«Il presidente liberalizza un’enorme riserva istituita ai tempi della dittatura con giacimenti d’oro, rame e ferro». il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2017 (p.d.)
Non è stata certamente una bella settimana per i difensori dell'ambiente in Brasile, dove un’area della foresta amazzonica superiore al territorio della Danimarca sarà presto ceduta a multinazionali dell’industria mineraria e affamati broker della finanza, i quali sfrutteranno giacimenti d’oro, manganese, rame e ferro celati tra gli Stati del Pará e dell’Amapá. Non finisce qui. Mercoledì, nello stesso giorno in cui Temer dava un ’altra spallata alla distruzione dell'Amazzonia, firmando il decreto con cui liberalizzava lo sfruttamento minerario nell’area, il Supremo tribunale federale ha votato a favore della continuazione dell'uso dell'amianto, nonostante il minerale sia considerato cancerogeno in più di 60 Paesi del mondo.
L’amianto continua a essere prodotto da 16 aziende multinazionali in Brasile, inclusa l'Eternit (assolta due anni fa in Italia a Torino, per prescrizione, ma ancora sotto processo per omicidio colposo nel processo “Eternit bis”), che produce tetti e rivestimenti usati nelle sterminate e popolose favelas brasiliane.
Le grandi imprese d’estrazione mineraria internazionali - soprattutto nordamericane, canadesi, australiane e sudafricane - hanno estremo interesse a sfruttare i giacimenti all’interno dell’area di 46.450 chilometri quadrati che circoscrive l’estinta Riserva Nacional de Cobre e Associados, creata nel 1984 durante la dittatura militare. Nel suo perimetro esistono nove aree di biodiversità considerate uniche al mondo. Le zone di preservazione sono il Parco nazionale delle montagne del Tumucumaque, le foreste statali del Paru e di Amapá, la riserva biologica di Maicuru, la stazione ecologica del Jari, la riserva estrattiva del Rio Cajari, la riserva di sviluppo sostenibile del Rio Iratapuru e le terre indigene Waiãpi Aparai e Wayana.
Le organizzazioni ambientaliste, come il Wwf, ma anche intellettuali e artisti mobilitatisi contro il decreto Temer, sostengono che la liberalizzazione dell’attività mineraria nell’area causerà danni irreversibili all'ambiente e alla popolazione indigena. “Il decreto è il maggiore attacco all’Amazzonia negli ultimi cinquant’anni. Né la dittatura militare ha osato tanto, né la Transamazzonica è stata così offensiva”, ha affermato il senatore Randolfe Rodrigues che ha presentato un’iniziativa popolare contro il decreto alla giustizia di Amapá. Nuove strade saranno tracciate, facilitando l’esodo di migliaia di lavoratori disoccupati a causa della recessione brasiliana che ha eliminato 14 milioni di posti di lavoro.
Il decreto Temer giunge dopo altri recentemente firmati dal presidente, che ha chiaramente negoziato con i deputati in cambio della sua assoluzione nella votazione per la richiesta d’impeachment avvenuta contro di lui il 3 agosto a Brasilia. Il 60 per cento dei deputati e senatori del governo, secondo la Ong Trasparencia Brasil, sono accusati a vario titolo di corruzione, broglio elettorale, omicidio e sequestro.
Alla Camera e al Senato è tracciata in modo chiaro la presenza della lobby dell’industria mineraria, dell’agrobusiness ed evangelica. Sono settori dichiaratamente contrari alla causa dell’ambiente, degli indigeni e dei quilombo (comunità di origini africane) e hanno guadagnato ulteriormente potere negli ultimi anni di grande kermesse delle rinomate alleanze politiche. Le lobby sono compatte tra loro e possiedono un potere economico fortissimo, con cui dominano la politica nazionale.
Le imprese produttrici di amianto finanziano tutti i partiti politici in occasione di ogni campagna elettorale, e l’ultima raffica di decreti è parte di un più ampio pacchetto di iniziative nel settore dello sfruttamento minerario che il governo del presidente Temer porta avanti nell'ambito del “Programma di rivitalizzazione dell’industria mineraria brasiliana”, il quale include anche la creazione della Agência Nacional de Mineração. In sostanza, l'ambiente e le riserve indigene sono oggi la moneta di scambio impiegata dai politici, non solo per salvarsi da processi giudiziari, ma soprattutto per gratificare i loro padrini, multinazionali e latifondisti, che sfruttano la recessione per impadronirsi dei territori federali e riserve indigene dove sono presenti giacimenti minerari.
Nessuna anomalia sismica, le responsabilità sono tutte umane. il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2017 (p.d.)
Niente di nuovo, anche dal punto di vista geologico, all’ombra del monte Epomeo, la sommità del grande vulcano sottomarino su cui si è moltiplicata la caotica edilizia ischitana. La zona è stata scossa ancora una volta da un’inquietudine antica che non ha molto a che spartire con gli altri due grandi “osservati speciali” dell’area partenopea, il Vesuvio e il supervulcano dei Campi Flegrei, osserva Carlo Meletti, responsabile del centro di pericolosità sismica dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che segnala: “Terremoti di questa intensità ne capitano in Italia decine l’anno e non fanno questi danni”.
Ischia si trova sulla sommità emersa di un vulcano spento da millenni, è il segnale che si sta risvegliando?
Non è magma che sta risalendo verso la superficie, quello che ha scosso l’isola il 21 agosto. Ischia è sotto monitoraggio continuo e non si segnala nessuna ripresa dell’attività eruttiva, a scuotere la terra e il fondo marino è stato un sisma di natura tettonica scatenato da una faglia che si è rotta a nord dell’isola e molto in superficie.
È stato un fenomeno anomalo rispetto alla storia sismica dell’isola?
No, è molto simile ai terremoti avvertiti in passato, almeno dal 1200 in poi; lo stesso sisma del 1883, che ha causato la distruzione della cittadina di Casamicciola e oltre 2 mila morti, non aveva una magnitudo molto più elevata di quello dell’altro ieri ed era anch’esso molto concentrato nella stessa zona.
Il terremoto di Ischia c’entra qualcosa con i movimenti dei Campi Flegrei che in quste settimane hanno rimesso in allerta vulcanologi e protezione civile?
No, l’ultimo terremoto non è collegato a quei fenomeni e non si registra nessuna anomalia: tutta la zona è sotto un monitoraggio capillare, l’osservatorio vesuviano è dotato di strumenti di tutti i tipi per cogliere anche la minima ripresa dell’attività vulcanica e recentemente abbiamo rivisto e aggiornato tutti i piani di intervento con la Protezione civile che riguardano i tre vulcani della zona.
Ma allora che tipo di terremoto ha colpito Ischia?
Rientra nella tipologia dei terremoti che si verificano in una zona vulcanica: sono molto superficiali e hanno un impatto maggiore e circoscritto intorno all’epicentro, basti pensare che a sud di Ischia non si è avvertito nulla; poi molto dipende dalla struttura geologica, se i terreni sono sciolti, di consistenza sabbiosa e argillosa, possono amplificare l’onda sismica. Casamicciola è costruita su una grande frana che prosegue anche in mare, non su rocce compatte e anche se la magnitudine è stata abbastanza contenuta lo scuotimento prodotto sull’isola è stato molto forte.
La magnitudo allora non basta a spiegare tutto.
Gli effetti del sisma non dipendono solo dall’in tensità: oltre alla natura del terreno su cui sono state costruite le case, bisogna considerare anche la qualità edilizia, come abbiamo visto ne crollano alcune ma non tutte.
Ieri si è scatenato un piccolo giallo sulle misurazioni dell’intensità della prima scossa: l’Ingv ha fornito in sequenza tre valori diversi.
Non c’è stata nessuna approssimazione o inesattezza da parte dei tecnici dell’istituto, sono semplicemente stime diverse fatte in momenti e con parametri diversi: il primo valore, 3,6 sulla scala Richter, è stato rilevato in automatico al momento della prima scossa dalla sala sismica di Roma; la seconda, di grado 4, è stata definita con un’altra scala più dettagliata basata anche sulla durata, più significativa per le zone vulcaniche e usando i dati dell’osservatorio vesuviano che tengono conto anche della struttura del sottosuolo; adesso stiamo applicando un’altra misurazione ancora più raffinata, la cosiddetta “magnitudine momento” utilizzando i parametri applicati per i terremoti molto forti, tenendo conto della saturazione delle stazioni di rivelazione più vicine e analizzando tutta la traccia; con questo ultimo calcolo abbiamo definito una magnitudo che rimane compresa tra il 3,8 e il 4.
Anche i sismografi dell’agenzia degli Stati Uniti hanno registrato un picco diverso, 4,3 gradi.
Gli americani rilevano le scosse con sismografi lontani e con modelli della crosta terrestre standardizzati per tutto il pianeta, ma non sono i decimali in più o in meno che contano: in Italia registriamo ogni anno decine di terremoti di magnitudo 4, la differenza è l’effetto che scatenano da un territorio all’altro e qui ha fatto morti e feriti.

Se il mondo non fosse malato basterebbero tre mosse: prima mossa, abolire il packaging, seconda mossa, abolire l'obsolescenza programmata, terza mossa, produrre e consumare solo ciò che davvero serve. Ma bisognerebbe fare preliminarmente la mossa zero: togliere il potere agli sviluppisti. la Repubblica, 21 luglio 2017
Stiamo diventando un pianeta di plastica. Dagli anni ’50 epoca del boom economico e anche di questo materiale – ne abbiamo prodotti 8,3 miliardi di tonnellate e gettati via 6,3 miliardi. Solo acciaio e cemento – fra i materiali artificiali – pesano di più sul nostro pianeta. È come se ognuno di noi ne portasse sulle spalle una tonnellata e passa. Il 79% di questo carico è distribuito nelle discariche o sporca città, campagne e mari. Il 12% è stato incenerito e solo il 9% riciclato. Il calcolo arriva da uno studio su Science Advances – il più completo mai pubblicato su questo materiale – scritto da ambientalisti e ingegneri delle università della Georgia e della California a Santa Barbara.
Tracce di plastica sono state trovate nei ghiacci antartici e nella fossa delle Marianne, a 10 chilometri di profondità.
Si stima che una tonnellata sia incorporata nel permafrost artico. Alle Hawaii nel 2014 è stato descritto un nuovo tipo di roccia: il plastiglomerato, in cui le alte temperature di un fuoco hanno fuso insieme pietra vulcanica, sabbia e plastica. Sull’isola di Henderson, Pacifico del sud, 40 abitanti in tutto, il punto più lontano da ogni altra terraferma, le onde portano 3.750 frammenti di spazzatura al giorno, per la maggior parte buste e contenitori.
Chi sostiene che l’antropocene – l’epoca dell’uomo – sia una vera e propria era geologica, usa proprio l’argomento della plastica: fra milioni di anni, se mai qualcuno sarà in grado di scavare sottoterra, ne troverà quantità massicce.
I ricercatori americani si sono “divertiti” a tradurre questa cifra al di là dell’immaginabile (gli 8,3 miliardi di tonnellate) in termini più intuitivi. Il nostro mondo di plastica pesa come 1 miliardo di elefanti, 80 milioni di balenottere azzurre, 25mila Empire State Building e 822mila torri Eiffel. Se lo spalmassimo su tutta l’Argentina, ci affonderemmo dentro fino alle caviglie. La quota gettata via come rifiuto potrebbe seppellire Manhattan sotto due miglia di spazzatura.
Il pianeta di plastica è stato creato, per metà, negli ultimi 13 anni. E se l’andamento della produzione proseguirà in maniera esponenziale come ha fatto finora, la massa raggiungerà i 34 miliardi di tonnellate nel 2050, di cui 12 sotto forma di rifiuti. Se nel 1960 questo materiale riempiva solo l’1% del nostro sacchetto della spazzatura, oggi siamo arrivati al 10%. La produzione che nel 1950 era limitata a 2 milioni di tonnellate oggi è schizzata a oltre 400, più di 300 delle quali viene buttata via nello stesso anno in cui è stata fabbricata. Il ritmo con cui sforniamo plastica è cresciuto due volte e mezzo più rapidamente del Pil mondiale.
In mare, ha calcolato sempre lo stesso gruppo di scienziati due anni fa, finiscono attualmente 8 milioni di tonnellate, macerate dal sole, ridotte in microplastiche, ingerite dai pesci.
Uno studio su Plos nel 2014 stima che il numero di frammenti galleggianti in tutti gli oceani del mondo raggiunga i 5 trilioni.
«La stragrande maggioranza di questi materiali in realtà non si biodegrada in modo significativo » spiega Jenna Jambeck, ingegnere dell’università della Georgia, fra gli autori dell’impressionante studio, evidentemente poco convinta della bontà delle plastiche ecologiche. «I rifiuti che abbiamo prodotto ci accompagneranno con tutta probabilità per centinaia o migliaia di anni». Pochi uomini ormai ricordano com’era il mondo prima della diffusione ubiqua di questo materiale.
La facilità di produzione e l’indistruttibilità (solo un trattamento termico particolare riesce a eliminarla davvero) sono state le molle del successo della plastica, dal punto di vista industriale. E del disastro, dal punto di vista ambientale. E se è vero che acciaio e cemento ancora la surclassano in termini di tonnellate prodotte, il coordinatore dello studio Roland Geyer, ecologista industriale, professore dell’ateneo californiano, precisa: «Metà dell’acciaio che fabbrichiamo serve a costruire edifici e resta utile per decenni. Per la plastica è il contrario. Metà di quella creata diventa scarto dopo meno di quattro anni di utilizzo”.
Il 42% della produzione mondiale finisce in packaging e viene buttata via subito dopo il consumo. Il riciclo potrebbe essere una soluzione. Ma i tassi di riutilizzo arrivano al 30% e al 25% rispettivamente in Europa e in Cina. E non superano il 9% negli Stati Uniti. Questo accade da anni, ben prima che alla Casa Bianca arrivasse Donald Trump.
«Esiste a livello globale una guerra del potere contro la società civile, contro i cittadini e cittadine che si organizzano, si attivano, chiedono libertà e giustizia, rispetto dei diritti e protezione della terra». comune-info.net, 19 luglio 2017 (p.d.)
Tra le molte guerre che si stanno combattendo nel mondo, ce n’è una che cresce giorno dopo giorno, inesorabile quanto occultata, grazie al complice disinteresse e allo scarso rilievo con cui ne danno notizia i grandi media e i governi del mondo. Si tratta di quella segnalata – con massima preoccupazione – dall’ultimo Rapporto di Global Witness, una Ong che si occupa dei legami tra lo sfruttamento delle risorse naturali, i conflitti ambientali, la povertà, la corruzione e le violazioni dei diritti umani. Il rapporto è dedicato proprio alle vittime di quella guerra, unilaterale, alle persone che difendono la terra e l’ambiente dall’insaziabile sete di chi li aggredisce e rapina per ricavarne fiumi di denaro. Il settore più insanguinato è quello minerario, 4 persone su 6, tra quelle assassinate, sono indigene, 6 su 10 sono state uccise in América Latina. Le responsabilità vanno attribuite, direttamente o indirettamente, agli apparati dello Stato o della sicurezza e a formazioni non statali, pistoleros, o forze di sicurezza collegate alle imprese. Una strage che chiama in causa in modo evidente i modelli di sviluppo e di consumo e l’ossessione per l’estrazione di valore dalla terra.
In un suo splendido editoriale sull’ultimo numero della rivista
“liberal” statunitense
Harper’s la scrittrice ed attivista Rebecca Solnit si cimenta con il tema dello spazio. Spazio fisico di agibilità, e spazio immateriale di compressione dei diritti. Tutto il potere, dice, “può essere inteso in termini di spazi. Spazi fisici, come anche le economie, le conversazioni, la politica – tutto può essere inteso come aree occupate inegualmente. Una mappa di questi territori costituirebbe una mappa del potere e dello status. Chi ha di più e chi ha di meno”, ed il “dominio dello spazio e del territorio da parte di chi ha potere può essere chiamato violenza strutturale”. La teoria basagliana definiva questa violenza strutturale come “crimine di pace”, altri la chiamano semplicemente, “necropolitica” termine coniato dal sociologo africano Achille Mbembe assieme a quello di “biopotere” . Spazi che si chiudono nella tenaglia tra “necropolitica” e “biopotere”. In gergo il termine usato è
“shrinking space” un termine che però rischia di rielaborare un’urgenza ed un’emergenza politica globale in maniera asettica e per questo “depoliticizzata”. Chi è responsabile del restringimento di questi spazi di agibilità? Chi li occupa e popola quegli spazi? Solo quella che si può considerare secondo norma la società civile? In realtà anche la scelta delle terminologie ormai diventate ricorrenti anche tra fondazioni e agenzie di cooperazione, rischia – come sottolineato in un dossier del Transnational Institute – di invisibilizzare ancor di più quello che già di per sé è invisibile, chi quotidianamente lotta e resiste per i propri diritti e quelli della collettività.
A darci qualche importante e drammatico indizio della guerra nascosta che si combatte, a armi impari, contro chi con la nonviolenza si mobilita per difendere la propria terra, l’ambiente dalle ricadute nefaste del modello di sviluppo estrattivista è l’ultimo rapporto a cura di Global Witness, intitolato “Difensori della terra. Omicidi di difensori della terra e dell’ambiente nel 2016”. Le cifre sono impressionanti: almeno 200 difensori (uomini e donne) sono stati uccisi lo scorso anno, in 24 paesi. Una scia di sangue che si allarga a macchia d’olio, i paesi dove Global Witness aveva registrato omicidi nel 2015 erano 16. Oggi in testa è il Brasile, seguito dall’Honduras, dal Nicaragua, dalle Filippine, la Colombia, l’India, e la Repubblica Democratica del Congo. Il Brasile del grande latifondo e dei mega-progetti di sviluppo del governo Temer, l’Honduras di Berta Caceres e del COPINH – la figlia Bertita di recente oggetto di minacce di morte mentre il governo annunciava la chiusura del contestatissimo progetto idroelettrico di Agua Zarca. Le Filippine di Duterte, o la Colombia dove dopo la firma dell’accordo di pace tra governo e FARC, e lo smantellamento della presenza delle FARC nei territori da loro controllati, si è scatenata una caccia agli attivisti e leader comunitari da parte di formazioni “neo-paramilitari”. Una maniera di “ripulire” il territorio per permettere poi alle imprese del settore estrattivo di fare i loro affari sporchi.
Il rapporto di Global Witness ci dice che il settore minerario è quello più macchiato del sangue degli attivisti uccisi lo scorso anno, 40% dei quali erano uomini e donne indigene. Il 60% dei 200 omicidi è stato registrato proprio in America Latina. E le responsabilità vanno attribuite direttamente o indirettamente agli apparati dello stato o della sicurezza, a formazioni non statali, pistoleros, o forze di sicurezza collegate alle imprese. Il numero però potrebbe essere assai maggiore, visto che secondo quanto registrato dall’Atlante per i Conflitti Ambientali (EJAtlas) almeno 2000 sono i conflitti sulla terra nel mondo. E poi molti di questi omicidi non sono stati denunciati o semplicemente derubricati a fatti di criminalità comune. Per non parlare poi della crescente criminalizzazione dei movimenti sociali e ambientali, non solo nel cosiddetto “Mondo di Maggioranza” ma anche in quello di “Minoranza” il ricco ed opulento “Nord”. Uno su tutti il caso della resistenza contro la Dakota Access Pipeline a Standing Rock. Allora risulta evidente che questo spazio che si restringe ha a che vedere con il modello di sviluppo, con i modelli di consumo e estrazione di valore dalla terra. È pertanto uno spazio “politico” di rivendicazione e di conflitto, dove chi ha il monopolio dell’uso della forza, armata o non, prevarica, comprime, marginalizza, uccide.
Questo nel cosiddetto “Sud”. E a parte il caso di Standing Rock che accade altrove, nel nostro “Nord” che si erge a paladino dei diritti umani e della democrazia? Turchia, Egitto ma anche Polonia, Ungheria per fare qualche esempio? Non ci si faccia illusioni: esiste a livello globale una guerra del potere contro la società civile, contro i cittadini e cittadine che si organizzano, si attivano, chiedono libertà e giustizia, rispetto dei diritti e protezione della terra. Ad aprile di quest’anno CIVICUS ha reso noti i dati raccolti nel corso del 2016. La loro pubblicazione ha un titolo eloquente “People Power under Attack” (il potere del popolo sotto attacco). Secondo CIVICUS, solo il tre percento della popolazione mondiale vive in paesi dove lo spazio di agibilità ed iniziativa “civica” può considerarsi “aperto”. Sono ben 106 i paesi dove chi si mobilita pacificamente rischia la galera, la morte o la repressione. Dei 195 paesi monitorati da CIVICUS in 20 lo spazio di agibilità è chiuso, represso in 35, ristretto in 63, ed “aperto” in solo 26. Oltre sei miliardi di persone vivono in paesi dove l’agibilità politica e civica è chiusa, repressa o ostruita. I dati di CIVICUS rivelano con chiarezza la responsabilità degli apparati di stato nell’assalto sistematico a chi, individui o movimenti, critichi l’autorità, svolga attività di monitoraggio dei diritti umani, o rivendichi i proprio diritti sociali ed economici. Il più recente rapporto sullo stato della società civile nel mondo sempre a cura di CIVICUS, va oltre ed identifica nella crescita del populismo e dell’estremismo sciovinista una delle cause dell’aumento della sfiducia verso la società civile, pretesto per attacchi allo spazio di agibilità civica.
E l’Italia? Secondo il rapporto di CIVICUS lo spazio di agibilità ed iniziativa “civica” in Italia si è “ristretto” e tende verso il livello di “ostruzione”, ben lontano dagli standard di “spazio civico aperto” di altri paesi membri della Unione Europea. Altri paesi dove si registra una “restrizione” dello spazio di agibilità sono gli Stati Uniti, il Canada, Cile, Argentina, Spagna, Francia, Corea del Sud, Giappone, Sudafrica, Australia, Zimbabwe oltre ad altri paesi africani. In realtà, la recente campagna di criminalizzazione delle organizzazioni non governative e della società civile che fanno soccorso in mare, o solidarietà con migranti e rifugiati sarebbe solo una manifestazione parossistica di un “trend” che si sta insinuando anche nel nostro paese. Dalla criminalizzazione delle proteste dei comitati per la protezione dell’ambiente, alle minacce a giornalisti o avvocati da parte della criminalità organizzata, anche nel nostro paese iniziano a palesarsi i sintomi di una dinamica preoccupante.
Sempre CIVICUS, che assieme a Civil Society Europe pubblicherà in autunno uno studio dettagliato paese per paese, Italia inclusa, nel nostro paese nella prima metà del 2016 le principali libertà civili di associazione, riunione ed espressioni sono generalmente rispettate, ma sussistono alcune problematiche. Dalla discrezionalità nelle operazioni di ordine pubblico, all’uso eccessivo della forza in occasione di proteste di piazza. Occasionalmente difensori e difensore dei diritti umani soffrono minacce e intimidazioni. Nella prima metà del 2016 inoltre sono state registrate ben 221 violazioni del diritto alla libertà di espressione, una situazione ulteriormente aggravata da casi di intimidazione verso giornalisti.
Per tutto questo oggi proteggere i difensori della terra, dell’ambiente, dei diritti umani è un compito urgente, una sfida essenziale anche per la politica e per il settore privato, oltre che per la società civile nel nostro paese, già impegnata nella rete In Difesa Di, per i diritti umani e chi li difende, e più di recente con la campagna “Coraggio” di Amnesty International. Il prossimo anno l’Italia presiederà l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea) che attribuisce grande rilevanza al tema dei difensori dei diritti umani nei suoi paesi membri, tra cui vanno annoverati seppur con modalità diverse, paesi come la Turchia, l’Egitto, la Polonia, o l’Ungheria. E non solo, il 2018 marcherà il 20esimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani occasione imperdibile per rilanciare con forza il tema della difesa dei difensori dei diritti umani e della tutela degli spazi di agibilità “civica” chiedendo al governo, al Parlamento ed agli enti locali uno sforzo collettivo per questa importante campagna di civiltà politica e sociale.
Articolo pubblicato anche sull’huffingtonpost.it
«Se certe Regioni rimangono inerti, lo Stato deve poter subentrare nei piani di prevenzione e intervento e nei piani paesaggistici. Dove sono quelli della Sardegna decisi da Soru?» La Nuova Sardegna, 19 luglio 2017
Il clima si surriscalda, la siccità e la desertificazione avanzano e il Belpaese abbassa le difese della prevenzione e dell'intervento immediato. Addirittura non mette in atto, a livello regionale, i piani di prevenzione per gli incendi. E' il capo della Protezione Civile che punta il dito su alcune Regioni inadempienti, a partire dalla Campania dove i roghi hanno assunto, sul Vesuvio ma non solo, dimensioni epocali, da tragedia di massa. La Regione ha pensato bene - in un anno che già dalla primavera si annunciava caldissimo - di non stipulare coi Vigili del Fuoco la convenzione per il 2017 per lo spegnimento dei roghi boschivi.
Per di più alla presidenza del Parco Nazionale del Vesuvio il più antropizzato, abusivamente, d'Italia (come altri 8 Parchi Nazionali esso è da tempo privo di un direttore), è stato posto, in luogo di un autentico esperto quale il professor Ugo Leone, Agostino Casillo, manager aziendale, giovane brillante nel suo campo e però digiuno di questioni ambientali e forestali. Tant'è che già nel 2016 il territorio del Parco vesuviano - seminato di migliaia di case abusive - ha subito un incendio disastroso. "Non si ripeterà", è stata la solenne promessa. Parole, soltanto parole.
Si dirà: la situazione vesuviana, campana è molto particolare, si sa. Particolare allora è anche la situazione siciliana, per esempio del Parco regionale dei Nebrodi, pure largamente a fuoco, il cui presidente è stato minacciato a fucilate dalla "mafia dei pascoli". In altre zone agiscono incendiari prezzolati - per lo più disperati, manovali della malavita - incaricati di incenerire aree a bosco sulle quali, senza fretta, i vari racket hanno puntato gli occhi per future lottizzazioni turistiche. Neppure sapendo in molti casi che su quei terreni "cotti" e quindi resi instabili non si potrà costruire nulla per decenni o che lo vieta una legge-quadro nazionale spesso, purtroppo, da applicare.
A livello nazionale poi si è aggiunto, da quest'anno, un altro clamoroso elemento di confusione e di disorganizzazione nella lotta a quanto minaccia la vita del grandioso manto boschivo nazionale e regionale e cioè la cancellazione del Corpo Forestale fuso, grazie alla criticatissima riforma Madia, coi Carabinieri dei Nuclei Ecologici. Pur con la massima stima verso questi ultimi, è stata dispersa una esperienza specifica di cento anni, è stata manomessa una secolare collaborazione coi Vigili del Fuoco attribuendo alla Protezione Civile una serie di funzioni o disfunzioni.
Le Regioni che non predispongono in modo cialtronesco i piani di prevenzione di legge vanno commissariate dal governo centrale. Analogamente i molti Comuni che non redigono l'indispensabile catasto dei terreni andati a fuoco preparando, anche senza volerlo, l'ingresso del racket su quelle stesse aree sulle quali la legge n. 353/2000 proibisce per almeno quindici anni ogni edificazione.
In Sardegna la Regione a statuto speciale ha potuto salvare l'autonomia storica e tecnica della Forestale e quindi preservarne il ruolo. Ma c'è altro da fare. Perché, ad esempio, la Regione non ha sviluppato quanto era già stato fatto, con qualità e incisività, dalla Giunta Soru col decreto salvacoste e coi piani paesaggistici validamente coordinati da Edoardo Salzano nel 2004? Perché, in tredici anni, non si è messo mano alla co-pianificazione prescritta dal Codice Rutelli/Settis in una regione che nella bellezza paesistica e nell'integrità ambientale ha la prima risorsa anche economica da tutelare? Inutile o ipocrita poi piangere sul verde incenerito.
La siccità e il surriscaldamento del clima non sono più una emergenza, sono la nuova "normalità" per la quale ci dobbiamo attrezzare, da subito. Tanto più che la manomissione speculativa sistematica, in varie forme, del paesaggio e dell'ambiente - oggi attraverso incendi mirati di vasta entità - fa ormai parte in Italia del "fatturato della criminalità organizzata" e anche di una diffusa illegalità. Se le Regioni rimangono inerti, lo Stato deve poterle sostituire. Non possiamo veder bruciare il Belpaese in una generale impotenza. Non possiamo vederlo, in autunno, sprofondare nelle alluvioni e nelle colate di fango rese più facili da questi roghi.
L'ennesima invocazione alla saggezza nell'uso degli enormi spazi. Perché continuare a vedere separati gli immensi patrimoni di naturalità vuoti di attività. e le gigantesche risorse di forza lavoro inoccupata. Eppure le risorse finanziarie ci sarebbero. il manifesto, 18 luglio 2017, con postilla
Sono tornato in Sila, la Sila Piccola, nel Catanzarese, percorrendo in auto e a piedi i piccoli villaggi che si snodano lungo la statale, Racise, Villaggio Mancuso, Spineto, e ho fatto una passeggiata lungo il sentiero attrezzato di uno dei tanti immensi boschi.
Ancora una volta, ma in questo caso molto più accentuata che nelle escursioni degli anni precedenti, la stessa amara constatazione: una meraviglia della natura e del lavoro umano, uno tesoro di potenzialità economiche abbandonato a se stesso. In Sila, in pieno luglio, si possono percorrere chilometri di strada e non si incontra anima viva. In compenso, ai bordi della strada, tra le felci che tappezzano il sottobosco, è ancora possibile raccogliere le profumate fragoline, benché più piccole del solito per il gran secco di questa estate, o i lamponi selvatici.
Qui, queste piante sono endemiche. E da decenni mi sono sempre inutilmente chiesto come mai non fosse mai fiorita in queste terre la redditizia agricoltura dei piccoli frutti (fragole, mirtilli, lamponi, ribes, more), così come accade ad esempio in alcune campagne del Piemonte o della Valle d’Aosta. Ma a questa consueta domanda se ne aggiungevano altre: com’era possibile lasciare migliaia e migliaia di ettari di radure senza alcuna coltivazione, senza quasi l’accenno di una qualche forma di allevamento?
La risposta a queste domande si trova andando in giro nei villaggi prima nominati. Per le strade e le piccole piazze pochissimi villeggianti, in grandissima parte anziani, difficilissimo scorgere bambini. I negozi, che vantano prodotti tipici calabresi, hanno in vetrina qualche barattolo di salsa di peperoncino piccante, un po’ di funghi secchi, qualche marmellata e molte cianfrusaglie di quelle che si trovano in tutti i paesi d’Italia. Quasi niente di un territorio potenzialmente così ricco appare sotto forma di prodotto apprezzabile per la sua autenticità e specificità, per il suo legame con una tradizione di rilievo.
Il quadro si completa se ci si mette a girare nei villaggi, come ho fatto a Racisi, allontanandomi un po’ dalla nazionale. Allora si scorgono file di case abbandonate, alcune col tetto sfasciato, altre interamente crollate. Tutto intorno un’area di abbandono, l’ortica che cresce alta ai bordi della strada e qualche pianta di lampone che, a dispetto di tutto, continua a offrire i suoi frutti senza che nessuno li raccolga.
Dunque, se non c’è popolazione, non si produce nulla, le case vanno in rovina, la domanda esterna che potrebbe attivare il circolo non arriva. Così muoiono lentamente le cosiddette aree interne del nostro Paese. Solo che la Sila non è un territorio qualunque. Ed è anche un grande parco nazionale.
Tuttavia, anche qui non manca qualche presidio di resistenza. Ho cenato in quello che è forse rimasto l’unico ristorante di Racisi e ho assaggiato una fetta di lardo che non assaporavo dai tempi della mia infanzia. Un sapore così fine ed intenso – sia detto senza nessuna vanteria campanilistica – che fa impallidire al confronto qualunque Lardo di Colonnata. E che è il risultato semplice dell’allevamento domestico del maiale. Ma in sala c’erano solo 4 clienti ed era sabato.
Ebbene, come mi ha raccontato l’oste-resistente, quel po’ di attività e di economia che si svolge in quei luoghi, sono oggi resi possibili dagli immigrati, dai lavoratori che sono arrivati soprattutto dai Paesi dell’Est. Sono loro che fanno lavori in campagna, riparano case, accudiscono anziani.
E allora com’è possibile che un sindaco – a Castell’Umberto, in Sicilia, paese montano di 3 mila abitanti – faccia le barricate contro un albergo che ospita 50 immigrati, dove ancora non esiste una rete di corrente elettrica?
Come possiamo respingere i giovani che arrivano se le campagne si spopolano? Non costituirebbe oggi la più lungimirante forma di investimento, per l’Italia, attrezzare i comuni, fornirli di risorse finanziarie e di uomini, per metterli in condizione di accogliere e organizzare giovani, donne, bambini in grado di far rifiorire in pochi anni economie languenti, restaurare paesi in rovina, ridare vita a territori spesso dotati di spettacolare bellezza? E’ per questa strada che la sinistra può sconfiggere la propaganda fondata sulla paura, conquistare i ceti popolari a una visione solidale nei confronti dei migranti, senza dovere annacquare principi e valori nell’eterna campagna elettorale in cui si esaurisce la lotta politica.
Si assiste oggi impotenti e col solito chiacchiericcio agli incendi che devastano mezza Italia. Nessuno pensa che se queste aree perderanno ancora popolazione, gli incendi saranno ancora più devastanti e senza rimedio.
postilla
Qualche cifra che è bene ricordare. Le spese militari previste dal bilancio dello Stato per il 2017 ammontano a 23.400 milioni di euro, 64 milioni al giorno. Fonte, articolo de il Fatto Quotidiano del 23 novembre 2016. Proviamo un po' a fare il conto di che cosa ci si potrebbe fare, invece. Quante occasioni di lavoro utile si potrebbero formare, quali beni diversificati (dall'alimentazione, alla conoscenza alla ricreazione) si potrebbero produrre. E' un conto che una volta si dovrebbe cominciare a fare, area per area, a partire dalla ricostruzione del suolo dove è stato disgregato e dissolto, per proseguire con le città soffocate dalla mobilità individuale ecc..
Le capitali Europee, alle prese con i radicali cambiamenti del clima, adottano sistemi sempre più innovativi. Naturalmente non si propongono di adottare provvrfimrmti che contrastino lo sviluèèismo, causa condistente del surriscaldamento, ma solo queli che incrementano il Pil. Regioneambiente, 15 luglio 2017 (c.m.c.)
Le conseguenze derivate dai cambiamenti climatici stanno apportando modifiche sostanziali al modo in cui l'uomo si approccia alla natura. L'innalzamento del livello dei mari è una delle problematiche più attuali dato che già numerose città costiere del mondo devono fare i conti con la lenta scomparsa di alcune zone abitabili.
Per una nazione come i Paesi Bassi, la cui superficie è posizionata, per una buona parte, sotto il livello del mare, le problematiche sono all'ordine del giorno. E' per questo che la città di Rotterdam, uno dei capoluoghi principali del paese, sta adottando delle contromisure di ingegneria edile molto sofisticate e innovative, tali da attirare a sé l'interesse di numerose comunità scientifiche.
Come riportato nel dossier 2017 di Legambiente dal titolo "Le città alla sfida del clima", la città olandese è considerata come una delle più avanzate nel campo della trasformazione urbana. Tutti i progetti sviluppati, infatti, sono basati sul semplice quanto nobile concetto di resilienza urbana, ovvero l'adattamento ambientale delle strutture cittadine ai nuovi cambiamenti naturali. Non c'è dunque l'intenzione di forzare i percorsi e i comportamenti dell'acqua, bensì di convivere con questi nella maniera più intelligente e sostenibile possibile.
La superficie di Rotterdam è situata per l'80% al centro del delta del fiume Reno, il rapporto città-acqua è un fattore estremamente importante per la vita di tutti giorni. E grazie alle politiche urbanistiche attuate dalla municipalità nel corso degli ultimi 15 anni, tale rapporto è stato capovolto in maniera straordinaria, passando da minaccia ambientale a opportunità economica. Risale al 2001, infatti, il primo atto di un piano d'azione a lungo termine per contrastare gli effetti, anche devastanti, delle alluvioni e delle tempeste. Una programmazione che è stata poi aggiornata sia nel 2005 che nel 2007 e con una pianificazione fino al 2035, sintomo di come la città sia attiva su questo ambito.
Nel dettaglio, tra i provvedimenti presi, c'è l'istituzione dell'Eendragtspolder, una grande landa bonificata e ibrida, composta sia da campi che canali, utilizzata per moltissime attività acquatiche e sviluppata in maniera tale da poter accogliere le esondazioni del fiume Reno e l'eccesso di acqua dovuto alle alluvioni, senza causare nessun danno. Ci sono poi nuove modalità di architettura, che interessano soprattutto il centro di Rotterdam. Tra queste il retrofitting, ovvero la riutilizzazione di spazi sotterranei, come dei garage, convertiti in grandi serbatoi per lo stoccaggio dell'acqua piovana. Ma anche la costruzione di strutture abitative e quartieri galleggianti, soluzioni flessibili che si adattano alla fluttuazione dei livelli dell'acqua.
Il capoluogo olandese non è un unicum nel suo genere; altri centri metropolitani del centro e nord Europa stanno adottando strategie di adattamento innovative per contrastare i cambiamenti climatici. Alcuni esempi:
- La città di Brema, in Svizzera, ha avviato un programma di lavoro, il Sensible Water and Urban Development, con l'obiettivo di gestire in maniera ottimale le piogge intense. Questo consiste nell'uso multifunzionale del terreno, nella creazione di parchi acquatici, nell'utilizzo di strutture sotterranee e di raccolta dell'acqua e nella costruzione di strade di emergenza.
- Copenaghen, nel 2011 ha aggiornato il suo piano urbanistico, denominato "piano delle cinque dita" e risalente al 1949, per far fronte alle inondazioni. Nel dettaglio, si è deciso di allargare il sistema fognario, utilizzare nuove modalità di drenaggio urbano superficiali in grado di gestire localmente l'acqua piovana e di guidare il flusso in caso di alluvioni, dirottandolo verso luoghi non sensibili all'allagamento. Sempre nella capitale danese, alcuni quartieri hanno subito trasformazioni molto interessanti. In quello di St. Kjeld, a seguito del disastroso nubifragio del 2011, la municipalità di Copenaghen ha avviato un ambizioso progetto di ottimizzazione delle vie e delle piazze, con la creazione di zone piantumate, dune verdi, piste ciclabili, sostituzione di pavimentazioni impermeabili con prati e mini parchi urbani, oltre alla sopraelevazione dei marciapiedi per la raccolta e il deflusso delle acque in eccesso verso il porto. In quello di Nørrebro, oggetto tra i principali del Copenhagen Climate Plan, si è adottato un nuovo approccio al tema della presenza dell'acqua in ambito urbano. Essa non viene considerata più come un pericolo, bensì come una risorsa e un'occasione di creazione di nuovi spazi attrattivi che abbiano come scopo la diversità biologica, lo scambio culturale e l'interazione sociale di quartiere.
- Stoccarda, il capoluogo tedesco, rappresenta uno degli esempi più avanzati di integrazione delle misure di mitigazione del calore urbano all'interno di strumenti di pianificazione ordinaria. Nel 2008, nel Land Use Plan, piano di ampliamento della zona residenziale Schelmenäcker, realizzata a ridosso del bosco di Lemberg, è stato concepito un "corridoio verde" di attraversamento del nuovo nucleo abitato in grado di salvaguardare l'esistenza di un "passaggio di ventilazione" tra il centro cittadino e le aree rurali circostanti, migliorare le condizioni microclimatiche ed estetiche del nuovo quartiere, e garantire un nuovo spazio verde a scopi ricreativi e di mobilità, da e verso il centro urbano.
La strada per risolvere le problematiche del climate change è ancora molto lunga e impervia, specie se si valuta quanti pochi sforzi vengano fatti, allo stato attuale, dai governi della comunità mondiale. Ad ogni modo, l'attuazione di queste innovative strategie urbane, volte a salvaguardare la vita nei grandi centri urbani, sono il sintomo che una parte della popolazione si sta muovendo nella direzione giusta.
«Lo Stato e per esso il governo, prima Renzi, poi Gentiloni, si è industriato in autentiche “controriforme” o in vere e proprie latitanze». Il FattoQuotidiano online, 14 luglio 2017 (c.m.c)
Nello spettacolo drammatico del fuoco che divora migliaia di ettari di bosco nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio a vantaggio degli abusivi o del Parco regionale dei Nebrodi da tempo nel mirino della mafia si rispecchia un autentico “smontaggio” dello Stato, ad ogni livello.
Dopo mesi di primavera precoce, le Regioni per la loro parte e il Ministero dell’Ambiente hanno predisposto per tempo i piani di azione e di prevenzione anti-incendio previsti dalla legge e più che mai indispensabili con l’aumento delle temperature? Non sembra proprio. In regioni strategiche – dall’Abruzzo alla Sicilia – non c’erano mezzi aerei di contrasto.
Il cambiamento climatico è un fatto, la desertificazione in Italia avanza da Sud a Nord: a che punto è l’attuazione della legge del 2000 sui catasti comunali dei terreni bruciati dove non si può né si deve costruire? Molto indietro. In compenso in Sicilia si continua ad avere un mega-organico di forestali i quali “hanno bisogno” di incendi da spegnere. Ci siamo capiti.
Nell’“orribile” 2007 furono 308 le richieste di intervento anti-incendio fra aprile e luglio, quest’anno sono già 430 e il fuoco non dà tregua. Nel Lazio, regione fertile per abusi e speculazioni edilizie, i roghi sono aumentati del 400%. Ma il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti continua a parlare di “piromani” e ad “auspicare” più repressione. Già nel 2003 in Sicilia studi seri individuavano soltanto 4 cause naturali o accidentali di incendio, 101 “dubbie”, 25 colpose e ben 488 dolose (79%) su 618. Gli incendi estivi fanno parte del “fatturato” dell’economia criminale? Sì, dov’è lo Stato?
Lo Stato e per esso il governo, prima Renzi, poi Gentiloni, si è industriato in autentiche “controriforme” o in vere e proprie latitanze: 1) la situazione dei Vigili del Fuoco, uno dei corpi pubblici più efficienti, pronti al sacrificio, più vicini alle popolazioni colpite da ogni sorta di calamità, da ultimo il terremoto fra Lazio, Marche, Abruzzo sono da anni sotto organico di 3000 unità, con un’età media sui 50 anni, stipendi fra 1300 e 1500 euro appena e continui pensionamenti che le 2400 assunzioni del 2013 non compensano. Nell’era Berlusconi, loro come altri Corpi specializzati sono stati penalizzati e indeboliti rispetto alla Protezione Civile sacrificando grandi competenze.
2) La criticatissima “riforma Madia” della Pubblica Amministrazione, proprio mentre il cambiamento climatico ne esigeva il potenziamento specifico, ha cancellato dalla scena dei nostri monti la Guardia Forestale che tanti meriti si era conquistata in cento anni assecondando una importante ripresa della forestazione (spesso non pianificata purtroppo) su 3 milioni e mezzo di ettari aumentando notevolmente il miliardo e 24 milioni di tonnellate di carbonio organico sottratto all’atmosfera inquinata. Lo smembramento del Corpo Forestale assorbito nei Carabinieri dei Noe e il passaggio di competenze alla Protezione Civile “ha di fatto derubricato la questione incendi abbandonando le attività essenziali e strategiche di prevenzione”, si legge in una penetrante interrogazione dell’on. Serena Pellegrino (Si) e da altri.
Gli incendi stanno allontanando dalle montagne e persino dalle coste del Sud decine di migliaia di turisti. Un altro boomerang in piena fronte. Ma al Senato riemerge, pur modificata in qualche parte, la legge Caleo (Pd) che indebolisce il governo dei Parchi Nazionali nostra immensa ricchezza igienico-sanitaria, biologica, turistica, da tutelare metro per metro. E intanto bruciano boschi secolari, vengono carbonizzati nidi e covi di uccelli, di animali selvatici, rettili, insetti utili. E da questi terreni montani “cotti” a dovere aspettiamoci altri guasti con le piogge di novembre: frane, colate di fango, alluvioni. Altre tragedie da rincorrere.
L'inesorabile marcia dell'obsolescenza programmata, il potente strumento dell'ideologia e della prassi dello sviluppismo, la Peste dei nostri anni. comune-info.net, 14 luglio 2017, con riferimenti (p.d.)
«La costante sostituzione di merci utili per nessun altro motivo che la “modernità” è piuttosto evidente nell’industria dell’abbigliamento, nota come industria della “moda”. Ma l’obsolescenza programmata e sua sorella la pubblicità restano forze particolarmente potenti prima di tutto nell’alta tecnologia. Per questo dalla base non solo si moltiplicano ovunque le proposte per leggi sul diritto alla riparazione e campagne contro i Trattati di liberalizzazione del “libero scambio” (quelli che favoriscono le delocalizzazioni) ma si diffondono i “caffè di riparazione” non a fini di lucro. Queste iniziative locali rafforzano i valori della parsimonia e dell’autonomia erosi dal consumismo; collegano le persone con le loro comunità, ridimensionano l’uso di risorse e riducono la quantità di materiali gettati nelle discariche».
Un mio amico indiano racconta una storia riguardo all’aver guidato una vecchia Volkswagen Beetle dalla California alla Virginia durante il suo primo anno negli Stati Uniti. In una singolare tempesta di ghiaccio in Texas è finito fuori strada, lasciando l’auto col parabrezza rotto e portiere e parafanghi malamente ammaccati. Quando è arrivato in Virginia ha portato l’auto in una carrozzeria per una stima della riparazione. Il proprietario le ha dato un’occhiata è ha detto: “È irrecuperabile”. Il mio amico indiano è rimasto sconcertato: “Come può essere irrecuperabile? L’ho appena guidata fin qui dal Texas!”.
La confusione del mio amico era comprensibile. Anche se “irrecuperabile” suona come una specie di termine meccanico, è in realtà un termine economico: se il costo della riparazione è superiore a quanto varrà l’auto dopo, la sola scelta economica “razionale” è portarla dallo sfasciacarrozze e comprarne un’altra.
Nelle “società a perdere” del mondo industrializzato, questo è uno scenario sempre più comune: il costo di riparazione di stereo, elettrodomestici, utensili elettrici e apparecchi di alta tecnologia supera il prezzo di comprarne di nuovi. Tra i risultati di lungo termine ci sono crescenti pile di rifiuti elettronici, discariche che straripano e sprechi di risorse ed energia. È uno dei motivi per cui lo statunitense medio genera più del 70 per cento di rifiuti solidi in più rispetto al 1960. [1] E i rifiuti elettronici – i componenti più tossici degli scarti domestici – stanno aumentando quasi sette volte in più rispetto ad altre forme di rifiuti. Nonostante gli sforzi di riciclaggio, un numero di telefoni cellulari stimato in 140 milioni – contenenti metalli preziosi pari a 60 milioni di dollari in valore e una quantità di materiali tossici – sono gettati ogni anno nelle discariche statunitensi. [2]
Assieme a questi costi ambientali ci sono anche impatti economici. Non molto tempo fa la maggior parte delle cittadine statunitensi aveva calzolai, gioiellieri che aggiustavano orologi da polso e da tavolo, sarti che riparavano e modificavano vestiti e attività di riparazione che rimettevano a nuovo tostapane, televisioni, radio e dozzine di altri elettrodomestici casalinghi. Oggi la maggior parte di queste attività è scomparsa. “È un commercio moribondo”, ha detto il proprietario di un negozio di riparazione di elettrodomestici del New Hampshire. “Elettrodomestici di basso livello che si possono comprare per 200 o 300 dollari sono fondamentalmente apparecchi a perdere”. [3] La storia è simile per altre attività di riparazione: negli anni ’40, ad esempio, gli Stati Uniti ospitavano circa 60.000 calzolai, un numero ridottosi a meno di un decimo oggi. [4]
Un motivo di questa tendenza è la globalizzazione. Le imprese hanno delocalizzato le loro attività di fabbricazione a paesi a bassi salari, rendendo le merci artificialmente a basso prezzo quando vendute nei paesi a salari più elevati. Quando quelle merci devono essere riparate, non possono essere rispedite in Cina o in Bangladesh, devono essere riparate dove i salari sono più elevati e le riparazioni sono perciò più costose. Il mio amico è rimasto confuso riguardo alla condizione della sua auto perché in India c’è la situazione contraria: la manodopera è a basso costo mentre sono costose le merci importate e nessuno si sognerebbe di buttare un’auto che potrebbe essere riparata.
È allettante scartare il declino delle riparazioni in occidente come un danno collaterale – semplicemente un altro costo non intenzionale della globalizzazione – ma l’evidenza suggerisce che in realtà è una conseguenza intenzionale. Per comprendere il perché è utile guardare alle particolari necessità del capitale nell’economia della crescita globale, necessità che hanno determinato la creazione della cultura consumistica appena più di un secolo fa.
Quando la prima auto Modello T uscì dalla catena di montaggio di Henry Ford nel 1910, gli industriali compresero che la tecnica poteva essere applicata non solo alle auto ma a quasi ogni altro prodotto fabbricato, rendendo la produzione di massa possibile in dimensioni in precedenza inimmaginabili. Il potenziale di profitto era praticamente illimitato, ma c’era un inghippo: non aveva senso produrre milioni di articoli – non importa quanto a basso costo – se non c’erano abbastanza compratori per essi. E nella prima parte del ventesimo secolo la maggioranza della popolazione – classe lavoratrice, rurale e varia – aveva scarso reddito disponibile, una vasta gamma di imposte e valori che imponevano frugalità e autosufficienza. Il mercato di merci manifatturiere era largamente limitato alle classi media e alta, gruppi troppo piccoli per assorbire una produzione di massa a tutto gas.
La pubblicità fu il primo mezzo cui l’industria ricorse per aumentare i consumi affinché corrispondessero all’enorme balzo della produzione. Anche se le pubblicità semplici erano in circolazione da generazioni non erano certo sofisticate come gli annunci nascosti di oggi. Attingendo alle idee di Freud la nuova pubblicità si concentrò meno sul prodotto e più sulla vanità e le insicurezze dei potenziali consumatori. Come segnala lo storico Stuart Ewen, la pubblicità contribuì a sostituire i consolidati valori statunitensi che sottolineavano la parsimonia con nuove norme basate su consumi cospicui. La pubblicità, a quel punto di portata nazionale, ha anche contribuito a cancellare differenze regionali ed etniche tra le diverse popolazioni locali degli Stati Uniti, imponendo in tal modo gusti di massa adatti alla produzione di massa. Mediante tecniche di commercializzazione sempre più sofisticate ed efficaci, dice Ewen, “gli eccessi sostituirono la parsimonia come valore sociale” e intere popolazioni furono investite di “un desiderio psichico di consumare”. [5]
In altri termini, era nata la cultura consumistica moderna, non come risposta all’avidità umana innata o alla domanda dei clienti, bensì alle necessità del capitale industriale.
Nel corso della Grande Depressione i consumi non riuscirono a tenere il passo con la produzione. In un circolo vizioso, la sovrapproduzione portò a fabbriche chiuse, lavoratori persero il posto e la domanda di produzione industriale scese ulteriormente. In tale crisi del capitalismo, nemmeno la pubblicità più ingegnosa avrebbe potuto stimolare i consumi in misura sufficiente a rompere il circolo.
Nel 1932 una nuova soluzione fu proposta da un mediatore immobiliare di Bernard London. Il suo opuscolo “Por fine alla depressione mediante l’obsolescenza programmata” plaudiva agli atteggiamenti di consumatori che la pubblicità aveva creato durante gli anni ’20, un periodo nel quale “il popolo statunitense non aspettava fino a quando da qualsiasi bene fosse ricavata l’ultima briciola di utilità. Sostituiva gli articoli vecchi con nuovi per motivi di moda e di modernità. Rinunciava alle case e alle auto vecchie ben prima che fossero logore” [6]. Al fine di aggirare i valori di parsimonia e frugalità che si erano riaffacciati durante la Depressione, London sosteneva che il governo doveva “registrare l’obsolescenza dei beni capitali e di consumo all’epoca della loro produzione … Dopo che il tempo assegnato era scaduto, quelle cose sarebbero legalmente ‘morte’ e sarebbero controllate dall’agenzia debitamente nominata dal governo e distrutte” [7]. La necessità di sostituire tali prodotti ‘morti’ avrebbe assicurato che la domanda sarebbe rimasta per sempre alta e che il pubblico – indipendentemente da quanto parsimonioso o soddisfatto dai suoi beni materiali – avrebbe continuato a consumare.
L’idea di London non attecchì immediatamente e la Depressione alla fine terminò quando le fabbriche inattive furono convertite alla produzione di armi e munizioni per la seconda guerra mondiale. Ma il concetto di obsolescenza programmata non scomparve. Dopo la guerra il suo maggior promotore fu il progettista industriale Brooks Stevens, che la considerò non come un programma governativo bensì come una caratteristica integrale della progettazione e della commercializzazione. “Diversamente dall’approccio europeo del passato che cercava di produrre il bene assolutamente migliore e farlo durare per sempre”, disse, “l’approccio negli Stati Uniti consiste nel rendere il consumatore statunitense insoddisfatto del prodotto che gli è piaciuto usare e … [e fargli voler] ottenere il nuovissimo prodotto con l’aspetto più nuovo possibile” [8].
La strategia di Brooks fu abbracciata da tutto il mondo industriale ed è tuttora in vigore oggi. Accoppiata a una pubblicità mirata a rendere i consumatori inadeguati e insicuri se non hanno il prodotto più recente o gli abiti alla moda al momento, l’enigma del parallelismo dei consumi con una produzione sempre crescente è stato risolto.
La costante sostituzione di merci altrimenti utili per nessun altro motivo che la “modernità” è più chiara all’apice dell’industria dell’abbigliamento, significativamente nota come industria della “moda”. Grazie al costante fuoco di sbarramento di messaggi mediatici e pubblicitari, persino i ragazzi più giovani temono di subire l’ostracismo se indossano abiti che non sono “fighi” abbastanza. Le donne, in particolare, sono state indotte a sentire che saranno sottovalutare se i loro abiti non sono sufficientemente all’ultimo grido. Non è solo la pubblicità che trasmette questi messaggi. Una delle trame di un episodio della serie televisiva degli anni ’90 “Seinfeld” aveva per protagonista una donna che commette il passo falso di indossare in diverse occasioni lo stesso abito, resa oggetto di una quantità di risate preregistrate. [9]
L’obsolescenza è stata una forza particolarmente potente nel mondo dell’alta tecnologia, dove l’arco di vita limitato delle apparecchiature digitali è spesso la conseguenza più dell’”innovazione” che del malfunzionamento. Con la potenza di calcolo raddoppia ogni diciotto mesi per molti decenni (un fenomeno così affidabile da essere noto come legge di Moore) i prodotti digitale diventano rapidamente obsoleti: come ha scritto uno scrittore di tecnologia: “In due anni il vostro nuovo smartphone potrebbe essere poco più che un fermacarte” [10]. Con i pubblicitari che bombardano il pubblico di annunci che affermano che questa generazione di smartphone è la definitiva per velocità e funzionalità, il tipico utente di cellulari acquista un telefono nuovo ogni ventuno mesi [11]. Superfluo dirlo: questo è grandioso per l’ultima riga del bilancio delle imprese dell’alta tecnologia, ma tremendo per l’ambiente.
L’innovazione può essere il mezzo principale attraverso il quale i prodotti di alta tecnologia sono resi obsoleti, ma i produttori non disdegnano l’uso di altri metodi. La Apple, ad esempio, rende intenzionalmente i propri prodotti difficili da riparare, salvo per la stessa Apple, in parte rifiutando di fornire informazioni sulle riparazioni riguardo ai propri prodotti. Poiché il costo della riparazione in fabbrica spesso si avvicina al costo di un prodotto nuovo, la Apple si assicura un sano flusso di entrate indipendentemente da ciò che il cliente decide di fare.
La Apple si è spinta anche oltre. In una causa collettiva contro la società è stato rivelato che gli iPhone 6 della società sono programmati per smettere di funzionare – in gergo “murati” – quando gli utenti li fanno riparare in laboratori non autorizzati (e meno costosi). “Non hanno mai rivelato che il vostro telefono potrebbe essere murato dopo riparazioni semplici”, ha detto un avvocato dei querelanti. “La Apple aveva intenzione … di forzare tutti i suoi consumatori a comprare prodotti nuovi semplicemente perché si recavano in un laboratorio di riparazione” [12].
In reazione a questa furfanteria dell’industria un certo numero di stati ha cercato di approvare leggi sulla “riparazione equa” che aiuterebbero i laboratori indipendenti a ottenere le parti e gli strumenti diagnostici di cui hanno bisogno, nonché gli schemi di come i dispositivi sono assemblati. Una legge simile è già stata approvata dal Massachusetts per agevolare i riparatori di auto indipendenti e agricoltori del Nebraska stanno lavorando per far approvare una legge simile relativa alle macchine agricole. Ma, eccettuata la legge del Massachusetts, una pesante attività di pressione dei fabbricanti – dalla Apple all’IBM a gigante delle macchine agricole John Deere – ha sinora ostacolato l’approvazione di leggi sul diritto alla riparazione. [13]
Dalla base un’altra reazione è stata l’ascesa di “caffè di riparazione” non a fini di lucro. Il primo è stato organizzato ad Amsterdam nel 2009 e oggi ce ne sono più di 1.300 altri in tutto il mondo, ciascuno con strumenti e materiali per aiutare le persone ad aggiustare abiti, mobili, elettrodomestici, biciclette, vasellame e altro, assieme a volontari specializzati che possono offrire aiuto, se necessario [14]. Queste iniziative locali non solo rafforzano i valori della parsimonia e dell’autonomia intenzionalmente erosi dal consumismo; collegano le persone con le loro comunità, ridimensionano l’uso di risorse ed energia scarse e riducono la quantità di materiali tossici gettati nelle discariche.
A un livello più sistemico c’è un urgente bisogno di mettere le redini al potere dell’industria ridisciplinando il commercio e la finanza. Trattati di liberalizzazione del “libero scambio” hanno dato alle imprese la capacità di localizzare le loro attività dovunque nel mondo, contribuendo ai prezzi distorti che rendono più economico comprare prodotti nuovi piuttosto che riparare quelli vecchi. Questi trattati rendono anche più facile per le imprese penetrare non solo le economie del Sud globale, ma anche la psiche delle loro popolazioni, contribuendo a trasformare miliardi di altre persone autonome in consumatori insicuri avidi dei beni standardizzati, prodotti in massa dall’industria. La diffusione della cultura consumistica può aiutare il capitale globale a soddisfare la sua necessità di una crescita infinita, ma certamente distruggerà la biosfera; il nostro paese non è in grado di sostenere sette miliardi di persone che consumano al ritmo folle del nostro mondo “sviluppato”, e tuttavia tale obiettivo è implicito nella logica dell’economia globale.
Dobbiamo anche opporci – con le parole e gli atti – alle forze del consumismo nelle nostre stesse comunità. La cultura consumistica globale non è solo motore del cambiamento climatico, dell’estinzione di specie, di zone oceaniche morte e di molte altre aggressioni alla biosfera; alla fine non soddisfa reali bisogni umani. Il prezzo della cultura consumistica non si misura in beni a buon prezzo che riempiono le nostre case e poi, sin troppo presto, la discarica più vicina. Il suo costo reale è misurato in termini di patologie alimentari, epidemie di depressione, accresciuta conflittualità sociale e tassi crescenti di dipendenza, non solo dagli oppiacei, ma dagli ‘acquisti’, dai videogiochi e da Internet.
È ora di concepire – e compiere passi per creare – un’economia che non distrugga le persone e il pianeta solo per soddisfare gli imperativi di crescita del capitale globale.
NOTE
[1] EPA Report on the Environment, Municipal Solid Waste, https://cfpub.epa.gov/roe/indicator_pdf.cfm?i=53; Center for Sustainable Systems, “Municipal Solid Waste Factsheet,” http://css.snre.umich.edu/factsheets/municipal-solid-waste-factsheet
[2] National Public Radio, “The Continent that Contributes the Most to E-Waste is…”, January 26, 2017. http://www.npr.org/sections/goatsandsoda/2017/01/26/511612133/the-continent-that-contributes-the-most-to-e-waste-is
[3] “Irreparable Damage”, Washington Times, Jan 9, 2007. http://www.washingtontimes.com/news/2007/jan/9/20070109-121637-4917r/
[4] Morris, Natalie, “Fewer shoe repair shops mean business for those remaining”, Wall Street Journal, March 5, 2012. http://www.sj-r.com/x1644228326/; “Shoe Repair in the US: Market Research Report”, IBIS World, Apr 2017, https://www.ibisworld.com/industry-trends/market-research-reports/other-services-except-public-administration/repair-maintenance/shoe-repair.html
[5] Ewen, Stuart, Captains of Consciousness: Advertising and the Social Roots of the Consumer Culture(New York: McGraw-Hill, 1976).
[6] London, Bernard, 1932, “Ending the Depression Through Planned Obsolescence”. https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/27/London_(1932)_Ending_the_depression_through_planned_obsolescence.pdf
[7] Ibid.
[8] Pyramids of Waste: The Light Bulb Conspiracy, 2010, a documentary film by Cosima Dannoritzer. Viewed at FilmsforAction.org. http://www.filmsforaction.org/watch/pyramids-of-waste-2010/
[9] Seinfeld, “The Seven”, episode 13, season seven. Aired February 1, 1996.
[10] Walton, Andy, “Life Expectancy of a Smartphone”, Houston Chronicle, http://smallbusiness.chron.com/life-expectancy-smartphone-62979.html
[11] ibid.
[12] Beres, Damon, and Andy Campbell, “Apple is Fighting a Secret War to Keep You from Repairing Your Phone”, Huffington Post, June 9, 2016. http://www.huffingtonpost.com/entry/apple-right-to-repair_us_5755a6b4e4b0ed593f14fdea
[13] Solon, Olivia, “A Right to Repair: Why Nebraska Farmers are Taking on John Deere and Apple”, The Guardian, March 6, 2017, https://www.theguardian.com/environment/2017/mar/06/nebraska-farmers-right-to-repair-john-deere-apple. Beres, Damon, “Big Tech Squashes New York’s ‘Right to Repair’ Bill”, Huffington Post, June 17, 2016. http://www.huffingtonpost.com/entry/apple-right-to-repair_us_5755a6b4e4b0ed593f14fdea
[14] https://repaircafe.org/en/about/
Riferimenti
«Vivere nell’emergenza significa inseguire gli eventi, farsi coinvolgere e trasportare come una canna al vento da ciò che accade ». il manifesto, 14 luglio 2017 (c.m.c.)
Vorrei scrivere un articolo sugli incendi a gennaio, in mezzo alla neve, quando è il momento per pensarci seriamente ed attrezzarsi. Come fa l’industria della moda, che presenta i nuovi abiti una stagione prima, come succede in generale in un’ impresa di medie dimensioni che programma le innovazioni. E invece se ne parla d’estate, come è successo tante volte in passato: nel 2001, nel 2003, la peggiore stagione per gli incendi in Europa, nel 2007 e nel 2010.
Ogni estate gli incendi, un fenomeno sociale e non naturale (non esiste l’autocombustione se non in circostanze eccezionali), colpisce il nostro paese distruggendo foreste, macchia mediterranea e terreni coltivati, ma l’opinione pubblica se ne accorge solo quando viene superata una certa soglia e scatta la parola magica: emergenza.
Vivere nell’emergenza significa inseguire gli eventi, farsi coinvolgere e trasportare come una canna al vento da ciò che accade. Il termine “emergenza” evoca situazioni eccezionali, abnormi, destinate a suscitare paura e preoccupazione generale.
E serve, in primo luogo, a spostare l’attenzione dell’opinione pubblica, a bloccare o a rallentare quel processo di obsolescenza dell’informazione, a riportare verso l’alto la curva di Vernon applicata alla merce “informazione”.
E così si è parlato di “emergenza” per: il maltempo, il terrorismo, la disoccupazione giovanile, l’inflazione (anni ’70), la deflazione (in questo decennio), la radioattività, i terremoti, la siccità, le alluvioni, l’immigrazione (over all), e chi più ne ha più ne metta.
Emergenza e normalità si scambiano spesso le parti: ciò che sarebbe normale in quanto conseguenza di un certo modello di sviluppo diventa eccezionale, e viceversa ciò che è eccezionalmente grave e insostenibile (come la corsa agli armamenti o il salvataggio delle banche mentre una parte rilevante della popolazione vive sotto la soglia di povertà) diviene del tutto scontato e regolare. E’ normale che siano morti 6 milioni di congolesi per guerre intestine e fame nell’ultimo decennio, o centinaia di migliaia di yemeniti vittime di una guerra devastante quanto ignorata dai media, ed invece è «emergenza sempre più urlata ogni sbarco di migranti sulle nostre coste.
Scriveva profeticamente un noto politologo nordamericano : «L’esistenza di emergenze da fronteggiare è per la classe politica nel suo insieme condizione della sua stessa esistenza : l’unico mezzo per conquistare spazio e legittimità e contrastare il declino della partecipazione politica, la crisi delle ideologie, la tendenziale omogenizzazione dei partiti, la concorrenza rappresentata dalla molteplicità degli stimoli e delle informazioni» (A. Wolfe, 1981).
E così accade che ogni volta, all’arrivo di un’estate più calda del solito, all’estendersi delle terre bruciate dal fuoco, per qualche giorno tutti si occupano degli incendi per poi voltare pagina e dimenticarsene fino alla prossima, bollente estate.
Personalmente questo fatto mi è ancora più insopportabile per avere sperimentato con successo, nel Parco nazionale dell’Aspromonte, un metodo di lotta agli incendi che costa poco ed è efficace. In passato ne parlarono tutti i telegiornali nazionali ed i principali organi di stampa, ma senza che servisse a modificare l’approccio prevalente. Si tratta di un principio semplice: ricreare quel rapporto tra popolazione e territorio, che c’era in passato prima dello spopolamento delle campagne e montagne, attraverso i «contratti di responsabilità territoriale» che puntano ad uno spegnimento immediato dei fuochi. Recita un proverbio francese più o meno così : per spegnere un incendio dopo dieci secondi basta un bicchiere d’acqua, dopo un minuto ci vuole un secchio d‘acqua, dopo un’ora bisogna chiamare i pompieri.
Contratti di responsabilità territoriale che avevamo esteso anche alla raccolta rifiuti nei boschi, ma che dal 2005, quando il ministro Matteoli mandò un commissario, furono cancellati con la motivazione esilarante: di incendi e rifiuti se ne deve occupare la Regione Calabria. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le foreste aspromontane sono ridotte a pattumiera ed il controllo degli incendi con il metodo della responsabilità territoriale è ripreso solo negli ultimi anni, ma con un budget fortemente ridotto.
Dopo la tragedia del 2003 che causò oltre 25000 morti in Francia per l’anomala ondata di calore e provocò incendi spaventosi dal Portogallo fino all’Italia e Grecia, fui invitato a Bruxelles da una Commissione istituita ad hoc, che espresse grande interesse per il metodo Aspromonte, me lo rinnovò nel 2005 e poi non ne seppi più niente.
Non si tratta di un metodo perfetto, ma perfettibile, che nel tempo ha aggiunto al coinvolgimento delle associazioni ambientaliste e di protezione civile quello di un rapporto di responsabilità con contadini e pastori nella difesa territoriale.
E’ una sfida che ci riguarda tutti ma che richiede una uscita/liberazione dalla catena delle emergenze. Abbiamo bisogno di programmare la difesa territoriale in tutti i campi, tenendo conto che registreremo sempre più “eventi estremi” legati al mutamento climatico in corso con cui fare i conti. E’ un’altra politica unitamente ad un’altra informazione , che non stia solo sul pezzo, quella di cui abbiamo estrema necessità.
«Secondo gli esperti, siamo sul punto di giungere ad un punto di svolta sociale, con la produzione di energia eolica e solare in grande espansione». RegionieAmbiente,
4 luglio 2017 (c.m.c.)
Alla vigilia del G20 di Amburgo un gruppo di scienziati, imprenditori, dirigenti politici, economisti, analisti e opinionisti scrivono e sottoscrivono un articolo in cui affermano che solo un'azione immediata di riduzione nell'uso dei combustibili fossili potrà evitare le devastanti ondate di calore e l'ingestibile aumento del livello dei mari, proponendo delle misure in 6 tappe fondamentali da implementare entro il 2020.
Il mondo ha bisogno di un'azione climatica estremamente veloce per far scendere la curva delle emissioni globali di gas ad effetto serra, che comporta una drastica riduzione dell'utilizzo di combustibili fossili se si vuole evitare effetti non gestibili come ondate di calore devastanti e l'aumento del livello dei mari.
È quanto scrivono e sottoscrivono 60 scienziati, imprenditori, dirigenti politici, economisti, analisti e opinionisti (tra i più noti: Johan Rockström della Stockhom University; Jochim Schellnhuber e Stefan Rahmstorf del PIK; Anthony Hobley, Direttore esecutivo di Carbon Tracker; Jonathan Bamber, Presidente dell'Unione Europea delle Geoscienze) nell'articolo "Three years to safeguard our climate" pubblicato il 28 giugno 2017 su Nature.
«Noi siamo nella possibilità di piegare verso il basso la curva delle emissioni di gas serra entro il 2020, come richiede la scienza, a protezione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell'ONU e, in particolare all'eradicazione della povertà estrema - ha affermatola co-autrice e prima firmataria Christiana Figueres, l'ex Segretaria esecutiva dell'UNFCCC e attuale coordinatrice di Mission 2020, una campagna di ampio respiro che richiede un'azione urgente per assicurare che le emissioni di carbonio inizino una caduta inesorabile entro il 2020 - Questa sfida monumentale coincide con l'apertura senza precedenti di autodisciplina da parte dei Governi subnazionali all'interno degli Stati Uniti, dei Governi a tutti i livelli al di fuori degli Stati Uniti, e del settore privato in generale. L'opportunità che ci viene data nei prossimi tre anni è unica nella storia».
Alla vigilia del G20 di Amburgo (6-7 luglio 2017), gli autori sono sicuri che sia il progresso tecnologico che lo slancio politico hanno raggiunto un punto che permette di avviare la "grande trasformazione della sostenibilità" e che il 2020 è una data fondamentale perché solo in quell'anno gli Stati Uniti potranno legalmente ritirarsi dall'Accordo di Parigi (vedi L'uscita dall'Accordo di Parigi conferma l'isolazionismo degli USA).
Ancora più convincenti sono le considerazioni basate sulla fisica: le recenti ricerche hanno dimostrato che il mantenimento del riscaldamento globale al di sotto dei +2 °C diventa quasi impossibile se si ritarda l'azione climatica oltre il 2020 e il superamento di quel limite sarebbe pericoloso E la violazione della linea a 2 ° C sarebbe pericolosa, poiché il numero dei fenomeni destabilizzanti del sistema Terra, come lo scioglimento delle grandi masse di ghiaccio, potrebbero risultare irreversibili.
«Finora siamo stati beneficati dalla notevole resilienza del Pianeta negli ultimi 100 anni, che ha assorbito la maggior parte dei nostri abusi sul clima - ha dichiarato a sua volta Rockström, riconosciuto a livello internazionale come uno dei massimi esperti sulle questioni legate alla sostenibilità globale per la teoria dei "Planetary boundaries" ovvero dei 9 confini planetari, oltrepassati i quali, gli effetti a cascata che ne derivano possono essere assolutamente fuori delle nostre capacità di controllo e devastanti per l'umanità - Ora abbiamo raggiunto la fine di questa epoca e abbiamo bisogno di piegare immediatamente la curva globale delle emissioni, per evitare risultati ingestibili per il nostro mondo moderno».
Secondo gli esperti, siamo sul punto di giungere ad un punto di svolta sociale, con la produzione di energia eolica e solare in grande espansione. In Europa, ad esempio, più di tre quarti delle nuove capacità energetiche installate si basano su tali fonti rinnovabili. La Cina sta rapidamente istituendo un sistema nazionale di scambio delle emissioni. Gli investitori finanziari negli Stati Uniti sono sempre più preoccupati per i rischi da carbonio.
Sono 6 le tappe che gli autori indicano accelerare la trasformazione in atto entro il 2020.
Energia. Le energie rinnovabili dovranno costituire almeno il 30% dell'approvvigionamento elettrico mondiale, dal 23,7% che era nel 2015. Non dovranno essere più approvate centrali elettriche a carbone dopo il 2020 e quelle in funzione dovranno essere progressivamente chiuse.
Infrastrutture. Le città e gli Stati avvieranno piani di azione per decarbonizzare completamente gli edifici e le infrastrutture entro il 2050, con un finanziamento di 300 miliardi di dollari l'anno, migliorando ogni anno di almeno il 3% il proprio parco immobiliare e infrastrutturale ad emissioni zero o quasi zero.
Trasporti. I veicoli elettrici dovranno rappresentare almeno il 15% delle vendite di auto nuove in tutto il mondo, un aumento significativo rispetto alla quota di mercato attuale di quasi l'1% che i veicoli ibridi a batteria e plug-in. Sono inoltre necessari impegni per un raddoppio l'utilizzo dei trasporti pubblici nelle città, un aumento del 20% , un aumento del 20% ddi efficienza dei carburanti per veicoli pesanti e una riduzione del 20% delle emissioni di gas serra dell'aviazione civile per ogni chilometro percorso.
Suoli. Dovranno essere adottate politiche di utilizzo dei suoli che riducano la distruzione delle foreste e indirizzino gli sforzi per il rimboschimento e l'afforestamento. Le emissioni nette attuali derivanti dalla deforestazione e dalle modifiche all'uso del suolo rappresentano circa il 12% del totale globale. Se fossero ridotti a zero nel prossimo decennio, rimboschimento e afforestamento potrebbero essere utilizzati, invece, per creare un dissipatore di carbonio entro il 2030, contribuendo a spingere le emissioni globali nette totali a zero, a sostenere l'approvvigionamento idrico e a produrre altri vantaggi. Le pratiche agricole sostenibili possono ridurre le emissioni e aumentare il sequestro del CO 2 nei suoli sani e ben gestiti.
Industrie. L'industria pesante adotterà e svilupperà piani per aumentare l'efficienza e ridurre le emissioni, con l'obiettivo di dimezzare le emissioni ben prima del 2050. Le industrie ad alto tenore di carbonio - quali quelle del ferro e dei metalli, del cemento, dei prodotti chimici, del petrolio e gas - attualmente costituiscono il 20% delle emissioni globali di escludendo le loro esigenze di elettricità e calore.
Finanza. Il settore finanziario dovrà ridefinire gli investimenti mobilitando almeno 1.000 miliardi di dollari l'anno per l'azione climatica. La maggior parte dei finanziamenti deriverà dal settore, ma Governi, Banche e Istituti di Credito come la Banca Mondiale dovranno emettere "obbligazioni verdi" per finanziare gli sforzi di mitigazione del clima. Ciò creerebbe un mercato annuale che, entro il 2020, gestirà obbligazioni 10 volte superiori agli 81 miliardi di dollari emesse nel 2016.
«La matematica del clima è brutalmente chiara: mentre il mondo non può essere guarito in pochi anni, può essere tuttavia ferito fa morte se la negligenza continua fino al 2020 - ha concluso Schellnhuber, Climatologo di fama mondiale e conosciuto per i suoi studi sui cosiddetti "tipping points" del sistema Terra ovvero il livello oltre il quale un cambiamento diviene inarrestabile - È necessario agire entro il 2020, ma non è chiaramente sufficiente: occorre impostare il percorso per dimezzare le emissioni di CO2 ad ogni decennio. Analogamente, alla leggendaria 'Legge di Moore' che afferma che i processori per computer raddoppiano di potenza ogni due anni, la 'Legge del Carbonio' può diventare una profezia che si autoadempie, mobilitando le innovazioni e le forze di mercato. Ciò diventerà inarrestabile, ma solo se spingiamo ora il mondo ad agire».
«I movimenti ambientalisti si sono appiattiti su valori e «leggi» dell’economia globalizzata. Poi Trump con le sue politiche ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati». il manifesto, 29 giugno 2017 (c.m.c.)
Col suo brutale discorso del 1° giugno di quest’anno il presidente Trump ha dichiarato che gli Stati uniti non intendono più aderire agli impegni presi dal suo predecessore a Parigi nel dicembre 2015 sulle azioni per attenuare le cause dei cambiamenti climatici. Tali azioni, secondo Trump, limiterebbero certe attività importanti per l’economia e i lavoratori del suo paese (l’uso del carbone come combustibile), faciliterebbero le importazioni di autoveicoli meno inquinanti con danno per l’industria automobilistica americana e imporrebbero ai consumatori americani maggiori costi per merci alternative e maggiori tasse per risarcimenti finanziari ai paesi danneggiati.
Come è ben noto, i cambiamenti climatici sono dovuti a varie cause, tutte di carattere economico e merceologico, distribuite diversamente fra i vari paesi, come sono distribuiti diversamente i danni e i relativi costi. La principale causa è costituita dalla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera per la crescente immissione di «gas serra»: anidride carbonica proveniente dalla combustione dei combustibili fossili (in ordine decrescente di danno, carbone, prodotti petroliferi, gas naturale), metano proveniente dall’estrazione e trasporto del gas naturale e dalla zootecnia intensiva, e alcuni altri. In secondo luogo i cambiamenti climatici sono dovuti al taglio delle foreste praticato per «liberare» nuovi spazi da dedicare all’agricoltura e all’estrazione di minerali, soprattutto per ricavarne merci destinate all’esportazione, e alle modificazioni della struttura del suolo a causa delle coltivazioni intensive che assicurano maggiori profitti agli agricoltori e per l’espansione degli spazi urbanizzati.
I soggetti coinvolti sono approssimativamente due: gli inquinatori, soprattutto i paesi industriali tradizionali o di nuova industrializzazione (diciamo i ricchi), e gli inquinati, diciamo i poveri, quelli che sono esposti alla siccità, alla desertificazione, e, d’altra parte, ad alluvioni e allagamenti. Con varie contraddizioni: sono danneggiati anche i paesi inquinatori (le alluvioni e la siccità colpiscono anche Europa, Stati uniti e Cina, importanti inquinatori) e d’altra parte anche i paesi poveri, che subiscono maggiormente le conseguenze dei mutamenti climatici, ne sono anch’essi responsabili in parte, soprattutto per la distruzione delle foreste o le attività minerarie.
Gli accordi di Parigi, come è noto, vincolano i paesi inquinatori a limitare le attività responsabili dei mutamenti climatici (usare meno combustibili fossili, soprattutto carbone, ricorrere a energie rinnovabili, produrre merci, soprattutto autoveicoli, che inquinano meno a parità di servizio, per esempio di chilometri percorsi), e a risarcire i paesi poveri che subiscono maggiormente i danni dei mutamenti climatici.
Il più comune strumento è una imposta, pagata dagli inquinatori in proporzione alla quantità di gas serra emessi, destinata ad azioni di rimboschimento, ad aiuti ai popoli alluvionati o resi sterili dalla siccità. Meccanismi da regolare con accordi commerciali – si tratta di un vero e proprio commercio del diritto di inquinare, una specie di commercio delle indulgenze – abbastanza complicati. Per farla breve, si tratta di soldi che gli inquinatori devono tirare fuori, con tasse e perdita di posti di lavoro e modificazioni dei consumi — cose sgradevolissime per la società globalizzata basata sulla legge fondamentale del capitalismo: la crescita del prodotto interno lordo, alla quale devono ubbidire i governanti per compiacere gli elettori che pensano ai soldi e agli affari.
Si capisce bene, quindi, perché il presidente Trump, con la sua abituale brutalità, ha detto che lui «deve» pensare agli interessi dei lavoratori, dei cittadini e dei finanzieri americani e non al futuro del pianeta Terra e alla sorte dei paesi desertificati o alluvionati. A dire la verità, probabilmente tutti i paesi industriali inquinatori pensano la stessa cosa pur dichiarando a gran voce la fedeltà agli accordi di Parigi. In un certo senso coloro a cui stesse a cuore davvero il futuro del pianeta dovrebbero essere riconoscenti a Trump per aver ricordato con chiarezza i veri caratteri dei rapporti fra natura, società ed economia. Ai tempi dei primi movimenti di contestazione «ecologica», all’inizio degli anni settanta, nel nome dell’ecologia sembrava possibile fermare lo sfruttamento della natura, rallentare i consumi superflui e i relativi sprechi e rifiuti, attenuare le disuguaglianze fra ricchi e poveri. Poi, col passare degli anni, i movimenti ambientalisti si sono appiattiti sui valori e le «leggi» dell’economia globalizzata. Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi, sostenibili, sono diventati sostenitori delle merci biocompatibili, delle fonti di energia rinnovabili (solare e eolico), in realtà occasioni di nuovi affari e commerci.
Trump ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati e la loro soluzione – e la salvezza del pianeta – sono ottenibili soltanto recuperando la voglia di lottare per superare il capitalismo, per una maggiore giustizia sociale, premessa anche per la liberazione dalla violenza fra le persone, i paesi, le generazioni – oltre che verso la natura.
« L'associazione ambientalista per la sua campagna a difesa delle foreste boreali, un ecosistema che offre casa a 20 mila specie animali e vegetali, compreso il caribù, rischia la chiusura». la Repubblica, 17 maggio 2017 (p.s.)
ROMA - Quanto valgono le foreste boreali che costituiscono il secondo ecosistema terrestre del mondo come ampiezza, aiutano a difendere la stabilità climatica, offrono una casa a 20 mila specie animali e vegetali, compreso il caribù? E' una stima difficile perché il valore che rappresentano è legato alla sopravvivenza della nostra specie. Più facile è indicare il costo che viene chiesto a chi si batte per la loro difesa: 200 milioni di euro. Greenpeace è stata citata davanti a un tribunale degli Stati Uniti con questa richiesta di indennizzo da Resolute Forest Products, una multinazionale che ha deciso di rispondere così alla richiesta degli ambientalisti di adottare politiche sostenibili di taglio della foresta in Canada.
La cifra è ovviamente simbolica perché l'associazione ambientalista non è in grado di pagarla. In sostanza il colosso del legname chiede la chiusura di una voce storica dell'ambientalismo. E lo fa utilizzando una norma ideata per combattere la mafia. Greenpeace è stata accusata presso la Corte distrettuale della Georgia del Sud di diffamazione e di violazione della Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act, la legge Rico, una norma promulgata da Nixon nel 1970 per combattere il crimine organizzato.
La decisione della Resolute segna dunque una svolta dei rapporti tra mondo produttivo e ambientalismo che ha il segno dell'era Trump. Fino a oggi le aziende chiamate in causa per la loro azione inquinante avevano intavolato una trattativa con la controparte che nella maggior parte dei casi si era conclusa con un vantaggio reciproco: gli ambientalisti avevano incassato il miglioramento delle politiche, le aziende avevano ottenuto un ritorno di immagine e spesso un aumento di efficienza. Adesso si è arrivati al muro contro muro. Vale dunque la pena ricostruire le ragioni dello scontro.
Resolute Forest Products è la principale società canadese del settore del legno e della carta. Ha sede in Canada, a Montreal, e fornisce carta per la produzione di libri, riviste, giornali, cataloghi, volantini, elenchi telefonici. Per farlo, però - accusa Greenpeace - gestisce in maniera non sostenibile vaste aree della foresta boreale canadese, violando i diritti delle popolazioni indigene che la abitano da sempre, devastando l'habitat e mettendo in pericolo specie, come il caribù, già minacciate.
La società sotto accusa ribatte provando a capovolgere lo scenario. Greenpeace è accusata di frode perché "per anni ha indotto a donare milioni di dollari" per cause sbagliate. Resolute - afferma l'azienda nel suo ricorso legale - ha piantato un miliardo di alberi nelle aree boreali. Dunque non ha diminuito la capacità delle foreste di catturare anidride carbonica ma l'ha addirittura migliorata tagliando boschi e ripiantando alberi. Se le foreste boreali indietreggiano - continua Resolute - è colpa dell'urbanizzazione, delle centrali elettriche, delle strade, non delle motoseghe che tagliano gli alberi.
Finora questa tesi non ha ottenuto il sostegno della magistratura. Già nel 2013 Resolute aveva citato per diffamazione Greenpeace Canada davanti alla Corte superiore dell'Ontario chiedendo un indennizzo di 5 milioni di euro. La causa è ancora in corso, ma gli attacchi legali di Resolute hanno subito una battuta d'arresto il 9 marzo 2017, quando la Corte d'appello dell'Ontario ha definito "scandalose e vessatorie" le accuse di Resolute nei confronti di Greenpeace Canada. Resolute ha reagito rilanciando con un'accusa che mette sullo stesso piano Greenpeace e i clan mafiosi.
L'associazione ambientalista ha reagito parlando di Strategic Lawsuit Against Public Participation (cause strategiche contro la pubblica partecipazione): cause civili basate su accuse infondate che hanno come obiettivo l'intimidazione, il tentativo di soffocare le voci libere. E ricorda che la foresta boreale è la corona verde del pianeta: si estende per 16 milioni di chilometri quadrati - circa il doppio della foresta amazzonica - dall'Alaska alla Russia, passando per il Canada e la Scandinavia. Rappresenta oltre un quarto delle foreste rimaste sulla Terra e occupa più della metà del territorio canadese. Nonostante ciò, attualmente solo l'8 per cento della superficie forestale del Canada è protetto e molte aree sono minacciate.
Un rapporto appena reso noto dall'associazione ambientalista indica come importanti case editrici internazionali, tra cui Penguin Random House, HarperCollins, Simon & Schuster e Hachette acquistino carta da Resolute. Greenpeace invita queste case editrici internazionali a unirsi alla richiesta di tutelare la libertà di espressione e il diritto ad associarsi per la difesa di temi di interesse pubblico, come la conservazione delle foreste.
«Abbiamo sia le tecnologie che le risorse finanziarie per prevenire le peggiori conseguenze del cambiamento climatico: quello che non abbiamo è tempo da perdere», commenta Jennifer Morgan, direttrice di Greenpeace International. «Bisogna agire subito e molte aziende hanno accolto le nostre richieste per arginare il global warming e l'inquinamento: da quelle della moda a quelle che producono olio di palma. Noi abbiamo 55 milioni di persone che ci danno online il loro supporto. Non credo che sia una buona politica sfidare il peso dell'opinione pubblica».
«Da 12 giorni sta facendo lo sciopero della fame e della sete per protestare contro la costruzione del maxi gasdotto Tap in Salento. Altri nove militanti hanno iniziato a imitare il suo esempio». la Repubblica, 8 maggio 2017 (c.m.c)
Dodici giorni senza mangiare né bere per protestare contro la realizzazione del gasdotto Tap a Melendugno: l’oncologo di Casarano Giuseppe Serravezza diventa l’uomo simbolo della resistenza del Salento.
Sessantasei anni, 12 chili in meno da quando ha iniziato lo sciopero della fame e della sete, la sua funzionalità renale è alterata, i medici temono che il cuore ceda ma lui non vuole sentire ragioni. «Dopo cinque anni non c’è altra strada: il governo deve ascoltare la voce del territorio — ripete a coloro che lo pregano di smettere — Il Salento non può permettersi di pagare altro in termini ambientali».
La richiesta è chiara, veicolata nella lettera che il governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, il 5 maggio ha indirizzato al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni: «Il governo riapra un confronto sulla possibilità di spostare l’approdo dell’opera da Melendugno ». Ancora più accorato l’appello alla politica nazionale della famiglia di Serravezza, i figli Flavia e Antonio e la moglie Enza: «Mettete da parte i veleni, le beghe politiche, i risentimenti personali. C’è un uomo che rischia la vita per dare voce a una terra che vuole decidere il proprio futuro».
Proprio per aiutare la sua gente, Giuseppe Serravezza molti anni fa scelse di mettersi al servizio dei malati di cancro del Basso Salento, fino a diventare primario del Polo oncologico Casarano-Gallipoli, e lì cominciò a rendersi conto che in quei luoghi da cartolina alcune patologie tumorali erano più frequenti che in altre zone della Puglia. Neoplasie al polmone e alla vescica, in particolare, apparivano presenti in maniera preoccupante e per cercare di capirne il motivo, il professore portò avanti una serie di studi insieme alla Lilt (di cui è stato presidente e oggi è responsabile scientifico).
Nel 2014 il medico si diceva convinto che «le emergenze ambientali di alcune zone del Sud, Puglia, Campania e Basilicata, sono la causa del preoccupante incremento della mortalità per cancro ». Il riferimento era alle industrie che da Taranto e Brindisi mandano le emissioni nocive verso Lecce, grazie ai venti che spirano quasi sempre da nord, alle mille discariche abusive, ai rifiuti interrati. Proprio la richiesta di verità sui veleni sepolti nelle campagne del Capo di Leuca è stata una delle battaglie di Serravezza degli ultimi anni, insieme a quella per evitare la realizzazione della centrale a Biomasse a Casarano. «Anche in quella circostanza dicevano che era già tutto deciso — ha ricordato — ma l’opposizione popolare è riuscita a bloccare i progetti».
Poi arrivò la Tap. In Salento e nella vita di tante persone, tra cui l’oncologo, che nel 2012 aiutò il Comune di Melendugno a scrivere le osservazioni per bloccare la Valutazione di impatto ambientale poi concessa dal ministero dell’Ambiente. I suoi dubbi riguardavano le emissioni prodotte dal terminale di ricezione, che sorgerà vicino all’abitato di Melendugno, ovvero la possibilità che vengano introdotti in atmosfera Pm10, monossido di carbonio, ossido e biossido di azoto. Eventualità che Trans Adriatic Pipeline ha smentito carte alla mano e che la viceministra allo Sviluppo Teresa Bellanova ha chiesto all’Istituto superiore di sanità di verificare.
Il problema che Serravezza evidenzia, però, non riguarda le emissioni in sé ma il cumulo di inquinanti in una realtà che già nel 2014 Arpa Puglia definì tale «da non potersi permettere ulteriori pressioni». Per questo ha trasformato il suo corpo nel mezzo della protesta estrema e indotto altri nove attivisti No Tap a seguire il suo esempio, iniziando lo sciopero della fame, mentre i sindaci salentini organizzano una manifestazione sotto Palazzo Chigi per i prossimi giorni.

«Il parere legale ha confermato ciò che i movimenti, i cittadini, gli agricoltori denunciano da almeno 30 anni, conducendo una dura battaglia sul campo». la città invisibile, 24 aprile 2017 (c.m.c.)
«La Monsanto deve essere ritenuta responsabile per crimini contro l’umanità, violazione dei diritti umani, libertà di informazione e Ecocidio».
I cinque giudici internazionali del tribunale Monsanto hanno presentato, oggi [18 aprile 2017, NdR] a L’Aia, il loro parere legale dopo aver analizzato per 6 mesi le testimonianze di oltre 30 testimoni, avvocati ed esperti sui danni causati dalle attività della Monsanto. I giudici hanno concluso che la Monsanto ha condotto azioni che hanno negativamente pregiudicato il diritto ad un ambiente sano, il diritto al cibo e il diritto alla salute. I giudici hanno infine incoraggiato gli organi di controllo a proteggere l’ambiente e i diritti umani internazionali contro la condotta delle multinazionali che stanno, inoltre, violando il diritto alla libertà di ricerca scientifica.
Il parere legale ha confermato ciò che i movimenti, i cittadini, gli agricoltori denunciano da almeno 30 anni, conducendo una dura battaglia sul campo. Il modello di un’agricoltura basata su monocolture, sull’ampio uso di prodotti chimici e di sementi geneticamente modificate, e il modello economico industriale, basato a sua volta su politiche neoliberiste di libero scambio e sulla liberalizzazione del commercio, stanno avvelenando milioni di persone e stanno espellendo i piccoli agricoltori dalla terra, consentendo alle aziende di stabilire monopoli e ottenere il controllo dei nostri semi e del nostro cibo. Pur avendo distrutto buona parte del nostro suolo, inquinato l’acqua e messo a rischio la biodiversità, pur avendo contribuito massicciamente al cambiamento climatico, il modello di agricoltura industriale produce solo una minima parte del cibo disponibile a livello globale basandosi sulla falsa asserzione che abbiamo bisogno di veleni per produrre cibo.
I produttori reali sono i nostri impollinatori, gli organismi del suolo e della biodiversità e i piccoli agricoltori che, come co-creatori e co-produttori con la natura, forniscono la maggior parte del cibo che è nutriente per il pianeta e per la gente e in grado di offrire una soluzione alla povertà, alla crisi agraria, all’emergenza della salute e alla malnutrizione.
Il parere consultivo dei giudici internazionali del tribunale Monsanto rappresenta quindi un colpo consistente al potere del big business e un supporto rilevante per il lavoro di migliaia di attivisti, agricoltori, consumatori e cittadini di tutto il mondo. I giudici hanno considerato come, durante l’ultimo mezzo secolo, le aziende abbiano creato miti e propaganda su sostanze chimiche velenose «necessarie per sfamare il mondo».
Per l’industria si trattava di aumentare le loro fonti di utili dopo la fine della guerra, ma per il pianeta e i suoi abitanti, i costi sono stati molto alti: invece di nutrirci, il cibo di origine industriale è diventato una delle principali cause di malattia e povertà. Il parere consultivo del Tribunale Monsanto non solo esprime preoccupazione sui risultati delle attività delle multinazionali in tutto il mondo, ma mette in guardia la società civile e le istituzioni sui pericoli futuri.
Nonostante tutti i loro crimini, le grandi aziende stanno, infatti, cercando di ingrandirsi, reclamando potere assoluto, diritti assoluti, immunità assoluta, mettendo in campo strumenti ancora più violenti contro la natura e le persone. Fusioni, acquisizioni e accordi, come quelli tra la Monsanto-Bayer, fra la Dow-Dupont, fra la Syngenta-ChemChina, risulteranno in un cartello di 3 aziende giganti di semi e prodotti chimici in grado di controllare il nostro cibo e la nostra agricoltura, con un forte impatto sui diritti degli agricoltori e dei consumatori. Mentre la concorrenza è la retorica degli accordi di libero scambio, il monopolio è il vero risultato. E’ questo il modo con cui le multinazionali stanno distruggendo la diversità, il pluralismo e la democrazia, cercando di sbarazzarsi delle normative che proteggono il nostro cibo, la nostra salute e i nostri mezzi di sussistenza.
I movimenti di tutto il mondo hanno denunciato ogni tentativo delle multinazionali di estendere il loro controllo sulla nostra vita, sui nostri semi, e sulle conoscenze indigene attraverso i diritti di proprietà intellettuale, utilizzando lo strumento di brevetti sui semi e sulla vita. La porta ai brevetti è stata aperta attraverso la chiave dell’ingegneria genetica, dichiarando che i semi sono un’invenzione aziendale e quindi di proprietà delle multinazionali.
Attraverso la creazione di monopoli, le multinazionali raccolgono royalties e negano agli agricoltori il diritto di condividere e conservare i semi derubando così i cittadini dei loro diritti alla sovranità alimentare. Oltre ai problemi di sicurezza, tra cui la modificazione genetica, la biologia sintetica e la modifica dei geni legata agli OGM, la questione principale appare essere quella dell’obiettivo delle multinazionali di ottenere il possesso della vita sulla terra.
Il Tribunale Monsanto ha confermato la pericolosità di prodotti e di sostanze chimiche tossiche come Round Up (glifosato) e Basta (glufosinato), neonicotinoidi, atrazina, e altri pesticidi velenosi che hanno causato distruzione dei suoli, desertificazione, sterminio di api, aumento di epidemie come cancro e difetti congeniti.
Queste multinazionali stanno contaminando la popolazione inquinando il suolo e avvelenando i nostri sistemi alimentari. La relazione pubblicata di recente da Hilal Elver, relatore ONU per il diritto al cibo, presenta una chiara analisi relativa all’uso di pesticidi in agricoltura e agli impatti sui diritti umani. Lo scorso settembre, la Corte Penale Internazionale ha dichiarato di voler dare la priorità ai reati connessi alla “distruzione dell’ambiente”, allo “sfruttamento delle risorse naturali” e alla “espropriazione illegale” di terra prendendo in considerazione molti crimini tradizionalmente sottovalutati. La CPI non sta estendendo formalmente la sua giurisdizione, ma ha specificato di voler valutare reati esistenti, come i crimini contro l’umanità, in un contesto più ampio.
Il parere consultivo reso pubblico dai giudici del Tribunale Monsanto ha un forte valore morale e conferma la necessità di affermare il primato dei diritti umani e ambientali all’interno di un quadro giuridico internazionale. Il diritto internazionale dovrebbe ora riconoscere, con precisione e con chiarezza, i diritti dell’ambiente e il reato di Ecocidio. Il Tribunale conclude che, se il reato di Ecocidio fosse riconosciuto nel diritto penale internazionale, le attività della Monsanto potrebbero, con tutta probabilità, costituire un crimine. I movimenti della società civile possono ora contare su nuovi strumenti e su un parere consultivo legale eminente per rafforzare la loro azione in difesa dei diritti della terra e dei suoi abitanti.
Storia pregressa e prossime attività in programma
Il procedimento che ha condotto il “Cartello dei Veleni” a prendere atto dei propri crimini e che ha portato all’organizzazione del Tribunale Monsanto, è frutto di 30 anni di lavoro in campo scientifico, legale, sociale e politico da parte di movimenti, scienziati e cittadini coscienziosi.
Mentre i tribunali si occupano dei crimini del Cartello di Veleni, che è molto importante affinché si affermi la giustizia, le persone detengono il potere di cambiare le modalità di produzione del loro cibo.
Contemporaneamente al Tribunale Monsanto, lo scorso ottobre si è svolta a L’Aia anche un’Assemblea Popolare. E’ stato un incontro di movimenti ed attivisti che lavorano per difendere il nostro ecosistema e la nostra sovranità alimentare, che studiano gli effetti delle sostanze chimiche usate in agricoltura sulle nostre vite, sul nostro suolo, sulla nostra atmosfera e sul clima. L’Assemblea Popolare ha rappresentato un’occasione per individuare insieme la giusta strada per reclamare un futuro basato sulla Libertà dei Semi e del Cibo, sull’agro-ecologia e sui diritti degli agricoltori, sui nostri beni comuni, su economie di condivisione e sulla Democrazia della Terra.
Negli stessi giorni, si sono svolte Assemblee Popolari auto-organizzate da comunità locali di tutto il mondo che hanno dato vita ad una rete globale di cooperazione al fine di garantire un futuro più salutare sia dal punto di vista della genuinità del cibo sia da quello del rispetto dell’ambiente.
Il 16 ottobre 2016, Giornata Internazionale dell’Alimentazione, l’Assemblea Popolare ha emesso il suo verdetto: la Monsanto e il Cartello dei Veleni sono colpevoli di crimini contro in nostro pianeta e contro l’umanità. L’industria che fabbrica i veleni sta distruggendo la vita sulla terra, la nostra salute e le nostre democrazie. L’Assemblea Popolare ha quindi deciso che è tempo di mettere fine ad un secolo di ecocidio e genocidio.
Nel momento in cui le multinazionali si compattano per mezzo di fusioni ed aumentano di dimensioni e potere, i movimenti che hanno preso parte all’Assemblea Popolare hanno deciso di unire le forze per reclamare i diritti delle persone ad un’alimentazione sana e a un ambiente altrettanto sano e sicuro, come anche per difendere le tutele esistenti, in materia di diritti umani e ambientali conquistate nel corso di decenni di lotte sociali.
Nel 2016 si sono svolte più di 1100 Assemblee Popolari in 28 paesi diversi, nelle quali i partecipanti hanno preso l’impegno di difendere collettivamente la Libertà dei Semi, del Cibo e i nostri diritti democratici per far sì che il nostro sistema alimentare del futuro protegga la vita sulla terra ed il benessere di tutte le creature viventi.
Questa mobilizzazione a livello globale continua a crescere: movimenti da ogni parte del mondo continuano a incontrarsi con il comune intento di mettere fine ad un secolo di ecocidio e genocidio.
In risposta alla serie di preannunciate fusioni tra i giganti dell’industria agro-chimica, l’ultima delle quali l’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer, Navdanya sta organizzando diversi eventi ed attività per i prossimi mesi:
Recentemente, Navdanya è entrata a far parte di un vasto movimento di opposizione contro i veleni presenti nel nostro sistema alimentare e ha invitato la cittadinanza a firmare l’Iniziativa dei Cittadini Europei per vietare il glifosato e per riformare le politiche di approvazione dei pesticidi nell’Unione Europea. In relazione agli effetti dei pesticidi contenenti glifosato sulla salute umana, molti testimoni da Europa, Stati Uniti e Argentina hanno partecipato al Tribunale Monsanto, condividendo la loro esperienza relativa ai danni associati ai prodotti chimici utilizzati in agricoltura.
In India, Navdanya è molto attiva nel contrastare il processo locale di approvazione delle fusioni tra multinazionali e sta mettendo in guardia il governo indiano sui conflitti d’interesse esistenti e sul pericolo derivante dalla troppa concentrazione di potere. Allo stesso tempo, Navdanya ha riunito vari movimenti per intraprendere un Satyagraha Yatra, un pellegrinaggio per la Libertà dei Semi e del Cibo, programmato nel mese di aprile 2017.
In Grecia, dal 20 al 22 aprile, Navdanya si unirà a Peliti per il Festival Olimpico per la Libertà dei Semi insieme a movimenti e organizzazioni provenienti da tutto il mondo.
In Germania dal 25 al 29 aprile, insieme a CBG (Coalition against Bayer Dangers), IFOAM Organics International, Colabora e molti altri movimenti di cittadini ed organizzazioni, Navdanya ha organizzato una serie di eventi che culmineranno in una manifestazione, il 28 aprile a Bonn, di fronte al World Conference Center dove, lo stesso giorno, è in programma l’incontro annuale di Bayer con gli azionisti.
Mai come ora è stato più importante per la popolazione organizzarsi per fermare la presa di potere delle multinazionali sul nostro cibo e sul nostro pianeta.
Vi invitiamo ad unirvi alle comunità di tutto il mondo in questa nuova “Chiamata all’azione contro la presa di potere delle multinazionali sul nostro cibo e sulla nostra salute”. Vi invitiamo inoltre ad organizzare un’Assemblea Popolare, ovunque voi siate per creare un futuro migliore per il nostro sistema alimentare ed il nostro pianeta.
In ogni luogo, assumiamo l’impegno per creare un futuro più salutare per il nostro cibo e per il nostro pianeta. Dalle Assemblee Popolari lanceremo una campagna di boicottaggio, per proteggere i cittadini dai veleni e dalle imposizioni del Cartello dei Veleni, e per liberare i nostri semi e la nostra terra, le nostre comunità e società, il nostro pianeta e noi stessi.
«International Earth Day. Da Silicon Valley alle università californiane, centinaia di migliaia in piazza contro il "maccartismo climatico"». il manifesto, 23 aprile 2017 (c.m.c.)
«Una nazione che distrugge le proprie terre distrugge se stessa. Le foreste sono i polmoni della nostra terra, purificatrici dell’aria e fonte di forza per la nostra gente». Sul sito della associazione Earth Day della California campeggia questa frase di Franklin Roosevelt, quasi a dare una ulteriore misura di quanto sia rimossa questa America etnonazionalista, populista e oligarchica da quella che all’inizio del secolo scorso costruì lo Stato sociale.
Prima ancora un altro Roosevelt – il cugino guerrafondaio Teddy – era stato paladino dei parchi nazionali, tutelando quasi un milione di km quadrati di territorio federale. Il movimento «conservazionista» era nato qualche anno prima, soprattutto nella California esplorata da John Muir, padrino dei parchi della Sierra Nevada e di Yosemite.
Il naturalista scozzese veicolava la riverenza per la natura precedentemente espresso da Thoreau e Walt Whitman, un misticismo contemplativo in perenne tensione, nella storia americana, con l’impulso opposto a sottomettere la natura al «destino manifesto» dello sviluppo e del capitale. Dal lavoro californiano di Muir discende il moderno movimento ambientalista che dai conservatori del Sierra Club si evolverà alla moderna militanza di Greenpeace e agli eco-guastatori di Earth First con le loro azioni contro le dighe e a favore delle antiche foreste dell’Ovest.
La prima mobilitazione della Giornata della Terra avviene attorno ad una perdita di petrolio da una piattaforma nella baia di Santa Barbara. Culla del ambientalismo moderno la California ha tradotto 50 anni di istanze «verdi» in normative ambientali e politiche energetiche all’avanguardia che oggi mettono lo Stato in antitetica controtendenza rispetto alla rottamazione ambientale del governo Trump.
Dal polo solare, eolico e high tech californiano dove fioriscono new company come la Tesla e dove perfino Marchionne è tenuto, controvoglia, a commercializzare Fiat 500 elettriche, l’azzeramento delle norme di consumo sulle auto di Detroit e il «ritorno al carbone» continuamente perorato da Trump appaiono ancora più paradossali. Un atto, tra l’altro, di volontario autolesionismo economico che cede il primato tecnico scientifico ancorato in gran parte proprio qui.
Non sorprendono dunque le dichiarazioni del governatore Jerry Brown, reduce personale delle prime battaglie ambientaliste di 40 anni fa: «Qualunque cosa facciano a Washington, non possono cambiare i fatti… la scienza parla chiaro». Un attacco esplicito al tentativo «di costruire un universo alternativo basato su non-fatti di nostro gradimento. La California – ha assicurato Brown, che gode di ampio consenso elettorale – non tornerà indietro. Né ora né mai!».
Al di là della minaccia retrograda al complesso ambientale-industriale supportato dalla grande rete scientifico-universitaria del suo Stato, Brown ha inquadrato la natura epistemologica dello scontro politico in atto. Il neo oscurantismo trumpista vuole ampliare l’offuscamento già operato dalle fake news alla confutazione dell’indagine scientifica se questa non serve agli interessi industriali.
E la resistenza, col movimento ambientalista in prima linea, si trova oggi a dover difendere la natura stessa dei fatti e le fondamenta della conoscenza. Fra le motivazioni delle centinaia di marce per la scienza di ieri c’era quindi la resistenza al negazionismo climatico, al creazionismo e all’antivaccinismo dilganti con l’appoggio implicito ed esplicito di un potere esecutivo che ha elevato ignoranza e l’approssimazione a valori politici. Una resistenza ontologica al tempo delle bufale.
Le ragioni alla base delle marce per la scienza hanno suscitato molto dibattito. C’è stata, diffusa, la preoccupazione di cadere nella trappola della parte che da sempre cerca di dipingere scienza, educazione, ambientalismo come «ideologie politiche» per elevare simultaneamente oscurantismo e integralismo a legittima «opposizione», meritoria di par condicio. Alla fine è prevalso il consenso sull’urgenza di farsi contare pubblicamente come scienziati nel momento in cui il governo americano sferra un attacco senza precedenti contro la scienza e l’ambiente.
Un attacco che comprende la nomina a direttore dell’Epa (l’agenzia federale per l’ambiente) di Scott Pruitt, un avvocato di petrolieri che da attorney general dell’Oklahoma aveva copia-incollato su carta intestata un comunicato della Devon Energy per denunciare i tentativi della stessa Epa di limitare le emissioni nel suo Stato.
Pruitt ha ripetutamente citato in tribunale la stessa agenzia che ora dirige e intende rottamare. Appena assurto alla direzione ha intimato ai 15.000 scienziati Epa di cessare ogni iniziativa contro il mutamento climatico. Il «maccartismo climatico» dell’amministrazione Trump è tale che brigate di hacker operano oggi per copiare e salvaguardare i dati delle agenzie ambientali prima che i nuovi dirigenti le possano cancellare. Intanto i trumpisti annullano i satelliti per i rilevamenti di Noaa e Nasa.
La scienza è quindi di fatto diventata l’oggetto di una contesa politica a cui le centinaia di migliaia di partecipanti ai cortei hanno valutato di non potersi sottrarre.
Così ieri sono scesi in piazza tecnici, professori, ricercatori e scienziati, hanno lasciato per un giorno i laboratori di Caltech, Berkeley, Jpl, Salk institute, Scripps e da migliaia di altri in tutta America e scesi in prima linea contro l’involuzione autarchica, antitetica alla curiosità e all’intelligenza scientifica che rappresenta oggi una minaccia senza precedenti al nostro pianeta.
Il governo si appresta a esentare dai tributi tutte le costruzioni ubicate nel mare territoriale" e per estensione a porti (Venezia), impianti eolici, alberghi col pontile, ristoranti su palafitte. il FattoQuotidiano online 19 aprile 2017 (p.s.)
Con l’ennesimo favore all’industria delle trivelle il governo rischia di esentare dai tributi locali interi porti e qualsiasi altra costruzione offshore sarà mai realizzata direttamente nei mari italiani. A beneficio di futuribili resort col pontile modello Dubai o di improvvisati palafittari della ristorazione lungo la costa lucana che non pagherebbero alcuna imposta. Nelle bozze della manovrina correttiva, di cui ancora si attende il testo definitivo (il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan mercoledì si è “scusato per il ritardo” annunciando che “dovrebbe arrivare domani”), c’è infatti un articolo che entra a gamba tesa nella querelle tributaria e legale che contrappone da anni i colossi dell’energia ai sindaci delle località costiere dalle cui acque estraggono idrocarburi.
Nella parte dedicata allo sviluppo c’è un articolo, il 35, che determina uno stop retroattivo per le società proprietarie delle 119 piattaforme censite nel mare italiano dal pagamento Ici, Imu e Tasi. Si impoveriranno, quindi, i bilanci dei comuni costieri e dei loro cittadini che non beneficeranno dei tributi che tre recenti sentenze della Cassazione avevano indicato come dovuti.
Così, a meno di modifiche dell’ultimo minuto, una misura che doveva recuperare risorse per rispettare i parametri europei assesta invece il colpo di spugna su cartelle di accertamento ormai decennali per un valore di oltre 100 milioni di euro. Se già questo è un problema per gli amministratori locali dei comuni litoranei interessati dalle trivelle, più ancora lo sono gli effetti collaterali della norma che impatta in modo imprevedibile sull’imponibilità di qualsiasi costruzione a mare, compresi alberghi e porti galleggianti come il terminal container di Venezia o le centrali eoliche in fase di realizzazione a Taranto e di progettazione in Molise.
L’articolo della manovra, stando alla bozza, è titolato Costruzioni ubicate nel mare territoriale e fornisce l’interpretazione autentica e definitiva di norme precedenti: «Non rientrano nel presupposto impositivo dell’imposta comunale sugli immobili (ICI), dell’imposta municipale propria (IMU) e del tributo per i servizi indivisibili (TASI), le costruzioni ubicate nel mare territoriale, in quanto non costituiscono fabbricati iscritti o iscrivibili nel catasto fabbricati». E che cosa vuol dire? Che se non c’è l’iscrizione al catasto non c’è rendita, se non c’è rendita non c’è neppure tributo che possa essere preteso. Né oggi né mai. Un intervento a gamba tesa nella querelle che si accoda ai precedenti, culminati nel 2016 con la cosiddetta “norma sugli imbullonati” contenuta in Legge di Stabilità che ha parzialmente escluso gli impianti dal pagamento delle imposte correnti.
Il passato degli accertamenti Ici però non era coperto da questi “scudi” e una decina di sindaci di comuni litoranei si sono impuntati su quelli, attraverso le commissioni tributarie. Mossi non solo dal principio ma soprattutto dal valore del gettito, stimato tra i 100 e i 200 milioni di euro. Una benedizione per i bilanci degli enti locali che convivono con le trivelle lungo la costa come Termoli (Campobasso), dove il tributo da corrispondere per Edison era di un milione e mezzo di euro per ciascuna annualità (quelle accertate vanno dal 1999 a 2009) o Pineto (Teramo) con oltre 33 milioni per gli anni 1993-1998, con interessi e sanzioni a carico di Eni. Tre sentenze della Cassazione hanno poi dato ragione ai sindaci stabilendo che le trivelle, ieri come oggi, vanno iscritte al catasto e assoggettate all’imposta.
Sembrava cosa fatta ma ecco che – prima ancora di andare all’incasso – la manovra correttiva 2017 riapre la partita dalla parte dei petrolieri. “Certo che questa norma rischia di impattare sugli accordi stragiudiziali in corso”, spiega Ferdinando D’Amari, il legale che sta seguendo i contenziosi con le compagnie. «La Cassazione ha accolto le ragioni dei comuni stabilendo l’obbligo dell’imposizione a prescindere dall’accatastamento e ha indicato il sistema di determinazione delle imposte dovute da desumere attraverso le scritture contabili. Proprio mentre è in corso la definizione degli importi arriva questa norma che scardina tutto e va contro il giudicato della Suprema Corte». Il testo del governo, fa notare, non cita assolutamente le trivelle o gli “opifici industriali” ma parla genericamente delle “costruzioni nel mare territoriale”.
Così facendo, la norma che vanifica le speranze dei sindaci a favor di petrolieri rischia di inaugurare anche in Italia una stagione di “far west a mare” dalle conseguenze ambientali imprevedibili. «Se costruisco un ristorante o un albergo entro le 12 miglia marine quella struttura, secondo le nuove norme, sarebbe esente dalle imposte. Mi sembra a dir poco pericoloso». Si vedrà come e se questa vicenda troverà un muro prima che gli imprenditori più avventurosi si mettano a progettare i loro. La stessa Eni, del resto, dal 2010 lavora all’ipotesi di conversione delle piattaforme arrivate al termine del ciclo produttivo in strutture ricettive (Temporary Islands). Di fatto scatena immediate polemiche politiche, soprattutto ad opera dei Cinque Stelle che sull’imposizione delle trivelle hanno sempre dato battaglia.
«Il governo conferma l’amicizia con le compagnie petrolifere modificando le carte in tavola per salvarle dal pagamento dell’Imu, onere che invece pagano attività produttive e cittadini», attacca il senatore Gianni Girotto. «La giurisprudenza ha da poco confermato l’interpretazione in favore di alcuni enti locali attribuendo alle compagnie petrolifere l’onere del pagamento. Ci batteremo con forte impegno affinché le disposizioni sulle esenzioni siano stralciate e le compagnie paghino quanto dovuto».
Lo chiamano "sviluppo bloccato" quello "sviluppo insensato che sta portando alla catstrofe il nostro pianeta. Gli industriali, vigili solo sui loro interessi, si lamentano, noi guardiamo con speranza ai "bloccatori". il Sole 24ore, 25 marzo 2017
L'ultimo caso è freschissimo. Risale a ieri. La multinazionale britannica Rockhopper, ha avviato le procedure per rivalersi economicamente nei confronti dell’Italia. Motivo: l’impossibilità di sfruttare il giacimento di Ombrina Mare, in Abruzzo, di cui era titolare. Un giacimento a 6 km dalla costa, finito nel mirino dei “no triv” e del provvedimento del governo di fine 2015 che vietava lo sfruttamento di giacimenti entro le 12 miglia marine.
Ora la compagnia Rockhopper presenta il conto: la richiesta di risarcimento contro il Governo italiano, per violazione del trattato Energy Charter Treaty, potrebbe essere di molti milioni di dollari (si veda il Sole 24 Ore di ieri).
Il caso Ombrina Mare fa parte dei 342 casi di sviluppo bloccato censiti dal rapporto annuale 2016 (a valere sul 2015) dell’Osservatorio Nimby forum. La multinazionale Rockhopper è in buona compagnia, con la Tap (Trans adriatic pipeline) tornata agli onori delle cronache in questi giorni, o la Tav Torino-Lione, o ancora la rete ad alta tensione in Val Formazza (Verbano Cusio Ossola) per l’interconnessione con la Svizzera: un’altra opera strategica che coinvolge anche le province di Novara e Milano.
I progetti bloccati
Numero di impianti per settore industriale (Fonte: Nimby Forum)
Questi tre progetti sono tra i più osteggiati, secondo il monitoraggio del Nimby Forum, insieme all’impianto di co-incenerimento di rifiuti non pericolosi Terni Biomassa, di Terni, e al permesso di ricerca per idrocarburi liquidi e gassosi denominato “Monte Cavallo”, di Shell Italia, in un’area che ricade tra Campania e Basilicata.
L’ultimo Osservatorio Nimby Forum ha censito 13 casi di sviluppo bloccato in meno rispetto al rapporto precedente. Ma non c’è da rallegrarsi.
Innanzitutto perché «il calo riscontrato è del tutto risibile» spiega Alessandro Beulcke, presidente dell’Osservatorio. E poi perché il calo è probabilmente ascrivibile «al progressivo abbandono dei progetti da parte delle imprese proponenti, che dirottano investimenti e risorse verso altre iniziative industriali, spesso fuori dai confini italiani» si legge nel rapporto.
LA RICERCA #N02.0
28 Aprile 2015
Se la sindrome «nimby» diventa virale
Del resto lo scenario è disarmante, come sottolinea Beulcke. «Ricordo il caso della Shell a Priolo: solo per la presentazione del progetto e le procedure sull’impatto ambientale la multinazionale spese una trentina di milioni». Insieme a Shell anche Erg lancia la spugna e sfuma così un piano di investimenti di circa mezzo miliardo. E quello di Priolo non è neppure il caso più clamoroso: cinque anni fa, nel marzo 2012, proprio al Sole 24 Ore British Gas annuncia l’addio all’Italia e al progetto di rigassificatore a Brindisi. Troppi undici anni di lungaggini e una spesa di 250 milioni per nulla. Addio a un progetto da 800 milioni e a 1.100 occupati.
«Altrove, come in Francia ad esempio, le procedure durano 6-8 mesi, da noi invece servono anni – conferma Alessandro Beulcke –: un’azienda pensa di ottenere risposte sulle valutazioni ambientali entro 180 giorni (come dovrebbe essere), invece l’iter diventa spesso di 360 o più. E poi sono quasi automatici i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato da parte degli oppositori». Ricorsi che spesso finiscono in niente – come le decine contro le richieste di ricerche sugli idrocarburi, rigettate nei mesi scorsi –: «Si tratta sovente – sottolinea il presidente dell’Osservatorio – di ricorsi temerari che, però, non vengono sanzionati».
INFRASTRUTTURE
21 marzo 2016
Per la Torino Lione 400 milioni di sovra costi contro i No Tav
A sollevare le maggiori opposizioni sono soprattutto i progetti energetici (196 casi), poi la gestione dei rifiuti (130 tra discariche e termovalorizzatori), quindi le infrastrutture (strade e ferrovie). Un primato tutto italiano frutto di «lungaggini buracratiche, complicazioni politiche e un uso distorto delle informazioni, con una critica che raramente è costruttiva» spiega Beulcke. Il risultato di questo mix è che la politica spesso sceglie, soprattutto sui territori, di «assecondare la protesta. Mentre sulle opere strategiche dovrebbe decidere solamente il governo centrale. Il caso Tap è emblematico e oltretutto si parla di lavori di una banalità ingegneristica sconvolgente. Dall’effetto Nimby – sottolinea Alessandro Belcke – si sta passato al Nimto: not in my terms of office, non nel mio mandato».

Anche il grande giurista raccoglie la crescente preoccupazione di quanti vedono i poteri dominati da un'idea deforme ed inumana dello "sviluppo" proseguire della folle dissipazione del patrimonio essenziale dell'umanità: la Terra. la Repubblica, 20 marzo 2017
Le generazioni future hanno fatto il loro ingresso nel dibattito pubblico. Ciò, perché la condizione dei viventi è oggi inedita. La Terra (intesa come ambiente fisico e sociale), per millenni, si è pacificamente considerata la base di perpetua riproducibilità nel tempo della vita degli esseri umani, quali che fossero le offese che i suoi figli potevano infliggerle. Oggi non è più così. Le odierne capacità distruttive, di gran lunga superiori alle capacità rigenerative delle risorse della natura fisica e dei legami sociali, fanno dubitare circa la sensatezza della formula di Thomas Jefferson al tempo della Rivoluzione americana: «La terra appartiene ai viventi». Era, in origine, una formula polemica verso un passato opprimente, che esprimeva l’ansia di liberazione da un peso, per permettere l’espansione della creatività della generazione attuale.
Oggi, quella formula significherebbe cecità di fronte alle esigenze di futuro. Un tempo ci si poteva concedere il lusso d’essere ciechi; non più oggi. Le capacità di consumo e di distruzione delle risorse vitali, associate all’egoismo dei viventi protetto dall’ideologia dei diritti appropriativi e distruttivi di risorse comuni, sono tali da minacciare la riproduzione della vita. (...) Il discorso sui «diritti delle generazioni future» è un tentativo, se non di colmare la distanza, almeno di tematizzare la minaccia incombente su un pianeta le cui forze vitali, lo stock energetico e le sue capacità di rinnovamento sono in declino, insidia
te da un consumo quantitativo e qualitativo crescente. È stato detto che per millenni la Terra si è presa cura dei suoi figli, fornendo loro in abbondanza ciò di cui necessitavano; oggi — segno di senescenza del nostro habitat — sono i figli a doversi prendere cura della loro madre-Terra.
Le buone intenzioni si scontrano e soccombono di fronte agli interessi immediati. Le «generazioni future» chiedono moderazione nell’uso delle risorse alla generazione presente e dunque propongono un conflitto tra ciò che esiste e ciò che non esiste, appartenendo esse, per l’appunto, al mondo che deve ancora venire e nemmeno è certo che verrà. Così, gli inquinamenti, la produzione di anidride carbonica e di sostanze chimiche letali, la distruzione delle risorse ambientali ed energetiche, la tecnologia non solo di vita ma anche di morte, i mezzi di riduzione dell’autonomia personale procedono senza sosta per la forza della realtà, malgrado gli allarmi sempre crescenti e per lo più impotenti. Ciò fa temere che vi sia un’incoercibile forza interna al sistema di relazioni economiche e sociali entro il quale viviamo, una forza a sua volta nemica dei nostri figli e dei figli dei nostri figli.
Le questioni così sollevate interpellano la nostra stessa visione costituzionale della vita. Il costituzionalismo può ignorarle? Se il suo nucleo minimo essenziale e la sua ragion d’essere sono la protezione del diritto di tutti all’uguale rispetto, la risposta, risolutamente, è no, non può ignorarle. Fino alle soglie del tempo nostro non c’era ragione di affrontarle. Ogni generazione compariva sulla scena della storia in un ambiente naturale e umano che, se pure non era stato migliorato dai padri, certamente non ne era peggiorato fino a comprometterlo. Il costituzionalismo non ha avuto, fino agli anni recenti, ragioni per preoccuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali. Ma, molti motivi ne ha oggi, e drammatici.
Per quale ragione la cerchia de «i tutti» che hanno il diritto all’uguale rispetto dovrebbe essere limitata ai viventi e non comprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per rispondere che non c’è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani hanno lo stesso diritto all’uguale rispetto, perché uguale è la loro dignità, quale che sia il loro momento. Al tempo nostro, le parole di Thomas Jefferson dovrebbero essere sostituite con «la Terra appartiene ai già viventi, tanto quanto appartiene ai non ancora viventi». «La Terra appartiene ai viventi», invece, spezza ogni legame di debito e credito tra ogni generazione e autorizza ciascuna di esse a sfruttare «la Terra» fino in fondo. Oggi sappiamo che, se fosse davvero così, correremmo il rischio di non poter parlare di «ogni generazione». In tal modo, il discorso sulle generazioni future ristabilisce il legame di debiti e crediti che per secoli si teorizzava esistere tra viventi e non viventi, cambiando però direzione: per secoli, i figli sono stati considerati debitori nei confronti dei padri; oggi, i padri si devono sentire debitori nei confronti dei figli.
I diritti di credito dei figli nei confronti dei padri possono essere considerati il risvolto al futuro di quello che Hans Jonas, in un testo fondativo di questa tematica, Il principio responsabilità, ha considerato essere la pretesa, fondamentale quanto altra mai, dei nostri successori di trovare un mondo in condizioni almeno non peggiori di quelle che noi stessi abbiamo trovato. È sua la formulazione del cosiddetto «imperativo ecologico»: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di un’autentica vita umana sulla terra».
Questa norma etica fondamentale rappresenta un’estensione nel tempo a venire dell’imperativo kantiano circa la necessaria idoneità a valere in generale della massima, cioè del criterio, d’ogni azione morale. Tale imperativo, nella versione di Kant, contiene un nucleo totalizzante, incompatibile con la pluralità degli universi culturali che caratterizzano le società umane. È un «imperativo imperialistico » e, come tale, svolse la sua funzione nel tempo dell’Europa-centro-del-mondo. Può funzionare senza minaccia d’intolleranza solo quando tutti si riconoscano pacificamente nel medesimo universo etico. Altrimenti, esso contiene una implicita, seppur inespressa, valenza aggressiva, colonizzatrice. Ma, l’anzidetto imperativo ecologico sfugge a tale difficoltà, in quanto si basa su un principio universale che non può non unire tutti gli esseri viventi: possiamo sì mettere a repentaglio la nostra vita, ma non quella dell’umanità; (…) Achille aveva sì il diritto di scegliere per sé una vita breve di imprese gloriose piuttosto che una lunga vita di sicurezza oscura (…); ma (…) noi non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo rischiare il non-essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali.Perché non abbiamo questo diritto e perché abbiamo invece un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora né «in sé» ha bisogno di esistere, e comunque in quanto non esistente non ne avanza la pretesa? Non è affatto facile dare una fondazione teorica a questi perché. Jonas suggerisce il dubbio che sia impossibile senza la fede in una religione, quantomeno nel senso della religiosità di un Thomas Mann, dichiarata in una lettera al filologo e studioso del mito Károly Kerény : religione «come contrapposizione alla trascuratezza e all’incuria, religione come attenzione, ponderazione, riflessione, coscienziosità, contegno prudente e sollecito, perfino come metus e, per finire, attenta sensibilità verso i moti dello spirito universale».
Tuttavia, a onta delle difficoltà, chi oserebbe proclamare un assioma contrario, cioè che qualcuno abbia, o che tutti insieme abbiamo il diritto di distruggere il mondo o di preparare per i nostri posteri una condizione di vita disumana in vista dell’egoismo della generazione alla quale apparteniamo o, ancor peggio, in vista dell’egoismo dei potenti che godono della loro potenza nella generazione alla quale appartengono?
Sarebbe, questa, una massima generalizzabile? Non c’è alcuna ragione per restringere alla sola contemporaneità il criterio morale di giustizia di cui parla la massima kantiana.
Anticipiamo un brano dal nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky, Diritti per forza ( Einaudi, pagg. 144, euro 12). Il volume sarà in libreria da domani

«Indiani d’America accampati con le loro tende a pochi passi dalla Casa Bianca. Ma il megaprogetto Dakota Pipeline non si ferma». la Repubblica, 12 marzo 2017 (c.m.c.)
Washington. Alla fine di un lungo sentiero delle lacrime, a duemila e cinquecento chilometri dalla loro terra all’altro capo del tempo e dell’America, Lakota Sioux, Cheyenne, Arapaho, Corvi, Cherokee hanno portato a Washington la loro invincibile sconfitta. Nel gelo di un weekend che li aveva accompagnati dalla tundra delle Grandi Pianure del Nord, hanno tentato l’ultima battaglia contro l’ennesimo stupro che il “Uasìchu”, l’Uomo Bianco, “colui che si prende il grasso e lascia le ossa agli altri” in lingua Lakota, sta compiendo nel corpo della loro terra. Ma sanno che il tubo di acciaio che il nuovo oleodotto pomperà dai giacimenti del Nord Dakota fino a Chicago sotto la terra, i laghi, i ruscelli delle loro riserve si farà, si sta facendo, perché così ha ordinato il Viso Pallido dai Capelli color di Carota che vive nella grande tenda bianca.
Per due giorni, anche sotto un improvviso nevischio che ha stroncato le prime fioriture dei ciliegi giapponesi nel centro della città, gli indiani, guidati dai Lakota Sioux della Standing Rock Reservation in South Dakota, hanno alzato i loro tipì di tela, prima davanti al massiccio palazzo della Posta divenuto oggi un Hotel Trump e poi attorno all’obelisco di marmo dedicato a George Washington. Hanno portato in corteo, nei canyon di cemento e vetro delle strade dei lobbysti, serpentoni di gomma per rappresentare l’oleodotto e per gridare “L’acqua è vita”, quell’acqua che le inevitabili fughe di greggio intossicheranno con foto di paperelle incatramate e di volpi stecchite.
Si sono accampati e hanno danzato con i piumaggi d’onore, lance e tomahawk, a torso nudo davanti alla Casa Bianca, cantando “Trump must go”, se ne deve andare e si sono concessi qualche amara ironia, come Jobeth Brownotter, Lontra Bruna. Indossava uno dei cappellini distribuiti a milioni dalla campagna elettorale di Trump con la scritta “Make America Great Again”, rifacciamo grande l’America, ma trapassato da una freccia, come nei vecchi film western.Ma che cosa può una tenda di tela contro grattacieli di acciaio e cemento? Niente. La Dakota Access Pipeline, che porterà mezzo milione di barili di greggio al giorno dai giacimenti di Bakken ai dintorni di Chicago per mille e 500 chilometri è stata sbloccata immediatamente dopo l’insediamento di Grande Capo Pel di Carota.
Obama ne aveva fermato l’ultimo tratto, quello che perfora la terra della Riserva della Roccia Eretta, ma sapeva che sarebbe stato solo un gesto. Per ordine del nuovo Presidente, il Genio Militare ha rinnovato l’autorizzazione. I bulldozer sono tornati a rivoltare la terra che conserva le ossa degli antenati e lo spirito della loro anima. La Guardia Nazionale e gli sceriffi hanno sloggiato l’ultimo accampamento di Lakota che erano rimasti appesi ai loro stracci nel gelo di febbraio. E la talpa ha ripreso a scavare.
Hanno danzato, ma che cosa può una danza contro un governo che ha scelto, per il secondo, più importante ministero dell’Amministrazione, Rex Tillerson, il boss della Exxon Mobil, un grande sciamano del liquido nero. I leader della marcia, molti dei quali erano donne, si aggrappano a uno dei tanti, effimeri trattati che il governo dei soldati blu firmarono con le nazioni della Grande Prateria a Fort Laramie, nel 1851 e che garantiva anche ai Sioux il controllo delle loro terre in cambio del diritto di passaggio delle carovane dei pionieri e di pochi dollari mai versati, Ma nel 1924, dopo guerre, violazioni spudorate, semi-estinzione dei bisonti che erano la vita delle nazioni di cacciatori nomadi, e rotaie, i diritti territoriali dei nativi furono cancellati in cambio del riconoscimento della cittadinanza americana degli indiani e i tribunali da allora dibattono e decidono che cosa ancora resti di quei trattati ottocenteschi.
Hanno speso duecento mila dollari per organizzare la marcia sulla capitale, partita dai Lakota della Roccia Eretta che sono appena 8 mila, ma che cosa possono quei soldi contro i 3,78 miliardi di dollari investiti da società petrolifere e prestati dalle maggiori banche del mondo, dalla Citi alla Paribas, dalla Wells Fargo alla Société Générale, per costruire l’oleodotto. Per loro si è mossa soltanto la senatrice Democratica del Massachusetts, Elizabeth Warren, che vanta lontane origini Cherokee, ma nei chilometri di cammino fra la stazione di Washington e la Casa Bianca, i pochi turisti dissuasi dal freddo, e i pochissimi washingtoniani, incalliti da ben altre manifestazioni, li guardavano come una curiosità folcloristica.
Hanno pregato, ma che cosa possono le preghiere di qualche superstite del genocidio indiano contro la sete inestinguibile di petrolio che noi abbiamo? Il sogno è l’autonomia energetica, la benzina a poco prezzo, la liberazione degli Stati Uniti dal ricatto dei Paesi produttori, e che importa se qualche Lakota Sioux saltella, se una donna Cheyenne canta contro la Casa Bianca e 131 geologi, ambientalisti, ingegneri avvertono che sicuramente quelle tubature avranno perdite e fughe? Certo non importa a Donald Trump, il Presidente che invoca l’America First, ma si dimentica dei First Americans. Dei primi americani.
«Il processo di smantellamento è solo all’inizio: è difficile trovare tecnici disposti a esporsi alle radiazioni, così alcune aziende appaltatrici, legate ai clan di yakuza, ricorrono a manodopera meno tutelata». Il Fatto Quotidiano online, blog China files, 11 marzo 2017
Oltre 21 mila miliardi di yen (circa 170 miliardi di euro): è questa la stima più recente del costo totale dei lavori di bonifica e smantellamento della centrale nucleare di Fukushima Daiichi (in giapponese “Numero 1”), per una durata dei lavori prevista tra i 30 e i 40 anni. Appena tre anni fa le stime dei costi — che comprendono anche gli indennizzi versati alle famiglie evacuate dalle aree limitrofe all’impianto — erano dimezzate. L’11 marzo di 6 anni fa un terremoto di magnitudo 9.0 colpiva la regione del Tohoku, nel nordest del Giappone, innescando uno tsunami alto fino a 40 metri che ha causato la morte di 19mila persone. L’evento provocava anche malfunzionamenti nell’alimentazione dei reattori alla centrale scatenando un triplo meltdown.
Circa 160mila persone residenti intorno all’impianto furono costrette a evacuare la zona a causa della fuoriuscita di materiali radioattivi. Oggi, mentre la regione del Nordest cerca, a fatica, di rialzarsi, la centrale di Daiichi è ancora un enigma. In superficie, come racconta il Guardian, i lavori di messa in sicurezza procedono: le strutture esterne dei reattori danneggiate dalle esplosioni verificatesi poche ore dopo il terremoto e lo tsunami sono state messe in sicurezza e il terreno è stato coperto da materiali impermeabili che tengono l’acqua piovana in superficie.
Sono state aggiunte alcune strutture per il relax dei lavoratori tra cui una mensa e, a un km dall’impianto un piccolo supermercato aperto dalle 6 del mattino. Tuttavia i problemi rimangono e la loro soluzione sembra sempre più complessa. A cominciare, appunto, dalla gestione dell’acqua contaminata, un mix di quella pompata da Tepco per raffreddare i reattori e di quella sotterranea che scorre dentro i reattori nel suo corso dalle colline intorno alla centrale verso l’oceano. Nemmeno il “muro di ghiaccio” – una serie di tubature con tecnologia refrigerante inserite nel terreno della centrale intorno ai quattro reattori danneggiati, un’opera da circa 200 milioni di euro – è servito a impedire all’acqua di entrare nei reattori e fuoriuscire poi nell’oceano.
Tepco ha dovuto aggiungere dei pozzi di “sottoscarico” per raccogliere l’acqua, drenarla negli impianti di filtraggio e scaricarla nell’oceano. La maggior parte dell’acqua contaminata viene raccolta in cisterne saldate, alte 10 metri per 12 metri di diametro, che hanno gradualmente sostituito quelle a flange. All’interno di queste sono contenute oltre 900mila tonnellate d’acqua contaminata. Secondo quanto riferito dal settimanale Sunday Mainichi, oggi la parte collinare dell’impianto si presenta come una vera e propria “foresta” di cisterne di stoccaggio.
La sfida più complessa è poi quella del ritrovamento — e della conseguente rimozione — del combustibile nucleare sciolto depositatosi al fondo dei recipienti in pressione dei tre reattori gravemente danneggiati durante il terremoto e tsunami dell’11 marzo 2011. A fine 2014 Tokyo Electric (Tepco), la utilty energetica più grande del Giappone che gestisce anche i lavori di smantellamento del sito, era riuscita a rimuovere oltre 1500 barre di combustibile nucleare dal reattore numero 4, dove la bassa radioattività permetteva maggiori margini di manovra. Discorso diverso per i reattori 1, 2 e 3.
A causa dell’alta radioattività, l’azienda ha scelto di operare a distanza inviando robot in grado di raccogliere immagini e informazioni utili. La strategia non ha finora avuto successo. L’ultimo tentativo è stato fatto a febbraio di quest’anno.
Scorpion, un robot lungo circa 60 cm e dotato di telecamere, una sulla “coda”, che può essere alzata rispetto al livello del corpo, e rilevatori di temperatura e radiazioni progettato da Toshiba, è stato inviato all’interno del reattore numero 2, dove, in precedenza, erano stati registrati alti picchi di radioattività. La sua missione, la cui durata era stata programmata in 10 ore, è stata annullata dopo appena due ore.
Il robot ha incontrato difficoltà di movimento dovute — secondo le dichiarazioni ufficiali di Tepco — probabilmente “alle radiazioni o a degli ostacoli”. La macchina è stata costruita per resistere a un’esposizione fino a mille sievert per ora, abbastanza da riuscire a resistere agli alti livelli di radioattività registrati — tra i 250 e i 650 sievert per ora — impossibili da sostenere per un essere umano e difficili anche per robot di ultima generazione.
Tepco ha fatto sapere di essere riuscita a raccogliere informazioni importanti e che ha in programma di cominciare con l’estrazione di altre 500 barre di combustibile dal reattore 3 a metà del prossimo anno. Ma sui lavori di bonifica aleggiano altre ombre, in particolare circa le forniture di forza lavoro. Oggi nella centrale lavorano circa 6mila tecnici e lavoratori, alcuni esposti a dosi di radiazioni superiori alla media.
Recenti resoconti dei media giapponesi hanno rivelato che in alcuni casi i lavoratori sono poco preparati e troppo anziani per resistere a lunghe ore di lavoro. Nessuno vuole oggi lavorare a Fukushima, anche perché una volta finito l’incarico il reinserimento sociale dei lavoratori è complicato da episodi di discriminazione e isolamento. Qualcuno, però, lo deve pur fare. Così per sopperire alle carenze di manodopera, alcune aziende appaltatrici — alcune delle quali legate ai clan di yakuza — hanno reclutato senzatetto e anche qualche straniero, in particolare brasiliani di origine giapponese.
«Siamo all’inizio della scalata a una montagna», ha dichiarato Naohiro Masuda, direttore dei lavori alla centrale, al settimanale economico Toyo Keizai. «Abbiamo capito che tipo di equipaggiamento ci serve». Più critico, invece, è stato un tecnico di Greenpeace raggiunto dal Guardian. Le operazioni di smantellamento di Fukushima Daiichi, ha detto, sono un’opera che va «al di là di ogni umana comprensione».
«Il testo approvato dal Senato, ora in discussione alla Camera, prevedeva che chi estrae dagli impianti nelle zone protette dovesse contribuire alle spese per il recupero ambientale». il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2017 (p.d.)
A volte la toppa è peggio del buco: è capitato in commissione Ambiente, ieri, alla Camera. Si discuteva la proposta di riforma dei parchi nazionali e delle aree protette (non si è conclusa, si continuerà a fine marzo) e, tra i 700 emendamenti arrivati e la fretta di chiudere una vicenda che va avanti da anni, è saltato proprio uno dei punti contestati dagli ambientalisti. Paradossalmente, però, si è trasformato in un regalo a petrolieri e impianti d’energia.
Nel dettaglio: la riforma della legge 394 del 1991, licenziata a novembre dal Senato, prevedeva che per le concessioni già esistenti rilasciate agli impianti di sfruttamento delle risorse naturali (da quelli idroelettrici a quelli estrattivi fino alle biomasse), agli “Enti parco” fosse versata una quota “per concorso alle spese per il recupero ambientale e della naturalità”. Tradotto: chi aveva già avuto l’autorizzazione a sfruttare le risorse del parco, poteva continuare a farlo purché pagasse. Per le concessioni petrolifere, ad esempio, doveva essere versato annualmente un terzo del canone di concessione. Ora, invece, si chiederà una tantum di cui, ammesso che la versino, il 70 per cento andrà a finanziare il Programma triennale dei parchi. In pratica, si rimanda al futuro l’applicazione di un articolo che era stato inserito nel Collegato ambientale – prima che il governo lo facesse decadere – che prevede l’istituzione dei cosiddetti “servizi ecosistemici”. In parole semplici: si valuterà di volta in volta la pressione degli impianti sul territorio e in che misura ci sia bisogno di un intervento riparatorio. Complicato: le pressioni dei portatori d’interesse continueranno anche quando la riforma passerà in commissione Bilancio, con il rischio che sia eliminata anche questa unica misura riparatoria.
Resistono, poi, molti punti critici, segnalati anche ieri dalle associazioni e, nei giorni scorsi, da ambientalisti e accademici. “Ci sembra una riforma senza una grande visione – spiega Dante Caserta, vicepresidente di Wwf Italia – La legge del 1991 aveva un’ispirazione. Questa fotografa la situazione e fa qualche aggiustamento”. Le polemiche riguardano soprattutto la governance dei parchi: “La scelta di presidente e direttori fa riferimento alle competenze – spiega Caserta – I parchi nazionali sono solo venti, comparabili ai nostri musei: ma non viene chiesto un concorso. Stessa cosa per il presidente, non si capisce perché non debba avere competenze specifiche. Alla fine conterà di più la carriera politica”.
Un punto sul quale la commissione ritiene di aver inserito i necessari accorgimenti. “Abbiamo rafforzato la sinergia nazionale – spiega Ermete Realacci, presidente Pd della commissione Ambiente – Il bando per la selezione dei direttori dovrà essere approvato dal ministero dell’Ambiente, si sceglierà da una terna di tre candidati e la commissione avrà al suo interno anche un membro del ministero. Poi, il consiglio del direttivo: sarà formato sempre da 8 membri, consentendoci di far entrare un rappresentante delle associazioni scientifiche”. Resta polemica sulla presenza, nei consigli, degli agricoltori: “Sono portatori di interessi economici specifici – dice Caserta – Allora perché non le altre attività imprenditoriali?”.
Confermato l’inserimento di un piano triennale per le aree protette (già previsto nella 394): prevede una politica di gestione nazionale e un finanziamento di dieci milioni di euro all’anno (oggi alle aree protette sono destinati circa 90 milioni all’anno). Nelle intenzioni, il piano dovrebbe garantire più sostegno anche ai parchi regionali (a cui è destinato il 50 per cento dei fondi, in cofinanziamento con le Regioni), ammesso che stiano alle regole previste dal piano. “I soldi? Per me ci vorrebbero almeno 200 milioni in più”, ammette lo stesso Realacci.
«Su 229 siti naturali riconosciuti dall’Unesco come eredità naturale dell’umanità, 145 luoghi, il 63%, sono stati danneggiati dall’impronta umana negli ultimi 20 anni». Altreconomia, 7 febbraio 2017, con postilla (c.m.c.)
Secondo una ricerca australiana pubblicata a inizio febbraio, il 63% dei Natural World Heritage Sites sono stati danneggiati da attività umane negli ultimi vent’anni. Il 91% di questi sono foreste e l’Asia è il continente più colpito. Intervista al responsabile dello studio «Che cosa fareste se il governo italiano buttasse giù il Colosseo per fare degli appartamenti?».
James Allan è il responsabile del team di ricercatori provenienti dalle università del Queensland in Australia e dalla North British Columbia: insieme alle associazioni Wildlife Conservation Society (Wcs) e all’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucne) ha pubblicato sulla rivista Biological Conservation, a inizio febbraio 2017, uno studio sull’espansione delle attività umane nei luoghi protetti dall’Unesco come patrimonio naturale dell’umanità. «I Natural World Heritage Sites -spiega- vanno considerati alla stregua dei grandi patrimoni culturali del Pianeta».
Il Parco di Yellowstone negli Usa, il Parco Nazionale del drago di Komodo in Indonesia, il Parco e Santuario Nazionale di Manas in India e anche il Chitwan National Park in Nepal, l’Area di Conservazione del Pantanal in Brasile o il Parco Nazionale delle Serengeti in Tanzania sono alcuni tra i siti naturali protetti dalla convenzione internazionale siglata 45 anni fa da più di 190 Paesi.
Su 229 siti naturali riconosciuti dall’Unesco come eredità naturale dell’umanità, 145 luoghi, il 63%, sono stati danneggiati dall’impronta umana negli ultimi 20 anni. Ogni sito ha perso mediamente dal 10 al 20% di superficie protetta dal 2000 ad oggi. «I danni sono causati maggiormente dalla agricoltura espansiva, dall’aumento della densità di popolazione, dall’aumento dei pascoli per l’allevamento all’interno dei confini protetti ed infine, certamente, dall’aumento delle infrastrutture», spiega James Allan ad Altreconomia.
Il 91% dei luoghi “colpiti” sono foreste, con l’Asia che spicca tra i continenti più colpiti, registrando in 16 anni un aumento di interventi umani nelle aree protette di quasi il 10%. Nel Santuario naturale del Manas l’impatto dell’uomo è passato dal 11,8% nel 1993 al 17% nel 2009, aumentando di più del 5%. Se consideriamo il consumo di foresta, il Parco internazionale della pace Waterton-Glacier in Canada è al primo posto con 540,7 chilometri quadrati in meno in 11 anni. Il Parco Nazionale del Grand Canyon (Usa) ha registrato una perdita di quasi il 10% con 38,2 chilometri quadrati sottratti e la Riserva della Biosfera del Rio Plátano (Honduras) ha perduto 365 chilometri quadrati in un decennio. Anche per il più famoso tra i parchi, il Parco di Yellowstone sono 217 i chilometri quadrati persi in una decina di anni.
Per quanto riguarda l’Europa, la ricerca ha ottenuto risultati parziali perché -come spiega Allan- «i siti sono stati molto modificati nel passato e adesso risultano già alterati». Rimane da considerare che «la pressione del turismo e il cambiamento climatico continuano oggi a minacciarli, ma nella ricerca non siamo riusciti a quantificare questi fenomeni perché i metodi per la raccolta dei dati devono essere globalmente uguali per poterli comparare tra loro».
«Le perdite -continua Allan- stanno aumentando. Portando problemi e gravi conseguenze ai Paesi, che avranno danni sia ambientali sia di prestigio culturale. Anche gli abitanti subiranno impatti, in particolare le comunità locali che vivono nei pressi dei siti». Una volta danneggiato, un luogo lo “è per sempre”, afferma Allan-. «Un sito naturale porta opportunità di crescita e turismo sostenibile per il Paese, che in questo modo andranno persi».
Davanti a questa situazione si aprono due scenari. Il primo è continuare senza intervenire: «I siti verranno danneggiati e compromessi, diventeranno sempre più piccoli e il loro valore andrà perso» spiega il ricercatore. Ma c’è un secondo scenario: «Agiamo immediatamente. Impieghiamo questo studio per richiamare alla lotta per i nostri patrimoni. Non lasciamoli costruire in un sito naturale. Se prendiamo una forte posizione possiamo salvare i nostri patrimoni naturali».
Il team di ricercatori lancia un appello all’Unesco con la speranza che la loro ricerca sia riconosciuta e inserita ufficialmente nel sistema di monitoraggio. «I satelliti per il rilevamento e la mappatura non mentono e ci mostrano una rappresentazione onesta di che cosa stia accadendo nei siti». La responsabilità, però, rimane in capo ai singoli Stati perché malgrado la Convenzione del 1972 che impegna gli stati a preservare il patrimonio naturale, l’Unesco «è solo una piattaforma» per coordinare le attività. «Il concetto di patrimonio mondiale è grande, ma abbiamo bisogno dei Paesi per farlo rispettare».
postilla
Nell'articolo vi si accenna, ma è utile precisare che l'Unesco, come tutte le agenzie dell'ONU, è un ente i cui organi decisionali sono costituiti dai rappresentanti dei governi nazionali. E' quindi estremamente difficile che l'Unesco si esprima contro la volontà dei governi (soprattutto di quelli che più contribuiscono al finanziamento dell'agenzia) . Per di più le raccomandazione dell'Unesco non prevedono alcuna sanzione nel caso che i governi le disattendano. Dire che è uno strumento assolutamente inefficace è dire molto poco.
«"Il mondo al tempo dei quanti” di Agostinelli e Rizzuto affronta il nodo cruciale del rapporto tra scienza, economia e politica. Tentando di rispondere a una domanda: è possibile, e in che modo, democratizzare oggi tecnica e capitalismo?». Sbilanciamoci.info, newsletter n 503, 7 febbraio 2017
Mario Agostinelli e Debora Rizzuto, Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è più quello di una volta, Mimesis Edizioni, 2017, pp. 274, € 22.00
Trent’anni di ideologia neoliberista&ordoliberale e di utopie solo tecnologiche dovrebbero averci portato alla consapevolezza di essere a un bivio: decidere se proseguire sul piano inclinato deterministico del tecno-capitalismo e lentamente implodere (o peggio, esplodere); o provare a invertire la rotta o almeno deviarla, riprendendo i comandi della nave – o dell’aereo, secondo la metafora di Zygmunt Bauman, morto nelle scorse settimane, quando scriveva: «I passeggeri dell’aereo ‘capitalismo leggero’ scoprono con orrore che la cabina di pilotaggio è vuota e che non c’è verso di estrarre dalla misteriosa scatola con l’etichetta ‘pilota automatico’ alcuna informazione su dove si stia andando». In realtà, all’orrore ci stiamo abituando, posto che dopo dieci anni di crisi siamo ancora nella palude dell’austerità europea e alla deregolamentazione (e non alla ferrea ri-regolamentazione) dei mercati finanziari (Trump); e che l’unica reazione sembra essere quella di cercare l’uomo forte o il populista o il leader carismatico e visionario, barattando ancora una volta, come scriveva Freud, la possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.
Dunque, il problema vero di questi ultimi decenni è quello del rapporto tra democrazia ed economia&tecnica. Un rapporto che è sempre più un conflitto (una guerra, secondo i francesi Dardot e Laval), ma che il tecno-capitalismo sa tenere ben nascosto sotto le forme apparentemente libertarie dell’individualismo neoliberista, della rete come libera e democratica, del tecno-entusiasmo come immaginario collettivo dominante. Per cui, direbbe il ‘pessimismo della ragione’, ci stiamo lentamente abituando al disastro, senza neppure più l’orrore di Bauman, e per di più rimettendo nella cabina di comando i nuovi uomini forti – che però non portano visioni nuove ma alla democratura secondo Pedrag Matvejevic (anche lui scomparso da poco), o alla non-più-democrazia secondo noi.
E allora, posto che tecnica e capitalismo sono strutturalmente a-democratici e quindi programmaticamente o tendenzialmente anti-democratici, ogni riflessione su tecnico-scienza e capitalismo è benvenuta, soprattutto se dichiara da subito – come fanno Mario Agostinelli e Debora Rizzuto in questo loro Il mondo al tempo dei quanti (Mimesis Edizioni) – che «la comprensione e la gestione democratica e consapevole della scienza e della tecnologia devono essere la nuova frontiera della politica» (lasciando così spazio all’ottimismo della volontà); una democrazia «che non si può consumare alla velocità della luce» perché è una «prospettiva che necessita di un tempo umano e che non può essere predeterminata dall’accanimento dei tecnocrati». I due autori vengono dal mondo della scienza (cui Agostinelli ha aggiunto una lunga, intensa militanza sindacale, la partecipazione al Forum sociale mondiale e la presidenza dell’associazione Energiafelice) e provano allora a invitarci a modificare il nostro approccio, a pensare diversamente la scienza (che è cosa diversa dalla tecnica, anche se spesso amano con-fondersi tra loro), e la politica.
Partendo da un’idea di fondo: «questa crisi non può essere affrontata con gli strumenti e le ricette che ci hanno portato allo smarrimento attuale, con il fallimento o addirittura il dissolvimento dell’apparato culturale e istituzionale che ha fornito all’intero pianeta il mito dello sviluppo quantitativo come criterio salvifico e inderogabile per l’avvenire delle nuove generazioni. (…) Dallo schianto in corso sembra essersi invece preservata la scienza, anche perché ha cominciato a considerare la realtà e il mondo naturale in totale discontinuità rispetto al passato e alle regole che ancora apprendiamo a scuola. Era già accaduto, da Aristotele a Copernico e Newton che bisognasse riconnettere l’interpretazione del mondo a nuove visioni… Ciò non è invece ancora accaduto dopo la rivoluzione che relatività e quantistica hanno introdotto nella concezione dello spazio e del tempo…». Una nuova discontinuità di cui invece occorre prendere atto per agire conseguentemente. Che è cosa ovviamente diversa dall’immaginare gli scienziati come aspiranti redentori dell’umanità (ne aveva scritto, criticamente, Hans Magnus Enzensberger nel 2001), ma «il bisogno che le prove fornite dalle nuove teorie interpretative della realtà correggano pregiudizi e convinzioni che resistono in una società poco informata e che le politiche attuali continuano a incorporare nel processo decisionale. (…) Suggeriamo il metodo scientifico più aggiornato alla definizione e comprensione dei problemi sociali e di fornire per questa via strumenti di previsione economica meno labili, un facilitatore di decisioni alla politica e un metodo di rafforzamento del processo di partecipazione democratica».
Tornando a ripensare a quella natura reale che invece tecnica e capitalismo, tra new economy e realtà virtuale, ci hanno fatto dimenticare per oltre quarant’anni – analogamente al concetto di limite – e che presenta oggi il conto di un riscaldamento globale che molti (Trump, di nuovo) ancora negano. Non solo: «Nel quadro attuale, il prevalere della tecnocrazia nel controllo e nell’assegnazione dei tempi – di lavoro, di consumo, di riposo, di riproduzione, di ozio – accresce la disuguaglianza sociale, mentre la velocità imposta ai processi di produzione e di consumo demolisce i cicli naturali e intacca irreversibilmente la qualità della vita. In un frangente simile, una politica che ha passato la mano, prova a persuaderci di vivere in un eterno presente, che distoglie dal riprogrammare il futuro, indebolisce il ricorso alla memoria, disconnette la società dalle urgenze e dalle leggi che implacabilmente regolano la biosfera e le probabilità di riproduzione». Dobbiamo allora re-impadronirci del tempo. E soprattutto tornare a considerare la natura (l’ambiente) come entità che non possiamo più considerare come miniera da sfruttare – deterministicamente e a piacimento – perché considerata come illimitata dalla tecnica e dal capitalismo e dalle loro pedagogie. Il mondo naturale, ricordano Agostinelli e Rizzuto, ha invece una sua autonomia, delle ciclicità necessarie. E va conservato, per noi e per le generazioni future.
Il saggio è ampio e affronta molti temi all’ordine del giorno, dal potere degli algoritmi alla disoccupazione tecnologica, dall’energia al movimentismo sociale. Ma spazia anche in campi inconsueti, ad esempio la relazione tra arte e scienza. Le conclusioni sono nette. Il primo passo da compiere è quello di rivalutare la polis, «riconsegnando quindi alla politica e a un patto di democrazia sociale, il governo del cambio di fase». Il secondo «sta invece nel tematizzare e risolvere le attuali fratture ecologiche e sociali con una chiave di interpretazione, anche teorica, in continuo aggiornamento e in opposizione alla resa mistificatoria di un certo nuovismo usato al posto del cambiamento necessario». Mentre il terzo punto sarebbe una diffusione maggiore del pensiero scientifico, che «ridiscuta, potenzi e riaggiorni il metodo della rappresentanza e valorizzi (…) un apporto critico dal basso».
Ma allora, che fare? – nella classica domanda leniniana, ma anche tolstoiana. Lo riassumiamo, necessariamente per punti: cambiare l’immaginario politico; vincere la sfida climatica; cambiare il modello energetico; riappropriarci del tempo e ridurre gli orari di lavoro; mettere le briglie alla velocità; regolamentare la finanza. Su tutto c’è il tentativo – che condividiamo – di dare una risposta appunto alla questione di partenza: comedemocratizzare tecnica e capitalismo (ammesso che sia possibile), due sistemi che si credono (o che sono già oggi, se già vincono gli algoritmi e il machine learning) autopoietici e autoreferenziali; che sono forme di vita più che forme economiche e tecniche (cioè, mezzi). Complicando così ulteriormente la questione. E la sua soluzione.