loader
menu
© 2025 Eddyburg

Nella lista di discussione "Officina dei saperi", aperta da Piero Bevilacqua si è aperta una interessante discussione sull'atteggiamento da tenere sulla questione degli OGM (organismi geneticamente modificati). Ci è sembrato utile offrire ai nostri frequentatori il documento che qui, col consenso dell'autore, pubblichiamo

Care amiche e cari amici,
scusate per l'insistenza sul tema, ma anch'io avevo scritto delle riflessioni sugli ogm, tenute nel computer per non essere troppo invadente. Dopo i due importanti contributi di Marcello e di Dario, che si muovono in ambiti specialistici diversi, vorrei cercare di mostrare, intervenendo sullo stesso tema, la necessità di un approccio multidisciplinare , di valutare il linguaggio e il ruolo dei media, di stabilire che cosa è per noi innovazione. Le riflessioni che seguono nascono a margine della trasmissione televisiva Ballarò del 19 aprile. Erano presenti vari esperti e c' era anche il ministro Martina, che per la verità si è difeso bene contro i fautori degli ogm.

«Allora, fanno male o non fanno male gli ogm?» andava chiedendo ai suoi ospiti il conduttore Massimo Giannini, con il tono penosamente banale di chi non ha letto neppure un rigo sull'argomento. Vediamo di seguito le questioni.

1° problema. Fanno Male? Marcello ha mostrato da par suo in che senso possono far male e non c'è molto da aggiungere. Io vorrei richiamare l'attenzione sulla banalizzazione del linguaggio giornalistico. Che senso ha dire fa male o non fa male? Gli ogm non sono certo prodotti tossici, non fanno venire il mal di pancia se ingeriti, altrimenti neppure circolerebbero. Ma questa mancanza di tossicità è sufficiente a dire che non fanno male? Se io respiro un pugno di polvere di amianto non farò neppure uno starnuto. Per questo aspetto rinvio al documento di Dario, che mostra i casi di fallimento della scienza in campo alimentare ( dagli oli idrogenati, al glifosato, alla diffusione della BSE tra gli uomini, ecc).Ma fra 10-15 anni ho una probabilità elevatissima di sviluppare un tumore mortale alla pleura o ai polmoni. Questo del “fa male non fa male” rivela una modalità di pensiero di devastante superficialità. Come se noi possedessimo davvero gli strumenti tecnologici per stabilire scientificamente se il mais bt ci fa male. E' evidente che, sotto tale profilo, il principio attivo del bacillo può, ad es., interagire con i batteri del mio intestino o di quello degli animali di allevamento che se ne nutrono, ma - a meno di disturbi acuti – come facciamo a sapere quel che succede nel nostro organismo, vista la grande varietà di cibi che mettiamo nel nostro stomaco ogni giorno? Come si fanno a vedere i risultati nel corso degli anni? Tale riflessione riguarda il rapporto tra il cibo e il cancro. Ci sono studi sui cancerogeni, certo, che dicono qualcosa sui singoli alimenti pericolosi. Ma il fatto è che nessun laboratorio scientifico è in grado di riprodurre il cocktail chimico che si crea nel nostro organismo, dove confluiscono non solo residui di pesticidi, di diserbanti, conservanti, coloranti, sostanze chimiche varie, ecc, ma anche le molecole dei gas di scarico delle nostre saluberrime città. Anche qui rinvio al testo di Dario. Solo la diffusa presunzione tecnologica ci fa supporre che la scienza sia in grado di stabilire la sicurezza di lungo periodo dei cibi industriali. Nessuno screening è in grado di stabilirlo. E' un fatto che tutte le popolazioni dei paesi in via di sviluppo appena assumono il modello alimentare dei paesi avanzati, nel giro di una generazione, acquisiscono la stessa predisposizione ad ammalarsi di cancro dei paesi avanzati. Esistono indagini epidemiologiche schiaccianti in proposito. Perciò i tumori aumentano in maniera esponenziale, ma nessuno è in grado di avventurarsi sulle piste delle loro cause. Il principio di precauzione ricordato da Dario è una soglia giuridica irrinunciabile se non si vuol capitolare del tutto alle ragioni del profitto.

2° problema. Gli ogm vanno accolti, perché la scienza deve andare avanti. Opporvisi è considerato un atteggiamento antiscientifico e irrazionale. Il medico Umberto Veronesi è un campione di questa campagna di discredito. Una ragione, apparentemente di buon senso , a supporto di tale posizione è: gli agricoltori hanno sempre modificato le piante, solo che oggi adoperiamo una tecnica diversa, modificando i geni. Una tale tesi, è stata sostenuta da autorevoli filosofi della scienza, come Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello. Ma è davvero così? Sono uno storico dell'agricoltura e so bene che i contadini hanno continuamente manipolato semi e piante per migliorarli. Ma in 10 mila anni di storia, mai avevano inserito materiate genetico del mondo animale in una pianta. Gli ogm non sono la continuità di una vecchia storia, ma una rottura genetica senza precedenti del mondo botanico.

3° problema. Altra superstizione camuffata da progressismo scientifico: la scienza comunque deve andare avanti, com'è sempre stato nella secolare storia umana. Essa, infatti, ha portato sempre benefici. Attenzione: qui incontriamo un travisamento concettuale ricorrente, soprattutto fra gli scienziati. Si confondono come sinonimi sapere e tecnologia. L'avanzamento del sapere è infatti sempre e universalmente utile all'umanità. Anche quando crea disincanto e dolore ( Leopardi non sarebbe d'accordo). La tecnologia non sempre lo è. La conoscenza dell'atomo è una conquista rilevante nell'esplorazione della materia. La bomba atomica, suo frutto tecnologico, è un'arma pensata per il genocidio. Le assegneremo comunque un'utilità sociale? La perorazione astratta dell'avanzamento della scienza non è altro che un pregiudizio fideistico. Pura superstizione, come credere nell'esistenza del Diavolo. Dunque non sempre la ricerca è utile e necessaria, ci sono strade diverse e non tutte conducono a un fine universalmente utile. Pensate se la fisica moderna non avesse preso la strada della ricerca atomica nella seconda metà del '900, impegnando le migliori menti del secolo e facendo investire ingenti risorse statali per fabbricare ordigni di morte. E pensate se invece avesse studiato le energie alternative, il solare, il vento.... Oggi forse avremmo scongiurato il riscaldamento climatico che incombe sul nostro immediato futuro. Questo punto, dunque, vale a dire quale tipo di strada prende la ricerca, è rilevantissimo per il nostro atteggiamento di fronte alla scienza contemporanea, che è in genere priva di una visione complessa del reale. Ancora oggi quanta ricerca si fa, in gran segreto, per rendere più devastanti bombe, armi e vari dispositivi bellici?

4 problema. Qual'è la ricerca tecnologicamente più avanzata di cui media e politici si riempiono la bocca nel più totale e superficiale conformismo. Qui tocco un punto essenziale, legato agli ogm, ma di valore più generale e che implica una scelta etico-politica. La senatrice Elena Cattaneo, ostinata fautrice di questi nuovi prodotti, li sostiene come il risultato della ricerca scientifica più avanzata. E' una posizione che rivela in maniera cristallina come la scienza possa farsi fautrice di cattive cause. Che cosa c'é di più avanzato negli ogm, rispetto all'agricoltura convenzionale, se non la capacità tecnica di manipolare i geni delle piante come mai era accaduto in passato? Che cosa non la creazione di nuovi prodotti economicamente ( a quanto pare) più competitivi? Ma la Cattaneo e tutti gli altri sostenitori degli ogm non si accorgono di essere attestati su un fronte scientifico arretrato, di combattere non per una agricoltura più innovativa, ma più vecchia. Vecchia nel modo di produrre, anche se getta sul mercato prodotti tecnicamente nuovi. Il mais bt, la soia round up, ecc sono infatti prodotti pensati per diminuire i costi di coltivazione di queste piante ( e per far incassare ingenti profitti di royalties alle multinazionali produttrici, come ricorda Marcello), ma non cambiano in nulla la struttura produttiva dell'agricoltura industriale, anzi la marcano ulteriormente in senso antinaturale. Concimi chimici e diserbanti continuano a inquinare l'aria, la terra, l'acqua di falda, nelle grandi distese argentine, brasiliane, statunitensi in cui sono coltivate. E questa è la novità, il grande portato di tanta ricerca? Nuovi prodotti per il mercato secondo una vecchia logica che non guarda ad altro fine che al profitto? E' questa la frontiera più avanzata della scienza? Produrre di più e a meno costi (?) lasciando invariato il paradigma scientifico su cui si regge da un secolo l'agricoltura industriale?

No, non è questa. Per noi la frontiera più avanzata è' quella che affronta una grande sfida, una sfida che nasce da una visione complessa e olistica della realtà, in cui non ci sono solo i beni agricoli e il mercato, ma anche il mondo dei viventi, uomini e animali e la loro salute. La sfida scientifica vera è quella di produrre cibo in quantità, per una popolazione crescente, come in passato ha fatto l'agricoltura industriale, ma senza avvelenare gli habitat agricoli, rigenerando la fertilità del suolo oggi annichilito da un secolo di concimazioni chimiche, conservando la vita degli animali, producendo beni agricoli sani e di qualità. Ecco la nuova frontiera che tanti scienziati non sanno intravedere, prigionieri di un progressismo scientistico ingenuo e fallimentare. Alla base di tale indirizzo c'è un mutamento generale di paradigma: il suolo non è considerato un supporto neutro su cui far crescere le piante pompandole con concimi chimici, ma è un organismo vivente, un ecosistema che va rigenerato continuamente, come hanno fatto gli agricoltori per circa 10 mila anni nei vari angoli della Terra. L'agricoltura non è una qualsiasi macchina che produce merci, non è una fabbrica di manifatture. Si svolge entro habitat dotati di propri equilibri vitali – il suolo, l'acqua, l'aria, clima, l'umidità, gli insetti, gli uccelli, ecc - con cui fare i conti, da riprodurre e da valorizzare. L'agricoltura convenzionale ha trasformato l'agricoltura elaborata in millenni di storia in una pratica industriale come le altre.

E' dunque qui la novità rappresentata dall'agricoltura biodinamica e biologica. La ricerca scientifica su cui queste si reggono non è orientata a fabbricare qualche nuovo prodotto patentato (ogm) da gettare sul mercato , ma studia le piante nel loro ambiente, per scoprire strategie di difesa, ad es. contro gli attacchi dei parassiti, le muffe, ecc. Tutti gli insetti utili presenti nell'agricoltura biologica esistono oggi grazie agli studi dell'entomologia. La scienza più avanzata ha scoperto che se non si avvelena l'ambiente delle campagne, se non si alterano con la chimica gli equilibri complessi della natura, gli insetti utili fanno il loro lavoro senza alcun intervento umano. Naturalmente , il fronte dell'innovazione passa anche attraverso il miglioramento genetico delle piante, grazie a una ricerca che mira a rafforzare, contro funghi e parassiti, l'immenso patrimonio di biodiversità agricola della nostra tradizione. Ma non puntando a tirar fuori dai laboratori il singolo prodotto Frankenstein, come fosse l'ultimo gadget elettronico di successo. La ricerca deve puntare a rafforzare le piante senza ridurre la biodiversità genetica e tenendo presente il grande obiettivo di ripristinare la salubrità degli habitat naturali compromessa dall'agricoltura industriale, di ricostruire l'equilibrio del mondo vivente in cui tutti siamo immersi, come produttori e consumatori.

5° problema. C'è un lato della discussione sugli ogm che ci mostra come gli scienziati abbiano un approccio unilaterale, risultando molto sguarniti sul piano del sapere economico e del sapere storico. La senatrice Cattaneo e altri come lei, lamentano di non poter costruire in Italia il mais bt per poter competere con l'analogo organismo g.m. prodotto nelle Americhe. Sotto il profilo economico, diciamo benevolmente, che si tratta di una ingenuità. In Argentina, Brasile, in Usa, ecc si coltivano piante ogm su immense superfici, con pochissimi coltivatori, ecc, ecc. Già ne ha parlato Marcello. Come facciamo a competere con queste realtà produttive a costi bassissimi? E dobbiamo poi competere? Dobbiamo riempire le nostre limitate pianure di concimi chimici e diserbanti, affidando tutto alle macchine?

Sotto il profilo storico – e qui perdonate l'enfasi – l'ignoranza degli scienziati assume vette intoccabili, in cui l'aria si fa rarefatta. Dobbiamo correre dietro gli ogm? Ma noi abbiamo una agricoltura che per ricchezza e varietà botanica non ha uguali al mondo. Frutto di una geografia e di una storia che non ha termini di confronto. La geografia dice che nei 1200 km che vanno dalle Alpi al canale di Sicilia, l'Italia possiede una varietà di habitat, di climi, di terre, che nessun paese al mondo ospita in così limitato spazio (L. Gambi) La storia ci dice che già nella Roma imperiale si è realizzata la prima globalizzazione agricola, e sulla nostra Penisola sono state acclimatate piante provenienti da ogni angolo dell' economia-mondo imperiale. Le piante orientali introdotte dagli Arabi nel Medioevo hanno trovato in Sicilia e in Andalusia una nuova patria, prima di emigrare nei restanti territori peninsulari. E l'ultima globalizzazione agricola, dopo la scoperta dell'America, ha portato in ogni angolo della Penisola, pressoché tutte le piante americane, dalla patata al peperoncino, dal pomodoro al fico d'India.

E infine...un aspetto incredibilmente trascurato. L'immensa biodiversità agricola rielaborata per secoli sulle nostre terre, non si è svolta nel vuoto, ma sui territori, in habitat particolari, e ha dato vita a un patrimonio impareggiabile, che solo la stolta ignoranza di tanti scienziati può sottovalutare: il paesaggio. Agricoltura, modellamento del territorio naturale, creazione di forme estetiche originali, sono state un processo unico. Non solo beni agricoli, ma eleganza delle forme di plasmazione della natura. Come si fa a parlare di agricoltura italiana ignorando la ricchezza di questa storia millenaria fatta di biodiversità, qualità e bellezza, che nessun miracolo tecnologico è in grado di riprodurre? E noi dovremmo inseguire il modello dell'agricoltura ogm? Ma, almeno una volta tanto, ricordiamo che il Modello siamo noi.

«"I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi" dall'omelia per il solenne inizio del ministero petrino». Il manifesto, 29aprile 2016 (c.m.c.)

Mi soffermo su tre paragrafi del sesto ed ultimo capitolo della Enciclica Laudato si’ dove Francesco ragiona di «conversione ecologica». «Desidero proporre ai cristiani alcune linee di spiritualità ecologica che nascono dalle convinzioni della nostra fede, perché ciò che il Vangelo ci insegna ha conseguenze sul nostro modo di pensare, di sentire e di vivere».

Si rifà ad un punto del magistero di Benedetto XVI che nella Caritas in veritate riflette sulle implicazioni morali d’ogni atto economico quando, considerato che «il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace), constata che «i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» (Omelia per il solenne inizio del ministero petrino). Ne consegue, dice Francesco, che «la crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore».

Un mutamento spirituale che «comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo» che ci circonda. L’enciclica esorta i cristiani far tesoro del «modello di san Francesco d’Assisi, per proporre una sana relazione col creato come una dimensione della conversione integrale della persona». È nello spirito della più autentica ispirazione di san Francesco che la evocazione evangelica trovi il suo riscontro nel «creato». Creato e parola divina di salvazione coincidono. Francesco riconosce in ogni luogo la presenza divina sì che interiorità ed esteriorità si riflettono l’una nell’altra, si compenetrano, si sciolgono a farsi uno.

Rammentiamo il capitale passo delle Considerazioni sulle stimmate. Nel sito della Verna è registrata, una volta per sempre, la permanenza dell’ora della passione e morte di Cristo che imprime tutt’attorno, nella natura, il segno del suo accadere e del sempre nuovo suo persistere. Leggiamo, per esteso, la celebre pagina: «Ivi a pochi dì, standosi santo Francesco allato alla detta cella e considerando la disposizione del monte e maravigliandosi delle grandi fessure e de’ sassi grandissimi, si pose in orazione; e allora gli fu rivelato da Dio che quelle fessure così meravigliose erano state fatte miracolosamente nell’ora della passione di Cristo, quando, secondo che dice il Vangelista, le pietre si spezzarono. E questo volle Iddio che singolarmente apparisse in su quel monte della Verna, a significare che in esso monte si dovea rinnovare la passione di Gesù Cristo, nell’anima sua per amore e compassione, e nel corpo suo per impressione delle Stimmate».

Impressione, ovvero impronta e segno, tale nel corpo di Francesco quale nel luogo che lo accoglie, ove dimora, a significare una armonia, una reciprocità, una pienezza di «spiritualità ecologica». Là dove il mistico e il contemplativo si convertono in una operante e attiva interrelazione uomo-natura. Oggi agisce una poderosa demolizione dell’ambiente. Essa risponde a imposizioni d’ordine economico, ma è condotta per colmare di scorie e detriti che illudono benessere un vuoto interiore alimentato da «l’ossessione per uno stile di vita consumistico».

I «deserti interiori» che ci annullano esigono il rifiuto di ogni moderazione e negano il riconoscimento d’un qualsiasi limite, mentre accolgono ed esaltano l’esercizio permanente della violenza mettendo in opera distruzioni continue. Dice Francesco: «La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo».

«Ambiente. Alla Cop21 riconosciuta solo ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani». Il manifesto, 27 aprile 2016

Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a misurare la temperatura. Se ciò non bastasse nel trentennale del disastro di Cernobyl e a poche ore dalla cerimonia di firma dell’Accordo di Parigi, avvenuta il 22 aprile scorso, la Nasa ha informato che le emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i 1,5 gradi, soglia più o meno definita nell’Accordo adottato alla Cop 21 del dicembre scorso.

Benvenuti nell’era dell’Antropocene, una realtà di siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra, biodiversità, cibo, acqua e rifugio. Una situazione che imporrebbe – attraverso una visione «decolonizzata» non certo «catastrofista» – di mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti del climate change, considerando queste comunità e popoli non come vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza ed alla vita.

Tuttavia a Parigi i governi hanno solo riconosciuto ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti flussi di risorse finanziarie che verranno stanziati per programmi di adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la già tragica situazione di milioni di persone. Basti pensare all’espansione della palma da olio per biodiesel. O al Beccs (Bioenergy Energy Carbon Capture and Storage), «escamotage» per aumentare la capacità di assorbimento di carbonio della Terra coltivando biomasse per la produzione di bioenergia con capacità di stoccaggio e cattura di carbonio. Il Beccs aprirebbe una nuova ondata di landgrabbing su almeno 700 milioni di ettari di terra. Il paradigma economico di mercato entra così nuovamente in collisione con quello basato sui diritti umani, delle comunità e della Madre Terra.

Un’incompatibilità che caratterizzerà i prossimi anni fino al 2020 quando l’Accordo di Parigi entrerà in vigore. Eppoi, chi implementerà gli accordi , e come? Parigi ha sancito il ruolo centrale del Fondo Verde per il Clima (Green Climate Fund) istituzione che assicura un ruolo cardine per imprese, banche pubbliche e private nell’attuazione delle politiche climatiche. E tra queste, banche quali l’Hsbc (che dal 2010 ha erogato almeno 5.4 miliardi di dollari solo nel settore carbonifero) o istituzioni come la Banca Mondiale. Ai paesi ed alle comunità resta il compito di disegnare la cornice nella quale spendere tali fondi, o accontentarsi delle briciole.

Per dare un’iniezione di fiducia alla comunità internazionale, quest’anno il Fondo spenderà circa 2,5 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale rispetto allo scorso anno, senza disporre di strutture adeguate per la valutazione del possibile impatto socio-ambientale dei progetti, né di politiche vincolanti sui diritti umani o sul diritto alla terra. Per chi conosce la storia di una delle più grandi Banche Multilaterali di Sviluppo, la Banca mondiale, questa «pressione all’esborso» è stata foriera di grandi disastri e di un altrettanto grave perdita di credibilità. Tra i prossimi progetti a rischio del Fondo molti saranno nelle foreste tropicali o in aree contigue. Non è un caso, visto che Parigi ha sottolineato con enfasi il ruolo delle foreste nella mitigazione ai cambiamenti climatici, e l’urgenza di rilanciare programmi di riduzione di emissioni da deforestazione, e immissione nei mercati globali di certificati di carbonio.

Così il Fondo Verde, su pressione di alcuni tra i principali donatori quali la Norvegia, ansiosa di poter neutralizzare le proprie emissioni da combustibili fossili, potrebbe finanziare prima della Cop22 di Marrakech del dicembre prossimo – progetti forestali al fine di produrre certificati di carbonio per compensare le emissioni altrui. Evidente il rischio di alimentare nuove bolle speculative sui mercati di carbonio, proprio quando arriva la notizia di una nuova imminente bolla speculativa collegata alle attività di fracking e la produzione di gas e petrolio di scisto.

È questo il lato oscuro che la vulgata mainstream sul cambiamento climatico decide di occultare o sfumare secondo convenienza, e che i movimenti globali per la giustizia climatica intendono portare alla luce del sole, non solo opponendosi all’estrazione di gas e petrolio, ma anche denunciando forme di nuovo colonialismo. Quello del carbonio, che ridisegna geografie di inclusione ed esclusione, decide che territori e comunità già impattate dai cambiamenti climatici vengano subordinate agli interessi delle imprese e dei vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia climatica e l’equità, il riconoscimento dei diritti dei popoli e della Madre Terra resta lunga. L’altra, quella delle ipotetiche buone intenzioni, rischia di portarci dritto all’inferno.

«Quel che sta accadendo a Genova, con la perdita dell’oleodotto è il paradigma di un’incuria che viene da lontano. Causata dal disinteresse e dalla mancata consapevolezza, dall’assenza di politiche di prevenzione e di una cultura del bene comune». La Repubblica, 24 aprile 2016

Le immagini di ciò che sta accadendo a Genova mi portano ad una riflessione: che cosa ci sembra pericoloso, oggi? Ho la sensazione che non sia chiaro cosa davvero mette a rischio la nostra esistenza. Ci spaventano i pericoli diretti, quelli che possono uccidere in poco tempo una persona (e solo se si tratta di qualcuno che conosciamo), mentre ci fanno meno paura i pericoli a lunga scadenza, quelli, per intenderci, che non mettono a rischio immediato la vita di prossimità (la nostra o quella dei nostri cari) ma “solo” la vita di qualcuno che è lontano, in termini di spazio e di tempo (le future generazioni) o in termini biologici (i viventi non umani, dai microrganismi ai grandi mammiferi).

E il mare? Cosa pensiamo del mare? Quanto e come ci ricordiamo ancora che è - in sé - un organismo vivente? Diciamoci la verità, non ce lo ricordiamo quasi mai. Solo in qualche poesia o fiaba ci riferiamo al mare come a qualcosa che respira, si muove, mangia, si arrabbia o si calma. Per il resto del tempo pensiamo che il mare sia né più né meno che un mezzo, o - a seconda dell’esigenza - un contenitore. Un mezzo per spostarsi o un contenitore in cui buttare quel che non sappiamo dove mettere. Se da un’idea astratta e generica di mare passiamo all’idea concreta e precisa di Mediterraneo, forse ci sarà più facile vedere quel che di solito non riusciamo a cogliere.
Il Mediterraneo è un mare piccolo (circa l’8 per cento della superficie acquea planetaria), chiuso, caldo, altamente diversificato, popolatissimo (di uomini e di specie ittiche) e trafficatissimo (circa il 30 per cento del traffico di navi petroliere). Una specie di bacinella tiepida e straordinariamente bella, intorno alla quale si affollano le attività produttive ed economiche di 26 Paesi. Che non dialogano tra loro, che non sono tenuti a rispettare le medesime regole e che, in alcuni casi, non sono tenuti a rispettarne alcuna. Una specie di aiuola pubblica, intorno alla quale tutti passano, sulla quale tutti vantano qualche diritto, ma della quale nessuno si prende cura.
È uno snodo fondamentale per attività di carattere politico, economico e produttivo, ma viene visto e vissuto come fosse un materiale inerte qualsiasi. E periodicamente riceve colpi ferali, dai quali si riprende sempre in modo parziale perché prima che la ripresa sia completa ne arriva qualche altro.
Ecco, quel che sta accadendo a Genova, con la perdita dell’oleodotto che sta mettendo a rischio il mar Ligure e il Mediterraneo, è il paradigma di un’incuria che viene da lontano. Causata dal disinteresse e dalla mancata consapevolezza, dall’assenza di politiche di prevenzione e di una cultura del bene comune.
Dalla piccola pesca che non ha tutele, ai depuratori che non esistono o non funzionano, dallo scandalo degli sprechi in mare alla mancanza di una commissione nazionale per le valutazioni di impatto ambientale, fino all’irrisione continua delle normative europee a protezione della biodiversità. L’elenco potrebbe continuare, è un rosario lunghissimo.
Molto breve invece è l’elenco di quel che viene sempre e sicuramente tutelato: il profitto di qualcuno, e non importa se per raggiungerlo si spalmano i danni su tutti, e quando dico tutti intendo i miliardi di uomini e donne del pianeta più i biliardi di esseri viventi, acquatici e no.
Alla fine, a forza di contemplare inermi il lungo elenco dei guai e la brevissima lista dei vantaggi, verrà il momento in cui bisognerà fermarsi e decidere quale modello di sviluppo si intende seguire: se quello basato sulla rapina, la distruzione e il danno (a lungo termine) di tutti a vantaggio del bene materiale (a breve termine) di pochi; o se vogliamo che la politica torni a fare la politica, che la democrazia torni ad essere un meccanismo a vantaggio dei molti e che dunque si dia la cautela come elemento principe delle sue decisioni.
Non sto dicendo che tutto dipende da chi ci governa. Anzi, probabilmente l’input principale di un urgentissimo cambiamento di stile sta nelle mani dei cittadini prima di tutto. Occorre ricostruire la cultura con la quale dobbiamo guardare alle risorse naturali, beni ai quali abbiamo diritto di accesso perché senza di esse non possiamo vivere, ma che ci conferiscono allo stesso tempo doveri di tutela perché non abbiamo il diritto di privarne gli altri. Ripartiamo da qui, ogni giorno, dagli asili nido alle aule sovranazionali, il dibattito sul bene comune non resti chiuso nelle stanze dei giuristi. Parliamone di più, sempre, e su ogni mezzo disponibile, dalle osterie ai social media. Quell’oleodotto che perde sta sporcando casa nostra.

«Per uscire dall’era dei fossili non bastano i proclami ma occorre dotarsi di un piano rigoroso di transizione che punti celermente verso le energie rinnovabili». Il manifesto, 24aprile 2016 (c.m.c.)

I torrenti della città di Genova sono nuovamente al centro dell’attenzione nazionale. Questa volta non sono il dissesto idrogeologico e l’ennesima alluvione a ferire la città ma il petrolio che si è riversato nel piccolo rio Penego, sotto il quale passa l’intricata rete dell’oleodotto di collegamento tra il Porto petroli della città, lo stabilimento di stoccaggio e trasferimento di oli minerali di Fegino e la raffineria Iplom di Busalla, comune alle spalle di Genova.

Un intero ecosistema completamente distrutto perché l’ondata di petrolio che ha attraversato quelle acque ha già raso al suolo la biodiversità presente. «Quanto mi secca avere sempre ragione» esclamava ad un certo punto uno dei protagonisti del primo Jurassic Park inseguito da un tirannosauro. Ecco, quanto ci secca aver avuto ragione quando, nel corso dell’ultima campagna referendaria, denunciavamo i rischi legati alle attività petrolifere. Quanto ci secca che nel nostro Paese non si riesca ad uscire rapidamente dall’era dei fossili poiché la classe politica e quella industriale pensano con arroganza di controllare la situazione e di poter navigare a vista tra proclami e leggi ad aziendam.

Ma cosa c’entra, qualcuno chiede, quanto sta accadendo a Genova con il referendum dello scorso 17 aprile sulle trivelle? La domanda è di per sé disarmante: è una provocazione oppure davvero a qualcuno non è chiaro neanche ora quanto la filiera petrolifera sia rischiosa, inquinante, opaca e soprattutto potenzialmente distruttiva delle attività connesse a pesca, turismo e agricoltura? È quanto in queste settimane abbiamo cercato di spiegare agli italiani confusi da una martellante campagna di disinformazione che puntava sulla difesa dei posti di lavoro (centinaia) legati alle estrazioni petrolifere. Gli Ottimisti e Razionali (il comitato che invitava a votare no o ad astenersi) sin dal loro nome irridevano le preoccupazioni legate all’inquinamento e all’impatto delle estrazioni petrolifere. Ora tacciono.

Estrazioni, trasporto, raffinazione sono tutte attività rischiose e che a questo punto della storia comportano più costi che benefici. Costi per la comunità, benefici per poche compagnie petrolifere che a fronte di royalties irrisorie, scarsi controlli, concessioni illimitate (alle quali si intendeva mettere un termine temporale votando sì) e sgravi fiscali trovano davvero nel nostro Paese l’Eldorado. Ma il prezzo, come stiamo vedendo a Genova e come vedremo nelle prossime settimane, con la stagione turistica alle porte, è altissimo.

C’è poi da aggiungere che gli intensi traffici marittimi legati alla filiera petrolifera rendono il Mediterraneo, un mare chiuso e delicatissimo, una delle aree maggiormente esposte al rischio di inquinamento da idrocarburi. Nelle acque del Mediterraneo transita, infatti, il 18% di tutto il traffico mondiale di prodotti petroliferi: circa 360 milioni di tonnellate all’anno. Secondo uno studio del 2008 dello Iucn sugli effetti del traffico marittimo sul Mediterraneo, nel solo 2006 sono stati conteggiati oltre 9000 viaggi di petroliere attraverso il bacino, per una movimentazione complessiva di più di 400 milioni di tonnellate di idrocarburi.

Sembra incredibile ma nelle stesse ore in cui il nostro Premier davanti alle Nazioni Unite sottoscriveva gli accordi sul clima dichiarando la volontà di puntare sulle rinnovabili, il nostro mare davanti a Genova si tingeva di nero. Sì perché per uscire dall’era dei fossili non bastano i proclami ma occorre dotarsi di un piano rigoroso di transizione che punti celermente verso le energie rinnovabili. Non bastano slogan, servono decreti che bilancino rapidamente l’attacco subito dall’energia pulita nel nostro paese negli ultimi due anni.

«Intervista. Il presidente del Consiglio, nella sede dell'Onu per ratificare gli impegni presi alla Cop21 di Parigi, con il solito discorso ispirato e visionario dipinge l'Italia come un paese all'avanguardia negli investimenti per le energie rinnovabili. Per Loredana De Petris si tratta della solita propaganda: "Il suo governo sta andando nella direzione opposta"». Il manifesto, 23 aprile 2016 (p.d.)

Ha dato spettacolo anche a New York. A chiacchiere, nonc’è dubbio: è lui, Matteo Renzi, il più green tra i 171 leader del mondo cheieri all’Onu hanno ratificato in pompa magna gli impegni presi alla Cop21 diParigi. Il discorso visionario, la retorica sui “nostri figli”, l’orgoglioall’italiana e la vanteria per i “risultati ottenuti”. Poi, come da copione, lapromessa che non costa niente: il suo governo sarà addirittura l’alfiere di unanuova politica ecologica (tracce non se ne vedono). "Continueremo aimplementare gli accordi di Parigi e consideriamo questo punto una priorità,sia per le nostre politiche interne che per la presidenza del G7 del prossimoanno”, ha dichiarato il presidente del Consiglio.
Per la senatrice di Sinistra Italiana Loredana De Petrissiamo alle solite: “Propaganda”.
Non è credibile? Ha anche detto di voler portare al 50%la quota di energia da fonti rinnovabili entro la fine della legislatura.
Purtroppo la realtà nel nostro paese è un’altra, abbiamovisto le indicazioni che ha dato al referendum di domenica scorsa. Si possonoanche sparare cifre a caso, poi però bisogna essere in grado prendereprovvedimenti per dare una svolta alla strategia energetica investendo risorseimportanti sulle energie pulite. E poi la deve piantare di vantarsi perrisultati non suoi.
Quali risultati?
Se oggi l’Italia è prima al mondo per produzione da fontirinnovabili sicuramente non è per merito del suo governo, questi risultati sonostati raggiunti grazie agli stanziamenti fatti nel biennio 2007-2008. Dovrebbedire, per esempio, che questa crescita record nel 2015 si è fermata provocandoil dimezzamento degli impianti fotovoltaici installati. Anzi, con il cosiddettodecreto Spalma incentivi il suo governo è andato nella direzione opposta: ha tagliatogli incentivi per l’energia solare e ha aumentato dai 12,8 miliardi di dollaridel 2013 ai 13,2 miliardi del 2014 gli incentivi ai combustibili fossili. Hannoaddirittura cambiato gli incentivi in corsa in modo retroattivo, penalizzandochi aveva già fatto investimenti. Servono fatti, non parole. Potrei fare altriesempi di provvedimenti che complicano la vita a chi investe nelle rinnovabili.
Prego.
Sono questioni tecniche ma significative. Le tariffeenergetiche, per esempio, prima premiavano le fasce che consumavano di menomentre adesso con la nuova riforma gli incentivi non sono più legati alconsumo, questo è un modo per premiare i grandi consumatori. Hanno vietato isistemi di distribuzione chiusi, cioè non è permesso il consumo in loco dell’energiache un singolo cittadino produce sul tetto. L’energia bisogna rivenderla inrete, anche in questo caso vengono favoriti i grandi produttori. Bisognasburocratizzare l’installazione degli impianti e dare la possibilità anche allepiccole imprese di fare investimenti, per esempio stabilizzando l’Ecobonusinvece che rinnovarlo di anno in anno.
Da qui la vostra definizione di “governo fossile”?
Il punto è che in Italia non ci sono investimentisufficienti, lo ha capito anche la Cina che per garantirsi un futuro, ancheindustriale, bisogna investire miliardi di dollari per i sistemi di energierinnovabili. In Italia li ritengono incentivi troppo costosi, e non parlano delsostegno dato all’autotrasporto o alle trivellazioni. Le facilitazionieconomiche e le strategie politiche di fatto sono rivolte solo alle energiefossili, non esiste una road map che indichi in che modo sarà possibilerispettare gli impegni presi a Parigi. Sulla chiusura delle centrali a carbonesi stanno facendo dei passi in avanti, è vero, ma l’obiettivo si puòraggiungere in un anno. Poi serve una moratoria alle trivellazioni, dobbiamodire entro quanti anni saremo in grado di farne a meno. La realtà è che lapolitica energetica in Italiala la fa l’Eni e non abbiamo un ministero dell’ambienteall’altezza.
Matteo Renzi direbbe che questo è il solito“ambientalismo ideologico” da respingere. Cosa gli risponde?
Sarà pure giovane, ma è lui che vive in un’ ideologiaottocentesca. Il nostro è un ambientalismo concreto che punta sull’innovazione,probabilmente adesso parla così perché si è accorto del peso politico che hannoquei milioni di cittadini che sono andati a votare il referendum. Ci auguriamoche ne tenga conto invece di declamare una politica energetica virtuosa mentrenei fatti continua a puntare sulle energie fossili.

Due promotrici e organizzatrici dello straordinario lavoro compiuto delle persone che si sono impegnate nella grande battaglia contro il consumismo energetico e a difesa dei patrimoni e delle risorse comuni sottolineano i risultati positivi raggiunti al di là del dato registrato dalle urne.

La sconfitta di Renzi: aver cercato di mortificare la democrazia, piegato l'informazione, favoritointeressi privati e illeciti facendosene un vanto
La vittoria dei “comitatini ambientalisti”: aver vinto a tavolino 3 su 6 referendum proposti,
aver dato uno stop alla “necessaria” strategicità del fossile in Italia; avere imposto al dibattito politico italiano il tema della conversione ecologica; aver riattivato una coesa opposizione sociale in Italia
Era dal 2011 (referendum Acqua, Nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese.

In appena un mese, quello concesso dal governo per informare i cittadini, e senza alcuna risorsa se non le nostre braccia, le nostre gambe e la nostra creatività, siamo riusciti ad ottenere l’attenzione ed il voto di un terzo degli italiani. Questo a testimonianza che la società reagisce quando stimolata e non narcotizzata dall’informazione o dalle forme autoreferenziali della politica.

Il successo dei referendum NO TRIV parte dall’aver convinto, da movimenti, ben 10 regioni a deliberare a maggioranza assoluta la loro proposta. Successo che prosegue con la resa del governo Renzi, che pur di non fare esprimere i cittadini sulle trivelle a mare e terra, ha assorbito in legge di stabilità tre dei sei quesiti. Sono state così rigettate dal MISE, Ministero dello Sviluppo Economico, 27 autorizzazioni a nuove trivellazioni entro le 12 miglia, tra cui Ombrina mare, segnando la seconda vittoria del fronte NO TRIV. La terza e più importante vittoria è stata quella di aver imposto al dibattito pubblico il tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi di Parigi sulla riduzione dei gas climalteranti che ha come unica via d’uscita un cambiamento delle politiche energetiche che conducono alla conversione ecologica, mettendo in luce al contempo la grave compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.

In appena un mese sono nati spontaneamente in tutt’Italia centinaia di comitati che hanno lavorato a testa bassa per informare e promuovere il SÌ, lottando contro la mistificazione, la disinformazione del governo e contro l’invito all’astensione.

È stata cosi disvelata una presa di posizione gravissima dell'esecutivo di governo che tradisce una insofferenza all'esercizio democratico popolare previsto dalla Costituzione, ed ancor più il desiderio di avere mani libere nelle decisioni assunte, non solo scavalcando regioni ed enti locali, ma prefigurando una volontà autoritaria che si concretizza nelle riforme costituzionali in combinato con la legge elettorale.

Infatti proprio sulla modifica costituzionale del Titolo V, con cui il governo vorrebbe accentrare al proprio esecutivo scavalcando lo stesso parlamento le competenze attribuite alle regioni in materia ambientale, si riaprirà presto la partita per la democrazia sostanziale e di prossimità.

Laddove si vorrebbe sanare attraverso le modifiche costituzionali quella che è diventata, di fatto, una democrazia solo formale trasformandola in “democratura”, si troveranno i cittadini, i comitati e le associazioni.

Il referendum NO TRIV ha aperto una strada, ha costretto la politica a schierarsi pro o contro, a dividersi facendone emergere le pesanti contraddizioni interne. Ha ridato voce ad un terzo degli cittadini, ha rivitalizzato ogni territorio con un mese di mobilitazioni dal basso che restituiscono linfa vitale alla Democrazia ed alla partecipazione.

Non è che l’inizio! Siamo partiti da tempo promuovendo un altro modello di sviluppo, sostenibile, solidale. Non ci fermeremo.

Un altro mondo è possibile e siamo qui per costruirlo!

(

«Incidenti come quelli di Genova sono il pedaggio che una società malata di petrolio deve pagare. Domenica abbiamo avuto almeno la possibilità di dire la nostra. Se ne avremo altre, di possibilità, vediamo di non sprecarle». Il manifesto, 20aprile 2016 (c.m.c.)

È difficile non leggere l’amara vicenda del disastro petrolifero del Polcevera alla luce dell’esperienza referendaria che è stata l’occasione per parlare dei rischi della droga petrolifera che circola nelle vene della nostra società. Le maree nere, gli oleodotti che esplodono, sono solo la cima dell’iceberg di un fiume di idrocarburi (e soldi) che inquinano mari, fiumi e laghi, terre e cielo. E, ovviamente, anche la politica: non solo in Italia.

Di guerre per il petrolio ne abbiamo viste fin troppe (dell’ultima «guerra promessa», in Libia non si sente più parlare… ) ma abbiamo appena assistito a un capitolo di una guerra oggi forse più importante: quella tra il petrolio (e gli idrocarburi in genere) e le nuove fonti energetiche. Meno sanguinosa, ma non meno spietata. Abbiamo infatti avuto il privilegio di assistere alla prima campagna referendaria astensionista di un governo della Repubblica che si adopra per mantenere in vigore un codicillo che è solo l’ennesimo favore ai petrolieri (preoccupati dal nuovo che avanza).

Il testo su cui ci siamo espressi è stato inserito lo scorso dicembre dal governo nella Legge di stabilità. È singolare che il medesimo governo non abbia avuto il coraggio di difendere il suo operato, invitando a votare No, preferendo raccontare un sacco di frottole. Ad esempio, sull’occupazione. Come poteva questo referendum mettere a rischio 11.000 posti di lavoro? Di questi allarmi non si era mai sentito parlare prima, quando (fino al Natale scorso…) vigevano le stesse regole che il referendum avrebbe, semplicemente, ripristinato. Forse, quei 74 posti di lavoro (tanti sono gli «occupati» sulle piattaforme oggetto del referendum) sono più a rischio adesso, vista la valanga di ricorsi annunciati alla Commissione Europea: rischiamo una multa salata.

Una concessione di suolo pubblico deve avere precisa scadenza. L’Ue ci ha bacchettato per aver concesso il «rinnovo automatico» delle concessioni ai balneari. Starebbe zitta su concessioni che possono durare «a piacere» per i petrolieri? La verità è che quei posti di lavoro (gli 11.000 e tutti gli altri del settore) sono a rischio comunque, visto che in tutto il mondo l’occupazione connessa alle attività «petrolifere» è in calo. Per il semplice motivo che gli investitori hanno capito che l’era del petrolio sta finendo e che è il momento di guardare altrove.

Negli scorsi anni, le rinnovabili hanno avuto una crescita tumultuosa in Italia, con errori, sprechi e (come sempre, dove ci sono soldi) intrusioni affaristiche e mafiose. Sarebbe stato saggio regolare e guidare questa crescita, non sabotarla come hanno fatto gli ultimi tre governi. Negli ultimi anni il settore ha perso decine di migliaia di posti di lavoro (secondo il Gse, dal 2008 al 2014 gli occupati (stabili e temporanei) sono passati da 195.000 a 75.000!). Che adesso il Primo Ministro ci ricordi che l’Italia ha un record nel settore fa un po’ strano. Ricorda quell’altro Premier che a L’Aquila, dopo il terremoto, inaugurava prefabbricati regalati da altri. La verità è che nel 2012 in Italia sono stati attivati oltre 150.000 impianti fotovoltaici; nel 2014, primo anno di vita di questo governo, solo 722.

Incidenti come quelli di Genova ce ne sono stati e, purtroppo, ce ne saranno ancora. Sono il pedaggio che una società malata di petrolio deve pagare (come i veleni nell’aria che respiriamo, mari inquinati, eccetera). Quanto a lungo dovremo pagare questo pedaggio, dipende anche da noi. Domenica abbiamo avuto almeno la possibilità di dire la nostra. Se ne avremo altre, di possibilità, vediamo di non sprecarle.

Una prima analisi sulle sconfitte e sulle vittorie del referendum. Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2016 (p.d)

Il referendum è fallito, viva il referendum. Il risultato finale, nonostante il mancato raggiungimento del quorum, è in chiaroscuro: i comitati per il “Sì” ieri hanno senz’altro mancato l’obiettivo di portare a votare la metà più uno degli italiani, eppure la stessa presenza in campo dei quesiti (all’inizio erano sei) ha cambiato le carte in tavola.

Partiamo da cosa non è andato. Il referendum chiedeva agli elettori di abolire la norma che permette di prorogare le concessioni per estrarre gas e petrolio in mare entro le 12 miglia (in questo limite è già vietato concedere nuovi permessi) fino all’esaurimento del giacimento.

Il referendum ha perso: regalo ai produttori

Milioni di italiani si sono schierati per non prolungare a tempo indeterminato lo sfruttamento dei giacimenti esistenti o prorogati all’ultimo secondo come Vega A, impianto Edison in Sicilia che è a processo per smaltimento illecito dei rifiuti (li avrebbero iniettati in un pozzo sterile risparmiando 70 milioni). Il quorum, però, non è stato raggiunto e dunque tutto rimane com’è: le proroghe delle 44 concessioni (con 90 piattaforme e 484 pozzi) potranno solcare i decenni con relativo ampliamento degli impianti fino alla fine della “vita utile del giacimento”. Il ritmo di estrazione, peraltro, continuerà a deciderlo l’azienda: metà delle piattaforme, infatti, sono già ferme e la stragrande maggioranza di quelle attive già oggi produce “sottosoglia”(non raggiunge cioè il limite sopra il quale comincia a pagare le royalties allo Stato).

L’effetto sui posti di lavoro temuto dai sindacati e agitato dal governo non ci sarà: va ricordato che i numeri, nel caso di specie, sono assai ballerini. Assomineraria, per dire, ha stimato gli addetti (indotto incluso) prima in 5mila, poi 13mila; i chimici Cgil dicono 10mila; legambiente 3mila. Per la Fiom Cgil, invece, sulle piattaforme oggi lavorano in 100. Qualunque sia la cifra, non cambierà niente. Le compagnie petrolifere poi, col prolungamento delle concessioni, ci guadagnano il rinvio sine die dello smantellamento di quasi la metà delle piattaforme esistenti classificate “non eroganti” o “non operative”: bonificare quei 35 impianti gli costerebbe almeno 800 milioni, ma bonifica e smantellamento sono fasi a grande intensità di manodopera (tradotto: creano più posti di lavoro per anni).

Rimane in piedi, ovviamente, il rischio ambientale: per Greenpeace - che si basa su dati Ispra raccolti in 34 piattaforme Eni - le cozze cresciute sugli impianti hanno livelli oltre i limiti per almeno una sostanza chimica pericolosa nel 75% dei casi.

Il referendum ha vinto: l’esecutivo ci ripensa

La consultazione di ieri, in realtà, ha vinto anche se è fallita: i 10 consigli regionali che hanno chiesto i referendum avevano infatti presentato sei quesiti sul tema energetico, tutti “ispirati” dalle forzatura del decreto cosiddetto “sblocca Italia” del 2014, il cui fine ultimo era esautorare le Regioni da qualunque processo decisionale. Il governo Renzi ha avuto paura e pian piano ha abolito tutte le norme contestate: solo un trucco per tenere in vita senza limiti di tempo le concessioni entro le 12 miglia ha di fatto imposto alla Cassazione di dare il benestare al voto tenutosi ieri.

Le Regioni, in ogni caso, hanno costretto il governo a fare marcia indietro su temi fondamentali: ad esempio è stata abolita la previsione che le trivelle hanno caratteristica di “strategicità, indifferibilità e urgenza”, il che esautora i governi locali da qualunque decisione e militarizza gli impianti sul modello del Tav Torino-Lione. Anche il “titolo concessorio unico” è stato abbandonato: previsto dallo “sblocca Italia” regalava in sostanza alle compagnie petrolifere il tratto di mare da perforare senza alcun limite di tempo (ora dura 30 anni, ma è vigente pure il vecchio iter prorogabile a piacere dal ministero fino a 50 anni).

Il tema del “Piano delle aree” invece è una vittoria agrodolce. Serviva a decidere una volta per tutte dove si può trivellare e dove no: il governo voleva decidere da solo, Regioni e territori chiedevano di partecipare. Soluzione: il “Piano delle aree” è stato abolito. Curioso che la norma sulle proroghe salvata dal fallimento del referendum potrebbe essere abolita dall’Ue: viola i principi della concorrenza.

« Quasi 16milioni alle urne, altro che referendum bufala. La rabbia dei No Trivdella Lucania, unica regione in cui è stato raggiunto il quorum.Scoperchiato il vaso di Pandora delle concessioni scadute: ilministero sapeva. Arriva una nuova richiesta di moratoria. In attesache la Ue apra un procedimento d’infrazione». Il manifesto, 19aprile 2016 (c.m.c.)

I no oil rilanciano. E per Renzi – è quasi una promessa quella che viene fatta il giorno dopo il referendum – saranno seccature grosse. Se il premier pensava che, dopo il voto, il fastidioso refrain del «no alle piattaforme offshore», si sarebbe esaurito, beh, si sbagliava. Perché «il referendum bufala», come lui l’ha definito, in realtà per gli ambientalisti, per tante organizzazioni e associazioni è servito come spinta a proseguire la battaglia contro l’assalto delle compagnie del petrolio alle coste, e non solo, del Belpaese.

«Il quorum – dice il Coordinamento nazionale No Triv all’indomani della consultazione popolare che ha portato alle urne 15.806.788 cittadini su 50.675.406 aventi diritto (31,19%) – non è stato raggiunto a causa dei reiterati attacchi del governo alla democrazia. Inoltre lo smantellamento progressivo dei diritti, il dilagare della precarietà e della disoccupazione di massa, hanno incancrenito livelli inediti di sfiducia nello Stato, relegando alla chiusura in sé quasi il 50% della popolazione. Ancora più grave, in tale contesto, la scelta, contra legem, di un presidente del Consiglio e di un ex presidente della Repubblica, di invitare all’astensione. Ma il referendum – viene aggiunto – non è mai stato un punto di arrivo: è una tappa di percorso, perché la nostra battaglia contro le lobby delle fossili continua».

A rintuzzare l’attacco Enzo Di Salvatore, costituzionalista, autore dei quesiti referendari. Che spiega, al di là delle cifre, l’utilità dell’iniziativa referendaria: «Innanzitutto la Strategia energetica nazionale, avviata da Monti, ha subito modifiche. La questione delle trivelle e della necessità delle rinnovabili pulite è entrata nelle case degli italiani, ha mobilitato i territori – mentre prima questi temi erano relegati alle aule universitarie – e ha conquistato uno spazio centrale nel dibattito politico. Ventisette procedimenti per il rilascio di nuove concessioni in mare sono stati chiusi e alcune compagnie petrolifere, come Shell e Petroceltic, hanno rinunciato a permessi già ottenuti. In Abruzzo è stato bloccato il progetto “Ombrina Mare” sulla Costa dei Trabocchi».

Ancora. È stato scoperchiato il vaso di Pandora delle concessioni scadute in Adriatico, di cui il ministero dello Sviluppo economico sapeva, e rispetto alle quali ha lasciato che l’attività estrattiva «andasse avanti in spregio alla legge». «Io – tuona Di Salvatore – non mi posso permettere di andare i giro con l’assicurazione o la patente scaduta perché scattano sanzioni. Mentre i petrolieri, con le autorizzazioni scadute e non rinnovate – qualcuna addirittura dal 2009 – continuano a tirar fuori idrocarburi». Tutti adesso – viene inoltre sottolineato – «sanno che non c’è da fidarsi dei controlli che vengono fatti e che il ministero dell’Ambiente ignora (come nel caso della piattaforma Basil), lasciando che le multinazionali avvelenino il nostro mare».

«La battaglia contro le trivelle – prosegue Di Salvatore – riparte con più forza: innanzitutto con la messa in mora del Mise rispetto alle concessioni scadute prima del 31 dicembre 2015, che dovranno cessare la loro attività immediatamente e, in seconda battuta, con una nuova richiesta di moratoria delle attività estrattive, sull’esempio di Francia e Croazia». In ballo poi c’è anche l’interrogazione dell’europarlamentare Barbara Spinelli (gruppo Gue/Ngl) che ha chiesto alla Commissione europea se non ritenga di aprire una procedura di infrazione per violazione delle regole sulla concorrenza in merito alla durata delle concessioni fino a esaurimento dei pozzi. «Invitiamo tutti a non abbassare la guardia e a non farsi abbindolare da frasi barzelletta su posti di lavoro e cali sulla bolletta».

Durissimi i No Triv della Lucania, l’unica regione in cui il quorum è stato raggiunto. In un documento attaccano il «governo burattino delle lobby del petrolio che, stando alle inchieste dei carabinieri del Noe e della Direzione nazionale antimafia in atto in Basilicata, mostra di ora in ora la sua vera natura di comitato d’affari. Numeri alla mano, – sottolineano – questo referendum mette definitivamente in minoranza le pulsioni petrolifere del presidente renziano Pittella, che deve smetterla di blaterare di “limite invalicabile” dei 154mila barili giornalieri, ben sapendo che sta chiedendo il raddoppio estrattivo di fatto, in una realtà che ha già dato troppo, in termini di salute, di esodo, di sacrificio della propria autonomia decisionale, economica e democratica! Chiederemo i dovuti e necessari accertamenti sulla situazione delle falde acquifere dopo un secolo di attività estrattive in Basilicata; sulla situazione dei pozzi chiusi, incidentati, abbandonati».

È rabbia pura nel posto d’Italia dove i due terzi del territorio sono stati «sacrificati alle multinazionali del fossile e alle casse del fisco come hub energetico”» Insomma i «4 comitatini» (come li ha definiti Renzi) si sono organizzati…

La cronaca del voto. Il Fatto Quotidiano online, 18 aprile 2016. (p.d.)

Il referendum sulla durata delle concessioni alle trivelle non è valido. Alle urne si è presentato il 32,15 per cento degli elettori aventi diritto, che scende al 31,18 se si tiene conto del (non) voto degli italiani residenti all’estero. In totale si tratta di 15 milioni e 806.788 elettori. I sì sono la maggioranza conl’85,84 delle preferenze (contro il 14,16 dei no), ma l’esito della consultazione non sarà tenuto in considerazione. Solo la Basilicata supera la soglia minima del 50 per cento, segno che ha l’inchiesta sul petrolio ha pesato nelle decisioni degli elettori, anche se non tutte le zone interessate dalla presenza di impianti hanno reagito allo stesso modo (basti pensare al 28,58 di affluenza di Ravenna). Alle 19 aveva votato il 23,5 degli aventi diritto, mentre alle 12 l’8,35.

Hanno votato le più alte cariche dello Stato: in mattinata si sono presentati alle urne i presidenti di Camera e Senato, solo alla sera – intorno alle 20,40 – il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Tra gli altri esponenti politici si sono presentati ai seggi il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, il leader del M5s Beppe Grillo e l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Il Pd aveva dato indicazione di astenersi, ma non tutti gli esponenti hanno rispettato la direttiva. Ha votato il ministro dell’Interno Angelino Alfano, mentre non si è presentato al seggio Silvio Berlusconi.

Pochi minuti dopo la chiusura delle urne, il primo a commentare è stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi con un discorso da Palazzo Chigi. E ha attaccato, senza citarlo, il governatore Pd della PugliaMichele Emiliano: “Ha perso chi voleva il voto per motivi personali”. Il presidente Pd, tra i sostenitori del referendum, aveva esultato dopo la prima rilevazione dell’affluenza alle 12 dicendo che “il quorum era un’impresa possibile”. Poi in serata, quando sembrava difficile ottenere il risultato, aveva detto: “Sono soddisfatto, hanno votato 11 milioni di elettori come quelli che hanno espresso la preferenza per il Pd alle scorse Europee. Il governo dovrà tenere conto che milioni di italiani hanno un’idea delle politiche energetiche diverse”. Della stessa opinioni i comitati No Triv che hanno commentato: “E’ già un risultato straordinario quello ottenuto”.

I problemi, al di là del risultato, riguarderanno i contraccolpi all’interno del Partito democratico in vista delle amministrative, ma anche del referendum confermativo sulle riforme costituzionali. Infatti molti esponenti del Pd hanno deciso di andare contro la linea di non andare al voto e nel pomeriggio le polemiche sono scoppiate su Twitter. Il deputato renziano Ernesto Carbone ha canzonato i sostenitori del referendum scrivendo: “Quorum? Ciaone”, ed è stato sommerso dalle critiche. Poco dopo c’è stato un botta e risposta tra Emiliano e il membro dello staff comunicazione di Renzi Francesco Nicodemo.

Superato il quorum in Basilicata e alle isole Tremiti
In Basilicata e alle Isole Tremiti il referendum ha raggiunto il quorum. Entrambe le realtà sono toccate da vicino dalla questione trivelle. Per le Isole Tremiti il pericolo sembra scongiurato vista la rinuncia della società Petroceltic che avrebbe dovuto estrarre idrocarburi al largo di San Domino, mentre nel territorio potentino c’è il Centro Oli di Viggiano al centro delle polemiche per l’inchiesta sul petrolio.

Il paragone con il 1999
L’unico confronto possibile è stato quello con il referendum sul sistema elettorale maggioritario dell’aprile 1999, perché anche in quel caso si è votato un solo giorno: alle 11 di quel giorno l’affluenza era del 6,7%. A fine giornata si arrivò al 49,58%. A un passo dal quorum. Più difficile il paragone con l’ultimo referendum che ha raggiunto il quorum, quello del 2011 su acqua, nucleare e legittimo impedimento: in quel caso si votava anche di lunedì.

Comitato No Triv: "Un successo"
Secondo il coordinatore nazionale del comitato “No Triv” e autore dei quesiti referendari Enzo Di Salvatore “è già un risultato straordinario”: “Su un tema cosi difficile”, ha detto all’agenzia Ansa, “e con poco tempo concesso per far dibattere paese, comunque vada a finire è già un risultato straordinario. Al di là di come finirà, sottraendo il 25% degli elettori che non va a votare calcolandolo sulle politiche, se si supera il 35% è un risultato straordinario, si può dire la maggioranza di quelli che vanno alle urne”. Per Di Salvatore va considerato anche che in passato “si è votato su due giorni e solo una volta in aprile. In questa occasione è stata una campagna breve, e organizzarsi difficile, ma quello che abbiamo fatto in due mesi e mezzo è stato strepitoso”.

PD spaccato, lite su Twitter. Carbone: "Quorum? Ciaone"
Il partito resta profondamente spaccato e i dirigenti Pd non hanno perso occasione di scontrarsi sui social network a urne ancora aperte. A far discutere il tweet del deputato renziano Ernesto Carbone che ha lanciato l’hashtag #ciaone per canzonare i sostenitori del referendum: “Prima dicevano quorum”, ha scritto, “Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l’importante è partecipare”.
Lite su Twitter anche tra il presidente Emiliano e il membro dello staff comunicazione di RenziFrancesco Nicodemo. A provocarlo quest’ultimo che gli ha scritto: “Nonostante i retweet alla gente che odia il Pd, il quorum è lontano. E mo’?”. Il governatore della Puglia ha risposto: “Stanno andando a votare milioni di italiani, non far perdere altri voti al Pd che avete già fatto un danno enorme”. E infine la controreplica di Nicodemo: “Hai attaccato il tuo segretario e il tuo partito. E questo è il risultato. Non ho altro da aggiungere”.

Comitato per il SI denuncia "anomalie" ai seggi
Il Comitato “Vota Sì per fermare le trivelle” ha raccolto numerose segnalazioni da parte di cittadini che denunciano ostacoli nell’esercizio del voto. In particolare a Roma “alcuni cittadini hanno denunciato di aver trovato sbarrato il seggio dove erano soliti votare come nel caso di Via della Magliana 296, senza aver avuto preventiva informazione dell’accorpamento del seggio da parte del Municipio di competenza”. In alcuni seggi starebbero conteggiando, tra i votanti, anche minorenni che non hanno diritto al voto. Grazie a scrutatori attenti, dicono dal Comitato, “è stato possibile riconteggiare correttamente i votanti ai fini del quorum”. Nel pomeriggio il Comitato ha segnalato anche che nei seggi 1719, 1720, 1721 del quartiere Prati (Roma), “l’urna è stata consegnata dopo le ore 8 a più di un’ora dall’apertura. La stessa cosa è accaduta presso laScuola Cairoli per i seggi 1765, 1766, 1767″. Il Comitato ha inoltre denunciato che “a studenti rappresentati di lista è stato vietato di votare perché le deleghe non sono state trasmesse dal comune di Roma”.

Lo scrittore No Tav: « l’Italia reagisce già producendo nuova energia pulita, il premier è spaventato da qualunque dissenso. Domani qualcuno canterà: ’Quorum ingrato’, spero che sia lui». Il manifesto, 17 aprile 2016 (c.m.c.)

Intervista a Erri De Luca

Lo scrittore Erri De Luca è tra i firmatari dell’appello «Ferma le trivelle, Vota Sì» promosso, tra gli altri, dal Coordinamento nazionale No Triv, Referendum 2016 Trivelle in Mare, Slow Food, Legambiente. Nel video diffuso in rete spiega: «Affolliamo di sì le urne per non svendere il mare nostro e per conservare il reddito della bellezza». Un impegno che prosegue la battaglia contro la Tav, per cui ha subito un processo da cui è uscito assolto a ottobre 2015. Dallo sventrare montagne e territori a perforare i fondali senza limiti di tempo, nei governi italiani sembra esserci continuità.

Legambiente ha disegnato la mappa delle inchieste italiane nel settore idrocarburi: tra gli esempi, l’accusa di smaltimento illegale delle acque provenienti dalle lavorazioni petrolifere al «Centro Oli di Viggiano di proprietà dell’Eni; la questione della piattaforma Vega A al largo delle coste siciliane di Pozzallo della Edison; lo scossone giudiziario che nel 2008 ha coinvolto il gruppo Total per un’inchiesta della procura di Potenza per tangenti sugli appalti per l’estrazione del petrolio in Basilicata».

La ministra Guidi ha dato le dimissioni per l’inchiesta Tempa Rossa ma Renzi rivendica le norme varate dal governo. L’azione dell’esecutivo sembra imbastita sulle lobby.

Come per la fasulla alta velocità in Val di Susa, spacciano vocabolario falso, dichiarano strategiche opere di perfetto spreco delle risorse pubbliche, si intascano tangenti a tutti i livelli di intermediazione: voglio credere che questo referendum dichiari l’Italia fuori della disponibilità di questo curatore fallimentare.

Renzi ha schierato governo e maggioranza Pd per l’astensione. Molti presidenti di regione si tengono lontani dal voto. L’ex presidente Napolitano è intervenuto per bollare la consultazione come «pretestuosa». Perché il quesito preoccupa il governo?

Il governo è preoccupato da qualunque dissenso. In Parlamento se la cava con l’aiuto di tutti quelli che vogliono far durare la legislatura fino all’ultimo spicciolo di stipendio, fuori di lì annaspa. Il referendum di oggi non è necessariamente un voto anti governo, ma l’istigazione a non votare, per sabotare il quorum, lo ha trasformato in un pronunciamento di più vasta portata. Ora il governo è spaventato dal quorum, cioè dai cittadini. Domani qualcuno canterà: «Quorum ingrato», spero che sia lui.

L’informazione mainstream sembra aver sposato la linea del governo. L’opposizione al premier, soprattutto se viene da comitati e movimenti, spesso viene liquidata o oscurata.

L’informazione? Non posso chiamare così il servizio stampa governativo che domina a reti unificate, con giornalieri al seguito. Godiamo ufficialmente della minore libertà di stampa di Europa. Il referendum è un buon assaggio per sapere se possiamo fare a meno dei loro notiziari drogati, se possiamo informarci e avere voce senza di loro.

Estrarre petrolio e gas a costo di rovinare mare, aree paesaggistiche e agricole più la salute dei cittadini, agevolando le compagnie petrolifere, è l’unica via che abbiamo?

E’ l’unica via, anzi l’unico vicolo cieco che vedono loro, la svendita più facile e al ribasso delle nostre coste, della economia di paese, di mare, della nostra salute disprezzata come mai prima nella storia moderna. L’Italia reagisce già producendo nuova energia pulita, scegliendo di dipendere dal sole e dal vento, non dalle trivelle che concedono quel rimasuglio di greggio a petrolieri in via di esaurimento energetico e nervoso.

Matteo Renzi racconta che il referendum «è una bufala». Non dice che il referendum impedirà ulteriori ampliamenti. Mette sul tavolo i posti di lavoro che si perderebbero ma sorvola sul reddito medio in Basilicata: il Texas italiano è tra le regioni più povere del paese.

Ben detto, ma grida vendetta il guasto dell’Eni a Viggiano. Un giorno saranno chiamati a rispondere di crimini di guerra in tempo di pace contro la popolazione civile.

«Far vincere il “Sì”, ossia chiedere lo stop dello sfruttamento dei giacimenti ad infinitum (come pretende la norma della legge di stabilità di cui si chiede l’abolizione), significa innanzi tutto reclamare il nostro diritto di cittadini che non ci stanno a diventare sudditi». Micromega, aprile 2016

Che un presidente del Consiglio dei ministri, davanti a un evento istituzionale, previsto (ancora!) dalla Costituzione, inviti i cittadini a non recarsi alle urne, è fatto grave, che mostra la lontananza del soggetto in questione dalla stessa dinamica del sistema democratico. Che un ex presidente della Repubblica, che in realtà, più di qualsiasi altro suo predecessore, ha svolto un ruolo direttamente politico, legittimi l’astensione dal voto – non l’astensione nel senso della scheda bianca, ma l’astensione dall’andare a votare, cosa che ha un significato e un effetto politico preciso – appare gravissimo. Mi riferisco naturalmente al referendum detto “sulle trivelle”, sottovalutato a torto da non pochi esponenti del mondo culturale di orientamento progressista (se questa parola ha ancora un senso).

Un referendum oggetto di una disinformazione paurosa (al programma tv Agorà su RaiTre il conduttore, Gerardo Greco, è riuscito a dire: “il referendum si terrà in otto regioni” e alla replica giustamente stizzita del presidente della Regione Puglia, Emiliano, ha corretto: “Sì, ma interessa solo otto regioni…”), e soprattutto di un boicottaggio mediatico e politico che ricorda quello famoso su cui Bettino Craxi, che aveva invitato ad andare al mare, subì una bruciante sconfitta. Ebbene, non soltanto occorre augurarsi che lo stesso effetto abbia la spocchiosa dichiarazione di Matteo Renzi e il paludato assist di Giorgio Napolitano, occorre anche e soprattutto mobilitare ogni forza negli ultimi giorni che precedono il voto del 17 aprile.

Occorre ricordare a tutti gli italiani e le italiane innanzi tutto che questo voto ha in primo luogo un valore pratico enorme, a dispetto di chi lo minimizza per disinformazione o per malafede: difendere l’ambiente, e in specie quello marino, dai signori del petrolio, costituisce un’opzione non negoziabile.

In secondo luogo, il referendum ha un valore simbolico-culturale: bisogna far comprendere che sul tema ambientale si giocherà innanzi tutto il futuro non solo italiano, o europeo, ma del globo terracqueo.

In terzo luogo (last, but not least) il referendum ha e avrà un peso direttamente politico, proprio per la arrogante linea “governativa”, da Renzi (e suoi scherani, dalla Serracchiani a Orfini e via seguitando) a Napolitano (e la pletora di commentatori che si inchina al vecchio ma loquacissimo “re Giorgio").

Si deve ricordare, innanzi tutto che la scelta di indire una giornata di voto distinta dalle elezioni amministrative, facendo ricadere sulla collettività un costo ragguardevole (300 mila euro) che si poteva e si doveva evitare, e soprattutto usando poi come argomento contrario al referendum, proprio il suo costo. Un esempio agghiacciante di cinismo e menzogna.

Si deve poi e soprattutto riflettere sul fatto che questo referendum non è che l’antipasto della “campagna d’autunno”, ossia quella volta a procacciare intorno alla infame “riforma costituzionale” Renzi-Boschi-Napolitano un consenso che si cerca di raggiungere minacciando la madre di tutte le crisi, se non vi fosse l’approvazione popolare.

Sono anni che la politologia all’unisono con gran parte del commento giornalistico parla di “ritorno della piazza”, sia constatando un fatto, la ripresa di movimenti di popolo, dal basso, determinata dalla crisi della democrazia rappresentativa, sia, talora, variamente auspicando o persino sostenendo l’agorà, la democrazia diretta, contro le assemblee elettive, sempre più delegittimate dalla vox populi, e dalle inchieste giudiziarie.

Ebbene, il referendum costituisce un meraviglioso punto d’incrocio fra l’azione diretta dei cittadini, la politica dal basso, da un lato, e le istituzioni dall’altro. Non a caso nel progetto costituzionale si prevede di rendere il referendum uno strumento quasi irraggiungibile, perché il potere lo teme. Anche se poi, come accaduto con quello sull’acqua pubblica, fa di tutto semplicemente per disattenderlo, contando che prima o poi, sulla volontà espressa dai cittadini cada un velo di polvere, e si possa procedere del tutto prescindendo da essa.

Rendendo il referendum più difficile, al limite dell’impossibile, il potere si premunisce. D’ora in avanti, se passerà la “riforma” costituzionale, non dovrà più temerli. E noi? Noi cittadini, che faremo? Rimarremo inerti ad aspettare che ci strappino una delle poche armi che la Costituzione repubblicana ci ha donato?

Anche e forse soprattutto per codeste ragioni questo referendum apparentemente limitato nell’oggetto, ha un valore straordinario. Far vincere il “Sì”, ossia chiedere lo stop delle trivellazioni in mare, ossia dello sfruttamento dei giacimenti ad infinitum (come pretende la norma della legge di stabilità di cui si chiede l’abolizione), significa innanzi tutto reclamare il nostro diritto di cittadini che non ci stanno a diventare sudditi. Far vincere il “Sì” oggi significa porre una prima pietra, importante, sulla strada che ci dovrà condurre al “No” alla pretesa “riforma” costituzionale, domani.

Significa dunque la speranza di un cambio di pagina politica di cui il Paese ha bisogno urgente: se al contrario dovesse fallire questo referendum, la prospettiva per il successivo, diverrebbe certamente meno favorevole, per chi ritiene che Matteo Renzi, con Giorgio Napolitano alle spalle, costituisca un pericolo per la vita democratica, per lo Stato sociale, e per quel che rimane della sinistra in Italia.

«Lo studio di "Cittadini per l'aria" con i dati dello European Environment Bureau: "Cambiare le politiche". E l'Italia ha fatto pressione sui Paesi europei per abbassare i limiti. Ora però incombe la procedura d'infrazione sulla questione Pm10.» Il Fatto Quotidiano online, 15 aprile 2016 (p.d.)

Ogni anno in Italia l'inquinamento dell'aria provoca 35mila morti premature. E in Europa nessuno sta peggio di noi. Lo dice uno studio finanziato dal ministero della Salute che sottolinea anche un altro dato: rispettando i limiti di legge, nel 2015 si sarebbero potute salvare 11mila vite. A uccidere sono le micropolveri sottili, il biossido di azoto, l’ozono, ma anche quei gas che contribuiscono alla loro formazione (come ammoniaca e metano). Cosa si sta facendo, allora, per abbattere le emissioni? C'è chi ritiene che l'Italia stia giocando al ribasso la partita in corso a livello europeo. A fine febbraio l'associazione Cittadini per l’Aria ha lanciato un allarme sulla base dei dati forniti dallo European Environment Bureau: “Se il governo non modifica la sua ‘politica’ entro il 2030 in Italia ci saranno 15mila morti premature in più causate dallo smog”.

E se gli ambientalisti accusano le istituzioni di aver "abbassato il livello di ambizione", dal ministero delle Politiche agricole ricordano quanto fatto finora: "Con le Regioni sono stati stanziati 2 miliardi di euro a sostegno di pratiche agronomiche a basso impatto ambientale e nella legge di stabilità c'è un fondo da 45 milioni per il rinnovo delle macchine agricole, che devono essere più sicure e meno inquinanti". L’unica certezza è che ci sono molti interessi in gioco: dalle lobby delle industrie ai vari settori, compreso quello agricolo. Perché è da questo settore, per esempio, che proviene oltre il 90 per cento dell’ammoniaca emessa in atmosfera. Sotto accusa anche gli allevamenti intensivi. Nel frattempo, però, l'Italia continua ad accumulare record negativi e, proprio a causa dello smog, rischia una multa di un miliardo di euro.

La denuncia: nel 2030 15mila morti premature in più
L'allarme lanciato da Cittadini per l’Aria sulle morti premature parla di 15mila decessi, oltre ai 650mila già previsti dalla Commissione europea. Questa proiezione è stata ottenuta comparando alcuni dati, tra cui il tasso di mortalità (obiettivo per il 2030) stabilito dalla Unione europea e i dati pubblicati a fine 2015 dall'Agenzia per l’ambiente europea, dai quali risulta che l'Italia è il Paese dell'Unione con più morti premature. Nel 2012 sono stati 84.400, su un totale di 491mila a livello europeo. Ma in media l'inquinamento accorcia la vita di ciascun italiano di 10 mesi: 14 per chi vive al Nord, 6,6 al Centro e 5,7 al Sud e nelle isole. I risultati del progetto Viias, finanziato dal Centro controllo malattie del ministero della Salute, rivelano che in Italia 30mila decessi all'anno sono causati solo dal cosiddetto "particolato fine".

La direttiva Nec
Secondo la onlus all'Italia una via d’uscita la offre la negoziazione in corso da mesi tra Consiglio, Parlamento e Commissione sulla Direttiva Nec (National Emission Ceilings), normativa che riguarda i nuovi limiti nazionali delle emissioni dal 2020 fino al 2030 con cui l'Ue intende inasprire la lotta all'inquinamento. La trattativa va avanti, ma nel frattempo sono già accadute un po' di cose. Il Consiglio europeo dei ministri dell'Ambiente ha "alleggerito" la revisione della direttiva approvata dal Parlamento europeo il 28 ottobre. La maggioranza qualificata di 24 Paesi membri (tra cui l’Italia) ha abbassato i nuovi limiti di emissioni. Si parla di anidride solforosa, ossidi di azoto, composti organici volatili non metanici, micro polveri sottili (Pm 2.5), ammoniaca e metano, questi ultimi due precursori dell'ozono e delle micro-polveri. "Nel documento adottato – spiega la onlus – sono scritte nero su bianco le percentuali: per il 2030 vanno ridotte del 40 per cento (rispetto al 2005) le emissioni di Pm2.5, del 71 quelle di anidride solforosa, del 65 quelle di ossido di azoto".

Il pressing italiano
Per arrivare a questi limiti si è dovuto fare i conti con le esigenze dei singoli Paesi e dei vari settori. Dai trasporti all'agricoltura, dalla quale dipende il 90 per cento delle emissioni di ammoniaca. Non è un caso se il valore massimo per questo composto è stato fornito direttamente dal ministero delle Politiche agricole. E ancora: l'industria della carne produce il 65 per cento del protossido d'azoto emesso in atmosfera e il 44 per cento del metano. Questi gas contribuiscono alla formazione di micro polveri e ozono. Eppure nel testo adottato dai Paesi europei non c'è più traccia dell’obiettivo di riduzione per il metano, mentre l'Italia ha fatto pressione per abbassare la percentuale per l'ammoniaca dal 22 al 14 per cento. È sceso di 10 punti percentuali anche l'obiettivo per il Pm 2,5. "Il governo ha ridotto il livello di ambizione delle politiche italiane per i prossimi 15 anni" spiega Anna Gerometta, presidente di "Cittadini per l’aria". Di più: insieme ad altri Paesi, "anche l'Italia ha spinto affinché fossero introdotti dei "meccanismi di flessibilità" legati a situazioni straordinarie (vedi estati particolarmente siccitose o inverni molto freddi)" e proroghe per un inquinante in caso di risultati migliori per un altro.

I ministeri: "In Europa siglato un buon accordo"
I rappresentanti del ministero dell'Ambiente che si occupano di Affari europei ritengono che quello raggiunto in Consiglio sia "un buon accordo, perché coniuga un elevato livello di ambizione con la raggiungibilità degli obiettivi", senza posizioni oltranziste "come quelle riscontrate in alcuni settori del Parlamento, che rischierebbero di ottenere un effetto opposto". Il riferimento è a possibili infrazioni in mancanza di un accordo.
La denuncia degli ambientalisti si scontra, inevitabilmente, con gli interessi sì delle lobby, ma anche con le preoccupazione dei vari settori. In primis, quello dell’agricoltura. La stessa Coldiretti ha più volte sollecitato i ministeri dell'Ambiente e delle Politiche agricole a tenere conto di "possibili ripercussioni sul settore zootecnico derivanti dall'adozione di limiti eccessivamente restrittivi". Il Copa Cogeca (Comitato delle organizzazioni professionali agricole e della cooperazione agricola dell'Ue) ha invece ricordato che "le emissioni di ammoniaca in Italia, nel settore agricolo, sono calate del 25 per cento dal 1990 al 2009, particolarmente nell'allevamento avicolo". E il ministero delle Politiche agricole fornisce altri dati: "L’agricoltura italiana ha il 36% di emissioni di gas serra in meno rispetto alla media europea e abbiamo abbattuto del 45% l’utilizzo dei pesticidi nei campi negli ultimi 10 anni".

Nuova procedura d'infrazione: rischio multa da un miliardo

Da Bruxelles, intanto, arrivano brutte notizie. L'Italia rischia una multa di un miliardo di euro a causa dello smog. Le soglie per la concentrazione di Pm10 sono state abbondantemente superate in tutta la Pianura Padana (Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia e Veneto), a Roma e a Napoli, ma anche in altre aree. Il primo richiamo della Commissione europea era arrivato a luglio 2014, ma da allora non è stato fatto abbastanza e ora, a distanza di un anno e mezzo, secondo fonti della stessa Commissione, l'esecutivo comunitario sarebbe pronto a inviare all'Italia un parere motivato, passando così alla seconda fase della procedura di infrazione. Che solitamente anticipa il ricorso alla Corte di Giustizia europea. Non è la prima volta per l'Italia, che già nel 2012 si è vista comminare una sanzione per aver oltrepassato i limiti di Pm10 in 55 zone tra il 2006 e il 2007. E può andare peggio.
«Il significato del voto in occasione di questo particolare referendum, assume una valenza di particolare rilievo etico. Andando a votare in massa, noi dichiariamo che il bene comune è superiore a qualsivoglia ambizione di chi governa». Il manifesto, 16 aprile 2016 (c.m.c.)

Il referendum di domani, al di là del suo portato specifico, rivela, l’esistenza di due opposte concezioni del mondo, della politica e, in ultima analisi, del senso del vivere nel nostro Paese ma anche oltre i nostri confini. Buon ultimo, il governo Renzi, coerente con i precedenti esecutivi e in ossequienza a tutti coloro che esso rappresenta, – ovvero i grandi interessi industriali e finanziari – è allergico già in prima istanza, a misurarsi con l’espressione diretta della volontà popolare.

Non tragga in inganno il referendum inevitabile sulla “deforma” costituzionale; Renzi non lo vive per ciò che dovrebbe essere, un confronto con la volontà popolare, ma come la proiezione plebiscitaria sulla sua personale narcisistica leadership. Sulle questioni strategiche che attengono praticamente e simbolicamente al futuro delle persone e alla qualità della loro esistenza, ritiene che esprimersi direttamente sia una perdita di tempo. Davvero una singolare idea del valore della democrazia diretta, ma Renzi e i suoi hanno sposato a monte un’ideologia che si fonda esclusivamente sugli interessi dei potentati di ogni settore delle attività economico finanziarie.

L’azione legislativa e la sua comunicazione, si iscrivono in una visione frusta e consunta del modo di governare una società che fa leva sulle presunte ragioni della millantata creazione e/o conservazione di posti di lavoro, come se la prosperità economica potesse essere pensata solo a senso unico. Lo scopo di questa ideologia è quello di fare apparire le alternative all’economia del privilegio come chimere o, peggio, come il frutto di un conservatorismo deteriore nemico dello sviluppo ipercapitalistico dichiarato assiomaticamente come l’unica via possibile, l’unica soluzione virtuosa. Tutto lo sforzo di coloro che si oppongono al confronto sul merito del referendum è di screditarne il valore, di screditare quei cittadini che, con passione civile e non per servire interessi precostituiti e favoriti per titolarità a priori, vogliono il referendum per fare sentire la propria voce.

Qual è la richiesta dei cittadini sostenitori dell’opzione referendaria? Essi chiedono che per ogni decisione che attiene alla salute degli esseri umani e dell’ambiente, sulle questioni che attengono al rapporto fra scelte economiche e qualità della vita, sia garantita la loro partecipazione attiva. Il malcelato sentimento di sufficienza, quando non di disprezzo nei confronti di chi si schiera con impegno per il voto, la dice lunga su come pensano il confronto sui grandi temi coloro che invitano i cittadini italiani a disertare le urne per sabotare il raggiungimento del quorum.

La democrazia che vogliono è quella dei governi non eletti, o dei governi eletti da elezioni formali, esito di una routine di cui si è perso il senso, visto che la classe politica è sempre più lontana dagli elettori e sempre più impegnata in un’autoperpetuazione svuotata di significato. Colpisce e sconcerta qualunque cittadino si sia formato attraverso l’insuperato ammaestramento della nostra mirabile Costituzione, la protervia con cui un presidente del consiglio che ha ricevuto la fiducia da un parlamento delegittimato per essere stato invece eletto con una legge vergognosa definita dal suo stesso estensore una porcata, invita alla diserzione dall’atto di massima espressione di una democrazia autentica.

Il significato del voto in occasione di questo particolare referendum, assume una valenza di particolare rilievo etico. Andando a votare in massa, noi dichiariamo che sono i cittadini a decidere l’ordine delle priorità, che il bene comune è superiore a qualsivoglia ambizione di chi governa, che la volontà dei cittadini partecipanti si oppone all’improntitudine di chi la considera irrilevante. Dichiariamo che noi non siamo i sudditi degli interessi di pochi potentati, che le migliori scelte economiche sono quelle che si rivolgono alle opportunità offerte da uno sviluppo economico fondato sul benessere delle persone e la salute del pianeta, a fortiori oggi dopo la conferenza sul clima di Parigi che, pur con tutti i suoi limiti, ha affermato l’urgenza della questione ecologica.

Il decisionista di Rignano sull’Arno ci vuole far credere che lui ritiene inutile questo specifico referendum, ma non è così. Non è difficile intuire cosa il Matteo nazionale pensi per esempio del referendum sull’acqua pubblica che vide una travolgente partecipazione degli italiani che, quasi unanimemente chiesero che l’acqua fosse bene pubblico. È in questa direzione che intende andare il governo? Neanche per sogno. Quindi non è difficile intuire che per il nostro presidente del consiglio la partecipazione attiva e diretta dei cittadini sia solo un fastidioso ingombro ed è allarmante constatare che lo stesso pensiero sprezzante animi il nostro ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

C’è seriamente da chiedersi: ma noi italiani, per oltre un settennato abbiamo avuto un Presidente della Repubblica super partes o un ottimizzatore di governi con legittimità a scartamento ridotto?

«Se non si raggiunge il quorum si manda un pessimo segnale a chi ci ha creduto e si è speso per utilizzare questo che rimane uno dei pochi strumenti di democrazia reale, oltre naturalmente a rafforzare il governo Renzi nella sua deriva autoritaria». Il manifesto, 15 aprile 2016 (c.m.c.)

Ho discusso in queste ultime settimane con i miei studenti della specialistica e mi sono accorto che sul referendum del 17 Aprile regna una grande confusione, grazie all’azione diseducativa svolta dalla gran parte dei mass media. Rispetto al referendum sull’acqua pubblica ci troviamo in una situazione di svantaggio.

In primis, non è così chiaro e dirompente il tema che si affronta: non si bloccano le trivellazioni in generale ma solo le future concessioni e solo nell’area marina di pertinenza del demanio. Per la maggioranza della popolazione la questione delle trivellazioni marittime è molto specifica, tecnica, non affronta un tema universale come quello dell’acqua “bene comune”. Non ha la sua forza evocativa, né la sua carica emozionale: sembra un problema che riguarda solo gli addetti ai lavori o le popolazioni che vivono lungo le coste dell’Adriatico e dello Jonio.

Teniamo presente, inoltre, che portiamo sulle spalle l’onta della non applicazione al livello locale (con qualche lodevole eccezione come Napoli) del risultato del referendum del giugno del 2011 che portò 26 milioni di cittadini alle urne. Questo fatto ha prodotto, bisogna riconoscerlo, una sorta di sfiducia generalizzata sull’efficacia di questo tipo di consultazione. Infine, anche se pochi se ne sono accorti, non c’è stata la mobilitazione del M5S che sul referendum sull’acqua “bene comune” si era speso in tutte le aree del nostro paese, con un impegno capillare, costante, incisivo.

Per tutte queste ragioni siamo in tanti ad essere preoccupati per il non raggiungimento del quorum. Sarebbe una iattura. Questo referendum, infatti, ha una valenza simbolica di grande rilevanza. Se non si raggiunge il quorum si manda un pessimo segnale a chi ci ha creduto e si è speso per utilizzare questo che rimane uno dei pochi strumenti di democrazia reale, oltre naturalmente a rafforzare il governo Renzi nella sua deriva autoritaria.

Se non raggiungiamo il quorum rafforziamo la lobby petrolifera che si convincerà che non ha più ostacoli in questo paese, che può pensare tranquillamente ad altri programmi di trivellazione anche sulla terraferma. Sicuramente gioirebbe il presidente del Consiglio che potrebbe cogliere questo risultato come un buon auspicio, una sorta di prova generale del più impegnativo referendum confermativo di ottobre. Anche se non sarà stato lui a convincere gli italiani a non andare a votare potrebbe facilmente intestarsi il successo.

Per questo vale la pena spendere questi ultimi giorni ed ore per convincere gli indecisi ad andare a votare. Non necessariamente a votare Si, ma ad andare a votare comunque per non farsi togliere, svilire, uno strumento fondamentale per la democrazia.

Il Capo comincia a temere d'essersi sbilanciato troppo. Anche Franceschini e Madia non voteranno. Laura Boldrini invece si: «è un dovere per tutti». Intanto si scopre che le concessioni erano illegittimeArticoli di Andrea Colombo e Serena Giannico. Il manifesto, 15 aprile 2016

REFERENDUM. ORA RENZI TEME
IL PASSo FALSO

di Andrea Colombo
Il premier preoccupato: la sua sovraesposizione con l’invito all’astensione a rischio boomerang. Anche i ministri Franceschini e Madia annunciano che si terranno lontani dalle urne. La presidente della camera Laura Boldrini: «Non votare è la conferma del disamore per la politica»
Il Tar del Lazio ha respinto i ricorsi del Codacons e dei radicali sulla scelta di fissare il referendum in data diversa da quella delle elezioni comunali. Il voto sulle trivelle resta convocato per domenica prossima. Poco male se lo scherzetto costerà 300 milioni. L’importante è evitare che i votanti superino il 50%, e non si badi a spese.
Nel quartier generale di Renzi sono contentoni. Ci voleva una notizia rassicurante, tanto più perché da quelle parti si è diffuso un tangibile nervosismo, la sensazione, condivisa dallo stesso capo, di aver sbagliato strategia. Gli ufficiali renziani ancora non temono il raggiungimento del quorum, che per il premier sarebbe disastroso, però danno per possibile l’afflusso del 40% di votanti: l’asticella che separa un risultato accettabile da una sconfitta politica secca, pur se non esiziale come sarebbe il superamento del quorum e la vittoria dei «sì». Anche perché, segnalano alcuni dei più vicini al capo, una percentuale alta di votanti renderebbe poi inevitabile il paragone con quanti voteranno nel referendum del prossimo ottobre, e se in quell’occasione la percentuale dovesse scemare, sarebbe imbarazzante.

Insomma, siamo alle previsioni metereologiche. I renziani contano su una domenica di caldo eccezionale, prevista dai nipotini del colonnello Bernacca, e si fregano le mani: saranno in tanti ad andarsene al mare. Spiano i sondaggi, che nei giorni roventi di Tempa rossa erano arrivati sulla soglia del fatidico 40% ma ora sono lievemente scesi. Si complimentano con se stessi per aver spostato con le cattive il voto sulle mozioni di sfiducia a martedì prossimo, dopo il referendum. Con il sottosegretario targato Pd Vito De Filippo, ex presidente della Basilicata, indagato per Tempa rossa, il dibattito sarebbe stato la miglior pubblicità possibile per il referendum. Ma la paura resta.
Lui, Renzi, non lo ammetterebbe mai apertamente, ma dicono che oggi consideri uno sbaglio l’essersi esposto tanto su quel referendum. Un po’ perché gli sarebbe stato facile lasciare libertà di voto tirandosi fuori dalla mischia, e molto perché proprio la sua discesa in campo spinge anche la destra verso le urne. Gli esponenti della Lega e di Fi annunciano voti diversificati: Brunetta per il no, la Brambilla per il sì e così via. Però molti andranno a votare non per le trivelle ma per Renzi, e se la scelta dovesse essere fatta anche da molti elettori di destra del nord, dove il problema trivelle è assai meno avvertito che nel sud, allora sì che sarebbe un guaio.

Inoltre, è stata sempre la sovraesposizione del premier a rendere la faccenda un caso istituzionale di rilievo. Ieri la presidente della Camera Laura Boldrini è tornata sull’argomento: «Andrò a votare perché ritengo che sia un dovere. Non andare a votare è la conferma del disamore per la politica e della disillusione». Per quanto il Pd ci voglia girare intorno, lo spettacolo dei quattro vertici istituzionali, il capo dello Stato, i presidenti delle camere e quello della Consulta, che vanno a votare mentre il premier e i suoi ministri di fiducia invitano all’astensione sarà giocoforza parecchio increscioso.
Ieri altri due ministri renziani di peso, Franceschini e Madia, hanno annunciato che domenica si terranno lontani dalle urne. La Boschi farà lo stesso, ma senza nemmeno avere il coraggio di dirlo apertamente come i colleghi in questione: «Seguirò le indicazioni del mio partito».

Il quale però è tanto spaccato da far sì che questo referendum sia anche una prova generale del prossimo, quello di ottobre sulla riforma costituzionale. L’area che domenica intende andare a votare, sia pure in modo differenziato, con Bersani per il «no» e Speranza impegnatissimo sul fronte opposto, è la stessa che non ha ancora sciolto la riserva sul voto autunnale, in attesa di una provvidenziale modifica dell’Italicum. Quella revisione non arriverà, Renzi lo ha garantito una volta di più proprio ieri. Ma se la minoranza voterà no al referendum sulla riforma costituzionale, tanto più in una prova che lo stesso Renzi ha trasformato in plebiscito su se stesso, la convivenza nello stesso partito diventerà impossibile.


«QUELLE TRIVELLAZIONI
ERANO ILLEGALI»
di Serena Giannico
Adriatico. 44 concessioni petrolifere sanate dall'allora ministra Guidi con la legge di stabilità. Accusa di Sel-Si
Quel comma salvaguai… «Nove delle 44 concessioni, oggetto del prossimo referendum, erano già scadute a fine 2015, alcune anche da vari mesi, altre da anni (una addirittura dal 2009). Ciononostante le compagnie petrolifere hanno continuato ad operare. Queste piattaforme sono nel mare di quattro regioni dell’Adriatico: Abruzzo, Marche, Veneto ed Emilia Romagna. L’ultima Legge di stabilità (nell’articolo 1, comma 239, che consente di protrarre la durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa ‘per la durata di vita utile del giacimento’, ndr) ha sanato queste irregolarità come si evince dal Bollettino degli idrocarburi del ministero dello Sviluppo economico della ministra Guidi, in data 31 dicembre 2015. Si è cioè sanato a posteriori l’illegalità, attraverso la modifica della disciplina della normativa sulla durata delle concessioni e legando questa alla vita utile del giacimento, con effetto retroattivo: un bel dono alle compagnie petrolifere! Ciò, ora, è oggetto del referendum del 17 aprile». Attacca così l’interrogazione a risposta scritta inoltrata al presidente del Consiglio dei ministri da Sel -Sinistra italiana.

A firmare l’atto il deputato Gianni Melilla. Alla vigilia del referendum antipetrolio salta fuori l’ennesimo scandalo legato alle trivelle. Ventiquattro piattaforme marine – tutte produttive – legate alle 44 concessioni che sono oggetto della prossima consultazione popolare hanno continuato a lavorare, anche per anni, senza avere la proroga necessaria. Con le autorizzazioni scadute. Altre 9 piattaforme, su 4 concessioni non produttive, sono rimaste in acqua senza titolo per farlo. Le aziende avevano fatto richiesta di proroga nei tempi stabiliti, ma il ministero dello Sviluppo economico non ha risposto. Le compagnie estrattive, a questo punto, avrebbero dovuto bloccarsi e aspettare le decisioni del Mise. Ma hanno proseguito con le estrazioni. E alla fine del 2015 è arrivata, magica, la Legge di stabilità che – sembrò strano e inspiegabile – ha legato le concessioni alla «durata di vita utile del giacimento». Le ha in sostanza prorogate ad oltranza. Senza limiti.

Un regalo alle multinazionali, e future scartoffie, e inadempienze, in meno per il Mise. «Fondato il sospetto – dice Melilla – che si sia voluto scongiurare l’ipotesi di un imminente smantellamento delle piattaforme, a costi elevati per le società». Eni in pole position, ma anche Edison. «Il fatto che sia arrivata la benevola sanatoria dal 1 gennaio 2016, con effetto retroattivo, rende ancora più evidente la opacità del comportamento del Mise e dei suoi uffici preposti all’esame delle autorizzazioni e delle proroghe alle compagnie petrolifere».

Al premier si chiede «quali iniziative intenda assumere per accertare la gravità dei fatti sopra denunciati e di rimuovere i responsabili di questo comportamento al fine di fare chiarezza e affermare l’interesse generale al risanamento ambientale e alla libera concorrenza del mercato». «Il governo deve rispondere al Paese per quanto è accaduto. Davanti a un fatto di tale gravità è doverosa la rimozione del responsabile della direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche, Franco Terlizzese», tuona Enrico Gagliano, del Coordinamento nazionale dei No Triv. Quel comma nelle Legge di stabilità? «Spuntato dal nulla, di cui nessuno ha voluto parlare. Serviva forse a rimettere in carreggiata le concessioni, quasi tutte targate Eni? E’ proprio su questo – evidenzia – che gli italiani sono chiamati a votare il 17 aprile. Sono chiamati a ristabilire una data di scadenza certa per la fine della concessione, come previsto anche dall’Unione Europea». Ma se non fosse raggiunto il quorum? «Sarebbe un omaggio alle società del greggio e del gas».

Norma sotto accusa, dunque. Della cui «sospetta illegittimità, poiché una durata a tempo indeterminato delle concessioni violerebbe le regole del diritto Ue sulla libera concorrenza», parla anche l’eurodeputata Barbara Spinelli (Gue/ngl) che, con un’interrogazione, fa giungere la questione trivelle – con annesso referendum – sui tavoli della Commissione europea. «Nonostante la Convenzione di Aarhus sia stata ratificata dall’Ue nel febbraio 2005 e recepita dall’Italia con decreto legislativo dell’agosto dello stesso anno – scrive – l’Italia non ha rispettato i propri obblighi, sanciti dalla stessa Convenzione, di consentire la partecipazione del pubblico al processo decisionale in materia ambientale». L’europarlamentare quindi chiede se, esaminati gli atti, «… si intenda promuovere una procedura di infrazione contro l’Italia e se, in ogni caso, si voglia esortare il governo italiano a modificare tale comma».

Referendum del 17 aprile «E’ necessario che tutti partecipino. Questa cosa ci riguarda perché è legata alla cura della “casa comune”, come papa Francesco definisce la terra nell’enciclica Laudato sì». La Repubblica, 14 aprile 2016 (c.m.c.)

Meno tre al referendum anti-trivelle, e nel fronte del Sì si alza ancora una volta la voce della Chiesa. «E’ necessario che tutti partecipino. Questa cosa ci riguarda perchè è legata alla cura della “casa comune”, come papa Francesco definisce la terra nell’enciclica Laudato sì» scrive la diocesi di Fano, nelle Marche, una delle regioni nel cui mare operano gli impianti di estrazione sottoposti alla consultazione. Il documento contiene un esplicito invito a votare Sì, «perchè il mercato non è in grado di difendere l’ambiente», oltre che a «modificare gli stili di vita».

Il caso di Fano è la traduzione in pratica della strada indicata dalla Cei: i vescovi parlino ai fedeli e li sensibilizzino. La parola-guida che in questi giorni muove il segretario della Cei Nunzio Galantino è «confrontarsi». E cioè «coinvolgere gli abitanti, chi di quel mare vive. Gli slogan non funzionano, bisogna creare spazi di incontro e confronto». I vescovi, in ogni caso, si sono espressi in maggioranza per il Sì.In questo senso va interpretata anche una pagina di Avvenire

che promuoveva inchieste sui luoghi interessati dall’effetto-trivelle.

Intanto il Tar ha respinto la richiesta di un election day per accorpare il referendum alle amministrative di giugno. I ricorsi contro la data del 17 aprile erano di Codacons e Radicali. La linea del governo è il non voto ed è stata ribadita ieri dalle ministre Maria Elena Boschi («Seguo le indicazioni») e Beatrice Lorenzin («Il non voto è una scelta politica»). Intenzionati a disertare le urne sono anche Dario Franceschini e Graziano Delrio.

Roberto Speranza, capo della corrente di minoranza del Pd Area riformista, si batte invece per il Sì: «L’astensione è un grave errore - scrive ai militanti -. Spero che il popolo del Pd corregga i dirigenti».

«Ferma le trivelle. Tutti i referendum indicano un cambiamento, sono un inizio non la conclusione della loro realizzazione. Saranno i rapporti di forza a segnare la portata del risultato». Il manifesto, 12 aprile 2016 (c.m.c.)

Domenica prossima non andremo a votare solo per chiedere l’abrogazione di una norma (quella che prevede l’estensione delle concessioni per le attività estrattive entro le 12 miglia nautiche). Saremo principalmente chiamati ad esprimerci sui nostri valori di fondo.

Ogni referendum abrogativo, in effetti, ha per sua natura una doppia dimensione: quella strettamente normativa e quella propriamente emblematica che ne esprime l’essenza prevalendo sempre sulla prima, incorporandola e dando senso alla specifica richiesta di abrogazione. Questo plusvalore dei referendum (valgono per ciò che dicono, ma anche per ciò che sottendono) è una costante, contrassegna ogni “appello al popolo”.

Si pensi in Italia ai referendum più noti, anche a quelli i cui quesiti erano diretti ed espliciti. Il referendum sul divorzio, ad esempio, non può essere ridotto al pur importante quesito sull’istituto giuridico dello scioglimento del vincolo matrimoniale, esso ha segnato – soprattutto – un passaggio tra due modi di intendere i rapporti tra coniugi, ha affermato una diversa visione del mondo e dei rapporti tra le persone. Quello sull’aborto non si è limitato a sancire il diritto all’interruzione della gravidanza, ma ha coinvolto il modo di pensare al corpo delle donne, il loro ruolo entro una società, ponendosi come terminale simbolico di una lunga lotta di emancipazione.

La scelta sul nucleare, poi, che ha riguardato disposizioni in sé marginali rispetto alle politiche energetiche (tant’è che nessuno ricorda più su quali quesiti siamo andati a votare), ha avuto un immediato e profondissimo riflesso sulle concrete scelte, sull’idea stessa di sviluppo economico, impedendo l’uso di una risorsa (il nucleare) in base ad una scelta – per una volta – non di mercato, bensì di valore.

L’ultimo referendum, quello sull’acqua, è forse stato il più esplicito nel collegare il voto alla visione del mondo che si poneva a suo fondamento. “Acqua-bene comune” era la formula prescelta dal comitato promotore, il quesito coinvolgeva non solo il servizio idrico, ma anche la questione più ampia dei servizi pubblici locali (una valenza generale che fu riconosciuta dalla Corte costituzionale in sede di ammissibilità dei quesiti). La prospettiva esplicitamente dichiarata era quella di esprimere un altro modello di sviluppo rispetto a quello di privatizzazione neoliberista dominante.

Né può dirsi che il plusvalore simbolico sia meno rilevante a secondo dei tipi – abrogativi od oppositivi – di referendum. Anche quello costituzionale del 2006 ha visto, in fondo, contrapporsi due mondi: da un lato chi pensava alla Costituzione come uno strumento di governo (del governo) per garantire la stabilità del potere, dall’altro chi riteneva all’opposto che le costituzioni servono per limitare i poteri e garantire i diritti dei cittadini nei confronti dei governanti. Un tema che sarà al fondo anche del prossimo scontro sulla riforma costituzionale.

Ogni volta che si è pensato si potesse limitare la portata del referendum al solo quesito si è commessa una ingenuità. Il caso dei referendum elettorali del 1993 è esemplare in tal senso. La critica ai partiti, la volontà di cambiamento, la crisi delle strategie politiche di riforma sociale si posero alla base di un plebiscito che travolse non solo il sistema elettorale di natura proporzionale allora vigente, ma anche tutti gli equilibri politici, trasformando per intero la nostra democrazia reale.

Gli effetti di quella scelta non sono stati più assorbiti: la riduzione degli spazi della rappresentanza, l’isterilimento degli organi parlamentari, il deterioramento progressivo dei partiti come strumenti di partecipazione, la fine della mediazione politica e l’imporsi della immedesimazione leaderstica, non sono certamente il frutto di quella scelta (ben più profonde le cause del deperimento in corso), ma è vero che lì trovarono una loro fondamentale legittimazione popolare. Quanti sono oggi i pentiti del ’93? L’errore fu pensare al quesito e non anche al suo significato sistemico.

Ed è proprio sugli effetti di sistema che si gioca la partita dopo il referendum. Senza illusioni e con realismo bisogna anche dire che l’appello al popolo non è mai definitivo. Anche in questo caso basta guardare la storia che è alle nostre spalle per comprendere limiti e virtù dello strumento referendario.

Radicalmente diversi sono stati gli esiti nel caso del sistema elettorale e in quello dell’acqua-bene comune. Nel primo il cambiamento è andato ben al di là di quanto veniva richiesto, all’opposto nel secondo nulla è mutato. I referendum, in effetti, sono una prospettiva di cambiamento, non la sua realizzazione; un inizio, non la conclusione di una lotta per l’affermazione di una diversa visione del mondo. Saranno poi i soggetti reali, i rapporti di forza politici, le condizioni culturali a segnare il futuro e la portata del cambiamento.

Lo scontro reale, nel voto di domenica, non riguarderà tanto le concessioni alle imprese petrolifere, bensì coinvolgerà per intero le prospettive di sviluppo: devono queste continuare ad essere basate sulle fonti energetiche tradizionali, sul petrolio, ovvero è giunto il tempo di cambiare investendo nelle fonti alternative, recuperando il gap che vede il nostro paese tra gli ultimi nelle politiche energetiche non inquinanti. Entro questa più ampia visione cadono molte obiezioni che sono state sollevate: la questione della perdita del lavoro causato dalla fine delle concessioni (che non sarebbe comunque immediata), ad esempio, è chiaramente mal posta. Si dovrebbe più correttamente pensare alle possibili ricadute in termini di sviluppo: come riconvertire il nostro sistema energetico.

Si tratta evidentemente di politiche economiche da rilanciare, altre da abbandonare. Solo chi ritiene che esiste un’unica razionalità economica, un’unica ragione del mondo, può affermare che la chiusura protratta nel tempo delle piattaforme di perforazione in profondità per la ricerca di idrocarburi costituisca un serio problema per l’occupazione. Solo chi non ha interesse a rilanciare lo sviluppo su nuove basi più consone al rispetto dell’ambiente può pensare che è necessario continuare sino all’esaurimento dei giacimenti l’attività di estrazione, in eterno dunque. Solo chi non pensa di poter cambiare può essere preoccupato per i posti di lavoro che il settore petrolifero – compreso l’indotto – oggi garantisce, rinunciando così a fornire un diverso futuro a questi lavoratori che ben potrebbero costituire la base di una occupazione ecologicamente compatibile. Solo chi vuole mantenere le attuali storture può essere contro i referendum.

Lo scontro, dunque, è ancora una volta tra chi vuole preservare gli assetti di potere esistenti e chi crede in un altro mondo possibile.n questa prospettiva deve essere valutata anche la portata in sé ridotta del quesito. Se l’effetto del referendum si limitasse ad escludere le proroghe delle concessioni estrattive entro le dodici miglia marine non avremmo fatto granché in tema di risanamento e sviluppo complessivo. Ma qui è appunto la sfida da raccogliere: questo non è che l’esordio di una lotta politica di civiltà, per tentare di risalire la china che ci ha portato all’attuale degrado ambientale, contro la miopia di un ceto politico, nuovo solo a parole, ma che continua a porre resistenza al cambiamento e non vuole progettare il futuro, riproponendo le stesse ricette al servizio dei soliti interessi.

Per cambiare non basta un solo giorno, né un solo quesito, c’è bisogno di una organizzazione sociale, di una cultura diffusa, di un ceto politico in grado di tradurre in politiche realmente innovative la volontà espressa dal corpo elettorale. Per questo possiamo dire che il sì contro le trivelle «ce n’es qu’un début»: altri referendum sono già pronti, altre politiche devono essere immaginate.

«L'analisi contenuta nel progetto CoCoNet, finanziato dall'UE: cosa accadrebbe in caso di un imprevisto in fase estrattiva o di trasporto? A causa dell’andamento delle correnti marine, l'entità monetaria del danno è, secondo gli esperti, non calcolabile». Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2016 (p.d.)

“Un incidente petrolifero? Va messo in conto. E i danni non sarebbero limitati al litorale italiano, ma causerebbero un disastro nell'intero Mediterraneo orientale, con costi ambientali incalcolabili”.

Ferdinando Boero parla con cognizione di causa. È docente di Zoologia e Biologia Marina all'Università del Salento, associato all'Istituto di Scienze Marine del Cnr ed è uno dei massimi esperti italiani di biodiversità marina e funzionamento degli ecosistemi. Mostra una cartina: frecce che si rincorrono, correnti, inabissamenti. In tempi non sospetti, ha svolto simulazioni per dimostrare cosa potrebbe accadere in caso di perdite di idrocarburi da petroliere in transito nel basso Adriatico.

Poi, specie in Puglia, è arrivata la pioggia di richieste di permessi di ricerca dell’oro nero una spanna più avanti delle 12 miglia. Colossi americani, soprattutto. “La realtà che supera l’immaginazione”, sorride il professore. È una battaglia, quella, ancora in corso nell'ambito delle procedure di valutazione di impatto ambientale pendenti. Nel frattempo, restano i rischi legati alle piattaforme già attive al di qua e al di là di quel limite di 12 miglia lungo tutto il mar Adriatico. Lo dice CoCoNet, il progetto coordinato dallo stesso Boero e finanziato con 11 milioni di euro dall'Ue per la realizzazione di reti di aree marine protette nel Mediterraneo e nel Mar Nero, oltre che per lo studio di fattibilità di installazione lì di piattaforme eoliche offshore come fonte di energia pulita. Nell'ambito di CoCoNet, la ricerca pilota sulle perdite di idrocarburi, sconosciuta ai più, si è concentrata sull'Adriatico meridionale, che è lo snodo fondamentale, il luogo in cui si ha il fenomeno di sprofondamento delle acque dense nord adriatiche nella pancia dello Ionio. È quello, insomma, il punto di transito del movimento d’acqua che dà vita agli abissi del Mediterraneo. Cosa accadrebbe in caso di incidenti in fase estrattiva o in fase di trasporto? La risposta è nel gioco di correnti marine.

Da Gibilterra, l’acqua atlantica penetra nel bacino mediterraneo con un flusso superficiale. Attraversato il canale di Sicilia e raggiunta la parte più orientale, vicino al Libano, la corrente torna indietro a circa 500 metri di profondità (corrente intermedia levantina). In questo modo l’acqua del Mediterraneo viene rinnovata nei primi 500 metri. In assenza di altre correnti importanti, al di sotto di quella soglia, non essendo ricambiata, andrebbe incontro a fenomeni di anossia (carenza di ossigeno) dovuti alla presenza di animali, che consumano ossigeno, e all'assenza di vegetali, che lo producono. Questa eventualità sarebbe fatale, dunque, per la vita al di sotto dei 500 metri.

Ciò si evita grazie al rinnovamento delle acque profonde. Avviene tramite i “motori freddi”. Nel Golfo del Leone, per il Mediterraneo occidentale, e nel nord Adriatico, per quello orientale, i venti freddi causano aumenti di salinità e diminuzioni di temperatura. Questo porta alla formazione di acque dense superficiali, che tendono a scorrere verso i fondali più profondi, portandovi ossigeno e spingendo verso l’alto le acque che ne sono carenti, perché possano riossigenarsi. Dall'Adriatico settentrionale, quelle acque seguono due autostrade marine, una prossima alle coste albanesi e l’altra a quelle italiane, attraverso il Canyon di Bari e il Canale d’Otranto. Da lì, si inabissano nello Ionio, raggiungendo le massime profondità, che toccano il picco dei 5 mila metri nella fossa del Peloponneso.

È grazie a questo flusso che, ad esempio, possono prosperare i coralli bianchi ionici e quelli ritrovati di recente nel basso Adriatico. Lo stesso copione si ripete, ma con importanza ritenuta minore, a partire dal nord Egeo. “È chiaro dunque – spiega Boero – che se nell'Adriatico dovesse verificarsi un incidente, il petrolio andrebbe a inserirsi nella corrente che alimenta la parte più profonda del Mediterraneo, che invece di ricevere ossigeno riceverebbe idrocarburi. L’eventualità che questo accada non può essere esclusa. Calcolare l’entità monetaria dei danni causati da una simile eventualità è sterile: non ci sono soldi che possano ripagare gli ambienti che sarebbero gravemente danneggiati”.

Occorre un sì deciso al referendum del 17 aprile, non solo contro la distruzione della bellezza, ma per una uscita progressiva dalla dipendenza dal petrolio, e la crescita di un movimento globale per la salvezza del pianeta. Il manifesto, 10 aprile 2016.(c.m.c.)


«Keep the oil under the soil». Lasciamo il petrolio sottoterra, urlavano gli attivisti di mezzo mondo a Parigi poco prima dell’inizio della Ventunesima Conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici, la Cop21. È un movimento globale per la giustizia climatica, una realtà reticolare, che lega comunità e organizzazioni del Nord e del Sud del mondo.

L’idea di mantenere il petrolio sottoterra nacque in Ecuador, paese assai dipendente dall’oro nero. «Yasunizzare», dal nome del parco Yasuni, riserva biologica sotto la quale si trovano importanti giacimenti petroliferi, significava lasciare il petrolio sottoterra, optare per un’altra via, quella del riconoscimento del debito ecologico, e della promozione di energie alternative. Quel petrolio non estratto avrebbe rappresentato un patrimonio in termini di emissioni evitate e di protezione della biodiversità, in cambio del quale la comunità internazionale si sarebbe impegnata a versare contributi su un fondo internazionale per la tutela di Yasuni e la promozione di energie rinnovabili. Non se ne fece nulla, ed oggi le compagnie petrolifere straniere stanno accaparrandosi quelle concessioni.

Territori sotto assedio, come quello di Sarayaku, o del popolo Sapara, che hanno già annunciato che difenderanno con i denti la loro terra.
Dall’Amazzonia all’azione di disobbedienza civile contro la megaminiera di carbone di Ende Gelaende, alle mobilitazioni dei Mohawk a Montreal contro la Transcanada Pipeline, è un susseguirsi di azioni, iniziative, mobilitazioni.

Era stato detto a Parigi e fatto seppur simbolicamente: tracciare una linea rossa, oltre la quale sarebbe scattata la disobbedienza civile di massa, per tutelare un bene prezioso, l’equilibrio dell’ecosistema, e la salute delle generazioni a venire. È il riconoscimento dei diritto alla resistenza civile nonviolenta per tutelare i «commons» che ispirerà migliaia e migliaia di attivisti che in ogni parte del mondo si mobiliteranno per un’intera settimana a maggio nell’azione globale «Break Free from Fossil Fuel». Sono previste azioni dirette nonviolente presso siti di estrazione ed infrastrutture petrolifere ed in sostegno a fonti energetiche pulite in Australia, Brasile, Canada, Germania, Indonesia, Israele/Palestina, Nigeria, Filippine, Sudafrica, Spagna, Turchia, e Stati Uniti.

Lasciare il petrolio sottoterra significa mettere sé stessi tra la Terra ed il cielo, prendere posizione dalla parte del cielo e della Terra, e produrre «dal basso» uno shock necessario per invertire la rotta. Come sottolinea in un importante articolo la rivista Nature, per provare a contenere l’aumento della temperatura globale entro 2 gradi centigradi ai livelli preindustriali sarebbe urgente rinunciare ad un terzo delle riserve petrolifere, la metà di quelle di gas e l’80 per cento del carbone entro il 2050. (si noti bene che a Parigi ci si è impegnati «in linea di massima» a contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi). Invece le imprese transnazionali del settore continuano a investire cifre ingenti nella ricerca e prospezione, spendendo ogni anno qualcosa come 800 miliardi di dollari alla ricerca di nuovi giacimenti contro i 100 miliardi impegnati dalla comunità internazionale in sostegno al Fondo Verde per il Clima. Non tutte però: accanto alla disobbedienza civile dei movimenti è cresciuto progressivamente il movimento per il disinvestimento, al quale di recente si è unita anche la potente famiglia Rockefeller, magnati del petrolio per eccellenza.

E a casa nostra? La crescita del movimento globale per la giustizia climatica, la settimana di azione contro i combustibili fossili, le campagne di disinvestimento dimostrano che anche in Italia ci potrà essere vita dopo il referendum contro le trivelle. Un sì deciso significa quindi non solo un no alla distruzione della bellezza, o delle coste, è un sì alla necessaria ed urgente transizione ecologica, un piccolo passo verso la progressiva uscita dal petrolio, un tassello in più in uno movimento globale che si fa sempre più forte.

La Francia dice stop alla ricerca di idrocarburi in mare e chiederà che il divieto venga esteso a tutto il Mediterraneo. «Troppo alti i rischi ambientali» afferma la ministra dell'ambiente e dell'energia. Il manifesto, 9 aprile 2016 (c.m.c.)

La ministra dell’Ambiente e dell’Energia, Ségolène Royal, ha comunicato ieri la decisione di mettere immediatamente in atto una moratoria sulle ricerche d’idrocarburi nel Mediterraneo. Il provvedimento è stato reso noto nel corso della seconda Conferenza Nazionale sulla Transizione Ecologica del Mare e dell’Oceano, tenutasi a Parigi. Il comunicato della ministra non lascia spazio ai dubbi. «In considerazione delle drammatiche conseguenze che potrebbero colpire tutto il Mediterraneo in caso d’incidente dovuto alle perforazioni petrolifere - si legge nel testo diffuso dal dicastero dell’ambiente - Ségolène Royal decide di applicare una moratoria immediata sulle ricerche di idrocarburi nel Mediterraneo, sia nelle acque territoriali francesi, sia nella zona economica esclusiva». Inoltre, la ministra Royal «chiederà che questa moratoria sia estesa all’insieme del Mediterraneo, nel quadro della Convenzione di Barcellona sulla Protezione dell’Ambiente Marino e del Litorale Mediterraneo».

La conferenza nazionale di ieri costituiva la seconda edizione di quella già tenutasi, sempre sul tema della transizione ecologica del mare, nell’agosto scorso. Come allora, anche ieri erano invitate Ong, accademici e vari operatori ed esperti. In quell’occasione erano state stabilite le cosiddette «dieci azioni per una crescita blu».

Ségolène Royal non è nuova a prese di posizione contro le energie non rinnovabili. Basti ricordare il suo intervento all’Assemblea Nazionale del 12 gennaio scorso, al suo rientro da New York, dove aveva incontrato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per dare corpo alle decisioni prese alla Cop 21 di dicembre. In quell’occasione, la ministra del governo Hollande aveva affermatoche nessun ulteriore permesso di ricerca d’idrocarburi sarebbe stato accordato dall’esecutivo. «Se bisogna ridurre la quota di energie fossili, perché continuare ad autorizzare ricerche d’idrocarburi convenzionali?» si domandava allora la responsabile dell’ambiente. Secondo i dati del ministero, il 1° luglio 2015 si contavano 54 permessi di ricerca attivi e 130 domande di permesso in corso di valutazione.

Le sue parole non erano rivoluzionarie, ma davano semplicemente seguito agli obiettivi previsti dalla legge sulla transizione energetica dell’agosto 2015. Il provvedimento punta a dimezzare entro il 2050 il consumo totale d’energia della Francia, oltre a diminuire sino alla soglia del 30% entro il 2030 la percentuale di energia prodotta da fonti fossili non rinnovabili. Sempre per il 2030, al contrario, dovrà essere del 32% sul totale nazionale l’energia prodotta da fonti rinnovabili. In questa prospettiva, la ministra sta lavorando per una grande campagna di sostegno al fotovoltaico e all’eolico. Per quel che riguarda l’energia solare, meno di tre settimane fa, Ségolène Royal ha lanciato a Marsiglia il progetto delle «strade solari», cui saranno consacrati, per il momento, 5 milioni di euro, con l’ambizione di arrivare in cinque anni ad avere 1000 chilometri di pannelli fotovoltaici, su tutto il territorio nazionale.

Rispetto all’energia eolica, invece, il documento finale della conferenza di ieri, mostra una determinazione nell’implementare parchi eolici off-shore. Dieci progetti hanno vinto una gara d’appalto in questo settore specifico nel 2015. Un’altra gara d’appalto è stata lanciata per l’anno in corso. La zona individuata per l’installazione degli impianti fissi è a largo di Dunkerque, sul canale della Manica. L’Atlantico davanti alle coste bretoni e il Mediterraneo, ospiteranno, invece. delle fattorie eoliche sperimentali galleggianti, si legge ancora nel documento conclusivo della conferenza.

Al di là della questione strettamente ambientale, quello che sembra, almeno sulla carta, un cambio di passo nell’approccio alla questione della protezione del mare, potrebbe avere ripercussioni interessanti per il settore della pesca. La moratoria, infatti, disinnescherebbe de facto una recente tesi, frutto della bizzarra convergenza tra petrolieri e alcune Ong ambientaliste, in base alla quale la pesca, senza distinzioni, sarebbe dannosa per l’ambiente marino.

Chi oggi comanda in Italia, in Europa e nel resto del mondo obbedisce agli interessi dei petrolieri e perciò ci sta portando alla catastrofe. Ecco una ragione in più per votare contro le trivelle. Il manifesto, 8 aprile 2016

Al vertice sul clima di Parigi i “capi” di 192 paesi hanno preso degli impegni enormi: mantenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto 2 e possibilmente vicino a 1,5 gradi centigradi. Per questo bisogna evitare di disperdere nell’atmosfera più di mille miliardi di CO2 equivalente di qui al 2100 (ne produciamo 35 miliardi all’anno). Per raggiungere l’obiettivo i contraenti hanno presentato dei piani nazionali (detti Indc) molto generici, perché non ne viene indicato il “soggetto attuatore” che, per il pensiero unico dominante, non può che essere “il mercato”; non gli Stati né i loro governi, né tantomeno il “popolo sovrano” e le sue comunità, ma la finanza.
Il non detto di quei piani è questo: gli interessi dell’industria petrolifera sono talmente grandi che a metterli in forse in tempi rapidi, anche oggi che il prezzo del petrolio è ai minimi, si rischia il tracollo dell’economia mondiale. Solo a lasciare sottoterra le riserve di idrocarburi che non dovrebbero essere più bruciati per non superare la quantità di emissioni climalteranti che ci separano dai due gradi in più di temperatura si mandano in fumo decine di migliaia di miliardi già quotati in borsa. Poi ci sono gli impianti (trivelle, pipelines, miniere, flotte, raffinerie, centrali termiche, ecc.): altre decine di migliaia di miliardi ancora da ammortizzare (e quando lo sono già, vere mucche da mungere per fare profitti, anche se vanno in pezzi).
Quei piani sono comunque insufficienti a raggiungere l’obiettivo; per cui si è già stato stabilito che nel 2020 dovranno essere rivisti al rialzo. E lo si dovrà fare per forza, perché il clima sta già precipitando verso un disastro irreversibile per il pianeta e per la vita umana su di esso, cioè per tutti noi, i nostri figli, i nostri nipoti. Niente sarà più come prima (“This changes everything”) come ha scritto Naomi Klein: sia che si cerchi di proseguire sulla strada del business as usual (BAU), facendo precipitare la crisi climatica; sia che si decida di perseguire una vera transizione energetica verso efficienza e fonti rinnovabili: che può essere realizzata solo cambiando radicalmente consumi, prodotti, processi di produzione e soprattutto sistemi di governo dell’economia: nella forma di una vera democrazia partecipata.
“Una rivoluzione”: la scelta obbligata che, seguendo il titolo che è stato data alla traduzione italiana del libro della Klein, “ci salverà”. Le tecnologie per realizzarla sono già disponibili, e potrebbero moltiplicarsi se si dedicasse loro l’attenzione e le risorse che meritano. I costi sono perfettamente affrontabili e i risparmi che ne possono derivare li ripagherebbero in tempi ragionevoli. Quello che manca è l’organizzazione, che non è la green economy (investire dove i ritorni sono immediati e lasciar perdere tutto il resto), ma la democrazia economica: il controllo delle comunità sulle attività che le vedono impegnate. In termini sintetici: tutto ciò che prolunga in qualsiasi forma la dipendenza dai fossili non fa che ritarare la transizione e renderla più costosa domani, in termini economici, ambientali, umani.

Alcuni driver di una transizione del genere sono peraltro già all’opera: le assicurazioni sono a mal partito per i danni creati dagli eventi estremi provocati dai mutamenti climatici; è in corso un processo di disinvestimento dalle risorse fossile da parte degli organismi più avvertiti: dai Rockfeller alla Norvegia, il paese con la popolazione più ricca del mondo grazie al petrolio. I costi impiantistici delle rinnovabili scendono a picco mentre quelli dell’inquinamento da petrolio e carbone vanno alle stelle…

Per questo appare paradossale che, appena rientrato da Parigi, dove come al solito aveva spiegato che nel campo della conversione energetica l’Italia, cioè lui, è più avanti di tutti (tesi ripetuta pochi giorni fa), Renzi e il “cerchio magico” del suo Governo si siano dati da fare per spremere fino all’ultima goccia il petrolio che sa sotto i mari e il suolo dell’Italia. Cercando prima di eludere i referendum contro le trivelle a mare, per poi aprire uno scontro frontale contro i suoi promotori. E riconfermando e peggiorando il progetto, messo a punto a suo tempo dall’ex ministro Passera, di trasformare il nostro paese in terminale e deposito in conto terzi (cioè per tutta l’Europa) del gas importato dalla Russia e dal Nordafrica; anche a costo di scassare il territorio con un gasdotto e degli stoccaggi che minacciano l’Italia nelle sue zone più sismiche, come l’Aquila e l’Emilia.

D’altronde si tratta di quello stesso Renzi che adora Marchionne (quello che ha assunto 1000 nuovi operai dopo averne messo alla porta 20.000 in meno di dieci anni) invece di spiegargli che né l’Italia né il resto del mondo hanno bisogno di una jeep per andare a fare la spesa o portare i bambini a scuola; e che prima o poi quei mastodonti dovranno rimanere fermi. E con loro gli operai che li fabbricano. Insomma, più si sbraccia a presentarsi ed esaltarsi come innovatore e più Renzi si abbarbica alla più superata e nociva delle opzioni economiche: tenere in vita, in tutti le forme possibili, l’economia del petrolio e delle fonti fossili.

Questa è la vera posta in gioco del referendum del 17 aprile: non le misere royalties ricavate dal petrolio, che non valgono il costo che Renzi fa pagare agli italiani per non aver accorpato referendum ed elezioni amministrative; non i pochi, sporchi e insalubri posti di lavoro che verranno a mancare quando arriveranno a scadenza le concessioni che lui vorrebbe confermare a tempo indeterminato; bensì le decine di migliaia di nuovi occupati che un programma di riconversione energetica potrebbe creare – e che in parte avevano cominciato a esser creati prima che Renzi spostasse le sue fiches dalle energie rinnovabili al petrolio, facendone già perdere quasi 80mila – oltre a tutti quelli (turismo, pesca e agricoltura) che il petrolio distrugge; ma, soprattutto, il ritardo e il danno che l’attaccamento alle risorse fossili finirà per imporre a un paese escluso da una riconversione energetica ormai irrinunciabile.

Questo è il tema di fondo, quello che fa della campagna contro le trivelle un momento di informazione, di riflessione e di auto-educazione su una questione ineludibile su cui il governo – ma non solo lui – ha steso un velo mentre avrebbe dovuto metterlo al centro di tutto il suo operato. Poi viene il resto, che non è poco: cioè il modo in cui petrolio e risorse energetiche vengono estratte e sfruttate, il seguito di inquinamento, di degrado ambientale, di danni alla salute, di vite distrutte, di corruzione e di deficit democratico che l’economia degli idrocarburi si porta dietro. Non solo in Italia. Il petrolio, come è noto, è la merda del diavolo: che ha fatto piombare tutti i paesi dove viene estratto e lavorato in uno stato di degrado ambientale, sociale e istituzionale tanto maggiore quanto più è consistente la finta ricchezza di cui dovrebbero beneficiare: che è ricchezza per chi se ne appropria, non per chi vive su quei territori. Guardate il golfo persico, l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Iran, la Nigeria, la Libia, il Texas e le regioni del Canada devastate dall’estrazione delle sabbie bituminose; ma anche la fatica del Venezuela per cercare di liberarsi dal cappio politico del dominio degli Stati uniti sulle sue riserve; e vedrete quasi soltanto distruzione di interi dei territori e dei paesaggi più belli del mondo, miseria e oppressione delle comunità che hanno la sfortuna di abitarli, prepotenza di che si avvantaggia di quelle risorse a loro spese.

Così anche l’Italia, nonostante che le sue riserve siano infime, è riuscita a importare – cercando beninteso di tenerle nascoste – buona parte delle disgrazie che accompagnano lo sfruttamento degli idrocarburi in tutto il pianeta: in quel campo “il mercato” è questo; e la “concorrenza” si fa così: corrompendo, inquinando e massacrando cittadini e lavoratori. Perché quando in gioco ci sono “scambi di favori” un’impresa vale l’altra: Eni e Total pari sono; e quella ricchezza nazionale che il governo dice di voler mettere a frutto può tranquillamente defluire verso le raffinerie e le reti di un concorrente: l’importante è che gli amici degli amici - o i coniugi dei ministri - ne ricavino il loro tornaconto.

«Più che mai è importante andare a votare per questo referendum per dimostrare che non si abbandona il paese in mano a chi vuole mercificare qualsiasi cosa senza rispetto e che esiste ancora la volontà e la forza di cambiare rotta». Il manifesto, 8 aprile 2016 (c.m.c.)

L’attuale vuoto politico, che rischia di diventare catastrofico, e di cui la cosiddetta sinistra è al tempo stesso vittima e corresponsabile, fa emergere con forza la valenza probabilmente decisiva delle prossime consultazioni referendarie.È sempre più evidente che dal loro esito dipenderanno (per dirla in modo un po’ enfatico) le sorti del paese. In questo quadro, è difficile non prendere atto del fatto che quella fra loro che riguarda il problema delle trivellazioni marine (17 aprile) stenta a decollare, quasi che il quesito fosse di significato e dimensioni minori.

Io penso che non sia così, almeno per due buoni motivi.

Il primo è più specifico, anche se presenta anch’esso valenze generalissime. Questo governo, e il partito che in questo momento esso rappresenta, esprimono la posizione più risolutamente antiambientale (attenzione: antiambientale, non semplicemente antiambientalista), che nel nostro paese sia stato dato di vedere da molti decenni (forse da sempre?). L’ambiente, il paesaggio, il territorio, i beni culturali sono considerati, nel migliore dei casi, come degli oggetti o realtà morte, in cui investire più che si può, per ricavarne più che si può (spesso, però, sbagliando anche il calcolo dei rapporti fra investimenti e ricavati). Se una società petrolifera o un consorzio di palazzinari glielo chiedesse, pianterebbero trivelle o edificherebbero ecomostri anche di fronte a Piazza San Marco a Venezia o in Piazza della Signoria a Firenze.

Il caso lucano è ormai sotto gli occhi di tutti, non si può più girare la testa dall’altra parte.
Osservo che, della stessa natura del caso delle trivelle, sono altri casi clamorosi come quelli del sottoattraversamento ferroviario di Firenze e dell’ampliamento sconsiderato e dissennato dell’aeroporto di Peretola, anch’esso a due passi da Firenze (la quale rischia di diventare la “città martire”, e come tale meriterebbe d’esser proclamata, di questa fase produttivistico-ambientale). Del resto, in ambedue questi casi basterebbe scavare appena più a fondo (non dico «più a fondo»; dico: «appena più a fondo»), per arrivare a scoprire le stesse logiche che hanno sovrainteso alle operazioni speculative lucane.

Per cui: chi vota sì al referendum sulle trivellazioni marine, vota contemporaneamente contro tutto questo, – contro tutto questo, e contro il suo probabile, anzi, facilmente e assolutamente prevedibile, peggioramento. Anche a tremila metri c’è dunque un interesse profondo (è il caso di dirlo) a votare al prossimo referendum sulle trivelle sottomarine.

Il secondo motivo è di carattere politico generale Non s’è mai visto in questo paese un governo che inviti la cittadinanza a non andare a votare a una forma di qualsiasi consultazione elettorale. Questo governo conta sulla stanchezza, la disaffezione, lo scontento, persino sull’incazzatura («vadano tutti al diavolo, non voglio più saperne!»), per continuare a governare.

Qui, a proposito delle trivelle, – tema, come ho già detto, apparentemente marginale e interesse di pochi, – si manifesta la stessa linea, non soltanto politica, ma ideologico-culturale, che si manifesta a proposito della materia dei referendum d’autunno, e cioè: quanto più si restringe la base del potere, tanto meglio è per chi governa. Può governare meglio, con meno impacci e più libertà di movimento e di azione. Per esempio: fare quel che si vuole dell’ambiente italiano, se petrolieri, palazzinari e costruttori di strade e autostrade glielo chiedono (oppure, magari, prendere l’iniziativa di andarglielo a chiedere, se il giro dei soldi, degli investimenti e delle ricadute di potere, dovesse troppo abbassarsi). Ma di più, molto di più: fare quel che si vuole in ogni ganglio dell’azione di governo, accantonando o eliminando del tutto controlli, verifiche, inutili discussioni (perdite di tempo, gufismi d’altri tempi).

Di fronte a questo stato di cose, e a questa prospettiva, più si vota meglio è. Nonostante tutto, perdura qualcosa di vivo anche nella stanchezza, nella disaffezione, nello scontento, persino nell’incazzatura. Bisogna che venga fuori, per riprendere la strada comune, comune per noi, certo, ma, a pensarci bene, persino per gli altri che non la pensano come noi.

© 2025 Eddyburg