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il manifesto, 22 aprile 2018. «Giornata della Terra. I rifiuti non vengono giù dal cielo e sono il risultato di comportamenti buoni, anzi lodevoli, dei singoli cittadini, di quelle operazioni di «consumo» delle merci che i saggi governanti invitano ad aumentare continuamente perché così gira meglio l'economia»



ll 22 aprile 1970 fu dichiarato «giornata della Terra» in molti paesi del mondo e anche in Italia. Fu un evento importante, i movimenti ambientalisti in Italia erano appena nati – Italia Nostra esisteva dal 1955, il Wwf era stato fondato due anni prima, la Legambiente sarebbe nata dieci anni dopo – ma era vivace la protesta contro i fumi delle fabbriche inquinanti, la congestione del traffico e l’avvelenamento dell’aria nelle città, le colline di rifiuti puzzolenti, l’erosione delle spiagge e delle colline. Amintore Fanfani, che allora era presidente del Senato, creò una commissione «speciale» invitando alcuni studiosi ad informare i senatori sui «problemi dell’ecologia».

Erano anni di lotte operaie e studentesche, era appena iniziata la dolorosa stagione degli attentati terroristici, ma la domanda di un ambiente pulito sembrava dare una luce di speranza per la costruzione di un mondo meno violento. Dell’ecologia, come si diceva allora, si cominciò a parlare nelle scuole, nelle università, nei partiti, nelle chiese.

In quella lontana «giornata della Terra» di quasi mezzo secolo fa sui muri delle città americane apparve un manifesto in cui era riprodotta la vignetta di un fumetto, allora celebre, Pogo, un opossum umanizzato che, come molti personaggi dei fumetti, ironizzava sul comportamento, nel bene e nel male, degli umani. Pogo guardava un diligente ecologista che gettava per terra un foglio di carta straccia, e Pogo si chinava a raccoglierlo mormorando sconsolato: «Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi».

Anche oggi quante volte si vedono delle degnissime persone, eminenti nella loro professione, che si dichiarano fedeli amici dell’ecologia, ma poi nella vita quotidiana si comportano in maniera esattamente contraria a quanto dicono di essere. Ciò avviene perché i comportamenti ecologicamente corretti sono scomodi e sgradevoli, tanto che devono essere regolati con leggi che puniscono (dovrebbero punire) le violazioni.

Prendiamo il caso dei rifiuti: in Italia ogni persona produce, in un anno, circa mezza tonnellata di rifiuti solidi domestici: verdura, carta straccia, imballaggi, plastica, vetro, scarpe rotte, frigoriferi e televisori usati; tre o quattro milioni di tonnellate di automobili vanno alla «rottamazione» contribuendo all’aumento dei metalli, gomme, oli usati che finiscono da qualche parte.

La grande massa dei rifiuti della vita civile è estremamente sgradevole: ingombra le strade, puzza, lascia colare liquidi che inquinano le acque dei pozzi e dei fiumi, impone dei sistemi di raccolta costosi e che intralciano il traffico. E, come nella commedia di Ionesco, «Come sbarazzersene», anche i rifiuti aumentano sempre di volume e aumenta il disturbo che arrecano agli altri cittadini, al «prossimo» vicino, della stessa strada o città, o lontano, del luogo dove sono localizzati la discarica o l’inceneritore e addirittura al prossimo planetario per l’emissione di gas (metano, anidride carbonica) che derivano dalla decomposizione o combustione dei rifiuti e che alterano il clima planetario presente e futuro.

Ma i rifiuti non vengono giù dal cielo e sono il risultato di comportamenti buoni, anzi lodevoli, dei singoli cittadini, di quelle operazioni di «consumo» delle merci che i saggi governanti invitano ad aumentare continuamente perché così gira meglio l’economia.

Si potrebbe avere lo stesso benessere, gli stessi servizi, gli stessi oggetti, generando meno rifiuti, arrecando «meno» danno al prossimo? Si potrebbe e addirittura è richiesto dalle leggi: le fabbriche potrebbero diminuire la massa degli imballaggi e produrre imballaggi riciclabili, ma è scomodissimo e costoso cambiare la forma e la fabbricazione delle merci. Le singole persone potrebbero raccogliere separatamente la carta straccia che potrebbe essere riciclata, lo stesso vale per il vetro e la plastica; ma queste operazioni che, prima di essere rispettose dell’ambiente sarebbero rispettose del prossimo, in senso cristiano, se volete, sono tutte scomode. Bisogna fare cento passi di più per raggiungere il cassonetto di raccolta della carta, bisogna avere cura e sapere — ma chi informa in maniera paziente e convincente ? — che non si deve mettere carta e plastica insieme, vetro e plastica insieme (perché così non si ricupera più né plastica né carta né vetro).

La possibilità di vivere in un ambiente meno violento e più sano non dipende tanto dalla moltiplicazione delle discariche o degli inceneritori o delle marmitte catalitiche, ma da un recupero dell’etica, del rispetto del prossimo, sollecitato dai governanti, dagli uomini di spettacolo, dagli uomini di chiesa che parlassero «opportune et importune», come scrive Paolo a Timoteo e come sta facendo adesso Papa Francesco. La mia modesta esperienza suggerisce che le persone sono migliori di quanto si pensi: l’altro giorno ho visto, in una grande città, un cassonetto in cui i cittadini erano invitati a mettere le bottiglie di vetro «bianco», più facilmente riciclabile di quello colorato: il cassonetto era strapieno e bottiglie bianche erano depositate tutto intorno: i cittadini avevano raccolto un invito fatto bene e avevano risposto facilmente. Forse «il nemico» di cui parlava Pogo, siamo proprio noi che non parliamo con chiarezza e non testimoniamo con coerenza l’ecologia professata a parole.

Il manifesto, 22 aprile 2017. Ricordiamo che per la nostra vita non c’è (ancora) un pianeta B, ma anche che sono trascorsi 21 anni di lotta per i diritti della terra i. Intervista di Luca Martinelli a Stefano Caserini e articolo di Gabriele Annichiarico

«SENZA UNA VERA POLITICA
IL PIANETA SOFFRIRÀ PER MILLENNI»
intervista di Luca Martinelli a Stefano Caserini

«Senza un’azione rapida e drastica pagheremo a lungo le conseguenze del riscaldamento globale. Ma per molti non c'è la percezione di azioni urgenti»

«Quel è lo stato del Pianeta? La risposta dei climatologi è chiara: gli effetti di ciò che accadrà nei prossimi 5 o 10 anni non riguarderanno solo la nostra e la prossima generazione. Le alterazioni provocate dall’eventuale inazione della politica, come quella del bilancio energetico del nostro pianeta, potrà avere conseguenze per decine di migliaia di anni dopo di noi» spiega Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano.

Mentre l’Italia celebra l’Earth Day, il ricercatore lodigiano – il cui ultimo libro è Il clima è (già) cambiato. 10 buone notizie sul cambiamento climatico, uscito nel 2016 per le Edizioni Ambiente – sottolinea come «il climate change ponga oggi una questione molto particolare, legata all’urgenza di intervenire. Siamo di fronte a processi fortemente influenzati da irreversibilità e inerzia – dice – Pensiamo ad esempio alla fusione, che è in corso, delle calotte glaciali: darà conseguenze per migliaia di anni. La ricerca scientifica sa che non basta ridurre l’uso dei combustibili fossili e le emissioni degli altri gas serra per essere a posto, per diminuire le temperature. Senza un’azione rapida e drastica pagheremo a lungo le conseguenze del riscaldamento globale. Però per molti, purtroppo, non c’è ancora la percezione della necessità di avviare azioni urgenti che influenzino il lungo termine».

Tra i «molti» lei include anche la politica?

Necessariamente. Pur riconoscendo l’importanza di una consapevolezza «dal basso» e di comportamenti individuali più corretti, sappiamo che questo genera cambiamenti lenti, e servono azioni decise e strategiche a livelli diversi. Quindi, questo dovrebbe essere accompagnato da esempi «attivi» di politica ambientale. Non chiediamo necessariamente di assumere posizioni rivoluzionarie: l’idea «chi inquina paga» è dell’economia neoclassica, quindi con opportune tassazioni potremmo ad esempio provare a ridurre il problema delle microplastiche di cui si parla in questi giorni. Eppure siamo in ritardo: abbiamo aspettato di vedere tratti importanti di mare contaminati dalle plastiche; abbiamo i dati, le fotografie, e procrastinare non ha senso. Credo che Paesi più ricchi, come il nostro, dovrebbero adottate legislazioni più incisive, anche per influenzare le economie emergenti, come Cina o India.

Con l’appello «La scienza al voto» (lascienzaalvoto.it) avete avanzato richieste ai partiti impegnati nelle politiche del 4 marzo. La risposta?

Se guardiamo ai programmi elettorali, vi si trova dentro qualcosa che ha a che fare con il climate change, più che in ogni altra campagna elettorale precedente. Si parla di decarbonizzazione, di adattamento ai cambiamenti climatici, e il punto di vista dei «negazionisti» è praticamente scomparso, anche perché ci si è resi conto che rinnovabili ed efficienza possono creare posti di lavoro. C’è però grande distanza tra livello di analisi, e la capacità di tradurre questi temi in elementi prioritari nell’azione governativa. L’appello ha ottenuto la firma di quasi tutte le forze politiche (tranne il M5S), e di fronte all’impasse attuale potrebbe anche diventare un elemento comune: la questione della transizione energetica potrebbe diventare elemento di raccordo. Nei programmi dei 5 Stelle e del Pd, ad esempio, c’è qualcosa di simile per quanto riguarda le azioni sull’efficienza energetica e contro il dissesto idrogeologico. Credo però che la classe politica non sia a conoscenza di quella che è la vera dimensione del problema del cambiamento climatico, e che affrontarlo può essere un’occasione anche per aumentare posti di lavoro e ridurre le diseguaglianze.

Dieci anni fa pubblicò per le Edizioni Ambiente il libro A qualcuno piace caldo. Errori e leggende sul clima che cambia. Nacque nel 2008 anche il sito climalteranti.it. Un bilancio?

Allora un articolo su due metteva in discussione il tema del cambiamento climatico. Oggi non è più così, per fortuna. Intanto, però, i dati del Cnr evidenziano nel nostro Paese un aumento medio delle temperature, rispetto al periodo di riferimento della fine del diciannovesimo secolo, di circa due gradi. Ed il segnale è chiarissimo in tutto il Mediterraneo, e non solo: nelle ultime settimane sono stati pubblicati altri articoli scientifici mostrano segni dell’indebolimento della «corrente del Golfo», che ha un impatto significativo sulla distribuzione del calore e sulla circolazione atmosferica. È un tema che il cinema ha toccato nel film «L’alba del giorno dopo», ma a differenza di quel copione, scritto violando una ventina di leggi della fisica e della oceanografia, l’impatto probabile non sarà una glaciazione ma un aumento del livello del mare negli Stati Uniti, e una maggiore incidenza delle ondate di calore estive verso l’Europa. E qui torno al punto di partenza della mia analisi: se manomettiamo la circolazione dalla corrente del Golfo, o i ghiacci del Pianeta, non potremmo tornare indietro nell’arco di qualche decennio, i tempi sono secoli e millenni.

17 APRILE, LA GIORNATA MONDIALE
DELLA LOTTA CONTADINA
di Gabriele Annichiarico

«Diritti. 21 anni di lotta contadina in difesa di terra e risorse naturali»

Il 17 aprile, quest’anno 21esimo anniversario della giornata mondiale della lotta contadina, è una chiamata internazionale in difesa delle risorse naturali minacciate dallo sfruttamento e dalla privatizzazione. Sono le derive del modello neo-liberista e gli accordi di libero scambio ad essere al centro della contestazione, quali strumenti responsabili della precarizzazione e dell’impoverimento dei piccoli produttori.

É il «25 aprile» della resistenza contadina, in ricordo delle vittime di una lotta politica che rivendica accessibilità alla terra e celebra una classe sociale (termine forse desueto, ma ancora politicamente e filosoficamente valido per questa categoria lavorativa) portatrice di valori quali la solidarietà (appunto, di classe), la difesa dei territori, la trasmissione di conoscenze e pratiche legate alla cura della terra, la promozione di pratiche di vita più virtuose ed in equilibrio con il nostro ecosistema, naturale e sociale.

Un movimento che è stato precursore delle contestazioni no-global prima e alter-mondialiste poi, poiché per primo ha colto le ragioni dell’opposizione al modello produttivo dell’industria agroalimentare globale.

Un movimento che più di altri ha saputo interpretare ed animare la contestazione internazionale agli accordi di libero scambio come il Ceta (fra Canada ed Unione europea), il Ttip (fra Stati uniti ed Unione europea) e l’Alena (fra Stati uniti, Canada e Messico), solo per citare i più celebri.

Una giornata per commemorare la strage del 17 aprile del 1996, quando 19 contadini venivano uccisi mentre occupavano delle terre incolte a Eldorado do Carajas, nello stato di Parà in Brasile, e quelle che si sono susseguite negli anni successivi.

Fra gli ultimi fatti di cronaca, l’uccisione di Marcio Matos (detto Marcinho), 33 anni, contadino e dirigente del movimento «Sem terra», freddato a colpi d’arma da fuoco mentre lavorava nel suo campo.

Una strage che non sembra avere fine, denuncia la Via campesina, realtà federatrice delle lotte contadine a livello mondiale. «A fronte di questa situazione, il movimento contadino promuove la dichiarazione delle Nazioni unite sui diritti dei contadini ed ogni altro lavoratore in zone rurale » ha dichiarato la Via campesina in un documento (Peasants fighting for justice, cases of violations of peasants’ human rights, Via campesina, 2017), censendo i casi di violenza e chiedendo un riconoscimento ufficiale « per assicurare al mondo contadino la protezione della vita e dei mezzi di sussistenza, accordando un diritto d’utilizzo e di gestione delle risorse naturali».

Una Opera, di dimensioni straordinariamente vaste, tra Egitto, Etiopia e Sudan, che modificherà delicati equilibri ambientali, nonché le condizioni di sopravvivenza di uomini e altri esseri. Ma il business è terribilmente appetitoso:3400 milioni di euro, impresa Salini-Impregilo

Le posizioni dell’Egitto e dell’Etiopia, appoggiata dal Sudan, sulla messa in funzione della Grande diga etiopica della rinascita (Gerd), sono ancora lontane. Anche l’ultimo incontro, avvenuto la settimana scorsa a Khartoum, si è concluso con un nulla di fatto. Lo ha dichiarato ufficialmente il ministro degli Esteri sudanese, Ibrahim Gandur, alla fine dell’incontro del comitato tripartito cui hanno partecipato i ministri degli Esteri, delle Risorse Idriche e dell’Irrigazione, oltre che i responsabili dei servizi di sicurezza e di intelligence dei tre paesi.

Gandur ha aggiunto che al prossimo incontro, di cui non ha precisato la data, parteciperanno solo i ministri incaricati dell’irrigazione, che dovranno sciogliere gli intricati nodi ancora sul tappeto in quel settore. Solo in seguito saranno raggiunti dagli altri componenti del comitato. Gandur ha insomma fatto sapere che è ancora non concordata la questione chiave: quanta acqua resterà disponibile per l’Egitto con l’entrata in funzione della diga.

L’Egitto, che dipende quasi totalmente dal Nilo per il suo sviluppo agricolo e industriale, oltre che per il consumo umano, vuole garanzie certe che non sarà intaccata la quantità di acqua che fluisce nel suo territorio annualmente, pari a circa 50 miliardi di metri cubi. Questo è, in estrema sintesi, il punto cruciale anche della Dichiarazione di principi, firmata da Egitto, Etiopia e Sudan nel marzo del 2015. I tre paesi si erano impegnati a raggiungere il consenso sulla valutazione dell’impatto ambientale della diga prima che fosse messa in funzione. Ma questo consenso è ancora ben lontano.

Pare che il problema più importante riguardi il tempo di riempimento del bacino, della capacità di 74 miliardi di metri cubi di acqua. L’Etiopia pensa ad un massimo di cinque anni, mentre l’Egitto chiede un periodo molto più lungo, per garantirsi un maggior flusso di acqua durante tutta quella fase del progetto.

Ma il governo di Addis Abeba non si ferma davanti agli ostacoli del negoziato. La Gerd, costruita sul Nilo Blu a pochi chilometri dal confine sudanese, è ormai vicina al traguardo. Già nello scorso agosto il 60% dei lavori previsti era stato completato, mentre i primi test per la produzione di energia elettrica sono programmati entro la fine di quest’anno, con l’entrata in funzione di 2 delle 16 turbine, che, a progetto completato, produrranno 6.000 megawatt di energia elettrica. Anche il riempimento dell’invaso è già iniziato.

Prezioso ecosistema a rischio

Perciò in Egitto si comincia a pensare ad un piano B, che permetta di differenziare l’approvvigionamento idrico, garantito ora quasi totalmente dal grande Nilo Blu. E così si ritorna a parlare del canale di Jonglei, che dovrebbe drenare l’acqua dispersa dal Nilo Bianco nel Sudd - una vastissima zona umida che occupa una buona parte del territorio delle regioni centro settentrionali dell’est del Sud Sudan, con una superfice stimata di 57 mila chilometri quadrati - riportandole nell’alveo del fiume. In questo modo il Nilo Bianco potrebbe garantire risorse idriche aggiuntive pari a circa 4,7 miliardi di metri cubi all’anno.

Si tratta di un vecchio progetto egiziano, risalente agli anni Settanta. La costruzione del canale iniziò nel 1978 e fu interrotta dallo scoppio della guerra civile, nel 1983, quando ormai erano stati scavati 240 chilometri, dei 360 previsti. Proprio la costruzione del canale fu una delle ragioni per cui le regioni meridionali del Sudan si ribellarono. Infatti nella palude del Sudd vivevano, e ancora vivono, milioni di capi di bestiame, la ricchezza delle tribù pastorali dei Dinka, dei Nuer e degli Shilluk. Sull’allevamento del bestiame è basata non solo l’economia, ma anche l’identità sociale e culturale stessa di questi gruppi etnici, che sono i tre maggiori del Sud Sudan.

Inoltre nel Sudd - che rappresenta uno dei più grandi ecosistemi di acqua dolce del mondo - hanno il loro habitat innumerevoli specie di insetti, uccelli, rettili e mammiferi selvatici. Per questo è considerato una riserva straordinaria della biodiversità del pianeta, e come altre zone umide, è protetto dalla convenzione di Ramsar fin dal 2006. Si può dunque facilmente immaginare cosa succederebbe se la zona venisse prosciugata, e presto desertificata, per convogliare a nord l’acqua necessaria alla sopravvivenza di milioni di persone, di capi di bestiame e di specie viventi. Al disastro ecologico immane si sommerebbe una conflittualità perenne per l’accesso ai pascoli e alle risorse idriche, ridotti drasticamente dal drenaggio del territorio.

Tuttavia, nel 2008, durante una visita al Cairo di Salva Kiir, il presidente del Sud Sudan allora vice presidente del Sudan, si è ricominciato a parlare del vecchio progetto in termini concreti: la ripresa degli scavi del canale dopo l’eventuale indipendenza del Sud.
In un’altra occasione l’Egitto suggerì anche di considerare l’acqua drenata dal canale come la quota parte delle acque del Nilo spettanti al nuovo paese. Il progetto si è di nuovo arenato con lo scoppio della guerra civile, nel dicembre del 2013, ma si può star certi che verrà rispolverato appena il Sud Sudan ridiventerà un paese stabile. E la pressione per la sua ripresa sarà proporzionale alla sete d’acqua che la grande diga etiopica avrà causato all’Egitto. Al Cairo le lobby che sostengono la necessità per il paese di differenziare l’approvvigionamento idrico utilizzando anche le acque del Nilo Bianco si stanno facendo sempre più forti ed influenti.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Avvenire, 28 marzo 2018. Nuove conferme del profondo degrado del pianeta Terra. Un recente studio dell'Onu ribadisce la gravità della situazione, ma nessun governo riesce ad arrestare lo "sviluppo" saccheggiatore edenergivoro che ci conduce al disastro

«Gli scienziati incaricati dall'Onu di studiare l'impatto dell'azione umana sugli ecosistemi producono uno studio allarmante. "Rischiamo la sesta estinzione di massa delle specie“»

Il primo rapporto mondiale sul degrado del suolo ha prodotto risultati allarmanti. In molte aree del pianeta la situazione dei terreni ha raggiunto livelli «critici», la rapida espansione di terre agricoli e pascoli gestiti in maniera non sostenibile sono il problema principale e stanno provocando significative perdite di biodiversità e di “servizi ecosistemici”, cioè dei benefici che la varietà dell’ecosistema offre agli esseri umani.

«Con un impatto negativo sul benessere di almeno 3,2 miliardi di persone, il degrado del suolo sulla superficie terrestre a causa delle attività umane sta spingendo il pianeta verso la sesta estinzione di massa delle specie» ha avvertito il sudafricano Robert Scholes, scienziato dell’ecologia dei sistemi che ha coordinato lo studio assieme all’italiano Luca Montanarella, ingegnere agronomo dal 2003 alla guida del centro di ricerca della Commissione europea sui dati del suolo.

Il report è il primo di questo genere realizzato dall’Ipbes, la “piattaforma intergovernativa scientifico-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici” avviata nel 2012 dall’Unep, il programma delle nazioni unite per l’ambiente. L’Ipbes è stata creata per condurre un lavoro di ricerca internazionale, autorevole e indipendente sugli effetti che l’attività umana ha sugli ecosistemi sul modello di quanto il più famoso Ipcc ha fatto per il clima.

Alla realizzazione di questo studio, prodotto dopo tre anni di lavoro, hanno partecipato più di cento esperti da quarantacinque nazioni, sulla base di oltre tremila ricerche scientifiche pubblicate. Il risultato è stato rivisto da oltre duecento studiosi indipendenti, inclusi funzionari governativi, e quindi approvato, lunedì scorso, durante la sesta sessione plenaria dell’Ipbes, a Medellìn, in Colombia. Ieri ne è stata pubblicata un’anticipazione, presto arriverà il documento completo.
Il degrado del suolo si manifesta in modi diversi: l’abbandono di terreni, il declino della popolazione e delle specie selvatiche, la deforestazione, la perdita e il peggioramento della salubrità del terreno, dei pascoli e dell’acqua. Dal 2014 sono stati convertiti in terre agricole oltre 1,5 miliardi di ettari di ecosistemi naturali. Solo il 25% della superficie terrestre ha evitato di essere significativamente modificato dall’attività umana, quota che entro il 2050 si ridurrà al solo 10%.

Nelle proiezioni al 2050, gli studiosi prevedono 4 miliardi di persone costrette a vivere in terre arride tra i 50 e i 700 milioni di esseri umani che non avranno alternativa a migrare. Il calo della resa dei terreni provocherà anche tensioni sociali. «Soprattutto nelle terre aride, dove anni di piovosità estremamente bassa sono stati associati a un aumento del 45% dei conflitti violenti» nota Scholes. Montanarella aggiunge che le aree più a rischio di un peggioramento del degrado del suolo sono l’America centrale e il Sudamerica, l’Agrica sub-Sahariana e e l’Asia.

C’è un legame evidente tra le conclusioni dell’Ipbes e quelle dell’Ipcc. «Il degrado del suolo, la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico sono tre facce differenti della stessa sfida: l’impatto sempre più pericoloso delle nostre scelte sulla salute del nostro ambiente naturale» ha commentato Robert Watson, presidente dell’Ipbes. Questo significa che per evitare il peggioramento della situazione occorre cambiare i comportamenti. Per esempio, suggerisce l’Ipbes, si può evitare l’ulteriore espansione dei terreni agricoli migliorando la resa delle terre già coltivate, spostandosi verso diete che prevedono più frutta e vegetali e meno proteine animali da fonti non sostenibili, e poi ridurre lo spreco di cibo.
Ci sono poi una serie di azioni che possono dare un contributo: dalla gestione attenta dei sistemi forestali e degli allevamenti al controllo dell’inquinamento nelle zone umide fino agli interventi urbani, come lo sviluppo delle vie fluviali, l’espansione dei parchi, il ripiantamento di alberi e piante autoctone.Tocca ai governi darsi da fare. Badando più ai vantaggi a lungo termine che ai costi immediati, avverte l’Ipbes: in media, stimano gli scienziati, i benefici del ripristino di un ecosistema sono dieci volte superiori ai costi, che comprendono anche la perdita dei posti di lavoro legati ad attività non sostenibili.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

la Stampa online, 23 marzo 2018. i limiti dello "sviluppo" forsennato si sono superati da tempo, nonostante le prediche dei pochi capaci di guardare al di là del loro naso. Per ora il prezzo lo pagano gli sfrattati dallo sviluppo, ma domani...
«Nel 2050 143 milioni di persone saranno “migranti climatici” l rapporto della Banca mondiale sulle migrazioni climatiche chiarisce le enormi dimensioni un fenomeno potenzialmente devastante, con cui dovranno confrontarsi i Paesi nell’epoca del climate change»

“Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration”. Il titolo del rapporto della Banca mondiale sulle migrazioni climatiche, pubblicato lunedì 19 marzo, ha il merito della chiarezza. Perché tratta di un fenomeno di dimensioni enormi e dalle conseguenze potenzialmente devastanti, con le quali dovranno confrontarsi i Paesi nell’epoca del climate change.

Il rapporto concentra l’attenzione su tre regioni, l’Africa subsahariana, l’Asia del Sud e l’America latina, che rappresentano il 55% della popolazione dei Paesi in via di sviluppo. Gli esperti interpellati dall’istituto internazionale, stimano infatti che questa area geografica potrebbe subire degli spostamenti interni, al di là dei conflitti armati, di un’ampiezza pari a 143 milioni di persone entro il 2050.
L’istituto di Washington, tuttavia, non si accontenta di interpretare il ruolo della Cassandra, ma fornisce anche alcuni spunti di riflessione. “Il cambiamento climatico sta già avendo un impatto sugli spostamenti della popolazione e il fenomeno potrebbe intensificarsi”, afferma John Roome, responsabile dei cambiamenti climatici presso la Banca Mondiale. Ma se riusciamo a limitare le emissioni di gas serra e incoraggiare lo sviluppo attraverso azioni nel campo dell’istruzione, della formazione, dell’uso del territorio ... ci saranno “solo” 40 milioni di migranti climatici, e non 143 milioni, a cui queste tre regioni dovranno far fronte. La differenza è enorme”, sostiene il funzionario, convinto che una crisi migratoria su vasta scala possa evitarsi, purché si prevengano questi massicci spostamenti interni.
La Banca Mondiale basa le sue analisi su tre casi studio rappresentati da alcuni paesi in via di sviluppo: Etiopia, Bangladesh e Messico. Per ottenere le informazioni più accurate possibili, i ricercatori dell’Earth Institute della Columbia University, dell’Istituto di ricerca demografica della New York University e del Potsdam Institute per la ricerca sull’impatto del clima, hanno costruito un modello che incrocia diversi indicatori, come l’aumento della temperatura, i cambiamenti nelle precipitazioni, l’innalzamento del livello del mare, con dati demografici e socio-economici.
Seguendo la logica adottata dal gruppo di esperti del Panel delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (IPCC), i ricercatori hanno organizzato le loro proiezioni intorno a tre scenari: uno pessimista, in cui le emissioni di gas serra rimangono elevate e lo sviluppo economico diseguale; uno intermedio, dove l’economia migliora e le emissioni si arrestano; infine, uno scenario con un’evoluzione “compatibile con il clima”, che associa una riduzione delle emissioni a dei progressi nello sviluppo sociale.
Nello scenario “pessimista” esplorato dagli esperti, l’Africa subsahariana potrebbe doversi confrontare, alla fine del secolo, con uno spostamento interno di 86 milioni di persone. Mentre l’Asia meridionale e l’America latina, entro il medesimo orizzonte temporale, potrebbero registrare rispettivamente 40 e 17 milioni di migranti climatici.
Il rapporto evidenzia anche la molteplicità dei fattori che costringono le persone a lasciare i loro paesi d’origine, distinguendo delle caratteristiche specifiche proprie di ciascuna regione. In Etiopia, un paese prevalentemente agricolo e caratterizzato da una forte crescita demografica (fino all’85% entro il 2050), è il crollo dei raccolti che costituisce la prima causa di migrazione. Il Bangladesh è indebolito in particolare dall’erosione delle sue zone costiere e dalle difficoltà di accesso all’acqua potabile. Il Messico, invece, vede il dilagare nei centri urbani delle popolazioni che vivono nelle aree rurali colpite dagli effetti del riscaldamento globale.

Il campo di applicazione dello studio fa discutere. Gli autori del rapporto, decidendo di esaminare solo gli spostamenti superiori ai 14 chilometri, non hanno considerato le realtà dei piccoli stati insulari, che sono già oggi le prime vittime dei cambiamenti climatici. Il documento non fa neanche menzione delle discussioni in corso sulla definizione dello status giuridico di questi migranti climatici. Di fronte a questo vuoto giuridico, l’Assemblea generale delle Nazioni unite dovrebbe adottare il prossimo settembre, un Patto mondiale sulle migrazioni. Un’iniziativa che però è già stata indebolita da una decisione di Donald Trump. All’inizio di dicembre 2017, il presidente repubblicano ha annunciato infatti il ritiro degli Stati Uniti da questo progetto, perché giudicato incompatibile con la politica migratoria americana.

Articolo ripreso dalla pagina qui raggiungibile

Ci sono luoghi dove la popolazione è ancora saggia e si rifiuta di sacrificare un paesaggio secolare, vissuto come patrimonio indennitario - e al tempo stesso universale - immolandolo a uno sviluppo energiforo e lontano. Accade in Sardegna, in Barbagia"

La Sardegna soleggiata e ventosa, prateria per le scorribande dei nuovi speculatori dell'energia. Ideale la bassa densità abitativa, ovviamente favorevole la circostanza dei grandi spazi vuoti per accogliere gli impianti da fonti rinnovabili: lontano dagli occhi potrebbe svanire l'attenzione sull'impatto. Difficile invece contenere i timori delle popolazioni che cominciano a reagire in modo inatteso ai tentativi di insediare torri eoliche e distese di specchi pure nelle campagne distanti.

Tocca ora a Bitti (Nuoro) sentire forte la minaccia. Quanto basta perché si ribelli la comunità: orgogliosa, forte di un sentimento civico che non ti aspetti da un gruppo sociale di 3mila abitanti (6mila, a metà del secolo scorso). Eppure basta guardarsi attorno per capire la relazione tra i bittesi e il paesaggio: si vede nell'ordine del territorio alle quote più elevate come nell'area urbana. Un' appartenenza alle strade e alle piazze. Lo dice quella ventina di chiese in un tessuto minuto ma costituito da tanti quartieri, più delle contrade di Siena.

Una concentrazione di intellettuali che non si trova nelle città, personalità autorevoli con lo sguardo curioso sul mondo, come Giorgio Asproni a metà Ottocento in contatto con Garibaldi, Cattaneo, Bakunin.

le case e i monti di Bitti

Potrebbe cambiare per sempre il paesaggio attorno a Bitti. Si vedrebbe da molto lontano quella dozzina di torri eoliche in programma, alte 150 metri (poco meno della Mole Antonelliana). Con l'esteso corredo infrastrutturale che interromperebbe continuità ecologiche e potrebbe fare scempio di biodiversità e di beni culturali. Un danno per le attività agropastorali. Ma nel nome della solidarietà energetica nazionale. Come se l'isola non avesse già dato un sostanzioso contributo alla industrializzazione del Continente tra Otto e Novecento. Grandi quantità di legna e carbone vegetale – carburante di qualità – per fare girare le macchine a vapore altrove, dai telai ai battelli. Il patrimonio boschivo dell'isola ridotto in quel tempo di circa il 70%, e non solo a causa di incendi – come dimostrano gli studi di Fiorenzo Caterini. Tantissimi alberi sardi sacrificati per conservare le foreste di altre regioni. Nell'isola si chiamavano selve – sovrabbondanti per i bisogni di pochi abitanti – , e alle quali si dava poco valore.

Quartetto vocale di Bitti

Ed è toccato al forestiero Alberto Larmora contrastare con successo il programma di un avvocato modenese, pronto a portarsi via – praticamente gratis – 100mila querce. Un caso fortunato, figurarsi in quell'epoca. La Sardegna povera e condiscendente: condannata a subire progetti di chi prendeva senza restituire nulla, come solo alcuni hanno osservato sollecitamente. Ad esempio Gramsci che nel 1919 imputava ai piemontesi la distruzione delle foreste dei sardi “ai quali non hanno mai dato scuole, né acquedotti, né porti, né giustizia (...)”.

L'aggressione è proseguita, e nel secondo Novecento con un rovesciamento del paradigma. Mettere invece di portare via. Fabbriche inquinanti, poligoni militari, e di recente gli impianti per catturare sole e vento, le trivelle in attesa. Nelle coste il ciclo edilizio perpetuo. Tutto favorito dalla poca popolazione dell'isola e dal valore sottostimato di terre. E secondo la convenienza degli investitori guardati con fiducia malriposta. Si credevano benefattori come oggi il gruppo Siemens-Gamesa deciso ad accomodarsi nel tranquillo altopiano di “Gomoretza” a Bitti, raccontandolo come “giacimento energetico rinnovabile” dove i giovani bittesi saranno addestrati alle professioni hi-tech da esportare nel mondo. La parodia della storia che si ripropone nelle forme tragiche della postmodermità. Produrre energia nell'isola per rivenderla chissà dove, benché in Sardegna non ne serva e quella utilizzata costi di più. Il solito paradosso dello sfruttamento di territori che arricchisce pochi e trasferisce i benefici altrove.

Si comincia a capirla la sconvenienza, pure dove la vita è grama e le promesse di lavoro ovviamente allettanti. Per questo il dissenso all'impianto a “Gomoretza” assume un valore simbolico. Grazie al Comitato “Santu Matzeu”, a guida femminile, che non vuole quelle macchine rotanti nell'orizzonte di Bitti. E ha deciso di combattere perché le terre non perdano la vocazione agropastorale.

Costume femminile

E la Regione ? Aveva fatto la mossa giusta: la delibera di Giunta del 7/8/ 2015 per indicare i siti non idonei all' installazione di impianti eolici. Necessaria dopo i tentativi di contenere gli effetti del D.Lgs. 387/2003 in materia di energia censurati dalle sentenze della Corte Costituzionale: giudicato “astratto” il diniego agli aerogeneratori e simili. Si trattava di coglierle fino in fondo le sollecitazione dei giudici costituzionali ad esercitare le prerogative regionali per installare gli impianti da fonti rinnovabili nei luoghi più adatti. E compatibilmente con l'interesse pubblico. Oggi ci si interroga se un successivo atto – peraltro annunciato nella delibera – e soprattutto l'estensione del Ppr alle zone interne, non avrebbero consentito di rimediare ai difetti dell' art. 112 delle Norme di attuazione del Ppr, dove peraltro si rimanda a uno “studio specifico” per stabilire la localizzazione di impianti eolici. Senza questi adempimenti supportati dalle motivazioni per la tutela del paesaggio rurale, sarà complicato difendere il territorio di Bitti e di altri comuni isolani. Ma provarci è indispensabile. E conterà, come in altre occasioni, l'attenzione dell'opinione pubblica del Paese.

Nigrizia, 28 febbraio 2018. Una delle grandi sfide mondiali delle quali nessuno dei grandi partiti parla in questa squallida campagna elettorale, né è in grado di rivendicare una propria azione coerente

È grave che un problema così impellente come la crisi ecologica non sia al centro del dibattito elettorale nel nostro paese. «Le previsioni catastrofiche - ci ammonisce papa Francesco nella enciclica Laudato si’ - non si possono più guardare con disprezzo o ironia. Potremo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti e sporcizia».

Siamo sull’orlo del disastro ecologico. Eppure continuiamo a procedere come se nulla fosse. La colpa è di tutti noi. Primo della politica, oggi prigioniera della lobby degli idrocarburi, poi del movimento ambientalista, oggi più che mai frammentato e indebolito, e infine delle comunità cristiane che non hanno ancora colto la sfida della “conversione ecologica” lanciata dal papa.
Il movimento ambientalista riteneva che l’Accordo di Parigi (Cop 21 - 2015) avrebbe finalmente dato una forte spinta per forzare i governi a prendere drastiche misure per scongiurare la catastrofe ecologica. Ma purtroppo non ci eravamo accorti che Parigi era il frutto avvelenato delle lobby petrolifere Usa, perché è solamente un accordo e non un Trattato, e inoltre ogni nazione ha la responsabilità di decidere i suoi impegni che non sono vincolanti.
Ci eravamo illusi che il movimento avrebbe potuto forzare i governi ad implementare l’Accordo: ciò non è avvenuto. L’arrivo poi di Trump, con la decisione di ritirare gli Usa dall’Accordo, ha fatto il resto. L’Italia, che invece ha firmato l’Accordo, ha fatto ben poco per metterlo in pratica. Con “Sblocca Italia”, il governo Renzi ha rilanciato con forza le trivellazioni per terra e per mare, prevedendo procedure semplificate per il rilancio dei permessi di ricerca e di estrazione. Sia Renzi che Gentiloni hanno poi continuato la politica degli inceneritori, delle discariche, della cementificazione selvaggia del suolo, della TAV, della TAP, delle megastrutture stradali e aeroportuali.
«La questione ambientale - ha detto giustamente il senatore Manconi - riguarda il Pd e tutta la politica italiana e rimanda a un deficit culturale dell’intera classe dirigente». Dobbiamo riconoscere che i partiti italiani, in larga parte, sembrano avere un’unica preoccupazione: la crescita. Eppure sappiamo che una crescita costante e illimitata, sia in economia come nei comfort, è alla base della crisi ecologica.
Purtroppo dobbiamo anche riconoscere che il movimento in difesa dell’ambiente si è indebolito e annacquato. «Col passare degli anni, i movimenti si sono appiattiti sui valori e le “leggi” dell’economia globalizzata - osserva l’ambientalista Giorgio Nebbia. Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi». In questo indebolimento hanno giocato anche fattori come visibilità, protagonismo, individualismo, ricerca di potere. Anche in Campania il movimento (contro discariche, rifiuti tossici, roghi) si è sciolto come neve al sole.
Ma altrettanto deludente per me è il fatto che dalle comunità cristiane non sia nato un forte impegno ecologico in seguito all’enciclica Laudato si’. Un impegno che trova difficoltà a essere fatto proprio dai fedeli, forse perché anche preti e vescovi non l’hanno fatto proprio. Infatti non è ancora nato un serio movimento in seno alla Chiesa in Italia. È un peccato questo perché un serio impegno da parte della comunità cristiana potrebbe rafforzare il movimento in difesa dell’ambiente. Solo insieme, credenti e laici, potremo realizzare un grosso movimento popolare per forzare i partiti e il nuovo governo a mettere al centro il problema ecologico. E’ un compito fondamentale per tutti noi, credenti e laici. Solo insieme ci possiamo salvare.
«L’Accordo di Parigi è totalmente insufficiente per affrontare la problematica del riscaldamento globale - affermano G. Honty e E. Gudynas di Via Campesina. La società civile non può restare passiva e deve raddoppiare i propri sforzi per andare oltre questo tipo di accordi e realizzare misure effettive, reali, concrete, contro il cambiamento climatico. Molte saranno costose e dolorose, ma il compito è urgente».
A quando la “conversione ecologica”?

il manifesto - Gambero-Verde, 4 gennaio2018. Se non vogliamo credere a chi dice che questo "sviluppo" è perverso e ci conduce al disastro almeno adoperiamo qualche cautela

Due metri”, questo lo strano titolo di un recente articolo che parla del possibile innalzamento, di due metri, appunto, del livello dei mari in seguito al riscaldamento dell’intero pianeta Terra. Molti segni indicano chiaramente che esistono alterazioni dei cicli biogeochimici del pianeta interpretabili soltanto con un aumento della temperatura «media» della Terra con una accelerazione dovuta al rapido sviluppo delle industrie, al crescente consumo di fonti di energia, ai mutamenti delle coltivazioni agricole.

Una delle più vistose conseguenze del riscaldamento del pianeta è rappresentato dalla fusione di parte dei ghiacciai, quei giganteschi depositi di acqua solida, 30 milioni di chilometri cubi, immobilizzata nelle zone polari e nelle alte montagne; con la fusione l’acqua passa dallo stato solido allo stato liquido e scorre attraverso le valli e le pianure e arriva al mare il cui volume aumenta e di conseguenza aumenta anche il livello dei mari e degli oceani in ragione, oggi, di due o tre millimetri all’anno, quasi impercettibile, ma continuo. Il fenomeno sta già preoccupando le zone turistiche che vedono lentamente sparire le loro spiagge; le isole costituite da atolli, con una altezza massima sul mare di pochi metri, rischiano di perdere una parte della loro intera superficie.

Che cosa succederebbe se un giorno il livello dei mari aumentasse davvero di due metri' Molte strade di Bari, Napoli, Genova, Ravenna, New York, e di tante altre città costiere sarebbero invase dall’acqua del mare; la bella Venezia e la ricca Miami scomparirebbero sott’acqua; l’acqua marina salina andrebbe a miscelarsi con le acque dolci sotterranee che non sarebbero più adatte per l’irrigazione. Milioni di persone dovrebbero emigrare dai propri paesi. Ma anche il sollevamento del livello del mare di poche diecine di centimetri provocherebbe danni umani ed economici elevatissimi a cui oggi nessuno pensa perché il fenomeno procede lentissimo, anche se inesorabile. Nessun governo si preoccupa di quello che potrebbe succedere dopo i pochi anni in cui è in carica, sapendo che in tale periodo l’aumento del livello del mare sarebbe di «appena» uno o due centimetri.

Considerare, «oggi», quello che potrebbe succedere se il livello dei mari aumentasse, non dico di «due metri», ma anche soltanto di mezzo metro, è un invito a guardare «lontano», a un pianeta in cui vivranno i nostri nipoti e pronipoti i quali potrebbero rimproverarci per non aver preso in tempo provvedimenti per evitare eventi di cui abbiamo già i segni. Albert Schweitzer, premio Nobel per la pace, scrisse che «l’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per perdere la Terra», la sua unica casa nello spazio. Se cominciassimo già adesso a pensare al futuro?

Nigrizia, 2 gennaio 2018. per produrre ulteriore energia finalizzata ad accrescere uno sviluppo insensato e terricola si apprestano a distruggere una preziosa riserva naturale e a sfrattare dal loro habitat 200mila persone


«I lavori dovrebbero partire a febbraio. Il progetto costerà 2,6 miliardi di dollari e produrrà 2.100 Megawatt di energia elettrica. Secondo un rapporto diffuso dal Wwf nel 2017, la costruzione dell’impianto tanzaniano avrà un impatto negativo per la sopravvivenza di almeno 200mila persone che vivono ora di agricoltura»


Potrebbero cominciare il prossimo febbraio i lavori di costruzione di un impianto per la produzione di energia elettrica nel cuore della riserva naturale di Selous, nel sud della Tanzania, compresa tra i siti patrimonio dell’umanità dall’Unesco fin dal 1982. Lo hanno deciso i ministeri competenti in una recente riunione a Dodoma, la nuova capitale amministrativa del paese. L’impianto si comporrà di una diga, la Kidunda Dam, e di una stazione per la produzione di energia idroelettrica, la Stiegler’s Gorge Hydropower generation station, entrambe costruite nel cuore della riserva. Il progetto costerà complessivamente 2,6 miliardi di dollari e produrrà 2.100 Megawatt di energia elettrica. Il progetto, studiato già una quarantina d’anni fa, è fortemente voluto dal presidente tanzaniano John Magufuli, che si propone così di spingere l’industrializzazione del paese e di attirare investimenti stranieri, secondo il suo piano quinquennale di realizzazioni a sostegno dello sviluppo del paese. Almeno nella sua fase iniziale, verrà finanziato con risorse nazionali.

Il progetto è stato molto criticato in tutto il suo percorso perché verrà realizzato in una riserva naturale vasta più o meno come la Svizzera, una delle più grandi e importanti di questo genere non solo in Africa, ma nel mondo intero. Vi si trovano alcuni siti noti per essere stati l’habitat di gruppi di ominidi, ed è dunque da considerare come una delle culle dell’umanità.

Ha inoltre una numerosa e differenziata fauna selvatica, tra cui una popolazione di almeno 110mila elefanti, il gruppo più numeroso rimasto al mondo. Tra i critici più accesi è da annoverare il governo tedesco, che, attraverso la Frankfurt Zoological Society (FZS) e il WWF sta finanziando un programma anti bracconaggio e uno di sostegno allo sviluppo ecosostenibile della zona, in cui protagonista è la popolazione locale. Questi gruppi ambientalisti e animalisti, e numerosi altri, temono infatti fortemente che la costruzione dell’impianto metterà in gioco l’equilibrio socio ambientale di un vasto territorio oltre a facilitare l’attività di bracconaggio che già ora è fuori controllo nel paese. Ha espresso timori perfino la Banca Mondiale, che sta finanziando nella zona programmi di sostegno al turismo, attività che genera annualmente un prodotto di 6 milioni di dollari.

Secondo un rapporto diffuso dal WWF nel 2017, la costruzione dell’impianto avrà un impatto negativo per la sopravvivenza di almeno 200mila persone che vivono ora di agricoltura e pesca nel bacino del fiume che verrà devastato dalla diga. Ripercussioni si avranno fino alle coste dell’Oceano Indiano dove saranno messe a grave rischio anche zone umide protette dalla convenzione internazionale di Ramsar.

In molti si sono appellati al governo tanzaniano perché abbandoni il progetto, frutto di un modello di sviluppo decisamente sorpassato, per investire nello sfruttamento di fonti alternative di energia, come ad esempio il gas, di cui il paese sembra essere ricchissimo. Ma almeno per ora gli appelli sono caduti nel vuoto

Nigrizia, 1 dicembre 2017 «Un progetto di sviluppo fallimentare e distruttivo sta portando alla progressiva scomparsa di un ecosistema millenario e delle antiche popolazioni che lo abitano». Colpevole impunito: Impregilo, Italia

Ragazzini Hamar con il corpo dipinto di cenere bianca. (Magda Rakita/Survival)
La valle del fiume Omo, in Etiopia, e in particolare la sua parte finale, conosciuta come bassa valle, è una delle pochissime parti dell’Africa, e del mondo, in cui si trovano ancora popoli nativi che vivono seguendo costumi e tradizioni ancestrali. E’ stata abitata fin dagli albori dell’umanità. Vi sono stati trovati resti di un australopiteco, uno dei nostri lontani antenati, risalenti a 2 milioni e mezzo di anni fa. La valle è stata una culla dell’evoluzione umana. Vi sono stati scoperti anche resti di altri ominidi e segni della permanenza dell’homo sapiens, cioè il nostro diretto progenitore, quali quarzi scheggiati, risalenti a circa 190.000 anni fa.

La valle, dicono gli studiosi del settore, è stata sempre un crocevia di popoli migranti portatori di diverse culture, provenienti da diverse zone del continente. Questa è la ragione della diversità dei popoli nativi che vi sono ancora oggi stanziati: circa 200.000 persone appartenenti ai gruppi Mursi, Suri, Karo e numerosi altri. La valle è anche l’habitat di flora e fauna indigene, talvolta in via di estinzione in altre aree della regione. Per questo è il paradiso di archeologi, antropologi, botanici e altri scienziati, ed è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco. E’ un territorio dal delicato equilibrio ecologico che si estende per centinaia di chilometri nel sud dell’Etiopia. Le acque, raccolte dal fiume Omo, finiscono nel lago Turkana, un grande bacino - 6.405 Kmq, profondità media 30 metri - che si estende per la maggior parte oltre il confine etiopico, in Kenya, nella Rift Valley. Delle sue risorse vivono centinaia di migliaia di persone.

Dighe e land grabbing

In molti ormai si chiedono fino a quando questo patrimonio di tutti potrà sopravvivere. E’ infatti gravemente minacciato dai progetti del governo di Addis Abeba per produrre energia e prodotti agricoli per l’esportazione. Il basso corso dell’Omo e il lago Turkana sono infatti il teatro di trasformazioni rapidissime provocate dalla costruzione di una cascata di dighe sul maggior affluente dell’Omo, il fiume Gibe, che ha cambiato in modo radicale e permanente il regime delle acque, mettendo a serio rischio l’intero ecosistema e la vita stessa della popolazione e della fauna che vive delle sue risorse.

La situazione è aggravata dai progetti di sfruttamento dell’acqua, raccolta nei vasti bacini formati dalle dighe, per l’irrigazione di smisurati territori dati in concessione, per cifre risibili, a compagnie straniere dell’agribusiness per la coltivazione di prodotti come il cotone o la canna da zucchero. Sono prodotti destinati all’esportazione e dunque al sostegno del bilancio statale da impegnare in un programma di sviluppo economico rampante, secondo un modello industriale che ha già rivelato enormi limiti nei nostri paesi. Non sono certo intesi al rafforzamento della sicurezza alimentare del paese, che annualmente dichiara crisi che colpiscono milioni di persone nelle aree rurali più isolate, appellandosi ogni volta alla solidarietà internazionale per evitare vere e proprie carestie.

L’acqua e la terra che sono la base dell’economia, e della stessa sopravvivenza, dei popoli nativi e rivieraschi in genere, sono insomma oggetto di accaparramento - water and land grabbing - per uno sviluppo che non li prevede. La più grande delle dighe in programma - la Gilgel Gibe III, la più imponente dell’Africa fino alla costruzione della Gerd (Grand Ethiopian Renaissance Dam) in via di costruzione sul Nilo Blu, entrambe ad opera della ditta italiana Salini Impregilo - è entrata in funzione nel 2015, e ha già cambiato in modo radicale e permanente il regime delle acque del fiume Omo, determinando la riduzione drastica delle alluvioni stagionali che permettevano la coltivazione dei terreni lungo le rive per la produzione di ortaggi, cereali e legumi, base alimentare della popolazione della bassa valle.

Quasi desertificati anche i pascoli che non riescono più a sostenere l’allevamento del bestiame, altra risorsa della popolazione locale. Per non parlare del pesce, che costituiva un’importante fonte di cibo per le popolazioni della valle dell’Omo e di risorse anche monetarie per quelle che vivono attorno al lago Turkana, di cui si osserva già una notevole diminuzione del livello. Inoltre, organizzazioni internazionali come Survival International - ascolta, a destra della pagina, la nostra intervista alla direttrice, Francesca Casella - denunciano frequentemente abusi e violazioni gravissimi dei diritti delle popolazioni locali, allo scopo di cacciarli dalle proprie terre ancestrali per far posto ad attività di agricoltura meccanizzata.

Un disastro annunciato

Per dire la verità, tutto era stato ampiamente previsto fin dall’inizio del progetto. Ma non sono bastate combattive e documentate campagne internazionali, con forti radici in loco e attività competenti e continuative in molti paesi europei - e in particolare in Italia per via della ditta costruttrice - a fermare il programma. I timori espressi dalla società civile, basati su studi di esperti riconosciuti a livello internazionale, non sono stati presi in considerazione. Ma, a soli due anni dall’inaugurazione della diga, i risultati già possono essere visti chiaramente. Il cambiamento drammatico dell’ambiente e l’assottigliarsi delle possibilità di sopravvivenza delle popolazioni interessate sono stati descritti nelle ultime settimane in ricerche sul campo, in numerosi reportage (Rai, New York Times, The East African) e in articoli di riviste autorevoli come il National Geographic.

La valle dell’Omo è ormai una regione sul precipizio, si legge nell’articolo del New York Times, mentre il lago Turkana sembra destinato a fare la fine del lago Ciad, di fatto quasi scomparso. Un impatto funesto sull’ambiente, sulle comunità locali e sul nostro patrimonio comune in nome di un modello di sviluppo economico già fallito nel nord del mondo e perfino in Etiopia. Il governo, infatti, dimostra di non essere in grado di assicurare condizioni minime di sopravvivenza a milioni di cittadini e a centinaia di comunità, nonostante la crescita vertiginosa del Pil, o più probabilmente proprio a causa del modo nel quale questa crescita è originata.

L'originale dell'articolo è reperibile a questo indirizzo, corrispondente a una pagina del sito web della rivista Nigrizia dal quale lo abbiamo tratto. Raggiunto il sito indicato è possibile ascoltare la conversazione con la direttrice di Survival International Italia, Francesca Casella. Ringraziamo Nigrizia per la concessione
il Salvagente, online, 28 novembre 2017. L'accorato appello della comunità degli scienziati consapevoli per tentar di scongiurare la morte del nostro pianeta. Le 13 cose da fare subito

La scienza unanime continua predicare, inascoltata, che il tempo rimasto per salvare il pianeta su cui abitiamo è poco. Secondo le informazioni e testimonianza raccolte da il sito “il salvagente”«se continuiamo così, finiremo per uccidere il nostro sistema». Già nel 1992, del resto, la Union of Concerned Scientists (una (Ong che raccoglie più di 1700 scienziati) sosteneva che l’impatto delle attività umane sulla natura avrebbe presto distrutto il pianeta irrimediabilmente.

Un quarto di secolo dopo, purtroppo, le cose non sono cambiate. Anzi sono peggiorate. Disponibilità di acqua potabile, deforestazione, diminuzione dei mammiferi, emissioni di gas serra: questi indicatori sono in rosso dal 1992 e le risposte sono ad oggi deludenti.Da qui la necessità di un secondo avvertimento lanciato dai 15mila scienziati. Essi non si limitano a denunciare il rischio, ormai immanente. indicano 13 azioni virtuose che potrebbero, se non annullare la tendenza, almeno rallentarla dicono e nel manifesto indicano 13 azioni da mettere in atto subito. Eccole come le riporta il quotidiano Le Monde:
1. creare riserve interconnesse ben collegate e correttamente gestite per proteggere una proporzione significativa dei vari habitat terrestri, aerei e acquatici; 2. preservare i servizi della natura attraverso gli ecosistemi fermando la conversione delle foreste naturali, delle praterie e di altri habitat;3. ripristinare le comunità vegetali endemiche su larga scala, compresi i paesaggi forestali; 4.riqualificare aree con specie endemiche, in particolare super-predatori, per ripristinare le dinamiche e i processi ecologici; 5. sviluppare e adottare adeguati strumenti politici per combattere la sconfitta, il salvataggio, lo sfruttamento e il traffico di specie minacciate; 6. ridurre i rifiuti alimentari attraverso l’istruzione e migliorare le infrastrutture; 7. promuovere una riorientazione della dieta verso prodotti alimentari di origine vegetale;
8.ridurre ulteriormente il tasso di fertilità assicurando che gli uomini e le donne abbiano accesso ai servizi di istruzione e di pianificazione familiare, in particolare nei settori in cui questi servizi mancano ancora; 9. moltiplicare le escursioni per i bambini per sviluppare la loro sensibilità alla natura e generalmente migliorare l’apprezzamento della natura in tutta la società; 10. incoraggiare un cambiamento ambientale positivo; 11. progettare e promuove nuove tecnologie verdi e rivolgersi in maniera massiccia verso fonti energetiche verdi, progressivamente riducendo il sostegno alla produzione di energia con combustibili fossili; 12.e soprattutto rivedere la nostra economia per ridurre le iniquità della ricchezza e garantire che i prezzi, le tasse e gli incentivi tengono conto del vero costo dei nostri modelli di consumo per il nostro ambiente;13. determinare a lungo termine una dimensione umana sostenibile e scientificamente difendibile, assicurando il sostegno dei paesi e dei leader mondiali a raggiungere questo obiettivo vitale.
il testo originale dal quale abbiamo tratto le informazioni e i commenti è raggiungibile qui

https://ilsalvagente.it/2017/11/14/presto-o-sara-troppo-tardi-lappello-per-fermare-la-distruzione-del-pianeta/

il manifesto, 23 novembre 2017. Un nuovo supplemento de il manifesto, interamente dedicato a un ambientalismo nuovo, anticapitalista. Inizia con l'inizio della storia dell'uomo: la storia del grano. Articoli di Piero Bevilacqua, Luca Fazio, Monica di Sisto, Saverio De Bonis

UN AMBIENTALISMO

NUOVO, ANTICAPITALISTA
di Piero Bevilacqua
In principio era il grano, un seme coriaceo che piantato nella terra generava una spiga con sei o sette chicchi, buoni per essere macinati e fare farina e a loro volta capaci di tornare a germinare, di avviare un ciclo produttivo che si rinnovava ogni anno. Grazie a questo cereale, negli altipiani della Mezzaluna Fertile, intorno a 10 mila anni fa, i primi gruppi umani cessavano di migrare e cominciavano la vita stanziale in attesa del raccolto, costruivano dimore stabili, adunavano villaggi, edificavano città, inventavano la scrittura. Dal seme del grano sorgevano le civiltà umane, aveva inizio quel che noi chiamiamo storia. E in questa storia, per millenni, un ruolo preminente, non solo alimentare, ma anche religioso e simbolico ha giocato il suo prodotto fondamentale: il pane. L’alimento che si spartiva con solidarietà tra gli uomini e che si spezzava nei riti delle religioni rivelate.

Che cosa di più storicamente e simbolicamente significativo del grano per iniziare un inserto dedicato specificamente all’ambiente? Forse nessun altro elemento – simbolo di rigenerazione della fertilità, di pace, di fratellanza – può sintetizzare le ragioni e le intenzioni di fondo del nostro progetto.

La nostra ambizione, infatti, non si limita a rinverdire i temi consueti dell’ambientalismo per offrirli con più frequenza ai lettori del manifesto. Non intendiamo coltivare un settore di studi e di problemi fin troppo trascurato dalla cultura nazionale. Vogliamo andare oltre, forti di acquisizioni ormai consolidate, che hanno tratto l’ambientalismo fuori dal recinto di una tematica elitaria, da paesi ricchi, dalla sua pur nobile e importante difesa dell’esistente.

Inserire la natura nella storia, quel mondo vivente che il pensiero economico ha cancellato con i suoi astratti edifici teorici, che ha occultato per volontà di dominio, comporta un sovvertimento radicale del nostro modo di pensare le società contemporanee. Per noi la natura non è fuori, ma dentro la società, non è solo l’aiuola fiorita, il parco, il fiume. È anche e forse prima di tutto la fabbrica, costruita con il ferro sottratto alle viscere della terra tramite scavi minerari devastanti, che produce merci utilizzando minerali, acqua, petrolio, un gran numero di risorse non rigenerabili.

È ancora natura la fabbrica che sfrutta l’energia del lavoro umano, che rovescia rifiuti, che inquina cielo, suolo ed acqua perché anche noi siamo natura e quegli scarichi ci coinvolgono nel generale metabolismo che si svolge sulla superfice del pianeta. Non dimentichiamolo: la nostra salute, il lavoro, la fecondità delle donne, il nostro tempo di vita sono fra le risorse naturali più sfruttate.

Dunque non vogliamo rinverdire una tradizione riparatoria e rivendicazionistica: l’ambientalismo che denuncia il danno esterno e che chiede rimedi ex post. La nostra vuole essere una nuova modalità di critica radicale del capitalismo, un nuovo sguardo sul più distruttivo modo di produzione della storia dal punto di vista degli equilibri naturali. Il mondo fisico è messo in pericolo non dall’uomo in astratto, ma da modelli di dominio storicamente determinati.

È questo punto di vista, tuttavia, questa nuova visione radicale e olistica, che consente di fornire una nuova universalità alla politica e al tempo stesso di scorgere i processi che già oggi prefigurano nuovi modi di produrre e di fare economia, pratiche alternative nell’utilizzare le risorse naturali, forme cooperative del lavoro che anticipano assetti nuovi della vita sociale.

LA PASTA È «MADE IN ITALY»,
IL GRANO NO
di Luca Fazio

«Il fatto della settimana. Un pacco su tre è prodotto con grano importato. Ma anche quello italiano non è garanzia di qualità. E ora ci si prepara allo sbarco dei canadesi»

«Maccarone, m’hai provocato e io te distruggo, maccarone! Io me te magno», e questa è storia. La nostra. Eppure anche l’Albertone nazionale oggi si farebbe qualche domanda prima di affondare la forchetta in una montagna di maccheroni.

La pasta italiana è mediamente buona ed ha già vinto la sfida globale essendo uno dei cibi più ricercati e consumati al mondo, ma è inutile nascondere che nel piatto c’è qualcosa che non funziona.E che in futuro potrebbe restarci sullo stomaco. I numeri per ora sono l’unica certezza e forniscono il quadro di un mercato mondiale che è teatro di interessi non sempre confessabili, soprattutto al consumatore.

Nel 2015 nel mondo sono state prodotte 14,3 milioni di tonnellate di pasta. Sono 48 i paesi che ne producono più di 1.000 tonnellate all’anno (e 52 i paesi che consumano almeno 1 chilo pro capite di pasta all’anno). L’Italia è paese leader tra i produttori con circa 4 milioni di tonnellate all’anno (seguono Usa con 2 milioni, Turchia con 1,3, Brasile con 1,2 e Russia con 1,1).

L’Italia è anche il paese con il più alto consumo pro capite del mondo: gli italiani mangiano più di 25 chili di pasta all’anno (16 i tunisini, 12 i venezuelani, 11 i greci e 9 gli svizzeri). Con questi numeri è anche leader del mercato: nel 2016, per il dodicesimo anno consecutivo, l’export della pasta ha avuto il segno più (6%). L’Associazione delle industrie e della pasta italiane (Aidepi) certifica che nel 2016 l’Italia ha esportato 2 milioni di tonnellate di pasta per un valore che supera i 3 miliardi di euro.

Tutto bene? Non proprio.

C’è un problema che ne richiama altri e che fa della pasta uno degli alimenti più significativi per comprendere le insidie di un mercato agroalimentare globale che per sua natura non può convergere con la sostenibilità ecologica del sistema produttivo: all’Italia manca circa il 40% di grano duro per soddisfare la produzione di pasta necessaria al mercato interno (e all’export).

Negli ultimi 15 anni le coltivazioni di grano duro si sono ridotte di 500 mila ettari. Per questo, spiega Coldiretti nel suo atto d’accusa contro il grano straniero, l’Italia nel 2015 ha importato dall’estero circa 4,3 milioni di tonnellate di frumento tenero e 2,3 milioni di tonnellate di grano duro (utilizzato per la pasta).

Il risultato, denuncia l’associazione, è che un pacco di pasta su tre è fatto con grano che arriva dall’estero, senza obbligo di indicare la provenienza sull’etichetta (alcune tra le marche più famose miscelano grano italiano e straniero). Non è solo una questione di sovranismo cerealicolo per tutelare gli agricoltori nostrani strozzati dai prezzi imposti dal mercato globale, è anche un problema di salute e di politica internazionale.

I principali paesi che forniscono grano all’Italia sono europei. La Francia, con 350 mila tonnellate nel 2015, poi l’Austria con 176 mila tonnellate nel 2015 e l’Ungheria che nel primo semestre del 2016 ce ne ha vendute 165 mila tonnellate. Seguono Romania, Polonia, Ucraina, Turchia, Cipro. Complessivamente dal resto del mondo (dati 2015) l’Italia ha importato 2,3 milioni di tonnellate di grano duro e ne ha esportate più di 181mila, soprattutto verso il Maghreb (per il cous cous).

L’Italia, dunque, anche se non produce abbastanza grano duro per soddisfare il suo mercato, è un paese che comunque ne esporta. Un paradosso facile da spiegare: il frumento nostrano è molto richiesto e viene venduto a prezzi più alti, mentre il grano importato costa meno ed è qualitativamente meno pregiato. E in qualche caso anche dannoso per la salute, come denunciano numerose associazioni ambientaliste che puntano il dito contro il grano canadese.

La questione canadese introduce scenari preoccupanti anche in virtù del fatto che il paese di Justin Trudeau si sta imponendo tra i primi fornitori di grano all’Italia: dal Canada abbiamo importato 329 mila tonnellate nel 2015 e 383 mila tonnellate nel primo trimestre del 2016.

Problema numero uno.

In Canada, per accelerare la maturazione della spiga, prima della raccolta viene utilizzato il glifosato come disseccante, una pratica vietata in Europa (il glifosato è l’ingrediente principale dell’erbicida Roundup della Monsanto che secondo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro è potenzialmente cancerogeno e che è al centro di una controversia internazionale: entro la fine di quest’anno l’Unione europea dovrà decidere se vietarlo o meno).

Tracce di erbicida, questa la preoccupazione, potrebbe essere presente nei prodotti alimentari derivati dal grano – pasta “made in Italy” compresa. In più, il grano canadese per via dell’umidità del clima viene aggredito dalle micotossine, un fungo patogeno contaminante che ad alti livelli di concentrazione può agire a livello gastrointestinale.

La presenza, pur nella norma, di questi contaminanti – glifosato, micotossine e cadmio – è stata riscontrata in un test effettuato su alcuni campioni di pasta italiana dall’associazione GranoSalus.

Il problema numero due, oltre a complicare la faccenda sul piano della sicurezza alimentare, introduce una questione di politica internazionale. Con l’entrata in vigore del Ceta (l’accordo commerciale tra Unione europea e Canada che non è ancora stato ratificato dal parlamento italiano) le grandi aziende nord americane dell’agro-business avranno a disposizione nuovi strumenti per attaccare i rigorosi standard europei a tutela della qualità del cibo.

È evidente, come spiega l’Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab), che una futura armonizzazione delle norme canadesi ed europee potrebbe rimettere tutto in discussione. Le criticità da affrontare a livello parlamentare non riguardano solo il grano duro al glifosato: «L’armonizzazione delle norme verso un minimo comune denominatore, previsto nell’accordo, accetta di fatto lo spostamento verso il basso delle regole di produzione e degli standard di sicurezza alimentare. In particolare ci verrebbero imposti gli ormoni della crescita nelle carni, l’uso di antimicrobici nel lavaggio, una liberalizzazione degli Ogm e un’etichettatura ancora meno trasparente».

Gli stessi industriali canadesi del resto non ne fanno mistero. Cam Dahl, presidente di Cereals Canada, ha minacciato ritorsioni (un’azione legale al Wto) qualora l’Italia dovesse imporre l’etichettatura d’origine sui pacchi di pasta.

Di fatto il contenzioso è già aperto perché in Italia l’obbligo di etichettare la provenienza del grano dovrà, o dovrebbe, scattare il 17 febbraio.

Il decreto però è stato impugnato dall’Aidepi con un ricorso al Tar del Lazio che somiglia a un’arrampicata sugli specchi. L’associazione delle industrie dei pastai ritiene che «l’obbligo dell’indicazione di origine del grano nella pasta sia sbagliato: promette trasparenza ma disorienta il consumatore e invece di sostenere una filiera di grande valore per la nostra economia, come quella della pasta, rischia di affossarla».

Nel frattempo Barilla (azienda leader in Italia con ricavi consolidati per 3,4 miliardi di euro e nel 2016 e utile netto in salita a 371 milini di euro) si è affidata a Bebe Vio per riorientare il consumatore con uno spot che ammette il ricorso al grano straniero, che però è buono e di qualita: “Ottimo, grande, mi hai convinto, dammi cinque…”. Paolo Barilla, vice presidente dell’omonimo gruppo, su Rai1 è stato meno simpatico: «Per l’industria tutto dipende da che tipo di prodotto produrre e a quali costi, perché se noi dovessimo fare un prototipo di pasta perfetta, in una zona del mondo non contaminata, senza bisogno di chimica, probabilmente quel piatto di pasta invece di 20 centesimi costerebbe 2 euro. Una pasta a glifosato zero è possibile ma solo alzando i costi di produzione».

Più chiaro di un’etichetta.

«IL GLIFOSATO C’È,
BASTA CONTROLLARE»
intervista a Saverio De Bonis

Critiche a 360 gradi: «Gli agricoltori italiani accettano la filiera capestro imposta dalle multinazionali, che dettano il prezzo del grano».

Saverio De Bonis, 52 anni, lucano, è un produttore di grano duro e presidente dell’associazione GranoSalus. I suoi attacchi alle industrie – supportati da analisi di laboratorio – continuano a scatenare polemiche furibonde tra i pastai più noti. La controversia non è ancora risolta.

Lo scorso ottobre il tribunale di Roma ha dato ragione a GranoSalus che ha riportato articoli secondo cui la pasta di alcuni marchi contiene sostanze contaminanti e quindi, per deduzione, sarebbe lavorata anche con grano importato dal Canada. Perché avete commissionato quei test che hanno scovato glifosato, micotossine e cadmio?

Sette anni fa un microbiologo che partecipava alle attività dei nostri circoli ha lanciato l’allarme sulla presenza di micotossine. È un fungo patogeno che si sviluppa sul grano a causa dell’umidità. Le istituzioni non ci hanno ascoltato e così abbiamo deciso di cambiare strategia per parlare anche ai consumatori. GranoSalus nasce così: piccoli produttori locali si associano per tutelare il diritto alla salute e alla produzione di qualità. Lo scorso febbraio abbiamo effettuato i primi test prendendo la pasta sugli scaffali e abbiamo trovato tracce di glifosato e cadmio in otto campioni esaminati, sono perturbatori endocrini e quindi dannosi a prescindere dalla quantità rilevata. Le analisi sono state condotte da un laboratorio di Cuneo certificato e utilizzato anche dall’Unione europea.

Quali paste avete fatto analizzare?
Barilla, La Molisana, De Cecco, Divella, Garofalo, Granoro, Voiello e Coop. Le industrie che hanno presentato ricorso (Coop non lo ha fatto ma ha precisato con una nota) sono state condannate a risarcire le spese processuali perché negli articoli non c’era diffamazione.

Avete fatto controlli sulle navi.
Due a Manfredonia e due a Bari, dove arriva il 60 per cento del grano duro importato. Anche in quel caso i test hanno confermato la presenza degli stessi contaminanti sulla materia prima: micotossine, cadmio e glifosato.

I vostri test però sono stati duramente criticati dalle industrie della pasta. Vi hanno accusato di allarmismo ingiustificato.
Gli articoli in questione, come scrive la prima sezione civile del Tribunale di Roma, costituiscono legittima espressione del diritto di critica e manifestazione del pensiero, trattandosi di temi di tale delicatezza e rilevanza per la salute pubblica. Le industrie dicono di avere accusato il colpo con un calo delle vendite, ma hanno solo cercato di riposizionare la propria immagine vantando la bontà degli approvvigionamenti dall’estero, come fa Barilla: hanno imposto agli agricoltori italiani un disciplinare su cui scrivere che il grano venduto non contiene glifosato, ma è del tutto superfluo poiché in Italia nessuno spruzza diserbante sulle spighe.

Le sostanze rilevate però sono presenti in quantità che rispettano i limiti previsti dalla legislazione europea, dunque qual è il problema?
Sono nei limiti, però non ci sono prove scientifiche che dimostrino che tutti questi contaminanti, assunti insieme, non provochino danni alla salute. Sui limiti ci sarebbe da discutere. La Fao fissa la presenza della micotossina DON (deossinivalenolo) a 1.000 ppb (parti per miliardo), solo che in Europa a partire dal 2006 questa soglia è stata portata a 1.750. In Canada il grano che supera la soglia di 1.000 ppb non viene dato nemmeno agli animali: è questa la roba che finisce in Europa. Quanto al glifosato, nel 2016 l’Europa, essendo impossibile stabilire una soglia di pericolosità, si è messa al riparo vietandolo del tutto. Quindi, teoricamente, le paste con tracce di glifosato dovrebbero essere fuorilegge. Abbiamo rivolto la questione al ministero della Salute, ma non ci hanno saputo rispondere.

Se il grano che già oggi importiamo dal Canada è inquinato, cosa cambierebbe qualora venisse approvato il Ceta?
Con il mutuo riconoscimento della legislazione, l’Europa sarebbe costretta ad accettare l’impalcatura giuridica canadese. Il legislatore italiano, per fare solo un esempio, non potrebbe più rifiutare la pasta contaminata al glifosato, quindi verrebbe neutralizzato il principio di precauzione.

Chi utilizza solo grano italiano produce pasta non contaminata?
Il grano italiano non garantisce nulla. La vera garanzia sarebbe scrivere su un’etichetta che nella pasta non ci sono sostanze contaminanti. Anche nel grano prodotto in Italia possono trovarsi elementi di tossicità, nelle zone più umide del paese per esempio è più facile che si sviluppi la micotossina. Comunque va detto che in Italia si producono ottime paste a 0 ppb fatte con grano secco dove il fungo non si sviluppa. Che prendano il grano dove vogliono, ma le industrie devono dire al consumatore cosa contiene a livello di residui tossici. Del buon grano turco, o spagnolo, può avere le stesse caratteristiche qualitative di quello italiano.

Il grano duro italiano di alta qualità viene anche esportato. Eppure la produzione totale non soddisfa il fabbisogno interno.
Il nostro grano è prezioso e viene venduto all’estero a prezzi più alti. Noi abbiamo l’oro e lo esportiamo, poi per soddisfare il mercato interno a volte lo tagliamo con un po’ di argento. Sta succedendo questo. Nel Maghreb vogliono il nostro grano, non quello canadese: oggi è più tutelato un marocchino che mangia cous-cous di un italiano che mangia la pasta.

Cosa potrebbe fare il governo per tutelare produttori e consumatori?
Dotarsi di una politica di settore che non ha mai avuto. Il cibo, invece, continua ad essere utilizzato come merce di scambio per trattati internazionali e per incrementare l’export. Il governo dovrebbe decidere cosa è strategico per il paese e poi potenziare i controlli. Un esempio: il ministero ha un elenco di sostanze da cercare negli alimenti stoccati nei porti italiani e tra queste non figura il glifosato. Come mai? Servono controlli seri su tutti i derivati dai cereali: pasta, pane, pizze, dolci.

Tutti gli agricoltori italiani sono impegnati in questa campagna?
Non tutti nello stesso modo. Il sistema agricolo italiano accetta supinamente la filiera capestro imposta dalle multinazionali dei pastai che fissano i prezzi minimi e massimi. Con la complicità del governo.

«NOI, PADRI DEL BIO ITIANO,
CONTRO IL CETA»
di Monica di Sisto
«Reportage. Per Girolomoni la pasta è un progetto politico. Il fondatore portò il biologico in Italia. Ora spiegano come si può produrre senza glifosato»
Naturalmente No Ceta: «Perché produciamo anche per il mercato estero e sappiamo che, adeguandoci ad esso, potremmo farlo a costi decisamente inferiori. Ci rimetterebbero la qualità, i consumatori, il territorio, l’ambiente, noi stessi. Dovremmo rinunciare a principi e valori, e non valgono così poco».
Giovanni Battista Girolomoni, poco più che trentenne, ha gli occhi accesi da un sogno e una grande eredità sulle spalle. Con suo fratello Samuele e sua sorella Maria sono le gambe sulle quali cammina ancora, tra i campi di Isola del Piano di cui è stato sindaco per dieci anni, Gino Girolomoni, il padre del biologico italiano, spentosi all’improvviso nel 2012. Gino nel 2006 aveva lanciato un appello agli abitanti della provincia di Urbino perché sostenessero alle elezioni politiche «quei candidati che si adopereranno affinché in un territorio non si compia alcuna scelta senza il consenso della maggioranza dei suoi abitanti».
Per questo avrebbe apprezzato la scelta dei suoi figli di ospitare nel loro festival Ville e castella una delle tappe del No Ceta tour, sostenuto dalla Campagna Stop Ttip Italia in piazze e città italiane per fermare la ratifica del trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Canada da parte del Parlamento italiano.
Per i Girolomoni la pasta, prodotto di punta dell’azienda che porta il nome di Gino e viene gestita in forma cooperativa nel cuore delle Marche, non è solo cibo e denaro ma un progetto politico: «Nel 1980 un’ispezione dei Nas gliene sequestrò 400 quintali per frode commerciale, perché la definiva biologica quando in Italia non c’era ancora una legge che riconoscesse questa produzione», racconta Giovanni. «Mio padre vedeva un futuro che le normative hanno faticato a definire, ma che noi vogliamo continuare a scrivere» sostiene, camminando tra le macchine a trafila di bronzo e le celle statiche dove la pasta lentamente essicca, preservando qualità e profumo speciali.
Ma se il trattato di liberalizzazione tra Europa e Canada dovesse passare la ratifica, il Ceta porterebbe a contraddire e a concorrere slealmente con quella filosofia di vita e produzione. Per il trattato tra Europa e Canada,1057 pagine dove si affronta un po’ di tutto – dagli investimenti alla finanza, dalle professioni ai brevetti, fino al cibo – l’unico criterio che conta è che il commercio tra le due sponde dell’Atlantico sia il più facile possibile.
Già al momento, soprattutto per il grano, è decisamente fluido: l’Italia è il principale produttore europeo di grano duro, destinato alla pasta, con 4,9 milioni di tonnellate su una superficie coltivata pari a circa 1,3 milioni di ettari.
Nonostante ciò sono ben 2,3 milioni le tonnellate di grano duro che arrivano dall’estero in un anno (dal Canada 1,2 milioni di tonnellate) senza che questo venga reso noto ai consumatori in etichetta. Per Girolomoni, invece, nonostante venda anche in Nuova Zelanda e Giappone, «sono un centinaio le aziende agricole coinvolte direttamente e il grano è comunque tutto italiano, principalmente di filiera marchigiana», elenca Giovanni Battista.
Chi sale attraverso i colli di solchi e viti verso la collina di Montebello, 150 ettari a pochi chilometri da Urbino, incontra un mondo contromano rispetto alle regole che il Ceta vorrebbe imporre, ma economicamente vincente.
La Gino Girolomoni Cooperativa Agricola è una realtà che va dal campo alla pasta ma resta ben integrata nelle colline circostanti. A una passeggiata di distanza si staglia l’ex monastero di Montebello, strappato alla rovina da Girolomoni padre, che ha ospitato negli anni incontri con intellettuali e artisti come Sergio Quinzio, Ivan Illich, Guido Ceronetti, Paolo Volponi, e dove ogni anno passano centinaia di ospiti appassionati da accoglienza, cucina e un intenso calendario di eventi.
Con i suoi 200 agricoltori, 37 dipendenti e con i suoi oltre 11,5 milioni di fatturato, l’azienda cooperativa Gino Girolomoni, «che è voluta rimanere tale perché così si è tutti responsabili e partecipi», spiega ancora Giovanni Battista, ha contribuito in modo sostanziale allo sviluppo del biologico in Italia.
Nei pressi del monastero, circondato da circa duemila ettari di foresta demaniale, ha sede l’attività della Cooperativa con i suoi magazzini, la stalla, il pastificio. Oggi, dopo oltre trent’anni, buona parte della superficie agricola del comune di Isola del Piano è coltivata con il metodo dell’agricoltura biologica.
«Facciamo in casa anche l’energia – spiega ancora Girolomoni jr – Quella che usiamo è tutta da fonti rinnovabili: in parte acquistata certificata e per circa un terzo ricavata da un sistema composto da un parco di pale eoliche e da un tetto fotovoltaico».
È anche in corso uno studio di fattibilità per la produzione di energia termica da biomasse. Il Canada del giovane premier Justin Trudeau invece ha sbloccato, con l’aiuto del presidente americano Donald Trump, la costruzione dell’oleodotto transfrontaliero Keystone XXL che gli consentirà di immettere sul mercato internazionale 173 miliardi di barili di petrolio da sabbie bituminose canadesi che, se bruciati, secondo i conti di Oil change international, genererebbero quel trenta per cento di anidride carbonica che ci porterebbe oltre l’obiettivo di 1,5 gradi centigradi di incremento di temperatura atmosferica stabilita come soglia massima di aumento con l’accordo di Parigi contro i cambiamenti climatici.
Il Ceta introduce anche l’applicazione del principio di equivalenza delle regole sanitarie e fitosanitarie tra il Canada e l’Europa, che consentirà ai prodotti canadesi di non sottostare a nuovi controlli una volta arrivati alle nostre frontiere.
Un rischio annunciato visto che in Canada sono impiegate nell’agroalimentare 99 sostanze vietate in Unione europea tra cui il glifosato, attualmente sotto processo in Europa, e il mortale Paraquat, illegale da noi da oltre vent’anni.
Nel Canada del Ceta il grano, ad esempio, non solo è trattato con il glifosato, l’erbicida di casa Monsanto sospettato di essere cancerogeno e oggi vietato in Italia, ma arriva nel nostro Paese già vecchio di un anno, visto che la raccolta avviene in settembre. Perché si irrora il grano con il glifosato? Per seccare le piante in un Paese in cui abbastanza sole non c’è, abbattere le tossine e garantire artificialmente un livello proteico elevato nelle spighe, concentrando più nutrienti ma anche tutti i residui chimici.
Nel mondo di Girolomoni, invece, la semina del grano avviene verso i primi di novembre. Raggiunta un’altezza di circa dieci centimetri, il germoglio si ferma per tutto l’inverno. La pianta di grano, infatti, torna a crescere velocemente dopo la pausa invernale.
A luglio, essendo ormai il grano secco e maturo, si procede con la trebbiatura, che separa i chicchi della spiga dalla paglia e dalla pula. Il grano raccolto viene controllato e, una volta accertata la qualità, la pulizia e un’umidità non superiore all’undici per cento, collocato nei silos di stoccaggio.
Prima del riempimento i silos vengono puliti con cura e trattati con polvere di diatomee che uccide gli insetti per disidratazione. Successivamente si deve muovere e arieggiare costantemente il prodotto fin verso la fine di settembre: questo, infatti, è il periodo in cui calore e umidità in eccesso possono creare muffe, germinazioni e infestazioni di insetti e le si combatte con lavoro e natura.
«Gli investimenti futuri e le idee vanno nel costruire una filiera della pasta sempre più sicura per qualità e sostenibilità ambientale», è il programma di Giovanni, il cui ultimo passo è stato un centro di stoccaggio da 10 mila quintali a Isola del Piano per la raccolta del grano locale, e il prossimo, «se le cose vanno come sembra – suggerisce – sarà un mulino, che ci permetterebbe controllo della qualità e autosufficienza totali. Senza contare che potremmo aumentare la produzione locale strappando ancora più territorio all’abbandono».
«Il Ceta ci offre l’occasione di sorpassare tutti i nostri concorrenti. Il governo deve lavorare nella sua applicazione per superare gli ostacoli rimanenti, legati alle condizioni poste in Europa ai trattamenti su produzioni e colture e alle biotecnologie; questioni importanti che devono essere affrontate perché l’accordo possa offrire il proprio potenziale», è invece l’agenda d’azione dei suoi colleghi d’oltreoceano, rappresentati dalla potente Canadian Agri-Food Trade Alliance (Cafta).
Visioni da avere ben presenti per decidere da che parte di futuro stare.

In un formato abbastanza sintetico un programma di lavoro per rendere il mondo più vicino a quanto ci piacerebbe che fosse. A Tomaso non è dispiaciuto


Premessa
Maria Pia Guermandi ha invitato alcuni amici, estimatori di Tomaso Montanari e conquistati dalla piattaforma politica lanciata al Teatro Brancaccio di Roma nel luglio 2017, di specificare, in un numero limitato di schede, le proposte che vedrebbero utilmente contenute in un programma elettorale coerente con quella piattaforma politica. Abbiamo riflettuto, ragionato, discusso, scritto e corretto. Qui il nostro prodotto. Lo abbiamo inviato a Tom, perché ne faccia ciò che crede meglio.


1. Definizioni

Città, territorio, urbanizzazione, territorio urbanizzato, habitat dell’uomo. La città è la forma che ha assunto, in una determinata fase della storia dell’umanità, l’insediamento della società (delle società) sul territorio: una forma caratterizzata dalla spiccata densità della popolazione, dalla forte intensità delle relazioni tra i suoi abitanti, e dalla parallela consistenza delle trasformazioni fisiche e antropiche del suolo (al limite “la repellente crosta di cemento e asfalto” A. Cederna).

Nel tempo, la contrapposizione tra città e territorio rurale, dove dominava ancora la natura e le trasformazioni erano lente, si è affievolita. IL processo di espansione della civiltà urbana si è esteso molto al di là dei confini delle città, investendo parti via via più ampie del territorio del pianeta Terra. In gran parte del mondo, la condizione urbana, un’espressione di Manuel Castell per indicare una situazione socio-economica, politica e culturale, oltre che fisica, investe e comprende il territorio. Il termine “territorio urbanizzato” può volta per volta essere adoperato sia per indicare questa condizione, che travalica i confini della città tradizionale, che per identificare l’area interessata dal processo di urbanizzazione e trasformazione fisica del suolo.

Gli esseri viventi continuano a insediarsi in modi diversi e non sempre secondo quella densità di relazioni che contraddistinguono la città. Ma gli insediamenti sono sempre il risultato di un rapporto particolare tra essere umano e la natura circostante, con tutte le implicazioni che questo comporta. Per enfatizzare l’importanza di questo rapporto, nel parlare della città, del territorio e degli insediamenti umani in generale, si può usare l’espressione “habitat dell’uomo” di Piero Bevilacqua.

2. Il blocco edilizio: l’appropriazione privata della rendita urbana

“Il blocco edilizio” è il titolo di un geniale saggio di Valentino Parlato (il Manifesto, 1970, oggi su eddyburg), e di una realtà sociale, tutta italiana, che ha ostacolato, e continua a ostacolare, i tentativi di governare efficacemente il territorio e la società che lo abita. Questa analisi della produzione edilizia e delle stratificazioni che ne fanno parte o ad esso subordinate, mette in luce la saldatura tra interessi privati, (grandi e piccoli, industriali e commerciali), poteri pubblici e rendita immobiliare che caratterizzano l’affare casa in Italia e detta legge nelle scelte urbanistiche e di pianificazione del territorio.

Allo stesso livello di analisi, si pone la successiva analisi di Walter Tocci sul trionfo della rendita, nell’età del finanzcapitalismo (L’insostenibile ascesa della rendita urbana, 2008, oggi su eddyburg. Questo saggio mette in luce le ulteriori trasformazioni avvenute nella città neoliberista con finanziarizzazione dell’economia, che ha rafforzato l’intreccio tra rendite finanziarie e rendite immobiliare, a scapito del salario e del profitti.

L’esistenza della rendita immobiliare e della sua continua crescita in relazione alle trasformazioni quantitative e qualitative delle diverse porzioni della città esprime una caratteristica peculiare e un’anomalia di fondo. La rendita, quando gli interessi ad essa legati sono dominanti, fa si che il perimetro della città si allarghi indipendentemente dalle reali necessità delle comunità che ci vivono e che i suoli edificabili a fini privati prevalgano su quelli destinati ad usi collettivi. L’anomalia sta nel fatto che gli attori che provocano gli aumenti di rendita, in virtù delle trasformazioni apportate nell’area, sono generalmente collettivi e spesso pubblici, mentre l’appropriazione del suo effetto (l’incremento della rendita) è individuale e generalmente privato.

3. il conflitto di fondo: città della rendita o città dei cittadini

Dalla definizione della città come habitat dell’uomo, e peso che ha nelle sue trasformazioni l’appropriazione privata della rendita, nasce il conflitto di fondo che caratterizza la città. Occorre domandarsi se le sue trasformazioni (fisiche, funzionali, proprietarie, fruitive) devono essere dominate dalla logica dell’accrescimento dei benefici economici ottenibili attraverso la loro privatizzazione, oppure da quella del suo miglioramento qualitativo in relazione ai bisogni della società che la abita?

Questo conflitto è tradizionale per la città, ma ha visto mutare le sue forme in relazione alle gigantesche trasformazioni avvenute nell’attuale epoca (o fase) della globalizzazione capitalista:
- l’assorbimento della rendita urbana nel più vasto e potente complesso del potere finanziario, attraverso il quale un gruppo di poche decine di persone detta le regole dei processi economico-sociali mondiali;
- l’accrescimento dalla differenza di potere e di reddito tra un’area sempre più limitata di attori e il resto della popolazione mondiale;
- l’accentuazione delle differenze interne tra gruppi sociali caratterizzati da diversi modi di appropriarsi del territorio, di organizzarlo e di viverlo (un mosaico di recinti, e al tempo stesso un recinto nei confronti del mondo esterno all’area del benessere.

4. Che cosa deve essere la “città dei cittadini?

Se vogliamo combattere davvero la città della rendita non possiamo fermarci agli slogan: dobbiamo raccontare che cosa vogliamo nel concreto. Dobbiamo esprimere un’ immagine chiara di ciò che vogliamo. Proviamo subito a farlo, ma rendiamoci subito conto che il nostro racconto sarà parziale: sappiamo quello che vorrebbero le persone che hanno avuto modo di esprimere le loro esigenze, non sappiamo che cosa vogliono i giovani di oggi, e gli abitanti di domani e come dobbiamo comporre queste esigenze con quelle già note. Proviamo a elencare alcuni requisiti, già emersi nelle esperienze degli adulti e degli anziani, delle donne e dei bambini, degli operai e degli impiegati.

Una città bella perché equa: una città in cui siano presenti tutti i luoghi e i servizi necessari al di là dell’uscio della propria abitazione, distribuiti sul territorio in modo che siano raggiungibili da tutti quale che sia il loro reddito. Una città nella quale , accanto alle aree trasformate e rese artificiali c’è la maggiore quantità possibile di suolo naturale per mantenere l’adeguato approvvigionamento di acqua, cibo, e contatto con la natura. Una città senza barriere né recinti, fisici o sociali che siano: che faciliti le relazioni tra le persone e i gruppi sociali diversi, in cui l’identità delle singole parti non cancelli né impedisca il colloquio tra le diversità, e anzi lo stimoli. una città che consenta agli esseri umani di mantenersi in salute, facendo fronte all’inquinamento sempre più grave e a una produzione di cibo, la cui qualità oggidipende dal quanto ciascunopuò spendere. Una città che consenta agli altri essere viventi, animali e piante, di vivere in armonia con gli umani. Una città capace di razionalizzare la propria produzione di merci per tornare a dare alle merci un valore d’uso più che di scambio e consentire una riduzione degli sprechi e dei rifiuti. Una città capace di decidere del proprio futuro attraverso la pace e il dialogo, seppure lungo e strenuante, e aperta alla collaborazione e cooperazione con i territori vicini e non in competizione con essi.

5. Le regole necessarie per trasformare il territorio

La città e le sue trasformazioni possono essere il risultato di una somma di eventi individuali oppure possono essere guidate da una o più politiche pubbliche. La prima soluzione, almeno a partire dall’epoca dell’affermazione del capitalismo si è rivelata fallimentare.

D’altra parte si è rapidamente compreso che la vita urbana richiedeva una forte integrazione tra la collocazione sul territorio delle diverse sedi per la vita e le attività degli uomini e gli strumenti della connessione fisica.

È nata così l’esigenza di far precedere le singole trasformazioni del territorio (insediamenti residenziali, industriali, commerciali, strutture per i servizi collettivi, infrastrutture per il trasporti delle persone, delle merci ecc.) da un inquadramento complessivo generalmente costituito da una rappresentazione fisica del territorio e delle trasformazioni desiderate) e da un testo normativo, capaci nel loro insieme di trasmettere ordini o divieti ai singoli utilizzatori/trasformatori del territorio.

La prima legge urbanistica italiana degna di questo nome è quella dell’ agosto 1942.

Essa statuiva, o confermava da leggi precedenti, alcuni principi di notevole rilievo, che si sono in gran parte smarriti nel tempo: il primato del pubblico sul privato nelle decisioni sulle trasformazioni del territorio, la multiscalarità, la facoltà del pubblico di espropriare le aree necessarie all’espansione senza riconoscere ai proprietari l’aumento di valore dei loro beni.

Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando l’esigenza di ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto e governare la trasformazione della struttura economica da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale, avrebbero richiesto il massimo impiego della pianificazione urbanistica e territoriale, queste invece furono totalmente abbandonate.

La struttura generale della legge è rimasta pressoché immutata, salvo le importanti modifiche intervenute dopo l’istituzione della Repubblica e nella metà degli anni Sessanta del secolo scorso. Gli standard urbanistici

Un progresso decisivo nella legislazione urbanistica italiana (purtroppo molto meno nella prassi) è stata l’introduzione degli standard urbanistici: cioè della regola che ad ogni abitante spettasse il diritto di godere dell’uso di una determinata porzione di spazi pubblici e di uso pubblico (6 agosto 1965). Questo evento va segnalato con una forte sottolineatura per molte ragioni:
1. perché è la prima affermazione, nel sistema legislativo italiano, del “diritto alla città” (Henri Lefebvre, 1967), bandiera per i movimenti che a partire da quegli anni hanno operato per il miglioramento della condizione urbana, attraverso la richiesta di servizi e spazi ad uso collettivo ed accessibili a tutti da sottrarre alla logica della rendita;
2. perché è un risultato raggiunto grazie all’incontro fecondo tra forze sociali -esprimenti esigenze diverse (donne, studenti, classe operaia, intellettuali), ma confluenti - di radicali mutamenti nell’organizzazione dell’habitat dell’uomo;
3. perché costituivano un primo passo verso l’affermazione che la città e un “bene” e non una ”merce”, caratterizzata da una logica “comune” e non “individuale;
3. perché poneva alcune basi essenziali per il miglioramento concreto delle condizioni di vita di tutti gli abitanti della città.

6. La città e la società del benessere

Quella che abbiamo sommariamente decritta –e si è affermata in Italia dal dopoguerra in avanti raggiungendo il suo più elevato grado, negli anni Settanta e Ottanta - può essere definita la “città del benessere”. Essa è uno degli elementi di una società che gode anch’essa dello stesso attributo.

Città del benessere e società del benessere sono il frutto della medesima politica, della quale abbiamo a lungo goduto i frutti senza renderci conto che, se ci sono dei frutti, devono esserci delle radici e chi le annaffia e le nutre, a che se in una parte del mondo ci sono dei guadagni in un’altra parte ci sono delle perdite.

Vivevamo nel mondo del capitalismo (quello privato in una parte del mondo e quello di Stato in un’altra: in modo differenziato sotto molti profili al di qua e al di là della “cortina di ferro” e a seconda del differente grado di maturazione del capitalismo e dei suoi conflitti, ma sostanzialmente in modo migliore che nel resto dl mondo.

Là dove si era consolidata la città del benessere, e si abitava meglio, quelle stesse lotte che avevano contribuito a raggiungere questo risultato avevano condotto a ottenere risultati importanti e positivi (per chi poteva goderne) anche su altri terreni: il lavoro, la condizione delle donne, la tutela della salute e della vecchiaia e quella dell’ambiente.

Si trattava della città e della società nelle quali il compromesso tra i diversi gruppi sociali antagonisti (a partire dalle classi) segnava la conclusione di ogni conflitto.

Ma la storia insegna che il sistema capitalistico non è regolato da una logica dialettica perfetta. Il conflitto tra “tesi” e “antitesi” non si risolve in una “sintesi”, che assorbe e compensa gli interessi dell’una e dell’altra: essa si è di fatto risolta non “risolvendo” le contraddizioni, ma “esportandole”.

Ecco allora che, quando il bilanciamento tra la forza contrattuale della classe sfruttatrice nei confronti della classe sfruttata diminuiva, ecco allora che la prima allargava i confini dell’area dello sfruttamento. Ecco allora manifestarsi le varie fasi dello sfruttamento ad altri paesi, altre regioni, e altri settori, prima di allora esclusi, o solo relativamente coinvolti, nell’area del sistema capitalistico.

7. A Lampedusa

Una mattina ci siamo svegliati, e le contraddizioni del nostro modello di sviluppo sono diventate palesi, anche se moltissimi tentano ancora di evitare il confronto con la realtà. Centinaia di persone sono morte, affogate nel Mediterraneo, perché il nostro benessere era stato pagato da un meccanismo che, attraverso le varie fasi dello sfruttamento delle risorse altrui, aveva trasformato le loro regioni in inferni, dai quali tentavano di scappare.

La morte nei nostri mari, a pochi passi da noi, di quelle persone ha posto la domanda del perché fuggivano sapendo dei grandissimi rischi da affrontare. La risposta ha fatto comprendere, a coloro che se la sono posta, che il prezzo del nostro benessere era stato pagato con l’impoverimento dei popoli di cui avevamo rubato le risorse: a cominciare dagli uomini resi schiavi agli albori del colonialismo, per proseguire con l’estrazione dal suolo dei loro minerali e del loro petrolio, per proseguire ancora con la sostituzione delle nostre colture industriali ai loro regimi alimentari, con la distruzione delle loro culture e delle loro lingue, con la sostituzione del nostro imperialismo ai loro poteri, delle nostre lingue alle loro. E’ la truffa della parola “sviluppo” utilizzata per giustificare lo sfruttamento di popoli e risorse situati su territori lontani, in nome di una cultura superiore, più “sviluppata”.

Sviluppo non significava aumento della nostra capacità di ascoltare e comprendere gli altri, qualunque lingua essi adoperassero, utilizzando insieme cervello e cuore: significava solo aumento della produzione e consumo di merci, aumento della ricchezza di chi produceva e induceva a consumare merci sempre più inutili , sacrificando per una merce inutile ma fonte di maggior ricchezza il produttore a un bene che veniva distrutto (un bosco antico per qualche tonnellata di legname, una città storica per una marea di turisti, un paesaggio di struggente bellezza in una selva di palazzoni o una marea di villette).

Questo sviluppo, da un obiettivo è diventata una religione, una credenza cui tutti si inchinano obbedienti. In nome di questo sviluppo abbiamo invaso, saccheggiato, distrutto altre regioni e altri popoli, abbiamo trasformato paradisi in inferni da cui fuggire. E alla fine del ciclo abbiamo trasformato i fuggitivi da nostri simili in cerca di salvezza in nemici da abbattere.

8. I nostri doveri nei confronti del mondo

Il primo passo che dobbiamo compiere è diventare consapevoli del fatto che la miseria e la disperazione degli inferni del mondo sono fortemente dipendenti dalle decisioni prese nel nostro mondo – e dalla credenza dello “sviluppo” che abbiamo accettato e praticato. I passi successivi si chiamano accoglienza, cittadinanza e una politica estera profondamente diversa.

Accoglienza: i migranti vanno accolti e aiutati a mettersi in salvo, costruendo canali protetti per chi vuole fuggire, sconfiggendo le azioni malavitose che si generano attorno alla domanda di fuga. E non solo tragitti organizzati fisicamente con vettori adeguati, ma politiche di assistenza sanitaria e sociale, alle quali l’Europa deve contribuire a dare il suo sostegno.

Cittadinanza: non assimilazione e omogeneizzazione ma riconoscimento agli stranieri degli stessi diritti e doveri degli italiani, nel rispetto delle differenze culturali e religiose. Significa predisporci noi stessi a diventare diversi da quello che siamo: di diventare noi stessi meticci (se già non lo siamo).

Politica estera: una politica indipendente e incerniera sulla pace e su aiuti umanitari genuini, non legati a meccanismi di sfruttamento di risorse locali, favoreggiamento di interessi economici nazionali, o ricatti politici.

9. Un nuovo modello di sviluppo

Esiste una stretta correlazione tra il modello di sviluppo dominante, l’impoverimento economico e sociale della nostra società, le devastazioni ambientali entro e fuori i nostri confini, e i flussi migratori indotti provenienti dai paesi del Sud del mondo verso il Nord. E chi maggiormente subisce gli effetti negativi di questo sviluppo sono le persone più povere, fragili e molto spesso coloro che meno hanno contribuito a provocarli.

La parola sviluppo è quella che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre settant’anni, il concetto di sviluppo come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo e colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di essere approfondite e altre pratiche di essere attuate.

Nei decenni successivi c’è stata una progressiva sovrapposizione tra sviluppo e “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e che il termine comprende. Così come ci sono stati tentativi di riabilitare la parola stessa nei suoi momenti di crisi, per esempio durante il momento di presa di coscienza ambientale, di preoccupazione per la scarsità di risorse e lo sfruttamento sfrenato della natura.

Se questa coscienza ha introdotto l’importante concetto di “limite alla crescita”, la nozione di sostenibilità - che invece ha vinto - ha matrici diverse. Infatti, quest’ultimo concetto è avvolto da una “modernizzazione ecologica”, dove l’innovazione tecnologica riveste un ruolo centrale. Si riconosce una crisi ecologica, ma a differenza del movimento radicale sul limite della crescita si crede fermamente di poter interiorizzare la cura per l’ambiente.

10. Lo sviluppo: una credenza

La caratteristica peculiare dello sviluppo, e dell’immaginario che lo accompagna, è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito, anche grazie all’aumento costante delle merci prodotte. Ma, come scrive Gilbert Rist, l’egemonia dello sviluppo si è potuta affermare solo grazie ad un’illusione semantica, attraverso la creazione del sottosviluppo, cioè creando uno “pseudo contrario” che ha trasformato una credenza in senso comune, e facendo credere nella possibilità di trasformare l’intero mondo ad immagine e somiglianza.

Invece, a distanza di 70 anni ci ritroviamo un pianeta caratterizzato da profonde diseguaglianze socio-economiche, in cui lo sfruttamento delle risorse naturali e la protezione dei capitali e dei profitti dei grandi investitori sta provocando espulsioni di lavoratori, agricoltori e residenti non abbienti da un numero sempre più consistente di aree e progressivamente deteriorando l’ambiente fisico, sociale e culturale in cui viviamo. Queste contraddizioni non sono esportabili all’esterno del suo core (la società nord-atlantica), ma colpiscono il suo stesso bacino sociale e le misure adottate dai governanti sono tali da aggravare la crisi anziché mitigarne gli effetti.

Occorre superare il paradigma dello sviluppo e dell’infinita e indefinita produzione di merci, poiché è una produzione indipendente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società. L’economia “data”, (vogliamo alludere con questo termine al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile), va radicalmente trasformata. Due paradigmi a cui appellarci, per esplorare, indagare, studiare e sperimentare un nuovo sistema socio-economico, sono quello dei “beni comuni” e della “città come bene comune”.

Per cominciare, una nuova visione del mondo e dell’economia, radicalmente diversa da quella nel cui ambito viviamo da troppi secoli. Non è uno sforzo né semplice né breve, ma se la distanza tra il mondo attuale e quello che vogliamo costruire è grande, grande, determinato e costante dovrà essere il nostro impegno.

Occorre anche essere pronti a superare l’eurocentrismo, che ha prodotto una sorta di inamidatura dei modi di vivere, produrre, consumare, rapportarsi agli altri. In questo senso, l’ondata immigratoria può costituire una risorsa e un’opportunità di rinnovamento della civiltà europea, nord-atlantica e globale. La globalizzazione, se intesa in questo senso di commistione, condivisione, confronto, dialogo e sintesi (al plurale) di modi di vivere e concepire diversi, diventa un’occasione di innovazione ed emancipazione.

11. Una nuova visione del lavoro

Un nuovo modello di sviluppo richiede una revisione del concetto e visione del lavoro.

Nell’economia capitalistica, esiste una immensa quantità di lavori necessari per la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita che non vengono effettuati, perché il Mercato non li considera utili (non producono né profitto né rendita). Esiste insomma una enorme domanda insoddisfatta di lavoro. Pensiamo alla ricostituzione dell’integrità fisica dei terreni non urbanizzati, alla ricostituzione del reticolo idrologico, ai rimboschimenti, allo sviluppo di un’agricoltura articolata secondo le diverse potenzialità e le diverse domande alimentari. Pensiamo alla ristrutturazione edilizia e urbanistica delle lande urbane devastate dalla speculazione. Pensiamo a una ricostruzione dei sistemi per la mobilità non più basati su modalità energivore e inquinanti. Pensiamo alle dotazioni di spazi pubblici articolati in relazione delle esigenze, delle loro caratteristiche.

Il lavoro è qui inteso come l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere (K. Marx). Il lavoro, quindi, deve essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione soltanto alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.

Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avviene nel sistema capitalistico.

12. E nell’immediato che fare?

In una simile nuova economia la distribuzione delle risorse tra le possibili opzioni alternative avverrebbe (e noi speriamo, avverrà) in modo del tutto diverso che nell’attuale Mercato (l’oligopolio costituito da un gruppo di poche decine di padroni del mondo delle finanze). Ma nel frattempo occorre porsi due domande:

1. come reperire le risorse finanziarie necessarie per soddisfare l’enorme domanda insoddisfatta di lavoro di cui abbiamo detto, retribuendo adeguatamente la forza lavoro che dovrà esservi impiegata?

2. come difendere quello che di positivo è rimasto?

13. La spesa militare come risorsa finanziaria

La risposta alla prima domanda è facile. Basta pensare alla gigantesca mole di risorse impegnata per realizzare opere inutili e spessissimo anche dannose, la cui realizzazione è motivata solo, o prevalentemente, da interessi economici dei promotori e realizzatori. E basta pensare alla quantità di risorse, non solo finanziarie, dissipate per convincere il consumatore che questo prodotto è utile ed è diverso da quest’altro Basta infine alla dimensione degli sprechi causata dalla “obsolescenza programmata” degli oggetti d’uso corrente.

Ma vogliamo porre l’accento su un’altra spesa gigantesca, e per di più terribilmente nociva per l’umanità: le spese militari.

L’Italia nel 2017 spenderà per le forze armate almeno 23,4 miliardi di euro (64 milioni al giorno), più di quanto previsto. Quasi un quarto della spesa, 5,6 miliardi (+10 per cento rispetto al 2016) andrà in nuovi armamenti (altri sette F-35, una seconda portaerei, nuovi carri armati ed elicotteri da attacco) pagati in maggioranza dal ministero dello Sviluppo economico, che il prossimo anno destinerà al comparto difesa l’86 per cento dei suoi investimenti a sostegno dell’industria italiana. La sovrapposizione delle competenze di due ministri (Difesa e Sviluppo economico) aiuta a comprendere le ragioni dell’opacità delle informazioni provenienti dalle fonti ufficiali italiane (I dati che qui riportiamo provengono dall’istituto di ricerca svedese SIRTI).

Le spese militari italiane sino in aumento costante dal 2.000. Nell’ultimo decennio italiane sono cresciute del 21 per cento – del 4,3 per cento in valori reali – salendo dall’1,2 all’1,4 per cento del Pil.

Il 70 % della spesa è costituita dalle spese per il personale, in massima parte costituito da graduati. Ciò aiuta a comprendere l’ampiezza del blocco sociale favorevole al mantenimento della spesa militare ai suoi attuali livelli. C’è infine da osservare che gran parte della spesa per armamenti l’Italia è tributaria di fornitori stranieri.

Questi dati (cui bisognerebbe aggiungere quelli sui numerosi coinvolgimenti di contingenti militari italiani in guerre in altri paesi) rendono stupefacente il fatto che il tema della lotta per la pace sia scomparso dall’attenzione della sinistra.

14. La pianificazione come tutela della città dei cittadini

In attesa di elaborare e rivoluzionare il sistema economico-sociale in cui viviamo (ciò che significa anche sconfiggere alla radice “la città della rendita”) occorre orientare e plasmare il più possibile il sistema in cui viviamo. Lo scopo è chiaro: una tensione verso la “città dei cittadini” attraverso la difesa delle conquiste sociali già ottenute (ma sempre a rischio), della salvaguardia delle risorse ambientali in cui viviamo sfruttando le conoscenze già in possesso, e una promozione dei valori della pace, partecipazione, e diversità culturale.

Alcune questioni che la pianificazione si deve fare immediatamente carico, sapendo che ciascuna di esse richiede una lotta contro la rendita e i poteri che la difendono:

1. sovranità e qualità alimentare. I cambiamenti climatici in corso e il deterioramento dell’ambiente naturale pone l’alimentazione come una sfida non solo per i paesi poveri, ma anche per quelli ricchi. L’Italia deve difendere la propria relativa autonomia alimentare non come “marchio Italia” ma come pratica per sostenere una popolazione in salute. L’accesso a tutti a una alimentazione sana e di qualità deve diventare una priorità non solo per le politiche sociali, ma anche per le politiche economiche e territoriali. Il “ritorno alle terra” sentito da molte nuove famiglie e individui dovrebbe essere incoraggiato e sostenuto.

2. la salute ambientale, dalla tutela della qualità dell’aria e dell’acqua, alla difesa da erosioni, alluvioni e terremoti attraverso una politica di vera prevenzione e non di emergenza, come quella che ha caratterizzato l’Italia negli ultimi decenni.

3. Una nuova stagione di politiche pubbliche urbane e territoriali nelle quali siano posti al centro il valore d’uso e un’idea ampia di cittadinanza ponendo l’attenzione sugli standard (aggiornati e ampliati per rispondere ai nuovi bisogni) e al connesso sistema degli spazi e servizi pubblici, nonché sulle “piccole opere” di manutenzione, ri-uso e cura dell’esistente.

IB, ES, 10 novembre 2017

La città invisibile, 30 ottobre. L'incendio ha messo in luce quanto già da tempo si sapeva: gli scavi per la costruzione della Tav hanno progressivamente disseccato le sorgenti d'acqua privando il territorio di una risorsa importante.

Ottava giornata di fuoco e fumo, altri ettari di boschi resi estremamente infiammabili da oltre novanta giorni di siccità stanno bruciando inesorabilmente nonostante la lotta commovente che sfinisce Pompieri, Aib e volontari che non contano le ore, i pasti saltati e i veleni respirati. Loris Mazzetti – scrittore, giornalista e dirigente Rai che era venuto a trovarci giovedì per presentare il suo ultimo lavoro, “la profezia del Don” dedicato a un prete che non prometteva miracoli, (li faceva) – ha voluto trattenersi per altri due giorni per vedere di persona quel che stava succedendo nella Valle dei No Tav.

Ecco cosa ha scritto sulla piazza virtuale Facebook, la più frequentata al mondo: “Sono stato in Valsusa a presentare il libro La Profezia del Don. La valle è devastata da incendi dolosi, non si vede il sole per colpa del fumo, si respira a fatica, la solidarietà non basta, occorre la presenza dell’esercito, ci vogliono leggi adeguate contro chi provoca gli incendi. L’informazione nazionale deve fare di più non è un problema che riguarda solo il Piemonte è l’Italia che è stata colpita. In alcune zone le fiamme sono a ridosso delle case, un giovane di venti…sei anni mentre tentava di spegnere le fiamme è morto d’infarto, vigili del fuoco salvati per miracolo, animali morti. No, no la solidarietà non basta. Basta con i soldi sperperati dalla politica per inutili referendum, basta con treni che vanno su e giù per il Paese per campagne elettorali che durano mesi e mesi. I cittadini della Valsusa hanno bisogno di risposte immediate. Portiamo le telecamere nella valle.”

Di telecamere siamo invasi ma per inquadrare noi, la nostra ribellione contro chi – prima che qualcuno desse fuoco ai boschi ha bucato per decenni le nostre montagne, i recipienti millenari di acqua potabile e di quella – comunque di buona qualità – di fossi e torrenti che oggi sarebbe stata preziosa per difendere le case, oltre le piante. Milioni di metri cubi persi per sempre con la realizzazione – oltre mezzo secolo fa – della prima centrale in caverna a Venaus da parte dell’Enel e dei francesi di Edf che non appena appropriatisi del Moncenisio nel 1947 – come ritorsione per la guerra persa dall’Italia del duce – vi hanno costruito una della più imponenti dighe d’alta quota d’Europa, decapitando – allo scopo – una montagna trasformata in cava di inerti: la Carrier du Paradis che forse dovrebbe essere rinominata “dell’inferno”. Fino alla grande centrale in Caverna – questa Iren, ma sempre a Venaus – che dopo il versante Cenischia ha mezzo disseccato il versante Dora prelevando l’acqua fin da Pont-Ventoux per far girare le turbine dell’ingegner Garbati (anno 2006) . Versante che era già stato impoverito negli anni ‘70/’80 con lo scavo delle gallerie di raddoppio della ferrovia esistente (altro che storica) e successivamente, negli anni ‘80/’90, dallo scavo delle innumerevoli gallerie dell’Autostrada A32 del Frejus. Per finire – per adesso – con lo scavo del cunicolo della Maddalena di Chiomonte che appena terminato ci si è accorti di dover prolungare di mezzo chilometro e che – nonostante i soli 7 km di lunghezza e il piccolo diametro – di acqua ne ha dispersa e avvelenata in modo sproporzionato.

Mentre non si ricorda mai abbastanza che un expertise internazionale commissionato dagli stessi proponenti la galleria Tav Torino-Lione aveva quantificato nel fabbisogno di una città di un milione di abitanti l’acqua potabile che sarebbe sparita con lo scavo di 57 km di doppia galleria. Paolo Ferrero – naturalista e guardaparco – ha realizzato qualche anno fa un censimento delle sorgenti disseccate che mostra, attraverso delle slide comprensibili persino da un politico di professione, la evidente interrelazione tra il loro disseccamento e il progredire dello scavi di grandi opere.

Mentre scrivo sento l’ormai familiare rumore dei Canadair che fanno la spola ancora tra il lago di Viverone e le Pendici del Rocciamelone dove sta notte sono state evacuate altre borgate di Monpantero e alcune cascine, anche nel territorio della stessa Susa.
Ora quel che sto facendo – scrivere – so che è una attività che – per inutilità conclamata – è seconda solo alle visite pastorali dei politici di palazzo, come quella di ieri di Sergio Chiamparino che di ognuna di queste grandi opere è stato ed è un fan scatenato. La drammatica notte di Monpantero e Susa appena trascorsa speriamo lo inducano almeno a restarsene nel suo polveroso e fuligginoso ufficio di Piazza Castello e ad uscirne solo per andare a ricevere – a Portauova – il suo amico Matteo Renzi di ritorno dal comizio-omelia nella chiesa di Capaccio (Paestum) col collega De Luca per chierichetto.


Claudio Giorno, residente in Val Susa e fondatore del "Comitato Habitat" è tra gli animatori della campagna No Tav.

Internazionale, 27 ottobre. A due anni dal crollo della diga Da Taille di Fundao, costruita per contenere gli scarti della miniera di ferro Sanmarco sul Rio Doce, una documentazione della trasformazione devastante dell'ambiente e delle comunità lungo il bacino del fiume. (i.b)

Il 5 novembre 2015 una diga è crollata nel villaggio di Bento Rodrigues, vicino a Mariana, nel Brasile sudorientale. Era stata costruita per contenere gli scarti di lavorazione di una miniera di ferro di proprietà della Samarco, una joint venture tra l’azienda brasiliana Vale e l’australiana Bhp Billiton.

I villaggi e le comunità danneggiate dall'ondata dei detriti ferrosi
Fonte: www.telesurtv.net

Sessanta milioni di metri cubi di riiuti tossici si sono riversati nel rio Doce prima di sfociare nell’oceano Atlantico, percorrendo più di 850 chilometri negli stati di Minas Gerais ed Espírito Santo. In quello che è stato definito il peggiore disastro ambientale nella storia del Brasile sono rimaste uccise 19 persone. La valanga di fango ha sommerso interi paesi tra cui Bento Rodrigues e Paracatu de Baixo, ha distrutto impianti elettrici e infrastrutture, e ha inquinato fonti di acqua potabile. A due anni dal disastro, le comunità che vivevano nella zona e usavano il fiume per irrigare i terreni agricoli e per pescare, hanno perso la loro fonte di sopravvivenza.

Dal 1986 nello stato di Minas Gerais sono crollate almeno sei dighe, causando la morte di 33 persone. L’incidente del 2015 è stato attribuito al modello di costruzione scelto per la diga, che è stato vietato in alcuni paesi perché ritenuto non affidabile, e alla mancanza di controlli da parte delle autorità.

Le attività della Samarco sono state bloccate subito dopo il disastro. Nell’ottobre del 2016 un tribunale brasiliano ha accusato di omicidio 22 persone, tra cui alcuni dirigenti dell’azienda, ma a luglio del 2017 il processo è stato sospeso per accertamenti sullo svolgimento delle indagini.

Nicoló Lanfranchi ha realizzato questo progetto nel corso di due viaggi. Il primo nel 2015, un mese dopo il crollo della diga, e il secondo nel 2017 grazie a una borsa di studio della fondazione Bild Kunst.

Fonte: http://www.nicolanfranchi.com/watu-death-of-a-river/

Fonte: http://www.nicolanfranchi.com/watu-death-of-a-river/

il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2017. «Duecento km di costa gravemente inquinati dagli scarichi dell’acciaieria Formosa, colosso di Taiwan costretto a scuse pubbliche. Puniti anche 8 leader politici». (p.d.)

In Vietnam non era mai accaduto che un ministro, due vice ministri, un leader provinciale nonché membro del parlamento più altri otto amministratori locali fossero sbattuti sulla prima pagina del sito web del governo e indicati come i responsabili politici e amministrativi della più grande tragedia ambientale che il paese abbia vissuto: l’inquinamento di 200 chilometri di coste con l’immediata e visibile distruzione di oltre cento tonnellate di pesce, la morte di tutti gli allevamenti ittici, la scomparsa delle saline, oltre allo stop per mesi e mesi del turismo e di tutte le attività collegate al mare. Gli incolpati sono stati tutti “irresponsabili nel loro ruolo di dirigenti, non sono stati buoni amministratori, hanno omesso controlli e ispezioni”. Per questo l’ex ministro delle Risorse Naturali e dell’Ambiente Nguyen Minh Quang è stato ufficialmente ammonito, i due ex vice ministri Nguyen Thai Lai e Bui Cach Tuyen non potranno mai più fregiarsi del titolo governativo, e il leader della provincia di Han Tin e deputato nazionale Vo Kim Cu è stato sospeso dal Parlamento e destituito da tutti gli incarichi periferici. Gli altri 8 sono stati tutti trasferiti ad altri uffici, in modo da tenerli ben lontani da qualsiasi pratica che riguardi un impianto di produzione di acciaio della società taiwanese Formosa, un investimento da 20 miliardi di dollari.
Furono proprio i rifiuti della lavorazione, un micidiale miscuglio di acque ad alta concentrazione di cianuro, fenolo e idrossido di ferro, a causare il disastro ambientale che ha colpito direttamente le attività di 260 mila vietnamiti. Era il 6 aprile 2016, quando sulle spiagge della provincia di Ha Tin, dove ha sede la Formosa, cominciarono ad arrivare le carcasse di decine di migliaia di pesci e di crostacei. Nei giorni successivi il fenomeno si allargò a sud fino a interessare altre 3 provincie per 200 chilometri di costa. Fu la paralisi, nessuno andò più in mare e la pressione per sapere le cause del disastro fu giorno dopo giorno sempre più forte, con i timidi e controllati media vietnamiti scatenati a inseguire le ipotesi più diverse e a indagare sul campo con i cronisti che si fecero subacquei per trovare una risposta e il governo che prometteva di far luce rapidamente e rinviava ogni dichiarazione ufficiale.
Fino a quando, il 30 giugno 2016 e senza che la tensione fosse diminuita intorno al caso, fu proprio l’ex ministro dell’Ambiente Ha, con accanto l’ex premier Nguyen Xuan Phuc, il coordinatore del governo Mai Tien Dung, ad essere il protagonista di un colpo di scena accuratamente preparato. In apertura di conferenza stampa, fu proiettato un video in cui il presidente del consiglio di amministrazione della Formosa, Tran Nguyen Thanh, circondato da tutti i dirigenti dell’azienda, si inchinava davanti alla telecamera e ammetteva: “Ci assumiamo ogni responsabilità e chiediamo scusa al Vietnam”. A seguire, l’impegno di pagare un indennizzo di 500 milioni di dollari per i danni.
Si chiesero in molti se la punizione fosse troppo lieve e il ministro dell’ambiente rispose con queste parole: “Mai colpire un uomo quando è già a terra”. Tanta magnanimità si fonda sul potere che il governo vietnamita ha di agire ancora in qualsiasi momento contro Formosa: può cominciare un processo criminale (non ci sono stati solo i pesci morti, ma anche decine di casi di avvelenamento di uomini donne e bambini che hanno mangiato pesce prima che scattasse il divieto totale), così come, di fronte alla violazione dell’obbligo di non scaricare più in mare veleni industriali, può scattare la requisizione dell’intero impianto industriale.
Con l’annuncio che le responsabilità del disastro ambientale erano dell’azienda taiwanese, il governo di Hanoi ha ottenuto una serie di risultati politici. Il primo, di natura esclusivamente interna, mostra ai vietnamiti che nonostante la lentezza con cui si è mosso chi guida il Paese, si è arrivati alla verità e le migliaia di persone che sono rimaste senza lavoro nel settore della pesca, del commercio ittico, della produzione del sale marino e del turismo hanno ricevuto un indennizzo che in media vale 2 mila dollari a persona. Il governo e il partito comunista hanno oggi chiarissimo che la questione ambientale può mettere in discussione la stabilità dell’assetto istituzionale: nei giorni successivi all’avvelenamento furono molte le manifestazioni di protesta seguite da incidenti tra manifestanti e polizia.
Altri risultati riguardano la politica degli investimenti stranieri e le relazioni internazionali. In futuro, chi vorrà investire in Vietnam, nazione che ha attirato nel 2016 quasi 22 miliardi di dollari in investimenti dall’estero, non lo potrà fare a scapito dell’ambiente o pensando che autorità locali e nazionali possano chiudere un occhio di fronte all’uso sconsiderato se non criminale dell’ambiente. E i funzionari e amministratori vietnamiti che dovessero facilitare azioni illegali delle compagnie straniere sono avvertiti che rischiano grosso.
Infine, il messaggio ai Paesi vicini è che il governo di Hanoi controlla tutto quello che succede nelle acque territoriali e nessuno può violarle. Destinatario numero uno di questo messaggio è il governo di Pechino che da anni persegue una politica di espansione nel Mar della Cina meridionale molto al di fuori delle sue acque territoriali.
La vicenda della Formosa ha avuto un riflesso anche nel mondo dell’informazione vietnamita, controllata interamente dal Partito comunista e dal governo, ma dove esiste comunque un dibattito cauto ma serrato sul rapporto tra informazione, potere e cittadini. A rivelare come quelli ambientali siano sicuramente temi sensibili delle scelte politiche ed economiche, è stata un’analisi apparsa su Vietnam News, il quotidiano in lingua inglese. A fine aprile, in un’analisi a firma Thu Van, sono stati evidenziati i problemi di un evento del genere. Chi deve cercare la verità? Possono farlo i giornalisti che si sono trasformati in investigatori invece che essere solo il passaggio finale dei messaggi del partito? Ed è possibile che in un paese che corre velocemente verso lo sviluppo non ci sia un’agenzia indipendente che si occupi dell’ambiente e che possa intervenire immediatamente senza aspettare il via governativo? Sono domande che dimostrano la voglia di discutere su tutto quello che accade senza attendere alcun permesso.
Ad innescare tute quelle domande fu sicuramente la sortita di un dirigente della Formosa che lavorava negli uffici di Hanoi. Alle prime domande dei giornalisti, che avevano individuato uno dei possibili responsabili nell’impianto industriale, Chou Chun- fan se ne uscì con questa affermazione al microfono della stazione televisiva statale VTC14: “Voi vietnamiti non potete avere tutto, dovete scegliere se pescare pesci e gamberi o possedere una fabbrica di acciaio super moderna”. Nel giro di poche ore arrivarono le scuse e il licenziamento di Chou Chun-fan, mentre il governo gettò acqua sul fuoco dicendo che sì, forse l’avvelenamento poteva essere causato dagli scarichi industriali, ma quella era solo una ipotesi. Invece era assolutamente vero.

il manifesto, 22 ottobre 2017. «Siamo di fronte alla combinazione di un fenomeno anomalo, sicuramente. La seconda estate più calda della storia si è saldata con una siccità prolungata che riguarda le regioni del nord ovest». Ha ragione, ma c'è ben di più, vedi postilla

Luca Mercalli è un climatologo e un divulgatore scientifico. Sostiene uno stile di vita più sobrio e attento, servendosi delle esperienze fatte in prima persona nella sua abitazione in Val Susa. È stato tra i primi personaggi pubblici ad impegnarsi nella lotta contro il progetto della Torino – Lione.

Cosa sta succedendo nella Pianura Padana?
«Siamo di fronte alla combinazione di un fenomeno anomalo, sicuramente. La seconda estate più calda della storia si è saldata con una siccità prolungata che riguarda le regioni del nord ovest in particolare. Una situazione che si è già verificata un paio di volte, ad esempio nell’Ottocento, ma in un contesto storico dove faceva molto meno caldo. Anche ottobre, sebbene le misurazioni non siano complete, con ogni probabilità risulterà statisticamente anomalo».

Questo è il riscaldamento globale?
«Il riscaldamento globale, lo sappiamo benissimo, è una presenza da oltre trenta anni. Purtroppo sta rappresentando una costante, non si tratta di una novità di un mese o di una stagione che presentano, talvolta, delle condizioni anomale. Il freddo è ormai una componente episodica, mentre quelle di caldo diventano inedite: alcune giornate della scorsa estate hanno battuto ogni record di caldo registrato negli ultimi duecento anni, come i 43 gradi a Forlì il 4 agost»o.

Trump ha scelto di uscire dall’accordo di Parigi
«Si scende uno scalino molto importante perché purtroppo gli Stati Uniti sono il secondo emettitore mondiale di anidride carbonica. Non è solo un atto simbolico, si tratta proprio di quantità fisiche. Ovviamente pesa anche sul piano psicologico, perché la più grande potenza economica mondiale si sfila e indebolisce la percezione comune della sua importanza. È vero che uno può sperare che vadano avanti gli altri, ma non si tratta di un piccolo Stato: pur con molte differenze all’interno, sappiamo che nel paese che oggi cancella un accordo globale sul clima vi sono molti soggetti attivi nella lotta al riscaldamento globale. Si pensi a interi stati come la California, o di città come Portland, Seattle, New York, che hanno già intrapreso una strada di sostenibilità di New York e sono contrarie alle scelte del presidente Trump.

Lei vive in montagna: quale è il futuro dell’economia alpina?
«Il futuro della montagna è scritto da quasi trenta anni. E’ un argomento di cui discute da sempre, di cui si sa tutto, ogni scenario: eppure l’economia alpina continua a pensare di poter continuare a crescere grazie al turismo della neve. Sappiamo che quel modello non ha futuro, e si devono abbracciare nuove forme di turismo, legate alla cultura del territorio, alle bellezze naturalistiche, ad uno stile di vita più rilassato».

Cosa pensa delle restrizioni che città come Torino e Milano hanno imposto al traffico veicolare privato?
«Sono cose già viste, non c’è nulla di nuovo. Queste situazioni sono sempre le stesse, accadono sempre nello stesso periodo per altro. Purtroppo non si sceglie di affrontarle con decisioni strutturali, ma solo con misure d’emergenza. Si spera nel vento e nella pioggia e i problemi rimangono insoluti. Questa intervista potrebbe essere stata fatta dieci anni fa.

Cosa propone lei?
«In primis la diffusione dell’auto elettrica nella pianura padana e in particolare nelle città dove c’è il massimo problema sanitario. Guido l’auto elettrica da sei anni: è una guida più riflessiva, che ti impone un consumo minore in ogni ambito, perfino dei freni e dei pneumatici. Per sviluppare questa buona pratica ci vuole ovviamente una normativa, ad esempio simile a quella francese che prevede forti incentivi. Qui noi pensiamo all’auto elettrica come a qualcosa di decorativo, stravagante. Se restringessero l’area C di Milano – ma è solo un piccolo esempio – alle auto elettriche vi sarebbe una forte pressione sulla domanda, che porterebbe all’abbassamento del prezzo di queste automobili, oggi ancora elevato. Il secondo strumento è il telelavoro. È necessaria una normativa che agevoli questo modo di lavorare che toglie le auto dalle strade: basta avere un computer, e si può lavorare da casa senza intasare le metropoli. Magari non tutti i giorni: ma rendiamolo un argomento di discussione politica».

postilla

Il modo nel quale sono collocati i nuovi oggetti che l'uomo pone o trasforma sul territorio (le case, i paesi, le città le fabbriche, i servizi commerciali, quelli sanitari, gli stadi e gli aeroporti, la strade e le ferrovie, i tram e le metropolitane) non è affatto indifferente all'intensità dell'inquinamento. Nemmeno la scelta di privilegiare, per la mobilità, le soluzioni individuali (l'automobile) o quelle collettive (treni, tram). Altrettanto pesantemente incide il reciproco rapporto tra punti di origine/destinazione dei flussi e vettori che li convogliano.
Tutto questo per ricordare allo stimatissimo Luca Mercalli che in luogo dello spontaneismo e dell'individualismo (e della speculazione) che oggi governano in Italia le trasformazioni del territorio occorrerebbe ripristinare la pianificazione urbanistica e territoriale, che una volta era il vanto di molte città, province e regioni della Padania oggi divorata dai fumi dello sviluppo sregolato.

il manifesto, 22 ottobre 2017 « In Abruzzo c'è un rischio Vajont. La diga contiene 70 milioni di metri cubi d'acqua. Sorge in una zona sismica e franosa, soggetta a subsidenza. Se si trivella può succedere l’imprevedibile»(c.m.c.)

Era il 18 maggio 2015 e a Bomba, un pugno di case tra le colline della Val di Sangro, in provincia di Chieti, pensavano di avercela fatta. Di essere riusciti, loro, appena 790 abitanti, a «cacciare» dal paese gli americani, i petrolieri di Denver, Colorado, che dal 2004 «insidiavano» il borgo. Quel giorno, il 18 maggio, campane di giubilo. Perché il Consiglio di Stato, dopo più di 5 anni anni di lotte, aveva decretato, in maniera definitiva, che quei luoghi, un paradiso incastonato tra i boschi, non possono essere trivellati: è pericoloso, perché è zona altamente franosa e sismica.

Bomba, che ha dato i natali ai fratelli Spaventa, si slarga su un cocuzzolo che quasi si specchia nell’omonimo lago sottostante: bacino artificiale, con diga, costruito a cavallo tra il 1957 e il 1960 lungo il corso del fiume Sangro, le cui acque alimentano una centrale sfruttata, tutt’oggi, dalla società Acea, che ne ricava elettricità per illuminare buona parte di Roma. Lo sbarramento – come spiega un film documento dell’epoca – è stato realizzato «in terra compattata» per assicurarne la stabilità. Nel 2004 la statunitense Forest Oil Corporation, attraverso la sua controllata italiana Forest Cmi Spa, ha esplorato l’area attorno al lago e ha trovato, anzi ritrovato, il giacimento di gas naturale denominato “Colle Santo”. E, il 20 febbraio 2009, ha chiesto, all’Ufficio nazionale minerario, la concessione per procedere allo sfruttamento.

Perforazioni a mille metri di profondità, per tirar fuori 238 milioni di metri cubi di metano: circa 650 mila metri cubi al giorno per 12 anni. E poi una raffineria, con impianto di desolforazione, ad un palmo dal centro abitato. Ma – salta subito fuori – la messa in produzione di quel giacimento non è possibile per problemi geomorfologici, legati alla storica instabilità dei posti e al minaccioso fenomeno della subsidenza, cioè il suolo che cede e sprofonda. Nel 1992, Agip, gruppo Eni, la prima aver effettuato sondaggi e ad aver creato pozzi per l’estrazione, aveva rinunciato. Forest, però, intravede montagne di bigliettoni e non demorde. Ma non lo fa neppure il territorio, con i suoi cittadini, i comitati, le associazioni.

«Bisogna resistere». Così è stato. Tutti i balconi di Bomba si vestono di lenzuoli: «No raffineria». Cortei, manifestazioni, ricorsi, dossier, carte bollate, le osservazioni di contrarietà, la «rivolta» di decine e decine di Comuni e della Provincia. Compatti e cocciuti. Arrivano i primi dinieghi, del comitato Via (Valutazione impatto ambientale) della Regione: parere sfavorevole del 10 aprile 2012 e del 20 novembre 2013. Le ragioni? La raffineria prevista, con emissioni di idrogeno solforato, potente veleno, contrasta «con il piano regionale di qualità dell’aria» e poi nel caso si innestassero fenomeni di subsidenza questi sarebbero irreversibili, con «conseguenti danni insostenibili per la popolazione» e quindi va applicato «il principio di precauzione». Principio che, a seguire, è anche il cardine della sentenza numero 02495/2015 della quinta sezione del Consiglio di Stato, che, due anni or sono, boccia irrevocabilmente il progetto: alla magistratura hanno fatto ricorso Wwf e il comitato «Gestione partecipata del territorio» di Bomba.

«Il principio di precauzione – scrive il Consiglio di Stato – fa obbligo alle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, ponendo una tutela anticipata… L’applicazione del principio di precauzione comporta dunque che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata…». Stop, dunque, alle ambizioni a stelle e strisce.

Una batosta per la multinazionale statunitense, che opera nel settore degli idrocarburi dal 1916, e che ai propri investitori, sulle pagine del Wall Street Journal, è costretta ad annunciare la perdita di 35 milioni di dollari. È tracollo finanziario e il motivo è… Bomba. Il colosso Forest, malamente inciampato in questo lembo d’Abruzzo, fallisce. «The end», così dovrebbe concludersi la storia, con i festeggiamenti, che pure ci sono stati, degli irriducibili di Bomba che cantano vittoria. In Italia però, patria del nulla è certo e/o definitivo, accade che, pochi mesi dopo, con istanza pervenuta al ministero dello Sviluppo economico il 20 maggio 2016, protocollo 11210, la Cmi Energia Spa ripropone lo stesso progetto, più impattante e con delle varianti. Cmi (Compagnia meridionale idrocarburi), con sede legale a Roma, ma con governance canadese, è nata per mano di manager della Forest Cmi Spa. Modifica parziale della denominazione, passaggio del titolo minerario da una società all’altra et voilà, si riparte.

La procedura riparte, daccapo. «Possibile – domanda Alessandro Lanci, del movimento Nuovo Senso Civico – che non si tenga conto neppure di quanto deciso dal Consiglio di Stato?». Cmi chiede la messa in produzione dei pozzi esistenti a Bomba, con possibilità di realizzarne ulteriori 2-3. E di costruire, su tre ettari, «una centrale di trattamento (raffineria, ndr) che, invece che a Bomba, viene ora posizionata nella zona industriale di Paglieta (Chieti) e che verrebbe collegata ai pozzi tramite un gasdotto di circa 21 chilometri, che andrebbe a tagliare diversi centri della Val di Sangro quali Archi, Roccascalegna, Torricella Peligna, Pennadomo, Villa Santa Maria, Atessa, Colledimezzo, Altino e Perano. Progetto ritenuto «strategico» dal governo e attualmente all’esame del comitato Via (Valutazione impatto ambientale) nazionale che ha avocato a sé la questione, rifiutando il confronto con il territorio, che è di nuovo mobilitato.

E in allerta, perché si teme uno scellerato nulla osta. «In questi giorni – spiega Massimo Colonna, chimico, di “Gestione partecipata del territorio”, in prima linea nella battaglia – , insieme a Wwf e a Legambiente, abbiamo predisposto una diffida da inviare al ministero dell’Ambiente, affinché la commissione Via esprima la propria contrarietà, e una richiesta al ministero dello Sviluppo economico per far dichiarare definitivamente non sfruttabile il giacimento». Negli atti si evidenzia che la nuova istanza «è illegittima, in quanto chiede di sottoporre a giudizio di compatibilità ambientale un progetto identico a quello bocciato dal Consiglio di Stato appena poco più di un anno prima. Tutto ciò – viene aggiunto – è offensivo nei confronti degli enti che già si sono espressi in merito in passato. La situazione idrogeologica dei luoghi, del resto, è la stessa».

Terreni friabili, sfaldabili, soggetti a continui smottamenti e che cingono un bacino idrico che racchiude 70 milioni di metri cubi d’acqua. «Le sponde del lago sono tutte franose; in particolare quella sinistra, sotto Montebello sul Sangro. E quella zona rassomiglia tanto al Monte Toc del Vajont, che produsse l’immane sciagura nel 1963»: è l’avvertimento che il 6 maggio 2010 lanciò, con raccomandata alla Regione e al Mise, Nicola Berghella, che aveva 86 anni, che era stato dirigente Acea e che dagli anni Cinquanta aveva seguito, passo passo, la realizzazione della diga, dagli espropri al taglio del nastro.

Berghella, morto nel 2015, si era preoccupato di mettere in guardia le istituzioni. «Estrarre gas nelle vicinanze della diga, se non addirittura sotto il lago – scrisse – è a dir poco azzardato, assolutamente da evitare, considerando l’assoluta instabilità dei terreni. I pericoli sono potenziali e latenti e bisogna tenere conto del fenomeno della subsidenza, con le sue imprevedibili effetti. Ed in caso di possibili crepe alla diga o di franamenti delle sponde del lago e conseguente tracimazione, c’è soltanto il disastro inimmaginabile per tutta la Valle del Sangro, per le abitazioni e gli insediamenti industriali. Occorre pertanto evitare di andare a stuzzicare la zona».

La prima concessione per l’estrazione di gas a Bomba fu rilasciata il 2 agosto del 1967 alla Società Meridionale Idrocarburi; il 30 gennaio 1969 fu trasferita ad Agip che avrebbe dovuto iniziare la produzione nel 1971 e che, dopo quasi 25 anni di proroghe, tentativi, di rilevamenti e perizie, di studi morfologici, idrodinamici e sismotettonici dovette abbandonare, per i rischi connessi. C’è una nota, del primo febbraio 1993, dell’allora ministero dell’Industria e dell’Artigianato che riassume le traversie vissute da Agip e pone l’accento sulla «presenza di vaste aree franose attive ed importanti dislocazioni tettoniche», sulla «sismicità medio-elevata, dovuta a movimenti di origine profonda del fronte appenninico della Majella e alla presenza di faglie…». «Pur trattandosi – conclude il ministero – di un adunamento di idrocarburi di ragguardevoli dimensioni, le numerose problematiche ambientali che si frappongono appaiono insanabili… Solo svuotando il lago si potrebbe procedere…».

il manifesto, 21 0tt0bre 2017La nostra società ha ammalato prima il suo spirito, teorizzando e praticando un'idea distorta di "sviluppo", dominata dalla miopia e dall'individualismo.. Ora tutti gli uomini ne pagano il prezzo
«Le malattie dovute all’inquinamento nel 2015 hanno causato il 16% dei decessi nel mondo. La perdita di benessere derivante dall’inquinamento è stimata sui 4600 miliardi di dollari all’anno: 6,2% della produzione economica mondiale»
«L’inquinamento è la più grande causa ambientale della malattia e della morte prematura nel mondo di oggi. Le malattie causate dall’inquinamento sono state responsabili di circa 9 milioni di morti premature nel 2015 – il 16% di tutti i decessi nel mondo – pari a tre volte il numero di morti dovute all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria messe insieme, e a 15 volte quelle provocate da tutte le guerre e altre forme di violenza. Nei Paesi più gravemente colpiti – quelli a basso e medio reddito, dove si colloca il 92% di questi eventi fatali – le malattie correlate all’inquinamento sono responsabili di più di una morte su quattro».

Non è il solito allarmismo sociale molto in voga di questi tempi, ma quanto riportato dalla rivista scientifica Lancet nell’introduzione della lunga e accurata ricerca condotta dalla «Lancet Commission on pollution and health» composta da 47 scienziati di tutto il mondo.

La natura dell’inquinamento, spiegano gli esperti, «sta cambiando e, in molti luoghi del mondo, sta peggiorando», soprattutto nei Paesi in rapida industrializzazione come India, Pakistan, Cina, Bangladesh, Madagascar e Kenya.

Le cause si possono rintracciare nell’aumento del consumo energetico di fonti fossili e dell’uso di veicoli alimentati a petrolio, nella crescita delle estrazioni, dell’utilizzo di nuovi materiali e tecnologie, nell’abuso di erbicidi e pesticidi, e a causa del movimento globale delle popolazioni dalle aree rurali alle città, che si espandono incontrollatamente.

È l’inquinamento dell’aria quello che provoca la maggior parte di morti (nel 2015, 6,5 milioni in tutto il mondo), seguito da quello dell’acqua (1,8 milioni), nei posti di lavoro (800 mila) e dovuto al piombo (500 mila).

Naturalmente, la contaminazione di aria, acqua e suolo ha dei costi enormi, non sono in termini di vite umane: il Pil dei Paesi a basso e medio reddito si riduce del 2% l’anno a causa della perdita di produttività, mentre aumentano fino al 7% i costi sanitari (1,7% nei Paesi ad alto reddito). «La perdita di benessere derivante dall’inquinamento è stimata sui 4600 miliardi di dollari all’anno: 6,2% della produzione economica mondiale», scrive Lancet, sottolineando che i costi tendono ad aumentare man mano che si scoprono ulteriori correlazioni tra patologie e smog.

Viceversa, i «notevoli benefici economici», oltre che sociali, dell’abbattimento degli inquinanti sono evidenti per esempio negli Stati Uniti, dove – prima di Trump – «per ogni dollaro investito nel controllo dell’inquinamento atmosferico dal 1970, se ne sono guadagnati circa 30, con un vantaggio complessivo di 1500 miliardi di dollari contro un investimento di 65 miliardi di dollari».

Allo stesso modo, si legge ancora nel report, «la rimozione del piombo dalla benzina ha restituito alle economie americane circa 200 miliardi di dollari (da 110 a 300 miliardi) ogni anno a partire dal 1980, con un vantaggio complessivo di oltre 6 mila miliardi di dollari attraverso l’aumento della funzione cognitiva e una maggiore produttività di generazioni di bambini esposti fin dalla nascita solo a basse quantità di piombo».

Ecco perché nelle sei raccomandazioni finali della Lancet Commission al primo posto c’è il monito rivolto ai governi di tutto il mondo e alle amministrazioni di ogni livello di mettere in cima ai propri programmi il controllo dell’inquinamento. Che, appunto, deve essere affrontato a livello globale. Motivo per il quale sia i finanziamenti che il «supporto tecnico internazionale» vanno «mobilitati, aumentati e concentrati», così come vanno costruiti «partenariati tra diverse agenzie governative, e tra governi e settore privato».

Gli scienziati invitano poi a fare ricorso alle tecnologie più innovative per raccogliere dati sull’inquinamento, ad «integrare la riduzione dello smog nel piano d’azione globale per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili», e infine a finanziare e promuovere la ricerca nel campo degli agenti inquinanti e della correlazione con le malattie.

La rotta è tracciata, non è una via semplice ma non si può far altro che iniziare a percorrerla.

Enea, una banca dati sui danni alla salute in Italia

L’inquinamento atmosferico accorcia la vita di ciascun italiano in media di 10 mesi: 14 per chi vive al nord; 6,6 per chi vive al centro e 5,7 per i cittadini del sud e delle isole. «Ma i valori di mortalità più elevati al settentrione vanno letti alla luce della maggiore disponibilità di dati rispetto al resto d’Italia».

Lo dice Carmela Marino, responsabile della divisione Enea Tecnologie e metodologie per la salvaguardia della salute dell’uomo. I dati sono il risultato degli studi condotti dall’Agenzia che ha realizzato una mappa degli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute: la prima banca dati italiana in grado di fornire informazioni sulla mortalità per età, sesso e patologia anche a livello di singolo comune.

il Fatto Quotidiano online, 6 ottobre 2017. «Roma non ha fornito a Bruxelles informazioni relative a oltre 3.000 stabilimenti. Lo si legge sul sito dell’E-Prtr, il Registro europeo del rilascio e trasferimento degli inquinanti: "Non sono state comunicate entro la data richiesta", marzo 2017». (p.d.)

L’Italia è l’unico Paese a non aver fornito alla Commissione europea i dati relativi al 2015 sulle emissioni inquinanti di oltre 3.000 stabilimenti nei tempi stabiliti dal Regolamento comunitario. Così, ora che il registro è pubblico, nella mappa delle circa 30mila industrie dei Paesi membri e di Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Serbia e Svizzera, la Penisola è un buco nero senza alcuna informazione. E la situazione non cambierà almeno fino a novembre.

Lo si legge chiaramente sul sito dell’E-Prtr, il Registro europeo del rilascio e trasferimento degli inquinanti: “Attenzione: non sono disponibili dati relativi all’Italia per il 2015. I dati non sono stati comunicati entro la data richiesta”, scrive l’E-Prtr, gestito dalla Commissione europea che si avvale dell’Agenzia europea per l’ambiente per il controllo delle certificazioni inviate dai 28 Stati membri.

Istituito da un Regolamento europeo nel 2006 e poi potenziato, il Registro europeo fornisce dati ambientali chiave facilmente accessibili relativi a 91 sostanze inquinanti rilasciate da circa 30mila aziende europee di nove settori industriali, tra figurano quali centrali elettriche, stabilimenti siderurgici e industrie chimiche. I dati riguardano le emissioni al suolo e da fonti diffuse, oltre che il trasferimento dei rifiuti fuori dal sito industriale. La Commissione aveva deciso di istituire la banca dati per “fornire al pubblico informazioni attendibili”, “permettere decisioni consapevoli” e “contribuire alla prevenzione e alla riduzione dell’inquinamento ambientale”. Dal 2007, quindi, gli Stati membri hanno l’obbligo di inviare i dati “entro 15 mesi dalla fine dell’anno di riferimento”.

Le schede delle industrie riferite al 2015 sarebbero quindi dovute arrivare alla Commissione entro marzo 2017. Un compito assolto da tutti gli Stati, tranne che dall’Italia. IlFattoQuotidiano.it ha chiesto al ministero dell’Ambiente, responsabile del procedimento, per quali motivi ciò non è avvenuto. Ma non ha ottenuto risposte ufficiali. È stato tuttavia possibile ricostruire quanto sarebbe accaduto grazie ad alcune fonti. L’Italia ha fornito i dati alla Commissione solo a giugno, con tre mesi di ritardo, e ora l’Agenzia europea per l’ambiente sta effettuando uno screening delle schede ‘validandole’.

Il problema – secondo quanto apprende Il Fatto – non è imputabile agli oltre tremila stabilimenti coinvolti, ognuno dei quali deve fornire una rigorosa autocertificazione all’ente governativo responsabile del procedimento, ma a un “problema tecnico” interno al ministero dell’Ambiente che ha “ritardato tutto”. Di più, non è dato sapere, se non che l’Italia ha provveduto a settembre a integrare i dati inviati a inizio estate, che questi sarebbero già disponibili in una piattaforma interna ma comunque non nel Registro europeo, dove dovrebbero essere pubblicati “entro novembre”.

Il ritardo non provocherà l’apertura di una procedura d’infrazione perché le schede sono comunque state inviate e inoltre non era mai accaduto dall’istituzione dell’E-Prtr che l’Italia infrangesse l’obbligo di inviare i report entro 15 mesi dopo la fine dell’anno di riferimento delle emissioni inquinanti. Ma la figuraccia è tutta lì, in quell’avviso che campeggia sul sito: “I dati non sono stati comunicati entro la data richiesta”.

Comune Info, 25 settembre 2017. «Fra l’estinzione e la fuga vedo una terza possibilità: rimanere, curare, difendere la nostra casa. Rimanere a casa, proteggere e rigenerare i sistemi viventi e i processi vitali della Terra, è un dovere etico ed ecologico». (m.p.r.)

Per riparare il ciclo del carbonio che abbiamo spezzato dobbiamo smettere di estrarre carbonfossile, che va lasciato sotto terra, e rigenerare piante e suoli Disastri climatici, resilienza climatica. Fra l’estinzione e la fuga su altri pianeti abbiamo una terza via: sopravvivere prendendoci cura di Madre Terra. Negli Stati indiani di Assam, Bihar e Uttar Pradesh le inondazioni hanno provocato 41 milioni di sfollati e ucciso circa cinquecento persone; a Houston e Mumbai hanno paralizzato ogni attività. È sempre più evidente che non stiamo vivendo all’interno dei limiti ecologici del nostro pianeta, e che per le nostre continue violazioni delle leggi della Terra, essere vivente, subiamo pesanti conseguenze.

Quest’anno si susseguono immagini di inondazioni estreme; l’anno scorso è stata la siccità a essere estrema ed estesa. Quando distruggiamo i sistemi climatici della Terra, che si autoregolano, arriviamo al caos, all’incertezza climatica, a cambiamenti imprevedibili ai quali pensiamo di sfuggire con la geo-ingegneria e l’ingegneria genetica.

I sistemi viventi evolvono, si adattano, si rigenerano. Non sono ingegnerizzati. Il dominio del paradigma ingegneristico inizia con l’era dei combustibili fossili, l’era dell’industrialismo e del meccanicismo. E la dottrina secondo la quale ogni fenomeno naturale, compresi la vita e il pensiero, possono essere spiegati sulla base di processi meccanici e chimici.Negli ultimi duecento anni una piccola parte dell’umanità ha inquinato il pianeta, a causa di un’economia alimentata da carbone, petrolio e gas, e di un sistema di conoscenza fondato su un paradigma meccanicistico, riduzionista e materialistico.

L’inquinamento dell’atmosfera ha sconvolto i sistemi e l’equilibrio climatico. La distruzione degli habitat e la diffusione delle monocolture hanno contribuito a quello che gli scienziati chiamano la Sesta estinzione, la sparizione della biodiversità a un ritmo che è mille volte quello naturale. Mangiamo, beviamo, respiriamo petrolio. L’estrazione di combustibili fossili (carbonio morto) dal suolo, la loro combustione e le emissioni incontrollabili in atmosfera portano alla rottura del ciclo del carbonio e in questo modo alla destabilizzazione dei sistemi climatici.

Come sottolineano Steve McKevitt e Tony Ryan (in Project Sunshine), tutto il carbone, il petrolio e il gas naturale che estraiamo e bruciamo si sono formati oltre seicento milioni di anni fa. Bruciamo ogni anno venti milioni di anni di natura. Il ciclo del carbonio è spezzato. Noi lo abbiamo spezzato. La dipendenza dal carbonio fossile, morto, induce anche scarsità di carbonio vivo, con la conseguente diminuzione della disponibilità di cibo per gli umani e per gli organismi del suolo. Una scarsità che si traduce in malnutrizione e fame da una parte e desertificazione del suolo dall’altra. L’agricoltura chimica intensifica gli input di sintesi e il capitale, riducendo la biodiversità, la biomassa e il nutrimento che i semi, il suolo e il sole possono produrre.

Per fissare più carbonio vitale, abbiamo bisogno di intensificare biologicamente le nostre fattorie e le nostre foreste, in termini di biodiversità e biomassa. La biodiversità e la densità di biomassa producono più nutrimento e più cibo per ettaro (come abbiamo mostrato nel rapporto di Navdanya intitolato Health per Acre – Salute per ettaro), affrontando così il problema della fame e della malnutrizione. Ma aumentano anche (e non solo) il carbonio vitale nel suolo, e tutti gli altri nutrienti, insieme alla densità degli organismi benefici.

Più facciamo crescere la diversità e la biomassa, più le piante fissano il carbonio e l’azoto atmosferici, e riducono sia le emissioni che la quantità di sostanze inquinanti in atmosfera. Il carbonio viene restituito al suolo attraverso le piante. Ecco perché è davvero stretto il legame fra biodiversità e cambiamenti climatici. Più si intensificano la biodiversità e la biomassa delle foreste e delle fattorie, più materia organica è in grado di ritornare al suolo, invertendo il trend verso la desertificazione che è la prima causa degli spostamenti di popolazione e dello sradicamento delle persone, con la creazione di ondate di rifugiati (si veda il manifesto di Navdanya Terra viva: Our Soils, Our Commons, Our Future).

Per riparare il ciclo del carbonio che abbiamo spezzato dobbiamo tornare ai semi, al suolo, al sole, aumentare il carbonio vivo nelle piante e nei suoli. Dobbiamo ricordare che il carbonio vivo dà vita, mentre il carbonio morto distrugge i processi della vita. Così, con le nostre cure e la nostra consapevolezza, possiamo accrescere il carbonio vivo sul pianeta e il benessere di tutti. Invece, più sfruttiamo e usiamo carbonio morto, più inquinamento produciamo e meno avremo per il futuro. Il carbonio morto deve essere lasciato sottoterra. È un obbligo etico e un imperativo ecologico. Ecco perché il termine «decarbonizzazione» – senza distinzione fra il carbonio vivo e quello morto – è scientificamente ed ecologicamente inappropriato. Se decarbonizziamo l’economia, non avremo piante, che sono carbonio vivo, non avremo vita sulla Terra. Vita che crea carbonio vivo e ne è alimentata. Un pianeta decarbonizzato sarebbe un pianeta morto.

Dobbiamo ricarbonizzare il mondo con carbonio vivo. Dobbiamo decarbonizzare il mondo relativamente al carbonio morto. Quando creiamo più carbonio vivo attraverso l’agroecologia e l’agricoltura organica, abbiamo più suoli fertili che producono più cibo e trattengono più acqua, aumentando dunque la resilienza di fronte a siccità e inondazioni. L’agricoltura biologica ad alta intensità di biodiversità produce più cibo e più nutrienti per ettaro.Garantendo servizi ecologici e il controllo degli agenti infestanti, permette di fare a meno degli input di sintesi, dei veleni, evitando anche i debiti contratti per acquistarli, la principale causa di suicidio fra gli agricoltori. I redditi agricoli possono aumentare di dieci volte se si abbandona la dipendenza da input chimici costosi e dalla coltivazione di derrate i cui prezzi continuano a scendere.

Far crescere cibo vero a zero costi è la strada verso il secondo degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sdg) dell’Onu: fame zero. I combustibili fossili, la strada verso la conquista, ci hanno portati alla crisi che l’umanità è ora costretta ad affrontare. Crediamo di essere al di fuori e al di sopra della Terra, crediamo di controllarla, di esserne i padroni. Lo crediamo. I combustibili fossili ci hanno consentito l’illusione di non dover vivere entro i limiti, le frontiere e i processi ecologici del nostro pianeta. Ma ecco che i cambiamenti climatici, gli eventi estremi, i disastri ci ricordano con sempre maggiore frequenza che siamo parte della Terra. Ogni atto di violenza che distrugge i sistemi ecologici minaccia anche le nostre vite.

Ormai la minaccia alla stessa sopravvivenza umana è riconosciuta, ma continua a non essere messa in relazione con la violenza contro la Terra, e non giunge alla conclusione che dobbiamo trasformarci da specie predatrice e incurante a specie che si prende cura, che lavora in co-creazione e co-evoluzione con la Terra.

Stephen Hawking ha lanciato l’allarme: entro cento anni, per sopravvivere dovremo lasciare la Terra e trovare altri pianeti. Non ci sarebbero che due opzioni: l’estinzione o la fuga. Questo escapismo è al tempo stesso una dichiarazione di irresponsabilità (rispetto al prendersi cura della Terra) e di tracotanza tecnologica. È un’arroganza cieca rispetto al fatto che alcuni umani hanno spezzato i fragili processi ecologici che mantengono e riproducono la vita sulla Terra. È il rifiuto di riconoscere il dovere ecologico di chiedere scusa alla nostra Madre, smettere di danneggiarla, dedicare il nostro amore e la nostra intelligenza a lenirne le ferite, un seme alla volta, un giardino alla volta. Se abbandoniamo l’arroganza tecnologica antropocentrica, di Padroni e Conquistatori, riconoscendo con umiltà che siamo membri della famiglia della Terra, possiamo, con i semi, il suolo, il sole, rigenerare il pianeta e il nostro futuro.

A differenza di Hawking, fra l’estinzione e la fuga vedo una terza possibilità: rimanere, curare, difendere la nostra casa. Rimanere a casa, proteggere e rigenerare i sistemi viventi e i processi vitali della Terra, è un dovere etico ed ecologico.

la Repubblica, 14 settembre 2017. «Per stoppare l’avanzata del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è necessario fermare la crescita economica. Questa è la realtà». Intervista ad Amitav Gosh, autore di La grande cecità

Siamo tutti vittime e colpevoli, dice Amitav Ghosh. Pare di riascoltare le parole dell’ultima intervista di Pier Paolo Pasolini. Altra epoca, altro «gioco al massacro ». Ma il finale è lo stesso. Siamo tutti «deboli e vittime» del cambiamento climatico, perché ne subiamo le spietate conseguenze. Ma siamo anche tutti colpevoli perché, dice lo scrittore indiano, «il silenzio e l’indifferenza verso la più grande e imminente catastrofe del presente umano è di tutti. Non solo dei politici, ma anche di scrittori e intellettuali, che si occupano raramente di questo problema, e dei cittadini, che oramai dimenticano le sempre più frequenti catastrofi naturali, da Livorno ai Caraibi, dall’India a Houston».
Benvenuti dunque nell’epoca della “Grande cecità”, dove un cavalluccio marino nuota con un cotton fioc e dove neanche l’occhio di Irma, il più terribile uragano della storia recente degli Stati Uniti, ci illumina la vista, né «smuove le coscienze. O meglio, la nostra incoscienza», racconta affranto Ghosh, autore, tra le altre cose, de Il paese delle maree e della Trilogia dell’Ibis. La Grande Cecità
che ha annebbiato il nostro immaginario e l’istinto ecologico, è anche il nome dell’ultimo saggio di Ghosh, edito da Neri Pozza (pagg. 284, euro 18). Sottotitolo «il cambiamento climatico e l’impensabile». Impensabile, spiega lo scrittore, «è l’autocensura del termine climate change, che compare raramente in libri e media, nonostante la gravità del problema. È una questione di narrativa, di immaginazione».
E perché capita questo, Ghosh?
«Alla base c’è sicuramente una colpa dei politici e della inerme comunità mondiale. È una cosa scandalosa, ma in fondo la capisco. Oggi i politici hanno mandati di 4-5 anni in media ed è impossibile limitare una piaga così ampia e a lungo termine come il cambiamento climatico in tempi così brevi. Gli accordi di Parigi, già rinnegati da Trump, sono stati importanti ma si tratta di un passo minuscolo verso una soluzione del problema».
Come mai?
«Innanzitutto perché ne affrontavano una parte piccolissima, concentrandosi solo sulle emissioni e non su agricoltura, acqua e altri aspetti cruciali. Più in generale, per stoppare l’avanzata del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è necessario fermare la crescita economica. Questa è la realtà. I politici lo sanno ma non lo ammetteranno mai, altrimenti si brucerebbero la carriera. Invece continueranno a ripetere “crescita, crescita, crescita”. Così i disastri e il calore cresceranno sempre di più, oramai l’aria condizionata la usano anche a Seattle, saranno necessari energia e fondi sempre maggiori, e continueremo a morderci la coda fino al prossimo disastro».
Cosa bisogna fare secondo lei?
«Limitare l’uso di energia, e ricalibrare quest’ultima sul consumo pulito. Ridefinire il modello economico e la globalizzazione. Così non si può andare avanti. Il Pakistan per sopravvivere deve esportare sempre più cotone, ma per farlo crescere ci vuole tanta acqua, e così prosciuga le sue riserve. Lo stesso accade in India per la canna da zucchero. Ma la crisi idrica è una delle tante conseguenze di questo sistema insostenibile. E nessuno ne parla seriamente ».

Nella “Grande Cecità” lei affronta proprio questo problema. Quali sono le cause?
«La cultura è connessa al mondo della produzione di merci e ne induce i desideri. Inoltre, non c’è istruzione né educazione su ambiente e cambiamento climatico, né da piccoli, né da grandi. Perciò, al cinema o nei romanzi, un tema del genere non viene ancora considerato realistico, ma surreale, o “fantascienza”. Eppure il disastro è qui, imminente, intorno a noi. La cosa più deprimente è la glaciale insensibilità che persino i cittadini, ormai, mostrano senza ritegno».
Ma perché abbiamo smarrito quest’anima ambientalista? Del resto, anche in Europa, per esempio, i partiti verdi ed ecologisti hanno perso moltissimo consenso.
«È vero ed è sconfortante. La nostra assuefazione emotiva nei confronti dei disastri naturali e del cambiamento climatico si è fortificata parecchio negli ultimi decenni. Quasi non ci spaventano più, ma soprattutto non ci fanno più pensare alle loro conseguenze e, quindi, al nostro futuro. L’attuale modello di vita estremamente materiale, individuale e schiacciato su una singola esistenza influisce profondamente su qualsiasi domanda sul nostro destino e sul futuro del mondo. Non che avessero fondamento scientifico, ma almeno in passato, quando le religioni avevano molto più seguito, le catastrofi naturali ci inducevano a riflettere sulle loro cause, sul perché di quella “punizione divina”. Era un ragionamento errato, ma almeno si rifletteva. Oggi abbiamo rinunciato anche a questo. Paradossalmente, nell’era della globalizzazione, non abbiamo più quello spirito globale nell’avversità. Per questo si tratta di un problema soprattutto culturale».

E, conseguentemente, molto spesso non si fa nulla neanche per la prevenzione dei disastri.

«Difatti sono rimasto sconvolto da quello che è successo a Livorno qualche giorno fa. È incredibile che in un paese come l’Italia possano accadere drammi simili senza alcuna protezione pregressa, date anche le condizioni particolarmente ostiche del territorio italiano. Persino le Mauritius hanno un ottimo sistema di allerta anti cicloni, per esempio. Anche la vituperata Cina sta facendo molto rispetto al passato. Ma nemmeno questo oramai mi stupisce più. Le grandi nazioni occidentali, nonostante la facciata, sono paradossalmente quelle che fanno meno per risolvere il problema. Non solo Trump, ma anche uno come il premier canadese Justin Trudeau, icona dei liberal e della sinistra nel mondo, sta facendo poco per l’ambiente. L’influenza della cultura economica, estrattiva e coloniale del mondo anglosassone non si è indebolita nei decenni. Eppure affrontare il cambiamento climatico risolverebbe tanti problemi dell’Occidente, anche quelli migratori. E invece... Con questo assordante silenzio intorno, è impossibile essere ottimisti».

Un editoriale pessimista sul negazionismo del governo Trump in merito al cambiamento climatico. Neanche i recenti disastri in Texas e in Florida fermano la macchina da guerra, dei conservatori. The new York Times, 11 settembre 2017, con postilla (m.c.g.)

Dopo la devastazione provocata da Harvey a Houston - una devastazione perfettamente in linea con le previsioni dei meteorologi – ci si sarebbe aspettati una maggiore attenzione quando gli stessi esperti mettevano in guardia contro i rischi rappresentati dall’uragano Irma. Ma vi sareste sbagliati. Martedì scorso Rush Limbaugh (un noto conduttore radiofonico) ha accusato gli scienziati del clima di inventarsi i pericoli di Irma per motivi politici e finanziari: “Si vuole mettere in agenda il cambiamento climatico, e gli uragani rappresentano l’occasione migliore per farlo” ha dichiarato, aggiungendo che “la paura e il panico” aiutano a vendere batterie, bottiglie d’acqua e pubblicità televisiva. Subito dopo è stato costretto ad abbandonare la sua villa a Palm Beach.

In un certo senso, dovremmo essere grati a Limbaugh per aver quanto meno sollevato il tema del cambiamento climatico e della sua relazione con gli uragani, se non altro perché si tratta di un tema che l’amministrazione Trump sta disperatamente cercando di evitare. Ad esempio, Scott Pruit, il capo dell’Agenzia della Protezione dell’Ambiente federale, un amico dell’inquinamento e degli inquinatori, ha dichiarato che non è questo il momento di sollevare il problema – che questo comportamento mostra una insensibilità nei confronti del popolo della Florida. Inutile sottolinearlo, per persone come Pruitt non vi sarà mai un momento giusto per discutere sul clima.

Cosa possiamo imparare dallo sfogo di Limbaugh? Certamente, che è una persona terribile – ma già lo sapevamo. Il punto importante è che non è uno che evita di esporsi. Di sicuro, non ci sono stati altri personaggi influenti che si sono espressi così negativamente in merito agli avvertimenti su Irma, anche se negare i risultati scientifici attaccando a un tempo gli scienziati in quanto politicamente motivati e venali è una procedura standard della destra americana.

Quando Donald Trump ha definito il cambiamento climatico una truffa, stava semplicemente comportandosi come un normale Repubblicano. E grazie alla vittoria elettorale di Trump, sono dei conservatori ignoranti e contrari alla scienza che oggi governano negli Stati Uniti.

Quando si leggono analisi recenti affermare che la gestione del potere nei confronti dei Democratici in qualche misura ha trasformato Trump in pochi mesi in un moderato indipendente, ricordatevi che non si tratta solo di Pruitt. Tutti i politici di lungo corso dell’amministrazione Trump che hanno a che fare con l’ambiente o l’energia sono Repubblicani e tutti concordano nel negare il cambiamento climatico e l’evidenza scientifica. E la maggior parte di costoro sono d’accordo con la teoria della cospirazione alla Limbaugh.

In realtà, vi è un consenso scientifico travolgente sul fatto che le attività umane stanno riscaldando il pianeta. Quando i politici conservatori e i loro esperti contestano questo consenso, non lo fanno sulla base di una attenta considerazione delle evidenze – dai, non scherziamo – ma impugnando le motivazioni di migliaia di scienziati in tutto il mondo. Tutti questi scienziati sarebbero motivati da pressioni politiche e remunerazioni finanziarie, falsificando dati e nascondendo le opinioni contrarie.

Sembrano chiacchiere folli. Ma sono profondamente radicate nella destra moderna, nei suoi esperti e nei suoi politici. Perché i conservatori americani sono così determinati nel delegittimare la scienza e nel dar credito alla teoria della cospirazione degli scienziati? Parte della risposta sta nel fatto che sono impegnati a difendere il loro potere. Così funzionano le cose nel loro mondo.

Qualche repubblicano disilluso ama parlare di un’età dell’oro del pensiero conservatore, in qualche luogo nel passato. Ma questa età dell’oro non è mai esistita, anche se, in altri tempi, qualche intellettuale conservatore ha espresso delle idee interessanti e indipendenti. Ma molto tempo fa. Oggi l’universo intero degli intellettuali di destra è dominato da propagandisti piuttosto che da studiosi.

E i politici di destra molestano e perseguitano i ricercatori le cui conclusioni non sono gradite – un comportamento che è stato ampiamente legittimato ora che Trump è al potere. L’amministrazione Trump è disorganizzata su vari fronti, ma sta sistematicamente epurando le scienze sul clima e gli scienziati del clima ovunque le sia possibile.

Così, la gente a cui piace ascoltare le trasmissioni di Limbaugh immagina che i liberal siano impegnati in una cospirazione per promuovere idee false sul clima e sopprimere la verità. E questo ha per loro un senso, poiché i conservatori sono sempre più ostili alla scienza in generale. I sondaggi mostrano infatti un considerevole declino della fiducia nella scienza dagli anni ’70 in poi, determinato da un’evidente motivazione politica – non certo dal fatto che la scienza ha smesso di produrre conoscenza.

È vero che gli scienziati hanno restituito il favore, perdendo fiducia nei conservatori: più dell’80% propende per il partito Democratico. Ma come potremmo immaginare che gli scienziati supportino un partito i cui candidati alla presidenza non possono neppure accettare la teoria dell’evoluzione?

La questione di fondo è che oggi siamo governati da gente completamente lontana non solo dalla comunità scientifica, ma dall’idea di scienza – dalla nozione che la valutazione oggettiva dell’evidenza è l’unico modo per conoscere il mondo. E questa ignoranza caparbia è terribilmente spaventosa. Infatti, può finire per distruggere la civiltà.

postilla

Mentre dopo l’inondazione in Texas provocata da Harvey, anche la Florida si prepara a valutare i danni, ambientali e umani, dell’uragano Irma - l’evento che ha provocato la più grande evacuazione di popolazione dalle città dopo quella di Londra durante la seconda guerra mondiale - Scott Pruit, il neodirettore dell’EPA, l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente, ha immediatamente dichiarato che discutere di cambiamento climatico nel bel mezzo di una tempesta mortale era una stupidaggine. Ma il personaggio, voluto da Trump a quella carica, considera il riscaldamento globale come una “truffa” (in piena sintonia con il suo Presidente): le emissioni di CO2 da fonti mobili e stazionarie non costituiscono un problema per l’ambiente. Il fronte dei Repubblicani a livello locale sembra un po' meno compatto. Mentre il governatore della Florida Rick Scott, in piena tempesta distruttiva, ribadisce le tesi dei negazionisti, il sindaco di Miami, Tomas Regalado, anch’egli Repubblicano, ha rilasciato un’intervista nella quale ha dichiarato:“If this isn’t climate change, I don’t know what is”. Ma si tratta di un caso isolato. Il pessimismo, quando si tratta di questa leadership, dei suoi giornalisti accreditati, dei suoi esperti e dei suoi amministratori non è mai eccessivo, come sottolinea Paul Krugman nell’editoriale desolato pubblicato sul New York Times che eddyburg ha tradotto per i suoi lettori (m.c.g.).

«Si chiude la peggiore stagione degli incendi in Italia da 30 anni a questa parte. Le cause si possono riassumere in cinque punti. Tutti hanno a che fare con la scarsa attenzione al territorio e al bene comune». lavoce.info, 1° settembre 2017 (c.m.c)

Quasi a termine della peggiore stagione negli ultimi 30 anni per gli incendi in Italia, vediamo di analizzare le cause di questo fenomeno, cercando di fare una valutazione più ampia sullo stato delle risorse boschive Possiamo raggruppare le cause di questo fenomeno in cinque categorie, di cui le ultime due collegate a problemi generali del settore forestale che travalicano lo specifico tema degli incendi boschivi.

Condizioni meteorologiche
La prima causa, quasi un prerequisito per lo sviluppo degli incendi, sono le condizioni meteorologiche: aridità, alte temperature, bassa umidità, forte vento con il maggior numero di eventi estremi, come le sette ondate di caldo di questa estate, tutti fenomeni collegati ai cambiamenti climatici. L’eccezionalità climatica sarà sempre più norma; tra l’altro gli scenari di cambiamento climatico prevedono che la regione del Mediterraneo sia più esposta a fenomeni di riscaldamento di altre regioni, con una maggiore riduzione delle precipitazioni nella primavera e con maggiori ondate di caldo in estate, con incendi quindi potenzialmente più rapidi, intensi e di larghe dimensioni.

Incendiari volontari e no. E rari piromani
La seconda causa è legata alla diffusione dei casi di incendi volontari o da comportamento irresponsabile. Non si tratta della diffusione della piromania, una malattia mentale molto rara, ma si tratta di comportamenti dolosi di una moltitudine di soggetti: pastori in cerca di pascoli più ricchi e “puliti”, incendiari con motivazioni vendicative, operai forestali stagionali in cerca di future opportunità di impiego, cacciatori interessati a controllare e concentrare le aree di rifugio della selvaggina, raccoglitori di prodotti selvatici. Ma la causa prevalente sono i comportamenti colposi collegati a noncuranza, negligenza, imperizia e sottovalutazione del rischio. Nell’Europa meridionale quasi il 70 per cento degli incendi sono legati a bruciature di residui vegetali e al desiderio di rigenerare e rendere più produttivi i pascoli.

Prevenzione e spegnimento
Una scarsa attenzione alla prevenzione attiva degli incendi è la terza causa. Nulla di nuovo nel panorama della gestione del territorio in Italia: alla prevenzione viene data una minor attenzione rispetto al ripristino. La prevenzione può essere indiretta o diretta. Per prevenzione indiretta si intendono pratiche quali la scelta delle specie appropriate, la realizzazione di diradamenti e di interventi di pulizia del sottobosco, interventi che hanno anche una importanza fondamentale per aumentare la resistenza e la resilienza delle formazioni forestali. Prevenzione diretta significa realizzazione e manutenzione di fasce tagliafuoco, riduzione del materiale combustibile, pulizia delle fasce laterali delle strade e di quelle sottostanti le linee di comunicazione. Nel considerare l’antitesi prevenzione-spegnimento degli incendi non vanno trascurate le differenze in termini di investimento economico delle due opzioni: la prima interessa soprattutto i piccoli operatori del mondo rurale, il secondo coinvolge soggetti esterni al settore forestale e in particolare l’area del business connessa alla flotta aerea e ai sistemi di monitoraggio, settori fortemente legati all’industria militare.

La foresta abbandonata
Le ultime due cause hanno una rilevanza più ampia, che va ben al di là dello specifico caso degli incendi e interessano le modalità organizzative del settore forestale italiano, negletto dalla politica (in parte perché rappresenta lo 0,08 per cento del valore aggiunto nazionale), nonostante le superfici forestali coprano più di un terzo del territorio e rappresentino quella che è stata definita la più grande infrastruttura verde del paese. Una infrastruttura che, nonostante incendi e attacchi parassitari, è in espansione a seguito della ricolonizzazione di terreni agricoli abbandonati. La prevenzione a costi minori è quella connessa alla rivitalizzazione dell’economia del settore: un bosco che produce valore è un bosco che viene difeso e che difficilmente brucia. In effetti tutto il settore è ancora condizionato da una cultura che è quella dell’Italia della fine dell’Ottocento quando il paese si era dotato di una rigida normativa di vincolo dei territori boscati e di una forza di polizia specializzata nella tutela delle risorse forestali. Di fatto il singolo, più potente, strumento di politica forestale sono ancora i diversi tipi vincoli (idrogeologico, paesaggistico, naturalistico). Negli ultimi 50 anni la superficie forestale è raddoppiata. C’è bisogno di un cambiamento di paradigma di riferimento nella politica forestale: dal “vietare per proteggere e ricostruire il patrimonio” a “gestire il patrimonio, valorizzandolo anche economicamente, per ridurre i costi della sua tutela”.

Un problema di governance

E qui entra in gioco il quinto e ultimo fattore: l’assetto istituzionale del settore, profondamente modificato dalla Legge Madia di riforma della pubblica amministrazione, e in particolare dal Decreto Legislativo 177/2016 che ha ridefinito le istituzioni che operano nel settore forestale a livello centrale. Come spiegato nella scheda tecnica che ha accompagnato il fact-checking sulle attività di spegnimento degli incendi, con il Decreto 177 è stata fatta la scelta di militarizzare il Corpo forestale dello stato (Cfs) inglobando gran parte dei componenti nell’Arma dei Carabinieri. Il Decreto 177 ha avuto uno specifico effetto sull’organizzazione della difesa dagli incendi boschivi nelle regioni a statuto ordinario. Attualmente le competenze risultano divise tra regioni, Vigili del fuoco, i Protezione Civile e Carabinieri forestali, secondo la ripartizione riportata nella scheda tecnica. Con la riforma delle competenze definita dal Decreto si rendono necessarie nuove convenzioni tra Regioni e Vigili del fuoco i quali, tuttavia, in molte Regioni dovrebbero ereditare le competenze negli interventi avendo problemi organizzativi e di personale.

Il rischio che vada sempre peggio
Infine, da una lettura del Decreto, si potrebbe ipotizzare che la prevista Direzione foreste del ministero delle Politiche agricole, forestali e alimentari assuma una funzione di indirizzo delle attività anti-incendio. Questa Direzione è ancora in attesa di una definitiva strutturazione. Con il Decreto 177 si è così riusciti a fare due significativi errori con una sola decisione: si sono affidate responsabilità operative ad una organizzazione (i Vigili del fuoco) che non ha una struttura logistica diffusa sul territorio rurale perdendo le competenze nel coordinamento sul campo accumulate da alcuni decenni di attività antincendio del Cfs. Nello stesso tempo si è accentuato quel processo di securizzazione e, più specificamente, di militarizzazione dell’apparato centrale dello stato nel campo della gestione delle risorse naturali proprio in un momento in cui sarebbe fondamentale avere una pubblica amministrazione che accompagni sul piano tecnico e amministrativo la gestione dei beni comuni, che privilegi la prevenzione sulla repressione, i rapporti di cooperazione e responsabilizzazione con i portatori di interesse sugli interventi securitari. Se questa strada, prepariamoci a molte altre estati di fuoco.

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