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Un film da vedere. «La pedagogia della catastrofe non funziona. Al contrario, le persone impaurite diventano facili prede delle false speranze prospettate dalle tecnoscienze e dalla green economy...» comune-info, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)

Demain è un bellissimo docufilm ideato da un gruppo di giovani cineasti francesi e diretto da Cyril Dion e Mélanie Laurent, attrice e regista, già disponibile in dvd ( Domani, 108 minuti). L’intento degli autori è ribaltare l’idea che non sia più possibile invertire la deriva del collasso ecologico globale in atto.La pedagogia della catastrofe non funziona. Al contrario, le persone impaurite diventano facili prede delle false speranze prospettate dalle tecnoscienze, dalla green economy, dall’industria 4.0 e via dicendo. Siamo giunti all’assurdo per cui, in nome della difesa della natura, si procede con una progressiva artificializzazione della vita.

Siamo pronti ad accettare ogni mostruosità (bistecche sintetiche, ingegnerizzazione del clima, esodi su Marte) pur di non mettere in discussione il nostro “stile di vita”. Il Domani diverso che il film ci mostra sotto la guida di personalità note come Robert Hokins, Vandana Shiva, Jeremy Rifkin, Pierre Rabhj, David Van Reybrouck e altri intellettuali di diverse discipline, è quello di un modello socioeconomico migliore, desiderabile, finanche fantastico, oltre che possibile. Ce lo dicono una infinità di belle esperienze raccolte in varie parti del mondo e raggruppate attorno a cinque assi: agricoltura, energia, economia, democrazia e istruzione.

Iniziative intraprese da “gente comune” che non è mossa da particolari intenti messianici se non quello di fare qualche cosa di utile, innanzitutto, per se stessi. Come a Detroit, la città fantasma dell’auto, dove sono sorte 1.600 fattorie urbane. O a Todmoren dove due donne hanno avuto l’idea di piantare commestibili in ogni spazio verde che chiunque può cogliere liberamente: Incredible Edible oggi coinvolge decine di volontari e la piantagione urbana coinvolge settanta aree.

In Normandia, invece, una impresa modello di permacultura sta dimostrando che i metodi agroecologici garantiscono una produttività (e una redditività) superiore fino a quattro volte rispetto a quelli convenzionali. Già oggi i piccoli coltivatori garantiscono i tre quarti del cibo del pianeta, mentre l’agricoltura industriale è sempre più orientata alla filiera della carne (mangimi) e ai biocombustibili.

Sul versante dell’energia le cose già si sanno. Copenaghen sarà totalmente fornita da energie rinnovabili entro il 2025. Ma non potrà mai avvenire la fuoriuscita dai combustibili fossili se non entreranno in funzione anche i “negawatt”: quantità di energia risparmiate grazie al contenimento dei consumi: mangiare bio e poca (niente) carne, acquistare in negozi locali, riciclare, riparare, condividere… A San Francisco l’amministrazione ha adottato la strategia Rifiuti zero. Altrove si lavora sulla mobilità dolce.

A Lille un’industria ha adottato da vent’anni il criterio dell’economia circolare. Ma bisogna cambiare anche banca. La Wir in Svizzera gestisce un sistema di scambi non monetari tra 60.000 aziende. Le monete complementari locali sono più di quattromila. Molti i casi di nuove forme di democrazia deliberativa e di rappresentanza popolare non (solo) attraverso elezioni.

«In una “comunicazione” del 26 gennaio, Bruxelles invita gli Stati a non investire risorse pubbliche per realizzare impianti inutili o aumentare una capacità di incenerimento già eccessiva». Altreconomia online, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)

Parla esplicitamente di “moratoria” per nuovi forni e “spegnimento” per quelli datati. Il caso della Lombardia «Le risorse pubbliche dovrebbero evitare di creare sovracapacità per il trattamento di rifiuti non riciclabili, come gli inceneritori». Non si tratta dell’appello di un’associazione ambientalista ma di un’indicazione forte che la Commissione europea ha fornito - il 26 gennaio scorso - nell’ambito di una “comunicazione” ufficiale dedicata all’economia circolare.

Undici pagine che segnano ancora una volta la distanza netta tra le strategie comunitarie e quelle intraprese dal nostro Paese, incardinate sul provvedimento “Sblocca-Italia” del 2014 e sul “fabbisogno” impiantistico dei forni stimato al rialzo. Neppure troppo tra le righe, quello che emerge è inoltre la condizione critica di alcune “zone” italiane, com’è oggi ad esempio quella della Lombardia e della sua eccessiva “capacità” di incenerimento installata.

Prevenzione, riuso e riciclo, scrive la Commissione, dovrebbero guidare la gerarchia della gestione dei rifiuti. E in quanto tale meritano l’assoluta priorità nella destinazione dei fondi per lo Sviluppo regionale e di Coesione. A proposito del “livello nazionale”, poi, Bruxelles chiarisce che i «i finanziamenti pubblici hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo di soluzioni più sostenibili nella gestione dei rifiuti».

Motivo per cui non ce ne si può servire per “eludere” l’agenda delle azioni da mettere in campo. Ed è in questo paragrafo che l’attenzione si rivolge alla necessità di non alimentare una crescita ingiustificata di impianti di incenerimento.Tra il 2010 e il 2014, riporta la “comunicazione”, la capacità di incenerimento nei 28 Paesi dell’Unione europea (considerando inoltre Svizzera e Norvegia) è cresciuta del 6% fino a raggiungere quota 81 milioni di tonnellate. Germania, Francia, Olanda, Svezia, Italia e Regno Unito ne coprono i tre quarti.

Ciascun cittadino di Svezia e Danimarca “gode” di una potenzialità di incenerimento pari rispettivamente a 591 e 587 chilogrammi di rifiuti pro-capite.nzo Favoino -che lavora presso il centro di ricerca della Scuola Agraria del Parco di Monza ed è il coordinatore scientifico della rete “Zero Waste Europe” (https://www.zerowasteeurope.eu/)- ha letto con attenzione il documento della Commissione.

«Vi è un forte mandato alla Banca europea per gli investimenti e ai Paesi membri di rivedere i loro finanziamenti per la realizzazione delle infrastrutture di settore -spiega-, riducendone la quota all’incenerimento (e comprimendone fortemente la possibilità) ed allineandoli invece con l’evoluzione prevista della politica di rifiuti: l’economia circolare. Penso che questo possa essere utilizzato da subito in quelle situazioni (ad esempio la Polonia) dove gli attuali piani per l’incenerimento eccedono la crescita prevista della raccolta differenziata nel medio termine. Ma anche per rimettere ancora una volta in discussione l’impianto complessivo dello Sblocca-Italia, e fornire argomenti sia alle Regioni che intendono opporsi alle previsioni di nuovi inceneritori in esso contenute, che a quelle (Lombardia) che hanno già messo in agenda il decommissioning, ossia lo spegnimento progressivo di quelli in eccesso (cosa che le ha messe in rotta di collisione con le previsioni dello Sblocca-Italia)».

A proposito delle aree ove già attualmente si registra sovracapacità, la Commissione parla esplicitamente di alzare le tasse di incenerimento, eliminare gradualmente i sussidi al comparto, prevedere una “moratoria” per i nuovi impianti e disporre lo spegnimento per quelli datati. La Lombardia, come evidenzia Favoino, è una “zona” interessata.

Nel 2015, dati del Rapporto Rifiuti urbani 2016 dell’Ispra alla mano, i tredici inceneritori che ricadono sul suo territorio hanno bruciato 2,39 milioni di tonnellate di rifiuti -compresa frazione secca, combustibile solido secondario e bioessiccato, e a fronte del fatto che i cittadini lombardi avessero prodotto indifferenziato per “soli” 1,9 milioni di tonnellate-.

Sta di fatto invece che la capacità autorizzata è tarata su 2,91 milioni, 600mila tonnellate in più. Gli impianti a quel punto devono “lavorare” a tutti i costi, anche importando “combustibile”. «L’incidenza percentuale più elevata dell’incenerimento rispetto alla produzione si rileva in Molise (56%) -segnala l’Ispra-. Ciò è, tuttavia, da attribuirsi quasi totalmente alle quote di rifiuti urbani di provenienza extraregionale, soprattutto dal Lazio. Seguono la Lombardia (45%) e l’Emilia Romagna (33%) dove, come già evidenziato, incidono anche le quote importate dalle altre regioni».

«La Commissione europea, come prevedibile, non ha fatto dichiarazioni nette contro l’incenerimento -riflette lucidamente Favoino-, ma il ruolo di questo in futuro è stato fortemente ristretto e compresso, rispetto alla situazione attuale, ai piani in essere e alle politiche di finanziamento».

Ora sta ai Paesi raccogliere la sfida.

«I due puntini rossi indicano il resort Rigopiano, all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio »Articoli di Marco Imarisio,corriere della sera, la Repubblica, il manifesto, 24 gennaio 2017 (c.m.c.)

corriere della sera
IL RESORT COSTRUITO SUI DETRITI
DELLA VALANGA DEL 1936
E SCATTA UNA NUOVA INDAGINE
SUI LAVORI DI AMPLIAMENTO.
di Marco Imarisio

Pescara. Carta canta. Per almeno due volte. Nel 1991 la Regione Abruzzo decide di dotarsi di una mappa che segnala eventuali criticità sul proprio territorio. Si tratta di un debutto, reso necessario dalle alluvioni e dallo sciame sismico del biennio precedente. La carta ufficiale mostra come l’hotel Rigopiano sia al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. A farla breve, un lembo di terreno rialzato rispetto alla superficie intorno per via dell’accumulo di materiale caduto dall’alto. Nel dicembre del 2007 quel documento diventa una specie di Vangelo ambientale, perché viene adottato tale e quale com’era dalla Giunta che sulla base delle sue segnalazioni approva il nuovo Piano di assetto idrogeologico.

Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia.

«L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage.

A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione».

L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali.

I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente.

La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo».

Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.

la Repubblica
LA PREFETTURA NEL MIRINO ,GLI AMBIENTALISTI ACCUSANO «HOTEL COSTRUITO SUI DETRITI»
«I soccorsi partiti dopo ore. Ma anche i documenti sulla morfologia del territorio. L’indagine per “disastro colposo”»

Pescara. L’indagine punta verso la Prefettura di Pescara. Ovvero verso il luogo che tutto ha gestito, durante le giornate dell’emergenza prima, durante e dopo la valanga che ha sepolto l’hotel Rigopiano: il Ccs, il Centro di coordinamento del soccorso che il prefetto Francesco Provolo ha attivato nella mattinata di mercoledì, subito dopo la prima scossa di terremoto. La “situation room” che si trova al piano terra del palazzo di piazza Italia e dove sono rappresentate tutti gli enti e le forze dell’ordine, la protezione civile, i vigili del fuoco.

Del resto non poteva essere altrimenti. Qui sono arrivate le segnalazioni dei cittadini e dei comuni dell’intera provincia, sommersi dalla neve e terrorizzati dai quattro terremoti. Qui sono state raccolte le telefonate del superstite Giampaolo Parete e del suo datore di lavoro Marcello Quintina, sottovalutate e ritenute, nel caso di Quintina, una delle tante bufale che circolavano quel giorno. Tant’è che la polizia identificherà nelle prossime ore l’alta funzionaria della Prefettura che rispose al telefono.

Dal Ccs, infine, sono state gestite le turbine spazzaneve e sono stati coordinati i soccorsi all’hotel, una volta realizzato — con ritardo — la gravità di ciò che era successo a Ferindola. «Tutti i problemi e le interferenze nel flusso delle comunicazioni avvenuti nel post-valanga hanno provocato ritardi che verosimilmente ammontano a circa un’ora», spiega il procuratore aggiunto Cristina Tedeschini, titolare insieme al pm Andrea Papalia, del fascicolo aperto per “disastro colposo” e “omicidio colposo plurimo” al momento contro ignoti. Aggiungendo: «L’incidenza del ritardo non è di particolare rilievo». Come a dire: ciò su cui stiamo lavorando non è tanto il dopo, ma il prima. E infatti saranno sentiti funzionari e dirigenti della provincia e della Prefettura e sarà acquista tutta la documentazione relativa al Ccs.

Il prima, dicevamo. Il fascicolo d’indagine della procura di Pescara si arricchirà presto con la Mappa geomorfologica dei bacini idrici della regione Abruzzo, un documento che è stato reso noto dal Forum H20 Abruzzo e che testimonierebbe come l’hotel Rigopiano sia stato costruito sopra colate e accumuli di detriti preesistenti, compresi quelli da valanghe, all’imbocco di un vallone. Non esattamente la posizione ideale dove tirar su una struttura del genere, oltretutto aperta al pubblico. Altro filone d’indagine, quello relativo al piano valanghe: gli inquirenti si recheranno presto alla Regione Abruzzo all’Aquila per prendere il Piano, previsto da una legge del 1992. A Repubblica risulta che in 25 anni non sia stata fatta una mappatura completa a causa della scarsezza delle risorse economiche, e che tra le aree non coperte ci sia proprio il comune di Farindola.

Quindi il sindaco Ilario Lacchetta, che ha dichiarato di non aver mai ricevuto nemmeno il bollettino Meteomont relativo al mercoledì della tragedia, non poteva sapere se il suo territorio fosse ad alto rischio slavine o no. Ma è tutta la posizione “geologica” dell’albergo a interessare gli investigatori, che infatti vogliono rivedere le relazioni sulla ristrutturazione dell’hotel e le carte del processo per corruzione (conclusosi con una sentenza di assoluzione) su un episodio che risale al 2007. Si vuole capire, al di là della vicenda penale chiusa definitivamente, se la concessione edilizia ottenuta dai proprietari dell’hotel sia in regola e conforme ai vincoli imposti dal Parco del Gran Sasso.

Intanto si deve aggiornare, in negativo, il bilancio della strage. Col recupero di altri quattro corpi, il numero delle vittime sale a nove: tra loro Linda Salzetta, sorella di Fabio, il manutentore sopravvissuto. Non si placa nemmeno la rabbia dei familiari. «Quelli che sono morti sono stati uccisi, quelli che ancora non si trovano sono stati sequestrati contro il loro volere. Avevano le valigie pronte e volevano rientrare», si sfoga Alessio Feniello, papà di Stefano, il 28enne ancora tra i dispersi.

il manifesto
«L’HOTEL RIGOPIANO COSTRUITO SUI DETRITI DI FRANE PRECEDENTI»

«Cumuli di rabbia. Ritrovato il corpo del settima vittima. Oggi i primi funerali a Penne e Farindola Si indaga anche sulle comunicazioni tra l’albergo e le istituzioni comunali e provinciali»

«L’ipotesi operativa è che la slavina possa non aver raggiunto e saturato tutti i locali, che ci sia un cuore della struttura dove non sia arrivata. Se poi lì dentro possano esserci condizioni di vita, questo non lo sappiamo». Va avanti ininterrotto il lavoro dei soccorritori tra le macerie dell’Hotel Rigopiano a Farindola (Pescara). «Proseguiamo nell’esplorazione dei locali – dice Luca Cari, portavoce dei vigili del fuoco -, seguendo la speranza di trovare ancora superstiti, anche se non c’è alcuna certezza. Stiamo procedendo da stanza a stanza, stiamo aprendo varchi in muri anche da ottanta centimetri. Siamo riusciti a sfondare con un escavatore quella montagna di ghiaccio che ci impediva di far giungere i mezzi pesanti fino al complesso turistico».

Sepolta da 120.000 tonnellate di massi, pietre e neve, come 4.000 tir carichi. Il fronte di distacco della massa nevosa aveva una larghezza di 500 metri e una lunghezza di 250, con uno spessore di 2,5 metri. Questo evidenziano gli studi del servizio Meteomont dei carabinieri, che stanno esaminando dimensione e forza d’impatto della valanga che ha devastato l’albergo, sotto cui si trovano ancora in 22. Nelle scorse ore, infatti, sono stati trovati altri 2 corpi.

Attualmente sono 7 le vittime accertate (ieri è stato ritrovato il corpo di una donna), 11 sopravvissuti: tra questi ultimi 4 bambini, che stanno bene. Oggi si svolgeranno i primi funerali. Mentre ieri, nel vano caldaie, sono stati recuperati vivi tre splendidi cuccioli di pastore abruzzese. «E ciò rafforza ogni speranza…».

«Ma quel resort – denuncia il Forum Acqua Abruzzo – sorge su un letto di detriti di vecchie frane». «Per l’area del Rigopiano – spiega Augusto De Sanctis, Forum H2O – la prima mappa elaborata dalla Regione Abruzzo che segnalava criticità importanti è del periodo 1989-1991 ed è stata ripresa tal quale e, quindi, confermata dalla Giunta regionale con delibera numero 1383 del 27 dicembre 2007, con la quale è stato adottato il Piano di assetto idrogeologico. Le due carte ufficiali mostrano inequivocabilmente che l’hotel è costruito al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. Sorge, cioè, su una zona rialzata formata proprio dai detriti che arrivano giù dal canalone a monte dell’albergo. Insomma al momento della ristrutturazione principale, avvenuta circa dieci anni fa, che ha ampliato le capacità ricettive e quindi il rischio intrinseco, c’erano tutti gli elementi, sia sul terreno, sia nelle carte, per accorgersi dei problemi». Che, dunque, erano noti da un pezzo».

Purtroppo, però, – fa ancora presente De Sanctis – «in questa circostanza risalta anche la gravissima omissione della Regione Abruzzo che ha elaborato una legge sulle valanghe 25 anni fa, la 47/1992, in cui si prevedeva l’inedificabilità per le aree a rischio potenziale di caduta e la chiusura invernale delle strutture in caso di pericolo. La mappa in 25 anni non è stata mai redatta».

Alcuni di questi aspetti saranno approfonditi dall’inchiesta della magistratura che ha aperto un fascicolo per omicidio plurimo e disastro colposo. Indagano il procuratore aggiunto di Pescara, Cristina Tedeschini, e il pubblico ministero Andrea Papalia. «Gli accertamenti – spiega Tedeschini – vertono sulle circostanze relative alle decisioni sull’apertura e lo stato di esercizio dell’hotel e sulla viabilità di accesso, la formazione e successiva caduta della valanga, l’allerta slavine lanciata da giorni. Siamo alle battute iniziali, non ci sono al momento scenari diversi da quelli che tutti possono immaginare».

Attenzione rivolta anche alle «comunicazioni telefoniche, via whatsapp e scritte» da e verso l’albergo. «Ci sono state interferenze – dichiara – inefficacia nei flussi comunicativi, ma al momento non tutto appare rilevante». Alla domanda sul ritardo con cui sarebbero stati attivati i soccorsi dopo l’allarme lanciato da Quintino Marcella, il magistrato risponde che «disfunzioni e magari ritardi da parte della sala operativa nel recepire l’importanza di una segnalazione sono un fatto registrato. Che questa incomprensione, sottovalutazione o ritardo possa aver avuto una qualunque conseguenza causale sulla efficacia dell’azione di soccorso, è da dimostrare. Al massimo sballa un’ora. Avete visto quanto tempo ci vuole per arrivare lì».

Nel mirino poi la mail, una sorta di sos, inviata dall’Hotel Rigopiano. E’ lo scorso 18 gennaio e, dopo il succedersi di forti scosse di terremoto e di intense nevicate, l’amministratore dell’Hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso, invia una mail al prefetto di Pescara, al presidente della Provincia, alla polizia provinciale e al sindaco di Farindola. «Vi comunichiamo – recita il messaggio – che a causa degli ultimi eventi la situazione è diventata preoccupante. In contrada Rigopiano ci sono circa 2 metri di neve e nella nostra struttura al momento 12 camere occupate (oltre al personale). Il gasolio per alimentare il gruppo elettrogeno dovrebbe bastare fino a domani, data in cui ci auguriamo che il fornitore possa effettuare la consegna. I telefoni invece sono fuori servizio. I clienti sono terrorizzati dalle scosse e hanno deciso di restare all’aperto.

Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzarli ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino alla Ss42. Consapevoli delle difficoltà generali, chiediamo di predisporre un intervento al riguardo. Certi della vostra comprensione, restiamo in attesa di un cenno di riscontro». Appello ignorato da tutti.

Rottamazione dello Stato, eliminazione delle ferrovie secondarie, mancanza di regole: ecco i complici dei disastri nell'Italia più fragile. L'intervista di Davide Vecchi a Valdo Spini e gli articoli di Antonello Caporale e Andrea Gianbartolomei. Il Fatto quotidiano, 21 gennaio 2017



VALDO SPINI:
«DAI FORESTALI ALLE PROVINCE: TROPPISBAGLI»
intervista di Davide Vecchi"

Più chiaro non potrebbe essere: “Stiamovivendo in una parte importante del nostro Paese una situazione estrema edolorosa, da cui emerge la mancanza di un’organizzazione dello Stato”. ValdoSpini, da buon toscano, ha il dono della franchezza. Da politico di lungocorso, quello della sintesi. Delle ormai acclarate difficoltà organizzativenella fase iniziale dell'emergenza, l’ex sottosegretario agli Interni Spini hamaturato alcune convinzioni. E colpe. A partire dall'unificazione del Corpoforestale nei Carabinieri.

Perché ci si è arrivati?
Visto che non si riusciva o non eraconsigliabile, unificare polizia e carabinieri e poi finanza e carabinieri,alla fine si è pensato di annettere un corpo dalle originali caratteristichetecniche e professionali in campo ambientale come quello forestale in un corpodi polizia militare. Si è guardato alla “etichetta “e non alla sostanza delprovvedimento, con le conseguenze di oggi.

Viviamo in emergenza.
Sarebbe meglio avere un buon ministro dellaProtezione civile. Si ricorre invece a un Alto commissario per la ricostruzionequando c’era ancora un problema di difesa del territorio dalle scosse di terremotoe ora anche dalla neve, prevista e prevedibile anche se non in quelledimensioni.

Insomma: pochi fatti e molte parole?
È quell’ideologia di interventi fatti percompiacere una moda piuttosto che risolvere i problemi. È quell’ideologia cheha portato a salutare l’atrofizzazione delle Province prima che intervenisse ladecisione sulla loro soppressione formale, senza gli interventi istituzionaliadeguati. È un’ideologia di smobilitazione che ha portato fino all’abolizionedel controllo capillare sulle strade da parte dei cantonieri che dovevanoprovvedere a spargere subito il sale.

Le Province prima. Le Regioni poi.
La mistica della regionalizzazione (odell’accentramento) deve trovare composizione in un sistema coordinato e regolatoin cui si sappia chi è responsabile di che cosa e lo stato non sia un elementoresiduale e viceversa le Regioni abbiano i mezzi per fare quanto è loro dovere,specie con il venir meno delle Province e con il taglio previsto di tantePrefetture. In tema di protezione civile è fondamentale è il coordinamento tra l’intervento nazionale equello locale. Non si tratta di smantellare, ma di agire insieme.

I Vigili del Fuoco hanno dovutodifendersi.
Un corpo fondamentale, che ha dovuto battersicontro i tentativi di regionalizzarlo, di trasformarlo in un’azienda, didepotenziarlo, quando invece l’Italia ha il dovere di assicurare omogeneicriteri di intervento e di assistenza tecnica in tutto il territorio nazionale.

Sta dicendo che chi gestisce ilPaese non lo conosce?
Oggi di fronte a tanta tragedia e a tantasofferenza, quello che si richiede è prendere fino in fondo atto dei pericoliin cui versa il nostro Paese e delle grandi esigenze di difesa del territorio edi protezione civile che ciò esige. Agire di conseguenza con una classe dirigenteche ne sia fino in fondo consapevole.


QUANDOC’ERANO I TRENI,
PIÙ FORTI DELLA NEVE

diAntonello Caporale

Ferrovie I locomotori viaggiavano comunque ma l’Italia ha eliminato le linee secondarie

Ieri, ai margini dellacronaca quotidiana, ha trovato un piccolo spazio la notizia di quattro corpi dipoveri cristi, due dei quali – padre e figlio – trovati ghiacciati ai marginidellastrada che dovevacondurli allaricerca di un po’ di cibo.Non sono morti che contanonell’Abruzzoincarcerato e isolato,costretto achiudersi in casae sperarechequalcuno ancoraoggi sene accor-ga e prenda cura.Sono ipaesi sommersi e sepolti più che dalla neve dall’incuria e dalla dabbenagginedello Stato che proprio qui, fino a pochi anni fa, vantava il miglior sistemadi mobilità esistente: il treno. La littorina prima, il locomotoreelettrico poi erano dotati di una lancia d’acciaio anteriore, il rovere, che bucavala neve, spalancava la strada ai vagoni e congiungeva paese a paese. Proprio aSulmona nasceva la tratta in quota più alta d’Italia, il collegamento lungo ilcrinale montuoso che legava l’Abruzzo al Molise: da Sulmona a Roccaraso, poiCastel di Sangro, Isernia e infine Carpineto. Paravalanghe a coprire i fianchi,il rostro sul muso della locomotiva ad aprire la strada e via. Era chiamata,infatti, la transiberiana d’Italia.
LA CATASTROFE di questigiorni è stata soprattutto una profonda, irreversibile crisi della mobilità.Dal 1990 in poi l’Italia ha smobilitato, liquidato e fatto arrugginire circa ottomilachilometri di tratte ferroviarie ritenute di serie b: i cosiddetti rami secchi.Nel quadrilatero della crisi i treni non esistono praticamente più. Resiste lalinea del mare, la cosiddetta Adriatica, e basta. L’attraversamento, se si puòdefinire tale, è solo lungo la via di Orte e punta su Ancona. L’Italia internaè fuori dalle linee ferroviarie, l’unico sistema di trasporto sicuro esoprattutto popolare. Il taglio dei “rami secchi” – il costo economico cheprocurava il mantenimento del servizio – è spesso servito da paravento, ottimomotivo per agevolare il business della gomma, naturalmente assistito daprovvidenze pubbliche. Così, semplicemente, i soldi si sono spostati dai treniai bus. A nord dell’area colpita, la Fano-Fossombrone è stata liquidata,malgrado fosse sempre ricca di viaggiatori e quella tratta congiungesse il mareall’interno con tempi di percorrenza di gran lunga inferiori a quelli che oggiimpegnano i bus sostitutivi.
Uguale, per modalità e tempidi disattivazione, le altre linee che collegavano l’Italia interna alle città:Pescara di qua, Roma di là. E così, paradosso nel paradosso, il governo italianosi prepara a spendere quattro miliardi di euro per far fronte all’emergenzaterremoto, pronto a impegnarne almeno altrettanti per l’enorme area devastatadalla catastrofe che è anche quella maggiormente colpita dall’abbandono, senzaimputarne uno solo per riattivare i collegamenti su ferrovia, linfa vitaledell’economia locale.
VOLTERRA, da quandoha perso il treno, ha perduto la metà dei suoi abitanti. “Abbiamo in mente diutilizzare i fondi europei”, ha detto il commissario Vasco Errani. Quindi tuttoda progettare, da definire, da programmare. Un domani, forse, chissà... ConRieti, dove ha sede il centro operativo dell’emergenza che da settant’annidiscute e aspetta il suo treno per Roma e Amatrice, il paese martire, chepatisce a uno spopolamento che l’aveva già aggredita e che ora rischia dimetterla al tappeto. Forse avremo le case, prime e seconde, ma chi le abiterà?


“DA 20 ANNI MANCA LA CARTA DELLE VALANGHE”
d
i Andrea Gianbartolomei


Mancano i piani, gli studi,la prevenzione. Per questoincidenti come quello di Farindola, con la valanga caduta sull’Hotel Rigopiano,provocano enormi danni. Poi, quando si fa qualcosa in materia, il lavoro siferma, mentre regolamenti e piani restano chiusi negli armadi. Come lavalutazione nazionale delle criticità delle valanghe, avviata dalla Protezionecivile dopo l’emergenza neve sugli Appennini nel 2012: “Il tavolo tecnico haprodotto una bozza non ancora approvata, rimasta in stand by”, spiega ValerioSegor, dirigente del servizio di “Assetto idrogeologico dei bacini montani”della Regione Valle d'Aosta, esperto di valanghe, mentre si prepara a partireper l’Abruzzo, dove collaborerà con la Protezione civile insieme a un team diesperti.
QUELLA valutazionesarebbe pronta ormai da tre anni, ma i cambi ai vertici della Protezione civilee le altre emergenze hanno rallentato la conclusione del lavoro e la suaattuazione. Eppure sarebbe stato lavoro che sarebbe stato molto utile per calcolarei rischi e migliorare la prevenzione, magari evacuando il resort prima dellaslavina. Ma in Abruzzo non c’è neanche un piano più specifico: “Manca la cartadelle valanghe spiega l’ingegnere dell’Aquila Dino Pignatelli, progettista diimpianti di risalita che ha studiato a fondo la questione -. È una procedurache permette di individuare con precisione i punti
in cui è possibile che siverifichino le slavine. Si studia la storia delle valanghe nelle zone negliultimi 30, 100 o 300 anni e le altre caratteristiche come il moto, la velocità,la pressione e l’altezza della neve”. Secondo l’ingegnere questa “carta” mancada almeno venti anni e la Regione Abruzzo ha avviato da poco il bando perredigere quella del Gran Sasso, una parte ancora piccola per una regione in cuiil 65 per cento del territorio è composto da sistemi montagnosi. Sono poi leamministrazioni comunali che devono tenere conto di questi studi nei loro pianiregolatori. Secondo l’ingegnere, l’Hotel Rigopiano era in una “zona rossa”: “Quella di mercoledì erauna valanga di versante incanalata: la neve distaccandosi si incanalava econfluiva verso una zona. Il bosco, poi, era nella zona di transito, per cui lamassa trascinava tronchi e detriti”.
INSOMMA, costruirela sotto è stato un gesto sconsiderato: “Non capisco come sia stato possibilefarlo. È un caso scolastico”. Una carta delle valanghe, quindi, avrebbe permessodi fare qualcosa: “Si poteva mitigare l’effetto delle valanghe spiega l’espertovaldostano Segor -, si potevano porre vincoli urbanistici e si potevano faredei piani specifici di protezione civile”.

Come ha potuto accadere che gli uomini, e non la natura o l'ira divina, abbiano distrutto un complesso edilizio e travolto una trentina di persone, uccidendone alcune. Articoli di Peppe Caridi e Federico de Wolanski, Meteoweb online e la Nuova Venezia, 19 e 21 gennaio 2017, con postilla



Meteoweb online, 19 gennaio 2017
LA SCONVOLGENTE VERITÀ:
“STRUTTURA ABUSIVA,
LÌ NON SI DOVEVA COSTRUIRE”
a cura di Peppe Caridi

Iniziamo subito chiarendo le cose: la catastrofe dell’Hotel “Rigopiano”, dove sono già stati recuperati tre cadaveri e risultano ancora disperse circa 30 persone, non è stata provocata dal terremoto. Le scosse che ieri hanno colpito la zona di Campotosto, Montereale e Capitigliano si sono verificate molte ore prima rispetto alla valanga, e in una zona molto distante dall’Hotel Rigopiano, al confine tra l’Abruzzo e il Lazio, in provincia di L’Aquila, mentre l’Hotel Rigopiano sorge a monte di Penne, in provincia di Pescara, sul versante Adriatico dell’Abruzzo. Non conosciamo ancora con precisione l’orario della valanga, ma sappiamo che il primo SMS con la richiesta di soccorso risale alle 17:40 di Mercoledì pomeriggio. Verosimilmente la valanga si era appena verificata, comunque dopo le 17:15/17:20. Le scosse di terremoto, invece, si erano verificate al mattino, la più forte di magnitudo 5.5 alle 11:14, poi quella di magnitudo 5.4 alle 11:25, infine l’ultima di elevata intensità (magnitudo 5.1) alle 14:33, circa tre ore prima della valanga-killer. E’ già difficile immaginare che un terremoto di questa magnitudo (forte, ma non fortissimo) possa innescare una valanga, ancor più improbabile che possa farlo a così tanti chilometri di distanza dall’epicentro. Scientificamente impossibile che ciò accada con svariate ore di ritardo. Invece valanghe di questo tipo rientrano nella relativa “normalità” di grandi nevicate come quelle delle ultime ore sull’Appennino.

A spiegare bene quanto accaduto è stato il geologo Gian Gabriele Ori, dell’università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti: l’hotel Rigopiano è stato investito da “un’enorme colata di detriti, un un fenomeno raro, che ha acquisito forza e velocità notevoli sotto la pressione della neve abbondante, dalla debolezza del terreno. Il terremoto lo ha innescato, come una miccia“. La forza della colata di detriti e’ stata tale da travolgere anche il bosco che si trovava dietro l’hotel. “Di solito – ha osservato l’esperto – i boschi resistono a slavine e valanghe“, ma quello che ha travolto l’hotel è stato qualcosa di molto più violento. Sotto la pressione di almeno tre metri di neve, accumulata nei giorni scorsi anche a causa del vento, il terreno indebolito dalle piogge ha ceduto e ha cominciato a scivolare portando con se’ rocce e detriti. “Il terremoto – ha osservato Ori – potrebbe essere stata solo la miccia che ha innescato il fenomeno“, anche se al momento non ci sono elementi per stabilire se una delle scosse avvenute al mattino possa avere un minimo collegamento con il disastro. “Probabilmente tutto è iniziato come una slavina“, ossia con il distacco di una massa di neve, che cadendo ha raccolto rocce e alberi, cominciando a scorrere su una superficie debole. Ad aumentare progressivamente la velocità ha contribuito la neve, che ha agito come un lubrificante. “In questo modo – ha spiegato ancora Ori – la slavina si e’ caricata di roccia, trasformandosi in un enorme flusso di detriti che, a grande velocità, ha travolto il bosco e poi l’albergo con una potenza distruttiva“.

I soccorritori che sono arrivati all’hotel Ricopiano hanno spiegato che “la situazione è drammatica, l’albergo è stato spazzato via, è rimasto in piedi solo un pezzetto. Ci sono tonnellate di neve, alberi sradicati e detriti che hanno sommerso l’area dove si trovava l’albergo. Ci sono materassi trascinati a centinaia di metri da quella che era la struttura“, ha riferito Luca Cari, responsabile della comunicazione in emergenza dei vigili del fuoco.

La valanga sull’Hotel “Rigopiano”, come tante altre valanghe che nelle ultime 48 ore stanno interessando l’Appennino centrale tra Marche, Abruzzo e Molise, è provocata dalle eccezionali nevicate che da giorni stanno colpendo l’Italia centro/meridionale, con accumuli di svariati metri (in alcune zone di montagna sono stati superati i 4 metri di neve). Ma in altre zone le valanghe non hanno colpito direttamente una struttura con persone dentro. Non è una novità delle grandi nevicate Appenniniche: in queste zone le grosse valanghe sono provocate proprio dall’emergenza neve, nella stessa zona dell’Hotel “Rigopiano”, storicamente denominata “Bocca di Lupo“, nel 1936 c’era stata un’analoga rovinosa valanga. Osservando le immagini orografiche della zona, possiamo notare come l’albergo sia stato costruito proprio a valle di un grande canalone di montagna, che si restringe pericolosamente proprio in prossimità della struttura. In questa situazione, un’eventuale valanga nel canalone diventa devastante perchè aumenta di energia e velocità proprio a ridosso della struttura. Esperti e geologi stanno già descrivendo questa situazione di estremo pericolo, parlando di “abuso edilizio” e sostenendo senza mezzi termini che “in quella zona non si doveva costruire“.

In effetti la storia dell’Hotel “Rigopiano” è caratterizzata da un processo per corruzione, che però si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati “perchè il fatto non sussiste“. Era stato il pm di Pescara Gennaro Varone nel 2008 ad aprire un’inchiesta sulla base delle intercettazioni telefoniche dell’indagine “Vestina“, ipotizzando il reato di corruzione per 7 persone. L’ipotesi accusatoria era di mazzette e posti di lavoro in cambio di un voto favorevole per sanare l’occupazione abusiva di suolo pubblico, relativamente all’ampliamento della struttura (che in origine era un vecchio casolare di montagna), per la realizzazione di un hotel a quattro stelle. L’Hotel Rigopiano aprì i battenti nel 1972 ma proprio nel 2007 assunse una veste completamente nuova, ristrutturato e dotato di tutti i confort, tra cui centro benessere e piscina.

In base a quanto riportano numerosi articoli dei giornali locali, secondo l’accusa, l’amministrazione comunale aveva votato a favore della delibera finalizzata a “sanare l’occupazione abusiva di suolo pubblico da parte della società Del Rosso“, in una zona fino ad allora adibita a pascolo del bestiame e compresa in un’area naturalistica protetta. Secondo le carte della Procura, “l’autorizzazione a sanatoria si basava sul presupposto che detta occupazione non costituisse abuso edilizio per mancata, definitiva trasformazione del suolo“. Ma secondo l’accusa, gli amministratori locali in cambio della delibera avrebbero incassato la “promessa di un versamento di denaro destinato al finanziamento del partito” di appartenenza (il Pd) e, in particolare, il secondo avrebbe ottenuto “il pagamento di 26.250 euro” che, dice ancora l’accusa, andava ad “adempimento parziale di un debito pregresso ma inquadrabile nel rapporto corruttivo“.

Il pm sosteneva anche che come merce di scambio per quella delibera favorevole, i consiglieri e gli assessori del tempo avessero ottenuto dai titolare della società anche “assunzioni preferenziali per i propri protetti“. L’ex sindaco di Farindola nel corso del processo ha sempre respinto l’accusa di corruzione, ottenendo ragione dal giudice che lo scorso novembre ha emesso la sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste“. Il processo, iniziato nel 2013, si è concluso nel 2016 e il reato era comunque prescritto già dallo scorso mese di aprile, quindi questa sentenza non potrà essere appellata. Le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. Ma adesso è probabile che nuove inchieste possano essere aperte per fare luce sull’accaduto.

A prescindere dalla vicenda giudiziaria, se davvero vogliamo fare prevenzione dobbiamo conoscere bene il nostro territorio e i suoi rischi. Come per i terremoti, dove a uccidere sono le costruzioni che non vengono realizzate rispettando i criteri antisismici, anche per frane, alluvioni e valanghe non è mai corretto parlare di “natura assassina” o fandonie simili. A uccidere è l’incoscienza umana. E quell’albergo, a valle di un canalone così pericoloso in una zona esposta a grandi nevicate e da sempre soggetta a pericolose valanghe, non doveva essere costruito. Non lì. Oggi paghiamo semplicemente le conseguenze delle nostre assurdità.

La Nuova Venezia, 21 gennaio 2017
IL RESORT DELLA TRAGEDIA
DI UNA SOCIETÀ TREVIGIANA
di Federico de Wolanski


Treviso. Prima di diventare un resort di lusso tra le montagne, l’hotel Rigopiano era un bellissimo casale di montagna, ma molto meno redditizio. La trasformazione finì sotto la lente d’ingradimento della procura che aprì un’indagine su un presunto abuso edilizio sanato grazie a favori economici, ma divenne anche l’occasione per un grande affare: sia in termini turistici che finanziari. A cogliere l’opportunità al volo è stata la società trevigiana A-Leasing, intermediario finanziario con capitale sociale nell’ordine delle decine di milioni di euro e oggi proprietario dell’immobile con una sua controllata, la A-Realestate. La società aveva sede lungo il Terraglio, proprio all’ingresso di Treviso, ora si è spostata nella Cittadella delle Istituzioni. Nel giardino della villetta riorganizzata a centro direzionale faceva bella mostra lo stemma giallo e nero della banca Raiffeissen, il gruppo svizzero diffusissimo in Austria che fa da scudo economico all’attività di A-leasing: offrire e gestire locazioni finanziarie in tutta Italia.

Una di queste era l’hotel Rigopiano di Farindola, una delle 70 proprietà di A-Leasing nella provincia di Pescara. “Era” perché il resort è stato sventrato dalla valanga, ma anche perché negli ultimi anni l’edificio era stato passato nei registri della società controllata – sede in via della Mostra a Bolzano – che si occupa di vendere gli immobili non più in leasing. L’alienazione pare fosse stata già avviata, l’avevano benedetta i tanti membri del consiglio di amministrazione che conta commercialisti e imprenditori austriaci, trevigiani come Sandro Casellato (già in Fortis), Francesco De Momi e Ivan Montagner, i coneglianesi Nicola De Zottis e Ivan Boscariol, ma anche un padovano (Matteo Marcon) e un professionista di Mantova, Matteo Artioli. «Al momento siamo a conoscenza dei soli fatti riportati dalle cronache» hanno commentato ieri i responsabili della A-Realestate, «non disponiamo di ulteriori informazioni.

La società intestataria del bene immobile oggetto del disastro manifesta la propria solidarietà a tutti coloro che risultano coinvolti nonché il proprio sostegno a chiunque stia prestando il proprio servizio nell’intento di prestare soccorso offrendo la massima disponibilità e collaborazione qualora se ne manifestasse il bisogno».
Il palazzo che ospitava l’hotel ora rischia di tornare nell’occhio del ciclone. Sotto accusa la già contestata conclusione con l’assoluzione del processo per il presunto abuso edilizio chiusosi due anni prima del fallimento della Del Rosso. La società che gestiva l’albergo e ne aveva lanciato la trasformazione in resort sette mesi prima di saltare riuscì «a disfarsi dell’unico ramo d’azienda operativo comprendente l’albergo sito in località Rigopiano di Farindola», come scriveva il tribunale di Pescara nel decreto di fallimento. Lo salvò dai creditori con una partita di giro che vide l’ingresso della A-Leasing come nuova proprietaria dell’immobile e quello della Gran Sasso Resort Spa (sempre legata a Del Rosso) come nuovo gestore. Era un business che funzionava, tanto da portare il fatturato della Gran Sasso a quota 1,6 milioni con guadagni in crescita. Piaceva, quel resort che contava anche sul via vai di personaggi noti. Piaceva il suo panorama con vista sulla vallata ma anche il riparo della grande montagna alle spalle. Quella stessa montagna da cui è partita la valanga che lo ha travolto. «Non poteva essere altrimenti» dicono oggi in molti, «il resort era in un posto dove non doveva stare», allo sbocco della ripida gola.

postilla

Abbiamo scelto due soli articoli tra i numerosissimi che hanno raccontato la tragedia del resort Rigopiano a Farindola. Il primo descrive minuziosamente le ragioni per cui la responsabilità non va attribuita agli eventi, ma agli uomini, che mai avrebbero dovuto scegliere quel sito per trasformare prima un casolare in un albergo, poi l'albergo in un gigantesco complesso. Il secondo, articolo, oltre a fornire qualche informazione aggiuntiva sui responsabili, si fa portatore di un errore grave che ha coinvolto quasi tutti che hanno scritto sull'aspetto abusivo della costruzione del grande complesso. Si informa che la magistratura aveva avviato un procedimento relativo al rilascio della concessione a trasformare un'area libera che avrebbe dovuto restare tale, ma che il procedimento si è concluso con l'assoluzione degli imputati. Si nasconde il fatto che il proscioglimento riguarda l'accusa di corruzione, non l'abuso territoriale. Un abuso, per la verità, sempre diffuso in Italia: temperato negli ultimi decenni del secolo scorso, con le leggi sulla difesa del suolo e quelle per la tutela dell'ambiente e del paesaggio, ma fortemente accentuati negli anni più recenti dai rottamatori non della vecchia politica, ma tel territorio, dei suoi valori e delle sue fragilità.

Se vogliamo che le nuove generazioni (e noi stessi) si sopravviva dobbiamo reimparare che cos'è la natura nel pianeta in cui viviamo: occorre «la coltivazione di una coscienza di stagione e di luogo». il manifesto, 20 gennaio 2017

Si intitolava Una coscienza di stagione e di luogo una preziosa conferenza che Fritjof Capra, nel 1997 tenne all’aperto nell’Edible Schoolyard, il “cortile commestibile” dell’Università di Berkeley. Si individuava come indispensabile per la sopravvivenza di tutti una ecoalfabetizzazione di massa, «la coltivazione di una coscienza di stagione e di luogo».

Della stagione noi non ci rendiamo conto, se non in occasione di catastrofi, quando ci ammaliamo, quando invecchiamo, quando la pioggia travolge gli argini dei torrenti, quando la neve abbatte effimere anche se sontuose costruzioni.

Ciò comporta, oltre tutto, un enorme problema pedagogico: negli spazi artificiali in cui li parcheggiamo, in quelli metropolitani, i bambini non sanno più riconoscere, ma soprattutto vivere, il ciclo vitale e temporale di un organismo, il ciclo di nascita, crescita, maturazione, declino, morte, e poi la nuova crescita della generazione successiva legato all’alternarsi del caldo e del freddo, dell’estate e dell’inverno.

Non hanno insomma più la struttura mentale della stagione, una struttura del ciclo e anche del limite. I sistemi metropolitani, modulati su quelli industriali, innaturali e contro Natura, hanno invece fatto acquisire, in base al pregiudizio che tutte le cose debbano crescere ed espandersi all’infinito, una struttura senza scansioni temporali, senza adattamenti temporali, senza incertezze e dissipazioni e perciò senza vere precauzioni .

È una struttura che ha influito sul senso del tempo ma anche dello spazio che non è più un luogo, ovvero uno spazio che è funzionale ma anche simbolico, e in cui l’uomo per abitare deve conseguire anche un senso di identità e di appartenenza, accumulare memoria e bellezza e armonia e relazioni di comunità e perfino un senso del sacro.

Il sacro è stato abolito nella struttura mentale moderna e certo nelle tante Facoltà per archistar si irridono (con ovvie eccezioni) quei riti magici fatti da antiche religioni e comunità non solo per propiziarsi lo spazio, ma per trasformarlo da spazio selvaggio a luogo civilizzato secondo una razionalità.

In quei riti c’era anche infatti una profonda essenza di scienza naturale finalizzata alla prevenzione e quindi rivolti ad indagare se erano adatti a quella specifica costruzione o città, quello specifico clima, quel movimento del sole, quelle specifiche condizioni del suolo, oltre alla vicinanza all’acqua e alla presenza di vegetazione.

Riti che davano un limite ed un principio di responsabilità all’abitare dell’uomo, al suo costruire, dicendogli continuamente, ossessivamente, che non era padrone, che ogni presa di possesso dello spazio non poteva essere avulsa del conoscere, curare, armonizzare.

Forte della coscienza di stagione e di luogo, la coscienza tragica dell’ecologia, invita perciò, sempre come Cassandra inascoltata, a verificare da dove venga la distruzione, a verificare se non è stato il caso ma proprio il desiderio di Paride a causare la sciagura.

A verificare cioè se le catastrofi naturali siano proprio naturali, o siano il frutto di un atto umano scellerato, la conseguenza del senso mancato della stagione e del luogo. Invitano a vedere (come del resto farà la magistratura) se in quell’albergo dove si promettevano tutte le stelle del benessere artificiale, non sia venuto meno proprio al primo patto, alla prima condizione vera del benessere che è la filiazione, il rispetto, la coscienza dei limiti che l’uomo figlio deve avere nei confronti della Natura.

«Nelle campagne italiane esistono persone che hanno scelto di radicarsi sul territorio per coltivarlo in maniera autonoma, efficiente, rispettosa dell’ambiente. Chi sono?» terranuova, 12 gennaio 2017 (c.m.c.)

Sembra una favola sbarazzarsi dei metodi agroindustriali, eppure oggi in Italia c’è chi vive questa favola tutti i giorni. Chi sono queste persone? Come fanno reddito? Quali tecniche adottano? E perché il loro lavoro è necessario?

«Nell'autunno 2015 iniziano le riprese del documentario indipendente "Con i piedi per terra", durante un viaggio per l’Italia intrapreso per intervistare contadini, ricercatori, medici e docenti universitari» spiega Valentina Gasperini, una delle voci e dei protagonisti del progetto.

«Compiuto con lo spirito della ricerca, è un'indagine realizzata riprendendo in presa diretta le attività quotidiane nei campi, nei boschi, nelle case e nei mercati. Con il ritmo sostenuto dell'avanscoperta, e valorizzato da musiche originali, il documentario racconta attraverso decine di storie personali come fare reddito in maniera sostenibile, onorando il senso di appartenenza al territorio e la cultura dei saperi millenari. Testimonianze che smascherando l'inganno ideologico operato dell'agro-industria lasciano affiorare un paesaggio finemente lavorato, come un pizzo fatto di attività agricole all'opera Con i piedi per terra».
"Con i piedi per terra" è una tappa del "Viaggio Tra Terra e Cielo": un percorso che procedendo dal web al video arriverà in teatro.

"Radici nel cielo" è un collettivo di artisti e tecnici attivo nel teatro civile e nel videomaking documentaristico. Elabora percorsi di ricerca e spettacolo sull’etica e il senso di appartenenza alla terra e alla comunità umana.
Nato nel 2015, Radici nel Cielo fa narrazione orale e comunicazione multimediale accogliendo i saperi e le abilità di professionisti diversi, con un metodo di lavoro aperto alle collaborazioni.

Il collettivo ha come base operativa la Tenuta San Cassiano ma, proprio come radici, i suoi membri vivono sparsi e lavorano uniti, disseminati tra monti

"Con i piedi per terra".

«L’economia globale capitalistica prende le cose buone dai paesi poveri a cui restituisce la nocività. Il socialismo riconosce i bisogni essenziali alla vita». il manifesto, 30 dicembre 2016 (c.m.c.)

La politica ha (dovrebbe avere) la funzione di soddisfare i bisogni delle persone: bisogni di cibo, di acqua, di abitazione, bisogno di respirare aria pulita, di salute, di informazione e istruzione, di mobilità, di dignità e libertà, eccetera. Per soddisfare questi bisogni, anche quelli apparentemente immateriali, occorrono cose materiali: frumento e mulini, acquedotti e gabinetti, cemento e vetro per le finestre, libri e banchi di scuola, letti di ospedale, veicoli e strade, eccetera.

Tali cose materiali possono essere ottenute soltanto trasformando, col lavoro, delle materie naturali: i raccolti dei campi diventano pasta alimentare o conserva di pomodoro e queste vengono trasportate nei negozi e poi arrivano alle famiglie; i minerali vengono trasformati in acciaio e questo diventa lattine per alimenti, o tondino per le costruzioni di edifici; gli alberi vengono trasformati in carta e questa in giornali o libri.

In ciascuna di queste trasformazioni delle materie naturali in oggetti utili, capaci di soddisfare, appunto, bisogni umani, i campi perdono una parte delle loro sostanze nutritive minerali, i mezzi di trasporto immettono nell’atmosfera gas nocivi, si formano scorie e rifiuti solidi, liquidi, gassosi che finiscono nel suolo o nei fiumi o nell’aria. Una circolazione natura-merci-natura alla fine della quale i campi risultano meno fertili, le acque e l’aria più inquinate.Il “peggioramento” della qualità dell’ambiente riguarda però molto diversamente le diverse classi sociali e i diversi paesi.

Alcuni godono i vantaggi del possesso di più merci, e sono maggiormente responsabili degli inquinamenti, altri non riescono a soddisfare neanche i loro bisogni essenziali e sono danneggiati dal peggioramento dell’ambiente.

Il caso più emblematico è rappresentato dai mutamenti climatici: i paesi ricchi, con i loro elevati consumi di combustibili fossili, immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas serra; i paesi poveri, pur avendo bassi consumi energetici, subiscono gravi danni a causa delle piogge improvvise che allagano i campi o della siccità che asciuga le limitate riserve idriche.

I paesi ricchi possono disporre di grandi quantità di alimenti di buona qualità importandoli dai paesi poveri che li ottengono da monocolture che hanno sostituito la loro agricoltura di sussistenza. I paesi ricchi importano minerali e fonti energetiche per le loro industrie da paesi poveri a cui restano terre desolate e inquinate.

Molti rifiuti solidi e inquinanti dei paesi ricchi vengono smaltiti, con processi dannosi e pericolosi, nei paesi poveri. E’ la globalizzazione capitalistica: per denaro le cose buone vanno dai paesi poveri a quelli ricchi e le nocività vanno dai paesi ricchi a quelli poveri.

Il degrado dell’ambiente ha dato vita a movimenti di protesta, ma anche la protesta ambientalista può assumere diversi colori. Ad esempio davanti ad una acciaieria inquinante alcuni chiedono di chiuderla; altri riconoscono che l’acciaio è essenziale per tanti altri settori della vita umana, può essere fatto con processi alternativi, meno inquinanti, che consentono di salvare l’occupazione.

Alla contestazione ecologica ci sono due reazioni; il potere economico si sforza di minimizzare la portata umana dei danni ambientali esaltando i vantaggi per l’economia e la gioia che viene assicurata dal possesso di crescenti quantità di merci, del superfluo e del lusso.

D’altra parte talvolta le organizzazioni dei lavoratori, davanti al pericolo che più rigorose norme ambientali possano compromettere il loro posto di lavoro, sono disposti ad accettare i danni ambientali che compromettono la salute loro, dentro la fabbrica, e quella delle loro famiglie, fuori dal cancello della fabbrica.

Per superare gli atteggiamenti populistici ed egoistici di quelli che vogliono i benefici della tecnica purché i disturbi e le nocività danneggino qualcun altro, altrove, una sinistra ha (avrebbe) di fronte una sfida che richiede la collaborazione e la solidarietà dei popoli inquinati e dei lavoratori.

Una rivoluzione che parta dall’analisi dei bisogni umani, di quelli essenziali da soddisfare anche con un costo ambientale, e dei processi e materie e mezzi con cui soddisfarli tenendo conto dei vincoli fisici imposti dal carattere limitato delle risorse della natura e della limitata capacità dei corpi della natura di ricevere le scorie delle attività umane.

Un processo difficile perché il capitale finanziario, dopo aver saziato le domande delle classi e dei paesi più abbienti, per dilatarsi inventa sempre nuovi bisogni da far credere essenziali anche alle classi meno abbienti. Ha inventato macchine che invecchiano rapidamente, che devono essere sostituite con sempre “più perfetti” aggeggi, per la cui conquista le classi povere sono disposte a svendere il proprio lavoro e talvolta anche la propria dignità.

Una situazione che Marx aveva lucidamente descritto già un secolo e mezzo fa nel terzo dei manoscritti del 1844, spiegando che nell’ambito della proprietà privata ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno; con la massa degli oggetti cresce la sfera degli esseri ostili, a cui l’uomo è soggiogato.

Ma spiegando anche che il socialismo è l’unico sistema capace di riconoscere quali bisogni sono essenziali per liberare “l’uomo” dalla miseria e dall’ignoranza, e i processi e le materie che sono in grado di soddisfarli.

La difesa dell’ambiente — un altro volto della lotta di classe — non passa quindi da un rifiuto della tecnica ma dal rifiuto della tecnica asservita al capitale per il quale le merci non servono a soddisfare bisogni umani ma solo a generare denaro per alcuni (pochi) e nocività per altri (tanti).

Alcune nocività ambientali generate in un paese danneggiano chi abita vicino, al di là degli oceani e addirittura chi abiterà il pianeta; si pensi all’eredità che l’avventura nucleare militare e commerciale di cui hanno “goduto” (si fa per dire) alcuni paesi nell’ultimo mezzo secolo, lascia alle generazioni che verranno nei prossimi decenni e secoli costringendoli a custodire sotto stretta sorveglianza i cumuli delle scorie radioattive.

«Una prospettiva reale al nostro paese non può non includere l’obbligo etico di investire sempre di più nella sicurezza del nostro territorio. La stretta relazione tra dissesto geologico e dissesto sociale sottolinea una disattenzione collettiva verso il territorio». MicroMega online, 23 dicembre 2016 (c.m.c.)

In Italia non esiste una strategia di riduzione dei rischi naturali, che parta dall’educazione nelle scuole e dall’informazione alla popolazione, che preveda sistematicamente esercitazioni di emergenza, la pianificazione di interventi di rinforzo delle abitazioni, l’applicazione rigorosa delle normative edilizie, la delocalizzazione di edifici strategici e di impianti industriali a rischio.

Al momento la prevenzione in Italia viene percepita soprattutto come declamazione di luoghi comuni e slogan, puntualmente rispolverati dopo ogni tragedia. Quali sono le ragioni profonde di una tale irrazionalità fatalistica che ignora la scienza? Il nuovo campo della geoetica può dare alcune risposte.

Il 24 agosto e il 30 ottobre 2016, due forti terremoti radono al suolo numerosi centri abitati nel territorio compreso tra Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo. L’evento di ottobre provoca distruzione anche a Norcia, fino a quel momento considerata cittadina simbolo di un’accorta azione di ricostruzione e rinforzo strutturale eseguita dopo il terremoto della Valnerina del 1979. Crolla quasi completamente la Basilica di Norcia dedicata a San Benedetto, patrono d’Europa, uno dei simboli dell’identità culturale dell’Occidente.

Con Norcia probabilmente si sfalda anche una delle immagini positive attraverso cui mostrare necessità ed efficacia della sempre invocata e mai perseguita prevenzione dai rischi naturali. Del resto, un disastro naturale è contemporaneamente causa ed effetto di un disastro sociale, nel momento in cui la scienza resta inascoltata dalla politica, anche per sua intrinseca debolezza nel saper dialogare con la società.

Di nuovo siamo di fronte a un paese colto di sorpresa dall’ennesimo terremoto, un evento naturale decisamente ricorrente sul territorio nazionale, non prevedibile temporalmente, ma dalle conseguenze quantificabili. Se da un lato la Protezione Civile ancora una volta mostra tutta la sua efficienza e tempestività, dall’altro gli effetti disastrosi sul tessuto sociale, economico, storico e artistico di nuovo denunciano l’assoluta inadeguatezza delle attività di prevenzione.

In questo momento di sconforto e rabbia, parlare di rischi naturali e prevenzione è un compito delicato, che si dovrebbe saper affrontare da angolazioni diverse, nel tentativo di individuare nuove possibili soluzioni.

La scienza e la tecnica nel cassetto

Non esiste in Italia una robusta strategia di riduzione del rischio, articolata in azioni concertate, che parta dall’educazione nelle scuole e dall’informazione alla popolazione, che preveda sistematicamente esercitazioni di emergenza, la pianificazione di interventi di rinforzo delle abitazioni, l’applicazione rigorosa delle normative edilizie, la delocalizzazione di edifici strategici e di impianti industriali a rischio. Al momento la prevenzione in Italia viene percepita soprattutto come declamazione di luoghi comuni e slogan, puntualmente rispolverati dopo ogni tragedia.

Eppure non siamo certo all’anno zero e non mancano i punti forti sui quali fare leva per costruire un patto nazionale per la prevenzione dai rischi naturali, per aumentare la consapevolezza sociale e favorire un’azione politica responsabile. Uno di questi è la conoscenza scientifica. La comunità scientifica nazionale conosce da anni la sismicità delle zone interessate dai recenti terremoti, come del resto di tutta la dorsale appenninica, avendone analizzato le caratteristiche geologiche, le informazioni di sismologia storica e i dati strumentali, e avendo messo a punto banche dati online a disposizione di tutti [1] [2] [3].

Con le dovute cautele, i terremoti del centro Italia erano per la scienza “prevedibili”, se circoscriviamo la prevedibilità all’identificazione delle aree interessate dagli eventi e all’entità dell’energia potenzialmente sprigionabile. La scienza non è ancora in grado di dire in maniera deterministica quando potrà verificarsi un terremoto, ma certamente può quantificare probabilisticamente le occorrenze all’interno di determinati periodi temporali. Altrettanto nota era la vulnerabilità di quell’edificato antico o, se relativamente recente, costruito nell’incultura delle tecniche costruttive, quando non addirittura nella negligenza delle norme antisismiche.

In fondo scienza e tecnica hanno sempre umilmente imparato dai passati disastri e migliorato i modelli e le metodologie di intervento. Eppure, osservando le macerie di quei centri abitati, sembra che scienza e tecnica restino sempre strumenti spuntati, chiusi nel cassetto polveroso dei decisori politici, per i quali quegli strumenti possono solo rappresentare un pesante fardello amministrativo, quando non addirittura la fastidiosa evidenza della propria inadeguatezza e incapacità di lavorare per il bene della comunità.

La cultura del rischio

Pericolosità e rischio sono spesso usati come sinonimi, mentre hanno accezioni diverse. La pericolosità è una caratteristica intrinseca del territorio, funzione delle sue peculiarità geologiche, morfologiche, climatiche, su cui l’uomo non può intervenire, mentre il rischio implica la presenza sul territorio di “elementi” che possono essere danneggiati (popolazione, insediamenti abitativi, attività produttive, infrastrutture, beni culturali). Per valutare concretamente il rischio non è sufficiente conoscere la pericolosità, ma occorre anche stimare attentamente il valore e la vulnerabilità dei beni presenti sul territorio. Dunque, è dal rischio che possiamo difenderci, è agendo sul rischio che si fa prevenzione [4].

Ma il rischio è qualcosa di cui abbiamo un’adeguata percezione? Quanti di noi sono realmente consapevoli di rischiare la vita in determinate situazioni? Quanti cittadini hanno un’idea del grado di vulnerabilità della propria abitazione, o almeno sono a conoscenza dei luoghi più sicuri della propria casa e del proprio centro abitato?

Un dato di fatto è che la popolazione è ancora poco informata. Ad oggi il sapere sociale di cui siamo provvisti non comprende le opportune conoscenze di base sulla pericolosità dei fenomeni naturali e sul rischio ad essa associato, nonostante alcune significative iniziative a carattere nazionale [5]. Le conoscenze che possono venirci in aiuto in una situazione di emergenza o che possono supportare la programmazione della nostra difesa dai rischi sono ancora insufficienti.

La chimera della prevenzione

L’Italia, lo sappiamo, è una terra geologicamente giovane e per questo fragile. A questo ambiente fisico difficile e pericoloso spesso si sono aggiunti incuria, disattenzione, se non addirittura interventi scellerati dell’uomo che hanno ulteriormente incrementato l’esposizione al rischio. Purtroppo questo incremento del rischio non è stato accompagnato da un aumento della percezione del rischio stesso da parte della popolazione, che di conseguenza non è in grado di comprendere fino in fondo l’importanza di pretendere dai governanti lo sviluppo di politiche di difesa e di prevenzione.

Senza trascurare in alcun modo la dimensione economica della questione [6], o l’importanza di adottare strategie di riduzione del rischio che incrementino la resilienza delle comunità umane (ovvero la loro capacità di reagire al disastro in termini psicologici, sociali, economici e culturali) e riducano l’entità dell’intervento economico dello Stato per ripristinare nei limiti del possibile lo status quo, la prevenzione è soprattutto un dovere etico che dovremmo responsabilmente assumerci per rispetto della nostra stessa umanità.

Lo afferma già nel ‘500 l’architetto Pirro Ligorio nel suo Libro di diversi terremoti [7], quando ribadisce che i terremoti non sono accidenti oscuri e ineluttabili, ma fenomeni alla portata della ragione umana e che cercare di raggiungere la sicurezza abitativa è una necessità e un dovere dell’intelletto umano. È chiaro il suo riferimento alla responsabilità dell’uomo, che trasforma i terremoti in disastri quando in modo colpevolmente responsabile non fa nulla di ciò che è nelle sue possibilità razionali per difendere vite umane, beni e attività.

Ma se la scienza, nella sua dimensione evolutiva storica, ha sempre imparato da tutti i terremoti, le alluvioni, le eruzioni e da altri eventi del passato, mettendo in discussione i suoi modelli sulla base dell’osservazione diretta di quanto accaduto, la società moderna e la politica, sua emanazione organizzativa e operativa, sembrano dimenticare sempre troppo velocemente la lezione del presente, rimandando ad un futuro remoto l’adozione di strategie di intervento a lungo termine [8].

Un terremoto, un’eruzione, un’alluvione si ripresenteranno laddove permarranno le condizioni geologiche “favorevoli” al loro accadimento. E’ solo una questione di tempo. La scienza lo ripete con forza da decenni.

Ma anche alcune forme di saggezza popolare, nate da un rapporto più autentico e osservativo con la propria terra, facevano sì che nel passato, in un centro abitato, non si costruisse dove esistevano condizioni sfavorevoli all’insediamento. Al contrario, la società moderna sembra aver ridotto la sua temporale prospettiva di azione ad un periodo molto breve, determinato costantemente dalla rincorsa al problema contingente.

Pertanto, la “cultura dell’emergenza” che domina la nostra società, non appare più come causa, ma si rivela effetto di questa incapacità di pensare al futuro. E nella difesa dai rischi naturali l’incapacità di prefigurare razionalmente un futuro possibile ci determina in un costante atteggiamento passivo nei confronti di fenomeni che hanno tempi di ritorno anche di decenni. In questo quadro di riferimento culturale, la prevenzione resta una parola vuota, senza valore.

Recuperare la memoria del passato per progettare il futuro

Ad alimentare questo stato di cose c’è forse la facilità con cui siamo soliti perdere la memoria dei disastri del passato. In Italia eventi come i terremoti sono certamente frequenti, ma gli eventi più energetici possono avere tempi di ritorno molto lunghi, di parecchie decine se non centinaia di anni. Tempi di ritorno simili superano la durata della vita di un uomo, tant’è che dopo un terremoto bastano pochi anni per dimenticare. Il tempo diluisce la memoria dell’evento e allontana la paura. E mentre quel ricordo si cancella, svanisce dalla nostra memoria anche la necessità di porre l’opportuna attenzione nell’uso delle pratiche costruttive in quelle zone particolarmente rischiose del nostro territorio.

Pensare alla possibilità di un terremoto che ha tempi di ritorno di centinaia di anni è contro la nostra esperienza comune. Tuttavia, la memoria è elemento indispensabile per entrare nella dimensione temporale dei fenomeni naturali e comprenderla. Se non dimenticheremo cosa è avvenuto nel passato, lavoreremo con maggiore convinzione per prevenire ciò che può accadere nel futuro. E in ogni caso questo non basta.

Prevenzione: ruoli e responsabilità

La prevenzione, quell’insieme di azioni mirate a ridurre il rischio, è possibile solo se ruoli e responsabilità di scienziati, tecnici, amministratori locali, politici, mass media, cittadini sono chiaramente definiti [9].

Il compito degli scienziati è fare buona scienza, capire e modellare la realtà naturale, trasferire conoscenza alle diverse componenti della società e contribuire ad orientare chi deve prendere le decisioni sul territorio. I politici hanno il dovere di attivare responsabilmente nuove azioni di governo per la tutela dei cittadini e potenziare le iniziative già in atto [10], dotandosi di validi strumenti normativi che garantiscano il rispetto di adeguati livelli di sicurezza, tarati su conoscenze scientifiche affidabili e condivise.

Ai mass media è affidato il delicato lavoro di mediare tra scienziati e società, il che richiede massima attenzione alla qualità delle informazioni raccolte e diffuse, all’attendibilità e all’autorevolezza delle fonti da cui provengono dati, modelli, teorie e notizie. Se da un lato la denuncia mediatica di inefficienze politiche è una fondamentale missione civile, dall’altro i media dovrebbero dar maggiore risalto ai risultati positivi raggiunti nella difesa dai rischi, affinché la popolazione comprenda il valore della prevenzione e dei risultati che è possibile ottenere investendo oculatamente le risorse economiche collettive.

Gli stessi cittadini devono diventare più consapevoli della loro possibilità di incidere sulla sicurezza individuale e sociale. Informarsi sulle pericolosità del proprio territorio, accertarsi che gli edifici in cui si vive abbiano caratteristiche di sicurezza adeguate, conoscere i comportamenti che possono salvarci la vita durante un’emergenza, significa contribuire alla risoluzione o al contenimento dei problemi che possono affliggere l’intera comunità.

Da un lato i cittadini hanno il diritto di pretendere che lo Stato lavori per garantire la loro incolumità, dall’altro hanno il dovere di informarsi di più, per diventare più consapevoli del valore della prevenzione e dell’importanza di investire sulla propria sicurezza, e per essere in grado di valutare e sorvegliare l’operato di chi gestisce il territorio. L’ordinata società giapponese ci insegna che il rischio, anche se non del tutto eliminabile, può essere ridotto seguendo con responsabilità e disciplina semplici comportamenti virtuosi e pratiche corrette, in modo da non dover più correre almeno quei rischi che si possono evitare.

Le ragioni profonde di una cronica incapacità di prevenzione

Ma perché in Italia la prevenzione stenta a realizzarsi? Perché nel presente è così difficile pensare al futuro del territorio che abitiamo? In una prospettiva schiacciata sul presente, siamo portati a pensare, non senza ragione, che alla base del ritardo cronico nell’avviare estese politiche di prevenzione ci siano esclusivamente la difficoltà di reperimento di adeguate risorse economiche, l’inefficienza burocratica e la miopia delle classi dirigenti di questo paese. Ma forse queste “giustificazioni” non fanno che deviare l’attenzione dalla sostanza della questione, da quello che forse è principalmente un problema culturale, favorendo il perdurare di comportamenti attendisti e fatalisti nella società italiana.

Se come cittadini continueremo a pensare che per fare prevenzione i soldi siano sempre insufficienti, che la politica sia corrotta e la burocrazia incomba come un Moloch imbattibile, allora seguiteremo a sentirci quasi moralmente sollevati dalla responsabilità di dover prendere nelle mani il nostro futuro, aspettando che nella drammaticità dell’emergenza la nostra umana richiesta di aiuto venga accolta.

Ma come è possibile che una popolazione come quella italiana, capace di grandi slanci di solidarietà nei momenti di emergenza (dal cappotto, bene di lusso nel 1951, che il semplice cittadino donava allo sfortunato fratello del Polesine, fino al volontariato infaticabile del moderno sistema di Protezione Civile), non comprenda l’importanza di affiancare all’emergenza un’azione dagli effetti più sicuri e duraturi come la prevenzione?

Viene da pensare che il criterio guida del nostro agire sia condizionato dall’abitudine culturale a rimettere il nostro destino nelle mani del fato o di Dio, e nel contempo a considerare la solidarietà verso il prossimo in difficoltà come nostro unico, sufficiente adempimento morale: questo potrebbe giustificare la coesistenza della cronica trascuratezza nella prevenzione e del formidabile efficientismo in emergenza.

In un quadro simile, anche lo sviluppo di una società della conoscenza scientifica risulta azione gravosa per la collettività, mancando quel requisito di immediata utilità e semplicità necessario in una società sempre più confinata ed orientata da un flusso amorfo e inarrestabile di tweet, post e telegiornali fotocopia.

La prevenzione: una questione culturale

La prevenzione non è una cosa semplice: è un insieme di azioni che possono svilupparsi su periodi temporali anche lunghi, che richiedono una pianificazione oculata di risorse umane ed economiche. Il monitoraggio continuo dei fenomeni, l’identificazione delle aree a rischio, l’organizzazione di campagne educative alla popolazione, l'utilizzo di metodi di pre-allertamento, gli interventi di messa in sicurezza del patrimonio edilizio, la messa a punto di strumenti normativi, il coordinamento efficace tra i molteplici soggetti preposti alla difesa dai rischi, rappresentano le modalità attuative di una strategia preventiva che deve essere alla base di ogni politica del territorio.

Ma queste azioni restano insufficienti se non vi è una contemporanea azione sul piano culturale. Nella società italiana sembra mancare il riconoscimento dei valori su cui fondare il nostro agire in tema di prevenzione. La prevenzione, infatti, non è solo un vantaggio economico. E’ una risposta moderna, razionale e responsabile a quel diritto alla sicurezza che ognuno deve eticamente perseguire per se stesso e per la comunità a cui appartiene, assumendosi una parte di responsabilità, dal politico al tecnico, dallo scienziato fino al singolo cittadino.

Per costruire una vera cultura della prevenzione, occorre recuperare l’idea del territorio come bene comune, risorsa e vantaggio collettivo, elemento nel quale confluiscono gli interessi individuali e quelli di tutta la comunità. Per riconoscere il valore di quel bene per sé e per gli altri, per rispettarlo, difenderlo, conservarlo e trasmetterlo integro alle generazioni future, bisogna prima aver ricostruito all’interno della nostra comunità relazioni sociali solide, fondate su principi etici condivisi ed attuati.

Il territorio: bene comune e sostrato di identità

Una prospettiva reale al nostro paese non può non includere l’obbligo etico di investire sempre di più nella sicurezza del nostro territorio. La stretta relazione tra dissesto geologico e dissesto sociale sottolinea una disattenzione collettiva verso il territorio.

Il territorio non è semplicemente il luogo dove casualmente siamo nati o viviamo, ma è il supporto fisico delle nostre attività, una preziosa risorsa in termini economici, ma anche e soprattutto uno dei valori fondanti della nostra identità, dunque un bene da salvaguardare. Solo attraverso la riscoperta del valore identitario dei territori è possibile avviare quel cambiamento culturale che ci porti tutti a comprendere il vantaggio di perseguire politiche di tutela della bio- e geodiversità, di sviluppo di nuovi modelli economici, di valorizzazione delle specificità storico-artistiche esistenti, di prevenzione dai rischi naturali.

La conoscenza del valore del territorio è il primo mattone su cui costruire una nuova consapevolezza sociale, capace di avviare nelle nostre scuole la formazione di cittadini responsabilmente orientati verso un futuro in cui possa affermarsi un nuovo modo di pensare e gestire il territorio. Educare è già prevenire.

Geoetica: un nuovo modo di pensare e gestire la Terra

La geoetica, seppur nata e sviluppata nell’ambito più strettamente scientifico per analizzare le implicazioni etiche, sociali e culturali che accompagnano l’attività geologica, sta ormai dispiegando tutto il suo potenziale educativo e operativo, andando a comprendere problemi che investono nel suo complesso l’intera società [11]. La necessità di sviluppare un robusto quadro di riferimento di valori etici, sociali e culturali all’interno della comunità delle geoscienze è ormai esigenza inderogabile [12] [13], proprio in virtù del vasto ambito di applicazione di questo gruppo di discipline, che investigano fenomeni tra i più impattanti del nostro tempo, dai cambiamenti climatici all’inquinamento ambientale, dallo sfruttamento delle risorse ai fenomeni naturali distruttivi.

È significativo che la comunità geologica comprenda l’importanza di sviluppare, dapprima al suo interno, una nuova consapevolezza del ruolo sociale e culturale che i geologi sono chiamati a svolgere, e che tenti poi di trasmettere all’intera società un nuovo paradigma culturale.

La geoetica si sta rapidamente affermando come nuova prospettiva e modalità di intendere e relazionarsi al pianeta. Il vivace dibattito internazionale, il crescente numero di pubblicazioni dedicate alla riflessione sugli aspetti etici e sociali della ricerca e della pratica scientifica [14] [15] [16], la creazione di una grande associazione scientifica [17], che promuove la geoetica a livello nazionale e internazionale, formalmente riconosciuta come partner strategico dalle più prestigiose organizzazione di geoscienze del mondo, testimonia che qualcosa sta cambiando.

Ma la portata innovativa della geoetica va al di là del dibattito scientifico, dal momento che può fornirci le categorie corrette per discutere di prevenzione e per accrescere la consapevolezza della sua necessità sia nelle classi politiche che nella cittadinanza. La geoetica mira a costruire un quadro di riferimento di conoscenza e azione basato su valori considerati indispensabili, tenuto conto dei bisogni della società e dell’ambiente e dell’urgenza di riconsiderare il rapporto tra uomo e territorio, uomo e pianeta, un pianeta sul quale vivono ormai 8 miliardi di abitanti, che necessitano di risorse e di protezione da fenomeni naturali pericolosi.

Aristotele definisce l’etica come l’indagine e la riflessione sui valori che sono alla base del comportamento operativo dell’uomo. Per analogia la geoetica è stata definita come l’indagine e la riflessione sui valori su cui basare comportamenti corretti nei confronti del Sistema Terra [18]. Pertanto, essa ha lo scopo di identificare quei valori che devono orientare gli uomini nella gestione della Terra, alla conoscenza e al rispetto delle dinamiche naturali, ponendo particolare attenzione alla corretta e responsabile comunicazione delle conoscenze alla popolazione, inclusa l’educazione al concetto di rischio [19].

La geoetica richiama scienziati e società alle proprie responsabilità. Nella sua applicazione ai rischi naturali, essa trova una felice corrispondenza nella frase di Giuseppe Grandori (1921-2011), grande figura dell’ingegneria sismica, dotato di indubbio buon senso, che ben 30 anni fa affermava: “Difendersi dai terremoti significa ridurre le conseguenze dei terremoti (vittime e danni materiali) al di sotto di un limite che la società ritiene accettabile, tenuto conto dei costi che un’ulteriore diminuzione di tale limite comporterebbe” [20]. L’apparente cinismo che può colpire il lettore a una prima lettura, scompare una volta riconosciute nella frase la propositiva intenzionalità scientifica e la grande valenza operativa e culturale. Difendersi dai terremoti non è azione dalle sfumature fideistiche o ideologiche, ma il risultato di un percorso di conoscenza che si concretizza in un patto sociale, dove la dignità della ragione umana è un insostituibile strumento al servizio del bene comune.

In questo consiste la geoetica e la geoetica ci riguarda tutti.

* Ricercatrice dell’Istituto Italiano di Geofisica e Vulcanologia, esperta di rischi geologici, è tra le fondatrici a livello internazionale della “geoetica”. Si batte per lo sviluppo di una cultura geologica e della prevenzione in Italia.

NOTE

1. Sito Internet dell’INGV – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia: http://www.ingv.it
2. Database Macrosismico Italiano 2015 (DBMI15), di Locati M., Camassi R., Rovida A., Ercolani E., Bernardini F., Castelli V., Caracciolo C.H., Tertulliani A., Rossi A., Azzaro R., D’Amico S., Conte S., Rocchetti E. (2016). Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Fornisce un set omogeneo di intensità macrosismiche provenienti da diverse fonti relativo ai terremoti con intensità massima ≥ 5 e d'interesse per l'Italia nella finestra temporale 1000-2014: http://emidius.mi.ingv.it/CPTI15-DBMI15/query_place/
3. Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani 2015 (CPTI15), di Rovida A., Locati M., Camassi R., Lolli B., Gasperini P. Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Fornisce dati parametrici omogenei, sia macrosismici, sia strumentali, relativi ai terremoti con intensità massima ≥ 5 o magnitudo ≥ 4.0 d'interesse per l'Italia nella finestra temporale 1000-2014: http://emidius.mi.ingv.it/CPTI15-DBMI15/query_eq/
4. Silvia Peppoloni, Convivere con i rischi naturali, 2014, p. 148, ISBN 978-88-15-25078-0, Il Mulino, Bologna.
5. Campagna di comunicazione nazionale “Io non rischio”, a cura del Dipartimento della Protezione Civile: http://iononrischio.protezionecivile.it/
6.Antonio Scalari, Terremoto e prevenzione: perché l’Italia non è come il Giappone: http://www.valigiablu.it/terremoto-prevenzione/
7. Pirro Ligorio, Libro di Diversi Terremoti, a cura di Emanuela Guidoboni, De Luca Editori D’Arte, Roma 2005.
8. Silvia Peppoloni, La lezione della terra: tutto quello che ci hanno insegnato i terremoti: http://www.corriere.it/cultura/eventi/notizie/lezione-terra-tutto-quello-che-ci-hanno-insegnato-terremoti-bec37350-9b9a-11e6-92af-45665cb81731.shtml?refresh_ce-cp
9. Peppoloni S. & Di Capua G. (2014). Geoethical aspects in the natural hazards management. In: “Lollino, G., Arattano, M., Giardino, M., Oliveira, R., Peppoloni, S. (Eds.). Engineering Geology for Society and Territory - Volume 7, Education, Professional Ethics and Public Recognition of Engineering Geology. XVII, 274 p., Springer”. http://media.wix.com/ugd/5195a5_0440718081d340228edd071b5b20fa0a.pdf
10. Struttura di missione “#italiasicura”: http://italiasicura.governo.it/site/home/italiasicura.html
11. Carlo Doglioni e Silvia Peppoloni, Pianeta Terra: una storia non finita, 2016, p. 160, ISBN 978-88-15-26376-6, Il Mulino, Bologna.
12. Peppoloni S. (2012). Ethical and cultural value of the Earth sciences. Interview with Prof. Giulio Giorello. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 343-346, ISSN: 2037-416X, DOI: 10.4401/ag-5755. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/article/download/5755/6025
13. Peppoloni S. (2012). Social aspects of the Earth sciences. Interview with Prof. Franco Ferrarotti. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 347-348, ISSN: 2037-416X, doi: 10.4401/ag-5632. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/article/download/5632/6026
14. Peppoloni, S. & Di Capua, G. (Eds). Geoethics: the Role and Responsibility of Geoscientists. Geological Society, London, Special Publications, 2015, 419, ISBN 978-1-86239-726-2.
15. Wyss M. and Peppoloni S. (Eds). Geoethics, Ethical Challenges and Case Studies in Earth Sciences (2014), pp. 450, Elsevier.
16. Peppoloni S. & Di Capua G. (2012). Geoethics and geological culture: awareness, responsibility and challenges. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 335-341, ISSN: 2037-416X, doi: 10.4401/ag-6099. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/issue/view/482
17. Sito Internet della IAPG – International Association for Promoting Geoethics: http://www.geoethics.org
18. Peppoloni S. & Di Capua G. (2014). The meaning of Geoethics. In: “Wyss M. and Peppoloni S. (Eds), Geoethics: ethical challenges and case studies in Earth Science, 450 p., Elsevier”. http://media.wix.com/ugd/5195a5_0156301931f9429da6db4bc4843eb605.pdf
19. Peppoloni S. & Di Capua G. (2016). Geoethics: Ethical, social, and cultural values in geosciences research, practice, and education. In: Wessel G. & Greenberg, J. (Eds.). Geoscience for the Public Good and Global Development: Toward a Sustainable Future. Geological Society of America, Special Paper 520, pp. 17-21, doi: 10.1130/2016.2520(03).
20. Giuseppe Grandori, Introduzione. In: Benedetti D., Castellani A., Gavarini C., Grandori G. (a cura di), Ingegneria Sismica, Quaderni de “La Ricerca Scientifica”, n. 114, Vol. 6, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma, 1987, ISSN 0556-9664.

«No Drill president. Reazioni indispettite dalla lobby dei petrolieri che sta per fare il suo ingresso sul tappeto rosso della Casa bianca. Mentre il Canada di Trudeau aderisce alla norma di salvaguardia». il manifesto, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

Il presidente Obama ha annunciato il divieto permanente di operare trivellazioni per l’estrazione del petrolio e del gas in una vasta area della regione artica e della costa atlantica. Per fare ciò Obama ha fatto ricorso ad un’oscura legge risalente a 63 anni fa, compiendo una mossa che il presidente entrante Donald Trump non dovrebbe essere in grado di invertire e che sicuramente non sta gradendo. La norma imposta da Obama vieta tutti i futuri contratti di locazione di petrolio e gas nel Chukchi Sea, così come nella stragrande maggioranza del Mare di Beaufort.

L’annuncio di Obama è stato seguito, poco dopo, da quello del primo ministro canadese Justin Trudeau che a sua volta ha annunciato il divieto di nuove trivellazioni off-shore in acque artiche canadesi. Queste due risoluzioni combinate creano una cintura di protezione dell’Artico e mettono di fatto in salvo una zona delicatissima e vitale per l’ambiente e valgono, da sole, più di molti trattati e buone intenzioni messe nere su bianco ma che possono essere facilmente vanificate da un cambio di presidenza, mentre il destino di questa nuova norma voluta da Obama potrà essere cambiato solo con grande sforzo dei tribunali federali a cui Trump dovrà fare ricorso per rovesciarla, in un processo lungo e non completamente prevedibile.

La legge a cui ha fatto ricorso Obama – la Continental Shelf Outer Lands Act – che gli ha dato l’autorità di agire unilateralmente, era stata già usata in passato da alcuni presidenti per proteggere temporaneamente piccole porzioni di acque federali, ma la mossa di Obama, invece, è un divieto di perforazione permanente che riguarda una zona molto vasta, e coinvolge una porzione dell’oceano che va dalla Virginia al Maine e coinvolge gran parte della costa dell’Alaska.

«Non è mai stato fatto niente del genere prima – ha dichiarato Patrick Parenteau, professore di diritto ambientale alla Vermont Law School – Non esiste quindi alcuna giurisprudenza su questo tema che coinvolge acque ancora inesplorate».

Il divieto di perforazione Obama riguarda la circa il 98 per cento delle acque artiche di proprietà federale, una regione incontaminata dove vivono molte specie in pericolo tra cui orsi polari e balene. «Queste azioni, e le azioni parallele del Canada, sono volte a proteggere un ecosistema delicato e unico che è diverso da qualsiasi altra regione al mondo – ha detto Obama nel comunicato a seguito della legge – Le azioni che abbiamo intrapreso riflettono valutazioni scientifiche. Anche con gli standard di sicurezza elevati che entrambi i nostri Paesi hanno messo in atto, il rischio di una fuoriuscita di petrolio in questa regione resta significativo mentre la nostra capacità di ripulire l’ambiente da una fuoriuscita di petrolio, viste le condizioni difficili della regione, è molto limitata».

«Permanente? Non vediamo come questo divieto possa essere permanente», ha dichiarato immediatamente dopo la diffusione della notizia, Andrew Radford, consulente senior dell’American petroleum institute, che opera per le compagnie petrolifere. Certamente molti dei nuovi attori politici messi in campo da Trump faranno tutto il possibile per rovesciare questo provvedimento, primo tra tutti il nuovo Segretario di Stato Rex Tillerson, a capo della multinazionale del petrolio Exxon ma, fanno notare i docenti di legge, non è Obama il primo ad appellarsi al Continental Shelf Outer Lands Act: Eisenhower, Nixon, George Bush e Bill Clinton hanno utilizzato quella legge per proteggere porzioni di acque federali e nessuno di questi veti è stato annullato.

Non è insolito che i presidenti vengano colti da un’urgenza nelle loro ultime settimane in carica, in questo caso è però esasperata dalla incompatibilità di vedute dei due soggetti coinvolti nel passaggio di consegne: Trump ha la dichiarata intenzione di smantellare tutto il lavoro compiuto dal suo precedessore. La scorsa settimana, l’Amministrazione Obama ha promulgato una legge che protegge economicamente i centri di pianificazione familiare federali, i Planned Parenthood, e gli altri centri sanitari che procurano aborti: entrerà in vigore due giorni prima che Trump entri alla Casa Bianca.

«Sovranità alimentare. Una ventina di realtà disseminate dalla Lombardia alla Sicilia, un'organizzazione al tempo stesso di produzione e di lotta, sul modello dei Sem terra brasiliani». il manifesto, 15 dicembre 2016 (c.m.c.)

C’è chi produce salsa di pomodoro e chi coltiva arance, chi fa il cioccolato e chi il caffè. Si tratta per il momento di una ventina di realtà disseminate dalla Lombardia alla Sicilia, dalla Puglia alla Toscana. Le ha unite la presa di coscienza del fatto che se vuoi tentare di produrre in maniera diversa, cioè rispettando la dignità delle persone e l’ambiente, e vuoi sottrarre migranti e non dal ricatto del caporalato e dello sfruttamento, devi unirti, ché da solo non ce la fai.

E ciò vale soprattutto in un settore come quello dell’agricoltura, in cui a dare le carte, cioè a stabilire prezzi e quindi, a cascata, condizioni di lavoro e retribuzioni, è la grande distribuzione, che punta a pagare il meno possibile i prodotti che finiranno negli scaffali dei supermercati. È nata così la rete Fuorimercato, che di recente ha tenuto a Milano la sua terza assemblea nazionale e che nel prossimo mese di febbraio vedrà il suo quarto incontro a Rosarno (Reggio Calabria), dove si trova una delle realtà aderenti alla rete, «Sos Rosarno».

Ma che cosa è fuorimercato? È da un lato un insieme di realtà che combattono, producendo, sfruttamento delle persone e dell’ambiente in campo agricolo. Dall’altro una serie di spacci, anche questi sparsi un po’ in tutta la penisola, che distribuiscono i beni prodotti che finiscono anche in mercati popolari e nelle liste dei Gruppi d’acquisto solidale di molte zone del nord Italia.

Detta così sembra facile, ma le difficoltà sono più d’una. Per questo Fuorimercato si sta tentando di strutturare come un’organizzazione al tempo stesso di produzione e di lotta. I modelli sono quelli del movimento dei Sem terra brasiliani e del Soc Sat andaluso, un sindacato che nella regione del sud della Spagna difende gli interessi dei braccianti. E qui si arriva a un altro pezzo del dna di Fuorimercato. Che oltre a essere una rete di produttori e di punti di distribuzione dei beni alimentari, è anche il tentativo di costruire un’alternativa.

«Siamo partiti dai bisogni», dice Gigi Malabarba di Rimaflow, una fabbrica lombarda che produceva per il settore automobilistico e che dopo essere stata rilevata dai lavoratori è stata riconvertita a «cittadella dell’altraeconomia» e oggi fa parte di Fuorimercato. I bisogni e i diritti cui tenta di fare fronte la rete sono tanti: quello dei migranti a un lavoro pagato dignitosamente e a un tetto decente sulla testa; quello dei braccianti e dei piccoli produttori italiani a non essere strangolati dai prezzi decisi da chi sta in alto. E quello dei consumatori di mangiare cibo decente e non avvelenato. Si tratta di cose diverse ma che si tengono insieme le une con le altre, e a Fuorimercato tentano di farlo. Come? «Con il mutuo soccorso», dice Gianni De Giglio di Sfrutta Zero, realtà pugliese attiva nel lavoro con i migranti.

Mutuo soccorso. Un salto all’indietro agli albori del movimento operaio per guardare al futuro: sorreggersi gli uni agli altri per evitare di farsi spazzare via dai giganti e garantire e garantirsi un’alternativa fatta di rispetto dei diritti, salubrità dell’ambiente e bontà del cibo. Ma se cerchi l’alternativa sei a tutti gli effetti una realtà anche politica.

Così, questo strano animale che è Fuorimercato, si sta attrezzando per fare del mutuo soccorso una leva per agire a 360 gradi: dal punto di vista della produzione per tentare di tenere sotto controllo tutta la filiera: «Per quanto riguarda coltivazione e trasformazione dei prodotti, ci siamo; la logistica e i trasporti invece sono le criticità, perché ad esempio per trasportare gli agrumi servono i tir, che noi non abbiamo; e sai, se riesci a dare continuità alle produzioni e alla filiera, crei anche lavoro e più in generale dai maggiore solidità a tutta l’organizzazione», dice Malabarba. «E affidarci ai corrieri non ci piace», aggiunge De Giglio. Perché? «Perché l’alternativa dev’essere completa, non ci possono essere coni d’ombra: non possiamo produrre e trasformare i nostri prodotti seguendo certi principi e poi affidarci per la loro spedizione a realtà che operano in modi che non condividiamo e che anzi combattiamo.

Così Rimaflow sta dando una mano fungendo da magazzino e consentendo così di fare meno spedizioni dal sud al nord e ottimizzando i periodi in cui si dispone di mezzi garantiti in mutuo soccorso da altri.

L’altro versante è quello delle vertenze: per l’accesso alle terre e per il diritto alla casa, innanzitutto, sia dei migranti che dei nativi. E anche qui si tenta di fare mutuo soccorso. Così, se una delle realtà della rete dispone di competenze al suo interno su un singolo settore, le mette a disposizione di tutti. Agronomi, avvocati, commercialisti, esperti di web e quant’altro, attivi in uno dei nodi, diventano patrimonio di tutti. Insomma, «tentiamo di costruire l’alternativa praticandola, facendone vedere i frutti – dice Malabarba – perché la teoria da sola non basta».

Ma non solo. Alla base di Fuorimercato c’è proprio la volontà di costruire un’altra economia. Che a partire dalle emergenze più stringenti, quella dei migranti sfruttati dal caporalato particolarmente virulenta al sud, si allarghi ad altri settori della produzione e della distribuzione di beni e servizi. Per questo, dopo tre incontri nazionali e in vista del quarto, si sta mettendo in piedi il coordinamento nazionale, nel quale un paio di rappresentanti di ognuno dei nodi dovranno tenere il filo dei rapporti tra la rete e le singole realtà. E, a proposito di mutuo soccorso, si sta apprestando una «cassa comune» che consenta di sopperire alle esigenze primarie di Fuorimercato.

Anche magari quelle derivanti dalle vertenze aperte. «Il tentativo è di coniugare l’aspetto mutualistico e quello del conflitto, perché per cambiare le cose sono necessari entrambi», dice De Giglio.

Ancora una volta: un passo indietro alle radici che resero saldo il movimento operaio, e sguardo avanti, «liberandosi dalle differenziazioni che spesso hanno minato le possibilità di alternativa per tuffarsi nel fare», chiosa Malabarba.

«L'allarme. Sui tavoli della Cop22 irrompono gli ultimi dati diffusi dall’Organizzazione metereologica mondiale. Il 2016 ha tutte le carte in regola per divenire l'anno più caldo di sempre». il manifesto, 15 novembre 2016 (c.m.c.)

Non vi è nulla di realmente nuovo o inatteso nell’allarme lanciato ieri sui tavoli della Cop22 dalla Wmo, l’Organizzazione metereologica mondiale. In un comunicato diffuso durante la giornata di apertura della 2a settimana di lavori a Marrakech, l’agenzia Onu ha confermato che il 2016 ha tutte le carte in regola per divenire l’anno più caldo di sempre. Si tratterebbe del terzo record di fila dopo i primati registrati dal 2014 e dal 2015.

Nello specifico l’aumento è di 0,88° in più rispetto al periodo 1961-90 e di ben 1,2 gradi in più rispetto all’epoca pre-industriale. Un aumento che rende sempre più vicina la soglia +1,5°, considerata da molti la soglia massima da non superare per garantire la sopravvivenza di ampie regioni del pianeta.

Il trend esponenziale delle temperature globali è confermato anche da un altro dato: 16 dei 17 anni più caldi sono stati registrati proprio nel XXI secolo. Aumentano inoltre gli eventi climatici estremi, inondazioni e ondate anomale di calore.

A ottobre la Wmo aveva diffuso altri dati riguardanti il raggiungimento delle 400 ppm (parti per milione) di Co2 in atmosfera. La novità rispetto al passato è che tale quantità non si registra più soltanto in alcune zone e per periodi particolari, ma a livello globale e lungo l’intero anno ed è destinata a non scendere per diverse generazioni.

Il segretario generale della Wmo Petteri Taalas ha aggiunto che in alcune regioni artiche della Russia si registrano temperature di 6-7 gradi superiori alla media, mentre sono salite di 3 gradi le temperature di altre regioni settentrionali, tra cui Alaska e Canada nordoccidentale. Il 21 luglio 2016 la società meteorologica Wunder Ground aveva diffuso il dato record registrato a Mitribah, in Kuwait: una temperatura di 54°. Se questi trend verranno confermati, il continente africano potrebbe letteralmente bruciare.

La desertificazione minaccia un quarto delle terre del pianeta e un miliardo di persone allocate in circa 110 paesi, ma è in Africa che si registra la situazione più drammatica. La siccità in Somalia ha portato a un +32% della popolazione malnutrita e a 431.000 rifugiati in Kenya, cui si uniscono i 300.000 profughi interni. Secondo la Banca Mondiale, con un aumento delle temperature medie globali tra +1,5° e +2° tra il 40% e l’80% delle terre agricole dell’Africa subsahariana non sarà più adatto alle coltivazioni di mais, miglio e sorgo già tra il 2030 e il 2040. A causa delle minori rese agricole stima un aumento tra i 35 e i 122 milioni di persone in condizioni di povertà estrema.

Una delle conseguenze sociali più drammatiche connesse ai dati sopra elencati riguarda il crescente fenomeno delle migrazioni climatiche: nel 2015, su 27,8 milioni di sfollati interni, 14,7 milioni sono stati determinati da eventi climatici estremi. Il rapporto The Human Cost of Weather Related Disaster afferma che, negli ultimi 20 anni, i disastri naturali sono stati determinati per il 90% da eventi climatici estremi. Tra i paesi più colpiti anche Cina, Filippine, Indonesia e Usa.

Oltre ai rischi interni, gli Stati Uniti rischiano di dover affrontare l’aumento dei migranti provenienti dal Messico: secondo le stime saranno 900.000 le persone in più spinte ogni anno verso la frontiera dal deserto che avanza sul 60% del territorio messicano. La domanda è d’obbligo: Trump è davvero convinto di poter affrontare queste emergenze investendo con una mano nell’energia fossile e con l’altra edificando attorno al paese migliaia di km di muro di cinta?

«Mentre proseguono i lavori della conferenza sul clima di Marrakech (Cop22), “le politiche infrastrutturali, energetiche e di gestione dei rifiuti varate da Renzi sono in assoluta contraddizione con gli impegni di riduzione assunti nell’ambito dell’accordo di Parigi”». Il manifesto, 9 novembre 2016 (m.p.r.)

Il ragazzo si contraddice un giorno sì e l’altro pure. Non mantiene le promesse. Ma questa volta la questione è più seria del solito, perché stiamo parlando degli impegni presi dall’Italia per contrastare il riscaldamento globale. «Quella dei cambiamenti climatici - disse Matteo Renzi al Climate Summit di New York del settembre 2014 - è la sfida del nostro tempo, lo dice la scienza, non c’è tempo da perdere: la politica deve fare la sua parte. I nostri figli attendono che a Parigi l’accordo sia vincolante». Appunto. Sono trascorsi due anni, l’accordo di Parigi (COP21) è entrato in vigore cinque giorni fa e l’Italia è tra quei 60 paesi che formalmente si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas a effetto serra entro il 2030 (l’obiettivo nostrano è stato fissato al 33%). Tutto bene? Non proprio.

L’inadeguatezza delle politiche energetiche messe in campo dal governo risulta evidente alla lettura del fitto dossier L’Italia vista da Parigi-Impegni internazionali e politiche nazionali per la lotta ai cambiamenti climatici preparato dall’associazione A Sud e dal Centro Documentazione Conflitti Ambientali (Cdca). La pubblicazione fa il punto della situazione proprio mentre a Marrakech stanno entrando nel vivo i lavori della COP22, la conferenza sul clima dove 170 paesi dovranno dotarsi di regole e strumenti per agire nell’immediato visto che gli anni tra il 2011 e il 2015 sono stati i più caldi mai registrati a livello globale, come documentato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm). Un dato drammatico che dovrebbe spingere i paesi a fare di più per rispettare l’obiettivo minimo di mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi.

Il dossier, spiega Marica di Pierri, presidente del Cdca e curatrice del rapporto, mette a fuoco alcuni provvedimenti del governo - tra cui il decreto Sblocca Italia, il decreto Spalma Incentivi e il decreto Inceneritori - e sottolinea perché “le politiche infrastrutturali, energetiche e di gestione dei rifiuti varate da Renzi sono in assoluta contraddizione con gli impegni di riduzione assunti nell’ambito dell’accordo di Parigi”. Un’evidenza che ancora ieri non ha impedito al ministro dell’Ambiente Galletti di affermare che l’Italia “farà di tutto per rendere ancora più ambizioso quell’accordo”. Nient’altro che dichiarazioni di rito a fronte di politiche che moltiplicano gli investimenti per lo sfruttamento delle energie fossili, per le infrastrutture per il trasporto su gomma e per l’incenerimento dei rifiuti.

Lo dice il “calendario” dei principali provvedimenti approvati in Italia nell’ambito della Strategia Energetica Nazionale (Sen) varata dal governo Monti nel 2013. Nel dicembre dello stesso anno il governo Letta autorizza l’erogazione di incentivi per 20 anni per la realizzazione di una centrale nel Sulcis, in Sardegna (secondo uno studio pubblicato a luglio, nel 2013 in Europa le emissioni delle centrali a carbone hanno causato più di 22.900 morti premature, decine di migliaia di casi di malattie e costi sanitari stimati in circa 62 miliardi di euro). Nel cosiddetto decreto “Spalma incentivi”, convertito in legge dal governo Renzi nell’agosto 2014, vengono ridotte le risorse per gli impianti fotovoltaici e i risultati sono evidenti: i nuovi impianti nel 2012 erano 150 mila, l’anno scorso 40 mila.

Non è tutto. Il decreto “Sblocca Italia” – convertito in legge nel settembre 2014 con un voto di fiducia e fortemente avversato da opposizioni e associazioni ambientaliste – di fatto si presenta come la negazione dell’accordo di Parigi. Gli articoli 36, 37 e 38 – si legge nel rapporto – incoraggiano l’attività estrattiva per mezzo della formula di rito che identifica le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale come “operazioni di interesse strategico e di pubblica utilità, urgenti e indifferibili” (è la storia, triste, del referendum sulle trivellazioni dello scorso 17 aprile, con Matteo Renzi che ha tifato per l’astensione). Lo stesso decreto sblocca alcuni cantieri per un valore di 28 miliardi e 866 milioni, soprattutto per opere autostradali e aereoportuali. E ancora. L’articolo 35 sembra un inno alla CO2 e promuove la costruzione di nuovi inceneritori definiti come “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela della salute e dell’ambiente” (un altro decreto, del 10 agosto 2016, poi individua otto aree in cui realizzare inceneritori).

L’elenco dei provvedimenti climalteranti del governo Renzi potrebbe continuare, ma ce n’è abbastanza per dire che l’Italia per essere credibile di fonte alla sfida del riscaldamento globale non può far altro che dotarsi di un nuovo piano energetico. Secondo gli autori del rapporto le soluzioni esistono e l’azione del governo dovrebbe rispettare una regola molto semplice: “Ogni legge o provvedimento che riguardi produzione di energia, infrastrutture, utilizzo dei suoli, trasporto o gestione dei rifiuti deve avere come punto di riferimento gli obiettivi dell’accordo di Parigi, ogni politica che anziché favorire la diminuzione ne produce incremento deve essere abbandonata”. E se la volontà politica manca, come è evidente, dovrebbero essere i cittadini a battersi e a vigilare, anche servendosi di azioni legali. Insomma è un problema di democrazia, e anche in questo caso manca come l’aria (per scaricare il dossier: asud.net e cdca.it).

Note sulla Laudato si' e sulla Dichiarazione islamica sul clima. Convergenze significative su questioni fondamentali in un mondo dominato troppo a lungo da un'ideologia dissipatrice del pianeta e devastatrice dell'umanità, e guidato da una politica asservita al mondo della finanza e al mito della crescita. Casa della cultura, Milano, online, 3 novembre 2016

Nell'enciclica Laudato si' Papa Francesco tratta le sfide più grandi che l'umanità si trova ad affrontare con sorprendente sintonia con la visione islamica del mondo e del ruolo che questa conferisce all'uomo che, secondo l'Islam, è quello di Vicario di Dio sulla terra, "khalifat-Allah fil-ard".
"E [ricorda] quando il tuo Signore disse agli angeli: 'Io porrò un vicario sulla terra'. Essi dissero: 'Metterai su di essa chi vi verserà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi Ti glorifichiamo lodandoTi e Ti santifichiamo?'. Egli disse: 'In verità, Io conosco quello che voi non conoscete'. E insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose e quindi le presentò agli angeli e disse: "Ditemi ora i loro nomi, se siete sinceri". [Sura Al Baqara, La Vacca, versetti 30-32]. In questi versetti è esemplificato il rapporto dell'uomo con la creazione nel pensiero islamico, dove il Vicario di Dio sulla terra deve preservare quanto affidatogli perché la terra è ciò che Dio ha creato ed affidato in custodia (amana). L'uomo dovrebbe quindi comprendere e meditare quanto la natura sia intimamente connessa a Dio poiché Sua creazione e la sua tutela diventa perciò un dovere religioso. Il richiamo all'intelletto umano, alla sua capacità di discernimento e di cogliere il divino è una costante nella narrazione coranica. "Non riflettono sui cammelli e su come sono stati creati, sul cielo e come è stato elevato, sulle montagne e come sono state infisse, sulla terra e come è stata distesa? Ammonisci dunque ché tu altro non sei che un ammonitore..." [Il Corano, Sura Al Ghashiah, L'Avvolgente, versetti 17-21].

Nel primo capitolo dell'enciclica il Pontefice ricorda che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale» e ingiunge ad ascoltare «tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». Parole che trovano perfetta adesione con gli ideali islamici di giustizia sociale ed eguaglianza. Troviamo una profonda consonanza con quanto scritto nell'Enciclica sin dal primo capitolo - Quello che sta accadendo alla nostra casa - dove il Papa richiama a una profonda riflessione sulla condizione attuale del pianeta terra. Nella denuncia dei disastri ambientali provocati dall'uso scriteriato delle risorse in un mondo sempre più ingiusto e dalle disparità sociali devastanti che arrivano addirittura a privare una considerevole parte dell'umanità del diritto naturale all'acqua, il Papa tocca le corde più profonde del pensiero dei musulmani e temi su cui i più attenti si battono da tempo. Il Corano infatti conta infiniti passi sulla natura e sul creato, fino ad arrivare a una descrizione della storia della terra: «Non vedono dunque gli empi che i cieli e la terra erano un tempo una massa confusa e noi li abbiam separati, e dall'acqua abbiam fatto germinare ogni cosa vivente? E ancora non credono? E ponemmo sulla terra montagne immobili, che la terra non si scotesse sotto i piedi degli uomini, e ponemmo fra i monti dei passaggi, a guisa di strade, che gli uomini potessero dirigersi nel loro cammino, e ponemmo il cielo come un tetto saldamente tenuto. Eppure essi s'allontanano dai Nostri Segni sdegnosi! E pure è Lui che ha creato la notte e il giorno, e il sole e la luna, ciascuno navigante nella sua sfera" [Il Corano, Sura al Anbiya, i Profeti, versetti 30-33].

Nel secondo capitolo - Il Vangelo della creazione - Bergoglio riporta le parole dei vescovi del Paraguay molto significative: «Ogni contadino ha diritto naturale a possedere un appezzamento ragionevole di terra, dove possa stabilire la sua casa, lavorare per il sostentamento della propria famiglia e avere sicurezza per la propria esistenza». Questi diritti umani trovano un corrispettivo sharaitico alla base della giurisprudenza islamica: i maqasid al shari'ah, ovvero gli scopi ultimi dell'Islam, che sono la tutela della persona e della sua integrità (himayat al nafs wa himayat al 'ird), e qui ecco il contadino, la tutela della sua famiglia (himayat al nasl), della sua proprietà (himayat al mal).

Nel terzo capitolo - La radice umana della crisi ecologica - il Papa riporta il discorso sull'uomo e le sue responsabilità nella devastazione della terra a causa di un'ideologia relativista e "usa e getta" che mette il denaro al primo posto: un malinteso antropocentrismo che ha fatto credere agli uomini di potersi disconnettere dal Creatore e disporre a piacimento della Sua creazione senza porci alcun limite. Un monito che trova eco nel versetto coranico: «Ma non osservano il cielo sopra di loro come l'abbiam edificato e abbellito e senza fenditura alcuna? E la terra l'abbiamo distesa e vi infiggemmo le montagne vi facemmo crescere ogni specie di meravigliosa vegetazione: invito alla riflessione e monito per ogni servo penitente. Abbiam fatto scendere dal cielo un'acqua benedetta, per mezzo della quale abbiamo fatto germinare giardini e il grano delle messi e palme slanciate dalle spate sovrapposte" [Il Corano Sura Qaf, versetti 6-10].

Nel quarto capitolo Francesco ci richiama a quel fondamentale concetto che è il 'bene comune', base del nostro agire collettivo e pluralista, che richiede l'impegno di tutti per favorire la creazione di società più armoniche. Qui riporta le significative parole dei Vescovi del Portogallo - «L'ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva» - per passare poi a interrogarsi su che tipo di mondo vogliamo per chi verrà dopo di noi. Nella denuncia del «principio della massimizzazione del profitto», il pensiero dell'enciclica incontra l'approccio islamico alla finanza, che proibisce gli interessi sul denaro ed è in radicale disaccordo con il terribile meccanismo del debito pubblico che schiaccia i paesi più poveri.

Rivolgendosi a un'ampia platea il Papa ha trovato larghi riscontri tra i credenti musulmani, specialmente nelle fasce più impegnate e colte. Per aderire all'appello lanciato da Papa Francesco nella Laudato si', al termine di un simposio internazionale che si è tenuto a Istanbul il 17 e il 18 agosto del 2015, è stata redatta la Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico. La questione su cui è incentrata è quella del cambiamento climatico, altre questioni ecologiche sono citate in modo secondario. Si tratta probabilmente di una scelta strategica: il documento ha avuto forse lo scopo di esercitare una qualche influenza sui lavori della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si sarebbe poi tenuta a Parigi nel dicembre 2015. Il preambolo della Dichiarazione descrive i motivi che hanno determinato la stesura del documento che prende le mosse dall'affermazione dottrinale che Dio ha creato il mondo. Il paragrafo successivo fornisce un'interpretazione teologica del fenomeno del cambiamento climatico: esso - in sintesi - sarebbe il risultato del nostro fallimento esistenziale nell'assolvere al dovere dell'uomo di curare e tutelare il creato, cioè al nostro ruolo di khalifa di Dio sulla terra: «Egli è Colui Che vi ha costituiti vicari della terra» [Il Corano, Sura al-An'am, Il Bestiam, versetto 165].

La tesi di fondo della Dichiarazione è che invece di coltivare quella terra che Dio ci ha donato e affidato, l'abbiamo danneggiata abusandone. In termini analoghi alla Laudato si', il testo affronta il tema dell'"equilibrio delicato della terra" e del nostro essere "inseriti nel tessuto del mondo naturale". Seguono alcuni paragrafi in cui si mette in evidenza la gravità della situazione attuale e si esprime allarme rispetto a quanto poco è stato fatto in vista di una sua soluzione. Subito dopo una serie di affermazioni dottrinali - per la maggior parte semplici espressioni coraniche della signoria di Dio sulla creazione - viene tessuto un discorso complessivo volto ad affermare che la cura per l'ambiente è una preoccupazione intrinseca dell'Islam. «Le stelle e gli alberi prostrano» [Il Corano, Sura Al Rahman, Il Misericordioso, versetto 6], «a Dio si prostrano quanto è nei cieli e quanto è sulla terra, il sole, la luna, le stelle, le montagne, gli alberi, e le bestie» (Sura Yunus, Giona, versetto 18).

Tutti i musulmani vedono nei comportamenti del Profeta Mohammad la parola definitiva sulla giusta condotta. È inevitabile che il suo comportamento debba essere invocato a sostegno delle affermazioni della Dichiarazione. Alcuni suoi tratti vengono richiamati come una guida per portarci verso l'armonia. Il testo fa dunque riferimento anche alla semplicità dello stile di vita di Maometto (tra cui il suo parco uso di carne), alla sua raccomandazione di proteggere le scarse risorse del deserto come l'acqua, e di costruire santuari per la protezione della vita animale e vegetale.

La Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico si conclude con una serie di appelli: ai negoziatori della Conferenza delle Nazioni Unite, cui chiede di condurre i colloqui per raggiungere dei risultati soddisfacenti; ai Paesi ricchi, che vengono esortati a farsi carico della parte preponderante dell'onere finanziario di una graduale eliminazione dei combustibili fossili; alle persone di tutte le nazioni, incoraggiate a rinunciare ai combustibili fossili e ad adottare le fonti di energia rinnovabile elaborando un nuovo modello di benessere che non danneggi il pianeta. L'appello del Papa trova perciò una eccezionale consonanza nel mondo islamico e stimola una riflessione che può e deve avvicinare gli uomini e le donne di buona volontà a qualsiasi religione appartengano. Il richiamo all'ecologia è un appello a una società più impegnata e meno materialista: ora è necessario agire tutti insieme per affermare il primato del pianeta terra e degli esseri umani su quelle logiche economiche che stanno distruggendo il mondo.

Nota del curatore. - Paolo Gonzaga è traduttore, giornalista freelance e analista politico. Laureato in Lingua e Letteratura Araba alla Facoltà di Lingue Orientali dell'Università di Ca' Foscari, ha vissuto in Egitto dal 1998 al 2004. Qui ha lavorato come Lettore di Lingua e Letteratura Italiana all'Università di El Minia e ha collaborato con il Consolato Italiano del Cairo come traduttore e mediatore culturale (fonte: Arab media Report). Nel 2011 ha pubblicato il libro: Islam e democrazia. I fratelli musulmani in Egitto (Torino: Ananke) e attualmente dirige il master dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: "Fonti, storia, istituzioni e norme dei tre monoteismi: ebraismo, cristianesimo e islam". (Renzo Riboldazzi)

«Che senso ha dunque interrogarsi sul futuro dell’agricoltura in un pianeta sempre più caldo se non ci si chiede anche e soprattutto come possiamo sfamare il mondo senza surriscaldarlo ulteriormente?» La Repubblica, 5 novembre 2016 (c.m.c.)
Il prossimo 7 novembre si aprirà a Marrakech la ventiduesima Conferenza delle Parti (Cop) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sinteticamente detta Cop22. La ventiduesima da quel 1994 in cui i governi si trovarono per ratificare gli Accordi di Rio. Obiettivo principale di quest’anno sarà dare seguito agli accordi siglati lo scorso dicembre a Parigi, che hanno rappresentato un passaggio storico, ancorché perfettibile, nella salvaguardia di un futuro per l’uomo su questo pianeta.
A distanza di quasi un quarto di secolo dal primo incontro, in Marocco farà finalmente il suo ingresso al tavolo dei negoziati anche l’agricoltura, buona ultima. Lasciando da parte l’amara constatazione che averci messo così tanto per comprendere la centralità della produzione alimentare nell’impatto sul cambio climatico non rende onore alla lungimiranza dei governanti del mondo, bisogna tuttavia anche segnalare un vulnus nell’impostazione della Cop22: se infatti finalmente all’ordine del giorno compare la produzione alimentare, questa è presente principalmente come comparto minacciato dalla crisi ambientale in atto.
Questo è senza dubbio vero, ma è un discorso monco se non si tengono presenti le responsabilità che questo settore ha nell’accelerare lo stesso cambiamento climatico. L’agricoltura (intesa nella sua accezione più ampia e dunque fatta anche di allevamento e pesca) incide sulle emissioni di gas serra per un terzo del loro valore complessivo, una cifra enorme che supera l’intero settore dei trasporti o della produzione di elettricità. Si può ignorare questo fattore? Volendo andare più nello specifico, poi, scopriamo come il 14,5% delle emissioni totali di gas serra sia dovuta alla sola produzione di carne. È evidente che questo modello di produzione non ha futuro, e che se vogliamo incidere oggi dobbiamo per forza di cose intervenire anche qui.
La Fao avverte che se il trend di consumo di carne proseguirà ai tassi attuali, entro il 2050 la quantità di carne prodotta e consumata raddoppierà dai livelli attuali, con le conseguenze che possiamo facilmente immaginare. Che senso ha dunque interrogarsi sul futuro dell’agricoltura in un pianeta sempre più caldo se non ci si chiede anche e soprattutto come possiamo sfamare il mondo senza surriscaldarlo ulteriormente? Di questo devono parlare i nostri governanti riuniti in Marocco. Altrimenti sarà l’ennesimo buco nell’acqua o poco più.

È necessario promuovere un modello alimentare differente, è necessario sensibilizzare a un minor consumo di proteine animali ma di migliore qualità, bisogna incentivare metodi di allevamento che siano a basso impatto ambientale, a ciclo chiuso e non intensivi, agroecologici e attenti al benessere animale. E attenzione, queste esperienze non sono da inventare, alcune esistono da migliaia di anni e ancora oggi rappresentano la grande maggioranza dell’intera produzione mondiale (l’agricoltura familiare produce ancora oggi il 70% del totale del cibo sul pianeta).

Fatte queste considerazioni sorge però spontanea un’altra riflessione: chi ha la responsabilità di fare il primo passo? Chi deve avviare per primo un percorso di contrazione? La risposta è una e una sola: i paesi dell’occidente industrializzato e ricco. Si sente da più parti affermare che Cina e India o altri paesi in via di sviluppo, vista la loro popolazione enorme e in crescita, dovrebbero rallentare e non imitare gli stili di consumo del nord ricco. Ma come si può essere credibili con un discorso di questo tipo? I paesi ricchi sono stati fino ad ora e sono ancora i principali responsabili delle emissioni e dunque del cambiamento climatico.
Questo è un fatto. E allora ci vuole un gesto di coraggio e di onestà, tocca a noi rivedere i nostri consumi e i nostri modelli di produzione, tocca a noi segnare la strada per un cambiamento effettivamente promettente per il futuro, tocca a noi tracciare una nuova traiettoria di sviluppo possibile per tutti, senza giocare al gioco dell’“iniziate voi e noi vi seguiamo”.
La ventiduesima Conferenza delle Parti è una nuova opportunità che va colta una volta per tutte, non possiamo certo permetterci di attendere altri ventidue anni nell’attesa che qualcuno si decida ad agire.

«“La crisi ecologica nasce dalla nostra separazione da ‘madre natura’. Ogni anello della catena della biodiversità è minacciato di privatizzazione e mercificazione”. Arriva in libreria “La Terra ha i suoi diritti”, l’ultimo libro-intervista di Vandana Shiva. Ne pubblichiamo un estratto dal capitolo “Pace, democrazia, attivismo”». Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2016 (p.d.)

Si parla di guerra per indicare campi di battaglia come la Siria, la Libia, l’Ucraina, l’Iraq o l’Afghanistan. Ma la più grande guerra che attualmente si combatte è quella contro il nostro pianeta. Poche multinazionali cercano di assicurarsi il controllo delle risorse della Terra in spregio dei più elementari limiti etici ed ecologici. La nostra acqua, i nostri geni, le nostre cellule, i nostri organi, le nostre conoscenze, la nostra cultura e il nostro futuro sono direttamente minacciati come su un campo di battaglia tradizionale. Non vede l’onnipresenza e la retorica guerriera dell’agroindustria? Che diventa palese quando si citano i nomi degli erbicidi di Monsanto: Roundup (“retata”, “razzia”), Machete, Lasso (“lazo”). Le industrie che producevano veleni ed esplosivi per uccidere durante le guerre sono le stesse che oggi fabbricano prodotti agrochimici. Negli anni Sessanta, Monsanto produceva in particolare l’Agente Arancio, scaricato dall’aviazione statunitense sulle foreste vietnamite durante la guerra per avvelenare gli alberi e gli uomini che essi proteggevano. Oltre ai numerosi tumori e malformazioni provocati all’epoca, molti altri casi fanno ancor oggi la loro comparsa.

I pesticidi hanno origine nelle armi chimiche: è utilizzando il cloro durante la Prima guerra mondiale (per esempio nell’iprite) che sono state messe in evidenza le proprietà insetticide dei composti a base di cloro, in seguito abbandonati, tra cui il Ddt, largamente diffuso prima di venire proibito. In seguito, l’ingegneria genetica ha preteso di offrire un’alternativa ai prodotti tossici. In realtà ha incrementato l’utilizzo di pesticidi ed erbicidi. Intanto gli Stati sostengono sempre di più i grandi gruppi nella loro marcia verso l’accaparramento delle risorse. È emerso un potere che coalizza Stato e industria per imporre le sue priorità al pianeta e ai popoli. Lo constatiamo senza timore di smentita in India, dove l’esercito è regolarmente chiamato a intervenire per espropriare le popolazioni che risiedono sui territori adocchiati dalle imprese. Ma il metodo è identico quando manifestanti greci o spagnoli subiscono gli assalti delle forze dell’ordine anche se non fanno che denunciare un’evidenza: le crisi economiche, alimentari, finanziarie sono lì a dimostrare che il sistema è agli sgoccioli e che una crescita senza limiti è impossibile su un pianeta dalle risorse limitate.

Gli scienziati hanno annunciato che siamo entrati in una nuova era: l’Antropocene. Ciò significa che le conseguenze chimiche, urbane, nucleari dei nostri stili di vita rimarranno incise negli archivi geologici del pianeta per migliaia di anni.

Eppure, anche tra quanti ammettono questa verità e il dato che l’umanità si trova in un’impasse esistono quelli che reagiscono ancora in maniera bellicosa, per esempio con la geoingegneria. Si rifiutano di abbassare le armi per lasciare che la natura si rigeneri e auspicano una lotta tecnologica contro i fenomeni naturali. Progettano interventi su grande scala per influenzare il sistema climatico e rallentare il riscaldamento: avvolgere la Terra di particelle di solfato per raffreddare il pianeta, inseminare di ferro gli oceani per stimolare il fitoplancton, o catturare il carbonio accumulato nell’atmosfera.

Manipolazioni che sono frutto di una totale mancanza di umiltà e di un’arroganza illimitata. Sono il sintomo di una perversione etica ed ecologica. Chi le promuove vede nell’uomo, una volta di più, il proprietario e padrone della natura, non un elemento che ne fa semplicemente parte. Di conseguenza, difendere i diritti della Terra Madre è la lotta più importante, tanto per l’ambiente come per i diritti umani e la giustizia sociale. Tenendo conto di tale contesto, è questa la lotta con le maggiori chance di portare a una pace duratura e a una situazione di stabilità.

«
L’elaborazione concettuale di un’indiscutibile emergenza non può cancellare la necessità di un lavoro in un tempo diverso, non deve diventare rimozione frettolosa e superficiale delle complessità che le macerie portano con sè». comune-info.net, 1 novembre 2016 (i.b.)

In pochi secondi una scossa di terremoto può sconvolgere la vita e l’aspetto di un paese. Un cambiamento drastico, brutale, istantaneo. Un terremoto può cancellare gran parte del nostro mondo e imporci di ripartire quasi da zero, per recuperare quanto perduto, al più presto. Vista così, alcune strade da percorrere possono sembrare obbligate, altre possono apparire logiche, rassicuranti. Ma forse in questo quadro manca qualcosa. Forse osservando meglio, potremmo eliminare alcune illusioni prospettiche. La prima distorsione nella nostra visione abituale riguarda il tempo del terremoto.

Una scossa dura pochi secondi: quel che accade spesso è così veloce da non darci modo di reagire opportunamente, di renderci conto chiaramente; in pochi secondi avviene qualcosa di assolutamente sconvolgente e totalmente “trasformante”. Però il tempo del terremoto non è quel che noi vediamo: sotto terra, il terremoto cresce e si prepara in moltissimi anni, in tempi geologici, con forze gigantesche e lentissime. Non possiamo pensare di rispondere a tempi così lunghi, forze così grandi, trasformazioni così profonde, con azioni rapide, soluzioni veloci, senza lunghe preparazioni. La prospettiva del nostro dialogo col terremoto non può che essere in tempi lunghi. 
L’idea delle soluzioni in emergenza è in parte obbligata (non si possono lasciare persone che hanno perso tutto in condizioni di difficoltà e vuoto!), ma non deve cancellare la necessità di un lavoro nel tempo, non deve diventare rimozione e fretta.

Riguardo al tempo del terremoto c’è un’altra caratteristica che a volte sembra sfuggirci: i terremoti non “arrivano”, i terremoti ritornano. Il tempo del terremoto è circolare. 
Dove un terremoto c’è già stato, lì ci sarà di nuovo. Il terremoto tornerà. Dopo il tempo necessario a riprepararsi, che non sappiamo quanto sarà e che per lo più sarà così lungo da far perdere memoria del terremoto precedente, il terremoto tornerà. Ma il fatto che i tempi lunghi ci facciano perdere memoria, non vuol dire che i terremoti del passato non siano esistiti. E se il tempo del terremoto è circolare, allora noi dovremmo provare a entrare nella sua ruota per dialogare con lui: dovremmo imparare a ricordare, a guardare le cicatrici che lascia e i segni che tramanda, a confrontarci giorno dopo giorno, a prepararci per il prossimo incontro.

Tempi lunghi, circolarità continua e “irregolare” (perché circolare non vuol dire che i terremoti hanno una “scadenza” esatta!): non siamo abituati a ragionare in questo modo sui terremoti, perché il dolore, il trauma, ci spingono a rispondere velocemente e poi rimuovere. Ma questa strada non può funzionare, perché il terremoto ha un suo carattere e dobbiamo farci i conti. Poi ci sono altre illusioni che sarebbe opportuno rimuovere. Prima fra tutte l’illusione della continuità: dopo uno sconvolgimento così doloroso e profondo com’è un terremoto, la tentazione di ricostruire tutto esattamente com’era, per dimenticare la sofferenza e la perdita, può essere forte. Ma è una tentazione che ci fa uscire dalla realtà (il cambiamento c’è stato, la perdita è irrimediabile) e ci rende difficile l’elaborazione e il ricordo. Inoltre il cambiamento, anche senza terremoto, è necessario e fisiologico: il terremoto ci costringe a un’evoluzione che dobbiamo provare a “governare”, facendoci tutte le domande che ci faremmo se il cambiamento l’avessimo indotto noi stessi.

Nel ricostruire dopo un terremoto dovrebbe essere normale chiedersi (come faremmo in qualsiasi altra ricostruzione): cosa c’era che non andava più bene(che non era più adatto, funzionale, “bello”) in quel che c’era prima? Cosa avrei voluto cambiare e cosa voglio cambiare? Come posso recuperare le cose che erano davvero importanti, costruire quelle che mancavano e tenere traccia della mia storia, incluso quest’ultimo evento?

Quel che per lo più succede ora, dopo un terremoto, è che nell’immediato si costruiscono strutture (che a volte permangono a lungo!) del tutto avulse dal corpo dell’abitato precedente, generando a volte un tessuto urbano frastagliato, sconvolto, confuso.
 Poi si pretende di ricostruire “com’era prima”, immaginando di cancellare non solo il cambiamento e le perdite, ma anche l’adattamento mentale e psicologico cui i cittadini hanno dovuto ricorrere per gestire la confusione del dopo. Per non parlare dell’idea di ricostruire “dov’era”, che può essere ancora più folle, perché a volte gli edifici cadono proprio perché erano costruiti nel posto sbagliato!

Possiamo lavorare per una continuità che conservi memoria nella trasformazione, ma non possiamo puntare all’immutabilità, per il semplice fatto che l’immutabilità non esiste. C’è un’altra illusione, un’altra tentazione che rischia di farci perdere di vista la realtà e la complessità: l’illusione dell’azzeramento del rischio. Nei tempi lunghi di cui parlavamo è bene lavorare alla riduzione del rischio, agendo sul contesto e con le persone: lavorare per rendere i luoghi in cui viviamo più sicuri e soprattutto lavorare continuamente nelle comunità, per aumentare consapevolezza, responsabilità, collaborazione, capacità di leggere il territorio e di prevenire e reagire. Ma nei tempi tesi e veloci dell’emergenza l’idea di ricostruire un contesto che guardi solo alla sicurezza, mettendola avanti ad ogni altra cosa e immaginando di poter regalare alle comunità una situazione “a rischio zero”, è non solo un’illusione, ma una prospettiva destinata a produrre seri danni. Innanzitutto perché azzerare il rischio non è possibile: ci confrontiamo continuamente con rischi di ogni genere e continueremo a farlo, sempre.

Possiamo lavorare per ridurre il rischio “oggettivo”, concentrandoci su un rischio specifico (quello sismico, ad esempio), ma non possiamo prescindere dalla necessità di imparare a confrontarci col rischio, con tutti i rischi con cui siamo continuamente chiamati a misurarci. Immagiamo, per paradosso, una comunità convinta di vivere in un ambiente in cui il rischio è stato azzerato, convinta che sia la tecnologia a proteggere gli esseri umani dai rischi: che capacità svilupperanno i cittadini di osservare, di analizzare, di scegliere? E che faranno quando incontreranno, come inevitabilmente capiterà, un pericolo?

È ovvio che nella ricostruzione dopo un terremoto si punti alla massima sicurezza, ma per farlo non è necessario né accettabile dimenticare dimensioni altrettanto importanti (la vivibilità, la bellezza, la felicità). L’ultima illusione che vogliamo sottolineare è l’illusione dei salvatori e dei salvati. È l’illusione più pericolosa, perché (a volte) nasce da sentimenti nobilissimi e assolutamente da coltivare: empatia, solidarietà, collaborazione. E nasce anche da una necessità: nell’emergenza servono persone capaci, competenti, per agire rapidamente e bene, per salvare vite, per valutare i danni e predisporre soluzioni.L’emergenza in Italia viene gestita bene; il sistema di Protezione Civile è efficiente e fa quel che va fatto. Ma la nostra cultura impone anche ai terremoti le sue regole, che non è detto siano le regole adatte. La nostra cultura prevede che, soprattutto in casi estremi, siano solo gli “esperti” a dover decidere ed agire, il che sarebbe anche ragionevole, se fra gli esperti si includessero coloro che “hanno fatto esperienza” di quel che si deve affrontare. La nostra cultura non prevede più reazioni e soluzioni “spirituali” e comunitarie, ma solo soluzioni personali, pratiche e dall’alto.

Cosa succede dopo un terremoto? Sul territorio e fra le persone colpite calano esperti, decisori, curatori, volontari che risolvono la situazione, assistendo le vittime. Il territorio, già sottratto ai suoi dal terremoto, viene ulteriormente allontanato, nascosto; le persone colpite diventano definitivamente vittime, passive, mentre altri risolvono per loro (e spesso sono le stesse persone colpite ad aspettarsi che qualcuno da fuori risolva per loro la situazione). Tralasciamo l’ipotesi di scelte sbagliate (quando non truffaldine) e concentriamoci solo sui ruoli che i diversi soggetti si trovano ad interpretare: come si può uscire da uno sconvolgimento così grande se non ci si misura con esso? Se non si mettono in campo le proprie risorse, se non ci si connette con i nostri amici-vicini e se non si riconquista il proprio territorio?

Un tempo c’erano riti e momenti codificati per questa riconquista di relazioni e spazi: processioni, assemblee. Oggi la dimensione “spirituale” è sostituita da quella psicologica, che però lavora troppo spesso per risolvere i traumi dei singoli. Ma la dimensione del terremoto non è singola, è collettiva: il terremoto colpisce le comunità e solo dalle comunità può essere affrontato, nei suoi aspetti pratici, come in quelli emotivi, psicologici e spirituali. D’altra parte, perché una comunità che fa esperienza di un terremoto possa essere protagonista delle scelte e della ricostruzione, questa comunità deve esistere, riconoscersi, sapersi muovere come comunità prima del terremoto e prima dell’emergenza, ma da noi su questo aspetto (la famosa resilienza!) non si lavora, né come forma di prevenzione né come nient’altro.

Quindi, nonostante l’emergenza e le sue indiscutibili necessità, nonostante il desiderio di risolvere in fretta per superare il dolore, nonostante quel che apparentemente ci sembra normale e logico fare, ci converrebbe guardare anche oltre, per non trovarci di nuovo, al tempo del prossimo terremoto, impreparati.

Flaminia Brasini e Delia Modonesi, ConUnGioco onlus, da molti anni si occupano di educazione per la riduzione del rischio. Girano l’Italia in lungo e in largo, dal Friuli alla Sicilia, per incontrare bambini, ragazzi, insegnanti e cittadini che si confrontano col terremoto. “Proponiamo strumenti di scoperta e condivisione per capire, elaborare e decidere insieme. Abbiamo lavorato a lungo con ragazzi e insegnanti delle scuole di L’Aquila nel post emergenza e di svariate scuole dei comuni colpiti dal terremoto dell’Emilia. Esperienze e persone da cui abbiamo imparato molto”.

Direzione Cop 22. Sbarca oggi a Porto Torres la flotta per la giustizia sociale e climatica». Peccato che lo stesso giorno la Sardegna respingeva un gruppo di profughi, perché ne avevano già accolti il quantitativo stabilito.il manifesto, 23 ottobre 2016 (c.m.c.)

In vista della Conferenza dell’Onu sul cambiamento climatico (Cop 22), che si terrà dal 7 al 18 novembre a Marrakech, in Marocco, un gruppo di attori della società civile ha scelto di lanciare una campagna di mobilitazione euro-africana per la giustizia climatica e la giustizia sociale, l’Odissea delle Alternative Ibn Battûta, dal nome del cosiddetto «Marco Polo dell’Islam» che a metà del XIV secolo da Tangeri viaggiò per 28 anni, per terra e per mare, raggiungendo Timbuctù e Pechino.

«L’Odissea delle Alternative», partita il 19 ottobre e che proseguirà fino al 10 novembre, farà tappa in sei Paesi – Spagna, Francia, Italia, Tunisia, Algeria e Marocco – con l’obiettivo di rilanciare i temi della giustizia sociale, del clima e delle migrazioni, dando risalto alle pratiche virtuose ed alle soluzioni già riscontrabili in alcune delle comunità che si affacciano sul Mediterraneo.

Il Mediterraneo, afflitto dal crescere dell’intolleranza, da un brusco aggravamento delle tensioni, da guerre e conflitti, sarà una delle aree che maggiormente risentirà degli effetti dei cambiamenti climatici. Ed è per questo motivo che le comunità dell’area, ovvero le organizzazioni della società civile del Mediterraneo e del Sahel, si trovano – e ci troviamo – in prima linea per impedire o ridurre al minimo gli effetti, potenzialmente disastrosi, dei mutamenti climatici.

Da anni molti uomini, donne, bambini, attraversano il Mediterraneo, sperando in una vita migliore, ma spesso trovano la morte, anche per le gravi responsabilità delle istituzioni europee, che continuano a perseguire politiche di chiusura e di esternalizzazione delle frontiere.

Eppure questa drammatica situazione può essere modificata e sono tanti gli esempi che vanno in questa direzione, anche nei Paesi più poveri e in difficoltà: la rivalutazione dei saperi artigiani e industriali; il contrasto alla privatizzazione dei beni comuni; l’affermazione della gestione pubblica e partecipata del ciclo dei rifiuti e del ciclo delle acque; l’agricoltura familiare e di prossimità; i sistemi sociali ed economici locali che privilegiano la crescita auto sostenibile e lo scambio solidale e sussidiario, in opposizione al sistema competitivo neoliberista.

A MARRAKECH, finalmente, temi sino ad oggi trattati come singoli fenomeni saranno affrontati secondo una visione organica: la giustizia climatica, le migrazioni, la gestione delle risorse naturali, la sovranità alimentare, la riconversione ecologica, la sostenibilità energetica, la difesa del territorio, dei diritti umani e sociali, la pace, la cooperazione internazionale.

Senza dimenticare la necessità di lavorare a un grande piano di manutenzione della dimensione democratica, ricostruendo il concetto di partecipazione e ridando ruolo e potere ai «luoghi» reali della vita e della democrazia, rendendo riconoscibile il processo decisionale e di governo.

Il contrario di quello che prevede la riforma della Costituzione italiana promossa dal governo Renzi e sostenuta da tutte le più potenti lobbies economiche e finanziarie.Chi, come e dove si decide è argomento decisivo per il nostro futuro.

Per ridisegnare un nuovo assetto sociale ed economico occorre ricominciare ad «abitare» i luoghi, ripensare i processi decisionali, anche di governo del territorio, restituire la sovranità delle scelte alle comunità piccole e grandi. È necessario tracciare la strada verso un modello economico sostenibile e rispettoso dell’ambiente, dei territori, delle comunità che lo abitano; delineare un’organizzazione sociale basata sulla cooperazione, sul mutualismo e sull’autogestione.

Ed è di questo e di tanto altro che ci occuperemo anche nella tappa italiana dell’«Odissea delle Alternative» che l’Arci ha organizzato insieme alla Coalizione Clima, Rete della Pace, Rete della Conoscenza, Cgil, Legambiente, Unione degli Studenti, Rete degli Studenti Medi, Marevivo, Mani Tese, Fondazione Univerde, Earth Day Italia e con il patrocinio del Comune di Porto Torres. Le imbarcazioni attraccheranno oggi a Porto Torres e la manifestazione avrà inizio a partire dalle 16 nei locali del Museo del Porto.

Alla tavola rotonda sul Mediterraneo che affronterà il tema dei cambiamenti climatici e dei flussi migratori, seguirà un documentario, Mare Chiuso, sui respingimenti in mare; assisteremo ad alcune incursioni teatrali con una colorata Parata Migrante e concluderemo con un aperitivo multietnico e solidale a base di prodotti afro-sardi.

I catamarani, con il loro equipaggio, salperanno in direzione di Biserta, in Tunisia, dopo aver caricato le provviste e organizzato la cambusa. Simbolo di esperienze di resistenza e di resilienza e monito per chi ha in mano le leve del potere a rispettare prima e applicare poi, con serietà, gli impegni assunti nel documento firmato alla Cop21 di Parigi.

«Tra Olimpiadi, scandali e impeachment, l’aumento della deforestazione passa sotto silenzio». Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2016 (p.d.)



Queimada, bruciato, non è solo l’emblematico titolo di un film di Gillo Pontecorvo, è anche un’infernale parola che ricorre spesso nelle pagine dell’ultima pubblicazione dell’Ipea, l’istituto di ricerche spaziali brasiliano, il quale anche quest’anno ha pubblicato il crudele resoconto sulla devastazione dell’Amazzonia in Brasile. Il dossier dell’Ipea – realizzato grazie al monitoraggio dei satelliti Landsat americani – sono inquietanti, giacché le Queimadas, nel 2015, sono aumentate del 309,6% e hanno contribuito, assieme al disboscamento, alla distruzione di 6.207 kmq di foresta tropicale. L’aumento è pari al 24% rispetto a quello registrato l’anno precedente. Assieme agli alberi della selva pluviale, vanno in fumo anche gli accordi sul riscaldamento globale di Parigi, ratificati a settembre, anche dal neo governo Temer, il quale si è impegnato a ridurre l’emissione dei gas serra del 37% entro il 2025 e del 43% nel 2030.

Tra le ambiziose misure che dovrebbero essere adottate, ci sarebbe il recupero di 12 milioni d’ettari d’aree silvestri devastate, oltre all’azzeramento del disboscamento entro il 2030. “Se esiste ancora la foresta, è grazie agli indios. Le dighe non sono certo costruite per portare energia alla gente, ma all’agro-business, come quello di Blairo Maggi, l’ex governatore del Mato Grosso do Sul, uno dei maggiori produttori di soia al mondo. Non ricordo il numero esatto, ma nei programmi di sviluppo del governo, ci sarebbe l’intento di costruire 150 impianti idroelettrici in Amazzonia”, spiega Bruna Franchetto, antropologa italiana all’Università Federale di Rio. Agrobusiness, allevamento del bestiame, ma anche industria mineraria e infrastrutture, tra cui l’edificazione di dighe e urbanizzazione, sono i grandi demolitori dell’Amazzonia che ingloba circa il 60% del bacino amazzonico sudamericano, pari a 4,2 milioni chilometri quadrati, il 49% del territorio brasiliano.

Nell’universo amazzonico vivono più di 342 mila indios, tra cui i Guarani Kaiowá, l’etnia che soffre con il più alto numero di assassinati e suicidi in Brasile. In tanti si chiedono se il governo neoliberale di Temer manterrà fede agli accordi, dato che a Brasilia circolano proposte di legge come la Pec 215, l’emendamento alla Costituzione giunto alla Camera, con cui le potenti lobby dell’agro-business ed evangeliche anelano a trasferire dall’esecutivo al Parlamento il potere di demarcare le terre destinate agli indios.

Nela Pec 215,il governo vorrebbe inserire anche la proposta di vendere terre pubbliche agli stranieri. I latifondisti vorrebbero aumentare la produzione delle commodity agricole e l’emendamento, secondo i ricchi fazendeiros, aprirebbe il cammino all’investimento straniero in un Paese in crisi profonda. Prima dell’attuazione dell’impeachment, la presidente Rousseff ha firmato numerosi decreti destinati al riconoscimento d’aree indigene, provvedimenti, però, in parte già annullati da Temer.

Secondo Franchetto, se la Pec 215 sarà approvata, si getterebbe la Costituzione nei rifiuti: nella Carta varata nell’88 venne riconosciuto agli indios il diritto originario d’esistere prima della formazione dello Stato brasiliano.

L'Oong internazionale Human Rights Watch denuncia «violazioni dei diritti delle comunità danneggiate dallo sfruttamento delle miniere di carbone e di uranio». Un altro caso di sfratto forzato di persone e comunità dell'Africa , causato dalla rincorsa del micidiale "sviluppo". asud.net, 10 ottobre 2016 (p.d.)

Secondo il rapporto “They Destroyed Everything: Mining and Human Rights in Malawi”, presentato da Human Rights Watch in occasione dell’ International right to know Day, «Il governo del Malawi non ha preso le misure necessarie per proteggere i diritti e i mezzi di sussistenza delle persone che vivono nelle comunità danneggiate dai progetti di sfruttamento minerario. Le famiglie che vivono vicino a delle aree di sfruttamento minerario di carbone e di uranio si confrontano con gravi problemi riguardanti l’acqua, il cibo e l’abitazione e non ricevono nessuna informazione riguardante i rischi per la salute ed altri prodotti da questo sfruttamento».

Il rapporto “Hanno distrutto tutto” esamina in 96 pagine l’impatto delle industrie estrattive sulle comunità di alcune delle prime aree minerarie del distretto di Karonga, sulla costa nord-occidentale del Lago Malawi. Il governo di Lilongwe ha favorito gli investimenti privati nell’estrazione di minerali e risorse per diversificare l’economia del Malawi, ma Human Rights Watch ricorda che «Ogni estrazione di risorse naturali va generalmente di pari con dei rischi ambientali e l’estrazione mineraria contribuisce in maniera importante al dannoso cambiamento climatico a alla capacità dei governi di garantire i diritti alla salute, all’acqua e al cibo».

Katharina Rall, ricercatrice della divisione salute e diritti umani di Human Rights Watch, avverte: «Il Malawi non dovrebbe commettere gli stessi errori riguardanti l’estrazione mineraria visti in altri Paesi dell’Africa australe. Non è sufficiente creare un ambiente favorevole agli investimenti da parte delle compagnie minerarie. Il governo dovrebbe proteggere urgentemente le comunità colpite». Il rapporto si basa su ricerche effettuate in Malawi tra il luglio 2015 e il luglio 2016 e su più di 150 interviste, comprese quelle a 78 persone che vivono nelle aree attualmente sfruttate dalle compagnie minerarie o dove sono iniziate le operazioni per aprire nuove miniere. Human Rights Watch ha anche incontrato i rappresentanti delle imprese e dei governi nazionale e locali, di Ong nazionali e internazionali e di organismi internazionali. E’ su queste basi che Human Rights Watch denuncia «Violazioni dei diritti delle comunità del distretto di Karonga, danneggiate dallo sfruttamento delle miniere di carbone e di uranio dell’Eland Coal Mining Company, della Malcoal, e di Paladin Africa Limited (Paladin)» e l’Ong internazionale ha concluso che «Il Malawi non dispone di protezioni appropriate per garantire l’equilibrio necessario tra gli interventi a favore dello sviluppo e la protezione dei diritti delle comunità locali; inoltre, tra il controllo insufficiente da parte del governo e la mancanza di informazioni, le comunità locali sono private di protezione».

Un’abitante di Mwabulambo ha detto a Human Rights Watch: «I nostri problemi sono cominciati con l’inizio delle attività minerarie. Il carbone è nei nostri orti e si spande nei nostri campi. A guardare i nostri campi, si direbbe che qualcuno li abbia innaffiati di petrolio».

A marzo una donna di 75 anni di Mwabulambo ha raccontato la sua storia ai ricercatori: «Avevo 6 acri (2,4 ha) di terra. Ma la miniera di carbone ha sparso del carbone sulla strada per renderla migliore per i camion, il carbone è percolato nel mio orto durante la stagione delle piogge e questo ha nuociuto al mio raccolto di frutti. Perché avete distrutto la nostra terra? Ci hanno lasciato con niente. Soffriamo la fame».

Human Rights Watch ha constatato che le attività minerarie hanno costretto diverse famiglie ad andarsene e queste persone sono state avvisate solo all’ultimo e non hanno avuto il tempo per trovare un altro posto dove stare, molte sono senza casa. In molti non sono stati informati delle procedure di indennizzo, che sono comunque poco chiare, e in diversi casi gli indennizzi sono stati inferiori a quelli necessari per ricostruire una casa o per conservare il già povero livello di vita precedente, anche perché in molti non possono più accedere alle terre che coltivavano. «La compagnia ha messo delle croci bianche su tutte le case delle famiglie da sgomberare. Hanno messo una croce bianca anche sulla nostra casa. Sono venuti una prma volta nl marzo 2012 per dirci che dovevamo sloggiare entro aprile. Ma hanno aspettato solo una settimana prima di ritornare per dirci che bisognava sloggiare subito. Non sapevamo dove andare. Abbiamo dovuto dormire all’aperto per qualche giorno. E’ stati difficile andarsene perché era la stagione delle piogge e abbiamo finite per installarci sotto la veranda di qualcuno o sotto un albero», raccontava Sinya M., di Mwabulambo, nel marzo 2016.

Gli abitanti del distretto di Karonga dicono di non aver ricevuto informazioni sufficienti sulle attività minerarie e sui rischi che comportano, in particolare le malattie respiratorie e altri problemi sanitari e ambientali. Chi vive nei villaggi ha scarso accesso alle cure ambulatoriali e ospedaliere e praticamente nessuno potrà curarsi dalle malattie legate all’estrazione di uranio e carbone. Il governo e le compagnie che operano a Karonga hanno assicurato che stanno sorvegliando gli impatti dello sfruttamento minerario, ma non hanno mai pubblicato I risultati.

Gli abitanti dei villaggi sono preoccupati per l’inquinamento delle fonti d’acqua dalle quali dipendono per bere e irrigare i campi. Secondo loro i camion delle miniere sollevano nuvole di polvere che soffocano i villaggi e le scuole con conseguenze per la salute, in particolare malattie respiratorie. Gli studi effettuati in altri Paesi sulle malattie legate all’esposizione all’inquinamento minerario danno loro ragione. Gli agricoltori hanno segnalato che la polvere di carbone e la cattiva qualità dell’acqua danneggiano i loro raccolti. La miniera di carbone dell’Eland, che ha chiuso nel 2015, ha lasciato dei livelli altissimi di polvere di carbone e pozzi pieni di acqua inquinata che possono essere pericolosi per i bambini e minacciano le risorse idriche locali.

La Rall constata: «A causa dell’insufficienza dell’infrastruttura sanitaria e del segreto mantenuto sui risultati delle indagini, è difficile dire cosa succede realmente. E’ uno degli aspetti del problema, il governo e le compagnie devono prendere sul serio l’indagine e gli interessati hanno diritto di conoscere i risultati».

Le più colpite sono le donne, sulle quali gravano i compiti domestici e agricoli. Sono state proprio le donne a segnalare la difficoltà di ottenere delle spiegazioni sui rischi che corrono da parte delle compagnie, anche perché la loro partecipazione agli incontri con le compagnie e il governo è stata ostacolata e limitata. Ma, dato che l’estrazione mineraria nuoce alla produttività agricola e minaccia le fonti d’acqua, le donne devono lavorare più a lungo per provvedere ai bisogni delle loro famiglie e fare più strada per trovare acqua pulita. Nagomba E., residente nel villaggio di Mwabulambo, spiega: «Le tubazioni passavano proprio davanti a casa mia e avevo l’acqua corrente in cucina e in bagno, poi loro hanno distrutto tutto. Alla mia età è difficile andare ancora al fiume».

«La compagnia ci aveva promesso un centro sanitario e nuovi rubinetti e dei ponti. Non avevano parlato di rischi», dice una donna di Kayelekera.

In generale, le compagnie che operano nel distretto di Karonga non hanno mantenuto le promesse di costruire centri sanitari o di trivellare altri pozzi d’acqua. Le Ong del Malawi sono molto preoccupate: «La corsa all’ industrializzazione e alla crescita deve essere accompagnata da un patto sociale e le compagnie devono mantenere le loro promesse», dice Reinford Mwangonde, direttore esecutivo di Citizens for Justice che fa parte del Natural Resources Justice Network, una rete malawiana di Ong che si battono per una estrazione sostenibile delle risorse.

Human Rights Watch ricorda che «Le industrie estrattive del Malawi sono ancora all’inizio, il che dà al governo e agli investitori l’occasione di rispettare i diritti delle comunità e di minimizzare i rischi con i quali si confrontano le comunità e gli ecosistemi naturali, mentre operano per lo sviluppo economico. Anche se il Malawi dispone di qualche legge e di politiche che proteggono i diritti delle comunità potenzialmente lese dall’estrazione mineraria, sono applicate male. Gli organi di vigilanza del governo sono inattivi durante il proseguimento delle attività di estrazione mineraria autorizzata, quali che siano i rischi che corrono le comunità locali o l’ambiente. La nuova proposta di legge, la Legge sulle miniere e i minerali, non rimedia alla mancanza di trasparenza riguardante I rischi legati allo sfruttamento minerario. Il governo ha iniziato a creare un quadro giuridico più ampio e ha promesso di migliorarne l’applicazione. Tuttavia, le comunità minerarie aspettano ancora i risultati delle ispezioni e i risarcimenti per i danni subiti. Il governo dovrebbe instaurare delle condizioni eque, informando e comunità sui rischi dell’estrazione mineraria, garantendo la loro partecipazione alla presa delle decisioni».

La Rall conclude: «Le miniere del distretto di Karonga saranno seguite da numerosi altri progetti di estrattivi in Malawi, il che conferisce una grande importanza agli insegnamenti che si possono trarre da questa esperienza. Il governo dovrebbe n mettere in atto delle protezioni efficaci in modo che le persone interessate dai nuovi progetti non subiscano gli stessi danni degli abitanti di Karonga».

«Burkina Fasu. Incontro con il pioniere della rigenerazione naturale, Yacouba Sawadogo». il manifesto, 7 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Per ogni villaggio, una piccola foresta»: uno dei tanti sogni di quell’utopista concreto che si chiamava Thomas Sankara. Ma il 15 ottobre 1987 il presidente del Burkina Faso fu assassinato e finì una rivoluzione che parlava al mondo partendo dai contadini saheliani tormentati dalla miseria e dall’avanzare del deserto.

In soli 4 anni di governo
– prima della restaurazione del golpista Blaise Compaoré -, i burkinabè non riuscirono a rinverdire il Sahel. Ma in tutti questi decenni, qualcuno ha portato avanti il lavoro sul campo. Seminare foreste tornerà ad essere una priorità nazionale dopo la sollevazione popolare dell’autunno 2014 che ha cacciato Compaoré e malgrado le tante contraddizioni del nuovo governo? Yacouba Sawadogo non lo sa. Ma continua a lavorare. Chi si reca al villaggio di Gourga, deve cercare Sawadogo nel grande bosco che si estende per ettari ed ettari, ricco di acacie, pruni, datteri del deserto, leiocarpus, gomma arabica, moringa; per gli uccelli e gli altri animali selvatici, piccoli punti di acqua sparsi qui e là. Una foresta dove decenni fa non c’era nemmeno un arbusto.

Niente piantumazioni monovarietali, costose e che spesso muoiono in quell’ambiente ingrato. Lui, Yacouba, gli alberi non li pianta: li semina. Pratica la strategia ecologica e sociale della Rigenerazione naturale assistita dagli agricoltori (Rna), nella quale gli alberi spontanei sono protetti perché trattengono l’umidità nel suolo e aiutano i raccolti. Tecniche simili di coltivazione e riforestazione naturale sono portate avanti, fra gli altri, dai Groupements Naam, un’associazione di gruppi di villaggio assai diffusa in Burkina Faso.

Sawadogo ha raccontato la sua storia giorni fa a Torino e Cumiana, partecipando all’incontro internazionale «Terra madre». Ci ha spiegato che negli anni 1970, durante anni di totale siccità, mentre i contadini fuggivano dalle campagne assetate, egli come un folle fece il cammino opposto. Da commerciante diventò pioniere della lotta contro il deserto, «per avere un’attività non fondata sul denaro». A Gourga allora si faceva la fame. Yacouba, da buon innovatore delle buone tradizioni, reintrodusse lo zai, un’antica tecnica tipica delle aree del nord, a più bassa pluviometria: nella stagione secca si scavano buchi regolari nei campi, per trattenere l’acqua nella successiva stagione delle piogge. La novità ideata da Sawadogo consisteva nello scavare buche più grandi, e nel deporvi compost e letame e anche le termiti, che aiutano a smuovere il terreno. Poi si seminano cereali e specie arboree.Così sotto le mani di Sawadogo e dei contadini affamati di Gourga ai quali offriva cibo in cambio di lavoro, migliorarono i raccolti (fino a 1,5 tonnellate di miglio per ettaro anziché 500 kg) e crebbe la foresta.

Dapprima lo credono folle, i capiclan cercano di boicottarlo perché sono abituati ad assegnare in tutta discrezionalità le terre – in Burkina sono dello Stato. A un certo punto la foresta è stata minacciata perfino da un progetto di espansione immobiliare della vicina Ouahigouya, poi per fortuna fermato. Ma lui ha resistito, fedele al principio che «il valore di una persona si misura con il tempo che ci mette a desistere». Tuttora distribuisce semi e dispensa consigli e corsi di formazione a chi glieli chiede. Migliaia di famiglie negli anni grami sono sopravvissute grazie alle sue tecniche: «Se riesce a produrre cibo a sufficienza, il paese si salverà», dice.

Per Chris Reji, esperto internazionale della Rna, «Yacouba, ricercatore analfabeta, ha avuto più impatto sulla preservazione del Sahel di tanti gruppi di ricerca internazionali e nazionali». Una ricerca della Fao stima che con l’equivalente di poche decine di euro si potrebbero rimborsare le ore di lavoro e le risorse necessarie ai contadini per rigenerare un ettaro di Sahel. Ma questo sostegno, una vera restituzione internazionale a chi è vittima anche dell’ingiustizia climatica, langue. Così la tecnica dello zai continua ad avere un risvolto duro: fatica nella polvere, con le pesanti zappe in mano e il sole che batte. In mezza giornata, otto persone valide possono scavare mille zai, ma piccoli. Poi agli zai vanno associate le dighette antierosive formate da cordoni di pietra – da trasportare a mano o con la carriola. Tanta fatica, tanto tempo significano anche una diffusione inferiore a quella che sarebbe necessaria. Gli stessi Naam non hanno quasi trattori e nemmeno zappe ergonomiche.

Lo zai può anche essere praticato con un attrezzo trainato dagli animali. E qui si apre un altro capitolo: gli asini burkinabè – da sempre compagni dello sforzo umano – sono stati decimati per anni, carne e pelli esportati verso l’Asia. Nello scorso agosto, anche grazie a una piccola campagna di repressione, il Burkina seguendo il Senegal ha introdotto una legge per la loro protezione. Ma questa è un’altra storia.

«Mentre il premier si autocelebra a Genova per i “passi avanti giganteschi”nella messa in sicurezza del territorio, dei 9 miliardi promessi sono stati spesi soltanto spiccioli (stanziati dal governo Letta). Quasi a zero anche i fondi per bonifiche e sistema idrico». Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2016 (p.d.)

Ieri Matteo Renzi è andato a Genova: “Stasera presentiamo i lavori sul Bisagno (il fiume esondato nel 2014, ndr): la lotta al dissesto non si fa con le parole ma coi cantieri. E sono molto fiero dei passi in avanti giganteschi che sono stati fatti. Ma non basta”. I passi avanti giganteschi sono parte del Grande Piano contro il dissesto idrogeologico 2015-2020 da 9 miliardi: “Una rivoluzione copernicana – la definì il premier l’anno scorso –. Abbiamo già stanziato 1,2 miliardi. Ci rimbocchiamo le maniche e sistemiamo tutto”. Su Italiasicura.it si possono vedere i cantieri in una graziosa mappa multimediale. Poi, però, c’è la realtà. Il Tesoro, com’è obbligato a fare, ha appena pubblicato le Relazioni sulle spese di investimento e relative leggi pluriennali 2016 e lì c’è scritta una cosa un po’ diversa: finora sono stati spesi in tutto 74 milioni, molti dei quali proprio a Genova peraltro, stanziati da Enrico #staisereno Letta. Non solo: le critiche che il governo muove a se stesso in quel report sono pesanti tanto sul dissesto, quanto sulle bonifiche e il sistema idrico. Breve sintesi.
Dissesto idrogeologico

Ecco i 9 miliardi di Renzi nelle parole dei tecnici del ministero dell’Ambiente (Gian Luca Galletti fu uno dei più risoluti aedi del Grande Piano): “A causa dell’esiguità delle risorse disponibili si sta procedendo attraverso la realizzazione di Piani Stralcio”. Insomma, il Grande Piano nel settembre 2015 è diventato – in silenzio, con un decretino – “interventi di mitigazione del rischio alluvionale nelle aree metropolitane” (tutte nel Centro-Nord). Finanziamento teorico: 1,3 miliardi dal Fondo di sviluppo e coesione e dal ministero dell’Ambiente. Quei soldi, però, non esistono: “A causa dell’esiguità delle risorse disponibili si è deciso di finanziare 33 interventi per un importo di 654 milioni di risorse statali che hanno così costituito la sezione attuativa, rimandando la sezione programmatica” a quando avremo i soldi. Anche i 654 milioni, però, sono virtuali: a oggi infatti, ci dice il Tesoro, sono stati spesi 74,1 milioni. Poi ci sono altri 63 milioni da destinare “al piano di gestione del rischio alluvioni da completare entro l’anno”.
Quindi non spesi. Da qui al 2018 ci sono sulla carta 350 milioni in tutto, tutti stanziati da Letta nel 2013: 150 milioni quest’anno, 50 nel 2017 e 150 nel 2018. Il governo Renzi non ha messo un euro in più: “La scarsità delle risorse disponibili per il triennio 2016-18 non ha consentito a questa amministrazione di effettuare una programmazione strutturata per la mitigazione del dissesto idrogeologico”. In sostanza, il ministero dell’Ambiente chiede più soldi e li vorrebbe dal Fondo di sviluppo e coesione. Problema: quei soldi sono vincolati per l’80% a investimenti al Sud “con pregiudizio della grave situazione di dissesto nel Centro-Nord”. Dulcis in fundo: il decreto Sblocca Italia del 2015 ha stanziato 45 milioni per i programmi anti-dissesto “dei provveditorati regionali”: finora sono stati assegnati solo i 2 milioni del 2015.
Le fogne

Qui il ritardo è enorme. Da oltre 10 anni, una direttiva Ue impone a Roma la messa a norma dei sistemi fognari e depurativi: le acque reflue degli agglomerati urbani “devono essere sottoposte a trattamento adeguato”. Tradotto: vanno depurate. Per il 2016 sono stati stanziati 20 milioni. Cioè il 2% di quanto servirebbe. Recita infatti il documento del Tesoro: “La ricognizione effettuata ha evidenziato un fabbisogno finanziario di oltre 1 miliardo di euro per la realizzazione di interventiin 817 agglomerati oggetto di contenzioso comunitario”. A dicembre 2015, Bruxelles ha infatti annunciato che metterà in mora l’Italia alla Corte di Giustizia europea. Lì quantificherà la multa: rischiamo di dover pagare mezzo miliardo l’anno. Per mettere tutto a posto, invece di un miliardo, ci sono 20 milioni nel 2016, 14 nel 2017 e 7 nel 2018 in base a leggi di 10 anni fa.
Siti inquinati

Ce ne sono di vario genere, ma lo stato degli investimenti pubblici è terribile in ogni caso. Per l’amianto, ad esempio, Renzi ha promesso 45 milioni l’anno tra il 2015 e il 2017 per fare le bonifiche nei “sette Siti di interesse nazionale contaminati da amianto”. In teoria. Nella pratica dei 45 milioni del 2015 ne sono arrivati solo 25, cifra che scende a 19,7 milioni nel 2016. Ammette il governo nel suo report: “Si prevede che sarà erogata una percentuale di risorse superiore al 65% entro la fine del triennio”. Tradotto: 46 milioni sono già persi.
Poi c’è il piano straordinario di bonifica delle discariche abusive. Letta aveva stanziato 30 milioni per il 2016-2018: i soldi non sono mai arrivati perché - dicono i tecnici - “i soggetti attuatori non hanno mai consegnato i piani”. Le risorse, comunque, non bastano: mancano 66 milioni. Infine ci sono le bonifiche degli altri Sin: i siti di interesse nazionale – cioè posti super-inquinati tipo Taranto, Brindisi, i laghi di Mantova o il petrolchimico a Marghera – sono 40, istituiti per legge nel 1998 per procedere finalmente alle bonifiche. Come non si era fatto niente prima, così quasi niente dopo. Ora all’uopo sono destinati 75 milioni fino al 2018. Problema: solo i Piani di Stralcio per gli interventi “strategici e prioritari” – quelli, cioè, per evitare emergenze sanitarie – valgono 600 milioni e non ci sono. Se questo è l’andazzo, il piano “Casa Italia” lanciato dopo il terremoto andrà monitorato con attenzione.

«La concentrazione monopolistica che investe l’agricoltura industriale comporta una vertiginosa crescita nell’impatto sul mercato, a cominciare dai prezzi al consumo, nel potere delle lobby su leggi e regolamenti nazionali e internazionali, nella corruzione politica e nel controllo delle informazioni». Comune-info, 29 settembre 2016 (p.d.)

Anche se la notizia circolava dallo scorso anno, la conferma del 14 settembre sul fatto che Monsanto accettava infine di essere acquisita dalla Bayer ha provocato allarme. Sono due delle più antiche aziende che producono veleno, con una lunga storia di crimini contro la salute, l’ambiente, i diritti umani. Questo il profilo delle imprese, ma il retroscena è più complesso.

Monsanto è probabilmente la transnazionale con più denunce a livello planetario. Non solamente per le coltivazioni transgeniche, ma anche per molti altri attentati contro le persone e l’ambiente, come l’aver creato l’agente arancio, un’arma chimica che gli Stati Uniti hanno usato contro le contadine e i contadini nella guerra in Vietnam; l’ormone transgenico della crescita dei bovini, che si suppone sia collegato al cancro al seno e alla prostata e che si vende in Messico e in altri paesi dell’América Latina senza essere dichiarato; l’aver inventato il glifosato, un erbicida ad ampio spettro e l’agrotossico più usato nella storia dell’agricoltura, affermando che non era pericoloso. Al contrario, nel 2015, il glifosato è stato dichiarato cancerogeno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Bayer non è da meno. Fin dai suoi inizi, ha sviluppato l’eroina da vendere come medicina - con una storia di promozione della dipendenza per vendere di più -; ha avuto una collaborazione stretta e volontaria con i nazisti come parte del conglomerato IG Farben, che ha sviluppato il gas Zyklon B da usare nelle camere a gas di Auschwitz; diverse volte è stata portata a giudizio per danni causati dalle sue medicine e dagli agrotossici, come nel caso della morte di 24 bambini a Taucamarca, in Perù; per aver distribuito agrotossici altamente pericolosi senza avvertenze e in molti altri casi che le vittime hanno denunciato, spesso con il supporto della Coalición contra los peligros de Bayer [Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer, CBG], dove si può saperne di più sulla sua storia priva di scrupoli.

La storia di ciascuna di esse, prese separatamente, è terribile e tutto indica che unite saranno peggiori. Tuttavia, questa è solo una delle mega-fusioni che si stanno verificando nell’ultimo anno tra le maggiori imprese del settore agricolo e alimentare. Le sei transnazionali che controllano le coltivazioni transgeniche in tutto il mondo, Monsanto, Syngenta, DuPont, Dow, Bayer e Basf, sono tutte originariamente fabbricanti di veleni, prodotti chimici e agrotossici; ciascuna di esse ha un percorso storico simile e tutte cercano di fondersi l’una con le altre. Da tre decenni, l’industria chimica si è avventata sull’acquisto delle imprese sementiere commerciali – che fino ad allora erano migliaia e nessuna deteneva nemmeno l’uno per cento del mercato mondiale. Lo hanno fatto per costringere gli agricoltori a comprare il pacchetto di sementi e agrotossici. Già si stavano profilando le sementi transgeniche che, lontane dalla propaganda di un aumento della produzione e di altri imbrogli mai verificati, erano, fin dalle origini, sementi resistenti agli agrotossici delle stesse imprese, perché vendere veleno è il loro affare e questo era l’obiettivo principale.

Attualmente, queste sei imprese controllano il 62 per cento del mercato delle sementi commerciali – di ogni tipo – e il 75 per cento del mercato globale degli agrotossici. Nell’ultimo anno, si sono accordate per fondersi la DuPont con la Dow e la Syngenta con ChemChina (che è proprietaria di Adama, la settima impresa di agrotossici a livello globale); quindi, in pratica, se le autorità anti-monopolio avallano, saranno solo tre le imprese che controllano queste enormi quote di mercato.

È difficile immaginare che possano continuare a fondersi per diventare ancora più grandi. Tuttavia, il valore annuo del mercato mondiale delle sementi (secondo le vendite del 2013) è di 39 miliardi di dollari e quello degli agrotossici di 54, ma quello dei macchinari agricoli è di 116 e quello dei fertilizzanti di 175. I settori delle macchine e dei fertilizzanti si stanno consolidando ancora, così come i distributori di cereali, il passo successivo della catena. Non ci vorrà molto tempo, quindi, perché questi settori comprino i primi. (Per maggiori dettagli, si veda il rapporto Campo Jurásico, La guerra de los dinosaurios del agronegocio, del Gruppo ETC). Facciamo solo un esempio, prossimo, di queste altre fusioni: quasi contestualmente all’annuncio della fusione Monsanto-Bayer, due grandi imprese di fertilizzanti (Agrium e Potash Corp) hanno deciso di fondersi per costituire l’azienda più grande al mondo e Bunge, uno dei cinque maggiori distributori mondiali di cereali, ha concordato l’acquisto di Minsa, uno dei maggiori distributori di farina di mais del Messico.

Tutte queste fusioni non si verificano solamente per controllare maggiori quote di mercato, rappresentano anche una corsa per aumentare il loro controllo/monopolio sulle nuove tecnologie di manipolazione genomica – brevetti di biologia sintetica, CRISPR-Cas9 e altre nuove biotecnologie – e soprattutto, controllare banche-dati digitali relative ai suoli, all’acqua, al clima e ad altri aspetti chiave della produzione agricola. La prospettiva è che chi si dedica all’agricoltura industriale non potrà acquistare le sementi in un luogo e gli altri prodotti per l’agricoltura in altri, ma sempre più ci sarà un unico sportello imprenditoriale che vende un pacchetto che va dalle sementi all’assicurazione agricola, passando per gli agrotossici, i macchinari e i dati che sarà costretto a pagare e ad applicare per accedere al pacchetto.

Davanti a questo scenario che sembra di fantascienza e progettato solo per i grandi agricoltori industriali, molti si chiedono in che modo questo possa colpire i contadini e le famiglie agricole e che differenza c’è se le imprese sono 3 o 6 o 10? Un elemento certo è l’aumento del potere di pressione delle imprese a livello nazionale e internazionale, che non sarà determinato solo dalle loro dimensioni e dal potere di corruzione, ma anche dal controllo degli anelli della catena agroalimentare. Potranno ottenere, ancora di più, leggi e normative a loro favore, da quelle sulle sementi all’occupazione delle terre, permessi e sovvenzioni per l’uso dell’acqua, compreso il denaro pubblico per sostenerle in quanto “settori chiave della produzione”. Cosa già iniziata con le nuovi leggi sulle sementi finalizzate a rendere illegale la circolazione delle sementi contadine, in quanto non registrate, e poi con i crediti e i sostegni legati all’acquisto di determinate sementi, agrotossici e assicurazioni. Un altro aspetto è che l’uso di droni, sensori, GPS e satelliti che rientra nel pacchetto, non serve solo a fornire dati ed elementi in questa “agricoltura di precisione” ma anche a prelevare dati, non solo sui prodotti agricoli, ma anche sull’acqua, il suolo, il sottosuolo, la vegetazione, i boschi, la fauna, ecc. Il che, a sua volta, può combinarsi con altri progetti nocivi, come quelli sul mercati di carbonio, la biopirateria, l’esplorazione delle risorse e il monitoraggio/sorveglianza delle comunità e delle popolazioni.

Malgrado l’enormità delle minacce, tuttavia, continuano a essere i più piccoli, le contadine e i contadini, gli indigeni, i pescatori artigianali, gli orti urbani, la caccia e la raccolta artigianale a fornire il cibo a più del 70 per cento dell’umanità. Lo fanno malgrado la persecuzione e le costanti minacce ai loro territori, alle risorse e ai modi di vivere. Di conseguenza, opporci a questi colossi aziendali e al loro dominio sull’alimentazione e la salute di tutte e tutti, significa appoggiare quelle comunità e quelle forme del vivere e costruire/rafforzare reti e azioni concrete di sostegno reciproco.

Questo articolo è uscito su Desinformemonos. Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo

«Intervista a Dorothee Häussermann."C’è un enorme lavoro da fare per riorganizzare radicalmente la nostra vita quotidiana e oggi abbiamo la tecnologia per farlo. Bisogna politicizzare il senso comune "». Il manifesto, 29 settembre 2016 (c.m.c.)

Lo scorso luglio è stato il mese più caldo di sempre. Le temperature medie mondiali continuano a salire. Sono 360 ormai i mesi consecutivi con una temperatura più alta rispetto a quella media registrata durante tutto il secolo scorso. 360 mesi di fila, 30 anni. E il 2016 si preannuncia già come l’anno che batterà ogni record.

Se dai protocolli di Kyoto agli accordi di Parigi qualche passo in avanti è pure stato fatto, la velocità del riscaldamento climatico e soprattutto l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (dal 2014 siamo ben oltre la soglia dei 350 ppm, ritenuta da molti climatologi, fra cui James Hansen, come la soglia di concentrazione oltre cui la biosfera è a rischio) richiederebbero azioni istituzionali, drastiche e immediate.

I due settori chiavi su cui bisognerebbe agire subito sono l’Agrobusiness (in particolare gli allevamenti industriali) e il consumo di combustibili fossili. Ma gli interventi tardano anche perché smontare una macchina in piena accelerazione richiederebbe un atto di forza che nessuna istituzione internazionale sembra voler esercitare realmente.

Non stupisce che dal 3 al 15 maggio 2016, a poche settimane dunque dalla prima ratifica degli accordi di Parigi (il 26 aprile 2016 a New York) una rete di organizzazioni ambientaliste coordinate da 350.org abbia dato vita alla più grande azione di disobbedienza civile mai organizzata contro l’estrazione e il consumo di combustibili fossili.

La campagna Break free from Fossil Fuel ha coinvolto più 30 mila attivisti in tutto il mondo, coordinando globalmente occupazioni, manifestazioni e azioni di sabotaggio in 12 Paesi su cinque continenti: dalle Filippine agli Stati Uniti, dalla Nigeria al Brasile, dall’Australia all’Indonesia, dai Paesi Bassi all’Inghilterra alla Turchia. Ma è in Germania che è stata organizzata l’azione di disobbedienza civile più imponente: per quattro giorni, dal 13 al 16 maggio, l’associazione tedesca Ende Gelände («Fino a qui e non oltre») ha mobilitato più di 3500 persone in Lusazia, nella regione tedesca di Brandeburgo. Abbiamo raggiunto Dorothee Häussermann, attivista di Ende Gelände che sarà in Italia all’inizio di ottobre per partecipare ai Colloqui di Dobbiaco (30 settembre – 2 ottobre) organizzati da Wolfgang Sachs.

Dorothee puoi raccontarci cosa è successo in Brandeburgo lo scorso maggio?

Abbiamo bloccato un’enorme miniera di carbone in Lusazia. La Vattenfal, che è una delle quattro società tedesche per la produzione di energia, è proprietaria dell’intero bacino carbonifero. All’inizio del 2016 ha deciso di vendere questa enorme miniera di carbone lignite al miglior offerente. Si parla tanto in Europa di politiche ambientali. Questa sarebbe un’occasione perfetta per chiudere un bacino carbonifero, bonificarlo e investire in nuove tecnologie verdi.

Invece che si fa? Non solo si permette la vendita di questa miniera, ma si dà perfino la possibilità al nuovo investitore di costruire nuovi impianti, aumentare la quantità di carbone estratto e quindi di peggiorare le condizioni ambientali già drammatiche di questa regione. Il nostro messaggio è molto chiaro ed è diretto al futuro investitore. Dovrà sapere che gli impediremo con ogni mezzo di continuare l’estrazione del carbone. Saremo un costo altissimo per il suo investimento. Il carbone deve restare dove è. La miniera va chiusa. Investa in energie rinnovabili.

Come è stata accolta la vostra protesta dal governo del Brandeburgo?

Non abbiamo alcuna sponda istituzionale. In Brandeburgo è al governo un’alleanza rosso/verde (Spd e Verdi dal 2009) ma il paradosso è che perfino i verdi sono a favore delle miniere. La politica tradizionale è totalmente cieca e sorda. Per questa ragione la nostra unica possibilità è quella di organizzarci e di forzare questa insensata condizione di blocco attraverso azioni di disobbedienza civile di massa. La situazione ambientale è gravissima. Ma nessuna forma di potere istituzionale vuole prendersi la responsabilità di intervenire, soprattutto contro la grande finanza e le sue politiche ambientali distruttive.

Ende Gelände fa parte di una rete internazionale di associazioni e attivisti. Come siete organizzati?

La nostra organizzazione è fatta quasi completamente di volontari. Alcune persone lavorano a tempo pieno per coordinare la comunicazione mediatica, i siti web e le relazioni internazionali con le altre associazioni. Per il resto siamo tutti attivisti. Crediamo che la politica debba recuperare il suo lato alto, nobile. Del resto, lottiamo per interessi comuni e quindi anche per noi stessi.

Scopo principale della vostra lotta politica è quello di fermare il riscaldamento globale. Da anni ormai esistono studi Onu e Fao che mostrano come il ciclo agricoltura intensiva/deforestazione e allevamenti industriali sia corresponsabile del riscaldamento globale in una percentuale addirittura maggiore rispetto a quello dell’uso dei combustibili fossili.

La situazione generale è grave e complessa. Noi lottiamo per una giustizia climatica. Facciamo parte di una rete internazionale: solo mettendo insieme la somma delle azioni di tutte le organizzazioni ambientaliste possiamo avere un’immagine della totalità dell’azione politica dei movimenti di contestazione. Ogni gruppo lavora su obiettivi specifici. Noi vogliamo impedire che le miniere della Vattenfal vengano vendute. Ma accanto a noi altri gruppi lavorano per convertire l’agricoltura industriale in agricoltura biologica, per chiudere gli allevamenti intensivi, per sperimentare forme di energie sostenibili e così via. C’è un enorme lavoro politico da fare. Dobbiamo riorganizzare radicalmente la nostra vita quotidiana. Oggi abbiamo la tecnologia per farlo. Ormai è solo lotta politica. Dobbiamo riuscire a politicizzare il senso comune.

Di cosa parlerai ai colloqui di Dobbiaco?

La politica deve tornare ad essere una parola nobile. Per farlo deve però necessariamente implicare altri due concetti: il concetto di empatia e quello di giustizia.

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