comunità indigena del popolo Lenca vennero fatti oggetto di gravi intimidazioni da parte dei sostenitori della diga, in occasione di una loro manifestazione di protesta quando vennero fatti scendere a forza dai bus e costretti a camminare per cinque ore attraverso zone infestate dai paramilitari. Sempre a febbraio alcune comunità del popolo Lenca erano state espulse dalle loro terre con la forza. Oggi la notizia del suo assassinio nella sua casa nel paesino di Esperanza, Intibucà. Il suo nome si unisce a quelle decine di difensori della terra che ogni anno cadono per mano di sicari, forze di sicurezza, «pistoleros» di imprese o di grandi latifondisti.

Secondo l’ONG Global Witness solo nel 2014 sono caduti 116 difensori della terra, in una media di due a settimana. Il 40% erano indigeni la cui unica colpa era quella di opporsi a progetti idroelettrici, minerari o di estrazione mineraria nella maggior parte dei casi imposti violando le Convenzioni internazionali sui diritti dei popoli indigeni ed il loro diritto al consenso previo libero ed informato. 3/4 dei casi registrati da Global Witness erano in Centramerica ed in Sudamerica. Dal 2004 al 2016 solo in Honduras hanno trovato la morte 111 leader ambientalisti ed indigeni. Una strage silenziosa quella dei difensori della terra, denunciata più volte, ad esempio in occasione delle iniziative parallele alla COP20 di Lima, funestate dalla notizia dell’uccisione di Josè Isidro Tendetza Antun, leader Shuar ecuadoriano trovato morto pochi giorni prima di recarsi a Lima per testimoniare ad una sessione del Tribunale dei Diritti della Natura e delle Comunità Locali, che ha in cantiere proprio una sessione dedicata ai difensori della Madre Terra.

Nel 2014 Edwin Chota, leader della comunità Ashaninka nell’Amazzonia peruviana venne ucciso assieme ad altri tre suoi compagni per essersi opposto all’estrazione di legname dalle sue terre. Tomas Garcia compagno di lotta di Berta assassinato nel 2013 o Raimundo Nonato di Carmo che si opponeva alla diga di Tucurui, o Raul Lucas e Manuel Ponce uccisi nel febbraio del 2009 per essersi opposti alla diga di Parota ad Acapulco, Una sequela interminabile di omicidi collegati alla costruzione di dighe o altri progetti di sfruttamento delle risorse naturali.

Andando ancora indietro nel tempo, e riaprendo gli archivi del genocidio Maya perpetrato in Guatemala dalle varie dittature militari, riemerge la storia delle centinaia di indigeni Maya Achì, 376, sterminati dall’esercito per far posto alla diga di Chixoy, allora costruita dalla Cogefar Impresit, grazie a finanziamenti della Banca mondiale e poi anche della cooperazione italiana. Solo qualche mese fa, dopo venti anni, i parenti di quei morti hanno iniziato ad ottenere un risarcimento dal governo guatemalteco.

HONDURAS,
LA TOMBADEGLI AMBIENTALISTI
di Geraldina Colotti

Honduras. L’Honduras è uno dei paesi più pericolosi al mondo per gli ambientalisti. Secondo la ong Global Witness, tra il 2002 e il 2014 nel sono stati ammazzati 111. Solo nel 2014 - segnala la ong - in America latina sono stati uccisi 88 ecologisti, il 40% dei quali indigeni

La dirigente indigena Berta Caceres è stata uccisa in Honduras mercoledì scorso nella città di Esperanza, dipartimento occidentale di Intibucá, dove viveva. Due uomini armati le hanno sparato nella notte, eludendo la sorveglianza di una guardia armata, ora sotto inchiesta. Anche il fratello è rimasto ferito. Una morte annunciata, che chiama in causa le responsabilità dello stato, visto che la storica leader del Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (Copinh) era sottoposta a misure cautelari dopo l’ennesimo processo subito per la sua attività in difesa delle risorse naturali. Per questo, l’anno scorso ha ricevuto il premio Goldman, il massimo riconoscimento mondiale per un’ambientalista. Durante la consegna del riconoscimento ha denunciato: «Mi seguono, minacciano di uccidermi, di sequestrarmi. Minacciano la mia famiglia. A questo dobbiamo far fronte». La Commissione interamericana dei diritti umani, aveva ordinato al governo neoliberista di Juan Orlando Hernandez di garantire la sua sicurezza.

L’Honduras è uno dei paesi più pericolosi al mondo per gli ambientalisti. Secondo la ong Global Witness, tra il 2002 e il 2014 nel sono stati ammazzati 111. Solo nel 2014 – segnala la ong – in America latina sono stati uccisi 88 ecologisti, il 40% dei quali indigeni. Una cifra che equivale ai 3/4 degli assassinii commessi contro ambientalisti in qualunque parte del mondo. La resistenza organizzata delle popolazioni indigene contro le grandi imprese idroelettriche e minerarie – che devastano il territorio e obbligano gli indigeni ad andarsene -, ha però realizzato anche vittorie importanti, seppur pagate a caro prezzo. Caceres, il Copinh e le comunità indigene in lotta per la difesa dei propri territori ancestrali, sono riusciti a fermare la multinazionale Sinohydro: che ha deciso di ritirare la partecipazione nella costruzione del Rio Gualcarque a cui era interessata anche la Corporazione finanziaria internazionale, istituzione della Banca Mondiale. Un progetto che, oltre a privatizzare il fiume, avrebbe distrutto le attività agricole intorno per vari chilometri.

L’ultima lotta a cui ha partecipato Berta è stata quella contro l’attività di una impresa idroelettrica in una comunità indigena del Rio Blanco, a Santa Barbara. La settimana scorsa, aveva denunciato in una conferenza stampa che quattro dirigenti della sua comunità erano stati assassinati e altri minacciati. E nelle ultime settimane la repressione si era intensificata. Il 20 febbraio, nel rio Blanco, i nativi sono scontrati con l’impresa honduregna Desa, che gode di grandi finanziamenti internazionali e che ha preso di mira il fiume Gualcarque.

La coordinatrice del Copinh è stata anche in prima fila nella resistenza al colpo di stato contro l’allora presidente Manuel Zelaya, deposto dai militari il 28 giugno del 2009. Il pur moderato “Mel” aveva avuto l’ardire di volgersi alle nuove alleanze solidali dell’America latina come l’Alba, ideate da Cuba e Venezuela. Da allora, in un paese sempre più povero e ingiusto, le concessioni senza regole alle grandi multinazionali sono aumentate in modo esponenziale, distruggendo la possibilità di sopravvivenza dei popoli originari. Quasi il 30% del territorio nazionale è stato destinato a concessioni minerarie, e centinaia di progetti idroelettrici sono stati approvati, privatizzando fiumi, territori e obbligando all’esodo le comunità native.

Il progetto Agua Zarca, destinato a prender forma sul fiume Guarcarque, sacro per i nativi, è stato approvato senza alcuna consultazione del popolo Lenca, in palese violazione ai trattati internazionali che regolano i diritti dei popoli indigeni. Nonostante vari pronunciamenti delle organizzazioni internazionali per i diritti dei nativi, i grandi interessi economici hanno continuato a imporsi con violenza.

L’anno scorso, Honduras e Guatemala sono stati attraversati dalla protesta degli indignados, scoppiata a seguito di grandi scandali per corruzione che hanno interessato gli alti vertici dello stato. A maggio del 2015, il Movimiento Oposicion Indignada ha effettuato diverse marce contro l’impunità dopo l’esplosione di uno scandalo per una truffa milionaria all’Instituto Hondureno de Seguridad Social (Ihss). La principale richiesta è stata quella di una Commissione internazionale contro l’impunità in Honduras (Cicih), simile a quella che hanno creato con il Guatemala le Nazioni unite nel 2006. Il presidente Hernandez, però, ha chiesto l’appoggio dell’Osa e dell’Onu, per richiudere con un’operazione di facciata gli spiragli aperti dalle proteste. E i movimenti hanno rifiutato i palliativi. Tuttavia, a fine febbraio l’Osa e l’Onu hanno installato la missione anticorruzione in base a cinque punti, che prevedono “raccomandazioni” e la creazione di un Osservatorio sulla giustizia, composto da organizzazioni accademiche e della società civile, deputate a valutare i progressi della riforma del sistema giudiziario honduregno.

Una parata di alto bordo per salvare la faccia a un regime che risponde alle oligarchie e agli interessi sovranazionali, composta da rappresentanti del Dipartimento di Stato Usa e dall’Osa che da sempre ne dipende: e che contrasta per questo ogni tentativo di governare altrimenti i conflitti e le relazioni in America latina. Un tentativo di tenere a freno la polveriera centroamericana dove il vento del Socialismo del XXI secolo non si è diffuso, ma che guarda al campo progressista e ai movimenti che lo animano come a uno stimolo per resistere e per progettare. Dopo la deposizione di Zelaya, i movimenti di resistenza sono andati avanti, cercando una sponda politica anche istituzionale. Nonostante brogli e aggressioni, alle ultime elezioni Xiomara Castro, moglie di Zelaya, che ha corso per il partito Libre, ha raccolto un grande consenso.

Il sostegno dei paesi dell’Alba non è mai venuto meno. Zelaya, che abbiamo incontrato a dicembre in Venezuela, è stato uno degli osservatori internazionali alle ultime elezioni legislative, e ha sostenuto il chavismo. Berta Caceres ha viaggiato molto per incontrare i movimenti dell’Alba in America latina. Che ora ne piangono la scomparsa.

Sarà una resistenza durissima fino a quando la religione de Denaro non sarà stata sconfitta e il sistema capitalistico superato da uno finalmente umano. La Repubblica, 2 marzo 2016

«GLI STRANIERI hanno una visione finanziaria della terra. Per loro è moneta. Per noi è vita ». Nicholas Fredericks lotta da anni perché ai Wapichan venga riconosciuto legalmente il diritto alle loro terre ancestrali nella Guyana. Dieci anni fa furono le guide del suo popolo a guidare il team dello Smithsonian Institution che individuò il lucherino rosso, uccello che si credeva estinto. Eppure le loro foreste sono a rischio. «Sono la nostra vita, ma ci sono state tolte».

Oltre la metà delle terre di questo pianeta sono protette dai popoli indigeni e dalle comunità locali. Due miliardi e mezzo di persone che ogni giorno preservano gli ecosistemi più importanti del mondo, spesso a costo della vita. I Wapichan della Guyana, gli Yanomami e i Kayapó del Brasile, i Kui della Cambogia, i Masai del Kenya o i Garifuna del Belize. Sono loro i “custodi del pianeta” che ogni giorno combattono in prima fila contro i cambiamenti climatici, la povertà e l’instabilità politica, ma che rischiano di perdere tutto perché il loro diritto alla terra viene riconosciuto dai governi solo in un decimo dei casi. È di loro che parla il rapporto “Common ground”, diffuso oggi da Oxfam insieme all’International Land Coalition (Ilc) e all’Istituto di ricerca statunitense Rights and Resource Initative (Rrri), che segna il lancio della campagna Lands Rights Now in difesa del diritto alla terra dei popoli indigeni e delle comunità locali. L’obiettivo è raddoppiare entro il 2020 le terre di loro proprietà.

Da quando, negli anni Ottanta, il governo brasiliano ha riconosciuto agli indios del Brasile la titolarità di oltre 300 territori, pari a circa un quinto dell’Amazzonia, il tasso di deforestazione in queste aree è diminuito di oltre un decimo, mentre il resto è stato devastato in gran parte dai coltivatori di soia, dai minatori d’oro o dai rancher. Nella Repubblica Democratica del Congo e in Indonesia i territori indigeni trattengono una quantità di carbonio pari a circa 1,5 volte le emissioni mondiali. Senza una protezione legale, c’è il rischio che vengano rasi al suolo e che la temperatura globale superi i 2°C provocando calamità. «Land Rights Now è una campagna globale per rendere sicuri i diritti alla terra dei popoli indigeni e delle comunità locali contro ogni forma di accaparramento», spiega Luca Miggiano, responsabile del rapporto di Oxfam. «Non è solo giusto, è anche una strategia fondamentale per combattere la fame nel mondo, fermare il cambiamento climatico e conservare l’ambiente così com’è».

In Cambogia è una donna, Yaek Chang, ad avere sfidato due aziende di produzione dello zucchero di canna che nel 2011 avevano ottenuto la concessione di 18mila ettari di terreno, comprese le “Rolumtung”, le foreste degli spiriti sacre per il popolo Kui. E quando l’esercito dello Sri Lanka ha espropriato le loro terre per costruire un resort turistico sulla costa Est del Paese, sono state le donne di Paanama a opporsi al progetto. «Dobbiamo vincere questa battaglia per avere giustizia non solo per noi stesse, ma anche per i nostri figli e per le generazioni precedenti che hanno preservato queste terre per noi», racconta Rathnamali Kariyawasam. «Per questo siamo salite sui tetti del villaggio e ci siamo rifiutate di scendere finché le autorità non ci avessero risposto ». All’inizio del 2015 il governo neoeletto ha dato loro ragione, ma un anno dopo le autorità locali non hanno ancora restituito loro le terre. «Gli accaparramenti della terra non sono “gender- neutral”», spiega Victoria Tauli-Corpuz, relatrice speciale dell’Onu sui diritti dei popoli indigeni. «Sono le donne a rischiare di perdere i loro mezzi di sussistenza tradizionali, come la raccolta del cibo, la produzione agricola e la pastorizia».

Riconoscere il diritto alla terra dei popoli indigeni e delle comunità locali non solo proteggerebbe la biodiversità, ma renderebbe il mondo più equo. E sicuro. Dal 2002 a oggi la ong Global Witness ha documentato oltre mille morti di attivisti per il diritto alla terra o ambientalisti. Per questo, afferma Mike Taylor, direttore di Ilc, «è in gioco la vita di persone che su queste terre comunitarie dimorano e grazie ai frutti di queste terre si sostengono. Se non ci battiamo per assicurare i loro diritti umani fondamentali, non facciamo altro che voltare le spalle a queste comunità e non tutelare l’ambiente».

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Nelle terre riconosciute agli indios in Amazzonia, la deforestazione è diminuita di un quinto I Wapichan della Guyana: “Per gli stranieri la terra è moneta, per noi invece è vita”

NOMADI

Una donna della tribù indiana Van Gujjar. Le foto sono tratte dal rapporto “Common ground”

FOTO: © MICHAEL BENANAV

Dal celebrato incontro mondiale sul clima di Parigi, COP21, sono passati 2 mesi, ma non è cambiato proprio nulla. CNS - Ecologia Politica online, - numero 2-2016

“Finita la festa, gabbato lo santo”. Questo proverbio calza a pennello per l’accordo sul clima raggiunto a Parigi nel dicembre scorso, su cui è calato un silenzio di tomba. Tutti d’accordo a parole, ma nei fatti niente è cam

biato: in Italia e in Europa, la politica ruota intorno al debito pubblico, non al debito verso la biosfera. Il debito pubblico fa male ma non è mortale per la popolazione, mentre quello verso la biosfera lo è, perché crea uno squilibrio crescente tra il prelievo di risorse naturali e la capacita di rigenerazione della natura, distruggendo così le condizioni di sopravvivenza delle comunità.
Il grido dell’America latina nella crisi del debito estero degli anni 1970, “Pagar es morir, queremons vivir”, riassume il problema: il destino dei popoli del Sud è segnato in entrambi i casi, perché restituire il debito con gli interessi alle banche straniere significa trasformare l’economia, la società e l’ambiente naturale in funzione dei paesi creditori, invece che delle popolazioni locali. Come spiega Wendell Berry, lo scrittore-contadino statunitense nel suo libro La strada dell’ignoranza, accettare la distruzione delle proprie comunità significa perdere parte della nostra memoria, e dunque di noi stessi.
L ‘imperativo è, oggi come ieri, “salvare le banche, non i profughi”, che muoiono annegati o di fame e di sete, o di freddo, assiepati davanti ai fili spinati alzati in fretta e furia da molti paesi europei, senza che Bruxelles abbia aperto nessuna “procedura d’infrazione”, non prevista dai regolamenti europei. Nessuno parla di come salvare i profughi – i boat people, come quelli della guerra in Vietnam nel secolo scorso, che non si fermeranno quali che siano le politiche di respingimento nei loro confronti. Non ne parla neppure chi riconosce e racconta le condizioni disumane imposte dall’Europa a milioni di vittime di guerre e devastazioni ambientali, causate anche - se non soprattutto - dagli interessi geopolitici dei paesi occidentali.

Riferimenti

Vdi in proposito l;articolo ex ante di Guido Viale e quello ex posto di Paolo Cacciari, quest'ultimo scritto per eddyburg

La nomina dei nuovi organi di gestione pone una sfida nella quale si misurera la saggezza dei decisori: un passo un futuro nel quale tutela e produzione trovino una sintesi o abbandono al degrado di un patrimonio irriproducibile?

Il Parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli
diventi un laboratorio per il territorio
Appello della Società dei Territorialisti/e

Il Parco regionale di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli, nato negli anni ’70 grazie a un'ampia partecipazione popolare e all'interesse di intellettuali di prestigio come Antonio Cederna, ha rappresentato una bella pagina nella storia della protezione della natura in Italia: l'area è stata sottratta alla speculazione edilizia e sono stati preservati paesaggi, ecosistemi, testimonianze storiche e biodiversità. Nell'area del parco si giustappongono ambienti naturali notevolmente diversi: due bacini fluviali (Arno e Serchio), la spiaggia e il sistema delle dune, le “lame” retrodunali e i boschi planiziali.

Le moderne opere di bonifica, la vicina città, l'agricoltura e un turismo ormai “storico”, connotano antropicamente il Parco. Inoltre nella stratificazione storica del parco sono visibili i segni “paesaggistici” di diverse civilizzazioni che ne fanno una natura decisamente trasformata: quella rinascimentale, lorenese, piemontese, repubblicana, con una tradizione di parco produttivo, ad esempio nella coltivazione della pineta e nell’allevamento, che ne fa un “parco agricolo” antelitteram.

Il piano per l’Ente parco redatto negli anni Novanta da Pier Luigi Cervellati e Giovanni Maffei Cardellini è stato uno strumento esemplare di conservazione e riproduzione delle qualità territoriali storiche. L’attuale fase di rinnovo degli organi di gestione del Parco (Presidente e Consiglio) prevede l’elaborazione di un nuovo Piano, che dovrà conformarsi alle indicazioni normative, agli obiettivi di qualità e alle regole di trasformazione previste nel nuovo Piano paesaggistico (PIT) approvato dalla Regione nel 2014.

Il Parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli è il luogo ideale per sperimentare nuove forme di governo del territorio, che accolgano al tempo stesso le sfide della conservazione dei paesaggi “storici” che lo caratterizzano ( e non di una generica rinaturazione) e della promozione di un’agricoltura e di un’economia autosostenibili, turismo compreso.

La Società dei territorialisti invita quindi la Regione Toscana a fare di quest'area protetta un grande laboratorio, utile a tutta la Toscana. Occorre perciò lanciare una nuova ottica di gestione, uscendo da quella che attualmente mette il Parco in condizioni di estrema difficoltà, a partire dalla necessità di attirare risorse economiche per mantenersi in vita.

Ecco perché ci sembra fondamentale che la Regione ponga estrema attenzione nell'individuare persone di grande competenza, indipendenti e capaci di mettersi in relazione con le forze positive del territorio, con l'ambizione di sviluppare visioni di lungo periodo per la tutela dell'ambiente e lo sviluppo socio-economico dell'area, al di fuori delle logiche dell’appartenenza politica e secondo criteri trasparenti.

Rilanciare il Parco regionale, salvaguardando la sua funzione storica e sviluppando il ruolo di laboratorio di governance territoriale, è una sfida di estremo interesse per arginare il rischio di degrado territoriale e favorire condizioni di coerente sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

«Clima. La comunità umana sarà capace di superare le difficoltà del pianeta. E anche se nel testo finale della Conferenza di Parigi le parole agricoltura, biodiversità», coltivazione non compaiono mai, il 2016 sarà un anno positivo, di svolta».Il manifesto, 31dicembre 20152016
Qual è lo stato di salute del pianeta? Questa domanda non è certo di facile risposta, soprattutto perché riguarda una molteplicità di aspetti e di fattori che non è semplice riuscire a considerare in uno stesso colpo d’occhio. Interrogarsi su quale sia la qualità della nostra casa comune, tuttavia, non è solo un dovere che ci tocca come abitanti, ma una necessità sempre più pressante dato che, evidentemente, dallo stato del nostro pianeta dipendono tutte le nostre possibilità di sopravvivenza come specie umana. Forse già qui sta il primo punto di riflessione: a essere a rischio, con i cambiamenti climatici, la distruzione delle risorse naturali, l’ipersfruttamento dell’ambiente a scopo produttivo e l’erosione di habitat fragili a causa della pressione demografica, non è il pianeta ma semmai il futuro della specie umana.

La convinzione stessa che 7 miliardi di uomini possano porre fine alla vita di un pianeta che ha 5 miliardi di anni è, infatti, quantomeno un po’ eccentrica, se non decisamente megalomane. Ed è la stessa premessa culturale che fa sì che il rapporto che abbiamo con la Terra sia spesso predatorio e di dominazione piuttosto che di equilibrio e adattamento.
La realtà è invece ben diversa, perché con ogni probabilità altre specie sul pianeta prenderanno il posto di quelle che stiamo distruggendo con i nostri comportamenti produttivi scellerati, le risorse naturali si ricostituiranno quando noi non saremo più in grado di eroderle ma nel frattempo, speriamo di no, l’unica cosa che si sarà davvero persa per sempre sarà la specie umana, con tutta la sua potenza produttiva e tutta la sua gloriosa civiltà.

È dunque questo il triste destino che ci attende? Penso proprio di no, perché sono convinto che la nostra intelligenza, la nostra capacità di cooperare e il nostro spirito di sopravvivenza faranno sì che sapremo riprendere il contatto con la realtà e invertire questo processo autodistruttivo che affonda le radici nelle rivoluzioni industriali e che nell’ultimo secolo ha subito un’accelerata senza precedenti.

Il punto, infatti, è che come società umana abbiamo reso egemone un modello di relazioni e di interazioni basato su un’economia capitalista che identifica falsamente l’accumulazione di denaro con il progresso ma che in realtà genera la competizione sfrenata, la sopraffazione, l’ingiustizia, la sperequazione, lo spreco, la distruzione, lo sfruttamento, la povertà. Un’economia che uccide, come spesso ha ripetuto Papa Francesco che lo ha anche messo nero su bianco nell’enciclica Laudato Sì. Non solo, ma siamo anche riusciti a convincerci che questo sia il modello «naturale», che non ci sia altro modo di abitare la casa comune e di convivere con i nostri simili e con l’ambiente che ci ospita.

Per fortuna, invece, cambiare direzione si può,ma servono nuovi paradigmi che ci consentano di ricostruire il tessuto del nostro vivere comune su basi nuove, di cooperazione, di sostegno reciproco, di equità. Occorre un percorso comune, in cui però i paesi del nord globale (che sono i maggiori responsabili del deterioramento ambientale e dell’ipersfruttamento delle risorse) abbiano la forza e la dignità di assumersi la guida del cambiamento. Anche perché, non a caso, a subire maggiormente le conseguenze catastrofiche dei cambiamenti climatici saranno proprio quelle popolazioni e quelle aree del pianeta più fragili perché più povere o storicamente instabili.

In questo percorso di rinnovamento, la produzione del cibo può essere un esempio eclatante della forza propulsiva che hanno nuovi comportamenti virtuosi. Oggi il 70% delle risorse idriche è utilizzata per agricoltura e allevamento, fertilizzanti e pesticidi rappresentano una fonte rilevantissima di emissioni di gas serra, gli allevamenti industriali con le deiezioni degli animali sono grandissimi inquinatori delle falde acquifere, per non parlare delle enormi quantità di terreni che vengono utilizzati per la produzione dei mangimi, spesso deforestando vaste aree e utilizzando colture geneticamente modificate che erodono il patrimonio di biodiversità. Nello stesso tempo, però, proprio nella produzione di cibo sono evidenti enormi segnali di riscatto, di novità, di cura e di attenzione, proprio quei nuovi paradigmi di cui tanto sentiamo il bisogno e che spesso non sappiamo dove cercare.

Basti pensare alle esperienze dei milioni di contadini che in ogni angolo del mondo stanno già andando nella direzione della conservazione delle risorse naturali, utilizzando metodi agricoli in armonia con il territorio e con le condizioni ambientali, che non solo non impattano sugli habitat all’interno dei quali si inseriscono, ma al contrario ne aumentano resilienza e durabilità. Non solo, ma al fianco di questi produttori ci sono masse enormi di cittadini che hanno scelto di sostenere questo sforzo, tagliando gli intermediari e pagando un prezzo più alto ai produttori, remunerando in maniera equa il lavoro, pagandone in anticipo il prodotto in modo da non costringerli a prestiti spesso svantaggiosi, valorizzandone il lavoro pulito e promuovendone lo sviluppo. Questo nuovo mondo è già presente, è già diffuso, funziona e genera dignità, sviluppo e soddisfazione in tutti gli attori che vi prendono parte.

Eppure, nel dibattito mondiale sul clima, anche nella recente Conferenza di Parigi che aveva il compito di fissare pratiche e obiettivi concreti per contenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi, il settore dell’agricoltura è stato relegato ai margini. Come già evidenziato più volte, nel testo uscito dai negoziati non compaiono nemmeno una volta i termini «agricoltura», «biodiversità» e «coltivazione». Un ulteriore segno scoraggiante questo, perché esemplificativo di come non ci si renda conto che, per uscire dalla crisi ambientale in cui siamo immersi, non si può non assegnare un ruolo di primissimo piano all’attività necessaria alla sopravvivenza di ogni singolo essere umano: l’atto di nutrirsi.
Tutta l’attenzione è rivolta ai settori dell’energia, dell’industria, dei trasporti; è vero che si parla anche di suolo e di sicurezza alimentare, ma non si riconosce in modo esplicito il ruolo centrale del rapporto diretto fra clima, coltivazione della terra e cibo.

Tornando dunque alla domanda di partenza, probabilmente la riflessione sulla salute del pianeta non può essere compiuta se non ci domandiamo anche quale sia lo stato della comunità umana che lo abita. Quale mondo vogliamo lasciare ai nostri figli, quale idea di felicità vogliamo perseguire e come pensiamo di poterla raggiungere? Io credo fortemente nella nostra capacità di cambiare, di cooperare e di superare le difficoltà e questo mi rende ottimista. Bisogna tuttavia continuare a lottare per favorire la presa di coscienza globale che il feticcio della competizione non è compatibile con una vita degna e felice. In questo senso il 2016 che sta per iniziare sarà un anno di svolta, e sono convinto che lo sarà in termini positivi.

«Una verifica di fatto è già in corso: l’aria delle nostre città ha bisogno di piani di radicale riduzione delle emissioni». Il manifesto, 29 dicembre 2015 (m.p.r.)

I gas serra nel lunghissimo periodo impattano sul clima del vivente umano e non umano, nel breve e nel lungo periodo, fra l’altro, sul respiro e sulla salute della oltre metà cittadina degli umani. La riduzione delle emissioni petro-carbonifere (specie quelle di trasporti e riscaldamento) non serve solo a contenere il riscaldamento del pianeta e i conseguenti costi finanziari e sociali, ma anche a ridurre l’inquinamento atmosferico. Sotto questo punto di vista a Parigi si è capito molto (qui l’adattamento serve a poco) e deciso poco. Lo si capisce ancor meglio ogni giorno che passa a Pechino e a Roma (misurandolo in modo più sofisticato della sola anidride carbonica).

Nei commenti alla Cop21 sono stati sprecati aggettivi storici. Tutti le capitali e le nazioni che ospitano un’importante conferenza Onu vogliono aver lasciato un segno indelebile nel percorso dell’umanità, ogni capo di governo e ogni ministro vogliono poter dire di aver influito su una svolta epocale durante il proprio mandato, ogni militante e ogni interesse costituito vuole non sprecare il proprio tempo. Le categorie del bicchiere mezzo pieno-vuoto, della rivoluzione e del fallimento, di ottimismo-pessimismo ritornano ciclicamente e non aiutano a comprendere. Che la temperatura media del pianeta stia crescendo per comportamenti umani e che il riscaldamento provochi effetti già dannosi e potenzialmente rovinosi è acclarato sul piano scientifico e diplomatico da 25 anni.
L’Onu è un benestante precario corpo di nazioni formalmente unite, da quando è finita la guerra fredda ha cominciato a muoversi, nel 1988 ha legittimato un gruppo mondiale di scienziati che nel 1990 hanno approvato un primo Rapporto sui Cambiamenti Climatici. E nel 1992 ha organizzato a Rio una Conferenza per approvare una conseguente convenzione (insieme ad altri atti e indirizzi su ambiente e sviluppo). Da allora sono seguiti l’entrata in vigore, ben 21 incontri di tutte le “parti” dell’Onu e altri quattro rapporti dell’Ipcc.
Da un quarto di secolo sappiamo con sempre maggiore precisione che la temperatura del 2050 non dovrà aumentare di oltre 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, se vogliamo evitare uno sconquasso ingestibile nell’ecosistema globale e in tante singole aree, ingentissimi costi e migrazioni forzate. Nel 1997 a Kyoto si era adottata una strategia di impegni scadenzati e vincolanti, lì (come primo passo e per un primissimo periodo fino al 2012) solo per i paesi che avevano provocato più emissioni e riscaldamento. Il protocollo è entrato in vigore solo 8 anni dopo e progressivamente quella strategia è stata abbandonata, se ne è abbozzata un’altra da 5-6 anni. Da allora l’essenziale non è stato più negoziato, ovvero obblighi quantificati e scadenzati, globali e differenziati, legalmente vincolanti di riduzione delle emissioni per garantire al pianeta un aumento minimo della temperatura (e minor inquinamento).
Ogni paese farà quanto vuole, si adatterà, volontariamente, questa è la nuova strategia, piani nazionali di mitigazione e adattamento. Il ministro convoca sindaci e governatori ma il suo bel piano di decarbonizzazione non lo ha ben fatto! Ora la nuova strategia ha un minimo percorso legalmente vincolante e qualche punto fermo «politico». Da cinque anni i due punti cruciali e minimali del negoziato sono i soldi e i controlli: quanto e come mettono fondi i paesi ricchi per aiutare quelli poveri; chi e con quali coerenti omogenei strumenti misura l’eventuale riduzione.
Sul piano finanziario è stato trovato un qualche consenso, sia sulla cifra annuale dopo il 2020 sia sulle modalità di versamento prima e dopo il 2020. Sul piano amministrativo si lascia una eccessiva flessibilità: i piani nazionali di impegni volontari che sono stati presentati da 188 paesi, anche se fossero rispettati, provocheranno un aumento della temperatura tra il 2,7 e il 3%. Nel prossimo decennio in ogni paese dovremo ottenere che si faccia prima e meglio. E poi ci sono le «grandes questions oubliées» come le aveva chiamate lo speciale di Le Monde per Cop21: oceani, biodiversità, migrazioni, sicurezza alimentare. Questi temi non figuravano nemmeno all’interno del negoziato climatico, pur essendo strettamente connessi agli impatti e agli effetti dei cambiamenti climatici in corso.
Nel prossimo decennio dovremo ottenere che si apra un serio negoziato globale, i documenti di Parigi non danno certezze su energia e agricoltura, mobilità e migrazioni sostenibili. L’enciclica papale e i documenti di altre religioni (a Istanbul quella dell’Islam) sono essenziali alla nuova strategia, abbiamo un gran bisogno di donne e uomini di buona volontà, credenti e non credenti, per promuovere resilienza degli ecosistemi, biodiversità dei beni comuni, lotta a ingiustizie e inuguaglianze, garanzia globale di libertà di accesso alle risorse, cooperazione (anche decentrata) allo sviluppo sostenibile.
L’accordo di Parigi va ora ratificato (il meccanismo delle ratifiche è simile a quello che approvammo a Kyoto 18 anni fa, solo che ora gli emettitori che contano sono Cina e Usa, mentre allora erano Usa e Russia). Il combinato disposto delle parti «legali» e delle parti «politiche» rende non indispensabile l’iter legislativo americano (Obama è riuscito in una bella operazione). Entro il 2020 dovrebbe entrare in vigore, un po’ prima vi sarà la verifica «politica» dei piani nazionali, un po’ dopo quella «legale» (quinquennale). Una verifica di fatto è già in corso: l’aria delle nostre città ha bisogno di piani di radicale riduzione delle emissioni.

Riferimenti

Sul fallimento di COP21 vedi su questo sito l'articolo di Paolo Cacciari, Una mano di vernice verde sul nuovo business

Una rigorosa e appassionata analisi della grande truffa perpetrata a Parigi ai danni di moltitudini (oggi i misconosciuti "profughi ambientali", domani anche noi e i nostri posteri) e a vantaggio del nuovo greenbusiness. 20 dicembre 2015

L'accordo di Parigi sul clima è, a dir poco, inadeguato. Il coro entusiasta che si è levato, anche da alcune organizzazioni ambientaliste, è del tutto fuori luogo. A voler essere precisi la Cop 21 segna l'ennesimo tentativo dei governi degli stati del pianeta di prendere tempo e di procrastinare decisioni che sono sempre più necessarie, urgenti ed evidenti.

Obiettivo dei governi: procrastinare.
Ma per molti è già tardi
Per molti il tempo è già ora. I 266 milioni di profughi ambientali (Parlamento europeo, Commissione per l'ambiente, documento 30/9/2015) che negli ultimi cinque anni hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni sono stati inopinatamente cancellati dal testo finale dell'accordo di Parigi. Inesistenti. A loro gli stati rifiutano il riconoscimento di rifugiati climatici.
Non hanno più tempo nemmeno i “Piccoli stati insulari” a rischio di sommersione. Non sto pensando all'isola di Tokelau e agli atolli del Pacifico. E nemmeno a Chalan Beel, negli estuari della rete fluviale del Bangladesh. Ma a Venezia dove le mastodontiche e costosissime dighe mobili verranno sormontate perchè progettate per un orizzonte di efficacia di innalzamento del livello modio del mare di “soli” 80 cm.
Non hanno più tempo le popolazioni asfissiate dai gas di scarico e dai particolati sottili inalabili emessi dalle centrali a carbone, dai cementifici, dagli inceneritori, dalle navi, dagli aerei a cherosene, dalle automobili. Il contatore della Organizzazione Mondiale della Salute che registra le morti premature, l'asma e le bronchiti croniche causate dall'inquinamento atmosferico continuerà a girare. A Pechino come nella Pianura Padana. Le splendide foto degli animali in via di estinzione continueranno a dare spettacolo sul colonnato di San Pietro anche nei prossimi giubilei.
L'accordo andrà in vigore il primo gennaio del 2021. Il primo Global Stocktake è fissato per il 2023. Fino al 2030 i paesi in via di sviluppo potranno aumentare le loro emissioni.

Prosegue la guerra contro la Terra
e i suoi abitanti

La guerra contro la Terra e i suoi abitati scatenata duecento anni fa dai paesi di più antica industrializzazione non si è affatto conclusa. Gli stati maggiori del business a Parigi hanno convenuto di usare nuove armi non convenzionali per continuare a condurre i loro affari. Investiranno in geo-ingegneria e in biotecnologie per tentare di catturare il diossido di carbonio dall'atmosfera e iniettarlo a pressione nel sottosuolo (Carbon Capture and Storage), pianteranno monoculture di alberi transgenici per aumentare la fotosintesi clorofilliana, fertilizzeranno gli oceani per assorbire più anidride carbonica e aumenteranno la nuvolosità diffondendo particelle di acido solforico ad alta quota per manipolare le radiazioni solari e diminuire l'effetto serra. Ci daranno da mangiare hamburger sintetici e ortaggi coltivati senza terra. Chissà che buoni!
Del resto, sull'ultimo lembo dell'ultimo ghiacciaio delle Dolomiti, sulla Marmolada, quest'estate, hanno provveduto a stendere un pietoso telo di nailon nel disperato tentativo di proteggerlo dal sole. Il dott. Frankenstein non si arrende mai, e il mito di Prometeo non accenna a sfiorire nemmeno dopo la prova del nucleare.
L'accordo di Parigi parla chiaro: l'obiettivo non è quello di chiudere le fonti dei gas climalteranti (e lasciare carbone e petrolio riposare sotto terra), ma di raggiungere la “neutralità delle emissioni” (nella seconda metà del secolo) attraverso le compensazioni: tanto gas posso emettere quanto riesco a dimostrare di farlo sparire.
Nessuna autocritica
sui fallimenti del passato
Nessuna considerazione autocritica sui risultati fallimentari fin qui raggiunti dai meccanismi (già previsti dal protocollo di Kyoto e applicati in Europa) di compra/vendita dei “diritti di emissione”(Emission Trading Scheme), ovvero permessi di inquinamento e del loro trasferimento nelle diverse aree del pianeta. Il mercato artificiale dell'“aria fritta” (Cape and Trade) ha aperto una nuovo campo per la finanziarizzazione dell'economia, ma non ha comportato alcuna reale riduzione delle emissioni. Il colonialismo del carbonio impone ai paesi poveri di provvedere a ripulire l'aria che i paesi ricchi sporcano con i loro smodati consumi. Lo stesso meccanismo di computo delle emissioni è una vera e propria truffa ai danni dei paesi produttori di beni che poi vengono consumati altrove.
Un minimo di onestà imporrebbe che fossero i beneficiari finali a pagare le esternalità negative generate lungo la filiera della produzione e della distribuzione delle merci. Gianni Silvestrini, nel suo ultimo lavoro (2C (due gradi), Kyoto Club e Edizioni Ambinete, 2015), propone una sorta di “Imposta progressiva sul carbonio aggiunto” da applicare al prezzo finale delle merci. Senza una vera cooperazione alla pari tra paesi che dispongono di materie prime e paesi che detengono le tecnologie, il previsto “meccanismo di supporto per lo sviluppo sostenibile” e il “trasferimento tecnologico” attraverso il Financial Mechanism non sarà altro che il modo per mantenere rapporti di scambio favorevoli alle grandi compagnie che hanno acquisito diritti di estrazione e brevettato le tecnologie per utilizzarle.
Parole chiave:
Resilienza, Nature&Business
Nell'accordo di Parigi, come noto, è saltato ogni riferimento ai target di riduzione di CO2 e CO2 equivalente. Il motivo è semplice: si pensa di contenere il surriscaldamento del globo “ben sotto i 2 gradi” (a fine secolo) senza diminuire le emissioni totali, ma “catturandole” o/e aumentando la “capacità adattiva” dei territori. “Resilienza” è la nuova parola di moda. Un gioco di prestigio fantasmagorico presentato a Parigi al Gran Palais nella fiera delle green and clear technologies dove erano schierati tutti gli sponsor della Cop 21. Da Google alla Coca Cola, da Apple alla Toyota. Tutti convertiti alla SolarCity. Ma La città del sole di Tommaso Campanella prevedeva che i suoi abitanti (i “solari”) lavorassero quattro ore al giorno e contemplava l'abolizione della proprietà privata.
Un forum ufficiale della Cop 21 si intitolava “Nature & Business”. La preoccupazione costante dei governanti, infatti, sembra essere quella di trovare il modo di garantire crescita economica e profitti aziendali attraverso attività produttive che non peggiorino le condizioni di vivibilità e di funzionalità ecologica del pianeta. Una scommessa assai ardua e al limite dell'impossibile senza avere il coraggio di intaccare quantomeno gli interessi delle Big Oil. Una operazione che dovrebbe portare a spostare ingenti quantità di capitali dalle compagnie che detengono il controllo dei giacimenti fossili a favore dello sviluppo e dell'impiego delle energie rinnovabili.
James Hansen, astrofisico e climatologo, ha fatto una affermazione molto di buon senso: “Fino a che i carburanti fossili saranno più economici, continueranno a essere bruciati”. Un'operazione che richiederebbe l'uso di strumenti come la Carbon tax, ma a Parigi è continua ad essere una parola innominabile. Il potere delle industrie petrolifere continua ad essere tale per cui – constata Marica Di Pierri - “Nel testo di 31 pagine votato a Parigi neppure una volta vengono nominati i termini petrolio, carbone o combustibili fossili”.

Le parole che mancano

Nel testo finale non appaiono nemmeno le parole acqua, agricoltura, trasporti, edilizia e quante altre abbiano a che fare con i modi di vita concreti delle persone e con le politiche pubbliche. Come se i modelli energetici, alimentari, insediativi, economici e sociali non dovessero mutare a seguito della fuoriuscita dall'era tossica dei combustibili fossili.
La decarbonizzazione degli apparati produttivi potrà avvenire solo attraverso un cambiamento dei modelli di business, di impresa, di consumo. Il rientro delle attività umane nei limiti delle capacità rigenerative della biosfera passa attraverso una revisione teorica e pratica del concetto di economia. Dovremmo imparare a soddisfare le nostre esigenze, necessità e desideri, senza intaccare gli stock naturali e compromettere i servizi ambientali. Beni comuni non negoziabili, non mercificabili, non privatizzabili, non dissipabili.

Ignorate le verità proclamate da papa Francesco
e quelle documentate dagli scienziati

A smuovere gli animi dei governati non è bastata né la grande mobilitazione popolare internazionale né le “bolle” di papa Bergoglio. L'accordo di Parigi è un muro di gomma eretto anche contro le osservazioni degli scienziati dell'Ipcc, nominati dagli stessi governi.
Se, da una parte, gli stati non possono più fare a meno di riconoscere che “le attività umane sono la causa principale del riscaldamento osservato” (5° Rapporto Ipcc), dall'altra parte la somma degli impegni (volontari e flessibili) di riduzione delle emissioni che i singoli governi hanno proposto e che la Cop 21 ha accettato come buoni supera di molto (due, tre volte) il limite massimo che gli scienziati ritengono compatibili con un aumento massimo della temperatura di 2 gradi a fine secolo.
Se non ho capito male le raccomandazioni degli istituti di ricerca sul clima, bisognerebbe ridurre le emissioni di origine antropica di CO2 di 8 Giga tonnellate entro il 2020 e di 11 Gt entro il 2030 per rimanere in un tetto di 1.010 Gt di CO2. In altre parole, mentre le stime dei centri di osservazione indicano la necessità di ridurre le emissioni di almeno l'80% entro il 2030, l'ineffabile Accordo di Parigi consente ai singoli stati di continuare ad emetterne quantità superiori. Nessun target quantitativo di riduzione ulteriore delle emissioni è stato fissato.
Il testo, quindi, si caratterizza come una mera petizione di principio e poco più di un auspicio affinché i singoli stati provvedano per conto loro, autonomamente e secondo il loro buon cuore, a fare di più di ciò che si sono impegnati a fare finora. Nel 2023 un gruppo “technical expert review” provvederà a verificare le promesse (pledge and review). Nel frattempo i presidenti e i capi di stato cambieranno e le stesse promesse verranno ripetute dai successori. E' già accaduto nel 1992 quando fu varata la Convenzione sul clima dell'Onu, nel 1997 quando fu firmato (anche da un presidente degli Stati Uniti) il Protocollo di Kyoto e negli interminabili summit successivi. Ha scitto Gunter Pauli, imprenditore ed economista belga, presidente della Novamont: “Stiamo assistendo alla stessa fanfara di 18 anni fa. Purtroppo a questo accordo globale mancano contenuti solidi e impegni inequivocabili” (Left, 19 dicembre 2015).

Basterebbero 4 cose
per essere fiduciosi
Cosa sarebbe stato necessario poter leggere nell'accordo di Parigi per essere più fiduciosi? Poche e semplicissime cose.
Primo, che venisse stabilita una tassa capace di colpire il tenore di carbonio contenuto nei prodotti di consumo da reimpiegare per rendere conveniente l'uso di energie rinnovabili ed evitare la delocalizzazione delle emissioni di carbonio.
Secondo, che venissero premiati i paesi che rinunciano allo sfruttamento dei loro giacimenti di combustibili fossili attraverso una carbon tax da imporre alle compagnie che estraggono combustibili fossili, così da creare una equa socializzazione delle risorse fossili di cui l'umanità non può ancora fare a meno. Ricordo che le imprese petrolifere hanno contabilizzato riserve e patrimonializzato giacimenti di petrolio e gas naturale per una quantità 10 volte superiore alla capacità della biosfera di assorbire e metabolizzare il carbonio che dovesse essere generato dalla loro combustione.
Terzo, che venissero favoriti i sistemi urbani di trasporto collettivi e l'edilizia con la migliore resa energetica.
Quarto, che fosse riconfigurato il sistema agroalimentare sui modelli dell'agricoltura contadina di prossimità, ridimensionando drasticamente la zootecnia intensiva (26 miliardi di animali allevati ogni anno per l'alimentazione umana) se è vero che le stime della Fao e della Oms attribuisco alla filiera delle carni di allevamento una quota del 20% delle emissioni totali di gas climalteranti. Quinto, ma decisivo, che venisse riconosciuto il diritto inalienabile dei popoli nativi di impedire lo sfruttamento da parte di terzi delle risorse naturali forestali, minerarie, marine.
Una (sola) nota positiva
L'unica nota davvero positiva che viene da Parigi è l'apertura di un portale che registra gli impegni extra-accordo che le città, le regioni, le imprese e gli altri operatori economici vorranno autonomamente e indipendentemente assumersi. Già 2.255 comuni di tutto il mondo hanno avviato piani energetici più ambiziosi. Ancora l'imprenditore illuminato Gunter Pauli: “Invece di governi alla ricerca di accordi globali con obiettivi vaghi, abbiamo bisogno dell'alleanza di tutti i sindaci e dei cittadini, per poter agire dove conta e dove le iniziative possono essere prese in pochi giorni”. Speriamo che sotto la spinta della cittadinanza attiva si possa fare di più e meglio.

«Non esiste nessun approccio geoingegneristico già sperimentato e che funzioni con certezza. È per questo la maggior parte degli scienziati considera gli esperimenti geoingegneristici qualcosa di pericolosissimo, da evitare a tutti i costi». La Repubblica, 3 dicembre 2015 (m.p.r.)

I cambiamenti climatici globali sono una delle forze che condizioneranno maggiormente la vita di tutti gli esseri umani che vivranno nei prossimi decenni. Quasi tutti ne hanno sentito parlare, ma è una materia così complicata e ricca di paradossi che poche persone, al di fuori degli addetti ai lavori, la capiscono davvero. Cercherò di spiegarla nel modo più chiaro possibile, con l’aiuto di un diagramma di flusso della catena di causa/effetto, che può essere usato per seguire la mia spiegazione.
Il punto di partenza è la popolazione mondiale di esseri umani e l’impatto medio di ciascun essere umano (cioè la quantità media di risorse consumate e scarti prodotti per persona e per anno). Tutte queste quantità stanno aumentando, anno dopo anno, e di conseguenza sta aumentando l’impatto umano complessivo sul pianeta: l’impatto pro capite, moltiplicato per il numero di persone che ci sono al mondo, dà come risultato l’impatto complessivo.

Uno scarto importante è il biossido di carbonio o anidride carbonica (abbreviato in CO2), che provoca i cambiamenti climatici quando viene rilasciato nell’atmosfera, principalmente a causa del nostro consumo di combustibili fossili. Il secondo gas più importante all’origine dei cambiamenti climatici è il metano, che esiste in quantità molto più ridotte e al momento rappresenta un problema meno grave della CO2, ma che potrebbe diventare importante per effetto di un anello di retroazione positiva: il riscaldamento globale scioglie il permafrost, che rilascia metano, che provoca ancora più riscaldamento, che rilascia ancora più metano e così via.

L’effetto primario della CO2, quello di cui più si discute, è la sua azione di gas a effetto serra. Significa che la CO2 assorbe una parte delle radiazioni a infrarossi della Terra, facendo crescere la temperatura dell’atmosfera. Ma ci sono altri due effetti primari del rilascio di CO2 nell’atmosfera. Uno è che la CO2 che produciamo viene immagazzinata anche dagli oceani, non solo dall’atmosfera. L’acido carbonico che ne risulta fa aumentare l’acidità degli oceani, che già adesso è al livello più alto negli ultimi 15 milioni di anni. Questo processo scioglie lo scheletro dei coralli uccidendo le barriere coralline, che sono un vivaio di riproduzione per i pesci dell’oceano e proteggono le coste delle regioni tropicali e subtropicali da onde e tsunami. Attualmente, le barriere coralline del mondo si stanno riducendo dell’1-2 per cento ogni anno, il che significa che alla fine di questo secolo saranno in gran parte scomparse. L’altro effetto primario del rilascio di CO2 è che influenza direttamente (in modo positivo o negativo) la crescita delle piante.
L’effetto del rilascio di CO2 di cui più si discute, in ogni caso, è quello che ho citato per primo: il riscaldamento dell’atmosfera. È quello che chiamiamo «riscaldamento globale», ma l’effetto è talmente complesso che questa definizione è inadeguata: è preferibile «cambiamenti climatici globali». Innanzitutto, le catene di causa ed effetto fanno sì che il riscaldamento atmosferico finirà, paradossalmente, per rendere alcune aree di terre emerse (fra cui il Sudovest degli Stati Uniti) più fredde, anche se la maggior parte delle regioni (fra cui quasi tutto il resto degli Stati Uniti) diventerà più calda.
In secondo luogo, un’altra tendenza è l’incremento della variabilità del clima: tempeste e inondazioni sono in aumento, i picchi di caldo stanno diventando più caldi e i picchi di freddo più freddi; questo spinge quei politici scettici che non capiscono nulla dei cambiamenti climatici a pensare che tali fenomeni siano la prova che i cambiamenti climatici non esistono. In terzo luogo, c’è l’aspetto dello sfasamento temporale: gli oceani immagazzinano e rilasciano CO2 molto lentamente, tanto che se stanotte tutti gli esseri umani sulla Terra morissero o smettessero di bruciare combustibili fossili, l’atmosfera continuerebbe comunque a riscaldarsi ancora per molti decenni. Infine, c’è il rischio di effetti amplificatori non lineari di vasta portata, che potrebbero provocare un riscaldamento del pianeta molto più rapido delle attuali, prudenti proiezioni. Fra questi effetti amplificatori c’è lo scioglimento del permafrost e il possibile collasso delle calotte di ghiaccio dell’Antartide e della Groenlandia.
Venendo alle conseguenze della tendenza al riscaldamento medio del pianeta, ne citerò quattro. La più evidente per molte parti del mondo è la siccità. Per esempio nella mia città, Los Angeles, questo è l’anno più secco della storia da quando si sono cominciati a raccogliere i dati meteorologici, nel primo decennio dell’Ottocento. La siccità è un problema per l’agricoltura. Le siccità causate dai cambiamenti climatici globali sono distribuite in modo disuguale nel pianeta: le aree più colpite sono il Nordamerica, il Mediterraneo e il Medio Oriente, l’Africa, le terre agricole dell’Australia meridionale e l’Himalaya.
Una seconda conseguenza della tendenza al riscaldamento medio del pianeta è il calo della produzione alimentare, per la siccità e paradossalmente per l’aumento delle temperature sulla terraferma, che può favorire più la crescita delle erbe infestanti che la crescita di prodotti destinati al consumo alimentare. Il calo della produzione alimentare è un problema perché la popolazione umana e il tenore di vita del pianeta, e di conseguenza il consumo di cibo, stanno aumentando (del 50 per cento nei prossimi decenni secondo le previsioni): ma già adesso abbiamo un problema di cibo, con miliardi di persone denutrite.
Una terza conseguenza del riscaldamento del pianeta è che gli insetti portatori di malattie tropicali si stanno spostando nelle zone temperate. Fra i problemi sanitari conseguenza di questo fenomeno al momento possiamo citare la trasmissione della febbre dengue e la diffusione di malattie portate dalle zecche negli Stati Uniti, lo sbarco della febbre tropicale Chikungunya in Europa e la diffusione della malaria e dell’encefalite virale.
L’ultima conseguenza del riscaldamento medio globale che voglio citare è l’innalzamento del livello dei mari. Stime prudenti al riguardo prevedono che il livello dei mari salirà nel corso di questo secolo di circa un metro, ma in passato i mari sono saliti anche di dieci metri: la principale incertezza in questo momento riguarda il possibile collasso e scioglimento delle calotte di ghiaccio dell’Antartide e della Groenlandia. Ma anche un aumento medio di solo un metro, amplificato da tempeste e maree, sarebbe sufficiente a compromettere la vivibilità della Florida, dei Paesi Bassi, dei bassopiani del Bangladesh e di molti altri luoghi densamente popolati.
Gli amici a volte mi chiedono se i cambiamenti climatici stiano avendo qualche effetto positivo per le società umane. Sì, qualche effetto positivo c’è, per esempio la prospettiva di aprire rotte navali sgombre dai ghiacci nell’estremo Nord, per lo scioglimento dei ghiacci artici, e forse l’incremento della produzione di grano nella wheat belt del Canada meridionale e in qualche altra area. Ma la stragrande maggioranza degli effetti sono enormemente negativi per noi.
Ci sono rimedi tecnologici rapidi per questi problemi? Forse avrete sentito parlare di ipotesi di geoingegneria, per esempio iniettare particelle nell’atmosfera o estrarre CO2 dall’atmosfera per raffreddarla. Ma non esiste nessun approccio geoingegneristico già sperimentato e che funzioni con certezza; inoltre gli approcci proposti sono molto costosi e sicuramente richiederanno molto tempo e provocheranno effetti collaterali negativi imprevisti, tanto che dovremmo distruggere la Terra sperimentalmente dieci volte prima di poter sperare che la geoingegneria, all’undicesimo tentativo, produca esattamente gli effetti positivi desiderati. È per questo la maggior parte degli scienziati considera gli esperimenti geoingegneristici qualcosa di pericolosissimo, da evitare a tutti i costi.
Significa che il futuro della civiltà umana è segnato e che i nostri figli vivranno certamente in un mondo in cui non vale la pena di vivere? No, naturalmente no. I cambiamenti climatici sono provocati principalmente dalle attività umane, perciò tutto quello che dobbiamo fare per ridurli è ridurre queste attività. Vuol dire bruciare meno combustibili fossili e ricavare una fetta maggiore della nostra energia da fonti rinnovabili come il nucleare, il vento e il sole. Se anche solo Stati Uniti e Cina raggiungessero un accordo bilaterale sulle emissioni di CO2, coprirebbe il 41 per cento delle emissioni attuali. Se l’accordo diventasse pentalaterale, con l’adesione dell’Unione Europea, dell’India e del Giappone, coprirebbe il 60 per cento delle emissioni mondiali. L’ostacolo è solo uno: la mancanza di volontà politica.
Traduzione di Fabio Galimberti
COP21. Il devastante tentativo di operare sui problemi della nostra epoca immaginando che il capitalismo possieda la stessa utilità sociale di tre secoli fa e che il pianta Terra sia rimasto quello di allora. Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015
Il “vertice blindato” sul cambiamento climatico a Parigi mostra, perfino dal punto di vista semiotico, la coazione a ripetere della nostra modernità capitalistica. Un modello di sviluppo immaginato durante la rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo, quando i beni comuni ecologici e sociali erano sovrabbondanti (foreste, acqua, fauna, flora, villaggi, clan, gilde) mentre il capitale era scarsissimo. Da allora i giuristi, insieme a filosofi e scienziati, hanno lavorato alacremente per concentrare il potere al fine di trasformare i beni comuni in capitale, ossia il valore d’uso in valore di scambio.

Concentrare il capitale era necessario per risolvere bisogni collettivi importanti, dal cibo al rifugio, dalla sanità ai trasporti. I giuristi occidentali, hanno svolto un lavoro prodigioso per creare le basi istituzionali dello sviluppo capitalistico: proprietà privata, sovranità pubblica, libertà contrattuale, responsabilità limitata ai casi di colpa, società per azioni, sono talune delle principali istituzioni che hanno conquistato il comune sentire.

Oggi le condizioni sono opposte. Il capitale concentrato è abbondantissimo (quello finanziario stimato in dieci volte il Pil del mondo) e i beni comuni, ecologici e sociali, sono tutti in crisi terminale, vittimizzati rispettivamente dall’inquinamento e dall’individualizzazione capitalistica. Il riscaldamento climatico e l‘impronta ecologica dimostrano che occorre invertire la rotta.

Sostenendo di volerlo fare, i titolari della sovranità pubblica, le cui azioni sono oggi più che mai determinate dai desideri delle grandi concentrazioni di capitale privato (corrporazioni transnazionali) si blindano in un vertice dal quale molti sperano ancora possa uscire una soluzione dall’alto, magari tradotta in diritto sotto forma di trattato internazionale fra Stati. Qui sta la coazione a ripetere. Il vertice costituisce infatti l’immagine della concentrazione del potere. La blindatura è l’essenza dell’esclusione. Oggi tuttavia la funzione del diritto dovrebbe essere quella di trasformare capitale in beni comuni, creando istituzioni fondate sulla diffusione del potere e sull’inclusione collettiva.

Per invertire la rotta servono principi opposti a quelli che hanno consentito al capitalismo di realizzarsi e naturalizzarsi come pensiero unico, producendo un’ideologia di estrazione e sfruttamento tecnologico che noi occidentali cerchiamo di imporre a tutto il mondo col nome di crescita e sviluppo. Dobbiamo prima di tutto capire che la nostra stessa idea del diritto come prodotto del potere politico concentrato imposto dall’alto in basso è parte del problema e non può dunque essere la soluzione.

Il diritto non va più visto come astrazione formale, come una griglia di regole del gioco tracciate dai potenti ai sensi delle quali misurare e classificare come legali o illegali i comportamenti del corpo sociale. Il diritto deve essere cultura della legittimità sostanziale, traduzione in comportamenti del corpo sociale di una certa visione del mondo, ecologicamente sostenibile, capace di diventare egemonica. È Il diritto stesso dunque a necessitare una risistemazione ecologica complessiva in cui le sue basi vengano ridiscusse alla luce di mutamenti drammatici che hanno prodotto bisogni sociali letteralmente opposti rispetto ai tempi della rivoluzione industriale.

Il diritto deve essere prodotto dal basso attraverso la diffusione del potere, l’accesso e l’inclusione di quanti, e sono molti al mondo, hanno già maturato una soggettività ecologica. Costoro sfidano a buon diritto la legalità distruttiva del capitalismo. I loro comportamenti sono tanto illegali quanto quelli di Rosa Parks che resisteva l’apartheid per darci un mondo più giusto.

«Si sente spesso dire, in Europa e negli Stati Uniti, che la Cina ora è il primo inquinatore a livello mondiale e che adesso tocca a Pechino e agli altri Paesi emergenti fare degli sforzi. Dicendo questo, però, ci si dimentica di parecchie cose». La Repubblica, 1 dicembre 2015 (m.p.r.)

Dopo gli attacchi terroristici, ci sono purtroppo seri rischi che i dirigenti francesi e occidentali abbiano la testa altrove e non facciano gli sforzi necessari perché la Conferenza sul clima di Parigi vada a buon fine. Sarebbe un esito drammatico per il pianeta. Innanzitutto perché è arrivato il momento che i paesi ricchi si facciano carico delle loro responsabilità storiche di fronte al riscaldamento climatico e ai danni che già adesso arreca ai paesi poveri. In secondo luogo perché le tensioni future su clima ed energia sono gravide di minacce per la pace mondiale.

A che punto è la discussione? Se ci atteniamo agli obbiettivi di riduzione delle emissioni presentati dagli Stati, i conti non tornano. Siamo avviati lungo una traiettoria che porta verso un riscaldamento superiore ai tre gradi e forse più, con conseguenze potenzialmente cataclismatiche, in particolare per l’Africa, l’Asia meridionale e il Sudest asiatico. Anche nell’ipotesi di un accordo ambizioso sulle misure di mitigazione delle emissioni, è già sicuro che l’innalzamento dei mari e l’aumento delle temperature provocherà danni considerevoli in molti di questi Paesi. Si calcola che sarebbe necessario mettere in campo un fondo mondiale da 150 miliardi di euro l’anno per finanziare gli investimenti minimi necessari per l’adattamento ai cambiamenti climatici (dighe, ridislocazione di abitazioni e attività ecc.).
Se i Paesi ricchi non riescono nemmeno a mettere insieme una somma del genere (appena lo 0,2 per cento del Pil mondiale), allora è illusorio pretendere di convincere i Paesi poveri ed emergenti a fare sforzi supplementari per ridurre le loro emissioni future. Al momento le somme promesse per l’adattamento sono inferiori a 10 miliardi.
Si sente spesso dire, in Europa e negli Stati Uniti, che la Cina ora è il primo inquinatore a livello mondiale e che adesso tocca a Pechino e agli altri Paesi emergenti fare degli sforzi. Dicendo questo, però, ci si dimentica di parecchie cose. Innanzitutto che il volume delle emissioni dev’essere rapportato alla popolazione di ogni Paese: la Cina ha quasi 1,4 miliardi di abitanti, poco meno del triplo dell’Europa (500 milioni) e oltre quattro volte di più del Nordamerica (350 milioni). In secondo luogo, il basso livello di emissioni dell’Europa si spiega in parte con il fatto che noi subappaltiamo massicciamente all’estero, in particolare in Cina, la produzione dei beni industriali ed elettronici inquinanti che amiamo consumare.
Se si tiene conto del contenuto in CO2 dei flussi di importazioni ed esportazioni tra le diverse regioni del mondo, le emissioni europee schizzano in su del 40 per cento (e quelle del Nordamerica del 13 per cento), mentre le emissioni cinesi scendono del 25 per cento. Ed è molto più sensato esaminare la ripartizione delle emissioni in funzione del paese di consumo finale che in funzione del paese di produzione.
Constatiamo in questo modo che i cinesi emettono attualmente l’equivalente di 6 tonnellate di anidride carbonica l’anno e per persona (più o meno in linea con la media mondiale), contro 13 tonnellate per gli europei e oltre 22 tonnellate per i nordamericani. In altre parole, il problema non è solamente che noi inquiniamo da molto più tempo del resto del mondo: il fatto è che continuiamo ad arrogarci un diritto individuale a inquinare due volte più alto della media mondiale.
Per andare oltre le contrapposizioni fra Paesi e tentare di far emergere delle soluzioni comuni, è essenziale sottolineare anche che all’interno di ciascun Paese esistono disuguaglianze immense nei consumi energetici, diretti e indiretti (attraverso i beni e i servizi consumati). A seconda delle dimensioni del serbatoio dell’auto, della grandezza della casa, della profondità del portafogli, a seconda della quantità di beni acquistati, del numero di viaggi aerei effettuati ecc., si osserva una grande diversità di situazioni.
Mettendo insieme dati sistematici riguardanti le emissioni dirette e indirette per Paese e la ripartizione dei consumi e dei redditi all’interno di ciascun Paese, ho analizzato, insieme a Lucas Chancel, l’evoluzione della ripartizione delle emissioni mondiali a livello individuale nel corso degli ultimi quindici anni. Le conclusioni a cui siamo arrivati sono chiare. Con l’ascesa dei paesi emergenti, ora ci sono grossi inquinatori su tutti i continenti ed è quindi legittimo che tutti i paesi contribuiscano a finanziare il fondo mondiale per l’adattamento. Ma i paesi ricchi continuano a rappresentare la stragrande maggioranza dei maggiori inquinatori e non possono chiedere alla Cina e agli altri paesi emergenti di farsi carico di una responsabilità superiore a quella che gli spetta.
Per andare sul concreto, i circa 7 miliardi di abitanti del pianeta emettono attualmente l’equivalente di 6 tonnellate di anidride carbonica per anno e per persona. La metà che inquina meno, 3,5 miliardi di persone, dislocate principalmente in Africa, Asia meridionale e Sudest asiatico (le zone più colpite dal riscaldamento climatico) emettono meno di 2 tonnellate per persona e sono responsabili di appena il 15 per cento delle emissioni complessive. All’altra estremità della scala, l’1 per cento che inquina di più, 70 milioni di individui, evidenzia emissioni medie nell’ordine di 100 tonnellate di CO2 pro capite: da soli, questi 70 milioni sono responsabili di circa il 15 per cento delle emissioni complessive, quanto i 3,5 miliardi di persone di cui sopra.
E dove vive questo 1 per cento di grandi inquinatori? Il 57 per cento di loro risiede in Nordamerica, il 16 per cento in Europa e solo poco più del 5 per cento in Cina (meno che in Russia e in Medio Oriente, con circa il 6 per cento a testa). Ci sembra che questi dati possano fornire un criterio sufficiente per ripartire gli oneri finanziari del fondo mondiale di adattamento da 150 miliardi di dollari l’anno. L’America settentrionale dovrebbe versare 85 miliardi (lo 0,5 per cento del suo Pil) e l’Europa 24 miliardi (lo 0,2 per cento del suo Pil).
Queste conclusioni probabilmente saranno sgradite a Donald Trump e ad altri. Quel che è certo è che è arrivato il momento di riflettere su criteri di ripartizione basati sul concetto di un’imposta progressiva sulle emissioni: non si possono chiedere gli stessi sforzi a chi emette 2 tonnellate di anidride carbonica l’anno e a chi ne emette 100. Qualcuno obbietterà che criteri di ripartizione del genere non saranno mai accettati dai Paesi ricchi, in particolare dagli Stati Uniti. E infatti le soluzioni che saranno adottate a Parigi e negli anni a venire probabilmente saranno molto meno ambiziose e trasparenti. Ma bisognerà trovare delle soluzioni: non si riuscirà a fare nulla se i Paesi ricchi non metteranno mano al portafogli.
L'articolo è stato pubblicato da Le Monde. Traduzione di Fabio Galimberti

«La triangolazione Obama-Xi-Modi riassume i problemi reali, offre uno spaccato del mondo com’è davvero». La Repubblica, 30 novembre 2015 (m.p.r.)

Occhio a quei tre. Oggi il primo giorno del vertice sul clima si gioca tra Stati Uniti, Cina, India. Due vertici bilaterali, tra Barack Obama e Xi Jinping, poi tra Obama e Narendra Modi, racchiudono il nucleo della sfida. Sono il nuovo club dei Grandi Inquinatori del pianeta. Quel che si diranno è essenziale. Il summit ha rinunciato in anticipo alla strategia – perdente – di Kyoto e Copenaghen, quella che inseguiva impegni vincolanti giuridicamente, tetti alle emissioni di CO2 imposti dalla comunità internazionale ai singoli paesi. Quell’opzione si è dimostrata irraggiungibile. Proprio per questo diventa essenziale la volontà politica, l’approccio strategico che le singole superpotenze decidono di adottare.

Obama-Xi-Modi: il futuro della specie umana, dell’abitabilità del pianeta per noi, è nelle loro mani. La Cina è la prima generatrice di emissioni carboniche; superò gli Stati Uniti nella grande recessione occidentale nel 2008. L’India rincorre la Cina, quest’anno la supera in velocità di crescita del Pil, i consumi energetici ne sono il riflesso. L’India è già numero tre se l’Unione europea non si considera come un’entità singola. Gli americani restano però i massimi inquinatori su base individuale.
L’americano medio produce il triplo di gas carbonici di un cinese e il decuplo di un indiano. L’anacronismo è evidente. L’insostenibilità politica anche. La sfida riguarda il pianeta, il genere umano, gli oceani e i ghiacciai, l’atmosfera e le temperature; cose che non conoscono confini nazionali. Ma continuiamo a misurare le emissioni di CO2 su base nazionale. Nascono da qui i paragoni inaccettabili: 315 milioni di americani si confrontano con 2,5 miliardi tra cinesi e indiani.
In queste misurazioni l’Europa finisce ai margini. Il Vecchio continente produce “solo” il 9% di tutte le emissioni di CO2. Può nascerne un senso di impotenza: per quanto facciano gli europei, pesano poco.
Ma anche qui le illusioni ottiche distorcono la percezione. Quel 9% di emissioni carboniche è il frutto della “decrescita” europea, così come il sorpasso Cina-Usa avvenne quando l’economia americana si fermò. Se l’Europa dovesse ritrovare lo sviluppo – cosa che si augurano i suoi giovani disoccupati – anche le sue emissioni torneranno a salire. L’altra illusione ottica viene dalla deindustrializzazione. L’Europa ha smesso di ospitare molte produzioni manifatturiere ad alta intensità di consumo energetico. Ma ogni volta che un consumatore europeo compra un prodotto “made in China” (o in Corea, Bangladesh, Vietnam) contribuisce alle emissioni carboniche che l’Occidente ricco ha delegato alle economie emergenti.
La triangolazione Obama-Xi-Modi riassume i problemi reali, offre uno spaccato del mondo com’è davvero. Il premier indiano Modi può irritare con il suo nazionalismo rivendicativo, che ne ha fatto il leader del Sud del pianeta. Può disturbare un atteggiamento che trasforma la sfida ambientale in una partita contabile: dimmi quanto mi paghi, e ti dirò quanto sono disposto a fare. È il nodo dei trasferimenti Nord-Sud, i 100 miliardi di dollari promessi alle nazioni emergenti per finanziare la loro riconversione a uno sviluppo sostenibile; fondi insufficienti; e comunque stanziati solo in piccola parte. Questa partita Nord-Sud è circondata di sospetti reciproci. Quanta parte di quei fondi serviranno a esportare tecnologie “made in Usa”, “made in China” o “made in Germany”? Quanta parte finirà assorbita dalla corruzione di classi dirigenti predatrici?
C’è però dietro il dibattito Nord-Sud una realtà innegabile. Basta ricordare un esercizio che i lettori di
Repubblica conoscono, perché più volte è stato fatto su queste colonne: le fotografie del pianeta scattate dai satelliti di notte. L’intensità delle luci artificiali riflette la distribuzione della ricchezza. Chi sta meglio illumina meglio. Vaste zone della terra sono sprofondate in un’oscurità quasi totale: gran parte dell’Africa, ed anche una porzione consistente del subcontinente indiano. Quelle immagini vanno affiancate al discorso rivendicativo di Modi. È un diritto umano basilare, avere una lampadina accesa la sera in casa per fare i compiti e ripassare la lezione. Il problema è quando la lampadina in casa serve per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti. L’energia meno costosa per loro è il carbone. La peggiore di tutte.
La Cina è già un passo più in avanti. La lampadina ce l’hanno quasi tutti, anche il frigo, la lavatrice e l’auto. Il prezzo da pagare è un’aria così irrespirabile, che ormai l’élite cinese compra seconde case in California non solo come status symbol ma come una polizza assicurativa sulla propria salute. Perciò Xi ha deciso che la riconversione dell’economia cinese è una priorità, non una concessione all’Occidente. Lui può operare queste svolte senza i vincoli del consenso che ha Obama. In nessun altro paese al mondo è attiva una furiosa campagna negazionista sul cambiamento climatico, come quella condotta dal partito repubblicano. I suoi finanziatori della lobby fossile non arretrano davanti a nulla.
La multinazionale petrolifera Exxon falsificò per decenni le conclusioni dei suoi stessi scienziati, che coincidevano con quelle della comunità scientifica mondiale. Esiste un altro capitalismo americano, guidato da Bill Gates, che mette in campo vaste risorse per finanziare l’innovazione sostenibile. È un passaggio importante: uno dei problemi delle energie rinnovabili è che le sovvenzioni pubbliche, pur sacrosante, stanno rallentando il ritmo del progresso tecnologico necessario per renderle più competitive, e risolvere problemi come l’immagazzinamento dell’energia pulita.
L’Onu definisce l’appuntamento di oggi a Parigi come «la nostra ultima speranza». Di certo è l’occasione per i leader mondiali di dimostrare che la sfida ci riguarda tutti, e chi pensa di lasciare ad altri le scelte difficili non fa un investimento lungimirante neppure nell’ottica del suo interesse nazionale.
Per Vandana Shiva, intervistata da Giuliano Battiston, «il modello energetico basato sui combustibili fossili è un modello che ha generato dipendenza, fame, povertà, dissipato energia e creato le culture della paura e dell'insicurezza, insieme al caos climatico». Il manifesto - supplemento clima, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Per Vandana Shiva, l'ecologista indiana simbolo della battaglia contro la mercificazione dei beni comuni, fondatrice dell'associazione Navdanya International per la salvaguardia delle sementi, le conseguenze del caos climatico sono il frutto di un modello economico basato sullo sfruttamento e su una logica estrattiva e una delle maggiori sfide del ventunesimo secolo. Ma rappresentano anche l'occasione per archiviare il vecchio paradigma energivoro e meccanicista della civiltà industrializzata in favore di «un nuovo patto con la Terra basato sulla reciprocità».

L'abbiamo intervistata alla vigilia della conferenza Cop 21 di Parigi, dove gli esponenti della rete Navdanya pianteranno un Giardino della speranza «per una nuova cittadinanza Planetaria per un'unica Umanità, con il Pianeta come nostra casa comune, simbolo del patto che stipuliamo con la Terra per proteggerla».
In genere si tende a usare il termine «cambiamento climatico», che suona piuttosto neutrale, mentre lei preferisce «caos climatico» e «catastrofe climatica». Perché?
Con cambiamento climatico generalmente viene indicato l'aumento delle temperature medie e il relativo aumento delle emissioni di gas a effetto serra. Io credo invece che il cambiamento climatico non abbia a che fare soltanto con l'aumento della temperatura. Riguarda anche i picchi estremi climatici, l'incertezza climatica. Considero il termine caos climatico più appropriato perché, sulla base di ciò che sta accadendo e che accade in particolare a comunità e in luoghi specifichi, si tratta di processi che conducono alla catastrofe. Inoltre, cambiamento implica che si possa prevedere ciò che accadrà. Caos rimanda invece a una totale imprevedibilità.
Di recente ha scritto che il caos climatico «è diventato una questione di vita e di morte». Quali sono gli impatti del caos climatico sulle comunità locali, e quali comunità o categorie sociali ne pagano di più o ne pagheranno le conseguenze in futuro?
Il modello energetico riduzionista basato sui combustibili fossili, inaugurato due secoli fa nei Paesi industriali e poi diffuso in Paesi come l'India attraverso la globalizzazione, è un modello che ha generato dipendenza, fame, povertà, dissipato energia e creato le culture della paura e dell'insicurezza, insieme al caos climatico. Le comunità più vulnerabili sono quelle che vivono nelle montagne, nelle aree costiere, nelle zone aride. Particolarmente vulnerabili sono le donne e i contadini. Le faccio qualche esempio. Nel 1999, nello stato indiano dell'Orissa si è registrato un super-ciclone con una velocità doppia rispetto al normale. Ha ucciso 30.000 persone. Nel 2007, nel Ladakh, in una zona desertica molto alta, si sono registrate alluvioni. Nel 2010, di nuovo, si sono verificate altre alluvioni e 200 persone sono state spazzate via. Oggi è lo Yemen a subire le alluvioni. Ma nel deserto non dovrebbero avvenire alluvioni. Per questo dico caos climatico. In India, i monsoni durano 4 mesi. Nel 2013, nei primi due giorni della stagione monsonica si è registrata una quantità di pioggia del 350% maggiore rispetto alla media. Le alluvioni nel bacino del Gange, nella mia regione del Garwal Himalaya, hanno spazzato via 20.000 persone. Una vera e propria catastrofe climatica. Non è finita qui. I raccolti invernali ormai si fanno ad aprile. Quest'anno, i tradizionali festival del raccolto non si sono tenuti, a causa delle piogge e delle grandinate fuori stagione. Per la prima volta nella mia vita ho assistito ai suicidi perfino tra i contadini benestanti del bacino fertile e produttivo del Gange, dove finora i raccolti erano sempre stati buoni.
Ci spiega meglio cosa intende quando sostiene che il caos climatico «è un sintomo dei sistemi di violenza e irresponsabilità che si appropriano dei benefici, privatizzandoli, ed esternalizzano i costi sociali ed ecologici»?
Il caos climatico è un sintomo di un problema più profondo: il problema di un sistema economico fondato sulla violenza contro la terra e sulla violenza contra la gente. È un sistema che dichiara la Terra materia inerte, da sfruttare brutalmente, senza limiti. È un sistema inaugurato nel 1493 con la bolla papale Inter caetera (la bolla con cui papa Alessandro VI regolò la contesa sui territori del "Nuovo Mondo" tra il regno del Portogallo e quello di Castiglia, ndr), un sistema che si è sviluppato poi con gli accaparramenti di terra nei periodi coloniali e che è continuato con l'industrialismo, basato sulla schiavitù. È un sistema che consente a pochi di appropriarsi e di privatizzare i regali della natura e il benessere prodotto dalla gente. Un sistema che esternalizza i costi sociali ed ecologici. Perché inquinare l'atmosfera con i gas a effetto serra equivale a un'appropriazione dei beni comuni atmosferici. Promuovere il commercio delle emissioni è un'altra forma di privatizzazione. Tentare di possedere e di commercializzare le funzioni ecologiche della natura è un'appropriazione dei processi rigenerativi della vita.
Sin dai tempi in cui scrisse The Violence of the Green Revolution, lei tende a sottolineare il legame tra i conflitti e le conseguenze ecologiche del modello economico predatorio nel quale viviamo. Dovremmo aspettarci ulteriori, nuovi conflitti legati al caos climatico, se non lo affrontiamo in fretta e adeguatamente?
Il cambiamento climatico inizia dai cambiamenti nella terra – dal modo in cui usiamo il suolo, dalla questione di chi possiede e controlla la terra. La degradazione del suolo e il land grabbing sono già ora delle fonti di conflitto. Allo stesso modo, un utilizzo non sostenibile della terra contribuisce alle emissioni di gas a effetto serra, le quali a loro volta conducono al cambiamento climatico. E il cambiamento climatico destabilizza le comunità, crea scarsità e conflitti. Per cui sì, certo, possiamo aspettarci di vedere altri conflitti, se non affrontiamo il problema alle radici.
Ritiene che oggi la giustizia climatica debba diventare una componente essenziale nella rivendicazioni per la giustizia sociale globale? È ora che le forze progressiste vi si concentrino con più convinzione?
Dal momento che il cambiamento climatico è il risultato di un modello economico basato sullo sfruttamento e su una logica estrattiva – i cui effetti più deleteri ricadono sulle spalle di coloro che meno vi contribuiscono – le questioni climatiche sono una componente essenziale del movimento per la giustizia sociale ed ecologica globale. La giustizia sociale e quella ecologica sono due facce della stessa medaglia.
Di recente, ha scritto che «la maggior parte delle discussioni e dei negoziati sul come affrontare e mitigare il cambiamento climatico nell'ambito della COP 21 si è limitata al paradigma commerciale ed energivoro proprio di una visione del mondo riduzionista e meccanicista e di una cultura consumistica». Le soluzioni emerse finora rischiano di ribadire il paradigma che ha originato i problemi attuali?
È evidente che le discussioni e i negoziati siano limitati al paradigma riduzionista, meccanicista e alla cultura consumistica. Veniamo definiti come consumatori di energia. Non veniamo visti come generatori di energia creativa attraverso un lavoro creativo degno di rilevanza. Ciò che non viene messo in discussione è proprio il nostro consumismo, e neppure il fatto che, se stabiliamo un'equivalenza tra un alto consumo di energia e lo «sviluppo», ciò significa che i privilegiati si accaparrano, per il proprio consumo, le risorse dei poveri. Intendo dire che le questioni della giustizia climatica in queste discussioni vengono sistematicamente eluse. La maggior parte delle soluzioni statali o private al cambiamento climatico si concentrano su strumenti «più puliti», su mezzi e tecnologie più efficienti.
Le sembra una tendenza legittima o ritiene invece che dovremmo considerare non solo gli «strumenti», ma anche e soprattutto gli scopi dei nostri sistemi economici e sociali, ripensando lo stesso significato di concetti come produttività e progresso?
Sotto questo aspetto, ritengo che le crisi climatiche rappresentino un sintomo dell'elevazione degli strumenti a nuova religione: la religione della tecnologia. Invece di una valutazione intelligente, responsabile ed etica sul come certi particolari strumenti di trasformazione delle sementi e del nostro cibo, del nostro suolo e della nostra acqua influiscano sulla struttura della vita, sulle altre specie, sui contadini e sul benessere umano, gli strumenti vengono innalzati al di sopra di ogni giudizio, oltre il «dharma», oltre il giusto o sbagliato, al di là della domanda fondamentale sul dove debba orientarsi la vita umana, sugli scopi dei sistemi che costruiamo, ai quali i nostri strumenti dovrebbero adeguarsi. Non viceversa. Il cambiamento climatico non è dunque una semplice questione di tecnologia. È una questione di Right Livelihood, di un corretto sostentamento in opposizione al dominio dell'avidità, del potere, del controllo, della hubris umana. Riguarda il nostro dovere di prenderci cura della Terra e dell'intera famiglia terrestre, inclusi gli essere umani, in opposizione alla mancanza di cura e alla violenza esercitata nelle relazioni con le altre specie e all'interno della comunità umana.
Lei è convinta che l'agricoltura industriale globalizzata stia contribuendo in modo diretto al cambiamento climatico. Come? E in che modo l'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa possono contribuire alla resilienza climatica?
L'agricoltura industriale globalizzata contribuisce al cambiamento climatico perché si basa sui combustibili fossili, che oltre alle emissioni di Co2 producono le emissioni provenienti dai fertilizzanti azotati. Come ho scritto nel mio libro del 2007 Soil not Oil (Ritorno alla Terra, Fazi 2009), le emissioni causate dall'agricoltura industriale e dal sistema alimentare globalizzato rappresentano il 40% delle emissioni totali. Oggi considero quella stima al ribasso. La falsa retorica dominante suggerisce che l'agricoltura industriale usi meno terra per produrre maggiore quantità cibo, e che in questo modo riesca ad affrontare il problema della fame. La realtà ci dice invece che la produzione mercificata per il sistema industrializzato globale sta conducendo alle invasioni delle foreste e delle praterie, e che il cambiamento d'uso della terra contribuisce per il 18% a tutte le emissioni di gas a effetto serra. Il metano usato nelle aziende agricole contribuisce dall'11 al 15%, i trasporti per il 6%, i processi di lavorazione, confezionamento e refrigerazione per circa il 14% e lo spreco di cibo per il 4%. L'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa contribuiscono alla resilienza climatica sbarazzandosi degli input chimici e integrando allevamenti e coltivazioni. Attraverso l'intensificazione della biodiversità e dell'intensificazione ecologica – anziché dei combustibili fossili e dell'intensificazione chimica – l'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa riparano il carbone e l'azoto «danneggiati». Espellono il Co2 in eccesso dall'aria, dove non dovrebbe stare, e lo ricollocano nel suolo, a cui appartiene. In un decennio, una transizione generalizzata all'agricoltura ecologica e ai sistemi alimentari locali sarebbe in grado di rimuovere tutte le scorte in eccesso di Co2 presenti nell'atmosfera.
Sembra che per lei affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici non sia soltanto una delle maggiori sfide del ventunesimo secolo, ma anche un'occasione per archiviare il vecchio paradigma della civiltà industrializzata, in favore di quel «nuovo patto con la Terra basato sulla reciprocità» di cui l'organizzazione da lei fondata, Navdanya International, parla nel «Manifesto Terra Viva»....
Le profonde crisi che affrontiamo come specie rappresentano anche un'opportunità per compiere un cambiamento di visione e di paradigma. Da padroni e conquistatori della terra a co-creatori e co-produttori, insieme alla Terra. Dobbiamo smettere di pensare a noi stessi come parti dipendenti all'interno di una macchina globale delle corporation, o come consumatori del loro cibo spazzatura, del loro abbigliamento spazzatura, della loro plastica spazzatura. Come dice il nostro Manifesto Terra Viva, abbiamo la possibilità di creare economie che guardino al futuro, nuove democrazie, e tramite esse una nuova Democrazia della Terra. Per queste ragioni, a Parigi pianteremo un Giardino della speranza per una nuova cittadinanza Planetaria per un'unica Umanità, con il Pianeta come nostra casa comune, oltre che come simbolo del patto che stipuliamo con la Terra per proteggerla. Facendolo, ci proteggiamo l'un l'altro.
«Francia. Alla Conferenza sul clima, 196 delegazioni, con 150 capi di stato e di governo presenti. Lo scopo: trovare un accordo per garantire un avvenire alla Terra e ai suoi abitanti». Il manifesto, 29 novembre 2015

L’ultimo atto del multilateralismo, ormai messo in difficoltà su tutti i fronti nel mondo, si apre purtroppo in una città blindata dove vige lo stato d’emergenza, ancora in preda alla paura degli attentati, con 120mila uomini armati, tra polizia e esercito, schierati in Francia, più di 10mila solo a Parigi per proteggere i grandi del mondo, mentre la società civile è relegata in secondo piano, le manifestazioni bloccate a causa del terrorismo.

La Cop21 accoglie oggi al Bourget 196 delegazioni di stati, con circa 150 capi di stato e di governo presenti. Sulla ventunesimo appuntamento della «Conferenza dei pari», organizzata dall’Onu, si sono concentrate le speranze di trovare una soluzione globale per impedire un riscaldamento climatico, ora in crescita esponenziale, che minaccia di travolgere a breve (e in parte già travolge) milioni di persone, causando disastri umani e economici, flussi di rifugiati, in prospettiva 400 milioni di persone a rischio.

La Cop21 non è un appuntamento importante solo perché ha luogo a Parigi, non è il senso del teatro tipico della Francia a farne un momento-chiave: la data del 2015 come punto di svolta per trovare un accordo che dovrebbe entrare in vigore nel 2020, era stata decisa nel 2011 a Durban, in seguito allo scottante fallimento della riunione di Copenaghen, nel 2009, che si era conclusa con un breve documento di tre pagine. «Più tardi, sarà troppo tardi», ha riassunto il ministro degli esteri, Laurent Fabius, che dirige i lavori e che ritiene che ci sia «un obbligo di successo« alla conclusione l’11 dicembre.

In gioco alla Cop21 c’è la sicurezza.

Quella di assicurare un avvenire possibile alla Terra e ai suoi abitanti. Ma nell’immediato, la sicurezza è legata alla lotta al terrorismo. Per garantire questa sicurezza, il governo ha proibito le manifestazioni previste, la marcia di oggi e quella conclusiva il 12 dicembre. Ieri, i «zadistes» (militanti per le «zones à défendre») hanno alla fine ottenuto di poter organizzare un pic nic a Versailles. Greenpeace ha mandato in aria una mongolfiera alla Tour Eiffel, che da stasera sarà illuminata di verde (passando dal buio del dopo-attentati e dal blu, bianco e rosso del tricolore in omaggio alle vittime), con interventi artistici successivi.

Stamattina, alcune organizzazioni, a cominciare da Attac, invitano a formare una «catena umana» da place de la République sul boulevard Voltaire.

Ma il governo è nervoso: mille persone, ha rivelato ieri il ministro degli Interni Bernard Cazeneuve, sono state impedite di entrare in Francia negli ultimi giorni, e nei negozi della regione Ile-de-France non sono più in vendita i prodotti infiammabili. Su più di 400 iniziative militanti, almeno un centinaio sono state cancellate.

Il Prefetto ha caldamente consigliato ai parigini di non muoversi di casa, salvo «assoluta necessità», sia oggi che lunedì, anche se il métro è gratis, perché alcuni grandi assi stradali saranno chiusi o con circolazione limitata a causa del passaggio delle delegazioni verso il Bourget.

I negoziati avverranno sotto una cappa, nell’isolamento del Bourget, attorno a un testo preparatorio di 55 pagine, ancora pieno di parentesi quadre (con opzioni divergenti).

Le delegazioni avranno di fronte le insegne delle grandi imprese mondiali, dai produttori di energia alla grande distribuzione, gli sponsor della Cop21, che hanno messo in campo una enorme operazione di ipocrita greenwashing. Stando ai «contributi nazionali» che sono arrivati a Parigi, da 183 paesi, l’obiettivo minimo — mantenere il riscaldamento climatico sotto l’aumento di 2 gradi — non potrà essere raggiunto entro fine secolo. Al meglio ci sarà la «catastrofe» di +3 gradi. Non è certo se l’eventuale accordo sarà giuridicamente vincolante, poiché alcuni paesi, a cominciare dagli Usa, hanno difficoltà a far approvare un trattato internazionale.

La Francia si accontenterebbe di un accordo che obblighi almeno alla «trasparenza» delle azioni e a un meccanismo vincolante di revisione degli impegni presi dagli stati ogni cinque anni, ormai accettato anche dalla Cina. Sul tavolo c’è la più che spinosa questione dei finanziamenti: chi deve pagare per la lotta all’effetto serra? A Copenhagen il Nord del mondo aveva promesso 100 miliardi di dollari al Sud. Per avvicinarsi a questa cifra, sono stati addizionati contributi e aiuti di ogni tipo, anche quelli che hanno poco a che fare con la lotta al riscaldamento climatico. Il parente povero di questi trasferimenti sono i finanziamenti all’adattamento delle società colpite (pari solo al 16% degli impegni), concentrate nei paesi più poveri.

I principali responsabili di produzione di Co2 sono Cina, Usa, Ue, India, Russia, Indonesia, Giappone. Se calcolato pro capite, in testa ci sono gli Usa, ma anche i paesi del Golfo, l’Australia, il Canada. Enormi interessi economici si scontrano, sia al Nord che al Sud, nei paesi produttori di petrolio, negli emergenti. La «crescita verde», termine adottato nel 2005 alla conferenza di Seul, è in parte ancora nel cassetto — il Pil è legato al consumo di energia e l’energia è a maggioranza di origine fossile — anche se molti economisti e ormai qualche industriale fanno intravvedere grandi possibilità di ripresa economica. La riconversione verso energie rinnovabili è solo all’inizio, ha ancora costi alti (e alcuni paesi, Francia in testa, vantano le qualità del nucleare «pulito» in Co2). Sul tavolo dei negoziati c’è il «prezzo» del Co2, che per il sistema economico dominante sarebbe la strada maestra per uscire dalla crisi, cioè colpire il portafoglio per convincere obtorto collo a investire nelle energie rinnovabili.

Non si fa perché non conviene all'economia e ai consumatori USA, e perchè a Parigi vuol fare bella figura. Ma se costruire il mostro convenisse e Parigi non ci fosse, allora direbbe si? La Repubblica, 7 novembre 2015

Il padre di tutti gli oleodotti non si farà. Barack Obama ha chiuso una discordia durata sette anni, che aveva spaccato in due il Nordamerica. Il presidente ha deciso di consolidare la sua eredità ambientalista, a tre settimane dalla sua partecipazione al summit di Parigi sul cambiamento climatico. Stop finale, dunque, per un’infrastruttura da quasi duemila chilometri, che avrebbe trasportato 800mila barili di petrolio al giorno: dai giacimenti sabbiosi dello Stato dell’Alberta (Canada) alle raffinerie dell’Illinois, giù giù fino a raggiungere i porti petroliferi Usa che si affacciano sul Golfo del Messico. Ci tenevano moltissimo, oltre al Canada, i petrolieri e i repubblicani. Gli ambientalisti ne avevano fatto il nemico pubblico numero uno, un progetto da contrastare ad ogni costo. Obama ha dato ragione a loro.

«L’indagine effettuata su mia richiesta dal Dipartimento di Stato – ha detto Obama annunciando il verdetto finale dalla Casa Bianca – ha concluso che l’oleodotto Keystone XL non contribuisce all’interesse nazionale degli Stati Uniti». Il presidente ha quindi elencato puntigliosamente tutte le ragioni: «Primo, non darebbe un contributo alla crescita della nostra economia che ha già creato 13,5 milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi 68 mesi. Secondo, non abbasserebbe il prezzo della benzina per i consumatori, prezzo già sceso per conto suo. Terzo: non migliorerebbe la nostra autosufficienza energetica visto che già oggi produciamo più petrolio di quanto ne importiamo». Obama ha voluto smontare così pezzo per pezzo gli argomenti della destra, secondo cui il suo ambientalismo danneggia lo sviluppo economico e quindi l’occupazione. Guardando al summit di Parigi, Obama ha dichiarato che «l’America deve esercitare la sua leadership attraverso l’esempio che dà, dobbiamo proteggere il pianeta finché siamo in tempo». La guerra santa che si era sviluppata in questi sette anni attorno all’oleodotto, si è intrecciata con cambiamenti di tutto lo scenario energetico. La rivoluzione tecnologica da una parte (fracking e trivellazioni orizzontali) ha consentito un boom dell’offerta nordamericana. La frenata della crescita cinese ha ridotto la domanda. Il combinato dei due mutamenti ha fatto crollare il prezzo di petrolio e gas, soprattutto se espresso in dollari. Rispetto alle origini del progetto Keystone XL, la sua opportunità economica ora è molto meno stringente. Approvare la costruzione di un’infrastruttura così imponente significava, secondo gli ambientalisti, un incoraggiamento di fatto all’uso di energie fossili. Obama è stato aiutato anche da alcuni sviluppi politici: in Canada l’elezione del nuovo premier Justin Trudeau, meno legato alla lobby petrolifera rispetto al suo predecessore. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton ha sciolto ogni riserva annunciando la sua contrarietà all’oleodotto (e quindi, in caso di vittoria nel novembre 2016, alla Casa Bianca ci sarebbe comunque un presidente ostile al progetto).

Gli esperti ricordano che questo presidente ha già preso altre decisioni il cui impatto ambientale è superiore alla bocciatura del maxi-oleodotto. La più importante di tutte è stata la nuova regolamentazione delle emissioni carboniche per le centrali che producono energia: i tetti imposti daranno il contributo più sostanziale al taglio di gas carbonici da parte degli Stati Uniti. I repubblicani pur dominando il Congresso non sono riusciti a imporre la loro linea, negazionista del cambiamento climatico e allineata sugli interessi dei petrolieri.

Una limpida sintesi del principale filo conduttore (secondo uno sguardo laico) dell'enciclica Laudato sì: il perverso dominio esercitato dalla "cultura dello scarto" sull'uomo, la società, il pianeta Terra e gli altri suoi abitanti

Il testo è costituito dall'ampia scaletta dell'intervento dell'autore al convegno sull'enciclica Laudato sì promosso dalla Casa della Carità di Milano e altre organizzazioni e svolto a Milano, nella sede dell'Umanitaria, il 4 novembre 2015

Scarto e cultura dello scarto sono concetti che attraversano tutta l’enciclica e a cui Francesco attribuisce grande rilievo come strumenti di analisi dello stato di cose presente, cioè del contesto all’origine tanto del degrado dell’ambiente che della diseguaglianza e dell’ingiustizia di cui sono vittime i poveri del mondo. Considera anzi la denuncia della cultura dello scarto e la lotta contro di essa uno degli assi portanti della sua enciclica:

«Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (16). Perché?

Lo scarto e soprattutto
la cultura dello scarto, cioè la sua accettazione e legittimazione, evidenziano innanzitutto il modo di funzionare del sistema economico in cui siamo immersi: un sistema produttivo lineare che aggredisce le risorse della Terra senza curarsi degli equilibri dell’ambiente da cui vengono prelevate, per trasformarle il più rapidamente possibile in rifiuti, cioè in cose di cui società e sistema produttivo non sanno più che fare, e che per questo vengono restituite all’ambiente con modalità che contribuiscono al suo degrado, cioè sotto forma di rifiuti o di inquinanti (e, tra questi, i gas serra, che stanno alterando in modo irreversibile gli equilibri climatici del pianeta).

All’economia lineare Francesco contrappone, sulle tracce di ciò che Vandana Shiva (mai citata in questa enciclica) e altri con lei chiamano legge del ritorno, l’urgenza di rendere circolari i processi produttivi, in modo da impiegare in nuovi modi e sotto nuove forme ciò che non può più essere utilizzato in quelli dismessi; oppure in modo da restituirlo all’ambiente in forme compatibili con il rinnovarsi dei suoi cicli biologici, idrici e metereologici.

Francesco indica esplicitamente come alternativa «un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento [delle risorse], riutilizzare e riciclare». Ma la cultura dello scarto non riguarda solo il nostro rapporto con l’ambiente: «La cultura dello scarto finisce per danneggiare il pianeta intero…e… colpisce tanto gli esseri umani quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». Ciò finisce per trasformare la terra, che è la nostra casa comune, «in un immenso deposito di spazzatura» (22).

Da quello con le cose questo approccio lineare, caratterizzato da un prelievo irresponsabile di risorse e da un’altrettanta irresponsabile produzione di rifiuti, si trasferisce alla società e investe il anche nostro rapporto con gli esseri umani, con il nostro prossimo. «Perché – scrive Francesco – anche l’essere umano è una creatura di questo mondo» (43).

Un’affermazione come questa evidenzia il completo abbandono di una concezione antropocentrica. L’essere umano ha sì una sua peculiare dignità – ogni vivente ha la sua - ma ce l’ha in quanto parte del creato, in quanto legato alla terra a cui lo unisce una fitta e inestricabile rete di rapporti di reciproca dipendenza.

Proprio per questo l’essere umano ridotto a risorsa, che vale solo perché e fino a quando ci serve, è condannato a un destino di scarto non appena non serve più: di qui l’esclusione di una parte crescente dell’umanità, ma anche il suo sfruttamento fintanto che può servire, che può essere usato, cioè avere un ruolo nell’alimentare i cicli della produzione e del consumo.

Quel sistema iniquo – aveva detto Francesco il 28 ottobre dell’anno scorso a Roma, rivolgendosi ai rappresentanti dei movimenti popolari – «è il prodotto di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare». Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze…Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana».

E’ evidente in questo approccio l’influenza di un altro autore molto presente in questa enciclica, anche se anch’esso mai citato: Zigmunt Bauman, che della trasformazione degli uomini e delle loro vite in scarti, a partire dall’analisi del rapporto tra modernità e olocausto, ha fatto uno dei temi portanti del suo lavoro di ricerca.

Il mondo contemporaneo, per Bauman, non presenta più spazi vuoti, dove allontanare dalla nostra presenza i materiali che non ci servono più, come accadeva in molte civiltà preindustriali. Ma non presenta più neanche spazi sociali vuoti, verso cui sospingere l’umanità che eccede il fabbisogno del sistema produttivo; quell’umanità che in passato era stata mandata a popolare le colonie (a partire dalle Americhe), considerate spazi socialmente vuoti, perché i popoli che le abitavano non venivano considerati membri dell’umanità.

Oggi quegli spazi sociali non ci sono più e le «vite di scarto”, le persone di cui non si sa più che fare, cioè non si ha un interesse diretto a mettere al lavoro (come oggi succede soprattutto con i profughi e i migranti di troppo) finiscono per costituire una delle principali contraddizioni con cui si confronta la società contemporanea. Come i residui inquinanti e i gas climalteranti prodotti o emessi come scarti dal sistema produttivo costituiscono la principale minaccia per la vivibilità futura del nostro pianeta, così gli esseri umani «di troppo”, che il sistema produttivo condanna a una vita di scarto, rappresentano una delle principali contraddizioni che minacciano l’equilibrio degli attuali, iniqui, assetti sociali.

C’è dunque un rapporto diretto tra degrado dell’ambiente ed esclusione sociale: «non ci sono due crisi, una ambientale e l’altra sociale» (139); sono due risvolti di un processo unico. E non si può contrastare e combattere l’enorme mole di ingiustizia che contraddistingue il mondo di oggi senza porre rimedio anche a un atteggiamento verso la terra e le sue risorse che non si ispira alle regole della cura della casa comune, e che non fa dell’essere umano il loro custode.

Le manifestazioni principali di questo squilibrio, di questo oblio della cura che dovrebbe improntare di sé tutti i nostri rapporti, sia con l’ambiente che con l’umanità, si possono vedere nel ruolo assunto dal denaro come unico metro di misura di ciò che vale e merita di essere perseguito e nel potere crescente della finanza, che, nella sua corsa all’accumulazione, non rispetta né l’essere umano né l’ambiente.

Alla cultura dello scarto, equiparata tout court al modello di sviluppo in auge - «non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone» (43) - Francesco contrappone il progetto della conversione ecologica; un altro concetto, questo, ripreso da un autore molto presente in tutto lo sviluppo dell’enciclica, anche se mai citato: Alex Langer.

Se la cultura dello scarto descrive e denuncia le criticità del presente, dello stato di cose in essere, la conversione ecologica prospetta e delinea il futuro, la strada da seguire per riportare la terra, la convivenza umana, e la convivenza dell’essere umano con l’ambiente, entro i limiti della sostenibilità.

Come già Langer, anche Francesco evidenzia i due aspetti fondamentali della conversione ecologica: da un lato c’è quello «oggettivo”, costituito da un sistema economico, O modello di sviluppo, in cui la produzione sia al servizio degli esseri umani e non viceversa. In questa dimensione fondamentale risulta essere l’aspetto temporale, cioè l’abbandono del paradigma della velocità: «dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo» (191).

Ma Francesco entra anche nel merito delle cose da fare: «in ambito nazionale e locale c’è sempre molto da fare, ad esempio promuovere forme di risparmio energetico. Ciò implica favorire modalità di produzione industriale con massima efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, togliendo dal mercato i prodotti poco efficaci dal punto di vista energetico o più inquinanti. Possiamo anche menzionare una buona gestione dei trasporti o tecniche di costruzione e di ristrutturazione di edifici che ne riducano il consumo energetico e il livello di inquinamento. D’altra parte, l’azione politica locale può orientarsi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia dei rifiuti e del riciclaggio, alla protezione di determinate specie e alla programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture. È possibile favorire il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato locale o nazionale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di organizzazione comunitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può fare!» (139).

Niente a che fare con la negazione del ruolo dell’innovazione: «la diversificazione di una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale può essere molto redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo» (191).

Poi c’è l’aspetto «soggettivo» della conversione ecologica, che risiede in un diverso modello di consumo, improntato alla sobrietà e al consumo critico, a un altro stile di vita, a un impegno responsabile in direzione della sostenibilità.

In entrambi questi risvolti la conversione ecologica non può tuttavia essere una scelta solo individuale: è sempre, anche – ricorda Francesco – una «conversione comunitaria» (219): un’azione collettiva che richiede partecipazione e impegna al conflitto.

Questa parte dell’enciclica che promuove e legittima la lotta dei poveri e degli esclusi contro l’ingiustizia, le diseguaglianze e il degrado della vita rimanda direttamente alle parole, a quell’invito a lottare per i propri diritti, che Francesco aveva rivolto ai rappresentanti dei movimenti popolari nell’incontro citato del 28 ottobre dell’anno scorso.

Ma rispetto all’elaborazione di Langer, che risale a oltre vent’anni fa, nello sviluppare il tema della conversione ecologica Francesco aggiunge, o evidenzia maggiormente, due aspetti. Da un lato il nesso stretto tra un sistema produttivo compatibile con i limiti fisici del pianeta e la giustizia sociale, come sua componente intrinseca; perché le vittime principali del dissesto ambientale sono i poveri della terra. Sono i diritti della terra a dover essere salvaguardati, perché senza di loro l’ingiustizia è destinata a trionfare anche nei rapporti reciproci tra gli esseri umani.

Dall’altro, Francesco sottolinea LA dimensione spirituale della conversione ecologica, certo non assente in Langer, che era anche lui un cristiano. A questa dimensione spirituale Francesco attribuisce un connotato preciso: è la capacità di entrare in consonanza con tutto il vivente. In questa enciclica IL rapporto tra l’essere umano e dio non è mai affrontato in modo diretto, ma è sempre mediato dall’atteggiamento – e dal comportamento – del genere umano verso il creato, come nel Cantico di San Francesco a cui si ispira l’enciclica.

Se, come scriveva Alex, «la conversione ecologica potrà affermarsi solo se sarà socialmente accettabile”, ora Francesco cerca di esplicitare, dal punto di vista spirituale, che cos’è che può promuovere quell’accettabilità sociale che ne condiziona l’affermazione: è la capacità di entrare in sintonia con tutto il vivente; anche l’essere più infimo e apparentemente insignificante, a cui l’enciclica dedica un’attenzione non minore di quella accordata ai grandi problemi della terra.

E’ un tema che non si può più evitare di introdurre e far valere in tutti i nostri discorsi, le nostre elaborazioni e le nostre pratiche: sia quelle di lavoro o di ordinario svolgimento della nostra vita quotidiana, sia quelle di partecipazione alla lotta politica, al confronto culturale e al conflitto sociale.

Il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando il territorio che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con le abitudini di consumo: più che mai insomma è ancora valida la famosa massima secondo cui il personale è politico. Today, 2 novembre 2015

Il comunicato stampa dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sul rapporto fra consumi di carni e incidenza di alcuni tipi di tumori, ha suscitato prevedibili reazioni, soprattutto dalle parti della pancia della società, a cui era rivolto. Questo ventre collettivo ha rapidamente riversato tra i social e altri tipi di media la classica reazione di chi punto in un'area assai sensibile scatta allarmato e reagisce di istinto, di solito nel modo più sbagliato e controproducente. Al netto di sarcasmi vari, anche giustificati dal modo in cui la stampa ha diffuso la notizia, questi commenti suonavano più o meno: «il cotechino non fa venire il cancro, perché è buonissimo col purè e me lo faceva mia nonna». Ecco, con ovvie varianti personali e regionali, la frase ricorrente suonava proprio così, mescolando sia la solita corrente culturale tradizionalista che guarda al mitico passato da cartolina come riferimento costante, sia una visione soggettiva che, ovvia se parliamo dei gusti personali, lo diventa molto meno se su quei gusti personali vogliamo costruire una immagine del mondo.

Perché di che mondo ci parlava, quella OMS mondiale per definizione e che di mondiale deve per forza avere la prospettiva? Ci parlava di un mondo dove quote assolutamente maggioritarie delle proteine animali desinate all'alimentazione umana viaggiano su filiere che paiono studiate apposta per riprodurre il peggio della logica industriale: dall'accaparramento di vastissimi territori remoti, strappati agli agricoltori tradizionali e convertiti in gigantesche macchine da allevamento tritatutto; ai sistemi di alimentazione del bestiame, ingollato a milioni e milioni di esemplari in batteria peggio delle peggiori oche da fois gras delle leggende; alle fucine di satanasso della lavorazione e distribuzione finale del frullato industriale, con la ciliegina dell'etichetta-logo e della pubblicità magari salutista-tradizionale (un bel panorama agreste sulla confezione non si nega a nessuno).

Tutto questo per una clientela prevalentemente urbana, che nulla sa dei criteri di sfruttamento delle risorse agricolo-territoriali, e si immagina magari sul serio che quel brandello di bestia che gli fuma nel piatto guarnito di verdure e aromi, venga davvero dall'animale sorridente disegnato in etichetta, da quegli sfondi collinari col casale in prospettiva, dal tizio baffuto col cappello di paglia delle pubblicità interpretato da un attore professionista. Nulla sa, quella clientela urbana che rischia il cancro, al 15% o 10% in più o chissà quanto, i calcoli sono ovviamente perfettibili, del fatto più importante: il cancro vero è quello delle forme di produzione, delle quantità di proteine animali indispensabili a garantire quei prezzi e quel mercato, nell'attuale modello alimentare. Semplicemente, se ci fosse sul serio la famosa produzione locale sostenibile, a chilometro zero, magari dentro qualche «greenbelt» metropolitana dove è possibile l'allevamento da carne, il cotechino col purè (o l'hamburger, o il prosciutto, o la bistecca) lo assaggeremmo poche volte l'anno, pagandolo un occhio come merita, esattamente come i nostri nonni quando la filiera produttiva assomigliava parecchio a quel modello. Quello che ci dice implicitamente, il comunicato dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, è che il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando la terra che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con certe pessime abitudini alimentari e di consumo. Una volta capito questo, poi, torniamo pure a sfottere, a dare dei pervertiti ai vegetariani o a chiunque discuta di ambiente o etica, siamo in democrazia e possiamo pure farlo, no?

Ciò che bisogna fare per evitare il disastro del pianeta e dei suoi abitanti (con un'omissione). Un testo da distribuire nelle piazze, nelle scuole e nei mercati. QualEnergia, settembre ottobre 2015, con postilla

Il mondo arriva decisamente impreparato al prossimo vertice di Parigi. Se i ripetuti allarmi di tanti scienziati, e non solo di quelli IPCC (Intergovernmental Panel for Climate Change), ha fatto breccia sulla parte più avvertita, ma non certo sulla maggioranza, dell’opinione pubblica, inconsapevolezza e irresponsabilità dominano a livello planetario l’establishment politico. Il quale è stato sì edotto del problema e non può più far finta di ignorarlo (anche se al suo interno le lobby negazioniste continuano a esercitare una massiccia influenza); ma continua per lo più a trattare i cambiamenti climatici, che sono già in corso, come tutti possono constatare, e non riguardano solo un remoto futuro, come una “grana” di cui ci si deve occupare quando viene messo all’ordine del giorno, e che richiede tutt’al più qualche misura e qualche investimento ad hoc; non un cambiamento radicale, e in tempi brevi, di tutto l’assetto non solo economico produttivo ma anche sociale.

E’ quello che evidenzia Naomi Klein nel suo ultimo libro Una rivoluzione ci salverà, quando scrive che “ha ragione la destra”. La quale, soprattutto negli USA, dove è strettamente legata al mondo del petrolio, ha capito che liberarsi dei combustibili fossili non significa solo sostituire una tecnologia con un’altra, petrolio, metano e carbone con fonti rinnovabili; ma che per farlo occorre ridisegnare “dal basso”, e in modo democratico, cioè partecipato, tutta l’organizzazione sociale: una cosa che la destra non è assolutamente disposta ad accettare, costringendola ad allinearsi ad oltranza con le posizioni negazioniste.
Ma altrove, cioè al centro, tra coloro che tengono le redini dei governi (la sinistra è quasi ovunque scomparsa dalla faccia della Terra), ci si continua a comportare come se il problema non fosse questo: a parlare di crescita e di sviluppo come se, chiuso il dossier cambiamenti climatici, il problema centrale fosse quello di rimettere in moto, costi quel che costi, il PIL. Tipica di questo atteggiamento, è la strategia energetica nazionale (SEN) dell’Italia varata dal Governo Monti, confermata da Letta e peggiorata da Renzi, dove i capitoli sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica convivono col programma di estendere le trivellazioni su tutto il territorio nazionale e di trasformare il paese in un hub per distribuire metano a tutto il resto d’Europa.
In termini di inconsapevolezza e di irresponsabilità la grande stampa di informazione e i media non sono da meno: tutti hanno le loro pagine e i loro servizi sui cambiamenti climatici (anche se il Corriere della Sera continua a riproporre in sempre nuove versioni tesi negazioniste), ma, voltata pagina, si torna regolarmente a parlare di crescita e sviluppo in termini di un ritorno alla “normalità”: a stili di vita e modelli di consumo di sempre.

La conseguenza di tutto ciò è che il pubblico non è stato messo in grado, nemmeno dalle trasmissioni e dagli articoli più seri e informati, di rendersi conto che “niente tornerà più come prima”. E questo, sia che la Terra continui imperterrita la sua marcia verso la catastrofe climatica, sia che finalmente si imponga un cambio di rotta come quello che molti si aspettano dal vertice di Parigi. E’ un po’, ma in una scala enormemente maggiore, lo stesso atteggiamento che si è andato consolidando di fronte alla crisi del 2008, che per molte economie del mondo si è andata trascinando fino ad oggi.

Pochi sono stati aiutati a capire – e quelli che lo hanno capito lo hanno fatto a proprie spese – che niente può tornare come prima: che l’epoca degli alti salari, della piena occupazione, dei consumi di massa, del lavoro sicuro e del welfare garantito dallo Stato (istruzione, sanità, pensione e indennità di disoccupazione) è finita per sempre; e che le condizioni che rendono possibile un lavoro e una vita dignitosa per tutti impongono un cambiamento radicale degli assetti economici e sociali.
I due problemi, peraltro, quello dei cambiamenti climatici e quello della crisi economica permanente, sono tra loro strettamente legati, perché la via di uscita è la stessa: un insieme di tecnologie decentrate e distribuite, una organizzazione sociale partecipata, una condivisione generalizzata delle responsabilità sia in campo produttivo che nelle scelte economiche e politiche, un diverso modello di consumo.

Se andiamo a vedere quali sono gli ambiti, le filiere, i settori che oggi dipendono maggiormente dai combustibili fossili – e che quindi richiedono con maggiore urgenza una rapida e radicale riconversione – non è difficile individuarne quattro; oltre, ovviamente, la generazione elettrica.

Innanzitutto la mobilità: il modello fondato sulla motorizzazione individuale non è sostenibile e l’alimentazione elettrica dei veicoli non ne cambierebbe sostanzialmente l’impatto. Una vettura ogni due abitanti (la media dei paesi sviluppati; l’Italia ha un tasso di motorizzazione ancora più elevato) in un pianeta che tra trent’anni ospiterà dieci miliardi di esseri umani (per poi, finalmente fermarsi), oltre a consumi insostenibili, che metterebbero a dura prova la possibilità di garantirli con fonti rinnovabili, non troverebbero suolo sufficiente per muoversi né per parcheggiare.

La soluzione è a portata di mano ed è la condivisione del veicolo resa possibile dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC): car-sharing, car-pooling e trasporto a domanda (taxi collettivo), distribuzione condivisa delle merci (city logistic) sono ormai presenti in varie versioni, rudimentali o sofisticate, in tutto il mondo e si stanno diffondendo a ritmo serrato. Naturalmente hanno bisogno di un’integrazione intermodale con il trasporto di massa lungo le linee di forza della mobilità: la promozione dell’intermodalità è un’attività complessa, che richiede una cura particolare. Ma ben poco è stato fatto finora per aiutare la popolazione a concepire la propria vita, e a riorganizzarla, senza contare su una propria automobile personale.
Meno ancora per garantire che sevizi adeguati di mobilità flessibile vengano messi a disposizione di tutti. Eppure, in nessun settore come in quello della mobilità si dimostra che è l’offerta a creare la relativa domanda: nessuno aveva, né avrebbe potuto, creare una domanda di car-sharing fino a che un servizio del genere non fosse stato attivato. Ma mobilità sostenibile significa anche riduzione degli spostamenti: un problema che tocca direttamente i rapporti con la pubblica amministrazione (e-government) e il telelavoro, nei confronti dei quali non si intravvedono misure di promozione adeguate, e soprattutto il contenimento dello sprawl urbano e del conseguente consumo di suolo, dove si mettono in gioco interessi immobiliari quasi altrettanto potenti e “intoccabili” di quelli dell’industria petrolifera.

In secondo luogo i consumi del settore civile: edilizia residenziale e di servizio, soprattutto per quanto riguarda riscaldamento e climatizzazione: anche in questo campo le tecnologie per ridurre drasticamente i consumi, e per convertirli alle fonti rinnovabili o a un uso diffuso della cogenerazione sono ampiamente testate, sia sulle nuove costruzioni che sugli edifici esistenti, di qualsiasi epoca. Ma diffonderle su tutto il patrimonio esistente è un’impresa titanica: non solo per l’entità dell’investimento, che richiederebbe comunque una complessa articolazione per ripartire la spesa tra intervento pubblico, incentivazione dell’investimento privato e soluzioni finanziarie ad hoc. Ma l’articolazione riguarda soprattutto il mix di fonti rinnovabili, di interventi impiantistici, di ristrutturazioni edilizie, di soluzioni finanziarie e soprattutto di strumenti di comunicazione e di divulgazione che richiedono un approccio specifico, non solo edificio per edificio e territorio per territorio, ma anche interlocutore per interlocutore: diverso è ovviamente l’approccio a una proprietà individuale, a un condominio, a una piccola o media impresa, all’unità locale di un grande gruppo.

Oggi gli interventi vengono per lo più promossi e proposti in ordine sparso, mentre attrezzare squadre pluridisciplinari di tecnici in grado di fare un check-up integrato e una progettazione di massima degli interventi possibili in ogni edificio è la premessa perché ciascuno - proprietari, inquilini, amministratori, imprenditori, manager e dipendenti – si confronti con la responsabilità di rendere sostenibile la porzione di territorio in cui vive e lavora. E’ poi più che ovvio che dal punto di vista occupazionale un intervento a tappeto di questo genere è la premessa per un grande piano pluriennale in grado di creare milioni di posti di lavoro e di compensare qualsiasi perdita occupazionale derivasse dal ridimensionamento dei settori più direttamente legati all’uso dei combustibili fossili.

In terzo luogo - ma forse al primo – occorrerà rivoluzionare le nostre abitudini alimentari. Oggi, in media, per ogni caloria di cibo che arriva sulla tavola di un consumatore occidentale (o dalle abitudini alimentari occidentalizzate), ne vengono consumate nove-dieci di origine fossile: concimi, pesticidi, motorizzazione, trasporto (anche intercontinentale), stoccaggio, manipolazione, confezione, imballaggio e pubblicità rendono il sistema agroalimentare insostenibile. La filiera agroalimentare dovrà cambiare radicalmente: l’agricoltura dovrà essere ecologica (usando fertilizzanti naturali e privilegiando la protezione biologica delle colture), multicolturale, per salvaguardare la fertilità dei suolo, multifunzionale, per garantire ai produttori fonti di reddito diversificate, di prossimità per evitare costi di trasporto e stoccaggio eccessivi.

In gran parte questa trasformazione dipenderà dalle scelte dei consumatori, che dovranno associarsi per garantirsi attraverso un rapporto il più diretto con i produttori, un’alimentazione di qualità, a basso impatto ambientale, prodotta il più possibile da aziende agricole e di trasformazione di prossimità: il che potrebbe cambiare radicalmente l’aspetto del territorio periurbano delle città grandi e piccole, a partire dalla grande diffusione che stanno avendo gli orti urbani, che impegnano spesso in modo condiviso gli stessi consumatori finali in forme che segnano un cambiamento radicale di filosofia e stile di vita.

Ma un cambiamento del genere dovrebbe anche segnare il progressivo ridimensionamento del ruolo di quei templi moderni del consumo che sono il super e l’ipermercato, o il centro commerciale, intorno a cui il capitalismo degli ultimi decenni ha riorganizzato non solo la geografia dei centri urbani (con la desertificazione commerciale di interi quartieri e la scomparsa dei negozi di vicinato) e con essa la quotidianità del cittadino-consumatore costretta a gravitare intorno a questi poli di attrazione, ma anche la struttura planetaria della produzione. Oggi la grande catena di distribuzione, che serve milioni di consumatori, che si approvvigiona in tutto il mondo da decine di migliaia di fornitori che può coinvolgere e abbandonare in qualsiasi momento, che incassa cash e paga a due o tre mesi, sviluppando un’enorme potenza finanziaria, rappresenta le caratteristiche peculiari di un’economia globalizzata assai più dell’industria automobilistica che aveva fornito il modello di organizzazione del lavoro durante tutto il “secolo breve” del fordismo.

Infine viene la gestione dei rifiuti, che sono le miniere del futuro, mano a mano che le vene di minerali che oggi alimentano l’industria si assottigliano, rendendo sempre più ardua e costosa l’estrazione, e che le risorse rinnovabili utilizzate per sostituirle entrano in competizione con la produzione di cibo. Oggi è facile sottovalutare o addirittura irridere alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, anche da parte di quegli amministratori che ne hanno la responsabilità diretta. Perché non si coglie, e non viene spiegato, che dietro ogni chilo di rifiuti urbani ce ne sono quattro o cinque di rifiuti della produzione, che vanno anch’essi raccolti e trattati allo stesso modo (cosa peraltro assai più facile, perché vengono generati sempre in grandi lotti relativamente omogenei); che il modo migliore di trattarli non è quello di mandarli a smaltimento, ma di incanalarli direttamente verso quegli impianti che li possono rigenerare o riciclare; ma soprattutto che è solo dall’analisi del perché e come un bene si trasforma in un rifiuto che possono venire gli input di una radicale rivoluzione industriale: di una produzione che invece di promuovere l’obsolescenza dei suoi prodotto, trasformandoli in rifiuti per poterne vendere continuamente di nuovi, torni a progettarli per farli durare, per cambiarne solo le componenti logore o obsolete, o per facilitare comunque il riciclo di tutti i materiali di cui è composto il bene prodotto. In nessun campo come in questo la responsabilità di un cambiamento radicale del sistema è condivisa tra cittadini consumatori, amministratori locali, legislatore, sistema produttivo, cioè imprese, e progettisti, cioè designer. L’ecodesign oggi è un campo di azione ai margini di una cultura produttiva fondata e orientata allo spreco delle risorse. Deve diventare il nocciolo di ogni progetto di riconversione produttiva.

postilla

L’elenco delle pratiche che si dovrebbero attivare se si volesse davvero affrontare il tema trattato da Viale è quasi del tutto completo, ed è chiaramente argomentato nell’enunciazione della necessità di ciascuno degli elementi. Così com’è chiarissima la condizione di fondo che dovrebbe sorreggere il tutto: la convinzione che l’obiettivo centrale è il superamento dell’attuale modo di produrre e di consumare (che è quello del capitaliso giunto alla sua ultima incarnaziome). Manca però un elemento: la necessità di adottare il metodo e gli strumenti della pianificazione del territorio, a tutte le scale dell’habitat dell’uomo. Se il territorio è una realtà olistica solo un metodo e un insieme di strumenti capaci di governare la complessità sono capaci di ordinare tra loro i vari elementi: dalla mobilità delle persone e delle cose alla distribuzione delle abitazioni e delle attività, dalle regole per le costruzioni e i manufatti a quelle per conservazione/utilizzazione delle risorse naturali ecc. L’abolizione della pianificazione del territorio e la liquidazione delle competenze in materia delle istituzioni democratiche ha costituito un passaggio essenziale nella corsa all’appropriazione individuale dei patrimoni e delle risorse comuni.

«Cambiamento possibile. L’immigrazione e il cambiamento climatico saranno i temi centrali del confronto politico per i prossimi decenni. Le prospettive puramente nazionali o istituzionali sono del tutto insufficienti ad intaccare questi problemi». Il manifesto, 30 ottobre 2015


Due temi oggi cen­trali, appa­ren­te­mente distinti, andreb­bero invece con­nessi in modo diretto.

Primo, la COP 21 di Parigi, forse ultima occa­sione per un’inversione di rotta sul riscal­da­mento glo­bale che rischia di ren­dere irre­ver­si­bili i cam­bia­menti cli­ma­tici già in corso. A que­sta minac­cia abbiamo da tempo con­trap­po­sto il pro­gramma di una con­ver­sione eco­lo­gica, sulle tracce di Alex Lan­ger e, ora, anche dell’enciclica Lau­dato si’ e del libro Una rivo­lu­zione ci sal­verà dove Naomi Klein spiega che abban­do­nare i com­bu­sti­bili fos­sili richiede un sov­ver­ti­mento radi­cale degli assetti pro­dut­tivi e sociali; per que­sto le destre con­ser­va­trici, e non solo loro, sono fero­ce­mente nega­zio­ni­ste. L’aggressione alle risorse della terra si lega alla povertà e alle dise­gua­glianze del pia­neta: sia nei rap­porti tra Glo­bal North e Glo­bal South, sia all’interno di ogni sin­golo paese: ciò che uni­sce in un unico obiet­tivo giu­sti­zia sociale e giu­sti­zia ambientale.

Secondo, i pro­fu­ghi. La distin­zione tra pro­fu­ghi di guerra e migranti eco­no­mici, su cui i governi dell’Ue stanno costruendo le loro poli­ti­che di difesa da que­sta pre­sunta inva­sione di nuovi «bar­bari», non ha alcun fon­da­mento: entrambi sono in realtà «pro­fu­ghi ambien­tali», per­ché all’origine delle con­di­zioni che li hanno costretti a fug­gire dai loro paesi, cosa che nes­suno fa mai volen­tieri, c’è una inso­ste­ni­bi­lità pro­vo­cata dai cam­bia­menti cli­ma­tici, dal sac­cheg­gio delle risorse locali, dalla penu­ria di acqua, dall’inquinamento dei suoli, tutti feno­meni in larga parte pro­dotti dall’economia del Glo­bal North. Il pro­blema occu­perà tutto lo spa­zio del discorso poli­tico e del con­flitto nei pros­simi anni. E, nel ten­ta­tivo di sca­ri­car­sene a vicenda l’onere, sta divi­dendo tra loro i governi dell’Unione euro­pea che ave­vano invece tro­vato l’unanimità nel far pagare alla Gre­cia la sua ribel­lione con­tro l’austerità. L’Ue, non come isti­tu­zione, e nean­che nei suoi con­fini, bensì come ambito di un pro­cesso sociale, cul­tu­rale e poli­tico che abbrac­cia insieme all’Europa tutto lo spa­zio geo­gra­fico e poli­tico coin­volto da que­sti flussi, deve restare un punto di rife­ri­mento irri­nun­cia­bile per una pro­spet­tiva poli­tica che, rin­chiusa a livello nazio­nale, non ha alcuna pos­si­bi­lità di affermarsi.

Coloro che si sono riu­niti per affer­mare un loro posi­zio­na­mento rias­sunto nelle for­mule «No all’euro, No all’UE, No alla Nato» (decli­nate in ter­mini di sovra­nità nazio­nale, anche con lo slo­gan «Fuori l’Italia dalla Nato», che lascia da parte l’Europa) si sono dimen­ti­cati dei pro­fu­ghi. Nella loro pro­spet­tiva a fron­teg­giare i flussi pre­senti e futuri, sia con i respin­gi­menti che con l’accoglienza, reste­reb­bero solo gli unici due punti di approdo di que­sto esodo: Ita­lia e Gre­cia. Ma men­tre l’Europa nel suo com­plesso avrebbe le risorse per farvi fronte, l’Italia, con una recu­pe­rata sovra­nità — posto che la cosa abbia senso e sia rea­liz­za­bile – ne rimar­rebbe schiac­ciata: il che forse rien­tra tra le opzioni della gover­nance euro­pea, non tra le nostre.

Quei flussi migra­tori stanno però creando una frat­tura sociale, cul­tu­rale e poli­tica anche all’interno di ogni paese: tra una com­po­nente mag­gio­ri­ta­ria, ma non ancora vin­cente, di raz­zi­sti, che vor­reb­bero sba­raz­zarsi del pro­blema con le spicce, e una com­po­nente soli­dale, oggi mino­ri­ta­ria, ma tutt’altro che insi­gni­fi­cante (come lo è invece la mag­gior parte della sini­stra europea).

Tra loro i governi dell’Europa si bar­ca­me­nano: dopo aver aiz­zato il loro elet­to­rato, per fide­liz­zarlo, con­tro i popoli fan­nul­loni e paras­siti che sareb­bero all’origine della crisi eco­no­mica, si ren­dono ora conto che quel tema gli sta sfug­gendo di mano e viene ripreso, in fun­zione anti-migranti, da forze ben più capaci di loro di met­terlo a frutto.

Se per fer­mare quei flussi bastasse adot­tare misure molto dure, come bar­riere, respin­gi­menti, ester­na­liz­za­zione dei campi, esclu­sione sociale e car­ce­ra­zione, pro­ba­bil­mente avreb­bero già vinto i nostri anta­go­ni­sti. Ma le cose non stanno così.

Innan­zi­tutto quei pro­fu­ghi e migranti sono già, per molti versi, cit­ta­dini euro­pei, per­ché si sen­tono tali: vedono nell’Europa la zona forte di un’area molto più vasta, quella dove si mani­fe­stano gli effetti dei pro­cessi – guerre, dit­ta­ture, deva­sta­zioni, cam­bia­menti cli­ma­tici – che li hanno costretti a fuggire.
Pen­sano all’Europa come a un loro diritto: un sen­tire che li pone in aperto con­flitto con i governi dell’Unione, che di quel diritto non ne vogliono sapere. Per que­sto sono una com­po­nente fon­da­men­tale del pro­le­ta­riato euro­peo che esige un cam­bia­mento di rotta fuori e den­tro i con­fini dell’Unione.

Poi, sigil­lare la «for­tezza Europa» non è sem­plice: signi­fica addos­sarsi la respon­sa­bi­lità di una strage con­ti­nua e cre­scente che scon­fina con una poli­tica di ster­mi­nio pia­ni­fi­cata e orga­niz­zata: un pro­cesso già in corso da tempo e taciuto nel suo svol­gi­mento quo­ti­diano. Ma quanti sanno che i morti nei deserti, durante la tra­ver­sata verso i porti di imbarco, sono più nume­rosi degli anne­gati nel Mediterraneo?

Terzo: la chiu­sura delle fron­tiere non può che tra­dursi in feroce irri­gi­di­mento degli assetti poli­tici interni: repres­sione, auto­ri­ta­ri­smo, disci­pli­na­mento e limi­ta­zione delle libertà; a com­ple­mento delle poli­ti­che di austerità.

Infine, in una pro­spet­tiva di mili­ta­riz­za­zione sociale non c’è spa­zio per la con­ver­sione eco­lo­gica e la lotta con­tro i cam­bia­menti cli­ma­tici. Ma il dete­rio­ra­mento di clima e ambiente pro­ce­derà comun­que, tro­vando la for­tezza Europa sem­pre più impre­pa­rata sia in ter­mini di miti­ga­zione che di adattamento.

Per que­sto acco­glienza, inclu­sione e inse­ri­mento sociale e lavo­ra­tivo dei pro­fu­ghi si inne­stano sui pro­grammi di con­ver­sione eco­lo­gica: attra­verso diversi passaggi:
  1. occorre pren­dere atto che i con­fini dell’Europa non coin­ci­dono né con quelli dell’euro, né con quelli dell’Unione o della Nato, ma abbrac­ciano tutti i paesi da cui pro­ven­gono i flussi mag­giori di migranti: Medio Oriente, Magh­reb, Africa subsahariana.
  2. occorre saper vedere nei pro­fu­ghi che rag­giun­gono l’Europa, o che sono già inse­diati in essa, ma anche in quelli mala­mente accam­pati ai suoi con­fini, i refe­renti – gra­zie anche ai rap­porti che con­ti­nuano a intrat­te­nere con le loro comu­nità di ori­gine – di un’alternativa sociale alle forze oggi impe­gnate nelle guerre, nel soste­gno alle dit­ta­ture e nelle deva­sta­zioni dei ter­ri­tori che li hanno costretti a fug­gire. Non c’è par­ti­giano della pace migliore di chi fugge dalla guerra; né soste­ni­tore della rina­scita del pro­prio paese più con­vinto di chi ha subito le con­se­guenze del suo degrado.
  3. Dob­biamo vedere nell’inserimento lavo­ra­tivo dei pro­fu­ghi una com­po­nente irri­nun­cia­bile della loro inclu­sione sociale e poli­tica. Per que­sto occor­rono milioni di nuovi posti di lavoro, un’abitazione decente e un’assistenza ade­guata sia per loro che per i cit­ta­dini euro­pei che ne sono privi. Non biso­gna ali­men­tare l’idea che ai pro­fu­ghi siano desti­nate più risorse di quelle dedi­cate ai cit­ta­dini euro­pei in difficoltà.
La con­ver­sione eco­lo­gica e, ovvia­mente, la fine delle poli­ti­che di auste­rità pos­sono ren­dere effet­tivo que­sto obiet­tivo. I set­tori in cui è essen­ziale inter­ve­nire sono noti: fonti rin­no­va­bili, effi­cienza ener­ge­tica, agri­col­tura e indu­stria di pic­cola taglia, eco­lo­gi­che e di pros­si­mità, gestione dei rifiuti, mobi­lità soste­ni­bile, edi­li­zia e sal­va­guar­dia del ter­ri­to­rio. Oltre agli ambiti tra­sver­sali: cul­tura, istru­zione, salute, ricerca.

L’establishment euro­peo non ha né la cul­tura, né l’esperienza, né gli stru­menti per affron­tare un com­pito del genere; ha anzi dimo­strato di non volere acco­gliere né inclu­dere nean­che milioni di cit­ta­dini euro­pei a cui con­ti­nua a sot­trarre lavoro, red­dito, casa, istru­zione, assi­stenza sani­ta­ria, pensioni.
Meno che mai si può affi­dare quel com­pito alle forze «spon­ta­nee» del mer­cato. Solo il terzo set­tore, l’economia sociale e soli­dale, nono­stante tutte le aber­ra­zioni di cui ha dato prova in tempi recenti — soprat­tutto in Ita­lia, e soprat­tutto nei con­fronti dei migranti — ha matu­rato un’esperienza pra­tica, una cul­tura e un baga­glio di pro­getti in que­sto campo.

Per que­sto è della mas­sima impor­tanza impe­gnarsi nella pro­mo­zione di que­sti obiet­tivi, anche uti­liz­zando la sca­denza del Forum euro­peo dell’Economia sociale e soli­dale a Bru­xel­les il pros­simo 28 gennaio.

Dato che come sempre le variabili ambiente, risorse, salute, territorio, economia e società si tengono, qualche precisazione sulla faccenda salamini o cotechini buoni o cattivi serve. La Repubblica, 27 ottobre 2015, postilla (f.b.)

La conferma che la carne rossa, soprattutto se lavorata, è da considerare una sostanza cancerogena è una notizia che va interpretata positivamente. Segna infatti una vittoria della scienza sulla malattia e non certo dei vegetariani sui carnivori. Non sarà infatti con la sognata pillola antitumore che risolveremo l’endemia del cancro sul pianeta, ma identificando ad una ad una le cause di ogni tumore, per eliminarle.

Troppo spesso il cancro è ancora oggi uno spettro che si materializza al solo evocarlo, vissuto intimamente come una maledizione o una iattura. Ricondurlo a un fenomeno umano che ha un inizio, cioè una causa, uno sviluppo e quindi anche una fine, cioè la guarigione, è fondamentale per tutti: malati, familiari, medici. L’annuncio che viene diffuso oggi dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il più autorevole organismo a livello mondiale in materia, segna dunque una pietra miliare per la prevenzione, la cura e la cultura del cancro.

È una tappa che in molti, come me, si aspettavano da tempo. Da oltre vent’anni anni io sostengo, sulla base dei primi studi epidemiologici che lo Iarc ha ora messo insieme ed analizzato, che esiste un legame causa-effetto fra consumo di carne e tumore del colon. All’inizio sono stato criticato, anche duramente, e sono stato accusato di essere un visionario, influenzato dalle mie convinzioni etiche di animalista. Ma non ero intellettualmente solo: eminenti ricercatori a livello europeo hanno sviluppato i lunghi e complessi studi di popolazione necessari a stabilire la cancerogenità di una sostanza o un alimento, tanto che già nel Codice Europeo contro il Cancro — dieci raccomandazioni di prevenzione per ridurre del 20% la mortalità per cancro in europa entro l’anno 2000 — diffuso dalla Commissione Europea per la prima volta nell’87, figurava al punto tre l’invito a mangiare più vegetali e cereali e al punto quattro la raccomandazione di limitare il consumo dei grassi contenuti principalmente nella carne.

Se dunque la cancerogenità della carne da oggi non è più in dubbio, la discussione si apre ora sulla quantità che la rende pericolosa. Medici e ricercatori a livello internazionale si sono impegnati ad evitare gli allarmismi che potrebbero spingere a pensare che una singola fetta di salame possa essere causa diretta di un tumore al colon. Nessuno afferma che sia così. L’invito è piuttosto ad una riduzione progressiva del consumo di insaccati e carne rossa, a favore di un aumento del consumo di pesce, verdura, frutta, cereali, grassi di origine vegetale. La nostra dieta mediterranea, in sostanza. Più vegetali e meno carne dovrebbe diventare non un diktat scientifico antimalattia, ma una politica per il benessere, adottata nelle scuole, nelle mense aziendali, nei ristoranti, per penetrare a poco a poco nelle famiglie e diventare cultura. Come oncologo sono fondamentalmente d’accordo con questo approccio educativo. Ma come uomo e cittadino di questo pianeta, la penso diversamente.

Il mio mondo ideale è un mondo in cui non si uccidono gli animali per ingoiarli e dunque in cui il consumo di carne è uguale a zero. Primo perché amo gli animali e dunque non li mangio. Non capisco coloro che si scandalizzano all’idea di mangiare il proprio gatto o il proprio cane, ma consumano a cuor leggero le costolette di agnello, un cucciolo delizioso e indifeso che viene massacrato strappandolo dal seno materno a pochi mesi di vita. Ritengo che gli esseri viventi facciano parte dell’equilibrio del Pianeta e i loro diritti vadano rispettati. Prima di tutto quello alla vita. Secondo, perché la carne non è un alimento sostenibile in un universo dove oggi vivono 7 miliardi di esseri umani e oltre 4 miliardi di animali da allevamento e fra poche decine d’anni, se il trend demografico continua con le attuali caratteristiche, vivranno 9 miliardi di uomini e la domanda di carne aumenterà dagli attuali 220 milioni di tonnellate a più di 460 milioni. Si prospetta l’incubo di avere più capi di bestiame che uomini sulla Terra, con una percentuale di questi esseri umani che moriranno comunque ancora di fame Come diceva Einstein, niente può aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’uomo sulla terra quanto la scelta vegetariana.

postilla

Il professor Veronesi con questo articolo ci parla di due cose che conosce molto bene di prima mano: le patologie tumorali, e sé stesso, a cui dedica la coda del pezzo, anche a distinguere fatti da posizioni e opinioni personali. Vale certamente la pena di aggiungere un'altra coda, correttamente (stavolta) omessa dal professore per incompetenza, ed è la variabile territorio/ambiente, quella altrettanto saltata a piè pari da chi fa del sarcasmo sulle raccomandazioni dell'Oms a proposito dei consumi di carne: l'insostenibilità per la salute umana è prima di tutto una insostenibilità ambientale. Emissioni di gas serra, consumo di territorio da agro-industria e/o landgrabbing, devastazioni di paesaggi tradizionali per far posto a impattanti macchine produttrici di proteine e grassi animali da alimentazione, Expo baraccone e promozione di hamburger multinazionali. Tutto questo entra a pieno titolo nelle raccomandazioni Oms, perché quello da cui ci stanno mettendo in guardia è che il panino col salame, evocato dalle memorie della nonnina che ce lo metteva nel cestino della merenda, è solo ideologia. Aprire gli occhi, qualunque reazione poi ci evochi, è quantomeno un passo avanti (f.b.)

Le ragioni del movimento contrario all'evento dovevano essere interpretate a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Today blog Città Conquistatrice, 26 ottobre 2015

Escono in questi giorni le rilevazioni di medio periodo sull'andamento degli affari negli esercizi commerciali di Milano, e si nota come i mesi del grande evento espositivo abbiano o meno avute effetti di stimolo sulle economie cittadine. Le interviste ai campioni di turisti sembrano quasi completamente soddisfacenti, nel senso che la quasi totalità «promuove» Milano, le sue particolarità storiche e curiosità, l'offerta culturale delle mostre ed eventi collaterali. Questo entusiasmo però non parrebbe complessivamente riguardare il genere di cose di cui bene o male si alimenta la cosiddetta economia turistica, quella fatta di ristorazione, shopping eccetera. Lo dicono i baristi e i titolari di negozi, soprattutto fuori dal piccolissimo nucleo del centro e dei suoi triangoli magici degli stilisti e concentrazioni di folle. E viene di nuovo da ripetere quella specie di nenia del «noi l'avevamo detto», o per meglio specificare l'aveva detto in fondo fin dall'inizio l'opposizione dei No Expo.

Certo, come tutte le posizioni variamente nimby e negazioniste, anche quella del movimento contrario all'evento doveva-poteva essere interpretata, più che alimentata o contrastata, dato che c'erano ottime ragioni, a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Pare una contraddizione diciamo così filosofica, se non campata decisamente per aria, ma non lo è affatto. «Nutrire il Pianeta – Energia per la Vita» nel XXI secolo evoca immediatamente, specie per un pubblico di massa mediamente istruito e interessato, stili di vita e alimentazione in qualche misura innovativi, futuribili, sperimentali, certamente diversi dalla pura pappatoria, sia essa quella della trattoria dell'angolo che della pausa pranzo tramezzino in ufficio. E invece fin da subito le cosiddette «strategie» prevalenti negli organizzatori, foraggiate dalle multinazionali, hanno remato nell'altra direzione. Quando al progetto del cosiddetto Orto Planetario, molto leggero e organizzativamente diffuso, si è preferita la classicissima Fiera della Pappatoria dentro il suo recito da parco tematico.

Quando, in pratica, si è rinunciato a sfruttare in sinergia quella risorsa che era il territorio urbano e agricolo della metropoli, scegliendo invece il modello del centro commerciale suburbano chiuso nella propria scatola luccicante, che offre tutto e il contrario di tutto con comodi parcheggi e offerta tre per due. Culturalmente, e poi in modo automatico anche nei criteri organizzativi e negli equilibri, si è finito così per replicare il classico processo di concentrazione/svuotamento che da almeno mezzo secolo mette la grande distribuzione sia contro i produttori e trasformatori di materie prime, sia contro gli esercenti tradizionali. Quella specie di Disneyland costruita fra i due tracciati autostradali ai limiti dell'area urbana, svolge perfettamente quel ruolo di aspiratore di tutto quanto, e insieme di banalizzazione, essendo progettata da manuale in quel modo. E tradisce il proprio ruolo dichiarato, anche se poi ospita dotti convegni sull'ambiente e la sostenibilità, i quali convegni e dichiarazioni non intaccano lo slogan alla McLuhan: «il medium è il messaggio». Ecco dove avevano assolutamente ragione, e ancora ce l'hanno, i No Expo: anche alla luce delle apparentemente pretestuose polemiche degli esercenti locali, appare evidente che si devecambiare strada, e farlo abbastanza alla svelta.

All’Expo di Milano, nel cele­brato Padi­glione Zero, ho fatto una sco­perta sor­pren­dente. Una delle tante imma­gini dedi­cate ai pro­blemi... (continua a leggere)

All’Expo di Milano, nel cele­brato Padi­glione Zero, ho fatto una sco­perta sor­pren­dente. Una delle tante imma­gini dedi­cate ai pro­blemi ali­men­tari e ambien­tali, mostrava una pian­ta­gione di palme da olio, men­tre la dida­sca­lia infor­mava che essa ser­viva a pro­teg­gere la fore­sta amaz­zo­nica. Chissà quante migliaia di per­sone si sono lasciate per­sua­dere da quel mes­sag­gio. Ma è accet­ta­bile que­sto modo di pro­teg­gere la più vasta fore­sta plu­viale rima­sta sulla Terra? Il fatto che si abbat­tano alberi non per costruire edi­fici, per aprire nuovi pascoli, per impian­tare lati­fondi di soia gm, ma altri alberi, le palme, è una ope­ra­zione ambien­tal­mente benefica?

Vec­chi alberi sosti­tuiti da nuovi alberi? Ma quando si abbat­tono i vec­chi alberi, in Amaz­zo­nia, si fanno spa­rire per sem­pre piante mil­le­na­rie. E non è solo que­sto il muta­mento e il danno più rile­vante. La fore­sta plu­viale costi­tui­sce il bacino più ricco di bio­di­ver­sità pre­sente sul pia­neta. Non si abbat­tono solo gli alberi, si distrugge un eco­si­stema di grande com­ples­sità e ric­chezza, com­pren­dente uno numero incal­co­la­bile di mam­mi­feri, ret­tili, uccelli, anfibi, insetti, e poi erbe, arbu­sti, piante, fiori molti dei quali ancora sco­no­sciuti alla scienza.

Ad essere scon­volta è poi la chi­mica del suolo, la pio­vo­sità locale, il regime delle acque, il clima. Dun­que si annienta un patri­mo­nio mil­le­na­rio con i suoi sco­no­sciuti equi­li­bri per impian­tare una mono­cul­tura indu­striale con­ci­mata chi­mi­ca­mente e difesa dai paras­siti attra­verso gli anti­pa­ras­si­tari. Si tutela così l’Amazzonia?

Que­sta espe­rienza mi induce a svol­gere qual­che rifles­sione su ciò che dovremmo inten­dere per natura e per ambiente, due realtà ben diverse, che richie­dono stra­te­gie e com­por­ta­menti umani fra loro differenziati.

Il ter­mine ambiente, quale sino­nimo di mondo natu­rale, ha assunto solo di recente tale signi­fi­cato. Nell’800 indi­cava un milieu sociale o cul­tu­rale e solo nella seconda metà del ‘900 il ter­mine è stato cur­vato (e infla­zio­nato) a signi­fi­care la natura vivente. In realtà, con la parola ambiente noi indi­chiamo nor­mal­mente la natura così come la espe­riamo in Ita­lia e in Europa, vale a dire in un’area del mondo antro­piz­zata da alcune migliaia di anni. Qui ogni cosa, dell’assetto natu­rale ori­gi­na­rio - foreste, mac­chie, per­fino laghi e fiumi - è stata pro­fon­da­mente rimo­del­lata dall’azione umana. Que­sto è quel che si chiama ambiente, men­tre è natura la Fore­sta amaz­zo­nica, prima che diventi ambiente con le mono­cul­ture di palma.

Occorre dire che la distin­zione non è sem­pre cosi sem­plice e così netta. Come defi­ni­remmo oggi la Savana afri­cana? Quella vasta distesa pia­neg­giante, pun­teg­giata di radi alberi e arbu­sti e popo­lata da leoni, zebre, ele­fanti, giraffe, ecc.? Che cosa c’è di più natu­rale nell’immaginario occi­den­tale? Eppure – lo hanno sco­perto i geo­grafi nel secolo scorso – la Savana è opera dell’uomo. E’ il risul­tato della distru­zione della fore­sta ori­gi­na­ria, ope­rata dalle popo­la­zioni col fuoco e i vasti dibo­sca­menti a fini di cac­cia, crea­zione di pascoli, col­ti­va­zioni. Quella che i turi­sti osser­vano come natura sono i relitti di una radi­cale distru­zione degli anti­chi eco­si­stemi. E’ com­pren­si­bile dun­que che allor­ché un nuovo ordine natu­rale si viene a creare a opera degli uomini occorra par­lare di ambiente e non di natura. E non certo per cap­ziose ragioni seman­ti­che, ma per le diverse stra­te­gie di umano com­por­ta­mento che essa richiede. La natura va con­ser­vata così com’è, l’ambiente, che costi­tui­sce un ordine arti­fi­ciale, va tenuto nel suo nuovo equi­li­brio dall’opera umana che l’ha creata.

Qual­che esem­pio ci con­duce ai pro­blemi dell’oggi. Que­sta estate ho com­piuto un’escursione sul Monte Reven­tino, nel Parco nazio­nale della Sila. Scen­dendo per i boschi verso il comune di Decol­la­tura, sono stato let­te­ral­mente asse­diato da uno spet­ta­colo che non poteva sfug­gire nep­pure a un occhio distratto. Cen­ti­naia e sicu­ra­mente migliaia di alberi erano rico­perti e sopraf­fatti da un ram­pi­cante, spesso bian­cheg­giante per i suoi fiori a cascata. Ho rico­no­sciuto la ter­ri­bile vitalba (Cle­ma­tis vitalba). Molte aree erano let­te­ral­mente som­merse, tanti alberi erano già sec­chi, sche­le­tri che si alza­vano al cielo in mezzo a una vege­ta­zione rigo­gliosa e cao­tica. La vitalba – che Colu­mella con­si­glia di uti­liz­zare in insa­lata, come sanno ancora i nostri con­ta­dini – è una infe­stante di ter­ri­bile vita­lità: si arram­pica sugli alberi for­mando lun­ghis­sime liane e ha radici sot­ter­ra­nee che cre­scono come la parte aerea della pianta.

Abban­do­nato a se stesso, nel giro di un decen­nio quel bosco popo­lato da casta­gni, cerri, pioppi, ontani, e innu­me­re­voli arbu­sti sarà pro­ba­bil­mente distrutto. L’ambiente sarà defi­ni­ti­va­mente scon­volto, ma vin­cerà la natura, con il suo vitale e stra­ri­pante disor­dine. E’ auspi­ca­bile che ciò accada? Lasciamo che gli alberi, pian­tati dagli uomini, utili un tempo alle loro eco­no­mie, vadano in rovina? E se si vuole inter­ve­nire, che cosa occorre fare? Chie­dendo a un con­ta­dino del luogo ragione dell’invasione della vitalba, mi ha spie­gato che un tempo il pro­blema non si poneva, per­ché il bosco era bat­tuto dagli ani­mali. Ci pen­sa­vano le capre, le pecore, i maiali a tenere a bada quelle e altre infe­stanti. Sag­gia e per­sua­siva spie­ga­zione, per­ché il bosco è una crea­zione dell’uomo, ed è la sua pre­senza, la sua manu­ten­zione quo­ti­diana che man­tiene in un equi­li­brio eco­no­mi­ca­mente e ambien­tal­mente van­tag­gioso quell’ordine arti­fi­ciale da esso stesso creato.

Il caso del Monte Reven­tino è para­dig­ma­tico e denun­cia un defi­cit cul­tu­rale e poli­tico, una assenza di infor­ma­zione di rile­vante gra­vità. I nostri boschi sono in una con­di­zione di abban­dono e di insel­va­ti­chi­mento. Ho visi­tato l’Aspromonte di recente e ho tro­vato i suoi mae­stosi pini rico­perti da ster­mi­nate “nuvole” di nidi di pro­ces­sio­na­rie che ne deter­mi­ne­ranno la morte. Boschi immensi e un tempo mera­vi­gliosi sono asse­diati da eser­citi di paras­siti che avan­zano di anno in anno scac­ciando ogni pre­senza umana. I casta­gneti di tutto il nostro Appen­nino sono infe­stati da un ter­ri­bile paras­sita, il cini­pide, che impe­di­sce da anni ogni rac­colto. Men­tre ovun­que avanza, dall’Emilia in giù, la mac­chia sel­va­tica e i rovi.

Anche la que­stione dei cin­ghiali, emersa dram­ma­ti­ca­mente ad ago­sto, appar­tiene allo stesso ordine di pro­blemi. Que­sti ani­mali immessi nelle nostre selve per ripo­po­lare esem­plari da cac­cia, in virtù anche della loro cre­scita spon­ta­nea, si mol­ti­pli­cano sem­pre più nelle aree abban­do­nate della nostra Peni­sola. Il loro numero debor­dante li porta ad inva­dere le cam­pa­gne, a dan­neg­giare le col­ti­va­zioni ad arri­vare agli abi­tati in cerca di cibo. Ma anche i cin­ghiali come i nostri boschi denun­ciano che l’ordine arti­fi­ciale, l’ambiente creato dagli uomini, non è più curato, man­te­nuto nei suoi equi­li­bri ed è lasciato alla degra­da­zione. E que­sto avviene per­ché sono state abban­do­nate le anti­che eco­no­mie, svuo­tati gli abi­tati, scom­parsi i mestieri, per­duti gli umani pre­sidi che gover­na­vano il rap­porto con l’habitat locale. Così i pre­ce­denti van­taggi goduti dalle popo­la­zioni si tra­sfor­mano in danni e minacce per le nuove.

Non può dun­que non stu­pire (fino a un certo punto) il recente accor­pa­mento, voluto dal governo Renzi, del Corpo delle guar­die fore­stali con l’Arma dei cara­bi­nieri. Non che le guar­die fore­stali siano suf­fi­cienti ad affron­tare i pro­blemi accen­nati, ma inde­bo­lirne l’istituzione non è certo il modo migliore per fron­teg­giarli. In realtà l’iniziativa gover­na­tiva mostra indi­ret­ta­mente l’ignoranza grave e per­du­rante delle nostre classi diri­genti dei pro­blemi del ter­ri­to­rio nazionale.

Stiamo per­dendo patri­moni natu­rali immensi, interi paesi e bor­ghi, estesi pezzi di Peni­sola, poten­ziali luo­ghi di ric­chezza e umano benes­sere, luo­ghi in cui sono stati inve­stiti nei secoli e decenni illi­mi­tate risorse e lavoro e nes­suno, in Ita­lia, fiata. Che paese è mai que­sto dove si fa depe­rire la ric­chezza reale e stuoli di eco­no­mi­sti, truppe di diri­genti poli­tici e sin­da­cali ci assor­dano ogni giorno con le loro ricette di cre­scita senza nes­sun cenno al territorio?

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto

Un'enciclica scomoda per molti. Soprattutto per chi si lascia manovrare dal grande Burrattinaio: il capitalismo, baby. Il Fatto Quotidiano, Blog "Ambiente e veleni", 26 giugno 2015

Non deve sfuggire come la nostra stampa abbia sorvolato sullascomodissima Enciclica “Laudato Si’”. In successione temporale registriamo: uno scoop di anticipo dei contenuti del testo del “papa verde”, con un po’ di irrisione e banalizzazione nelle intestazioni poste a corredo delle citazioni ad opera del vaticanista Sandro Magister dell’Espresso; titoli di spalla sulle prime pagine dei quotidiani per la durata delle prime 24 ore; dal giorno immediatamente dopo, spostamento dell’attenzione da una riflessione sconvolgente e articolata in oltre 200 pagine sul degrado della “casa comune” alla diatriba su gay e coppie di fatto, con definitiva metabolizzazione dell’Enciclica nel rullo compressore delle informazioni correnti.

Tutte le emittenti Tv, immancabilmente elettrizzate dalle visite in Vaticano dei premier di turno, nei Tg hanno dato la notizia solo in posizioni arretrate e non si sono affatto premurate di aprire i loro monotoni talk-show a temi come la giustizia sociale e climatica o ildestino del pianeta. Insomma, l’Enciclica è stata ridotta ad una mera “curiosità”, un colpo d’ala francescano da considerare fuori dalla mischia che ci viene giornalmente esibita.
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Eppure, è fuor di dubbio che due voci – pur su piani diversi – guardano oggi al futuro con una irriducibilità totale al pensiero unico:Bergoglio e Tsipras. Con una radicalità che mette in imbarazzo i governanti di mezzo mondo e i loro consiglieri che si riuniscono assieme ai Ceo delle multinazionali ai meeting delBilderberg.

Ascoltare queste voci e quanto sostengono come alternativa possibile è intollerabile per troike, banche, corporation privatizzatrici di beni comuni, governi tecnici e politici obbedienti, che citano numeri e regolette quando si tratta di persone e della loro vita (e morte). Di conseguenza, non devono essere presi sul serio, nemmeno quando le loro indicazioni e le loro battaglie hanno radici popolari e sono sostenute dal mondo scientifico e da quella parte del mondo economico che non si schiaccia sul presente, ma guarda al futuro e alle emergenze da affrontare. Le “truppe” che li potrebbero sostenere vanno messe fuori gioco in anticipo, come se si muovessero su un terreno assolutamente impraticabile, come sta succedendo a quelle di Tsipras che si sono illuse di autorappresentare il loro destino.

Nel caso clamoroso di Francesco – senza voler richiamare la battuta di Stalin su quante truppe avesse il Papa – il tratto eminentementesecolare di una chiamata alle armi per salvare il Pianeta, viene depotenziato come opzione ideologica a cui precludere basi sociali di massa. Eppure l’argomento ha una logica inconfutabile, per credenti e non: nemmeno l’uomo si salva se non si salva il pianeta.

Una presa di posizione così senza mezze misure non può che essere contestata nel campo dei conservatori. John Vidal e Suzanne Goldenberg su The Guardian elencano le opposizioni a partire dagli Stati Uniti, terreno decisivo per lo scontro aperto. John Boehner, leader repubblicano del Congresso, e Rick Santorum, candidato alla Presidenza, cattolici dichiarati e negazionisti sul clima, non hanno tardato ad esprimersi contro. Stephen Moore, un economista cattolico, definisce Francesco “un autentico disastro, parte di un movimento radicale verde anticristiano e anti progresso”. Mentre James Inhofe, il capo della commissione ambiente al Senato americano, ha dichiarato: “Il Papa dovrebbe fare il suo mestiere”. L’American Petroleum Institute, una lobby potentissima ha controbattuto che “l’uso del carbone aiuta i poveri a migliorare le loro condizioni”. Ma la debolezza di questi avversari è quella di appartenere tutti alle lobby sotto accusa quando si parla di responsabilità umana sull’ambiente.

Il Papa, invece, ha dalla sua una strategia di lungo periodo, che non si rivolge solo a 5000 vescovi e ad un miliardo e duecentomila fedeli. Accanto al ghanese Peter Turkson, presidente Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, all’Arcivescovo del PerùPedro Barreto Jimeno, al cardinale honduregno Oscar Maradiaga, a Neil Thorns, autorevolissimo esponente della diplomazia vaticana e al preside dell’università cattolica di Buenos Aires Agosta Scarel, si stanno muovendo a sostegno autorevolissimi scienziati e riconosciuti economisti. Nessuno può sottovalutare che Ban Ki-moon, presidente Onu e i direttori della Fao e dell’Ipcc hanno espresso apprezzamenti calorosi. Perfino lo speaker repubblicano John Boehner, un cattolico praticante e dichiarato, dà per vinta la partita per Francesco.

E mentre, nonostante l’ostruzionismo di piccolo cabotaggio, verrà “bucata” a più livelli la ribalta dei media, l’Enciclica avrà il suo impatto pubblico massimo nell’incontro del Papa con Obama a settembre e nel suo intervento al Congresso Usa e all’assemblea generale dell’Onu, con l’ambizione non dissimulata di mettere un carico da novanta sullo svolgimento del convegno mondiale sul clima previsto per dicembre a Parigi (Cop 21).

Una partita cruciale a cui la politica locale e internazionale, definita “non all’altezza della sfida” farebbe bene a non sottrarsi. Intanto, tranne pochissime rare eccezioni (proprio ieri Stefano Fassina), continua a macerarsi nelle dinamiche di un potere in allontanamento dalla società.

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