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«L’ampia selezione di notizie curata da Alberto Castagnola segnala come la percezione continua dei rischi nascosti in ogni prodotto chimico inventato negli ultimi decenni stia diventando una condizione di vita essenziale. Una percezione, pertanto, da diffondere al massimo grado e in ogni paese». Comune.info, 26 settembre 2016 (c.m.c.)

Questa rassegna fa emergere numerosi problemi vecchi e alcuni molto gravi che solo ora attirano l’attenzione degli organi di stampa, e tutti comportano gravi conseguenze per il pianeta e per la salute umana e animale. La complessità e la pervasività del sistema economico dominante, che riesce sempre ad imporre tempi lunghi e scadenze indefinite a ogni forma di controllo o anche solo di regolamentazione, continuano ad arrecare gravi danni agli esseri viventi che tentano di abitare il pianeta salvaguardando la loro salute ed evitando rischi prevedibili di origine umana.

Una percezione continua ed articolata dei rischi nascosti in ogni prodotto chimico inventato negli ultimi decenni sta diventando una condizione di vita essenziale, da diffondere al massimo grado in ogni paese. Questo sforzo di approfondimento e di denuncia deve diventare patrimonio di ogni persona che si sente responsabile anche verso la collettività nazionale e poi internazionale; non può essere trascurato o ritardato, pena danni crescenti e spesso irrimediabili.

Il sudest asiatico senz’acqua. A causa dei cambiamenti climatici e delle dighe sempre più numerose sul Mekong, la Cambogia e i paesi vicini sono colpiti dalla peggiore crisi idrica degli ultimi cinquant’anni. I mesi di siccità prima dell’arrivo delle piogge monsoniche sono spesso difficili per i pescatori e gli agricoltori cambogiani. Ma, con i fiumi che si prosciugano e l’acqua potabile sempre più scarsa, la situazione non è mai stata così critica.

La mancanza d’acqua che ha colpito il paese negli ultimi mesi negli ultimi mesi è legata al riscaldamento del Pacifico meridionale provocato dal fenomeno meteorologico del Nino, ma non solo, e gli esperti temono che la crisi attuale possa diventare la normalità per la Cambogia e i paesi vicini.(…). Secondo la direzione generale per gli aiuti umanitari e la protezione civile della Commissione Europea, in Cambogia 18 province su 25 soffrono per la penuria d’acqua e più di 93.500 famiglie povere delle aree rurali sono colpite dalla siccità. Come quelle che vivono nei villaggi galleggianti sul lago Tonlè Sap, alimentato dai tributari del Mekong. (…) La siccità colpisce duramente anche i paesi vicini.

In Thailandia i contadini lottano contro la mancanza d’acqua e 21 persone sono morte durante una ondata di caldo. In Vietnam circa due milioni di persone non hanno acqua potabile a sufficienza. A causa del basso livello del fiume (il più basso in un secolo), l’acqua salata risale più del solito nella regione del delta del Mekong e ha già distrutto il 10% delle risaie del paese. Una crisi che interessa i quasi sessanta milioni di persone che vivono nella regione del basso Mekong, l’80% delle quali dipende dal fiume per sopravvivere.

Questa situazione è causata dal clima, ma anche dall’aumento delle dighe sul fiume, che scorre attraverso la Cina, la Birmania, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam. Nel tratto superiore del Mekong, in territorio cinese, ci sono già sei dighe e le comunità che vivono a valle ne hanno avvertito le conseguenze. Altre undici sono in fase di progettazione nel tratto basso del fiume, due in Cambogia e le altre in Laos, dove due sono in costruzione. (Internazionale n. 1156, 2 giugno 2016, pag. 30)

Legge contro l’obesità. Arriva dal Cile una delle leggi più drastiche per cercare di ridurre l’epidemia di persone sovrappeso o obese, che nel paese andino raggiungono un indice pari al 64,5 % degli abitanti. Qualcuno l’ha definita la norma anti Kinder sorpresa o anti Happy Meal, per citare due popolari prodotti destinati ai bambini che qui come in tutto il mondo sono citati tra le cause dell’obesità precoce.

In Cile più del 30% dei piccoli tra zero e sette anni soffrono di eccesso di peso. L’esigente legge 20.606 punta proprio sull’idea di informare i genitori per evitare problemi ai figli. Un primo aspetto della norma è legata all0informazione: i prodotti confezionati devono avere una etichetta che avverta sugli alti contenuti di zuccheri, sodio, grassi saturati e calorie. Se oltrepassano i limiti stabiliti dal ministero della sanità, è obbligatoria una etichetta speciale, nera con le lettere bianche, che già inizia a vedersi regolarmente nei super mercati.

Nessuno di questi prodotti, inoltre, potrà fare pubblicità destinata ai bambini e agli adolescenti, ed essi non potranno essere venduti o regalati nelle scuole. La dieta tipica dei cileni non è considerata salutare. Solo il 5% della popolazione si alimenta in forma adeguata e gli indici di obesità si concentrano nelle fasce più basse dal punto di vista socioeconomico. (SETTE n. 22, 3 giugno 2016, pag. 59)

Caccia all’oro e pericolo mercurio.
Il governo di Lima, Perù, ha decretato lo stato di emergenza nella regione amazzonica di madre de Dios a causa degli alti indici di contaminazione di mercurio. Si stima che 50.000 persone, tra cui molti indios, possano entrare in contatto con il metallo e avere serie complicazioni di salute. La causa è la corsa all’oro nella regione. Estratto in forma illegale, l’oro viene separato dal terriccio lungo i fiumi grazie ad un procedimento nel quale è utilizzato il mercurio e i resti della lavorazione finiscono nelle acque.(SETTE n.22, 3 giugno 2016, pag.59)

Pillole e sciroppi: dove vanno a finire? Chi smaltisce pillole e sciroppi avanzati o scaduti in maniera corretta? Solo quattro cittadini su dieci, secondo l’Associazione persone con malattie reumatiche (apmar.it): i più li buttano nella pattumiera. «Eppure contaminano l’ambiente, soprattutto le acque; oltre a quelli che finiscono nella spazzatura , ci sono anche i medicinali che eliminiamo ancora attivi dall’organismo»,spiega Antonella Celano,presidente Apmar.«L’Osservatorio sull’impiego dei farmaci segnala un abuso, in particolare antinfiammatori e antibiotici. Inoltre il 70% degli italiani non controlla se ha già un farmaco in casa prima di farsene prescrivere uno nuovo: gli scarti aumentano e vengono smaltiti senza cautele, con alti rischi ambientali».

I principi attivi dispersi in suolo e acque possono ancora esercitare il loro effetto, con conseguenze per vegetali, animali e umani. Per questo Apmar, con Aifa, (agenzia farmaco.gov.it) lanca Green Health, campagna informativa per uso, conservazione e smaltimento consapevoli. «La regola è una: i medicinali vanno buttati solo nei contenitori davanti alle farmacie, dopo aver tolto confezioni di carta e blister di plastica o metallo. Nel dubbio, meglio chiedere al farmacista» (Io Donna, 4 giugno 2016, pag. 130)

Un elefante ucciso ogni 15 minuti. Gli USA vietano il commercio dell’avorio. Ma il bando non è ancora totale. In Africa i pachidermi erano 27 milioni, oggi sono 350mila. Dal 6 luglio negli Stati Uniti non sarà soltanto vietato importare le zanne degli elefanti (lo è da decenni) : si rischierà la galera anche commerciandole.

La differenza c’è. E pur non trattandosi d’un totale divieto – restano consentiti gli oggetti antichi più di un secolo, quelli che contengono meno di 200 grammi (i tasti dei pianoforti, varie armi da fuoco), i trofei dei cacciatori autorizzati (non più di due l’anno) e comunque si potrà commerciare l’avorio proveniente dagli elefanti asiatici che non siano a rischio estinzione, dai rinoceronti, dai trichechi e perfino dalle balene – però è un primo passo: una volta che l’oro bianco è entrato illegalmente negli Stati Uniti, perché di fatto entra, è poi impossibile capire se una palla di biliardo o il manico di un coltello siano fatti di materiale recente oppure vecchio, importato quando era permesso. (Corriere della Sera, 5 giugno 2016, pag. 25, con mappa dei traffici illegali).

I grandi conflitti di natura globale. (…) Un primo tentativo di mappatura a livello globale è stata fatta nel progetto Ejatlas, l’Atlante globale di giustizia ambientale. Il progetto è codiretto da Leah Temper e Joan Martinez Alier e coordinato da ormai 5 anni dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale dell’Università di Barcellona, in collaborazione con molte altre organizzazioni e singoli cittadini da circa 100 paesi. Ad oggi ha mappato più di 1700 casi di conflitti relazionati a attività estrattive, produttive e di smaltimento dei rifiuti e continuerà nei prossimi anni per includere aree e casi ancora poco conosciuti. (…).L’Italia ha contato su una rete di collaboratori e un lavoro di coordinamento di Cdca-A Sud per la produzione di una mappatura nazionale , con oltre 80 casi di conflitti e resistenza nel nostro paese (…) (Il Manifesto, 5 giugno 2016, pag. 6, con una mappa dell’Atlante)

Stallo sul glifosato, palla a Bruxelles. Il comitato di esperti dei 28 paesi rinvia per la terza volta il voto sull’erbicida. (Il Manifesto, 7 giugno 2016)

Il fallimento del glifosato. Le Monde, Francia. Il glifosato è un po’ come gli istituti finanziari statunitensi durante la crisi del 2008: too big to fail, troppo grande per fallire. Il principio attivo dell’erbicida Round Up è il pesticida più usato al mondo. Creato una quarantina di anni fa dalla Monsanto è diventato la base del modello agricolo dominante. Oggi se ne consumano 800mila tonnellate all’anno. Il glifosato è ovunque. E’ il prodotto chimico di sintesi più frequentemente rilevato nell’ambiente e il principale responsabile del declassamento delle fonti idriche in Francia. Ma anche se è too big to fail, il glifosato è comunque sull’orlo del fallimento.

Nel marzo del 2015 l’Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro lo ha classificato come «probabilmente cancerogeno» per gli esseri umani, proprio quando l’Unione europea voleva rinnovare l’autorizzazione alla sua commercializzazione. La reazione della società civile ha sorpreso tutto il mondo politico, a Bruxelles e nelle capitali europee. La Commissione europea pensava che per decidere il futuro del glifosato sarebbe bastato un semplice comitato tecnico. Non è andata così. Per tre volte non è stata raggiunta la maggioranza qualificata necessaria a rinnovare l’autorizzazione per 15 o 9 anni. Il 6 giugno è stata bocciata anche una prorha a 18 mesi. Francia Germania, Italia, Grecia e Portogallo si sono astenuti, sotto la spinta di un’opinione pubblica sempre più sensibile ai danni provocati dall’abuso di prodotti fitosanitari.

Ma c’è da dubitare che questi governi siano davvero preoccupati per l’ambiente e la salute. Per eliminare il glifosato senza sostituirlo con prodotti altrettanto dannosi serve un profondo rinnovamento del modello agricolo dominante, un progetto serio che permetta agli agricoltori di fare a meno di questo pesticida miracoloso. Invece i governi europei non hanno previsto nulla del genere e si aspettano che Bruxelles si assuma la responsabilità di una decisione che accetterebbero senza problemi. Così si rischia di rafforzare ulteriormente la sfiducia che circonda l’Unione e spinge i paesi europei a chiudersi in se stessi. (Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag. 19).

Al via la super-mega diga. Alla fine, non c’è (ovviamente) polemica ambientalista che tenga: la nuova più grande diga del mondo si farà. Nella repubblica Democratica del Congo, i lavori di Inga 3 (dopo la 1 e la due) partiranno in pochi mesi. Delle 11 aziende in gara per i lavori, che varranno 12 miliardi di euro, ne sono rimaste tre: alle cascate Inga realizzeranno la diga e una centrale elettrica da 4800 megawatt, il doppio dell’attuale capacità produttiva. Una manna per le miniere della regione, sempre a corto di energia. Con le fasi successive, il progetto dovrebbe arrivare a produrre 50mila MW, il 40% del fabbisogno dell’intero continente. Certo, 35.000 persone dovranno essere spostate, per non parlare dell’impatto sulla natura del fiume Congo. Un conto pesante. (SETTE n.23, 10 giugno 2016, pag.59)

Così muore la barriera corallina. Il cambiamento climatico rischia di modificare per sempre la barriera. Da mesi gli esperti studiano lo sbiancamento delle barriere coralline che ha raggiunto il suo record negativo storico. Il fenomeno distruttivo colpisce l’intero ecosistema ed è legato all’aumento della temperatura dell’acqua. Un sondaggio aereo condotto dal National Coral Bleaching Taskforce sulla Grande Barriera Corallina , in Australia, ha preso in esame 520 barriere lungo oltre 600 miglia di costa, nella punta settentrionale del Qeensland, nel tratto di costa compreso tra Cairns e lo Stretto di Torres, rivelandone il peggior sbiancamento mai registrato delle scogliere, con la conseguente morte dei coralli.

E’ un fenomeno che cambierà la Grande barriera Corallina per sempre, ha spiegato il biologo marino Terry Hughes. Lo sbiancamento dei coralli colpisce le barriere coralline e i loro ecosistemi. Il colore caratteristico dei diversi coralli è prodotto da un alga e diventa più vivo a seconda della concentrazione del microorganismo. A fronte di una alterazione dell’ecosistema, i polipi del corallo espellono l’alga simbiotica, con il risultato di fornire alla struttura calcarea una colorazione sempre più pallida e sfumata sino ad arrivare, nei casi più gravi, allo sbiancamento vero e proprio. (SETTE n.23, 10 giugno 2016, pag. 110)

La pietra blu dei taliban. L’estrazione illegale dei lapislazzuli favorisce la presenza dei taliban nel Badakhshan, una regione tradizionalmente tranquilla al confine con il Tagikistan. La battaglia tra i signori locali, emersi durante la guerra contro i sovietici, negli anni ottanta, per il controllo dei giacimenti della pietra blu, ha creato un clima di insicurezza che i taliban sfruttano a loro vantaggio. E’ l’allarme lanciato dall’organizzazione britannica Global Witness nel rapporto pubblicato il 5 giugno dopo due anni di indagini. La promessa del governo di Kabul di controllare il traffico di lapislazzuli imponendo un embargo sull’estrazione e il trasporto ha avuto un effetto limitato. Invece di finire nelle casse vuote dello stato, le rendite dei lapislazzuli sono una nuova fonte di finanziamento per i taliban. (Internazionale 1157, 10 giugno 2016, pag. 34)

La chimica delle lobby. Gli interferenti endocrini si trovano nei cosmetici e nei pesticidi e possono provocare malattie gravi. Ma da anni la Commissione europea blocca la regolamentazione di queste sostanze. E’ uno dei segreti meglio conservati d’Europa. Ed è tenuto sotto chiave da qualche parte nei corridoi della Commissione europea, in una stanza sorvegliata dove possono entrare solo una quarantina di funzionari accreditati e muniti unicamente di carta e penna. I cellulari vengono confiscati. Sono misure di sicurezza ancora più rigide di quelle previste per consultare i documenti del trattato di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti (Ttip).

Questo segreto è un rapporto di circa 250 pagine, nel gergo della Commissione europea uno “studio d’impatto”. La ricerca valuta le conseguenze “socioeconomiche” della regolamentazione di una famiglia di inquinanti chimici. Gli interferenti endocrini possono interferire con gli ormoni delle specie animali, compreso l’essere umano, e sono sospettati di essere all’origine di molte malattie gravi: tumori ormono-dipendenti, infertilità, obesità, diabete, disturbi neurocomportamentali.

Queste sostanze si trovano in moltissimi oggetti di uso comune come cosmetici, pesticidi e sostanze plastiche, per esempio il bisfenolo A. Nel medio periodo la loro regolamentazione interesserà interi settori dell’industria. In gioco ci sono miliardi di euro. La prospettiva di eventuali restrizioni o divieti preoccupa il mondo dell’industria. Il settore dei pesticidi in particolare non ha mai nascosto la sua ostilità a determinate disposizioni del regolamento europeo sui «prodotti fitofarmaceutici».

Adottato nel 2009, il regolamento riserva un trattamento speciale ai pesticidi: quelli riconosciuti come interferenti endocrini non saranno più autorizzati sul mercato. Il problema è come individuarli. La Commissione doveva quindi trovare il modo per distinguere gli interferenti endocrini dalle altre sostanze chimiche e definire i criteri che avrebbero permesso di identificarli. Senza questi criteri la legge non può essere applicata. Le autorità sanitarie nazionali, le aziende e le ong aspettano una decisione una decisione imminente su questi criteri di identificazione , che permetteranno di ridurre l’uso degli interferenti endocrini o addirittura di vietarne alcuni. Ma a sette anni dall’approvazione del regolamento i criteri non sono stati ancora definiti. Il principale responsabile del ritardo è proprio lo studio d’impatto e le sue conclusioni apparentemente confidenziali.

Lo studio è stato espressamente richiesto dal settore industriale per rendere meno vincolante la regolamentazione ed è stato ottenuto grazie ad una offensiva congiunta della lobby delle industrie dei pesticidi e della chimica all’inizio dell’estate del 2013. Le principali protagoniste di questa iniziativa sono state le loro organizzazioni di lobbying aa Bruxelles . l’Associazione europea di protezione delle colture (Ecpa) e il Consiglio europeo dell’industria chimica (Cefic). Molto attivi sono stati anche i giganti dell’agrochimica , come le aziende tedesche Basf e Bayer e la multinazionale svizzera Syngenta. (Stèphane Horel, Le Monde, Francia, testo integrale in Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag.50) [Sugli effetti di queste sostanze in particolare, vedi Marie-Monique Robin, il veleno nel piatto, Feltrinelli, pag. 333-403, N.d.R]

Anatomia di un incendio. Cosa è accaduto a Fort McMurray in Canada nel mese di maggio. (testo integrale in Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag.61-64)

Le larve del pesce persico ingeriscono la microplastica presente nell’acqua degli oceani. Secondo Science, questo ne rallenta lo sviluppo e ne altera il comportamento, rendendo le larve una facile preda. Inoltre, la microplastica riduce la percentuale di uova di persico che si schiude. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag. 108)

Secondo il Wwf, gli elefanti della riserva di Selous, in Tanzania, potrebbero estinguersi entro il 2022 se il bracconaggio continuerà ai ritmi attuali. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag.110)

Sei anni prima dell’abbandono totale del nucleare (previsto per il 2022), il governo tedesco ha adottato un progetto di legge che limita lo sviluppo delle energie rinnovabili modificando il sistema di incentivi. Le sovvenzioni sistematiche per chilowattora lasciano il posto a gare di appalto nei diversi land. La misura, che dovrà passare in parlamento, è stata varata per ridurre i costi transizione energetica, giudicando il settore pronto per una maggiore autonomia. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag. 110)

Airbag esplosivi
. Takata, azienda giapponese leader mondiale nella produzione di airbag, è al centro di uno di più grandi casi mai registrati di ritiro di prodotti difettosi, scrive Bloomberg Businessweek. «Il caso riguarda più di sessanta milioni di airbag montati sulle autovetture di Bmw, Honda, Ford, tesla, Toyota e di altre dodici case automobilistiche, e comunque su un quinto delle auto in circolazione negli Stati Uniti. In tutto il mondo potrebbero essere coinvolti più di cento milioni di veicoli».

Gli airbag hanno un difetto che rischia di farli esplodere, lanciando schegge pericolose per l’incolumità dell’autista e dei passeggeri. «Finora questi airbag hanno provocato 13 morti, di cui 10 negli Stati Uniti, e il ferimento di cento persone». Una commissione d’inchiesta del sanato statunitense ha svelato dei documenti da cui risulta che i vertici della Takata hanno a lungo sottovalutato gli avvertimenti lanciati dai loro tecnici. L’azienda, inoltre, avrebbe nascosto il problema alla Honda, il suo cliente principale, e alle autorità statunitensi. Ora potrebbero volerci tre anni prima che gli airbag difettosi vengano sostituiti. (Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag.117).

Quella tragica “partita” tra minatori e carbone
. Settant’anni fa. Una partita di livello europeo, tra Italia e Belgio, venne inaugurata esattamente settant’anni fa , il 23 giugno 1946. Niente di sportivo, fu una partita tragica. Per la verità, si presentò come un accordo. Il nostro governo prometteva alle autorità di Bruxelles di inviare in Belgio, al ritmo di 2000 alla settimana, almeno 50.000 giovani (di età inferiore ai 35 anni), da destinare al lavoro sotterraneo nei distretti carboniferi della Vallonia e delle Fiandre.

Ogni 1000 minatori “trasferiti”, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Per favorire l’arruolamento dei figli della miseria contadina, i paesi e le città, da Nord a Sud, furono tappezzati di manifesti rosa che invitavano ad andare. La repubblica italiana fu fondata su uno scambio tra uomini e carbone. Nel giro di un decennio sarebbero partiti ben più dei 50.000 giovani: punto di raccolta piazza Sant’Ambrogio a Milano, visite mediche sotto la stazione centrale, viaggio in convogli organizzati ad hoc: e dal giorno dopo, senza formazione, quei ragazzi sarebbero sprofondati nel cuore della terra, anche oltre i mille metri, per picconare la roccia, strisciare dentro i cunicoli, guidare i muli nelle gallerie, caricare e scaricare, usare l’esplosivo.

Lavoro terribile su cui i manifesti rosa sorvolavano, mentendo sulle condizioni di vita (gli “appartamenti” erano le baracche degli ex prigionieri di guerra. Sorvolano anche sulla sicurezza e i rischi, anche se i minatori italiani constatarono subito la frequenza degli incidenti e delle vittime. Ma l’8 agosto 1956 fu una catastrofe e dei 262 minatori morti a Marcinelle oltre la metà, (156), erano italiani. Da quel giorno le cose cambiarono, : gli italiani non erano più i “macaronì” cui era vietato l’accesso nei locali pubblici, divennero uomini morti non solo per se stessi e per le proprie famiglie, ma anche per risollevare della patria, di un paese straniero la cui manodopera non aveva voglia di consegnarsi al macello della miniera, di un intero continente prostrato dalla guerra. Stasera, prima che l’arbitro fischi l’inizio di Italia –Belgio, l’Europa dovrebbe per un momento ancora tener fuori la testa dal pallone per ricordare quei morti che furono (che sono) di tutti. (Corriere della Sera, 13 giugno 2016, pag. 35)

Iberdrola vende i parchi eolici e lascia l’Italia. Il gigante spagnolo delle rinnovabili Iberdrola si appresta a lasciare il mercato italiano dell’energia. Il gruppo di Bilbao, assistito da Unicredit e dai legali di Chiomenti, ha infatti firmato ieri l’accordo per la cessione del 100% dell’ultimo asset che possedeva nella penisola. Si tratta della Ser, la società che controlla una diecina di parchi eolici tra Sicilia e Puglia, per una potenza installata di circa 245 megawatt che ne fanno uno dei presidi più importanti nella penisola. Compra il fondo inglese Glennmont che invece in Italia è al debutto e ha valorizzato le rinnovabili di Iberdrola circa 400 milioni, debito incluso.

La Ser, acronimo di Società energie rinnovabili, è quella stessa azienda che nove anni fa aveva fatto da cornice all’alleanza tra il gruppo catalano dell’energia verde e la Api della famiglia Brachetti Peretti, con il 50% a testa. La joint venture era nata per realizzare 300 megawatt di impianti nel Sud d’Italia ed è stata archiviataquattro mesi fa dagli industriali che hanno venduto il loro 50% alla stessa Iberdrola. L’operazione del valore di 190 milioni, aveva riportato al centro della strategia Api la lavorazione del greggio e la distribuzione di prodotti raffinati.

D’altronde la missione della Ser era compiuta. La decisione del gruppo presieduto da Ignacio Galan di lasciare l’Italia era coerente con la strategia di concentrare le forze in Spagna. Al momento dell’acquisto delle quote dalla Api, Iberdrola in realtà aveva già ricevuto la manifestazione di Glennmont e ha esercitato la prelazione sulla quota del 50% di Api che sul fronte delle rinnovabili mantiene comunque un presidio nel fotovoltaico e nelle biomasse. (Corriere della Sera, 15 giugno 2016, pag.37)

Il fiore salva api. I semi della “facelia” ceduti gratis e piantati dai contadini emiliani. In Emilia, a San Lazzaro di Savena, è partito un progetto salva api. Un fiore viola potrebbe contribuire a salvare le api dall’estinzione. E’ tutto italiano il progetto di Coldiretti, partito in questi giorni nella campagna di San lazzaro di Savena, alle porte di Bologna. La più grande azienda sementifera italiana, la Sis (Società Italiana Sementi), società al 100% italiana, controllata dai Consorzi Agrari regalerà a tutti i coltivatori di mais una partita di semi di facelia che loro si sono impegnati a far crescere. Perché proprio la facelia? Non solo perché è spettacolare per via della inflorescenza viola, ma perché è una pianta mellifera molto nutriente per le api che vanno ghiotte del suo polline (…). (Corriere della Sera, 17 giugno 2016, pag. 21)

Interferenti endocrini. Dopo più di due anni di attesa la Commissione europea ha reso noti i suoi criteri per identificare gli interferenti endocrini, sostanze chimiche presenti in molti prodotti, che possono fare male alla salute. Secondo la definizione della commissione, un interferente endocrino è un a sostanza che agendo sul sistema ormonale, ha effetti indesiderati sulla salute umana scientificamente provati. Il fatto che non siano considerati anche gli effetti sugli animali, in natura e in laboratorio, ha sollevato accese polemiche. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag.97).

L’atlante delle luci nella notte. Un terzo dell’umanità non riesce a vedere la Via Lattea di Notte, scrive Science Advances. Un nuovo atlante mondiale della luminosità artificiale del cielo notturno mette in evidenza quali sono le zone con più inquinamento luminoso. Il paese più colpito è Singapore, seguito da Kuwait e Qatar. Le notti sono ancora buie in Ciad, Repubblica Centrafricana e Madagascar. Tra i paesi del G20 l’Italia è il più inquinato. L’inquinamento luminoso può avere conseguenze sulla salute e sull’ambiente ed è spesso indice di sprechi energetici. (Internazionale n. 1157, 17 giugno 2016, pag.97) [Vedi anche Corriere della Sera del 15 giugno 2016, pag.23; N.d.R]

Il gas serra che si fa roccia. E’ stato sperimentato con successo un metodo per assorbire in modo permanente l’anidride carbonica presente nell’aria. L’aumento di questo gas nell’atmosfera provoca l’effetto serra e il riscaldamento del pianeta. Per ridurne la quantità, scrive Science, è possibile iniettare il gas all’interno di rocce basaltiche sotterranee, a una profondità tra i 400 e gli 800 metri. In meno di due anni, l’anidride carbonica si trasforma in roccia. A differenza di altre tecniche, non ci sono rischi di fughe di gas, perché le nuove rocce sono stabili. Il test è stato condotto in Islanda, ma le rocce basaltiche sono presenti in molti paesi. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 97).
Le autorità canadesi hanno annunciato che l’enorme incendio che ha devastato per sei settimane la provincia dell’Alberta, in Canada, è sotto controllo. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 98)

Barriere coralline. Per tre anni la Nasa terrà sotto stretta osservazione aerea le barriere coralline di Hawaii, Palau, isole Marianne e Australia. Con i dati raccolti dallo spettrometro Prism, montato su aerei che volano ad alta quota, verranno costruite delle mappe utili a studiare gli effetti sui coralli del riscaldamento globale e dell’inquinamento. Si stima che lo sbiancamento dei coralli causato dall’aumento delle temperature abbia già ucciso più di un terzo della Grande Barriera Corallina Australiana. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag.98)

Il valore dell’avorio. L’immissione, nel 2008, di tonnellate di avorio legale sul mercato internazionale ha incentivato il mercato nero, incoraggiato il bracconaggio e provocato la morte di migliaia di elefanti. Secondo il Washington Post, i dati dimostrano che un’altra vendita come quella sarebbe molto rischiosa.

Il commercio di avorio era stato proibito nel 1989, ma nl 2008, in via sperimentale, è stata permessa un’asta di avorio ottenuto legalmente. Cina e Giappone ne hanno comprato più di cento tonnellate da Zimbabwe, Namibia e Botswana, che avevano raccolto le zanne degli animali morti per cause naturali. Ora Zimbabwe e Namibia vorrebbero ripetere l’esperienza. Tuttavia, secondo uno studio, l’asta del 2008 è diventata una copertura per il commercio illegale: il bracconaggio è aumentato del 66% e il mercato nero del 71%. Non succede sempre così, ricorda il quotidiano.

Gli allevamenti di coccodrilli, per esempio, sono riusciti a soddisfare la domanda e ad abbassare i prezzi, così tanto da mettere fuori mercato i bracconieri. Per gli elefanti è diverso: non è possibile allevarli e la quantità d’avorio prodotta in modo naturale non soddisfa la domanda. Intanto su Nature il ricercatore Duan Biggs si chiede se la distruzione dell’avorio illegale sia davvero efficace contro il mercato nero. Di recente il governo del Kenya ne ha bruciato 105 tonnellate , che avevano un valore di 220 milioni di dollari. Non si rischia di far diventare l’avorio ancora più raro, facendo salire i prezzi? (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 98).

Il cambiamento climatico potrebbe aver causato la prima estinzione di una specie di mammiferi. Un’èquipe di ricerca non ha più trovato tracce del Melomys rubicola,un roditore che vive su un isola dello stretto di Torres, tra l’Australia e la Nuova Guinea. (Internazionale n.1158, 17 giugno 2016, pag.98)

Quei lapislazzuli sono come i “diamanti insanguinati”. Diecimila miniere fuori dal controllodel governo. E finanziatrici, con il loro tesoro, dei talebani. Così, secondo la ong Global Witness (che ha investigato per due anni), i lapislazzuli sono diventati come i “blood diamonds” : minerali insanguinati. In Afghanistan , e in particolare nella remota provincia del Badakhshan, ci sono le riserve più grandi del mondo del “tesoro blu”, fra uno e tre trilioni di euro di valore. È da qui che presero la strada della Mesopotamia, dell’Egitto e nel Medioevo anche dell’Europa. Ora i principali giacimenti sarebbero fuori dal controllo di Kabul, proprietario di tutte le risorse ; ad essersene appropriato da due anni è il “signore della guerra” Abdul Malik, che incassa una fortuna ma sua volta paga tangenti ai talebani per 20 milioni di euro all’anno. Per la ong londinese, la prima cosa da fare sarebbe di dichiarare i lapislazzuli afghani “conflict minerals”, in modo da cominciare a controllarne il commercio. (SETTE n.24, 17 giugno 2016, pag.57)

Obesità e carburante. Negli ultimi 40 anni il peso delle persone è cresciuto di circa sei chili a testa, per un totale di 44 milioni di tonnellate. Lo dice la rivista The Lancet: dal 1975 al 2014 le perone obese sono passate da 105 a 641 milioni. Secondo i calcoli di Sheldon Jacobson, ingegnere dell’Università dell’Illinois, ogni anno le auto private americane consumano 4,3 miliardi di litri di carburante in più a causa dell’aumento di peso di conducente e passeggeri dal 1960 a oggi. (SETTE n. 24, 17 giugno 2016, pag.33)

Fasce orarie per slot machine. Il gioco d’azzardo fa entrare nelle casse dello stato italiano circa 9 miliardi di euro ogni anno. Nel nostro paese ci sono più di 400mila slot machine. Nel 2015 è stato calcolato un volume di affari che sfiora gli 88 miliardi di euro, pari al 4% del Pil, il prodotto interno lordo: 46 miliardi arrivano dalle slot machine e dai videopoker, 26 dalle lotterie e 16 dal gioco on line. Ci sono migliaia di persone che, inseguendo il sogno di cambiare la propria esistenza con vincite milionarie, si sono rovinate. La passione si trasforma spesso in una vera e propria ossessione, fa passare in secondo piano il lavoro, la famigli gli amici.

Una vera e propria dipendenza patologica , che come dimostrano numerosi studi, si associa ad altre dipendenze come quelle dalle sostanze stupefacenti e dagli alcolici, ma anche a disturbi psichiatrici e dell’umore. Ecco perché sarebbe opportuno estendere a tutta l’Italia le norme approvate alla fine di maggio dalla giunta comunale di Bergamo. Si tratta di un vero e proprio “Regolamento per la prevenzione e il contrasto delle patologie e delle problematiche legate al gioco d’azzardo. (…). (Io Donna, 18 giugno 2016, pag.66)

Un milione di ettari di oceano protetti. Il nuovo Tun Mustapha Park è la più grande riserva marina della Malesia, all’interno del delicatissimo Coral Triangle, una delle zone di maggiore concentrazione di coralli del Borneo (oltre 250 specie). L’obiettivo? Salvare l’ecosistema di pesci, alghe e mangrovie. Ma anche le popolazioni che lo abitano. (Io Donna, 18 giugno 2016, pag. 130).

Tanto solare, ma mai collegato. L’energia solare in Cile è talmente abbondante ed efficiente che i prezzi sono rapidamente arrivati a zero in alcune regioni, dissuadendo dunque gli operatori da nuovi investimenti. E’ il caso del nord semidesertico del paese, dove la crescita economica e soprattutto la fame di energia del settore minerario avevano spinto alla costruzione di 29 parchi solari e a prevederne altri 15. E’ successo invece che il rallentamento dell’attività e l’efficienza del sistema hanno portato in breve tempo ad un eccesso di produzione e di offerta di energia.

Gli investitori stanno perdendo denaro ed è improbabile che si impegnino nel resto del paese, dove invece c’è ancora domanda di solare. Uno dei problemi principali del Cile, un paese lungo e stretto, è che le reti elettriche tra il nord e il resto del paese non sono interconnesse. Quindi il surplus di produzione di energia non può “viaggiare” . Il governo ha promesso di risolvere il problema nei prossimi anni con la costruzione di una linea di oltre 700 chilometri. (SETTE n.24, 17 giugno 2016, pag.55)

Perché piove così tanto in Italia? Nel mese in cui gli italiani si aspettano il sole e sognano il mare, il Nord ( e la Lombardia in particolare), è attraversato da nubifragi e temporali. Il lago di Como è esondato, con i turisti costretti a camminare nell’acqua nella centralissima Piazza Cavour. Piogge violente si sono abbattute su Monza, sulla Bergamasca, sul Lecchese. Giovedì a Venezia è tornata l’acqua alta: 117 centimetri sul livello medio del mare. Dal 1872 (quando sono iniziate le misurazioni), c’è un solo precedente simile a giugno, nel 2002. Infine le mareggiate: ieri hanno colpito la costa romagnola, tra Ravenna e Cervia, e quella ligure.E il maltempo è costato al litorale veneziano un calo intorno al 15% dei turisti di giugno. Intanto al Sud è scoppiata l’estate e la Sicilia brucia. Nel palermitano le temperature superano i 40 gradi.

I nubifragi. Tra le città più battute dalla pioggia tra maggio e questa prima metà di giugno c’è il capoluogo lombardo. “ Dal 21 marzo a giovedì la stazione di Corsico ha registrato 315 millimetri di precipitazioni – spiega Lorenzo Craveri, agrometeorologo dell’Agenzia regionale per l’ambiente della Lombardia – A Cinisello Balsamo 327, in quella del Parco Lambro addirittura 428. La media del quindicennio da 1990 al 2015, quindi già con gli effetti dei cambiamenti climatici in atto, era di circa 250 millimetri. E non devono trarre in inganno i due giorni di tregua apparente: nei prossimi giorni torneranno i temporali.(…)

Le anomalie.Eppure c’è qualcosa che non torna nel clima degli ultimi mesi. “L’anomalia c’è su un arco temporale più ampio, – prosegue Sanò, direttore del portale Ilmeteo.it – Da novembre dell’anno scorso abbiamo avuto un inverno praticamente inesistente, con temperature molto miti. Al Sud addirittura non è mai arrivato e anche al Nord le medie sono state più alte del normale di 5-6 gradi. Poi la primavera che ha zoppicato e oggi l’Italia è divisa in due. Il Sud registra un ondata di caldo intenso, mentre al Nord rimangono temporali e fresco, almeno fino all’inizio della prossima settimana. Infine la tendenza, che si è consolidata negli ultimi venti anni, al moltiplicarsi di fenomeni temporaleschi intensi e di breve durata, che una volta erano rari. Cambiamenti legati a ciò che i climatologi chiamano “estremizzazione del clima”.

Temporali tropicali. “Al di là della quantità totale di acqua caduta, conta il modo: i rovesci sono improvvisi, intensi e brevi. Assomigliano sempre di più a temporali tropicali – conferma Federico Antognazza, ingegnere ambientale dell’Italian Climate Network – il surriscaldamento globale porta cambiamenti specifici a livello locale ed eventi meteorologici tipici di zone più calde iniziano a verificarsi pure alle nostre latitudini. Anche il caldo che in queste settimane si è alternato alla pioggia si spiega così: sulle Alpi ghiacci e neve si sciolgono, diminuisce la superfice riflettente, e il calore della radiazione a terra sale in fretta: per questo le temperature tornano ad aumentare subito”. Se la pioggia raffredda la primavera, la febbre del Pianeta non accenna a guarire.. ( Elena Tebano, Corriere della Sera, 18 giugno 2016, pag.20, con foto)

Interferenti endocrini, la definizione di Bruxelles. Abbandonando il principio di precauzione, la Commissione europea chiede prove certe per vietare le sostanze che agiscono sul sistema ormonale Una scelta che fa discutere. Il 15 giugno la proposta finale della Commissione europea sulla regolamentazione degli interferenti endocrini ha sorpreso tutti. La commissione ha deciso che per poter definire una sostanza un “interferente endocrino” servono prove certe dei suoi effetti nocivi sulla salute umana, un livello di prova della pericolosità molto difficile da raggiungere , secondo alcuni addirittura impossibile. Le promesse di restrizioni e di divieto previste nel regolamento che disciplina la vendita di pesticidi in Europa potranno essere mantenute con il contagocce.

Negli ultimi 25 anni sono stati accumulati dati preoccupanti sui prodotti chimici che interferiscono con il sistema ormonale (endocrino) degli esseri viventi. Si tratta di sostanze presenti in molti prodotti di largo consumo (come plastiche, cosmetici, vernici) e si sospetta che contribuiscano all’aumento di diverse patologie, come l’infertilità o alcuni tumori, e che interferiscano con lo sviluppo cerebrale. Molti studi hanno cercato di quantificare il costo per la collettività delle malattie legate agli interferenti endocrini. Le stime oscillano tra i 157 e i 288 miliardi di euro all’anno in Europa.

Ma questi dati non sembrano aver avuto molta importanza nello studio di impatto socioeconomico della commissione. Per regolamentare gli interferenti endocrini la commissione propone infatti di adattare la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2002. Questa scelta implica non solo che gli effetti nocivi di una sostanza devono essere dimostrati e devono coinvolgere il sistema ormonale, ma devono anche essere “pertinenti” rispetto alla salute umana. Il problema è che alcuni segnali di allarme vengono dal mondo animale e non sono tutti necessariamente “pertinenti” nel senso voluto dalla commissione. L’imposex, per esempio, è un disturbo endocrino che provoca lo sviluppo del pene nelle femmine di buccino (un tipo di mollusco). E anche se non è stato osservato finora nessun problema equivalente negli esseri umani, è stato comunque lanciato l’allarme sugli interferenti endocrini della famiglia degli stannani (composti metallorganici)., che sono all’origine della malformazione.

«La Commissione europea ha messo la barra così in alto che sarà difficile arrivarci, anche se le prove scientifiche dei danni ci sono», ha osservato in un comunicato l’Endocrine Society, la società scientifica degli endocrinologi, che ha 18mila iscritti in 120 paesi, e che parla di un “fallimento per la salute pubblica”. Anche le ong sono critiche: «Il livello di prova della pericolosità è così elevato che ci vorranno anni di problemi della salute prima di poter ritirare dal mercato» un interferente endocrino, osserva Lisette van Vilet dell’Associazione Heal, che rappresenta più di 70 ong nel settore della sanità e dell’ambiente in Europa. (…) (Stéphane Horel, Le Monde, Francia; Internazionale n. 1159, 24 giugno 2016, pag.102). [La proposta sarà ora sottoposta al vaglio dei 27 paesi membri, prima di tornare al parlamento europeo per l’approvazione, N.d.R.]

«Agrochimica. La tedesca Bayer compra la statunitense Monsanto per 66 miliardi di dollari. Agricoltori e ambientalisti: "Biodiversità a rischio". Cia e Coldiretti: con il monopolio i prezzi potrebbero salire. Greenpeace mette in guardia sulla diffusione del glifosato». Il manifesto, 15 settembre 2016

Il matrimonio alla fine è andato in porto: la tedesca Bayer ha acquisito la statunitense Monsanto per 66 miliardi di dollari. Nasce così un colosso dell’agrochimica che secondo le associazioni dei coltivatori e gli ambientalisti minaccia di costituire un oligopolio, se non in alcuni casi un vero e proprio monopolio, nel campo delle sementi, dei fitofarmaci e degli Ogm. Già Bayer controllava il mercato dei pesticidi, mentre Monsanto quello delle sementi: la fusione porterà il nuovo gigante al 24% e al 29%dei due rispettivi comparti. Settori chiave non solo per l’agricoltura, ma anche per la sicurezza del nostro cibo.

Si tratta della maggiore acquisizione aziendale da parte di una società tedesca all’estero. Bayer prevede che l’operazione inciderà in positivo sugli utili a partire dal primo anno pieno dopo la chiusura, prevista entro la fine del 2017, e ritiene di realizzare sinergie su costi e vendite per 1,5 miliardi di dollari a partire dal terzo anno. La convenienza finanziaria e industriale è insomma evidente, agendo le due multinazionali in mercati perfettamente integrabili. Più preoccupati appaiono, al contrario, gli operatori del settore agricolo, che a questo punto temono ad esempio il rialzo dei prezzi.

«La fusione tra i due colossi sposterà sicuramente gli equilibri di mercato – commenta il presidente della Cia-agricoltori italiani, Dino Scanavino – Noi monitoriamo con occhio vigile su quello che più ci interessa, ovvero che non sussistano elementi per la creazione di un vero e proprio monopolio di mercato delle sementi, della chimica e dei mezzi tecnici necessari ai produttori».

Secondo Coldiretti, «Monsanto è stata spinta a vendere dallo storico flop delle semine Ogm, crollate del 18% in Europa nel 2015 e per la prima volta arretrate a livello mondiale, con 1,8 milioni di ettari coltivati in meno. È la conferma della crescente diffidenza dei produttori nei confronti di una tecnologia che non rispetta le promesse miracolistiche».

Il matrimonio tra i due colossi della chimica «genera – prosegue Coldiretti – una posizione di oligopolio che aumenta anche lo squilibrio di potere contrattuale nei confronti degli agricoltori. È evidente la necessità per l’Italia di salvaguardare il patrimonio unico di biodiversità di cui dispone con un maggiore impegno nel presidio di un settore determinante per la difesa dell’ambiente ma anche per la competitività del made in Italy».

«C’è il rischio di un possibile incremento dei prezzi delle sementi per gli agricoltori, ma non nell’immediato», conferma Felice Adinolfi, docente di Economia e politica agraria all’Università di Bologna. Adinolfi aggiunge che c’è però «ancora un’incognita per il via libera definitivo»: nel contratto, le cui trattative erano iniziate a maggio scorso, è stata concordata una penale di 2 miliardi di dollari nel caso in cui arrivasse lo stop dell’Antitrust Usa.

Il timore, quindi, non riguarda solo gli operatori economici – preoccupati dalla restrizione della concorrenza e costretti di fatto a rivolgersi a un fornitore unico – ma anche le associazioni ambientaliste e dei consumatori. Il nodo della biodiversità, infatti, impatta direttamente su quello che mettiamo in tavola, sulla nostra dieta.

Allarme anche da Greenpeace: la responsabile campagna Agricoltura sostenibile Federica Ferrario, proprio sul manifesto, aveva già in maggio evidenziato diversi pericoli: «Monsanto commercializza un erbicida, il glifosato, con il nome di Roundup: dopo una valutazione dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) è sospettato di provocare il cancro negli esseri umani, oltre che rappresentare un rischio grave per la biodiversità».

«L’esperienza – conclude Greenpeace – ci mostra che una maggiore concentrazione porta a: focalizzarsi e sviluppare solo poche colture e varietà (pericolo per la biodiversità); un probabile aumento del costo delle sementi; una maggiore pressione sugli agricoltori».

«Il comitato per il sì: "Se passerà la riforma costituzionale sarà più semplice cercare ed estrarre gas e petrolio"». Rifondazione.it, 13 settembre 2016 (c.m.c.)

«Il Comitato per il sì» fa sapere che, se passerà la riforma costituzionale, sarà finalmente possibile rilanciare le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio nel nostro Paese.

Per fare questo, afferma il Comitato, occorre riportare la competenza legislativa sull’energia nelle mani dello Stato; in questo modo, si «delinea un quadro chiaro e preciso delle competenze esclusive dello Stato e delle Regioni» e si riduce, per conseguenza, anche il contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

Un indisturbato rilancio delle attività petrolifere produrrebbe, inoltre, immediati benefici per i cittadini italiani, in quanto alleggerirebbe il costo delle bollette del gas e della luce e ci farebbe stare, in generale, più tranquilli: «senza petrolio e derivati» – dichiara il Comitato – «le nostre macchine non circolerebbero, e con esse la gran parte dei beni (anche di prima necessità) che nel nostro paese viaggiano su gomma». Per il Comitato, infine, tra i progetti strategici da realizzare vi è anzitutto quello della TAP (il megagasdotto che dalla Puglia attraverserà l’Italia intera).

Alcune osservazioni:

1) Ricordo che nei mesi che hanno preceduto la celebrazione del referendum NO Triv, Renzi dichiarava che nessuno volesse autorizzare nuove ricerche e nuove estrazioni, ma che fosse necessario “risparmiare energia”, e cioè consentire che si continuasse solo a spremere il giacimento fino in fondo. Evidentemente ora avranno cambiato idea.

2) Vero: l’energia, collegandosi strettamente alla politica economica del nostro Paese, non può essere materia di competenza legislativa concorrente Stato-Regioni.

E infatti non lo è mai stato: la legge n. 239 del 2004 l’ha attribuita allo Stato, nonostante la Costituzione dicesse il contrario. E la Corte ha detto che questa attribuzione fosse legittima, a patto che lo Stato consentisse alle Regioni (e agli Enti locali) di partecipare alle decisioni da assumere.

Quindi, quello che, in realtà, cambia con la riforma è questo: se passerà il «sì» sarà sempre possibile cancellare il diritto dei territori di poter decidere assieme allo Stato. E se passerà il «sì», le modifiche accolte nella legge di stabilità – con le quali il Parlamento ha stabilito che la partecipazione delle Regioni non dovesse essere solo di facciata – si andranno a far benedire.

3) La riforma non riduce il contenzioso; al contrario, lo inasprisce. Per più motivi (non è questa la sede per approfondire la questione) e per una ragione semplice, ovvia: è fisiologico che decidendo di modificare i confini tra ciò che spetta a me e ciò che spetta a te occorrerà fare nuovamente chiarezza. E a questo ci penserà appunto la Corte costituzionale.

Le lungaggini di cui parla il Comitato non sono dovute ai ricorsi pendenti dinanzi alla Corte costituzionale, ma, semmai, ai giudizi pendenti dinanzi al TAR. Ma, anche in questo caso, non sono tantissimi. E comunque raramente – anzi, direi: quasi mai – il TAR ha concesso la sospensiva del provvedimento.

Il Comitato discorre di «oltre 8200 leggi regionali esaminate dal Consiglio dei Ministri». Cosa c’entra questo con le lungaggini dei procedimenti amministrativi? Tutte le leggi regionali – nessuna esclusa – vengono esaminate dal Consiglio dei Ministri. Se poi ci si vuol dolere del fatto che le Regioni legiferino e che ricorrano alla Corte costituzionale per tutelare le proprie competenze, allora sopprimiamole direttamente: sarebbe meno ipocrita, credo.

4) Chi ha scritto l’articolo è un grande ignorante, in quanto ignora che la TAP non porterà gas nelle case degli italiani: si limiterà ad attraversare il nostro Paese per portare gas in Europa. Quindi non si vede in che modo le bollette dei cittadini sarebbero più leggere!

«G20. Al summit di Hangzhou Obama e Xi Jinping consegnano a Ban Ki-moon la storica ratifica sul clima. L’accordo Usa-Cina dà una spinta a Russia e Ue per ratificare Cop21 ». Il manifesto, 4 settembre 2016 (c.m.c.)

La ratifica di Stati uniti e Cina dell’Accordo di Parigi sul clima globale, alla vigilia del G20, è un segnale forte per tutto il mondo e in particolare per i Paesi più industrializzati. Perché entri in vigore legale l’Accordo firmato lo scorso dicembre a Parigi deve essere ratificato da Paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra. Finora lo avevano ratificato una ventina di Paesi che rappresentano però l’1% circa delle emissioni globali.

Cina e Usa – i primi due emettitori di gas serra del pianeta – «pesano» il 38% delle emissioni globali. La ratifica dell’Ue – che rappresenta circa il 12% delle emissioni – ha un percorso più complesso – va ratificata anche dagli Stati membri – e ci aspettiamo l’esempio sino-americano aiuti l’Ue a sveltire il processo.

Se il segnale politico è forte e dunque un messaggio positivo per la salvaguardia del clima globale, va visto come un punto di inizio – necessario per dare valore legalmente vincolante ai contenuti dell’Accordo – ma non sufficiente di per sé. Infatti, com’è noto, gli «impegni volontari» presentati a Parigi non consentono in alcun modo di raggiungere gli obiettivi fissati – mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C e meglio entro il 1,5°C.

L’accelerazione impressa da Cina e Usa, se da una parte può velocizzare l’entrata in vigore legale dell’accordo implica anche una seria revisione degli obiettivi di riduzione, che vanno rafforzati e non poco per tenere il pianeta sotto la soglia dei 2°C per non parlare dell’obiettivo più rigoroso del 1,5°C.

Se le emissioni globali di CO2 hanno smesso di crescere negli ultimi due anni – grazie soprattutto alla riduzione dei consumi di carbone registrata in Cina – è necessario che presto inizino a diminuire e rapidamente. Gli investimenti in fonti rinnovabili sono per fortuna cresciuti, ma non sono ancora sufficienti, secondo le stime di Greenpeace, dovrebbero quadruplicare nel prossimo decennio rispetto a oggi. Inoltre molti dei Paesi del G20 continuano a pianificare la costruzione di nuove centrali a carbone che invece vanno progressivamente chiuse.

La «grande trasformazione» energetica che è necessaria a salvare il clima globale è oggi più praticabile di quanto si creda o di quanto lo fosse anche solo fino a pochi anni fa. In questi giorni una gara d’appalto in Cile per la costruzione di una centrale da 120 MW è stata vinta con un prezzo dell’elettricità pari alla metà del costo dell’elettricità da carbone. Una cosa impensabile solo 5 anni fa e che oggi si va ripetendo in diversi Paesi.

Nel rapporto Brown to Green di Climate Transparency – preparato per valutare il comportamento dei Paesi del G20 sul clima globale – se da una parte si riconosce lo sforzo sulle rinnovabili che vede tra i Paesi con le quote maggiori Brasile, Canada, India, Sudafrica, l’Eu e l’Italia – dall’altro valuta tra i peggiori Paesi per le politiche del clima a scala nazionale proprio Italia, assieme a Giappone e Turchia, mentre dà atto alla Francia di aver condotto in porto l’Accordo di Parigi e alla Germania di aver posto il tema della decarbonizzazione nell’agenda del G7.

La serietà dell’impegno cinese è corroborata da alcuni fatti precisi avvenuti nel 2015: la produzione da eolico (31GW) e solare (15GW) è cresciuta più della domanda di elettricità, il consumo di carbone è diminuito per il terzo anno consecutivo. Inoltre, i nuovi obiettivi rinnovabili per la Cina equivalgono ad aggiungere in 5 anni elettricità verde pari all’intera produzione della Gran Bretagna.

La pochezza delle politiche in Italia la si vede nella flessione nel settore delle rinnovabili, come anche nella totale mancanza di interlocuzione del governo con il settore e le misure per bloccare l’autoconsumo da rinnovabili.

Come evidenziato dal rapporto di Greenpeace Rinnovabili nel mirino, siamo passati dai 150 mila impianti solari entrati in esercizio nel 2012 ai 722 del 2015; il settore eolico – che in uno scenario di crescita moderata potrebbe portare a oltre 60mila occupati – nel 2014 ne ha invece persi 4000. Allo stesso tempo, secondo il Fmi, i sussidi alle fossili in Italia sono in aumento.

All’indomani del referendum sulle trivelle, il presidente del consiglio ha tenuto una conferenza stampa con Eni ed Enel per riproporre cose già decise o già nei piani industriali, oltre che per annunciare gli investimenti solari di Eni. Alcune centinaia di MW solari sono una cosa in sé positiva ma che rimane del tutto marginale rispetto agli investimenti dell’azienda e che soprattutto non ne modifica la logica industriale.

Un messaggio sostanzialmente di greenwashing, peraltro fortemente sostenuto dalla campagna pubblicitaria dell’azienda petrolifera in queste settimane.In piena campagna referendaria, il presidente del consiglio ribadì sui social nella diretta #matteorisponde l’obiettivo di portare al 50% la produzione da rinnovabili di elettricità entro la legislatura. È così scandaloso chiedere se e come questo obiettivo concreto proclamato da Renzi – obiettivo in linea con la grande trasformazione necessaria per dar seguito agli Accordi di Parigi – verrà messo in pratica? Attendiamo da tempo risposta.

«È necessariouno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspettio sono intrecciati: ricostruire è necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere». Il manifesto, 4 settembre 2016 (p.d.)

Le prime dichiarazioni del governo circa l’urgenza, la necessità e l’importanza tanto di una rapida ricostruzione di quanto distrutto dal terremoto, «dov’era e com’era», quanto dell’avvio di un massiccio programma di risanamento del territorio, sembrano dettate – una tantum – da un minimo di razionalità economica, ecologica e sociale (si parla addirittura di partecipazione dal basso): speriamo non si tratti di annunci opportunistici.
È bene che sia chiara all’inizio l’esigenza di uno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspetti peraltro sono intrecciati: ricostruire è certo necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere. E acquista maggiore senso se – come hanno già detto tra gli altri Guido Viale, Salvatore Settis, Piero Bevilacqua, Tomaso Montanari – si inserisce in un quadro di tutela e valorizzazione dei contesti e dei paesaggi interni, spesso abbandonati a se stessi. Di cui sorprende addirittura la capacità di attrarre turismo sociale legato alla qualità identitaria del territorio e dell’ambiente, al di là dei «ritorni estivi al paesello».

Va detto tuttavia che, a fronte dello straordinario impegno da profondere nelle ricostruzioni e nella difesa del territorio, le operazioni da fare devono caratterizzarsi, più che per «eccezionali trovate progettuali» (comode forse per il consenso politico e il richiamo mediatico suscitabili dall’eventuale presenza di archistar) per «ordinarie» operazioni di pianificazione contingenti e strategiche. Capaci di contestualizzare i modelli ricostruttivi idonei nel caso dell’Appennino marchigiano-laziale, nonché di attualizzare e risignificare i programmi di difesa, di messa in sicurezza del territorio e degli insediamenti, già contenuti in molta recente pianificazione paesaggistica e territoriale.

È bene soffermarsi brevemente su ciascuno dei momenti che costituiscono il processo di gestione dell’emergenza-ricostruzione-preservazione-valorizzazione del territorio.

1) Per quanto riguarda il primo momento, ovvero il ricovero dei senza casa da inagibilità, è positivo che si siano scartate le soluzioni – no town più che new town – tipo il berlusconiano Progetto Case per L’Aquila. E si tenti invece di andare incontro alle esigenze degli abitanti di restare il più vicino possibile alle residenze distrutte; anche come pressione per un ripristino ricostruttivo rapido. Tra le risorse utilizzabili per questo, oltre e più che sulle «casette in legno tipo Map» ai prefabbricati, ai container, si può puntare sull’utilizzo delle case integre e vuote, presenti nei quartieri e soprattutto nei comuni viciniori a quelli più colpiti.

Il processo di ricostruzione può così integrarsi con quello di valorizzazione dei nuclei urbani e dell’ambiente: anche iniziando a riusare quell’enorme monumento allo spreco costituito dall’ingente quota di case vuote. Con processi che potrebbero interessare oltre che i terremotati anche gli altri disastrati, ovvero i migranti disponibili a diventare operatori dei territori interni per azioni di tutela e valorizzazione sostenibile.

Con azioni analoghe a quelle promosse, piuttosto in sordina, per la prima accoglienza, dalle prefetture per conto dei ministeri degli Interni e delle Infrastrutture, i sindaci potrebbero chiedere ai titolari di case vuote – anche privati – la disponibilità all’utilizzo, a canone sociale provvisto dai fondi emergenziali, per il ricovero temporaneo dei senza casa. Oltre che più in generale per qualsiasi tipo di accoglienza.

A questo proposito è utile ricordare che gli edifici vuoti o sottoutilizzati ammontano secondo l’Istat a 5.550 circa in provincia di Rieti, 5.650 in quella di Teramo, 21.100 a L’Aquila, 1.970 a Terni, 2.190 nel territorio provinciale di Ascoli Piceno. Laddove gli alloggi non utilizzati da residenti sono pari nelle stesse province rispettivamente a 59.000 (Ri), 25.100 (Tr), 48.650 (Tm), 95.000 (Aq), 27.000 circa (Ap).

2) La ricostruzione delle strutture abitative, di servizi, storico-culturali, distrutte o danneggiate, sembra, per volontà corale, dover seguire il modello del ripristino urbanistico e architettonico («dov’erano, com’erano», appunto). Qui va fatta attenzione perché la medesima tipologia architettonica può perseguirsi anche con diverse, più attuali e sicure, tipologie costruttive. È importante mantenere la «coerenza interna» delle strutture portanti degli edifici: puntellare parti di essi con elementi di consolidamento parziale può rivelarsi anche un grave errore; specie allorché c’è stata attenzione relativa alla compatibilità con la consistenza strutturale. Ciò che emerge talora drammaticamente in caso di eventi sismici o idrogeologici rilevanti.

3)La prevenzione degli eventi sismici costituisce problematica fondamentale; sempre evocata al momento di catastrofi da terremoti, frane o alluvioni. Ma mai realmente perseguita. Come peraltro è quasi ovvio in questa fase caratterizzata da «una politica istituzionale assai mediatizzata» e spesso subalterna agli interessi finanziari.

Gli stessi che privilegiano i «grandi eventi» o le «grandi opere» che infatti muovono grandi flussi di capitali; e spesso vedono gli operatori pubblici impegnatissimi ad acquisire da banche o agenzie di settore quelle risorse finanziarie che non ci sono. La prevenzione nella difesa del territorio deve invece essere unitaria (difesa da tutti i rischi, in primis frane e terremoti), pianificata.

E costa molto, per prefigurare, disegnare, integrare e realizzare sistemi di piccole opere coordinate (in cui i grandi operatori finanziari si muovono a disagio e che quindi avversano). La stessa denominazione che il governo ha attribuito a questa fase operativa – «Piano Casa Italia» laddove serve un grande programma territoriale – dimostra di non, o non aver voluto, cogliere la vera essenza della tutela. Ovvio sottolineare infatti come prevenzione antisismica e idrogeologica si completano a vicenda, in un modello che tende al ripristino dei caratteri di consistenza e di resilienza ecosistemica dei territori.

La prevenzione sismica e idrogeologica e da altri rischi (es. incendi) deve essere quindi integrata, unificando le competenze oggi frammentate di Protezione Civile e ministeri delle Infrastrutture, Ambiente, Beni Culturali. Sarebbe ora di promuovere il ministero del Territorio che integri le diverse azioni gestionali e coordini le varie strategie.

Le risorse che servono sono ingenti: è corretta l’idea del programma pluriennale, anzi pluridecennale, ma basta sommare le cifre ufficiali fornite dagli stessi uffici ministeriali per capire che 1,5- 2 miliardi di euro annui, anche per 10 o 20 anni, costituiscono solo una piccola parte del necessario. Stime ufficiali del MISE per la Programmazione Regionale parlano di 65 miliardi per la sola messa in sicurezza antisismica delle attrezzature pubbliche, oltre 40 miliardi per quelle private, 55 miliardi per il riassetto idrogeologico e 15 per fronteggiare gli altri rischi: siamo circa a 180 miliardi di euro – peraltro meno delle risorse previste per le grandi opere della Legge Obiettivo.

Va bene l’idea di piano ventennale: purché la finanziaria – altro che stabilità – preveda per questo un portafoglio di almeno 10 miliardi di euro annui. È la prima, più grande e estremamente urgente, opera di cui necessita quello che era il Bel Paese.

«Ultima versione del manifesto di Trevico,il testo è stato elaborato durante la festa d’inverno della paesologia.» comunità provvisorie blog di Franco Armino, 2 settembre 2016 (c.m.c.)


Viviamo in un’epoca volante, ma è il volo dentro una pozzanghera.
Stiamo morendo e stiamo guarendo, stanno accadendo tutte e due le cose assieme.

Noi proponiamo l’intreccio di poesia e impegno civile. Abbiamo bisogno di poeti e contadini. Amiamo Pasolini e Scotellaro, amiamo chi sa fare il formaggio, chi mette insieme il computer e il pero selvatico.

Crediamo che bisogna unire le varie esperienze che si vanno opponendo alla deriva finanziaria e totalitaria dell’intero pianeta. Non basta, ad esempio, parlare di decrescita. Non basta la premura di avere prodotti alimentari buoni e sani. Non bastano le battaglie per la difesa del paesaggio e dei beni comuni. E non bastano i partiti che ci sono o quelli che si vorrebbero costruire.

Noi crediamo alle Comunità Provvisorie che uniscono queste esperienze diverse e altre ancora, annidate sui margini. Parliamo di Italia Interna, parliano di paesi e montagne. Il loro svuotamento in atto da qualche decennio ha effetti che generano nello stesso tempo desolazione e beatitudine.

Non dobbiamo redimere nessuno, pensiamo che in fondo ognuno fa quello che sa fare, però è necessario svolgere qualche serena obiezione all’esistente.

Non stiamo riproponendo la questione meridionale. Ragioniamo su ogni lembo di Occidente che non è stato annientato dal mito del Progresso. C’è un fuoco centrale, una geografia commossa del nostro agire che si muove tra Trevico e Aliano e che si allarga a frammenti urbani e costieri dell’Italia e del Mediterraneo.

Vogliamo che si dia finalmente forza alla Strategia Nazionale dell’Italia Interna.
Per fermare l’anoressia demografica bisogna mettere al centro di tutte le politiche il lavoro giovanile e bisogna trasformare i piccoli paesi da musei delle porte chiuse e degli anziani soli, a luoghi di accoglienza per i migranti, per i nuovi agricoltori e gli artisti: noi crediamo che la musica e il canto siano preziosi per riattivare le Comunità.

Crediamo sia ora di finirla col discredito verso la politica e gli interventi pubblici. C’è bisogno di un grande investimento dello Stato per mettere in sicurezza le case fragili delle zone altamente sismiche.

Chiediamo che l’articolo 42 della costituzione sia intenso sempre più nel senso di garantire la funzione sociale della proprietà. In altri termini i palazzi dell’Italia interna non utilizzati dai proprietari devono diventare beni comuni.

Vogliamo l’istituzione di un grande Parco Rurale che parta dall’Appennino ligure e arrivi fino alle montagne della Sicilia.

Vogliamo una legge sui Piccoli Comuni che favorisca con investimenti importanti il riequilibro delle popolazioni sui territori. Una legge molto più coraggiosa di quella in discussione da anni in Parlamento.

Vogliamo lo stop al consumo di suolo e una politica che sostenga con decisione l’inserimento dei giovani nell’agricoltura.

Vogliamo che non venga più installata nessuna pala eolica che non sia patrimonio comune: crediamo che le pale già installate debbano portare benefici ben maggiori alle casse dei comuni che le ospitano. Siamo contrari a ulteriori trivellazioni petrolifere e allo sfruttamentto delle risorse naturali da parte di colonizzatori vecchi e nuovi.

Consideriamo inaccettabile il divario economico e sui servizi che esiste tra il Nord e il Sud dell’Italia. Il divario comunque non va considerato sempre a favore del Nord. Per esempio, dal punto di vista della qualità dell’aria e delle falde acquifere, il Sud ha delle zone malate, ma la pianura padana è quasi un cimitero. Il Sud è una meraviglia con grandi problemi. Il Nord del mondo è un grande problema con qualche residua meraviglia. Da una parte un’utopia che ha bisogno di scrupoli, dall’altra scrupolo ed efficienza senza utopia.

Dunque, la Casa della Paesologia propone un ribaltamento delle solite logiche con cui guardiamo ai luoghi. I territori che nella percezione comune sono arretrati e marginali, in realtà possono essere considerati centrali e all’avanguardia.

Noi sappiamo che proprio nell’Italia Interna qualcosa è rimasto incolume alla pressione globalizzante. E allora lo nostra lotta si fa gioiosa, perché abbiamo tanti luoghi belli e tante persone che non considerano il liberismo la loro religione.

Noi non pensiamo che la soluzione sia da una parte sola: la moneta, Dio, l’agricoltura, l’amore, la poesia, la resa, la rivoluzione.
Siamo in fuga da saperi separati, dagli specialismi, dai professionismi. Crediamo che un brutto successo sia peggiore di un buon fallimento.

La vicenda umana ci sembra commovente quando è capace di alzarsi e abbassarsi nello stesso tempo, quando riusciamo a tenere assieme l’infimo e l’immenso, quello che accade nei palazzi della politica e nelle tane delle formiche. Ci interessa la salute delle persone e quella delle api. Ci interessa la democrazia, la gioia e il dolore. Occuparsi della tutela di un paesaggio ha poco senso se poi non ci accorgiamo dei paesaggi dolenti che appaiono sui volti di troppe persone.

La casa della paesologia non è nata per risolvere i nostri problemi e neppure quelli degli altri. Noi stiamo nel tempo che passa e sappiamo che di questo tempo alla fine rimane qualche attimo di bene che siamo riusciti a darci.

Crediamo che l’arcaico non vada cancellato da nuovismi affaristici. Dobbiamo provare a credere di più a queste nostre verità provvisorie e a farle conoscere con le nostre parole, coi nostri abbracci. Sogno e ragione, paesi e città non più come cose separate, ma luoghi diversi dello stesso amore.

«Si può ricostruire con cura ed efficacia come è già successo in molti casi in Italia, ma spesso si preferisce sottolineare scandali e sprechi, come se il nostro fosse un Paese popolato unicamente da ladroni, cialtroni e incapaci». Quotidiani del gruppo L'Espresso, 31 agosto 2016 (c.m.c.)

I forti terremoti con vittime umane sono stati, dal 1940 ad oggi più di trenta con migliaia di morti (soltanto in Friuli quasi mille e in Irpinia poco meno di tremila), decine di migliaia di feriti o infortunati a vita, centinaia di migliaia di sfollati.

Secondo il Sole 24 Ore i miliardi di euro spesi dallo Stato dal terremoto del Belice (1968) a ieri ammontano – attualizzando gli stanziamenti – a 121,6 miliardi di ieri. Almeno il doppio o il triplo di quanto costerebbe oggi mettere in sicurezza sul piano antisismico quel 70 % dell’Italia che in sicurezza non è. Un affare. Bisogna però connettere la messa in sicurezza antisismica con quella idrogeologica: se infatti tutta la dorsale appenninica è ad alto rischio terremoti, il 98 % dei Comuni laziali e il 99 % di quelli marchigiani (nessuno di pianura) risulta a rischio idrogeologico. Un territorio quanto mai fragile che la natura sismica esalta e devasta con facilità.

La tragedia di Amatrice e di altri Comuni fra Lazio e Marche ha per lo meno prodotto una riflessione critica su prevenzione e ricostruzione. Non abbiamo dovuto riascoltare i tromboni della retorica del post-terremoto aquilano con il duo Berlusconi-Bertolaso unti dal Signore per salvare quelle terre martoriate con una loro ricetta che prescindeva totalmente (l’abbiamo scritto inutilmente) dalle esperienze positive di altre ricostruzioni. Il modello-Aquila viene infatti considerato oggi come uno di quelli da cui rifuggire. Mentre si riparla di “ricostruire com’era e dov’era” (ministro Del Rio) che fu il motto vincente del Friuli, di non disperdere le piccole comunità locali sfollandole lontano per anni, di non creare assurde new towns senza un minimo disegno urbanistico.

Anche la grande stampa tuttavia indugia molto in generiche denunce degli sprechi del passato facendo di tutta l’erba un solo fascio ovviamente deprimente. Mentre nella storia tribolatissima di questo Paese geologicamente “giovane” squassato da frequenti forti terremoti esistono anche esempi di saggia, informata e filologica ricostruzione.

A questo punto vorrei dire sommessamente che la richiesta di Matteo Renzi all’archistar Renzo Piano di occuparsi di questa ricostruzione fra Lazio e Marche ancora una volta profuma di trovata mediatica. Piano, geniale, generoso e attrezzato, non figura fra gli esperti dei post-terremoti italiani.

Ho citato il Friuli 1976-77: qui furono le comunità locali a volere – soprattutto a Venzone come documenta il prezioso libro Le pietre dello scandalo uscito da Einaudi nel 1980 a cura di Marisa Dalai, Remo Cacitti, Maria Teresa Binaghi Olivari e altri nella collana diretta da Corrado Stajano – una ricostruzione “pietra su pietra”.

Ma ci fu la più stretta collaborazione interdisciplinare fra Soprintendenze statali, Comuni, Regione, Curie vescovili, uffici tecnici locali, ecc. Come quella messa in campo nel 1997 dal governo Prodi (ministro Veltroni, direttore generale ai Beni Culturali il mai abbastanza rimpianto Mario Serio) nominando commissario straordinario per l’Umbria Antonio Paolucci affiancato dallo storico dell’arte umbro Bruno Toscano e per le Marche l’ex soprintendente e allora direttore del Catalogo Maria Luisa Polichetti affiancata dalla storica dell’arte Marisa Dalai.

Una fruttuosa collaborazione sul campo fra Soprintendenze e Università, coi giovani impegnati (40 quelli della Sapienza) a catalogare le opere danneggiate. Per la Basilica Superiore di Assisi si rischiò lo slittamento a valle e una rovina totale, ma il pronto e coraggioso intervento di tecnici preparatissimi lo evitò e consentì il restauro integrale della Basilica grazie a Giuseppe Basile, specialista straordinario dell’Istituto Centrale per il Restauro, e di strutturisti di caratura internazionale quali Giorgio Croci e Paolo Rocchi (successivamente di restauratori come Sergio Fusetti e Carlo Giantomassi). In due anni e due mesi soltanto la Basilica Superiore fu riconsegnata splendente ai francescani. Più lungo il recupero di centri storici molto colpiti come Foligno, Nocera Umbra, Gualdo Tadino, Colfiorito, Tolentino, ecc.

Per gli sfollati si usarono prefabbricati in legno di ottima qualità che riprodussero di fatto le comunità locali, incluse scuole e altri servizi, senza allontanare la gente. In tal senso il lavoro di squadra posto in opera fra Umbria e Marche rimane per molti versi esemplare in senso positivo. In buona misura pure quello della Val Nerina dopo il 1979, come dimostra la buona tenuta antisismica di Norcia investita dal terremoto di Amatrice.

In senso negativo sono invece esemplari purtroppo le ricostruzioni della Valle del Belice dove ambizioni sbagliate hanno allungato enormemente i tempi e cancellato le identità locali e quella dell’Aquila. Negativa fu pure, per gran parte, la vicenda dell’Irpinia, non per i monumenti tuttavia il cui recupero fu diretto da un soprintendente di grande livello quale Mario De Cunzo che spese presto e bene i 300 miliardi di lire assegnatigli. Allo stesso modo i commissari per la casa di Napoli (colpita dal sisma) Maurizio Valenzi sindaco e l’urbanista Vezio De Lucia i quali riconsegnarono ben 20.000 alloggi recuperati in tempi rapidi senza l’ombra di un avviso di garanzia.

Valide furono pure due ricostruzioni post-terremoto di cui non si parla mai: quella di Tuscania semidistrutta con oltre trenta vittime dal sisma del 1971, che oltre quarant’anni più tardi regge benissimo, e l’altra di Ancona dove lo sciame sismico scosse il centro storico della città per undici mesi, senza fare vittime e però con danni profondi a tutta la città antica, dall’alto del colle fino al quartiere del Porto. Ma nessuno o quasi ne parla. Preferendo sottolineare sempre e soltanto scandali e sprechi, come se il nostro fosse un Paese popolato unicamente da ladroni, cialtroni e incapaci. Oppure rifacendosi miracolisticamente agli archistar.

«È un processo che va pianificato con attenzione, portato avanti con tenacia e organizzazione ferrea senza mai abbassare la guardia». Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2016 (p.d.)

Di fronte ai disastri naturali, la nostra debolezza più grande è la mancanza di prevenzione. Lo scriviamo da decenni. Molte le chiacchiere e le promesse subito dopo ogni evento, sia esso un terremoto o un’alluvione, poi cade il silenzio. Eppure la prevenzione va fatta a bocce ferme, quando splende il sole e la terra non trema. È un processo che va pianificato con attenzione, portato avanti con tenacia e organizzazione ferrea senza mai abbassare la guardia. Sia sul piano delle infrastrutture, sia su quello dell’informazione ed educazione della gente, che ancora oggi in Italia preferisce toccarsi in mezzo alle gambe o appendere qua è là cornetti e santini invece che guardare in faccia la realtà.

Il settore aeronautico ha sviluppato un metodo molto efficace per la prevenzione degli incidenti, infatti è oggi tra i modi più sicuri di viaggiare. Ogni volta che – vuoi per errori di pilotaggio, vuoi per cause tecniche – c’è un problema o una sciagura (ormai rara), si attiva una procedura internazionale che analizza le cause, propone soluzioni e modifica strumenti e procedure. Nel frattempo, i velivoli difettosi vengono lasciati a terra fino a modifiche concluse. È un processo trasparente, che pur senza essere punitivo, mette in luce le responsabilità e spinge tutti a migliorare, approfittando insieme della lezione ricevuta o meglio, come lo chiamano i francesi, del retour d’experience. In tanti altri settori, e soprattutto in quello della gestione del territorio, non si analizzano mai i risultati a posteriori delle scelte precedenti, raramente si individuano i responsabili dei fallimenti, e mai si tesaurizza l’insegnamento ricevuto.

Ogni volta stesse considerazioni e stessi errori,una retorica del disastro che se togliete data e luogo è immutata fin dall’alluvione di Firenze di cinquant’anni fa. Ma la gente così continua a morire e i danni li paghiamo tutti. Ora si parla di ricostruzione rapida dopo-sisma. Ma non avevamo detto tutto ciò che c’era da dire già con L’Aquila 2009? Abbiamo ripetuto alla nausea che la ricetta razionale sta in una capillare ristrutturazione antisismica degli edifici,che li riqualifichi pure energeticamente, prendendo così due piccioni con una fava.E che accanto al rischio sismico investa pure sulla protezione idrogeologica: frane e alluvioni sono ancor più diffuse dei terremoti, dall’Alpi allo Ionio. E si occupi pure della strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, contro le future siccità, i futuri eventi estremi e l’aumento del livello dei mari, di realizzare casse di espansione per i fiumi e di turar le falle agli acquedotti. Si chiama resilienza.

Esiste pure un’associazione internazionale, Iclei.org, che riunisce le città che nel mondo si stanno attrezzando per la sostenibilità e la riduzione degli impatti degli eventi geoidrologici. In Italia, al di là di encomiabili esempi locali, questo progetto di resilienza nazionale, corale, condiviso, omogeneo, unitario, non c’è. Trionfa invece il sempreverde annuncio e la relativa cantierizzazione della grande opera cementizia, vista come unica azione salvifica. La nuova autostrada, la nuova pedemontana, il nuovo ponte sullo stretto, i nuovi trafori ferroviari,i nuovi eventi sportivi internazionali. L’importante è che siano grandi,costosi e vistosi. Non che servano a qualcosa e che funzionino. Se si applicasse il metodo aeronautico alle opere già fatte, si potrebbe facilmente verificare se i soldi sono stati spesi bene e i problemi risolti.

Invece le scuole ristrutturate sono crollate, l’autostrada Bre.Be.Mi giudicata indispensabile in fase di progetto, è vuota, il Mosedi Venezia è già inchiodato da sabbia e detriti prima di entrare in servizio, gli impianti sportivi delle Olimpiadi invernali della Val di Susa sono in via di smantellamento per eccessivi costi di manutenzione, ma la lista è lunga, distretti industriali, parchi divertimento, poli fieristici, sportivi e turistici... tutto annunciato sulla carta come necessario, apportatore di progresso, soldi e lavoro, ma alla prova dei fatti cadente, abbandonato e diroccato. Spesso la società civile di fronte a tali progetti ha protestato, ha lottato, ha mostrato e documentato scientificamente incongruenze e inadeguatezze. Ma niente, ruspe e betoniere sono state inesorabili. Poi tutto come previsto, miseramente fallito. Chi paga? Qual è il ritorno d’esperienza? Con il metodo aeronautico, il ritiro della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 sarebbe immediato, basta giudicare dai costi e dalle scomode eredità delle precedenti edizioni! Lasceremmo perdere il supertunnel Tav Torino-Lionee i nuovi sogni espansionistici delle reti autostradali. Mentre investiremmo subito i pochi denari che ci restano in manutenzione del territorio, sostenibilità e prevenzione dei rischi naturali, unico progetto sensato per il benessere del futuro.

«Occorre tenere insieme il sapere virtuoso dei vecchi abitanti con l’esperienza di tecnici qualificati, con le esigenze dei sistemi ecologici di supporto alla vita, con l’uso delle risorse locali, con l’accoglienza dei migranti ». Il manifesto, 26 agosto 2016 (c.m.c.)

Anni fa mi colpì il racconto di Salvatore Veca L’ascia del nonno. Un vecchio signore mostrava a tutti i suoi ospiti che andavano a fargli visita, l’ascia che il proprio nonno aveva usato in passato. Era conservata gelosamente sotto una teca di vetro. «Vedete», spiegava il vecchio signore, «questa era l’ascia di mio nonno. La lama in ferro naturalmente è stata sostituita con una nuova lama perché corrosa dalla ruggine. E il manico dei legno è stato anch’esso sostituito perché roso dai tarli». Dunque, si chiedeva Salvatore Veca, «cosa è quell’ascia conservata?». Ebbene, la ricostruzione (speriamo che inizi quanto prima) dei paesi devastati dal sisma dovrebbe evitare che i nuovi paesi diventino come l’ascia del nonno ricostruita, cioè una semplice riesumazione del “vecchio” che non c’è più.

C’è un legame indissolubile tra comunità e luogo: non può esistere comunità senza luogo né tantomeno un luogo che è stato privato della sua comunità. Sarebbe bastata questa semplice considerazione a decretare il fallimento delle new town berlusconiane, ovvero di quei non-luoghi per non-comunità. Come evitare che la “ricostruzione” dei due vecchi paesi (Amatrice e Accumuli) non ripercorra questa strada fallimentare?

Tanti anni fa, erano gli anni Cinquanta, a seguito del libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, fu realizzata una delle più interessanti esperienze urbanistiche con la creazione del villaggio La Martella per tentare di risolvere l’annosa, e scandalosa, questione dei “Sassi” di Matera. Esso coinvolse una straordinaria schiera di architetti, urbanisti, antropologi, psicologi e perfino psichiatri, tra i quali figurava anche Adriano Olivetti. Considerate le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano, gli abitanti dei “Sassi”, essi furono mandati, con tutto il loro carico di storia millenaria, a vivere in questo piccolo villaggio rurale appena fuori Matera, progettato con un atteggiamento di massimo rispetto del patrimonio culturale degli abitanti e della loro comunità contadina.

Queste attenzioni (perfino nei dettagli architettonici e nei materiali di costruzioni), non furono sufficienti a realizzare completamente l’obiettivo di ricostituire la comunità originale: alcuni abitanti si rifiutarono di andarci, altri, qualche tempo dopo, tornarono ad occupare i “Sassi”, altri ancora andarono a vivere altrove.
Potremmo dire oggi che il “fallimento” (metto tra virgolette poiché fu comunque un’impresa straordinaria dal punto di vista culturale) scontava il prezzo di fare riferimento a standard e modelli di vita totalmente “incomprensibili” agli abitanti dei “Sassi” che, nel tempo, si erano adattati al loro rapporto con la natura rappresentata dagli stessi “Sassi” e dalle opportunità che essi offrivano (comprese le cattive condizioni igieniche).

Tutto questo per dire che ricostruire i luoghi fisici (piazze, campanili, chiese, strade e manufatti abitativi) è un conto, ricostituire la comunità dispersa è un altro e di assai più difficile soluzione. Questa sfida può però essere affrontata con una prospettiva diversa. La “ricostruzione” può allora diventare l’opportunità di insediare una “nuova” comunità pur formata in gran parte dagli stessi abitanti che, pur non rinunciando al proprio patrimonio passato (tradizioni, memoria, usi e costumi) si proietti in una dimensione futura evitando di diventare un esempio di modernità di cartapesta.

Costituire, ad esempio, un insediamento ecologico in armonia con il territorio e la natura, un esempio virtuoso di ritrovato equilibrio con i problemi che affliggono il nostro Appennino. Potrebbe costituire uno dei primi esempi di pianificazione non condizionato da esigenze speculative e con l’obiettivo di riavviare i processi di riqualificazione delle cosiddette “aree interne”.
In primis, nel progetto di ricostruzione dovrebbero entrare tutte le storie raccontate dai vecchi abitanti, le consuetudini locali, le attività produttive piccole e grandi che costituivano l’economia del paese, nuove economie inerenti il recupero e l’applicazione di norme sismiche. Servirebbero poi studi geologici rigorosi per scegliere i siti edificabili e scartare le aree più a rischio; realizzare spazi pubblici, piazze, limitare le privatizzazioni di suolo, progettare luoghi che favoriscano le produzione di socialità e convivialità, evitare, come è successo a L’Aquila, la militarizzazione del territorio, favorire dovunque l’incontro, la bellezza, il dialogo, la narrazione delle storie.

L’emergenza non deve essere cattiva consigliera. E quella straordinaria sapienza acquisita da tutti coloro che si stanno prodigando (volontari e non) per salvare vite e cose, dovrebbe anch’essa confluire nel progetto di ricostruzione. Guai, insomma, se a decidere come e dove ricostruire fosse una ristretta élites di tecnici preoccupati solo di collaudare qualche straordinaria invenzione tecnologica dell’ultimo grido o, peggio, qualche esempio di smart cities dopo il disastro delle new town.

Dobbiamo, al contrario, tenere insieme il sapere virtuoso dei vecchi abitanti con l’esperienza di tecnici qualificati, con le esigenze dei sistemi ecologici di supporto alla vita, con l’uso delle risorse locali, con l’accoglienza dei migranti che potrebbero contribuire alla formazione di una nuova, rinnovata e più moderna comunità urbana che, mai, per usare le parole di Erri De Luca, «dovrebbe insuperbirsi di nessun possesso».
Già a breve, passata la fase dei soccorsi, gli abitanti potrebbero ridiventare protagonisti delle loro storie partecipando al progetto di ricostruzione insieme al personale organizzato dal governo: non li escludete, altrimenti ricostruireste un paese fantasma: l’ascia del nonno, appunto.

«I terremoti italiani non sono una fatalità: sono la normalità con cui dobbiamo imparare a convivere. In Italia nessuno è al sicuro, in nessun luogo, mai. Se non investiamo in prevenzione i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi». La Repubblica, 25 agosto 2016 (c.m.c.)

«Ci vogliono due impegni: il primo a ricostruire in fretta, e il secondo a cominciare a rifare il Paese in modo antisismico, perché i terremoti vengono casualmente, ma i morti no»: ieri è stata questa, di Romano Prodi, la sintesi più efficace. Davvero l’unico modo per dare un senso a queste morti e a queste distruzioni è che questi due impegni vengano presi, e onorati.

Il primo sembrerebbe facile: perfino ovvio in quella che è, nonostante tutto, una delle più potenti economie del mondo. E invece la ricostruzione dell’Aquila arranca ancora, dopo anni perduti e dopo errori che hanno forse distrutto per sempre il tessuto sociale di uno dei venti capoluoghi di regione del nostro Paese. Ma oggi il governo ha l’occasione di dimostrare che qualcosa è cambiato davvero: la ricostruzione di Amatrice e degli altri luoghi colpiti può — deve — diventare un esempio da manuale. Un esempio positivo.

Ma è il secondo impegno, quello a rifare antisismica l’Italia, la sfida vera: quella più carica di futuro.
I terremoti italiani non sono una fatalità: sono la normalità con cui dobbiamo imparare a convivere. La meno pericolosa delle quattro zone in cui la Mappa della classificazione del rischio sismico divide l’Italia è quella in cui i terremoti sono “rari”: non inesistenti, e non innocui, ma rari. Il che significa che nessuno è al sicuro, in nessun luogo, mai: nell’ultimo millennio l’Italia ha subito un terremoto dagli effetti catastrofici mediamente ogni dieci anni. E dunque, se non investiamo in prevenzione i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi.

Sull’onda dell’emozione suscitata dal disastro dell’Aquila, una legge del 2009 ha previsto che siano finanziati interventi per la prevenzione del rischio sismico su tutto il territorio nazionale: un passo culturalmente importante, ma drammaticamente insufficiente nella sua attuazione pratica. La legge prevede, infatti, l’erogazione di un miliardo in dieci anni: «solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche» (così la Protezione Civile).

In questo 2016, per esempio, stiamo spendendo la cifra irrisoria di 44 milioni. E non perché le casse siano vuote: basta rammentare che lo Sblocca Italia varato dal governo Renzi ha assegnato 3,9 miliardi in cinque anni alle Grandi Opere, o ricordare che un’opera inutile e ambientalmente disastrosa come la autostrada Orte-Mestre (per ora fermata dalle inchieste) dovrebbe costare 10 miliardi (2,5 già stanziati).

È qua, di fronte a questi numeri, che occorre uno scatto: dobbiamo convincerci che la messa in sicurezza del nostro territorio è l’unica Grande Opera davvero sensata. Non l’ideologico e faraonico Ponte sullo Stretto, che si continua a vagheggiare, ma la prevenzione dei danni dei terremoti, e delle alluvioni: una Grande Opera che avrebbe un enorme impatto positivo sull’economia e sull’occupazione, senza distruggere, ma una volta tanto risanando il corpo dell’Italia.

Un capitolo di questa grande impresa dovrà riguardare il patrimonio culturale. Ancora non sappiamo cosa è successo ai monumenti delle zone colpite. È anzi un po’ sconcertante che gli italiani, e i ricercatori di tutto il mondo, provino ad intuirlo dalle foto (drammatiche quelle del campanile di Accumoli, e delle chiese di Amatrice) postate sui social, e non dalla voce del ministero per i Beni culturali, cha ha fissato solo a stamani la riunione della sua unità di crisi (mentre è noto che, per le opere d’arte proprio come per le persone, è nelle prime ore che si possono fare interventi decisivi).

In ogni caso, è chiaro che non possiamo continuare a sperare nella buona sorte: siamo ancora lontanissimi dalla redazione di quel Piano per la conservazione programmata del patrimonio culturale che già negli anni Settanta Giovanni Urbani cercò, invano, di far realizzare. In mancanza di un progetto generale, pochissimo si è fatto: mentre troppi palazzi e chiese antichi continuano ad essere riempiti di cemento, che invece di rafforzarli li rende espostissimi alle scosse.

È forse utopico pensare di contendere alla forza del terremoto ogni vita, ogni monumento: ma è certamente imperdonabile continuare a non provarci nemmeno.

«Land Grabbing. Cento morti e arresti a migliaia tra chi non si piega all’esproprio di Addis Abeba mentre l’Italia festeggia la "sua" diga». Il manifesto, 10 agosto 2016 (p.d.)

È strage di oppositori in Etiopia, una strage che si è concentratta nei giorni tra il 6 e il 7 agosto scorsi quando almeno cento persone sono state uccise dalla polizia etiope durante le proteste antigovernative nelle regioni di Oromiya e Amhara.

Il numero di vittime si è registrato a Oromia nelle città di Ambo, Adama, Asassa, Aweday, Gimbi, Haromaya, Neqemte, Robe e Shashemene. Secondo Amnesty International almeno 30 persone sarebbero state uccise in un solo giorno a Bahir Dar il capoluogo regionale dell’Amhara, dove in diverse migliaia avevano preso parte a una manifestazione. «Le forze di sicurezza etiopi hanno sistematicamente fatto ricorso a un uso eccessivo della forza nei loro errati tentativi di mettere a tacere le voci di dissenso», ha dichiarato Michelle Kagari, vice direttore regionale di Amnesty per l’Africa Orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi.

In centinaia sono stati arrestati e rinchiusi nei centri di detenzione non ufficiali, tra cui le basi di addestramento dell’esercito e della polizia. «Siamo estremamente preoccupati che l’uso di strutture di detenzione non ufficiali possa esporre le vittime a ulteriori violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura e altre forme di maltrattamento», ha detto Kagari.

A innescare le proteste a novembre dello scorso anno era stata la decisione del governo di implementare l’Integrated Development Master Plan, piano che prevedeva l’espansione urbana della capitale con la creazione di una zona industriale nella regione di Oromia e l’esproprio dei terreni agricoli dell’area interessata, con postamento forzato di molti Oromo). Benché il piano sia stato successivamente abbandonato, le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche, uno stato di diritto e la liberazione dei detenuti politici.

Da anni i gruppi per la difesa dei diritti denunciano gli effetti delle politiche governative della cosiddetta villaggizzazione: vale a dire le violenze perpetrate dalle forze di sicurezza per costringere le comunità locali a trasferirsi da zone urbane sottopopolate, da destinare a investimenti privati, in villaggi governativi, rivelatisi privi dei servizi e infrastrutture di base promessi. D’altro canto il master plan per la crescita urbanistica di Addis Abeba prevede l’inglobamento amministrativo dei comuni circostanti attualmente sotto la giurisdizione dell’autorità regionale degli Oromo. Ciò significherebbe per le comunità indigene il passaggio sotto la giurisdizione del governo federale che comporterebbe l’adozione dell’aramaico come lingua ufficiale e l’abbandono della lingua oromo. Cambiamenti non da poco per il più grande gruppo etnico del paese – gli Oromo, appunto – da tempo in conflitto con il governo centrale per ragioni storiche, tra cui proprio la deportazione da quello che una volta era il territorio ancestrale del popolo e che ora è Addis Abeba.

La stragrande maggioranza della popolazione etiope vive ancora di un’agricoltura di sussistenza su piccoli appezzamenti di terreno che spesso è costretta ad abbandonare a causa di politiche di land-grabbing, accaparramenti da parte di privati che spesso significano l’acquisto di ettari ed ettari di terreni a prezzi stracciati da parte di multinazionali o governi stranieri, da destinare a monoculture intensive. Forme di investimento molto redditizio nell’ambito dell’agribusiness a danno delle popolazioni indigene vittime di devastanti disastri ambientali quali la distruzione di biodiversità, deforestazione, usurpazione di aree di pascolo e di terreni destinati all’agricoltura di sussistenza, con conseguente abbandono delle aree di origine.

Le comunità indigene della regione di Gambella sono entrate in conflitto con il governo proprio sui piani di esproprio e conversione di migliaia di ettari di terreno in piantagioni agricole su larga scala. E non è l’unico caso.

In questo scenario anche l’Italia può vantare responsabilità di sostanza. Lo scorso marzo l’ong Survival International ha presentato all’Ocse un’istanza contro l’italiana Salini-Impregilo per la costruzione della diga di Gibe III nella valle dell’Omo. Si tratta della più grande diga d’Africa e servirà per produrre energia elettrica e per irrigare le monocolture di canna da zucchero a scapito dell’autonomia alimentare di circa 500 mila persone, vittime di abusi e trasferimenti forzosi. La diga secondo Survival ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo da cui dipendono direttamente e indirettamente più di 200 mila indigeni per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi. Proprio ieri, secondo quanto riportato dall’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice), la centrale idroelettrica Gilgel Gibe III ha iniziato a produrre elettricità.

«Wwf. Un dossier lancia l’allarme sull’erosione del litorale e l’inquinamento che stanno distruggendo la costa e il mare. Solo 1.860 km i tratti di costa in buona salute. Tartarughe, uccelli e cetacei a rischio». Il manifesto, 6 agosto 2016 (c.m.c.)

Lo sviluppo urbanistico lungo il litorale italiano «ha divorato 10 km lineari di coste l’anno per 50 anni». Una «barriera di cemento e mattoni lunga 2000 km (un quarto delle nostre coste), l’inquinamento dovuto all’estrazione di idrocarburi, con «122 piattaforme offshore attive e 36 istanze per nuovi impianti», lo sversamento di rifiuti urbani, solidi e anche tossici (compresi radioattivi), l’iper sviluppo turistico che riversa sulle località costiere «il 45% dei turisti italiani e il 24% di quelli stranieri», l’impennata del trasporto via mare che fa «dell’Italia il Paese in Europa, dopo Olanda e Regno Unito, per quantità di merci containerizzate movimentate», e la caduta verticale dell’attività di pesca, con il «93% dei nostri stock ittici sovra sfruttato, e la proliferazione di impianti di acquacoltura (in 10 anni aumentati in Italia del 70%)».

Sono questi i fattori che stanno mettendo a serio rischio i nostri mari e le nostre coste. A lanciare l’allarme è il Wwf che nel suo dossier «Italia: l’ultima spiaggia» chiede subito di invertire le tendenze degli ultimi 50 anni.

«Non può che rassicurarci il fatto che questo nostro Paese abbia circa 700 km di costa (sugli 8 mila complessivi, ndr) e 228 mila ettari di mare tutelati da 27 aree marine protette e 2 parchi sommersi o che l’Italia sia tra le nazioni più ricche d’Europa per la biodiversità marina», scrive Donatella Bianchi, la presidente del Wwf Italia, in premessa del corposo dossier. Però non si può dimenticare che «i tratti di costa liberi dalla urbanizzazione pervasiva più lunghi di 5 km, ad un buon grado di naturalità, non siano più del 10% di tutto il nostro litorale nel versante tirrenico e del 13% in quello adriatico».

Il consumo del suolo infatti sembra inarrestabile: secondo il Wwf che ha usato anche gli studi dell’equipe dell’Università dell’Aquila, «la densità dell’urbanizzazione in una fascia di un km dalla linea di costa è passata nella Penisola dal 10 al 21%, mentre in Sicilia ha raggiunto il 33% e in Sardegna il 25%».

Secondo i dati Istat, prendendo in considerazione la fascia costiera di un km dalla battigia, tra il 2000 e il 2010 sono stati costruiti 13.500 edifici, «40 edifici per km quadrato nei versanti tirrenico e adriatico e più del doppio sulla costa jonica». Prevede l’associazione ambientalista che se le nuove edificazioni sorgessero allo stesso ritmo di quello registrato tra il 2000 e il 2010, «nei prossimi 30 anni avremmo su scala nazionale almeno altri 40.500 nuovi edifici nella fascia costiera».

L’erosione delle coste, l’inquinamento, l’ipersfruttamento turistico e l’elevato traffico di barche e mezzi acquatici di trasporto non solo modificano il paesaggio, distruggono la flora e la fauna marina, spazzano via sabbia, coralli, plancton, posedonia, spugne, e uccidono le specie rare, ma avvelenano anche i prodotti destinati al consumo umano.

Lo studio del Wwf però identifica quattro grandi aree strategiche per la biodiversità dove si concentra la maggior ricchezza dei nostri mari e da dove poter ricominciare per pianificare uno sviluppo sostenibile di tutto il litorale e l’ambiente marino italiano. Sono quattro zone «di forte interazione tra “crescita blu” sostenibile e siti di interesse conservazionisto».

Si tratta della zona tra il Mar Ligure ed il parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, del canale di Sicilia, del Mare Adriatico settentrionale e dell’area del canale di Otranto nell’Adriatico meridionale. Per capirne l’importanza, si pensi solo al fatto che, per esempio, nell’Arcipelago toscano sono stati osservati 12 specie di cetacei (balenottera comune, capodoglio, delfino comune, tursiope, stenella striata, globicefalo, grampo, zifio, balenottera minore, steno, orca, pseudorca). O che il Canale di Sicilia è «un’importante area di nursery per lo squalo bianco, una specie in via di estinzione», e «l’ultimo habitat importante per la razza Maltese, classificata in Pericolo critico». Mentre nel canale di Otranto vivono delfinoidi, foche monache e tartarughe.

Per tutelarli e tutelarci il Wwf chiede una moratoria all’edificazione nella fascia costiera, «sino a quando non saranno approvati i piani paesaggistici in tutte le Regioni», e il blocco dei rinnovi automatici di tutte le concessioni balneari, «come richiesto dalla Corte di Giustizia europea, sino a quando l’Italia non si doterà di una normativa che preveda l’obbligo di gara», e «uno stretto coordinamento operativo tra i ministeri, le regioni e i comuni».

«E' stato approvato il ddl 2290 sugli sprechi alimentari, prevede di “ridurre gli sprechi per ciascuna delle fasi di produzione, trasformazione, distribuzione e somministrazione di prodotti alimentari e farmaceutici». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 4 agosto 2016 (c.m.c.)

Il 2 agosto 2016, con 181 voti favorevoli, 2 contrari e 16 astenuti, il Senato ha approvato la legge contro gli sprechi alimentari. L’Italia è il secondo Paese ad avere, dopo la Francia, una normativa dedicata a evitare le eccedenze alimentari. Molto meno coraggioso della Francia, che ha reso obbligatoria la donazione, imponendo tasse e penali ai grandi supermercati che depositano la merce nelle discariche o presso gli inceneritori.

Il provvedimento italiano prevede incentivi, sgravi ed alleggerimenti burocratici, lasciando la facoltà di scegliere alla Grande distribuzione organizzata (Gdo). In poche parole, i supermercati e la Gdo italiani doneranno solo qualora tale scelta sarà più conveniente economicamente rispetto al macero della merce invenduta.

Sicuramente è meglio che niente. Sicuramente però, non risolverà il problema alla radice. 1,3 miliardi di tonnellate di cibo sono sprecate ogni anno nel mondo. Circa la metà della frutta raccolta viene buttata prima di raggiungere il supermercato perché non risponde ai criteri di vendita imposti dall’Unione Europea (misure, dimensioni).

Tanta frutta resta nel campo. Se il prezzo cala, se non conviene, non la si raccoglie. L’industria alimentare su larga scala e la Grande distribuzione organizzata sprecano e schiacciano sotto i loro ingranaggi tonnellate di cibo ancora buono da mangiare.

Ristoranti, mense, bar e famiglie, fanno la loro parte. Il benessere e l’abbondanza di cibo inducono a gettarlo, senza riguardo. Un tempo, quando le nonne facevano il pane in casa, quando il cibo era ancora legato alla terra e a chi lo aveva prodotto, nemmeno una briciola andava gettata. I bambini sapevano fare la “scarpetta”, leccare il piatto, e se qualcosa si gettava era alle galline. Ora il cibo è slegato dalla terra, non c’è amore né odore di terra, nel suo sapore industriale. Il cibo è spazzatura e viene trattato come tale. Ci si ingozza e una volta sazi lo si butta. Una sorta di bulimia collettiva. Se tornassimo a considerare il cibo come vita, frutto della terra, frutto delle mani di artigiani, prodotto localmente, anche i bambini lo amerebbero di più (e forse ci sarebbero meno disturbi alimentari).

Non c’è solo il cibo sprecato, come effetto perverso dell’industria alimentare. C’è inquinamento, deforestazione, spreco di materie prime destinate agli imballaggi usa e getta, ci sono i milioni esseri umani sfruttati, impiegati in condizioni di semischiavitù.

Mi diceva una donna che gestisce una casa-famiglia: «Qui da noi arrivano sempre merendine, patatine, wurstel, coca-cola, succhi di frutta, caramelle di grandi marche…. Non so cosa sia più etico: boicottare l’industria alimentare per il grave impatto ambientale, sociale e sanitario che provoca, oppure accettare gli scarti di un sistema ingiusto, altrimenti destinati alla discarica». Io non ho saputo cosa risponderle. La domanda resta aperta, e fa male.

Nel mondo 868 milioni di persone soffrono la fame. 1,5 miliardi di persone sono obese o in sovrappeso. E’ la prima volta nella storia che cresce l’obesità anche nei paesi poveri. Cibo scadente e poco costoso, junkfood, destinato ai più poveri. La globalizzazione del cibo spazzatura (unitamente alla vita sedentaria) stanno facendo disastri: l’obesità e il sovrappeso stanno uccidendo più della fame.

Sfamare i poveri con gli scarti dell’industria alimentare non scardina le vere cause della miseria e della malnutrizione. Mette invece in crisi la sovranità alimentare e la salute dei più deboli. Come diceva l’Abbé Pierre: « I poveri non hanno bisogno di beneficenza, ma di giustizia».

«"Non è attività di ricerca". Con questa motivazione i giudici amministrativi regionali del Lazio hanno detto no all'istanza della Provincia di Teramo, di 7 Comuni della costa teramana e di altri 2 Comuni marchigiani contro il decreto di Via rilasciato in favore della compagnia inglese Spectrum Geo Limited. Che quindi potrà cercare gas e petrolio in una zona che va da Rimini al Salento». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 28 luglio 2016 (c.m.c.)

La Spectrum Geo Limited potrà cercare petrolio e gas in un’area dell’Adriatico vasta 30mila chilometri quadrati. Proprio mentre in Adriatico si smantella il pozzo esplorativo di Ombrina Mare - entrato in funzione nel 2008 al largo di San Vito, davanti alle coste abruzzesi -, con una sentenza il Tar del Lazio va in direzione opposta.

È stato bocciato, infatti, il ricorso presentato dalla Provincia di Teramo, da sette Comuni della costa teramana e da altri due Comuni marchigiani contro il decreto di Via (valutazione di impatto ambientale) rilasciato in favore della compagnia inglese. L’attività è quella di prospezione descritta da due istanze presentate il 26 gennaio 2011 per altrettante aree dell’Adriatico, la d1 BP SP (per 13.700 chilometri quadrati, da Rimini a Termoli) e la d1 FP SP (per 16.210 chilometri quadrati, da Rodi Garganico a Santa Cesarea Terme). Gli enti locali contestavano la procedura seguita dai ministeri competenti e che ha portato al decreto di Via: dal limite dell’area interessata, fino alla mancata Valutazione ambientale stragetica.

Per il Tar, invece, la Via è legittima, soprattutto perché non si tratta di attività di ricerca, ma di prospezione. Che vuol dire air-gun. Ora però il ministero non avrà nessuno ostacolo per il rilascio del permesso di ricerca. «Parlare di una nuova strategia energetica nazionale, come fa il governo, è l’ennesima presa in giro nei confronti dei quasi 14 milioni di italiani che il 17 aprile hanno chiesto di voltare pagina. Faremo pressioni su Regioni, Province e Comuni perché facciano ricorso al Consiglio di Stato» dice a ilfattoquotidiano.it Enrico Gagliano del Coordinamento nazionale No Triv.

L’area interessata

L’area complessiva, originariamente, era ancora più vasta (tant’è che nel ricorso si fa riferimento a 30.810 chilometri quadrati) ma alla luce del limite delle 12 miglia introdotto con la legge di Stabilità (e dopo la diffida presentata dagli enti che hanno fatto ricorso), il Ministero dello Sviluppo Economico ha riperimetrato l’area, come pubblicato sul Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi di gennaio scorso.

Cinque le regioni interessate dalle attività di prospezione: Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e Puglia. E proprio da quest’ultima regione era partito un altro ricorso ancora pendente, il cui esito a questo punto potrebbe andare nella stessa direzione di quello appena pronunciato dai giudici amministrativi del Lazio.
A proporre ricorso oltre alla Provincia di Teramo, sono stati i Comuni di Alba Adriatica, Cupra Marittima, Giulianova, Martinsicuro, Pedaso, Pineto, Roseto degli Abruzzi, Silvi e Tortoreto. Le amministrazioni chiedevano la sospensione, previo annullamento, del decreto del ministro dell’Ambiente, emanato di concerto con il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, del 3 giugno 2015, con il quale si certificava «la compatibilità ambientale relativa al programma dei lavori».

Il verdetto del TAR

Per il Tar il giudizio positivo di compatibilità ambientale è stato rilasciato in esito ad una adeguata istruttoria, atta a rivelare non solo una compiuta valutazione dei cosiddetti ‘effetti cumulativi’, ma anche ad assoggettare l’attività di cui si discute a misure di mitigazione e a continui controlli».

Si tratta di una sentenza che non convince neppure Enzo Di Salvatore, costituzionalista e autore dei quesiti del referendum sulle trivelle del 17 aprile: «I ricorrenti avevano denunciato il fatto che il provvedimento Via riguardasse aree poste entro le 12 miglia marine – spiega a ilfattoquotidiano.it – che gli enti locali non fossero stati coinvolti, che non fosse stata effettuata la Vas (Valutazione ambientale strategica) e che la richiesta di rilascio del permesso riguardi due aree di ben 30mila chilometri quadrati».

Se il Mise è intervenuto sul limite delle 12 miglia, era rimasto infatti il problema dell’estensione delle zone interessate dalle due istanze. La legge 625 del 1996 prevede che la zona del permesso di ricerca non possa superare l’estensione di 750 chilometri quadrati. Ed è proprio questo il fulcro del verdetto dei giudici amministrativi, secondo cui «l’attività di ricerca – scrivono nella sentenza – è connotata da ricadute sul territorio chiaramente più gravose ed invasive di quella di mera prospezione». Così il Tar esclude quel limite imposto per legge, ritenendo che la normativa non disciplini anche l’attività oggetto delle istanze della Spectrum Geo, che non riguardano «il rilascio di un permesso di ricerca».

Il costituzionalista :«sentenza contraddittoria».

Per Enzo Di Salvatore si tratta di «un divieto che, invece, non può che riguardare anche le attività di prospezione». Il Tar ritiene che il limite dell’estensione dell’area sia da collegare al minore o maggiore impatto delle attività di ricerca, e cioè che debba valere solo per la ricerca effettuata con il pozzo esplorativo e non per quella eseguita con altre tecniche.

La pensa diversamente Di Salvatore secondo cui «se il legislatore avesse voluto, avrebbe potuto limitare il divieto di ricerca solo all’utilizzo del pozzo esplorativo, cosa che invece non ha fatto». Di più: «Il ragionamento del Tar è contraddittorio, perché se la ratio del divieto fosse quella di contenere gli impatti particolarmente invasivi di una data tecnica di ricerca, il divieto dovrebbe riguardare a maggior ragione (se non esclusivamente) le attività di prospezione».

Questo perché, secondo il costituzionalista «un conto è un pozzo esplorativo che ha sì un impatto, ma limitato a un’area geografica, un conto è una tecnica di prospezione come quella dell’air-gun», che consiste in scariche violente di aria compressa verso i fondali. «Una tecnica – conclude Di Salvatore – non solo invasiva, ma che viene effettuata a tappeto e che, in questo caso, riguarderebbe un’area molto vasta, con impatto su cinque regioni».

«I Cortocircuiti francesi sono esperienze simili ai Gas, che importano direttamente dai produttori italiani agrumi e altri prodotti non disponibili localmente». Comune.info, 28 luglio 2016 (c.m.c.)

Vi ho già raccontato in un mio precedente articolo di come una cassa di arance siciliane sia arrivata lunga su Torino, rimbalzata fino a Parigi e quindi esplosa spargendo semi in tutta la Francia. Oggi mi trovo vicino a Gap, sulle Alpi francesi, per osservare l’avanzamento di questa reazione a catena.

Qualche giorno fa ho scavallato le Alpi, ho oltrepassato il lago di Embrun, e sono arrivato allo specchio d’acqua di Veynes, nel dipartimento delle Hautes Alpes, dove si svolge la festa dei Cortocircuiti francesi. Qui ho ritrovato Brigitte e Rémi, che quando passeggiano per Embrun vengono riconosciuti come “Madame et Monsieur Orange”.

Questi Cortocircuiti sono associazioni di cittadini francesi nate per organizzare l’acquisto collettivo di arance ed altri prodotti del consorzio “Le Galline Felici”; a partire dalle arance, i Cortocircuiti si diffondono ed organizzano per acquistare sia prodotti locali che altri prodotti non disponibili localmente, coinvolgendo i mangiatori di arance nella organizzazione degli acquisti e in attività di informazione e cittadinanza attiva.

Le arance delle Galline Felici – grazie alla loro qualità e all’organizzazione logistica messa in piedi da entrambi i versanti delle Alpi – sono un’esca di attivazione; i francesi le assaggiano e rimangono un po’ alla volta coinvolti. A partire dall’associazione Court Jus di Embrun fondata da Brigitte e Rémi, nel dipartimento delle Hautes Alpes sono nate altre sei associazioni in diversi paesi e città. Nel periodo da novembre a maggio ogni mese due Tir di prodotti partono dalla Sicilia per consegnare in sette punti lungo la valle, qui i prodotti vengono divisi tra i vari gruppi raggiungendo in questo modo oltre 2.000 famiglie, circa il 5 per cento della popolazione del distretto che conta 174mila abitanti.

Negli ultimi anni queste sette associazioni sorelle hanno unito all’ordine delle Galline Felici anche ordini da produttori locali, consegnati inseme nell’acquisto mensile; in questo modo il cortocircuito cambia le abitudini di acquisto e facilita l’incontro diretto lungo le filiere sia locali che internazionali.

Questa prima festa raduna qui tra i monti molti di questi cortocircuiti francesi: l’associazione Corto che organizza gli acquisti per quaranta gruppi parigini con la distribuzione in sette punti della periferia, Agrumes Pastel di Tolosa collegata con l’esperienza delle Amap come molte altre di queste associazioni, Cort-circuit Ubayen di Barcelonette nel dipartimento delle Alpes de Haute Provence, Tutti Frutti nella zona di Lione, Givrés d’Orange a Lille ed altre in costruzione tra cui Grenoble, Rennes in Bretagna e Liège in Belgio.

I temi trattati sotto al tendone sono molto simili ai nostri: aspetti logistici e fiscali, scambio di esperienze, il ruolo della distribuzione, il rapporto con i produttori, la partecipazione. La differenza rispetto ai nostri incontri di economia solidale (Ines) sta nella grossa partecipazione degli italiani invitati a scambiare le esperienze in qualità di produttori consorziati del Sud e consumatori organizzati del Nord (Gas, Aequos e reti locali), oltre al gruppo “Lo faccio bene Cinefest”, Social Business World e la squadra di rugby dei Brigantini di Catania; è una festa bilingue, con tanto di interpreti.

Per completare il quadro devo ancora ricordare la spremuta di arance, il succo di mela, il tendone da circo installato per l’occasione, i film tra cui “Autrement, avec des légumes” e i corti del concorso “Lo faccio bene”, i banchetti delle associazioni, i concerti e le danze che favoriscono il clima di festa e lo scambio diretto di esperienze ed informazioni tra i partecipanti.

Queste reti basate sulla relazione diretta tra produttore e consumatore mostrano un modello di crescita interessante, anche se un po’ caotico, che si articola in diversi modi. Lo scopo è di trovare le forme organizzative che consentono di soddisfare i bisogni attraverso un’organizzazione della logistica che sia razionale e allo stesso tempo mantenga le relazioni, sia lungo le reti locali che attraverso le reti lunghe.

Questo processo di contaminazione dei Cortocircuiti, insieme alle esperienze dei produttori e delle Amap francesi che si sono presentati durante gli incontri, mostra quanto la strategia delle reti sia efficace nella pratica, con la capacità di migliorare la vita di chi consuma e di chi produce.

Durante l’incontro della domenica mattina i partecipanti si sono divisi in due parti: da un lato del tendone un gruppo si interroga su come integrare i migranti nel lavoro agricolo, dall’altra i Cortocircuiti discutono insieme alle Galline Felici di progetti di co-produzione per avviare insieme la conversione delle coltivazioni in base alle richieste dei consumatori.

Quello che è specifico di questo incontro è l’intreccio tra reti locali e reti lunghe, che rafforza la trasformazione sociale innescata dalle varie forme di cortocircuito. Per questo motivo, nella sessione finale è stata chiesto alle reti presenti cosa possono mettere a disposizione in termini di beni, servizi ed esperienze. Le reti si fortificano in questo modo, e la partecipazione a incontri come questi mostra come si tratti di una trasformazione sociale in corso.

Oramai è evidente che le prime casse degli ordini collettivi di Gastorino che hanno viaggiato sulla macchina di Julien da Torino a Parigi nel dicembre 2010 e sulla macchina di Brigitte e Rémi da Collegno a Embrun nell’inverno del 2011, oltre a qualche arancia hanno dato un passaggio anche ai germi di questa contaminazione insieme ad un pezzetto di storia contemporanea. Sulla piazza di Embrun, a fianco del monumento a Clovis Hugues, propongo di installare un altro monumento dedicato alle prime casse di arance, la miccia di questa rivoluzione gentile.

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«Abruzzo. Contro l’impianto petrolifero di fronte la Costa dei Trabocchi dal 2008 si battevano cittadini e comitati e Comuni». Il manifesto, 28 luglio 2016 (c.m.c.)

«E’ la testa di un pozzo esplorativo, a cinque chilometri dalle rive dell’Adriatico, e a vederlo adesso fa anche tenerezza. E’ una montagna verticale di ferri verdi e rossi, di un paio di metri o poco più, che esce quasi spaventata dal mare. Incubo Fpso (unità galleggiante utilizzata per la produzione, lo stoccaggio e lo scarico di idrocarburi off shore, ndr), gli oleodotti, le navi cisterna, l’inquinamento da petrolio sono svaniti. E presto non resteranno neanche quei ferrami a ricordarcelo».

Così la ricercatrice Maria Rita D’Orsogna, originaria di Lanciano (Chieti) e che lavora negli Usa, che delle battaglie ambientaliste ha fatto una ragione di vita, racconta, in maniera quasi romantica, lo smantellamento della piattaforma petrolifera «Ombrina Mare 2» al largo della ridente Costa dei Trabocchi, in provincia di Chieti. La battaglia, contro il progetto e contro il greggio «a chilometro zero», dopo otto anni, vede la vittoria dei cittadini, dei movimenti ecologisti, dei comitati, di coordinamenti e Comuni, di sindacati e di decine di associazioni, con la loro opera di informazione, sensibilizzazione e mobilitazione, coronata dallo smembramento e dalla rimozione della piattaforma. Che sono in pieno fervore.

L’ufficialità è arrivata dalla Capitaneria di porto di Ortona (Ch) il 6 luglio con l’ordinanza 42/2016 con la quale si annunciava la «chiusura mineraria», tra il 12 luglio e il 12 agosto, di «Ombrina mare» ricadente nel territorio tra San Vito Chietino e Rocca San Giovanni. Smontaggio della struttura chiesto dalla società Rockhopper Italia Spa; autorizzata il 27 aprile scorso dal ministero dello Sviluppo economico, Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse ed effettuato mediante «l’utilizzo dell’impianto di tipo Jack-Up “Antwood Beacon” e dell’unità di supporto Mimì Guidotti CS 913».In questo lasso di tempo, – è l’ordine della Capitaneria – è vietato navigare e sostare in zona, a imbarcazioni e natanti, che devono mantenersi «ad una distanza di almeno 500 metri dal pozzo e da eventuali mezzi operanti». E’ proibito «praticare balneazione e comunque accedervi, effettuare immersioni e svolgere attività di pesca». La società dovrà invece porre «in atto qualsiasi misura atta a prevenire inquinamento e danni ambientali».

Era il 30 luglio 2008 quando la titolare della concessione, la società Mediterranean Oil and Gas, fu autorizzata al «posizionamento di una testa di pozzo in cima ad una monotubolatura», che emerge per circa 13 metri dall’acqua e dal pozzo di perforazione “Ombrina Mare 2”.

Il 28 febbraio 2014 è subentrata la Rockhopper Italia. Quindi, dopo lotte, cortei con 60 mila manifestanti giunti da tutta Italia, ricorsi alla magistratura, ecco ora le operazioni di rimozione, avviate il 19 luglio. «Mi sono affacciato sul molo – riferisce Marco D’Ovidio, ristoratore a San Vito, con locale di fronte ad Ombrina, e presidente della rete di imprese InTour-Unione Turismo Abruzzo – e mi sono trovato davanti quei mezzi attorno al pozzo. Un colpo al cuore. Che stava accadendo? Poi ho compreso: una sensazione meravigliosa».

«La lotta ha pagato – affermano Alessandro Lanci, presidente di Nuovo Senso Civico e Augusto De Sanctis, del Forum Acqua Abruzzo -. Invece dei pozzi, dei fumi e della meganave raffineria, tra qualche settimana avremo solo mare, il nostro mare liberato. L’Abruzzo unito, insieme a tanti altri movimenti solidali dalle altre regioni, è riuscito a vincere uno scontro campale. L’impegno, però, è quello di non abbassare la guardia, visto che sono in agguato altri progetti deleteri. Dunque, festeggiamo lottando».

«Con la rimozione dell’impianto – evidenzia Fabrizia Arduini, Wwf, autrice di numerosi dossier sulla vicenda – cala il sipario, anche plasticamente, su una storia che, a livello burocratico e procedurale, si era chiusa lo scorso febbraio, quando il Mise, negando alla multinazionale Rockhopper il permesso di fare ulteriori prospezioni sulla base delle norme contenute nella legge di stabilità 2016 (che vietano sondaggi e ricerche entro le 12 miglia dalla costa), aveva scritto, di fatto, la parola fine all’affaire off shore».

«Con Ombrina – sottolinea Maria Rita D’Orsogna – vengono sepolti i sogni, color petrolio, di Sergio Morandi, di Chicco Testa, di Confindustria Abruzzo, di Paolo Primavera, di Sam Moody e dei loro azionisti inglesi. Quante avventure, quante notti a coordinare, quante conferenze, quante domande per capire, quante idee per pressare la Chiesa, che si è schierata contro, e i politici spesso sordi, che hanno contato ben poco». E’ stata messa ko un’azienda petrolifera e fatto sì – anche con il referendum, con l’opera del costituzionalista Enzo Di Salvatore e del coordinamento No Triv – «che il Governo passasse una legge di protezione dalle trivelle antro le 12 miglia dalla riva».

«Sul sito internet di Rockhopper – conclude D’Orsogna – il termine “Ombrina mare” non compare più, e credo che sia il segnale che è proprio finita, anche per loro. Si sono arresi. Scompaiono». Bye bye Ombrina. A non rivederci più.

«Le “Mamme No Inceneritore” di Firenze presentano il progetto di monitoraggio partecipato e diffuso della qualità dell’aria e della salute di chi vive nella piana fiorentina». Comune-info, 17 luglio 2016 (c.m.c.)

La zona della piana fiorentina, che comprende la parte nord della città, è considerata dall’agenzia europea per l’ambiente una delle più inquinate di tutta Europa. Inoltre in questa zona le amministrazioni locali hanno previsto la costruzione di opere altamente inquinanti e impattanti sulla qualità dell’aria come un inceneritore, un nuovo areoporto, la terza corsia dell’autostrada. Ciononostante nella piana fiorentina non sono state collocate, né lo saranno in futuro, stazioni di rilevamento della qualità dell’aria.

È per questo Le “Mamme No Inceneritore” hanno presentato il progetto di monitoraggio partecipato e diffuso della qualità dell’aria e della salute di chi vive nella piana fiorentina.

Le centraline analizzeranno inquinanti come PM 2.5 e PM10, CO e NO2, temperatura e umidità, così da avere una fotografia completa della qualità dell’aria e degli inquinanti presenti nell’area e provenienti da diverse fonti (traffico, fabbriche, riscaldamento, aeroporto). Sfruttando l’energia solare, la maggior parte delle centraline si renderanno autonome dal punto di vista energetico.

Il progetto verrà realizzato con partner autorevoli tecnici informatici, medici e ricercatori universitari che contribuiranno con la loro professionalità e competenza alla realizzazione di un progetto forte, anche dal punto di vista scientifico.

I dati raccolti saranno pubblicati su una piattaforma pubblica, che raccoglierà i dati anche di altre centraline, in modo da poterli confrontare. I dati inoltre saranno utilizzati per uno studio scientifico partecipato concernente sia il rilevamento dell’inquinamento atmosferico e sia gli effetti sulla salute umana.

Ben presto gli investitori realizzeranno che non è conveniente costruire un inceneritore dove la popolazione non dà tregua e ha gli strumenti per non delegare a nessuno la tutela della propria salute.

A questo progetto stanno collaborando reti e comunità di persone attive in diversi settori e con al centro del loro essere e operato la socialità, la formazione, la salvaguardia dei beni comuni, della salute e dell’ambiente. Quello che costruiremo sarà patrimonio di tutti, il progetto potrà essere replicato anche in altre zone della città, della Regione e di tutta Italia.

Per ringraziarvi del vostro sostegno abbiamo previsto anche delle ricompense, che sono diverse e variano in base al vostro supporto, come per esempio: una borraccia di acciaio, una maglietta, workshop su come autocostruire una centralina, urban tour tra città e oasi naturalistiche per visitare la parte di città interessata dal progetto dell’inceneritore, una copia di 1 dvd a scelta tra due film premiati a livello internazionale che parlano sui rifiuti e sugli inceneritori (Trashed e Sporchi da morire) e infine una copia di 1 libro per bambini a scelta tra due libri che trattano il problema dei rifiuti e dell’inceneritore (Ollip e il grande inceneritore e Chi è stato?). Per chi sostiene con cifre elevate, prevediamo delle ricompense stile pacchetto (1 borraccia + 1 dvd + indica una zona che secondo te meriterebbe essere monitorata o 1 libro + 1 dvd + dai il nome a una centralina).

«Gli altoatesini bocciano il progetto di ampliamento della giunta provinciale a guida Svp. Il ministro Boschi aveva sostenuto il sì: "Pensarsi piccoli è miope" ». Il Fatto quotidiano online, 13 giugno 2016 (c.m.c.)

Quasi un plebiscito a Bolzano contro il nuovo aeroporto. Alla fine hanno vinto le considerazioni ambientali su quelle economiche e anche il timore che l’ampliamento della struttura, sotto la mano pubblica della Provincia Autonoma, potesse diventare l’inizio di uno spreco senza fine. Dopo che negli ultimi anni lo scalo si è già ingoiato, secondo stime dei Verdi, qualcosa come 120 milioni di euro.

Al referendum popolare ha partecipato il 46,7 per cento degli aventi diritto, abbondantemente sopra il quorum del 40 per cento. Hanno detto “no” il 70,7% degli altoatesini, sulla scia della posizione espressa da ambientalisti, parte della Svp e partiti di minoranza. La linea a favore, che era stata sponsorizzata dal presidente della Provincia Autonoma, Arno Kompatscher, parte del Svp e soprattutto dalle catgorie economiche, a cominciare da Confindustria, ha raggiunto solo il 29,3 per cento. Un risultato che non lascia dubbi: l’Alto Adige, pur consapevole delle esigenze di sviluppo del turismo, preferisce la tutela dell’ambiente che un aumento del traffico aereo avrebbe sicuramente compromesso.

Mentre davanti al palazzo della Provincia i comitati del “no” facevano festa, il presidente Kompatscher ha preso atto del risultato: «Ora metteremo in pratica quanto i cittadini hanno deciso». Di conseguenza, la pista non sarà allungata, come una norma già in vigore consentirebbe. E la mano pubblica farà un passo indietro: la società di gestione Abd (che è al 100 per cento della Provincia) cesserà di avere il suo ruolo e la concessione sarà messa a gara.
Per i Verdi non è solo una questione ambientale. “L’Alto Adige ha parlato chiaro: il progetto per l’ampliamento dell’aeroporto di Bolzano non ha convinto. Vent’anni di investimenti fallimentari non possono essere compensati da un nuovo rilancio”. Poi snocciolano i numeri, ribaditi durante la campagna pre-referendum. “Finora già 120 milioni di euro sono stati gettati nello scalo e nei relativi servizi. Dal 2017 verranno aggiunti 2,5 milioni (e 2,5 milioni di contributo della Camera di Commercio) fino al 2022, per raggiungere l’obiettivo di 170mila passeggeri. Non è tutto: oltre ai contributi diretti occorrerà coprire le perdite previste, e a ciò direttamente o indirettamente dovrà pensare la mano pubblica nei prossimi 20 anni, visto che il pareggio è previsto solo al 2035 a patto che si superino i 500mila passeggeri”.
Sulla stessa linea l’ex senatore della Svp, Oskar Peterlini, che se la prende con i vertici del suo partito: «Una vittoria politica del popolo contro una giunta prepotente e una leadership Svp arrogante”. La delusione sull’altra barricata. “Restiamo tuttora convinti, che un aeroporto gestito dalla mano pubblica sarebbe importante per l’economia dell’Alto Adige» ha detto Manfred Pinzger, presidente dell’Unione Albergatori e Pubblici Esercenti.
Già un referendum si era tenuto nel 2009, quando presidente era Durnwalder, e ne aveva bloccato anche allora l’espansione. Il nuovo piano approvato nell’ottobre 2015 prevedeva il prolungamento della pista di atterraggio, l’utilizzo di aerei più grandi, dai 6 agli 8 voli all’ora, con una attività fra le 12 e le 14 ore al giorno, maggiori finanziamenti pubblici e finanziamenti provinciali per investimenti in aeroporto, negozi e parcheggi.
E pensare che una settimana fa, intervenendo all’assemblea di Assoimprenditori a Bolzano, il ministro Maria Elena Boschi, riferendosi a chi “si oppone al semplice ampliamento di una pista di aeroporto”, aveva detto che “immaginarsi più piccoli è miope”

«Negli ultimi giorni infuria il dibattito sull’Inceneritore di Firenze e fra i vari argomenti portati avanti dalle amministrazioni comunali interessate quello dell’impossibilità di tornare indietro nel percorso decisionale intrapreso. Ma è davvero così?». La città invisibile, 8 giugno 2016 (c.m.c.)

Quello dei rifiuti è uno dei servizi che fa emergere le contraddizioni del sistema Italia, dove, a fronte del mancato raggiungimento degli standard stabiliti dalle direttive europee – il 65% di R.D. – vengono confermate le strategie di raccolta che non portano a raggiungere l’obiettivo: “una sana gestione imprenditoriale, sottolinea il Presidente Merletti di Confartigianato, “vale anche per le amministrazioni pubbliche”, il che significa che le tariffe sostenute dai cittadini devono tradursi in qualità del servizio.

E’ un problema di organizzazione e quindi di management, le gestioni dei rifiuti alternative all’incenerimento, ossia porta a porta con tariffazione puntuale e impiantistica a freddo con recupero di materia, non solo sono concretamente realizzabili, ma portano a una diminuzione dei costi, con aumento dell’occupazione, come ci insegnano le esperienze già in atto.

Ma veniamo esplicitamente ai costi di realizzazione per impiantistica di trattamento e smaltimento di supporto alla discarica. Situazione con inceneritore di Firenze-Sesto Fiorentino: costo pari a circa 170 milioni di Euro, da PEF Piano Economico Finanziario di Qthermo, per smaltire 200.000 tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati annui.

La situazione invece prospettabile con impianto di Trattamento Meccanico Biologico (TMB) finalizzato a recupero materiali è questa: circa 40 milioni di Euro per trattare una analoga quantità di rifiuti indifferenziati in ingresso (200.000 tonnellate). Una quantità sovradimensionata rispetto al fabbisogno, infatti, con una gestione di raccolta PAYT (porta a porta con tariffazione puntuale), l’esperienza mostra che sia arriva non solo a percentuali intorno all’85% di differenziata, ma anche a una riduzione significativa del rifiuti.

Sarebbe dunque più che sufficiente andare a ristrutturare (revamping) l’impianto TMB (trattamento meccanico biologico) di Case Passerini, autorizzato per 130.000 tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati annui; in tal caso il costo di revamping è stimato sui 5 milioni di Euro, come da costo previsionale di analogo impianto a Pioppogatto-Massarosa (Lucca).

Il rifiuto solido, da inviare a discarica, prodotto in uscita dai 2 sistemi a confronto (raccolta integrata+inceneritore e raccolta porta a porta PAYT+fabbrica recupero materiali) è comparabile; è però diversa la natura e la classificazione di tale rifiuto solido, tossico e pericoloso nel primo caso, non tossico e non pericoloso nel secondo caso. Non tenendo conto delle sostanze emesse al camino dall’eventuale inceneritore, veicolati all’interno di una massa di fumi pari a 170.000 m3/h per 8.000 ore/anno.

Evidenziamo inoltre che i dati italiani riportati dall’Ansa il 28 maggio scorso rilevano un calo di produzione di rifiuti (negli ultimi 5 anni sono diminuiti del 10,1%) rispetto a tariffe di raccolta che continuano a galoppare, lievitate del 22,7% dal 2011, spesso a fronte di strade e quartieri invasi da sporcizia.

Confartigianato riferisce che soltanto un terzo (34%) degli italiani è soddisfatto della pulizia della propria città, un valore inferiore di ben 29 punti percentuali rispetto al 62% della media europea e che ci colloca all’ultimo posto in Europa per il livello di soddisfazione dei servizi di igiene urbana.

In Toscana si pagano mediamente 210, 3 euro ad abitante, ma cosa accadrebbe se il nuovo impianto di incenerimento venisse realizzato? Qthermo sostiene che non ci saranno rincari, ma facciamo delle stime e mettiamo a confronto le due diverse modalità di smaltimento dei rifiuti, nello schema allegato.

Proprio questa settimana è intervenuto sulla stampa, contestualmente al Dottor Giannotti, AD di Quadrifoglio, il Professor Themelis , della Columbia University, uno dei maggiori sostenitori dei termovalorizzatori in ambito americano come si legge nelle sue note biografiche, Presidente e fondatore di WTERT (Waste to energy Research and Technology Council).

Quando interviene un tecnico ci si deve sempre chiedere se c’è un conflitto di interessi, si nota ad esempio che tra nella lista di sponsors di WTERT si trova COVANTA, che gestisce 42 inceneritori negli Stati Uniti. Non dimentichiamo che le interpretazioni dei dati possono essere molto diverse.

Ad esempio Themelis cita la Danimarca come ottimo esempio per quanto riguarda la raccolta differenziata e in generale per la gestione dei rifiuti. Ma i dati dimostrano invece che inceneritori ed economia circolare non possono andare a braccetto. La percentuale di raccolta differenziata in Danimarca è inferiore al 50%, come a Brescia e a Parigi, quando le direttive europee stabiliscono un minimo del 65%, dal 2012, che se non raggiunto viene sanzionato.

Inoltre la Danimarca è uno dei maggiori produttori di rifiuti in Europa. Sappiamo bene come nelle realtà, come Empoli e la provincia trevigiana, dove si attua una gestione virtuosa, non solo si hanno percentuali di raccolta differenziata attorno all’85%, ma vi è una diminuzione molto significativa dei rifiuti. Per finire il governo danese ha adottato un programma “Recycle more, Incinerate less” proprio per cambiare direzione.

Esce inoltre oggi un articolo sui monitoraggi ambientali entro 5 km dal futuro impianto. Se aveva lo scopo di tranquillizzare i cittadini li mette ancor più di fronte alla certezza del rischio incombente, come noi ben sappiamo. Monitoraggio previsto su animali e prodotti agricoli, tempestivo e coordinato fra più centri, ma la domanda resta sempre la stessa: in presenza di danno ambientale che facciamo?

Sappiamo che l’impianto non verrà spento, come succede a Montale e come successo per l’inceneritore di San Donnino, chiuso di urgenza nel 1986 per disastro ambientale accertato dall’Istituto Superiore di Sanità e che ha regalato un’impennata di morti per tumore negli abitanti dell’area, e non solo. Morti su cui non si è mai avuta alcuna indagine istituzionale. Uno degli slogan della grande manifestazione del 14 maggio era: nessun rischio evitabile è accettabile. A maggior ragione se esistono delle alternative praticabili.

Il 14 maggio un corteo di quasi 20.000 persone ha invaso Firenze affinché anche a Firenze si cambi direzione, verso la modernità. Ignorare questa volontà di partecipazione, ignorare la richiesta forte di voler decidere del proprio territorio e della tutela della propria salute è una grande responsabilità politica. Le amministrazioni devono scegliere se vogliono lavorare contro la cittadinanza, aprendo una stagione di conflittualità sociale, o se vogliono lavorare insieme alla cittadinanza, fermando il progetto e aprendo un vero confronto partecipato sulle alternative alla costruzione dell’impianto.

« Ciò che rende la climate fiction diversa dalla fantascienza è che inventa scenari che potrebbero veramente verificarsi.»Qualcosa, là fuori" di Bruno Arpaia. La Repubblica, 8 giugno 2016 (c.m.c.)

L’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore è forse l’unico uomo al mondo al quale è riuscita una difficile impresa: vincere il premio Oscar e il premio Nobel, e per uno stesso motivo. Cioè, il suo lungometraggio “Una scomoda verità”, che è stato premiato a Hollywood come miglior documentario nel 2006, e a Oslo per la pace nel 2007.

Quel film registra una delle innumerevoli lezioni che Gore ha tenuto in giro per il mondo, per diffondere l’allarme sull’emergenza ecologica che deriva al pianeta dall’uso indiscriminato del petrolio, dai trasporti al riscaldamento, e dal suo impatto sul cambiamento climatico e sul riscaldamento globale.

Il premio Nobel per la pace Gore l’ha condiviso con Rajendra Pachauri, presidente dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, “Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico”), un’istituzione delle Nazioni Unite che monitorizza appunto i cambiamenti climatici. In particolare, come Pachauri ha ricordato nel suo discorso a Oslo, quelli dovuti all’antiecologico consumo di carne, che richiede di tagliare foreste, creare pascoli, allevare animali, spedire il macellato in posti lontani, e refrigerarlo nelle navi, sui camion, nei supermercati e in casa.

Come se non bastasse, anche l’emissione di metano prodotta dalla digestione delle mucche e la decomposizione dei rifiuti solidi urbani contribuiscono all’effetto serra.Più in generale, gli interventi che la nostra specie sta sistematicamente effettuando sul pianeta comportano la distruzione delle foreste e degli ecosistemi a esse collegati, l’estinzione delle specie animali cacciate o pescate selvaggiamente, la cementificazione sistematica della superficie terrestre, l’aumento della temperatura atmosferica dovuta all’effetto serra, la diminuzione della fascia di ozono che ci protegge dai raggi ultravioletti, l’emissione di sostanze che provocano piogge acide, l’inquinamento generalizzato delle risorse acquifere, il depauperamento della produttività del suolo e delle riserve di combustibile, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento del livello degli oceani, la desertificazione.

In base ai dati della Convenzione Internazionale per le Biodiversità, il ritmo di estinzione delle specie negli ultimi quattrocento anni sembra essere cento volte superiore a quello delle epoche storiche passate. Il che potrebbe portare, come nelle precedenti grandi estinzioni, alla sparizione di una gran parte delle forme di vita attuali, e alla loro sostituzione con altre nuove. E ai mammiferi, uomini compresi, potrebbe toccare la triste fine dei dinosauri e della maggior parte delle specie viventi comparse finora sulla Terra: il che, viste le prove che l’umanità e i suoi leader stanno dando, non è detto che non sia un buon affare per il pianeta.

Tutti questi bei (anzi, brutti) discorsi rischiano però di rimanere astrattamente relegati in rapporti e dibatti per specialisti. Solo i film e i romanzi riescono a toccare concretamente la sensibilità dell’uomo comune, anche se il rischio è che essi tendano a seguire le linee di minima resistenza del racconto apocalittico condito di scienziaggini, alla maniera di produzioni hollywoodiane quali The day after tomorrow. L’alba del giorno dopo(2004) o Snowpiercer (2013).

Per divulgare letterariamente la problematica del riscaldamento globale ci vuole infatti, oltre a una capacità affabulatoria, anche una sensibilità scientifica: cosa improbabile e rara tra gli scrittori in generale, e tra quelli italiani in particolare. Ma non impossibile, né introvabile, come prova il caso di Bruno Arpaia, che già con L’energia del vuoto (Guanda, 2011) aveva dimostrato di sapersi muovere con destrezza nel mondo della scienza: in quel caso, coniugando la fisica delle particelle al thriller politico.

Il suo nuovo romanzo Qualcosa, là fuori (Guanda, 2016) affronta appunto il problema del riscaldamento globale, immaginando come sarà (o, speriamo, sarebbe) il mondo tra una settantina d’anni, quando ormai i tanti segnali d’allarme che continuano a suonare minacciosi attorno a noi si saranno rivelati essere altrettante inascoltate profezie di Cassandra sulla caduta non di Troia, ma della Terra stessa.

A seconda del luogo di provenienza del lettore, la descrizione del mondo surriscaldato che Arpaia propone gli apparirà angosciante o allettante. L’effetto dell’innalzamento della temperatura sarebbe infatti una ridefinizione delle zone geografiche del pianeta: quelle costiere verrebbero sommerse, quelle desertiche diventerebbero impossibili da abitare, quelle temperate si desertificherebbero e quelle fredde si tempererebbero. Così le spiagge del Mediterraneo verrebbero inghiottite dai flutti insieme ai loro stabilimenti balneari e l’Europa continentale sarebbe ridotta a un Sahara, ma la Scandinavia e la Russia verrebbero liberate dai loro inverni glaciali e conoscerebbero la piacevolezza delle primavere e degli autunni.

Quanto ai flussi migratori, non sarebbero più costituiti da africani e messicani che invadono l’Europa e gli Stati Uniti, ma da europei e americani che scappano verso un Nord ormai senza ghiacci, in una palingenesi di giustizia cosmica e di rimescolamento delle carte geopolitiche. Inutile dire che nel romanzo, prima che questo avvenga, gli Stati Uniti avevano cercato inutilmente di reagire, eleggendo più o meno nei nostri anni un presidente che assomiglia come una goccia d’acqua a Trump, anche se il romanzo è stato scritto prima dell’inizio dell’attuale campagna elettorale americana: a dimostrazioni che certe politiche e certi candidati sono ampiamente prevedibili, semplicemente sulla base della stupidità e dell’ignoranza umane.

Arpaia, che da studente di scienze politiche si era specializzato in Storia Americana, ambienta parte del suo romanzo proprio negli Stati Uniti, alternando ai capitoli sull’Europa ormai surriscaldata di fine secolo i capitoli sul Nuovo Mondo che balla sul Titanic, ignaro di essere in procinto di affondare nella miseria e nella disperazione. Il suo protagonista è uno scienziato italiano che da giovane emigra in California nell’odierno periodo della fuga dei cervelli, testimonia l’avvento di un regime fascio-leghista che potrebbe essere inaugurato nella realtà a novembre di quest’anno, è costretto a rientrare dalle disposizioni anti-immigrati, e dopo qualche anno si unisce a un gruppo di profughi del Sud Europa che cercano di raggiungere la neoschiavista Svezia.

I tempi delle due storie intrecciate confluiscono al termine del romanzo, dove la fine della prima voce si unisce idealmente all’inizio della seconda, in una sorta di polifonia contrappuntistica. Quanto al messaggio del libro, lo stesso Arpaia ha dichiarato in un’intervista che ciò che rende la climate fiction diversa dalla fantascienza è che inventa scenari che potrebbero veramente verificarsi.

*( Guanda, pagg. 220, euro 16)

«Abbiamo un solo pianeta da abitare e condividiamo tutti un destino comune, per questo anche la risposta non può che essere comune». La Repubblica, 6 giugno 2016 (c.m.c.)

In un momento in cui la produzione di cibo per nutrire un’umanità affamata ha un impatto fortissimo sugli ecosistemi naturali e in generale sul sistema planetario, è necessario non dimenticarci che la Terra può essere sia madre generosa che, sotto la pressione di un uso sconsiderato delle sue risorse, matrigna insidiosa.

Ecco allora che il titolo, apparentemente insensato e ovviamente provocatoriodell’incontro di oggi a Repubblica delle idee “Riusciremo a non mangiarci la Terra?” apre importanti riflessioni. La principale ci pone di fronte a una domanda: come stiamo abitando la nostra casa comune e che cosa resterà dopo il nostro passaggio?

Sembra una domanda velleitaria, eppure oggi la sopravvivenza della specie umana non può più essere data per scontata. Il modello di produzione con cui stiamo rispondendo ai nostri bisogni primari mette a rischio, per la prima volta nella storia dell’umanità, la possibilità di soddisfare quegli stessi bisogni in futuro. Il tutto mentre ci stiamo avvicinando a un’umanità che, nel 2050, raggiungerà i nove miliardi di viventi.

Gli sviluppi tecnologici e produttivi degli ultimi due secoli ci hanno liberato da una grande quantità di urgenze, specialmente quelle primarie. Accanto a questo, però, un modello turbocapitalista basato su un utilizzo massiccio di input esterni (si pensi che dal 1985 al 2005 abbiamo immesso nella Terra la stessa quantità di chimica che prima era stata prodotta e impiegata in un secolo) ha generato uno sfruttamento sconsiderato di risorse quali acqua, suoli fertili ed energia da fonti non rinnovabili che ha messo in crisi l’intero sistema.

Oggi siamo al dunque: se non cambiamo paradigma il nostro futuro è a rischio. Il cambiamento climatico è una realtà incontrovertibile e ufficialmente riconosciuta da tutta la comunità scientifica internazionale, l’utilizzo massiccio di fertilizzanti, pesticidi e antiparassitari sta impoverendo i suoli, le falde acquifere accumulano metalli pesanti diventando pericolose esse stesse e sempre più scarse, il patrimonio di biodiversità genetica della Terra si assottiglia pericolosamente.

Una situazione che ha spinto una delle più grandi autorità morali e politiche del nostro tempo, Papa Francesco, a esprimersi con forza su questi temi con un’enciclica che rappresenta un documento dirompente. Il Pontefice non ha usato mezzi termini parlando di un’economia che uccide e che penalizza in ogni parte del mondo le comunità locali, le produzioni di piccola scala e i mercati di territorio.

È evidente allora che occorre un deciso cambio di marcia e con esso nuovi modi di produrre, di distribuire, di commercializzare e di consumare il cibo, così come nuovi modi di convivere su un pianeta sempre più sotto la pressione di eventi drammatici come crisi ambientali, conflitti e migrazioni che ci obbligano a ripensare un futuro differente. E tuttavia siamo ancora in tempo. Bisogna raccogliere le migliori energie, i giovani, le donne, gli anziani, per disegnare un mondo nuovo, basato su valori che sostituiscano termini come competitività, mercato, efficienza e crescita con altri come reciprocità, cooperazione, comunità, condivisione.

Mi sento di dire che i cittadini sono pronti, che le nuove generazioni hanno già pienamente fatto propri questi valori e che in ogni parte del mondo si vedono segnali convincenti che questa sensibilità è già a tutti gli effetti una realtà viva e tangibile. Nascono reti, crescono movimenti di tutela ambientale, fioriscono comitati auto organizzati per prendersi cura dei beni comuni. Esiste un ritorno alla terra, un’attenzione crescente alle produzioni locali, un sistema di solidarietà e accoglienza che si batte per i diritti e l’accoglienza delle persone che scappano da guerre e calamità naturali.

Abbiamo un solo pianeta da abitare e condividiamo tutti un destino comune, per questo anche la risposta non può che essere comune. Possiamo solo guardarci in volto e unire gli sforzi, il futuro nostro e dei nostri figli si gioca oggi, nelle nostre case, nelle nostre città. Non possiamo, e non vogliamo, mangiarci la Terra.

«Nella Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è lo stato di salute della giustizia ambientale nel mondo. Ecco la mappa delle tante guerre silenziate che veicolano anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere». Il manifesto, 5 giugno 2016


È difficile dire quanti conflitti ambientali ci siano nel mondo; eppure mentre si proclama la Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è il suo stato di salute partendo dalle frontiere dell’estrazione dei materiali e energia che alimentano l’attuale economia industriale. Tante guerre silenziate ma da cui nascono anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere.

Un primo tentativo di mappatura a livello globale è stata fatta nel progetto EJAtlas, l’Atlante Globale di Giustizia ambientale. Il progetto è codiretto da Leah Temper e Joan Martinez Alier e coordinato da ormai 5 anni dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale – Università Autonoma di Barcellona, in collaborazione con molte altre organizzazioni e singoli cittadini da circa 100 paesi. Ad oggi ha mappato più di 1700 casi di conflitto relazionati a attività estrattive, produttive e di smaltimento dei rifiuti, e continuerà nei prossimi anni per includere aree e casi ancora poco conosciute.

Qui sotto presentiamo dieci conflitti emblematici di ingiustizia socioambientale per i meccanismi che li scatenano: distribuzione diseguale dei benefici e degli impatti, mancata partecipazione da parte della comunità locale, violazione delle leggi, accesso alla giustizia, impunità delle imprese, inquinamento, corruzione. Casi in cui l’incremento dell’uso e abuso di risorse dell’economia industriale si unisce in uno spietato cocktail al crescente divario fra arricchiti e impoveriti, alla violazione di diritti umani ed ambientali e alla sistematica impunità delle grandi imprese e apparati statali complici. Essi toccano differenti aree geografiche e tematiche, dal petrolio alle energie rinnovabili.

Si incontrano frequentemente nei paesi del Sud del mondo ma stanno strettamente relazionati con l’alto “metabolismo sociale”, l’uso di materiali e energia che l’economia industriale consuma. Paesi di limitata industrializzazione, come molti andini o centroamericani, soffrono per fenomeni di land grabbing per piantagioni di olio di palma e altri prodotti agricoli per l’esportazione, paesi di attuale industrializzazione come Cina, India, Brasile registrano conflitti sia in centri urbani e produttivi per l’elevato inquinamento ma anche per un “colonialismo interno”. Zone come l’Amazzonia viene sacrificata per l’oligarchia brasiliana, le comunità Adivasi della cintura mineraria dell’Orissa, Chattisgarh e Jharkhand subiscono una violenta militarizzazione per garantire l’accesso alla bauxite e al carbone dell’India, i fiumi della regione himalayana sono deviati nei tunnel delle centrali idroelettriche per fornire elettricità e profitto alle imprese indiane.

Ma conflitti si registrano anche nei Paesi industrializzati, dove particolarmente critici sono i processi di privatizzazione di servizi pubblici, l’apertura di nuove “frontiere estrattive” come le miniere in Grecia o Romania, il fracking in Spagna o Polonia, e i grandi progetti infrastrutturali di trasporto o energia. L’Italia ha contato su una rete di collaboratori e un lavoro di coordinamento di Cdca- A Sud per la produzione di una mappatura nazionale, con oltre 80 casi di conflitti e resistenza nel nostro Paese.

Ma ogni conflitto registrato nell’EJAtlas ha qualcuno che lo denuncia. Spesso sono membri di organizzazioni di base o reti internazionali, che raccolgono testimonianze delle comunità locali e di ricercatori accademici per creare nuovi contro-argomenti. Reclamando una giustizia ambientale, lottano anche per un’economia diversa e per un vivere comune sano. Nonostante repressioni e criminalizzazioni, difendono anche un altro sapere, nato dalle radici profonde della memoria e dal rispetto della sacralità dei territori. Esperienze come l’epidemiologia popolare in Brasile su siti inquinati hanno contribuito a identificare malattie e disturbi non riconosciuti da parte delle autorità. La rilevazione di tracce di petrolio nel bestiame nell’Amazzonia peruviana da parte di abitanti della selva, affiancati da scienziati, ha dimostrato impatti dell’estrazione altrimenti nascosti e ignorati.

Dal conflitto spesso nasce una nuova consapevolezza, si mette in discussione lo status quo e si riconosce che “giustizia” non è solo una compensazione monetaria ma richiede una ridefinizione di relazioni di potere e processi decisionali. Movimenti come i No Tav in Italia, Zad in Francia, gli abitanti di Rosia Montana in Romania, non chiedono solo di fermare un progetto; rappresentano la ricerca e la costruzione quotidiana di una nuova sovranità popolare. Nella resistenza nascono concetti nuovi per denunciare ingiustizie, come la biopirateria o il colonialismo tossico, ma anche un vocabolario che rivendica un futuro con dignità e allegria, come «decrescita», «transition towns», «sumak kawsay» (buen vivir), «sovranità alimentaria» e «energetica».

DIECI CONFLITTI
CONTRO NATURA

Guatemala, Olio di palma e zucchero di canna
violenze nella Valle del Polochic

Dopo la firma degli accordi di pace nel 1996, due famiglie di origine tedesca presero il controllo di piantagioni avviando il business di palma da olio nel 1998 e zucchero di canna nel 2005, occupando un terzo della terra di Polochic. Il Polochic è una valle di territorio fertile, situata nel nordest del Guatemala, ma che ha vissuto un processo di accaparramento di terre sotto il controllo di pochi proprietari terrieri dal 1888, mentre la maggior parte della popolazione indigena Q’eqchi’ non ne ha avuto accesso. La popolazione locale denuncia la contaminazione del suolo e la deviazione dei fiumi, la deforestazione per entrambe le coltivazioni, intossicazioni e malattie dovute agli antiparassitari per la canna da zucchero.

Questo caso fu conosciuto internazionalmente quando furono evacuate 800 famiglie di 13 comunità Q’eqchi’ che occupavano parte delle terre del Polochic che erano state coltivate a canna da zucchero, e sarebbero tornati ad essere seminati da una famiglia del Nicaragua. Nel 2010 alcune famiglie occupano 13 tenute messe all’asta per il fallimento economico del zuccherificio e ne reclamano allo Stato l’acquisto. Le negoziazioni si interruppero con violenti sfratti, durante i quali si bruciarono le coltivazioni e le case degli abitanti locali ed un contadino fu assassinato. Mesi dopo vennero uccisi altri due contadini e la sicurezza privata dell’impresa ferì con proiettili donne e bambini. Questo è uno dei 450 casi di conflitti di accaparramento di terre identificati nell’EJAtlas e sta dentro il 12% dei casi dove si sono registrati omicidi.

Rischi no border:
la centrale nucleare di Almaraz in Spagna

In Spagna si prolunga la vita utile delle centrali nucleari, il che genera allarmanti effetti ambientali e sociali che per loro natura non conoscono confini tra stati e apparati normativi. Uno dei casi più emblematici si trova nella provincia di Càceres, dove l’attività della vecchia centrale di Almaraz costituisce un importante rischio per la regione transfrontaliera con il Portogallo.

Questa centrale è stata costruita nel Campo Arañuelo all’inizio degli anni ’80, nonostante l’opposizione del movimento antinucleare sorto nella decade anteriore, che si opponeva anche a un progetto in Valdecaballeros (anche questo in Extremadura). Almaraz è dotata di due reattori da 1.000 Mw ciascuno che per il raffreddamento utilizzano l’acqua della diga di Arrocampo, sul fiume transfrontaliero Tajo. Secondo l’ong spagnola Ecologistas en Acciòn, tra il 2007 e il 2010, si sono registrati almeno 75 incidenti nella centrale. Anche l’opposizione locale ha confermato incidenti, errori da parte dell’impresa manutentrice, interruzioni non programmate che hanno violato protocolli di sicurezza.

A oggi si è formata una rete di gruppi sociali transfrontalieri, uniti nel Movimiento ibèrico antinuclear, che non solo esige la chiusura della centrale, ma lancia l’allarme di potenziali conflitti tra i due Stati – Spagna e Portogallo – per l’acqua. La centrale infatti pone a rischio la salubrità delle acque del fiume Tajo e un incidente potrebbe diventare fonte di contaminazione radioattiva lungo tutto il bacino, come già è successo nel 1970. Il prossimo 11 giugno è convocata una protesta transfrontaliera nelle strade di Càceres sotto lo slogan: «Fechar Almaraz. Descanse em paz» (Chiudere Almaraz. Riposa in Pace)

La violenza del petrolio
nel Delta del Niger in Nigeria

Il delta del fiume Niger è uno dei luoghi sul pianeta che più ha subito le conseguenze dell’estrazione di greggio. L’attività estrattiva iniziata negli anni ’50 con la anglo-olandese Shell ha causato impatti ambientali e sociali irreparabili, e un altissimo livello di violenza, anche armata, esecuzioni sommarie, torture e detenzioni illegali. Le comunità locali denunciano pratiche illegali come la combustione del gas residuo che si produce nel processo di estrazione e lavorazione del petrolio, per i suoi grandi impatti sull’ambiente e la salute. La vegetazione e i raccolti soffrono degli effetti della pioggia acida, responsabile anche dell’aumento degli aborti, deformazioni congenite, malattie respiratorie e cancro. Il caso del Delta del Niger raggiunse un punto critico nel 1995 quando il poeta e leader comunitario, Ken Saro Wiva, fu assassinato. Nonostante il conflitto abbia raggiunto il pubblico internazionale, l’accesso alla giustizia per le comunità danneggiate richiede uno grande sforzo che, frequentemente, cade nella deprecabile impunità.

Attualmente ci sono processi aperti in differenti paesi come Olanda, Ecuador e Ue per indagare sulla responsabilità delle imprese che operano nel Delta; incluse la anglo-olandese Shell, la statunitense Chevron e l’italiana Eni. L’organizzazione locale Era (Environmental Rights Action/Amici della Terra Nigeria), partner del progetto, ha denunciato un gran numero di perdite di greggio provenienti da tubature carenti di manutenzione, e la grave mancanza di bonifica e riparazione dei danni da parte delle imprese responsabili.

Oltre agli indennizzi, Era e molte comunità locali chiedono anche misure più radicali, fino a quella di lasciare nel sottosuolo le riserve rimanenti («Leave Oil in the Soil»). L’appello dalla Nigeria si unisce ad altre campagne, come in Ecuador con l’iniziativa cittadina per il parco Yasunì, e rapidamente trova nuove alleanze come in occasione della ultima Cop di Parigi, con leader indigeni della Turtle Island (America del Nord).

Brasile, il disastro della diga
dove lo Stato si accorda con i responsabili

Il 5 novembre 2015, la rottura della diga di Fundão nella città di Mariana (miniera Gerais) lanciò 34 millioni di metri cubi di fanghi sul paese Bento Rodriguez, uccidendo 19 persone e lasciando più di 600 famiglie senza tetto. Si tratta probabilmente del maggior disastro ambientale accaduto in Brasile, per una grave negligenza dell’impresa miniera. La diga conteneva infatti i residui dell’attività mineraria e della produzione di ferro dell’impresa Samarco, gestita dal gigante minerario brasiliano Vale e di uno dei più grandi colossi mondiali, la Bhp Billiton. La miniera di Samarco era una delle più grandi miniere di ferro nel mondo fino a che l’incidente bloccò le sue attività. Dopo il disastro di Bento Rodriguez, il fango di Samarco arrivò al fiume Doce, dove viaggiò circa 700 km passando per più di 40 città, fino all’oceano.

In tutto questo cammino i fanghi inquinanti hanno contaminato le acque, sterminando fauna e flora. La attività e le fonti di vita di piccoli agricoltori, pescatori e comunità indigene hanno subito impatti irreversibili. Quest’anno l’impresa ha ricevuto una multa da parte dello Stato, la cui entità appare ridicola a fronte dei danni causati: appena 70 milioni di dollari. Nonostante questo, l’impresa ha avuto il coraggio di negoziare con i governi federale e statale un fondo di 5.500 milioni di dollari per recuperare il bacino del rio Doce in 15 anni. Lo scandalo di tale accordo ha portato più di 100 istituzioni e movimenti sociali di tutto il Brasile, come il movimento delle vittime a causa delle dighe nel paese Mab, a opporsi alla sua firma. La società civile esige una vera azione, partecipativa e trasparente, per ripulire l’area e accollare alle imprese responsabili i danni causati.

Villaggi-cancro,
i veri costi del «made in China»

Un tempo il villaggio di Yongxing era una piccola comunità rurale, vicino alla città di Guangzhou. Vent’anni fa i campi erano irrigati con acqua limpida che scendeva dalle montagne per le piantagioni di riso, verdura e frutta. Nel 1991 la riserva naturale venne soppiantata da una discarica di rifiuti di 34.5 ettari, in cui venivano interrati ogni giorno circa 100 tonnellate di immondizia. Più tardi la stessa zona fu scelta per la costruzione di due inceneritori e uno stabilimento per lo stoccaggio dei rifiuti. La popolazione locale protestò contro la gravissima contaminazione; l’acqua dei loro pozzi risaliva densa, con un colore giallognolo e pellicole superficiali rosse.

Le proteste per le strade si conclusero con incarcerazioni di massa che durarono anni. Da allora gli abitanti di Yongxing sono costretti a comprare l’acqua potabile e ad abbandonare le attività agricole di sussistenza. I campi vengono affittati a prezzi irrisori a lavoratori migranti che non hanno altra scelta che coltivare terreno insalubre ma economico per vendere il raccolto alla città. Oltre all’ambiente seriamente contaminato, la maggiore preoccupazione è il repentino aumento dei casi di cancro nel paese, ma le autorità sanitarie locali fanno finta di non vedere.

L’Oms ha avvertito che lo smaltimento non a norma dei rifiuti negli inceneritipuò comportare l’emissione di diossine e furano, con impatti negativi sulla salute umana. Il villaggio di Yongxing è uno dei tanti casi conosciuti come i «villaggi-cancro» in Cina, dove le attività industriali e le enormi discariche operano con standard di sicurezza ridicoli nonostante i comprovati effetti nocivi per la popolazione umana e l’ecosistema.

Honduras, violenza e repressione
in nome dell’energia verde

Col colpo di Stato del 2009 si è intensificata la violenza in Honduras. Fra il 2009-2013, il Congresso nazionale ha approvato una serie di leggi a favore dello sfruttamento delle risorse naturali. Nel 2010 fu approvato il progetto idroelettrico «Acqua Azzurra» sul fiume Gualcarque, sacro per la popolazione indigena dei Lenca. La concessione fu data all’azienda honduregna Desarollos Energèticos (Desa) e finanziata dalla Banca di Sviluppo olandese (Fmo), dal fondo di cooperazione Finnfund (Finlandia) e dalla Banca centroamericana di integrazione economica.

La popolazione Lenca ha denunciato la violazione dell’accordo 169 della Oit per la mancanza di una consultazione preventiva, libera ed informata, della popolazione locale oltre alla presenza dell’esercito a sorvegliare le opere e le minacce ai leader Lenca. Per la popolazione locale non è il primo progetto estrattivo che percepisce come minaccia; i Lenca si sono già espressi contro progetti minerari, iniziative finanziate col meccanismo Redd+ e contro la costruzione delle cosiddette «città modello». Il caso del progetto «Acqua azzurra» ha raggiunto visibilità internazionale dopo l’assassinio, lo scorso 3 marzo, dell’attivista del Copinh, Berta Càceres, vincitrice del premio Goldman nel 2015, da parte di sicari di Desa. L’assassinio avvenne proprio durante un periodo in cui nei villaggi Lenca si prendeva in esame un nuovo modello energetico e comunitario.

Attualmente, organizzazioni e movimenti fanno pressioni affinché siano svolte indagini sull’omicidio e si proceda alla sospensione definitiva del finanziamento al progetto. Dopo l’assassinio dell’attivista e in seguito alla visita di una delegazione internazionale con membri del Parlamento europeo, è stata riconosciuta la violazione dei diritti umani che la centrale idroelettrica ha comportato.

Agua Zarca, assieme ad altri progetti come Barro Blanco a Panama, Barillas in Guatemala, Belo Monte in Brasile o La Parota in Messico delineano la violenza del modello energetico e la connivenza tra stato e imprese in America Latina.

Sudafrica, la scommessa popolare
per la fine del carbone

L’impresa di prospezione mineraria Ibhuto-Coal ha proposto di sviluppare una miniera di carbone a cielo aperto nella regione sudafricana KwaZulu-Natal. Il progetto Fuleni si trova al confine con il Hluhluwe-iMfolozi, il parco naturale più antico dell’Africa, patria del rinoceronte bianco. Due miniere già circondano il parco: Zululand Anthracite Colliery (proprietà dell’impresa Rìo Tinto) e Somkhele (proprietà di Petmin). Attualmente entrambe le miniere sono operative e stanno generando pesanti impatti sulle comunità locali: distruzione dei siti sacri e cimiteri, perdita di case, contaminazione dell’acqua, danni alle coltivazioni e alla biodiversità della regione.

Le comunità locali si oppongono al progetto Fuleni. Il 22 aprile 2016 un migliaio di abitanti hanno fatto pressione sul comitato dello Sviluppo minerario e ambientale (Rmdec) per annullare la supervisione nella zona del progetto e togliere così legittimità alla proposta. Gli attivisti si sollevano con lo slogan «Leave coal in the hole» (Lasciamo il carbone nel sottosuolo) con l’obiettivo di fermare la vorace economia estrattiva. In alternativa propongono soluzioni strutturali per fermare il riscaldamento globale. L’idea di mettere fine allo sfruttamento del carbone e sviluppare alternative energetiche a livello locale si incontra anche nel villaggio di Sompeta in Andhra Pradesh, India, e si somma alle molte richieste di lasciare i combustibili fossili sotto terra (casi conosciuti anche come unburnable fuels).

India, l’energia eolica industriale
a scapito delle iniziative comunitarie

L’energia eolica viene ampiamente promossa come sostenibile e socialmente accettabile. Tuttavia, grandi progetti eolici nel mondo stanno portando con sé un crescente numero di conflitti, e mostrano così che gli impatti di questa industria vanno ben oltre il tema paesaggistico. In questi casi, emerge l’appropiazione dei benefit «verdi» da parte delle grandi imprese, mentre i sistemi sociali ed ecologici locali soffrono una profonda transformazione.

Un caso recente e di grande rilevanza si registra nello Stato dell’Andhra Pradesh, in India, dove un’interessante iniziativa comunitaria volta alla riforestazione e alla promozione di attività di sussistenza è stata cancellata dal progetto Nallakonda. Di proprietà della India Tadas Wind Energy, appare persino tra i progetti finanziati attraverso il Meccanismo di sviluppo pulito contro i cambiamenti climatici fortemente voluto dal governo centrale. L’installazione di più di 60 torri e turbine Enercon ha portato alla deforestazione dell’area, alla degradazione di aree produttive come pascoli e campi e di fonti d’acqua. Nel 2013 comunità locali e organizzazioni sociali hanno portato il caso al Tribunale verde nazionale, a cui spetta il parere.

Nell’EJAtlas, l’atlante internazionale dei conflitti ambientali, troviamo casi simili e di scala maggiore come i corridoi eolici: oltre 15 progetti in Oaxaca, Messico, o la privatizzazione di oltre 16.000 ettari di terreno nel Nord-est del Kenya. In questi casi, l’appropiazione della terra per l’energia rinnovabile di grande scala rappresenta una nuova frontiera per la giustizia ambientale.

Tav Italia-Francia,
l’Europa delle grandi opere militarizzate

La linea ferroviaria ad alta velocità che connetterebbe Torino e Lione lunga 220 km/h è divenuta uno dei simboli di conflitto ambientale più importanti in Europa. I lettori del manifesto conoscono bene questo caso. Aggiungiamo solo che il prossimo appuntamento internazionale della rete contro i mega progetti inutili e imposti, nata dall’incontro tra la comunità della Val Susa e altre comunità resistenti d’Europa, sarà a Bayonne, a metà luglio.

Somalia: scarichi illegali di residui, una lunga storia di colonialismo tossicoL’ 80% dei rifiuti urbani sono industriali, alle volte tossici come quelli elettronici. E nei Paesi Ue sono costosi da smaltire, soprattutto per via della legislazione che si è fatta più esigente negli ultimi decenni. Questo ha dato luogo a esportazioni, spesso illegali, di rifiuti, un fenomeno di «colonialismo tossico». Tonnellate di rifiuti tossici sono stati scaricati sulle coste della Somalia in barba alla convenzione di Basilea (1989). Nel 2004, uno tsunami fece apparire sulle spiagge somale recipienti che contenevano rifiuti pericolosi, anche nucleari. L’ong Common Community Care (2006) trovò rifiuti radioattivi e tossici in differenti luoghi della Somalia.

La stessa ong indicò che un numero non confermato di pescatori erano morti a causa delle contaminazioni. Investigazioni degli anni ’90 collegarono lo scarico dei rifiuti tossici con imprese di facciata europee associate alla mafia italiana. Nel ’94 la giornalista Ilaria Alpi fu assassinata con il suo collaboratore Miran Hrovatin mentre investigava sul commercio di rifiuti tossici in cambio di armi. L’investigazione sembrava aver portato alla luce che tanto l’esercito italiano come i servizi segreti erano coinvolti nel caso. Un anno prima era stato ucciso anche Vincenzo Li Causi, agente dei Servizi italiani e informatore della Alpi. Lo smaltimento illegale di rifiuti tossici, unito alla pesca illegale delle imbarcazioni straniere, ha compromesso gravemente i mezzi di sussistenza dei pescatori somali e favorito la loro trasformazione in pirati. Nel 2009 un’inchiesta di Wardheer News individuò che il 70% delle comunità costiere locali «sostengono la pirateria come forma di difesa delle acque territoriali».


Testi di Daniela Del Bene (coordinatrice dell’EJAtlas), Federico Demaria, Sara Mingorría, Sofia Avila, Beatriz Saes y Grettel Navas. Traduzione di Myriam Bertolucci e Daniela Del Bene.
L’atlas globale è consultabile su www.ejatlas.org; la piattaforma italiana su http://atlanteitaliano.cdca.it/

«Coniò la parola “biodiversità”, ed ha in tasca la ricetta per salvare il nostro pianeta. "L’unico modo che abbiamo perfar sì che la biosfera non venga distrutta: è la nostra casa vivente, distruggerla vuol dire condannare la nostra stessa specie all’estinzione”». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)

A ottantasette anni Edward O. Wilson , il decano dei biologi americani, ha ancora voglia di combattere per difendere il Pianeta. E di avanzare teorie controcorrente. Lo fece nel 1975, con Sociobiologia: la nuova sintesi, libro in cui proponeva che ogni comportamento sociale umano può avere basi biologiche.

Torna a farlo ora con Metà della Terra (Codice edizioni-Le Scienze, traduzione di Simonetta Frediani, dal 9 nelle librerie): per salvare la vita, sostiene Wilson, dobbiamo trasformare metà della Terra in una riserva naturale. Anche i due Pulitzer vinti raccontano di uno scienziato che ha sempre fatto la spola tra biologia animale e società: nel 1979 fu premiato per il saggio Sulla natura umana, nel 1991, insieme a Bert Hölldobler, per Formiche: storia di un’esplorazione scientifica.

Nato in Alabama, Wilson ha passato la maggior parte della sua vita a studiare quei piccoli insetti. «Sono creature meravigliose, da cui ho imparato tantissimo. All’inizio ho lavorato per decifrare il codice “chimico” con cui comunicano all’interno delle colonie. Come molti insetti e altri piccoli organismi, lo fanno con segnali a base di feromone. Dimostrai che era possibile programmare una colonia per creare caste con diverse specializzazioni, per esempio l’accudimento dei piccoli, l’assistenza alla regina o la costruzione del nido».

Professor Wilson, lei ha avuto una carriera rapida e brillante: a ventinove anni era già professore ad Harvard, per oltre mezzo secolo ha girato il mondo studiando animali ed ecosistemi. Quando ha capito che l’essere umano rappresentava ormai una minaccia per la biodiversità?
«Bastò la mia prima settimana nelle foreste tropicali del Messico e dell’America centrale: mi resi subito conto dei danni arrecati dall’uomo. All’epoca, però, avevo pochissime informazioni su come tali danni possano innescare estinzioni delle specie e favorire la diminuzione di biodiversità. Nel 1963, con Robert MacArthur dell’Università di Princeton, descrivemmo per la prima volta in modo chiaro la relazione tra la perdita di habitat e il tasso di estinzione delle specie. Solo a cominciare dal 1986, quando con altri scienziati introducemmo il termine biodiversità, si iniziò a valutare più esattamente i danni».

E perché ha scritto “Metà della Terra” soltanto ora?
«Studi recenti hanno mostrato che un quinto dei vertebrati, gli animali meglio studiati (uccelli, mammiferi, pesci, anfibi, rettili), è ormai a rischio estinzione, anche se con sfumature diverse (da “vulnerabile” a “minacciato” a “seriamente minacciato”). Tutti i nostri sforzi di conservazione hanno avuto come risultato un rallentamento del tasso di estinzione, ma solo per un quinto di questo gruppo a rischio. La causa principale dell’estinzione delle specie è la distruzione degli habitat. Se un habitat si riduce, il numero di specie che quell’habitat può sostenere diminuisce approssimativamente con la radice quarta dell’area: se si vuole salvare l’80 per cento delle specie si deve preservare il 50 per cento dell’area originale».

Questo dunque spiega la tesi del suo ultimo libro: traformare metà della Terra in una riserva naturale totale.
«Sì, è l’unico modo che abbiamo per salvare la maggior parte delle dieci milioni di specie che costituiscono la biosfera, la nostra casa vivente».

Davvero pensa che sia praticabile? E quale metà della Terra andrebbe protetta? Le aree più selvagge o il 50 per cento di ogni Paese?
«Non solo è possibile, ma anche più facile di quanto si immagini. In tutto il mondo oggi sono protetti il 15% delle terre emerse e il 3 per cento dei mari. Ma rimangono molti altri territori ricchi dal punto di vista biologico che se trasformati in riserve ci permetterebbero di raggiungere il 50 per cento. Per il mare è più facile: molti studi dimostrano che si vietasse la pesca in mare aperto, la produttività delle acque costiere finirebbe per aumentare».

Alla fine del secolo la popolazione umana potrebbe raggiungere quota dieci miliardi. Le persone dovranno concentrarsi nel restante 50 per cento della Terra?
«Gli esseri umani possono rimanere dove sono. L’esperienza ha dimostrato che quando le aree più ricche di biodiversità sono preservate dall’urbanizzazione e dall’aumento di popolazione, uomini e natura sanno coesistere. Inoltre, è sempre più forte in tutto il mondo l’abbandono di territori poco popolati a favore delle città».

Lei è ottimista sul futuro demografico del pianeta.
«Sì, e dovrebbero esserlo anche gli altri. Ovunque nel mondo, dove le donne hanno ottenuto un qualche grado di indipendenza economica, il numero di figli per donna scende a picco. Se la tendenza attuale continuerà, la popolazione umana mondiale raggiungerà probabilmente un picco di undici miliardi per poi iniziare a diminuire».

Ma i consumi procapite continuano a crescere. Come faremo a preservare il 50 per cento del pianeta se la nostra impronta ecologica diverrà sempre più grande?
«In realtà, anche il consumo pro capite è destinato a diminuire. L’impronta ecologica (e cioé l’ammontare di territorio richiesto per soddisfare le esigenze di ogni individuo) ora vale in media circa due ettari, ma probabilmetne nei prossimi anni si restringerà anziché ampliarsi. Grazie ai progressi di biologia, robotica, nanotecnologie e alla rivoluzione digitale le persone vorranno prodotti più piccoli, che consumano meno energia, che richiedono meno riparazioni e che hanno un impatto meno distruttivo sulla natura».

I governi hanno hanno fatto molta fatica a trovare un accordo sul taglio delle emissioni di CO2. Come pensa che possano decidere in tempi brevi di “chiudere” metà della Terra?
«Ci credo perché i benefici saranno enormi: per la qualità della vita, per la sopravvivenza delle generazioni future e anche per il controllo del cambiamento climatico».

Ma politici e opinione pubblica ne sono consapevoli?
«Ora il cambiamento climatico è visto come un problema di vita o di morte per gli esseri umani. Presto anche il salvataggio del resto delle specie viventi sarà percepito allo stesso modo. La mia esperienza è che ovunque nel mondo, se ci sono educazione e opportunità, le persone percepiscono la natura come importante per la propria vita quotidiana, ma addirittura cruciale per l’esistenza umana a lungo termine».

Narratore di storie, creatore di miti, e distruttore del mondo vivente: così lei definisce l’Uomo. In “Metà della Terra” scrive che se continueremo a eliminare specie viventi al tasso attuale, presto la nostra era, che qualcuno chiama Antropocene visto l’impatto sul pianeta, sarà seguita dall’Eremocene, l’era della solitudine, in cui l’essere umano sarà circondato solo da specie allevate o coltivate per la propria sopravvivenza. Ma se invece dovessimo ruscire a fermare la distruzione, come potremmo chiamare il futuro?
«Continueremo a chiamarlo Olocene, così come si definisce il periodo alla fine delle ere glaciali, quando la nostra specie si diffuse su un pianeta pieno di promesse e di bellezza».

Il Wwf scelse il panda. Molti indicano il gorilla di montagna. Se lei, professor Wilson, dovesse suggerire un animale simbolo della perdita di biodiversità, quale indicherebbe?
«Homo sapiens. Alla fine saremo noi a soffrire e a tramontare come specie per l’incosciente distruzione della biosfera: ha impiegato tre miliardi e mezzo di anni per evolvere, è da lei che dipende la nostra sopravvivenza».

Per meglio comprendere come gira il mondo è assolutamente necessario cambiare il nostro punto di vista, così da traguardare nuovi orizzonti. Comune-info, 27 maggio 2016 (p.d.)

Ad un certo punto della storia, attorno al XVIII secolo, il mappamondo ha smesso di girare liberamente. Fissato l’asse di rotazione, il Nord è stato posto su e il Sud giù: in alto l’emisfero settentrionale e in basso quello meridionale. Da allora argentini, australiani, sudafricani… devono sempre chinare la testa per trovare le loro patrie nella parte “sotto” della Terra. Come se il globo terrestre non ruotasse intorno al Sole (oltre che vagare in giro per l’universo: “pianeta”, dal greco planao = vado errando).

Ma: “Hasta el mapa miente!” (“Questa mappa mente!”) – esclamò Edoardo Galeano nel suo scritto: 501 años cabeza abajo. “En el espacio no hay arriba ni abajo”. Quella del mappamondo, infatti, fornisce una visione di parte, arbitraria ed eurocentrica. È nato così nel Movimento di Cooperazione Educativa con la Sapienza di Roma, la Bicocca di Milano e la Plaza del cielo di Esquel in Argentina, un gruppo di docenti e insegnati che ha dato vita al “Movimento GloboLocal per la liberazione dei mappamondi dai loro supporti fissi universali, per diventare locali e democratici”.

Se vi salta in mente una qualche connessione di idee con il movimento per la liberazione dei nani da giardino siete fuori strada. Questo è un vero progetto scientifico e didattico che ha avuto riconoscimenti importanti e che permette di posizionare i mappamondi in modo omotetico (coerente e parallelo) rispetto a dove vi trovate sul pianeta. Le semplici istruzioni disponibili nel sito e una bussola sono sufficienti per auto-costruire un supporto al nostro mappamondo che rimette il piano d’orizzonte dove dovrebbe essere, esattamente sotto i nostri piedi, e orienta la Terra correttamente rispetto al sole di giorno e alle stelle di notte. Permette inoltre di comprendere facilmente l’alternarsi delle stagioni e il susseguirsi dei fusi orari.

Non sfugge il fatto che si tratta di un’operazione che restituisce non solo verità scientifica e storica a un oggetto molto comune nelle scuole e nelle case, ma anche giustizia ai popoli della Terra che abitano gli emisferi “inferiori”.

Incontriamo Nicoletta Lanciano, matematica, docente alla Sapienza, ad un laboratorio organizzato in un liceo. La professoressa pensa giustamente che vi sia una “pedagogia del cielo” capace di far comprendere “i diversi punti di vista locali e di valorizzare la connessioni tra cultura e democrazia, su scala globale”. GloboLocal ha organizzato eventi nel corso delle quattro giornate internazionali dedicate alla liberazione dei mappamondi che si svolgono nei giorni degli equinozi e nei solstizi. Ovviamente. I prossimi, quest’anno, sono: il 20 giugno, il 22 settembre il 21 dicembre. Per partecipare nelle scuole, nei parchi, nei musei… nei diversi posti del mondo si costruiscono “mappamondi paralleli”, li si fotografa e li si confronta. Avranno tutti inclinazioni diverse. Come gli esseri viventi che li popolano.

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