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E’ giunto in discussione alla X Commissione del Senato della Repubblica (ma coinvolgerà anche altre Commissioni senatoriali) il ddl N° 1532 “Modifiche alla normativa sullo sportello unico per le imprese e disciplina dell’avvio dell’attività di impresa”, primo firmatario Daniele Capezzone, già approvato dalla Camera dei Deputati il 24 aprile u.s. nel più assoluto silenzio generale.

Il ddl N° 1532 è così sintetizzabile in uno slogan che ne volesse pubblicizzare i contenuti: “Un’impresa, ovunque e comunque… e in soli 7 giorni!!!!” .

Lo slogan contiene i due “principi” che sono al contempo i maggiori pericoli insiti nell’iniziativa: la collocazione di impianti produttivi anche in deroga alle norme urbanistiche e paesaggistiche vigenti e l’eccezionale brevità temporale di questa operazione.

Questo in dettaglio è quanto prevede l’articolato.

L’Art. 1, c. 2, definisce gli impianti produttivi come quelli relativi a tutte le attività di produzione di beni e servizi, ivi inclusi le attività agricole, commerciali e artigianali, le attività turistiche e alberghiere, i servizi resi dalle banche e dagli intermediari finanziari e i servizi di telecomunicazioni.

L’Art. 1, c. 3 e segg, prevede per ogni Comune l’istituzione dello sportello unico per le imprese (anche in forma associata tra comuni) o la designazione dell’Ufficio che dovrà assorbire al suo interno i compiti previsti dal ddl. A tale sportello unico o a tale Ufficio sono attribuite tutte le competenze inerenti i titoli autorizzativi, a cominciare dalle dichiarazioni e dalle domande.

L’Art. 1, c. 8, elenca i casi in cui non occorre autorizzazione alcuna (utilizzazione dei servizi presenti che non comportano ulteriori lavori nelle aree ecologicamente attrezzate istituite dalle regioni, utilizzando prioritariamente zone con nuclei industriali già esistenti, anche se dismessi).

L’Art. 1, c. 9, definisce il caso in cui il progetto di impianto produttivo contrasta con lo strumento urbanistico (qualora lo stesso non abbia aree industriali sufficienti o non utilizzabili da quel progetto) perché interessa aree classificate agricole, residenziali, per attrezzature ecc.. Lo sportello unico “immediatamente” convoca la conferenza di servizi degli organismi interessati in seduta pubblica e in tale conferenza acquisisce e valuta le osservazioni. La conferenza deve tenersi entro 7 gg. dalla presentazione della documentazione (Art. 3, c. 2).

Il verbale della riunione è inviato poi al Consiglio comunale che delibera entro 30 gg. con decisione definitiva. Nel caso in cui il Consiglio comunale non dia parere positivo il Consiglio comunale stesso può deliberare una diversa localizzazione o diverse modalità di realizzazione del progetto. Se la conferenza dei servizi delibera conformemente a quanto indicato nella delibera comunale il progetto può essere realizzato senza alcun ulteriore passaggio, bastando una autodichiarazione di conformità tecnica.

L’Art. 2 esclude la possibilità di dare immediatamente avvio agli interventi quando la verifica di conformità comporta valutazioni discrezionali da parte della pubblica amministrazione (ad es. per i profili attinenti la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, la difesa nazionale, la tutela dell’ambiente……). In questo caso (Art. 3), lo sportello unico convoca per via telematica la conferenza dei servizi inviando, sempre per via telematica, la documentazione alle amministrazioni competenti che hanno 30 gg. di tempo per manifestare l’eventuale “motivato dissenso”. Se il “motivato dissenso” è espresso da amministrazioni in merito alla tutela paesaggistica, ambientale, della salute…..la decisione finale è rimessa al Consiglio dei Ministri o ai competenti organi collegiali degli enti territoriali cui appartiene l’amministrazione dissenziente. Questi Organismi tuttavia hanno a disposizione 30 gg. per deliberare (Art. 3, c. 6). Immaginiamo cosa può succedere nei palazzi dell’arbiter romano subissati dalle pratiche affluite dai comuni! E il silenzio entro quel brevissimo termine, in pratica infine obbligato, varrà consenso ad ogni intervento benché lesivo dei valori del paesaggio e della salute!

Il ddl N° 1532 pericolosamente introduce nuove prassi che cancellano i principi dell’urbanistica e quelli della partecipazione collettiva alla programmazione del territorio.

Per le attività produttive (intese nel senso lato di cui sopra), e solo per esse, su richiesta dei singoli diviene possibile introdurre varianti allo strumento urbanistico comunale senza seguire l’iter partecipativo e di coinvolgimento collettivo previsto sin dal 1942 (epoca fascista!): presentazione della variante urbanistica, adozione della stessa da parte del Consiglio comunale, pubblicazione, presentazione di osservazioni da parte dei cittadini, accoglimenti e/o controdeduzioni, definitiva approvazione del Consiglio comunale.

La variante allo strumento urbanistico secondo il ddl 1532 può essere decisa dalla conferenza di servizi e da un solo passaggio nel consiglio comunale! La partecipazione non può essere garantita dal fatto che la conferenza di servizi è pubblica (Art.3, c. 5) e che ad essa possono partecipare, senza diritto di voto, i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o in comitati che vi abbiano interesse e che possono proporre osservazioni in tale contesto. Ma in quale modo potranno essere avvisati e coinvolti tutti questi portatori di interessi privati o diffusi nell’inesistente tempo a disposizione?

Italia Nostra richiede ai Parlamentari impegnati nell’esame del provvedimento un’attenta ponderazione, nel senso ora descritto, sulle pericolose norme che possono portare ad una progressiva distruzione degli equilibri territoriali.

Quali Comuni, grandi e piccoli, avranno la capacità di anteporre l’interesse del territorio, resistendo alle richieste di impianti in ogni dove dettate da convenienze di singoli imprenditori e accompagnate dal miraggio delle sirene occupazionali?

Italia Nostra ribadisce l’importanza del principio di pianificazione che non può essere negato dalla volontà di razionalizzare e ridurre il tempo delle autorizzazioni, volontà sicuramente condivisibile, ma che non può essere perseguita a discapito dell’equilibrato sviluppo del territorio, contro il principio della partecipazione collettiva alle scelte che sul territorio incidono e perfino in danno del paesaggio e della salute.

Roma, 13 giugno 2007

Zone industriali dappertutto, in barba alla pianificazione urbanistica e territoriale: questa è la nuova razzìa di ciò che resta del Belpaese che sta per scatenarsi. Primo responsabile l’on. Capezzone, complici i parlamentari che hanno approvato la proposta di legge alla Camera, e quelli che stanno per approvarla al Senato, dove il provvedimento è approdato col n. 1532.

L’hanno soprannominato “un'impresa in 7 giorni”. Se il provvedimento passerà per costruire gli edifici necessari per una qualsiasi attività produttiva in materia di beni e servizi basterà presentare la domanda allo “sportello unico” comunale. La ricevuta della domanda costituisce titolo edilizio. Se l’area non è considerata idonea per quella attività dallo strumento urbanistico (è area agricola, o per attrezzature pubbliche, o residenze o altro), basta che comunque rispetti le normative ambientali e quelle relative ai beni culturali. Viene convocata la conferenza dei servizi che entro sette giorni modifica lo strumento urbanistico! Se poi c’è contrasto con le normative specifiche di tutela ambientale o culturale l’attesa del privato è appena un po’ più lunga, ma l’esito è sicuro: il privato dispone la convocazione della conferenza di servizi, e se c’è l’opposizione di uno dei suoi membri che rappresenta competenze statali decide il governo. Questo ha trenta giorni di tempo per decidere: se non decide, la licenza di uccidere si intende concessa.

Numerosi parlamentari hanno firmato proposte di legge che si propongono di restaurare l’autorità pubblica e restituire razionalità al governo del territorio, dichiarando la rilevanza del “principio di pianificazione”. Cinque proposte di legge in materia giacciono nei due rami del Parlamento (in un’attesa che speriamo non diventi letargo). Chiediamo almeno ai firmatari di quelle proposte come mai sia passato sotto il loro naso un provvedimento così distruttivo senza che l’opinione pubblica ne sia stata informata, senza che ci sia stato il segno d’una qualche opposizione. Il nostro timore che l’urbanistica neoliberista avesse già vinto, che la sconfitta di Berlusconi fosse stata una vittoria del berlusconismo, si rivela sempre più fondato. Speriamo di sbagliare.

L’Italia produce annualmente oltre 46 milioni di tonnellate di cemento. Sono circa 800 kg pro capite (nel 2005 erano 831 kg a testa nel Nord, 792 nel Centro, 747 nel Sud e 746 delle Isole), il doppio della Germania.

La regione del Nord che, in proporzione agli abitanti, ne produce di più è il Friuli Venezia Giulia, con 1.247 kg pro capite (quasi 1.500.000 tonnellate in totale).

C’è poi un imprenditore veneto del settore estrattivo e dei materiali da costruzione, tale Grigolin, che vuol produrre anche cemento. Già proprietario di alcune cave in Friuli Venezia Giulia, pensa bene di impiantare qui un nuovo cementificio. Dove? A Torviscosa, dentro il grande complesso industriale dell’ex Snia Viscosa (ora “Caffaro”), oggi parzialmente inutilizzato. La capacità produttiva del nuovo impianto sarebbe, a regime, di 1.200.000 tonnellate all’anno, quasi raddoppiando quindi la produzione attuale in regione.

Il progetto dev’essere sottoposto preventivamente a VIA (valutazione di impatto ambientale), di competenza della Regione. Una procedura che prevede la consultazione dei Comuni circostanti il sito dello stabilimento, vari pareri tecnici (ARPA, Azienda Sanitaria, vari uffici regionali, ecc.) e le osservazioni dei cittadini. Segue un parere della Commissione VIA, presieduta dall’assessore all’ambiente (Moretton) e composta da vari funzionari regionali, un rappresentante dell’ARPA, due docenti universitari e due rappresentanti di associazioni ambientaliste. In base a questo parere, una delibera della Giunta regionale conclude il tutto.

Emergono subito, nell’istruttoria tecnica del Servizio VIA regionale, seri problemi ambientali. A Torviscosa i dati delle centraline per il monitoraggio della qualità dell’aria mostrano infatti una situazione critica, che peggiorerà – verosimilmente – con il contributo della nuova centrale elettrica a ciclo combinato “Edison” (entrata in funzione nel dicembre 2006 e sita anch’essa nel comprensorio ex Snia Viscosa), da 800 MW di potenza.

Preoccupano soprattutto le polveri fini PM10, che già negli anni scorsi a Torviscosa hanno superato spesso il limite giornaliero di 50 microgrammi per metro cubo: nel 2010 entreranno in vigore nuovi limiti e la media annuale non dovrà superare i 20 microgrammi (oggi è di 40), un valore che – pur senza centrale “Edison” e senza cementificio – è stato superato negli anni scorsi. Il cementificio aggiungerebbe a sua volta emissioni rilevanti di polveri e 1.800 tonnellate annue di ossidi di azoto (più della centrale “Edison”), che a loro volta danno origine a polveri “secondarie”.

Ci sono poi problemi per la movimentazione delle materie prime (calcare, soprattutto) e del cemento prodotto. Il progetto di Grigolin prevede l’utilizzo anche della via d’acqua e della ferrovia, ma il canale Banduzzi che dovrebbe servire per l’attracco delle chiatte, è sotto sequestro perchè fortemente inquinato da mercurio (eredità della storica attività chimica della Snia Viscosa) e non è chiaro quando e da chi potrà essere bonificato. Anche l’effettivo utilizzo della ferrovia è incerto. Risultato: a regime 356 autocarri – con le relative ulteriori emissioni inquinanti - si riverserebbero ogni giorno sulla rete viaria, la quale è già “in sofferenza” per i volumi di traffico attuali e per la presenza di alcune strettoie (in particolare l’attraversamento dell’abitato di Porpetto).

Dulcis in fundo, il processo produttivo comporta anche l’emissione di grandi quantità di anidride carbonica (CO2), il principale dei “gas serra”: a regime oltre 825 mila tonnellate all’anno (per ciascuno dei 50 anni di vita utile prevista dell’impianto), cioè più del 7 per cento della CO2 emessa nel 2000 nell’intero Friuli Venezia Giulia, il 28 per cento di quella emessa dal settore industriale.

Non male davvero, nel momento in cui i cambiamenti climatici sono il principale problema ambientale e la diminuzione – non l’aumento! - delle emissioni di CO2 è (o dovrebbe essere), la priorità n. 1 per tutti.

Conclusione del Servizio VIA regionale: giudizio negativo sull’impatto ambientale del progetto.

Negativi anche i pareri dell’Azienda Sanitaria, della Provincia di Udine e dei Comuni interpellati, salvo Torviscosa e S. Giorgio di Nogaro (quest’ultimo forse per solidarietà: nella sua zona industriale a ridosso della laguna è in progetto una grande vetreria, con impatti ambientali analoghi a quelli del cementificio Grigolin).

Si arriva così alla seduta della Commissione VIA, convocata per il 7 febbraio scorso, che viene però annullata per mancanza del numero legale (assenti Moretton, l’ARPA, i docenti universitari e alcuni funzionari regionali).

La seduta viene riconvocata il 28 febbraio, ma nel frattempo è cambiato l’orientamento del Servizio VIA. L’iniziale giudizio negativo sul progetto è infatti scomparso, ma nessuno chiarisce perchè.

La Commissione esprime così un giudizio positivo sull’impatto ambientale del progetto, sia pure accompagnato da “prescrizioni”. Favorevoli tutti i presenti, tranne gli ambientalisti, Fabio Gemiti del WWF e Dario Gasparo del CAI, che protestano vibratamente per il colpo di mano.

Pare che al recente congresso regionale dei DS il presidente Illy, rivendicando i meriti della propria Giunta nell’attirare nuovi investimenti industriali in Friuli Venezia Giulia, abbia citato anche il cementificio di Torviscosa tra i successi conseguiti. Il che probabilmente spiega come mai la VIA regionale si sia conclusa nel modo sopra descritto.

Del resto, il progetto di Grigolin menziona esplicitamente la realizzazione di grandi opere ed infrastrutture (per esempio la TAV), che necessitano di tanto cemento e si sa quanto Illy tenga a tutto ciò. Per lo “sviluppo”, naturalmente.

Chissà come saranno contenti i cittadini della bassa friulana, che hanno votato centrosinistra alle ultime elezioni regionali….

Cose che succedono quando si affida un ente pubblico alle mani dei referenti di Confindustria.

Fra roventi polemiche, a Monza la giunta di Michele Faglia (Unione) ha ottenuto dal Consiglio comunale l'adozione del Piano di governo del territorio: 22 voti a favore pochi minuti dopo la mezzanotte di venerdì. Sullo strumento che delinea lo sviluppo urbanistico della città, compresa la questione Cascinazza, annosa vertenza giuridico—immobiliare fra la famiglia Berlusconi e il Comune, pesa tuttavia la decisione della Casa delle Libertà di abbandonare l'aula al momento del voto per protesta contro «l'arroganza della maggioranza». Dice Osvaldo Mangone, capogruppo di Forza Italia: «La giunta Faglia ha dimostrato scarso rispetto dei diritti della minoranza. La nostra possibilità di intervenire è stata praticamente annullata». Il tutto accompagnato da bandiere e cartelli e dalle grida del pubblico. I punti chiave del piano messo a punto dall'assessore all'Urbanistica, Alfredo Viganò, sono l'introduzione del principio della perequazione e la salvaguardia delle aree verdi libere, fra le quali compare anche il lotto Cascinazza, nella periferia Est di Monza. «Il nuovo Pgt di Monza non è stato approvato solo per risolvere il problema della Cascinazza — commenta Faglia —. Grazie a questo voto la città ha adesso delle regole certe in materia urbanistica e abbiamo evitato che ritornasse in vigore il vecchio Prg Piccinato». Sullo sfondo, tuttavia, la questione Cascinazza continua ad incombere. Il Consiglio di Stato ha infatti accolto il ricorso presentato da Istedin, società della famiglia Berlusconi, contro la decisione della giunta di sospendere la discussione del piano di lottizzazione da 388 mila metri cubi. «Il Comune dovrà motivare un eventuale rifiuto — commenta Antonio Anzani, amministratore della società —. Ho già fatto partire una diffida e nelle prossime ore recapiterò la richiesta di danni».

Faglia, tuttavia non si scompone. «Ci stupisce questa sentenza — conclude —. Abbiamo già espresso un parere nel merito del progetto in questione e l'abbiamo sospeso perché non conforme al Prg. Questa decisione non cambia le carte in tavola, la Cascinazza è un caso chiuso».

Una sintesi della vicenda su Carta del 3 luglio 2006. Molti altri articoli e documenti nella cartella Padania, oppure scrivendo "Cascinazza" nel "Cerca" in alto a destra di tutte le pagine.

Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale adottato dalla Provincia di Padova, dovrebbe costituire uno strumento fondamentale della pianificazione e della gestione del territorio. Italia Nostra e Legambiente hanno in questi giorni presentato un organico documento di “Osservazioni al PTCP”

E’ da tutti riconosciuto che una delle cause principali della distruzione del paesaggio e del territorio della nostra regione è senza dubbio costituita dalla frammentazione degli strumenti di piano ed al prevalere degli interessi localistici, i quali fanno sì che ogni Comune – assecondando le pressioni della speculazione fondiaria e dei costruttori e per incrementare le proprie entrate fiscali – si senta in dovere di prevedere nel proprio piano regolatore e attraverso specifiche Varianti di piano sempre nuove espansioni residenziali, commerciali e produttive, spesso senza alcuna correlazione con il fabbisogno effettivo ed al di fuori di ogni più ampia e razionale visione dell’organizzazione del territorio e delle attività economiche a scala comprensoriale e regionale.

Tra i compiti essenziali del PTCP vi dovrebbe dunque essere quello di una realistica quantificazione dei fabbisogni insediativi e delle definizione di precisi indirizzi per una concentrazione delle localizzazioni, finalizzata ad evitare la crescita a macchia d’olio degli aggregati urbani, al riequilibrio delle funzioni e dei servizi in una visione multipolare della realtà territoriale e quindi anche alla salvaguardia delle risorse naturalistiche e dei residui spazi aperti. Erano questi gli indirizzi di fondo caratterizzanti il primo PTCP presentato nel 1994 dall’architetto Camillo Nucci, anche se la violenta reazione di molti comuni – che rifiutavano l’imposizione di qualsivoglia limite esterno al proprio potere gestionale – fece sì che all’atto dell’adozione del piano, nel 1995, la normativa, che avrebbe dovuto conferire reale operatività al piano, assumesse un carattere più orientativo che prescrittivo.

L’iter di approvazione di quel PTCP non giunse comunque mai a conclusione. Anzi, la nuova Giunta Provinciale, nel 2000, decise incredibilmente di buttare a mare tutto il lavoro fatto e di conferire un nuovo incarico esterno per la redazione di un nuovo piano, quello adottato la scorsa estate. Un decennio di non governo del territorio a scala provinciale che ovviamente ha favorito un’ulteriore, inarrestabile proliferazione di urbanizzazioni ed insediamenti di ogni tipo, al di fuori di qualsiasi disegno organico, con conseguenze micidiali in termini di consumo di territorio, spreco di risorse energetiche ed economiche, pendolarismo, incremento del traffico veicolare privato, inquinamento.

Ma arriviamo al merito dei contenuti del nuovo PTCP. Va innanzitutto osservato che le metodologie e le procedure seguite per la sua elaborazione sono non solo profondamente carenti ed inadeguate, ma anche clamorosamente illegittime. Nel giugno 2001 il Parlamento Europeo ha approvato una specifica Direttiva, la 42/2001, che rende obbligatoria nella redazione dei piani urbanistici la cosiddetta VAS – Valutazione Ambientale Strategica. L’articolo 3 di detta Direttiva (divenuta efficace a tutti gli effetti dal 21 luglio 2004 per tutti i paesi della Comunità, indipendentemente dal suo formale recepimento con apposita legge nazionale) stabilisce con chiarezza che detta valutazione ambientale «deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano ed anteriormente alla sua adozione» e che detta valutazione, nonché tutti gli studi e la documentazione relativa al piano devono essere messi in tempo utile a disposizione del “pubblico” (e tra il “pubblico” sono espressamente indicate anche le associazioni ambientaliste e le organizzazioni portatrici di interessi collettivi) al fine di consentir loro di esprimersi nel merito prima dell’adozione del piano. Tutto ciò nel caso specifico del PTCP di Padova non è avvenuto. Solo dopo la loro formale adozione da parte del Consiglio Provinciale i documenti di piano ed il Rapporto Ambientale (avente anche valore di VAS) sono stati resi pubblici.

Già questo aspetto procedurale invalida totalmente i contenuti del Rapporto Ambientale e dello stesso piano; ma anche nel merito il Rapporto Ambientale, per numerosi aspetti (mancata elaborazione di scenari alternativi, mancata valutazione dei possibili effetti negativi sull’ambiente e la salute umana delle scelte operate, interrelazioni tra i diversi fattori, monitoraggio,…), non risponde affatto ai criteri fissati dalla Direttiva comunitaria: il che ci fa affermare che di fatto non è stata attivata alcuna reale procedura di Valutazione Ambientale Strategica.

Più nello specifico dei contenuti di piano, si può osservare:

In generale le indicazioni di piano hanno irrilevanti o carenti contenuti progettuali. Quasi sempre ci si limita alla fotografia dell’esistente ed alla descrizione delle tendenze in atto, rinviando ogni decisione agli strumenti della pianificazione comunale. L’unico elemento di novità (derivato dalla nuova legge urbanistica regionale) è costituito dall’invito rivolto ai Comuni per l’elaborazione – nei diversi comprensori provinciali – dei PATI – Piani di Assetto Territoriale Intercomunali, ma l’articolo 7 della Norme tecniche significativamente non inserisce tra i temi di carattere generale da affrontare nell’ambito di detto strumento urbanistico quello fondamentale relativo al sistema insediativo residenziale: esclusione che, non vi è dubbio, favorirà – come già è avvenuto nel passato – il sovradimensionamento del fabbisogno abitativo di ogni singolo comune e quindi, ancora una volta, la frammentazione e dispersione insediativa.

Molto concrete ed “operative” sono invece le indicazioni relative alla grande viabilità (GRA – Grande Raccordo Anulare, camionabile lungo l’Idrovia, “Bovolentana”, nuova strada provinciale complanare tra la statale 16 e l’autostrada A13, ecc. ecc.). Ma in realtà su questo fronte il PTCP ha semplicemente recepito – senza alcun confronto critico – il Piano della viabilità precedentemente predisposto, in separata sede, dall’Assessorato provinciale alla mobilità: un piano la cui unica finalità sembra essere quella di bypassare con nuove strade e superstrade i “punti critici” della viabilità attuale. In questo modo il PTCP abdica rispetto ad uno dei suoi compiti fondamentali, che dovrebbe appunto essere quello di far dialogare il disegno di una nuova più equilibrata organizzazione degli insediamenti nel territorio con il sistema dei trasporti (di quelli collettivi in primo luogo) e non banalmente di recepire la richiesta di nuove infrastrutture stradali come una variabile indipendente. Tra l’altro le nuove strade previste, oltre a generare un inevitabile disastroso impatto sull’ambiente e sul paesaggio, comportando costi astronomici (oltre 1 miliardo e 200 milioni di euro nelle previsioni ufficiali) vanificano di fatto ogni reale prospettiva di potenziamento del trasporto collettivo su ferro a scala metropolitana.

Tema specifico del PTCP dovrebbe essere, in primo luogo, quello della salvaguardia della biodiversità e della formazione di una rete ecologica estesa a scala provinciale, atta a favorire i processi naturali e condizioni generali di equilibrio ecologico (dinamico e non statico). In realtà gli studi sulla rete ecologica effettuati dal piano non si rifanno affatto – come dovrebbero – alle metodologie scientifiche dell’ecologia del paesaggio, limitandosi al puro e semplice rilievo cartografico degli spazi inedificati lungo i principali corsi d’acqua. Non solo. Per non rimettere in discussione le scelte urbanistiche o le richieste dei singoli comuni (come pure il PTCP potrebbe e dovrebbe fare), si arriva al punto di considerare come già di fatto edificate aree che risulterebbero strategicamente fondamentali per il sistema del verde – quali, a Padova, quelle del Basso Isonzo e dei cunei verdi periurbani – che pure sono a tutt’oggi ancora prevalentemente utilizzate a fini agricoli o comunque non urbanizzate. Anche in questo caso un bel salto all’indietro rispetto al PTCP del 1995 che forniva precise indicazioni sulla localizzazione di nuovi potenziali parchi urbani e territoriali (Basso Isonzo-Bacchiglione, Terranegra-Roncajette, Brenta, … per limitarci a Padova), salvaguardava con apposita grafia i “cunei verdi” periurbani e promuoveva la formazione di una “Green Belt” metropolitana estesa per 8.900 ettari e di una grande fascia di salvaguardia ambientale tutt’attorno al Parco dei Colli Euganei.

Gravissimo è infine quanto previsto dall’art. 8 delle Norme di piano, che tende ad interpretare (in stridente contrasto con le norme di legge vigenti e con la giurisprudenza) lo strumento della “compensazione urbanistica” come un implicito riconoscimento di un diritto all’edificazione (jus aedificandi) connesso alla proprietà dei suoli… una forma di risarcimento per le aree soggette a vincoli di tipo ricognitivo quali quelle «… interessate da problematiche legate alla morfologia del territorio, o alla presenza di rischi naturali maggiori quali ad esempio fenomeni di esondazioni e/o ristagno d’acqua, di vulnerabilità del territorio sotto il profilo ecologico, igienico-sanitario e paesaggistico-ambientale».

Sergio Lironi è Presidente di Legambiente Padova

V iva viva Sant'Agazio, protettore delle ruspe. Il presidente della Calabria, stavolta, merita gli applausi. Il via ai lavori di abbattimento dell'«ecomostro» di Copanello, un osceno e immenso complesso di cemento abusivo costruito su promontorio un tempo bellissimo, è un gesto simbolico di straordinaria importanza. E ha ragione il governatore, scosso da una miriade di grane politiche e grattacapi giudiziari che lo hanno toccato anche personalmente, a rivendicarlo. Perché, come ha sottolineato il ministro per l'Ambiente Pecoraro Scanio, quello di ieri, dopo mille complicità e battaglie giudiziarie e rinvii, è stato davvero un passaggio «storico».

Purché, appunto, non resti «solo» un gesto simbolico. Spiega infatti l'ultimo Rapporto Ecomafia di Legambiente, che per un verso è entusiasta e per un altro prudente, che la Calabria ha un 28˚ della popolazione e un 20˚ del territorio nazionali ma ha ospitato nel 2005 un 7˚ di tutte le illegalità nel ciclo del cemento, con una percentuale di costruzioni abusive rispetto a quelle regolari in linea col Sud peggiore, che svetta col 26,2% di abitazioni fuorilegge contro il 4,8% del Nord e il 9,5% del Centro.

Il governatore calabrese dice che lo sa, che non «si possono censire tutti gli abusi» ma finalmente chi tira su una palazzina illegale «sa che gli sarà buttata giù». A partire da una prima lista già concordata col governo. Lista di cui fanno parte vari mostri di cemento a Pizzo Calabro, Stignano, Scilla, Rossano, Cessaniti, Stilo, Tropea e Bova. Di più: Roma e la Regione si sono già impegnati a trovare i soldi non solo per le ruspe ma per il ripristino della situazione preesistente. Tutti in coro: evviva Sant'Agazio, evviva i caterpillar.

Questa volontà di rompere coi vizi del passato, però, sarebbe più convincente se il presidente si decidesse a troncare con parole nette ogni ipotesi intorno al progetto «Europaradiso». Il megalomane complesso alberghiero da costruire alla foce del Neto, vicino a Crotone, in uno dei rarissimi tratti di costa scampato agli Attila del cemento e perciò sottoposto a una serie di vincoli, regionali ed europei. Là dove oggi sorgono ancora (miracolosamente) le dune dovrebbe nascere su 6 chilometri di litorale una città di quattro milioni di metri cubi con sei hotel da 1.500 letti ognuno e campi da golf e una metropolitana di collegamento a Crotone e uno stadio per 20 mila spettatori per un investimento complessivo di 10 miliardi di euro: 20 mila miliardi di lire, quasi quanti quelli spesi per il tunnel sotto la Manica.

E chi metterebbe, i soldi? Un «finanziere» israeliano, David Appel. Il quale aveva già provato a far passare il progetto prima su un'isola greca e poi sulla costa spagnola, finendo per essere non solo respinto ma indagato e coinvolto in una serie di inchieste per corruzione che tirarono nel pantano anche Ariel Sharon e suo figlio. Al punto che, saputa la cosa, il quotidiano Haaretz ha mandato un paio di giornalisti pubblicando un reportage a dir poco feroce non solo su Appel ma anche su come il mondo politico calabrese si era lasciato incantare dalla prospettiva di un fruscio di soldi. Soldi che peraltro avrebbe dovuto parzialmente anticipare (e ti pareva!) Sviluppo Italia. Tanto da spingere poche settimane fa il Consiglio regionale, col solo voto contrario di Rifondazione, a chiedere in commissione la rimozione dei vincoli sull'area prelibata. Loiero, a proposito di «Europaradiso» i cui soli disegni in internet gelano il sangue, disse che «nessuno a cuor leggero può rinunciare a un progetto come quello».

La pensa sempre così? Gli ecomostri non si abbattono meglio, se sono ancora di carta?

I dati del secondo capoverso sono palesemente errati.

1.IL TESTO

Si osserva innanzitutto che la dimensione stessa del documento “preliminare” (550 pagine, più gli allegati cartografici), unitamente al tempo ristrettissimo previsto per la formulazione di pareri e osservazioni – tramite il sito internet della Regione – non depongono certo a favore della serietà dell’approccio scelto, per quanto concerne la partecipazione degli stakeholders all’analisi e alla valutazione del documento stesso.

Si tratta inoltre di un testo di difficile lettura, problematico:

- perché composto da più scritti separati (non solo per temi affrontati, ma anche per tempo di stesura, concezione, impostazione, livello di approfondimento, ordine e stile espositivo);

- per la mancanza di un filo ordinatore, di raccordo tra i singoli argomenti;

- per l’assenza quindi di integrazione tra le parti, per la frammentazione che ne deriva, per lo sviamento rispetto all’obiettivo primo, unificatore, che è la pianificazione territoriale;

- per la prolissità con cui vengono trattati argomenti di importanza secondaria e l’eccessivo semplicismo riservato di contro a questioni che sono invece essenziali;

- per le frequenti ripetizioni, risultato di semplici copia/incolla, per la dispersione che ne consegue e rende arduo arrivare al centro delle questioni;

- per il linguaggio, troppo spesso pretenziosamente tecnicistico, o non pertinente alla materia, anche perché traslato da altri settori, specialmente da quello economico, aziendale-produttivo o prettamente borsistico;

- per la stessa fraseologia, per la struttura delle espressioni, a volte così mal formulate da rendere incomprensibile il senso delle frasi;

- per i concetti, che, pur all’interno di uno stesso tema, appaiono tra loro disomogenei, fuori scala, scoordinati, e complessivamente confusi;

per la commistione tra descrizione di problemi, asserzioni e definizione di obiettivi, per cui non è sempre facile distinguere dai presupposti quelli che sono gli effettivi intenti, e tanto meno capire se tutte le questioni e gli aspetti individuati, o che si devono comunque affrontare, trovino poi una corrispondente proposta di soluzione.

Un testo, insomma, disorganico, non chiaro e non sempre comprensibile, nel quale è difficile orientarsi e cogliere la sostanza delle cose, vale a dire capire quali siano gli indirizzi fondamentali, direttamente attinenti alla pianificazione territoriale, che l’Amministrazione regionale intende assumere per il piano.

Un testo quindi che di per sé, già per come è concepito e formulato, è di ostacolo all’attuazione di una vera, seria, ampia, partecipazione da parte di quei soggetti esterni che si dice di voler coinvolgere.

Soggetti esterni (gli stakeholders), peraltro quanto mai variegati, di formazione ed esperienza diversa, con competenze, interessi, linguaggi anch’essi diversi, ma tutti comunque chiamati ad esprimersi su una stessa materia, su quel tema, composito ma allo stesso tempo unitario, che è per l’appunto la pianificazione territoriale; tutti comunque tenuti a dare un giudizio sia sulla molteplicità di aspetti che essa considera, sui loro caratteri specifici ma anche sulle reciproche interrelazioni, a dover valutare gli obiettivi proposti e le loro possibili ricadute, a doverlo fare sia per singoli settori ma non di meno in termini complessivi, vale a dire a dover considerare la valenza che, in conseguenze delle scelte, il nuovo piano regionale verrebbe ad avere nel suo insieme.

- Il che evidentemente comporta la necessità che il testo risulti uniformemente accessibile; e per esserlo, si ritiene che debba essere qualificato da:

- un linguaggio costantemente chiaro e comprensibile, in ogni parte, e per ogni settore specificatamente trattato;

- un linguaggio comunque rigoroso – e non vago, semplicistico, o fuorviante – di terminologia appropriata, precisa, pertinente alla materia;

- adeguata spiegazione – perché no, corredata da un glossario – dei termini a carattere prettamente tecnico o relativi a settori specifici oppure ripresi da altre lingue, tuttavia utilizzabili solo se indispensabili, privi di un corrispettivo nell’italiano, ormai entrati a far parte dell’uso corrente;

- eliminazione di parole inutilmente pretenziose, spesso frutto di invenzioni fantasiose, probabilmente in nome di ambizioni fintamente intellettualistiche o di una malintesa modernità, ma che danno in realtà l’impressione di una cattiva conoscenza dell’italiano, creano un effetto rozzo, grossolano, appesantiscono il testo, ne rendono ardua la lettura e la comprensione;

- grande ordine espositivo sia nella formulazione dei concetti che nella struttura, nell’articolazione e nella sistemazione per temi, capitoli, elenchi;

- una forte capacità di sintesi per non costringere a disperdersi tra generalità, lungaggini, parti decisamente ovvie, ripetitive, di nessun peso e incidenza;

la messa in evidenza dei contenuti che hanno un’importanza essenziale, per dare il senso di quali siano le priorità, per facilitarne l’individuazione, per consentire di focalizzare l’attenzione sugli elementi effettivamente portanti e considerarli alla giusta stregua, rispetto a questioni e proposte di minor incidenza o, in ogni caso, conseguenti o puramente discorsive.

Un testo, in definitiva, di grande pulizia e correttezza linguistica e strutturale è quello che occorrerebbe. Contro il marasma delle 550 pagine, dove in realtà quelle che contano sono ben poche. Ma perché il testo sia tale, conciso, comprensibile, non è che i contenuti debbano essere stati ben ponderati, verificati, digeriti, chiari in primo luogo a chi ne è autore? È allora un problema di sostanza? Una sostanza che è ancora nebulosa per la stessa Amministrazione regionale? Ma come si fa a spiegare quello che è ancora oscuro a chi lo propone?

2. Le procedure

La (presunta) procedura partecipativa sul sopra citato ponderosissimo documento preliminare del PTR, che pomposamente fa riferimento ad “Agenda 21”, si è in definitiva risolta in una sorta di “videogame”, tramite la compilazione da parte degli stakeholders – avendo a disposizione tempi oltre tutto ridottissimi (7 giorni, poi aumentati a 10!) – di una sorta di questionario on line.

Nessuna meraviglia che solo una trentina degli oltre 200 stakeholders individuati abbia partecipato all’operazione.

A ciò hanno fatto seguito alcuni “forum” tematici (l’ambiente, gli aspetti sociali, ecc.), sfociati in stringatissimi e sostanzialmente vuoti documenti di sintesi, il cui effettivo utilizzo nel prosieguo dell’iter del futuro PTR è peraltro alquanto misterioso.

Non è difficile perciò comprendere le ragioni per le quali la scrivente associazione ha deciso, fin dal principio dell’operazione, di non prestarsi ad avallare un “processo partecipativo” tanto equivoco e ha perciò evitato di partecipare alle fasi “partecipative” sopra descritte.

3. I "PRESUPPOSTI STRATEGICI”

Difficilmente del resto, a giudizio della scrivente associazione, i contenuti del documento preliminare al PTR avrebbero potuto essere diversi, stanti le premesse “strategiche” (altrimenti definite “Linee di indirizzo”, cfr. par. 3 del documento) a monte dello stesso.

Va rilevato infatti come tra tali premesse vengano citati principalmente:

a) il “Programma di governo regionale 2003-2008” (che NULLA contiene in merito alle politiche territoriali e urbanistiche);

b) lo studio di Monitor Group “Verso una visione economica condivisa”, documento chiaramente improntato alla definizione di obiettivi di politica economica, NON urbanistica e territoriale, che contiene riferimenti a scelte territoriali esclusivamente in funzione di obiettivi economici; la pianificazione del territorio è vista cioè come ancella dell’economia, intesa per di più nel senso tradizionale della crescita misurata mediante il PIL;

c) il Piano strategico 2005-2008 “Al centro della nuova Europa” (cfr. par. 3.2 del documento preliminare), derivato dalle analisi del Monitor Group e pressoché interamente incentrato su obiettivi di potenziamento infrastrutturale in ogni settore, assunti come postulati indiscutibili, senza alcun bisogno di verifiche e analisi relativamente a costi, sostenibilità ambientale, effettiva necessità delle opere, ecc.;

d) la L.R. 30/2005 (si veda il commento del WWF sulla stessa, in all. 1);

e) la relazione dell’assessore regionale alla pianificazione territoriale all’incontro “La nuova politica urbanistica della Regione” (cfr. par. 3.7 del documento preliminare), tenutosi a Villa Manin il 24 febbraio 2005. Si tratta di un documento prettamente politico, che da un lato postula la necessità di riformare la L.R. 52/1991 e predisporre il PTR (senza avvertire alcun bisogno di un’analisi critica dell’esperienza fatta con la L.R. 52/1991, della mancata attuazione di sue parti fondamentali, del ruolo svolto dai Comuni e delle conseguenze di una pianificazione in gran parte delegata ai Comuni sul territorio, ecc.), dall’altro delinea con chiarezza il ruolo di un’urbanistica al servizio della crescita economica, poiché elenca tra gli obiettivi della “nuova politica urbanistica” i seguenti: “diventare una regione più ricca e più civile”, “produrre un vantaggio competitivo territoriale”, “perseguire l’obiettivo della centralità del cittadino e delle imprese nel fare il nuovo PTR”, “devolvere le competenze in direzione degli Enti locali, quale mezzo per corrispondere meglio alle esigenze dei cittadini e delle imprese”, “il governo del territorio e dei Comuni”, ecc. Appare perciò chiaro, a giudizio della scrivente associazione, l’intento di costruire un sistema normativo e di pianificazione regionale in cui da un lato l’Ente locale diventa (più di quanto già non sia) l’unico vero referente dei cittadini e dell’imprenditoria per le decisioni che riguardano insediamenti produttivi e residenziali, con gli effetti che si possono facilmente immaginare. Sono tra l’altro quanto mai significativi, a tale proposito, i riferimenti, contenuti nella premessa del documento preliminare al PTR, alla riforma urbanistica nazionale (cfr. par. 2.2 e 2.4), vale a dire la c.d. “Legge Lupi” – fortunatamente decaduta con la fine della precedente legislatura prima dell’approvazione definitiva – per quanto concerne in particolare i principi della “perequazione” e della “compensazione dei diritti edificatori”. Dall’altro lato, la Regione persegue chiaramente l’obiettivo di riservare a sé le decisioni concernenti le grandi infrastrutture (di trasporto ed energetiche), che costituiscono il cuore e di fatto l’unico vero contenuto del PTR.

4.GLI OBIETTIVI DEL PTR

4.1. Premessa

Contenuti nella Parte II - Repertorio degli obiettivi, quivi elencati, gli obiettivi del PTR sono preceduti in Premessa dalla spiegazione dei presupposti e intenti comuni. Molti gli interrogativi che si aprono, a cominciare dai riferimenti alla L.R. 30/2005, o perché scorretti o comunque tali da riproporre la ridiscussione sulla legge medesima (in merito alla quale si ripropongono le valutazioni già formulate a suo tempo, v. all. 1).

Scorretta, se non altro perché priva di un preciso riscontro, appare l’affermazione iniziale secondo la quale:

“Gli articoli 6 e 8 della legge regionale 13 dicembre 2005, n. 30Norme in materia di piano territoriale regionale’prevedono che la formazione del nuovo Piano Territoriale Regionale (di seguito P.T.R.), si articoli in tre fasi che produrranno, rispettivamente, i seguenti elaborati:

1.ilDocumento preliminare al nuovo P.T.R, (è propedeutico alla costruzione della strategia del nuovo piano e rappresenta il primo atto di politica territoriale per la sua costruzione);

2.ilProgetto di P.T.R.(è predisposto dalla Giunta regionale che lo sottopone al parere del Consiglio delle Autonomie locali);

3.ilProgetto definitivo di P.T.R.(è elaborato dalla Giunta regionale, anche sulla base delle valutazioni e delle proposte raccolte in esito al parere del Consiglio delle Autonomie locali)”.

In realtà, l’art. 6 della L.R. 30/2005 disciplina i “Contenuti ed elementi del PTR”, per quanto riguarda i suoi elaborati costitutivi in termini globali e definitivi, senza esplicitarne le fasi di formazione; l’art. 8 tratta delle procedure di “Adozione e approvazione del PTR”, fissandone la sequenzialità temporale, ma senza alcun accenno al Documento preliminare al nuovo P.T.R.

Mancanza, o scorrettezza, marginale, di poco peso, semplice superficialità, ma che comunque stupisce, e non poco, essendo il “ Documento preliminare” un atto comunque ufficiale, proveniente da un soggetto istituzionale, come tale presentato e pubblicizzato proprio dalla stessa Amministrazione regionale, e sulla base del quale altre istituzioni e soggetti sono chiamati dalla medesima a doversi impegnare ed esprimere un parere.

Richiamo alle finalità strategiche ex art. 5 della L.R. 30/2005. La loro riproposizione e rilettura fa riaffiorare le perplessità sorte con l’emanazione della legge. In particolare, quelle inerenti:

- la mancata considerazione per l’intera gamma delle componenti e delle interrelazioni esistenti a scala di territorio regionale;

- l’impostazione che privilegia, rispetto a ogni altra, una visione del territorio come bene di consumo in funzione decisamente economico-produttiva;

- l’interpretazione distorta di concetti fondamentali quali lo “sviluppo sostenibile”, e il suo abbinamento, in termini subordinati e peraltro incomprensibili, alla “competitività del sistema regionale”;

- la genericità e vacuità di finalità come “coesione sociale della comunità”, “miglioramento della condizione di vita”, “migliori condizioni per il contenimento del consumo del suolo e dell’energia, … sviluppo delle fonti energetiche alternative”…

Metodo per l’individuazione degli obiettivi. Illustrato per esteso, ma in maniera disorganica, prolissa e dispersiva – anche per le ripetute traslazioni con semplici copia/incolla dalla prima parte del documento ( Quadro delle conoscenze e criticità) – sembra ambire, e per le lungaggini e per la terminologia, a una certa scientificità; in realtà consiste in null’altro che nel racconto semplicistico, acritico, e peraltro confuso, su quanto è stato fatto e sul da farsi.

Gli esiti a cui perviene aprono non pochi interrogativi (v. ad es. i “macrobiettivi” che, dopo tutto il marchingegno delle fasi di elaborazione che qui si tenta di spiegare, alla fine sono ancora – come vengono dichiarati – “di tipo intuitivo e teorico” e niente di più).

4.2. Obiettivi del Piano Territoriale Regionale

Sono tanti: ben ventotto. Di peso e scala diversa, ma compresi in un unico elenco: alcuni di valenza complessivamente, o piuttosto genericamente territoriale; altri ancora settoriali, o addirittura sottosettoriali, e pur sempre, anche questi, generici; alcuni decisamente estranei alla materia pianificatoria; altri di portata globalmente politica e amministrativa. Tutti, appiattiti al medesimo livello.

Obiettivi che hanno comunque più il significato di enunciazioni di buona volontà, di raccomandazioni che l’Amministrazione regionale fa a se stessa, che di obiettivi veri e propri che l’Amministrazione si dà e intende concretamente perseguire. Obiettivi che appartengono a una fase ancora tutta preliminare, interna, piuttosto che a quella pubblica, di consultazione all’esterno, come vengono invece presentati.

Quando più precisi, gli obiettivi appaiono disciplinarmente discutibili (ove pongono ad es. sullo stesso livello pianificazione e monitoraggio), paradossali (v. bonifica e rinaturalizzazione delle aree edificate o infrastrutturate), palesemente dubbi, ambigui, o comunque adattabili alle più varie interpretazioni e applicazioni (v. “ esercitare in modo flessibile la funzione del governo del territorio”).

La descrizione degli obiettivi è infarcita di termini quali competitività, competizione, competitivo, competere, tanto da risultare stressanti e da dare l’impressione di non avere per oggetto un territorio, peraltro unitario, da dover considerare e pianificare al meglio e per intero, ma di essere un’azienda, di occuparsi di produzione e non dell’ambiente complessivo di vita; di doversi mettere nell’ottica di uno contro tutti, per avere e fare di più, a vantaggio esclusivo del singolo, frammentato, ambito di competenza, quasi che vi si fosse confinati e lo spazio di vita, il diritto a un territorio più bello, funzionale, meglio godibile, non continuasse al suo esterno.

Considerazioni del tutto analoghe vanno fatte per altre “parole d’ordine” (sempre le solite), contenute nella descrizione degli obiettivi: sussidiarietà, adeguatezza, principio di responsabilità, equiordinamento (regione-comuni), ecc.

Come se non bastasse, la definizione delle finalità del PTR è infarcita di contenuti risibili, paradossali, incomprensibili o fuori tema. Eccone un (limitato, per carità di patria) florilegio:

- distribuire, nelle aree deboli, il rischio tra i diversi settori, favorendo una programmazione integrata”, par. 4.3.5., pag. 499;

-il mitico offrire sostegno alla zootecnia ed al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a ‘fare paesaggio’)”, par. 5.2;

- Consolidare il patrimonio rurale”, pag, 504, I capoverso;

- modello dell’albergo diffuso” (?); pag, 504 nel II capoverso al par. 5.2.3;

- dotazione di verde e arredo urbano” come unici servizi citati in par. 5.3;

- Valorizzare il patrimonio insediativo e della cultura”, par. 5.3.2, pag. 504;

- animazione del paesaggio”, par. 5.3.4, pag. 504;

- tassazione a carico di autoveicoli pesanti”, par. 7.1.1.10, pag. 515.

5.IL RAPPORTO AMBIENTALE

La direttiva 2001/42/CE, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, all’articolo 5 individua, come strumento di valutazione degli effetti sull’ambiente di piani e programmi, il rapporto ambientale.

Quest’ultimo al proprio interno, come specificato nell’allegato I della direttiva 2001/42/CE, dovrebbe contenere tra le varie argomentazioni i seguenti punti: i contenuti degli obiettivi principali del piano o programma e del rapporto con altri pertinenti piani o programmi; lo stato attuale dell’ambiente e sua evoluzione probabile senza l’attuazione del piano o del programma; i possibili effetti significativi sull’ambiente; le misure previste per impedire, ridurre e compensare nel modo più completo possibile gli eventuali effetti negativi significativi sull’ambiente dell’attuazione del piano o del programma; la sintesi delle ragioni della scelta delle alternative individuate e una descrizione di come è stata effettuata la valutazione, nonché le eventuali difficoltà incontrate (ad esempio carenze tecniche o mancanza di know-how) nella raccolta delle informazioni richieste; e la descrizione delle misure previste in merito al monitoraggio.

La stessa premessa del rapporto ambientale, per il documento preliminare del PTR (pag. 6) afferma che, come da direttiva 2001/42/CE, il rapporto stesso: “…deve individuare, descrivere e valutare gli effetti significativi che l’attuazione del Piano potrebbe avere sull’ambiente, nonché le ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano, individuando tutte le misure necessarie per mitigare o compensare le varie criticità di natura ambientale e territoriali.

Il Rapporto Ambientale, all’interno del processo del piano territoriale regionale, viene a configurarsi come uno strumento utile e necessario per determinare gli elementi di verifica delle scelte di piano in coerenza con gli obiettivi generali di sostenibilità definiti dal piano stesso”.

A questo punto, analizzato il rapporto ambientale per il documento preliminare del PTR, ci si accorge di essere di fronte a un documento carente delle caratteristiche intrinseche richieste dalla direttiva europea 2001/42/CE, in quanto non contiene e non sviluppa gli argomenti richiesti dall’allegato I. Non basta: è carente anche rispetto ai propositi dichiarati nella premessa del rapporto, il che non può non scandalizzare.

Nello specifico manca la valutazione degli effetti delle politiche di piano sull’ambiente, anche perché lo stesso documento preliminare del PTR non fa cenno alcuno di quali siano le politiche da adottare. Gli obiettivi previsti possono essere raggiunti come si vuole, o come vuole il politico di turno, senza valutare gli effetti che avranno sull’ambiente; quindi ogni azione e ogni politica è lecita. L’imperativo pare essere quello di raggiungere lo sviluppo e la “competitività territoriale” ad ogni costo, anche a discapito dell’ambiente stesso.

Conseguenza di questa mancanza è l’impossibilità di fornire adeguate alternative a scelte (politiche) che potrebbero danneggiare in modo irreparabile il territorio in cui viviamo e vivranno i nostri figli, quindi contraddicendo i principi della Convenzione di Rio de Janeiro (art. 1) e quelli di Agenda 21, che indicano la sostenibilità del territorio come via da seguire.

Un rapporto ambientale dovrebbe inoltre contenere la descrizione delle misure previste in merito al monitoraggio, in modo che il piano rispetti le soglie che si è dato.

A parte il fatto che il documento preliminare del PTR non si è dato delle soglie da non superare, il fatto grave è che il rapporto rimanda al processo di Agenda 21 la scelta degli indicatori ambientali, e sconta quindi la conseguente mancanza di parametri che possano indicare lo stato del territorio e dell’ambiente al momento attuale, con le conseguenti alternative possibili per le politiche da adottare per raggiungere alcuni obiettivi strategici.

Ancor più grave è l’assenza di spiegazioni su come saranno gestiti i monitoraggi e sul rapporto che ci sarà tra monitoraggio e obiettivo. In altri termini: per raggiungere un obiettivo sarà o dovrebbe essere già individuata un’azione di piano o una politica e il monitoraggio dovrebbe controllare il suo svolgersi nell’arco del tempo, ma se questa politica dovesse superare le soglie che la Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia si è data, come si interverrà per reindirizzare l’azione di piano in modo corretto? Questo non è dato sapere, mentre il rapporto ambientale non dovrebbe assolutamente eludere questo aspetto.

Si può quindi concludere che il rapporto ambientale si riduce a un mero elenco dello stato del territorio e di obiettivi, sviluppato per di più in modo superficiale, senza entrare nel merito dei propositi indicati dalla Direttiva 2001/42/CE, riguardo alla funzione di verifica e correzione dei contenuti e delle scelte del PTR.

6. IL PAESAGGIO

In considerazione del fatto che il “documento preliminare” prefigura per il PTR anche la funzione di piano paesaggistico (ex D.Lgs. 42/2004), conviene premettere alcune considerazioni storico-metodologiche.

6.1. Paesaggio e beni culturali

Di paesaggio e beni culturali, il Documento parla separatamente, peraltro, nelle parti propedeutiche, più con riferimento a quanto prescritto dalla legge 42/2004 che provvedendo a illustrare i principi, gli indirizzi, e soprattutto le linee culturali che è la Regione a voler assumere e con le quali essa intende darvi seguito.

Paesaggio e beni culturali trattati quindi come componenti disgiunte, in una visione acritica e palesemente passiva rispetto alle recenti norme sovraordinate, nonché in un’ottica complessivamente frammentaria e parecchio confusa rispetto agli ulteriori molteplici aspetti (ambiente, scelte economiche localizzazioni insediative e infrastrutturali) che vi sono correlati e che con esse – e con il loro futuro –inevitabilmente interagiscono.

Un approccio pertanto ai beni paesaggistici e culturali che ha più dell’atto dovuto, del puro adempimento amministrativo, dell’obbligo di legge, che del risultato di un’effettiva consapevolezza del patrimonio che essi rappresentano per la comunità, del bene pregiato che costituiscono, dell’importanza e centralità che rivestono ai fini delle complessive politiche territoriali, della particolare attenzione e sensibilità che specificatamente richiedono.

Manca in sostanza l’idea del paesaggio e dei beni culturali come valori e beni insostituibili; non trapela il pieno necessario convincimento della loro importanza in quanto – innanzitutto – elementi primari di identificazione di una determinata comunità. Il Documento li riduce a oggetto di trattamenti parcellizzati, i più disparati e disomogenei, generici o eccessivamente minuziosi, puramente dichiaratori o vagamente tecnicistici, ma mai, come invece necessario, provenienti da una vera, solida cultura, relativamente a tutti i molteplici aspetti che concorrono a costituirne e a rivelarne l’essenza fondamentale.

Le trascuratezze e mancanze di base trovano poi riconferma, e non potrebbe essere altrimenti, nelle previsioni, quanto mai sbrigative e scoordinate, del corrispondente Repertorio di obiettivi: una lista semplicistica e disomogenea di cose da farsi, che sembra dettata più dal dover comunque trovare qualcosa da dire e metter giù, che da un reale approfondimento e ripensamento sulle finalità da doversi perseguire e da una conforme ricerca degli indirizzi e dei contenuti più opportuni.

Il paesaggio e i beni culturali costituiscono un patrimonio nel loro insieme: non possono essere considerati una semplice somma di elementi singoli e, in prospettiva, di provvedimenti staccati e peraltro palesemente casuali, ma vanno primariamente intesi nel complesso organico che essi, assieme, rappresentano e attraverso le relazioni che li raccordano e, altresì, li strutturano. Aspetti e relazioni che sono a carattere naturalistico, ambientale, storico e paesaggistico, oltre che espressione della cultura, delle tradizioni, insediative e economiche, della storia, della vita di una determinata comunità in rapporto al suo territorio. Comunità e territorio che meritano pertanto la massima attenzione, da doversi conoscere approfonditamente nelle loro connessioni, e nelle dinamiche che li caratterizzano, al fine di arrivare attraverso il piano all’individuazione di tutte le misure necessarie a difendere il medesimo territorio dai già troppo presenti e diffusi processi e pericoli di corrosione, di omologazione e di conseguente svalutazione.

Se questo patrimonio ha significato soprattutto in quanto elemento di riconoscimento dell’identità di una comunità, e se la bellezza è pur sempre un valore, è d’altra parte vero che a contribuirvi concorrono anche componenti spesso ancora trascurate come la biodiversità e i caratteri naturali, e che pertanto logiche parziali e concezioni esclusivamente estetizzanti, come pure operazioni di pseudovalorizzazione sul genere Eurodisney, sono insufficienti o palesemente dannose.

Se da un lato, per quanto riguarda specificatamente i beni culturali, nella parte propedeutica del Documento, in merito a tale aspetto di gran lunga più approfondita delle altre, si riconosce sia l’esistenza che l’insuperabilità del binomio costituito per l’appunto dai beni culturali e dal paesaggio, dall’altro lato resta comunque il fatto che, pur sulla base di tale presupposto nonché di ulteriori considerazioni che riconfermano quanto sopra osservato, poi il tutto si traduce e conclude in quello che lo stesso Documento definisce un “elenco”, peraltro “sintetico”, di obiettivi, vale a dire in una lista, quanto mai frettolosa e disorganica, di previsioni spurie e fuori scala. Un’elencazione priva di consequenzialità al suo interno e della necessaria chiarezza sul rapporto tra le azioni ivi definite e quelle assunte per il paesaggio e per le altre componenti che con i beni culturali (e con il paesaggio, in quanto entità complessiva) vanno evidentemente ad interagire. Anche nei casi più ovvi, come ad esempio, relativamente alle politiche insediative e se non altro con riguardo a una materia, tanto vicina o meglio di pertinenza comune, come quella rappresentata dai centri storici, che, qualificati dall’essere sia insediamenti sia beni culturali, richiedono un insieme complessivo e unitario di provvedimenti che di tale loro duplice caratterizzazione tenga per l’appunto debito conto.

A proposito dei sopra citati aspetti naturalistici, che concorrono alla formazione del paesaggio, in connessione, questa volta, con la componente spiccatamente ambientale, si precisa inoltre quanto segue.

6.2. L’evoluzione del concetto di paesaggio

Le tre fasi storiche nell’evoluzione del pensiero mesologico, ovvero nella branca della biologia che studia l’ambiente in cui vivono gli organismi, sono riassumibili nella conservazione della specie, la conservazione dell’habitat e la conservazione delle serie dinamiche.

In termini temporali la prima fase si sviluppa a partire dalla fine dell’800 fino al 1920 circa, mentre successivamente si inizia a parlare di habitat come entità spaziali che permettono di conservare le specie (e a questo pensiero risponde la Direttiva “Habitat” 92/43/CEE), mentre oggi si preferisce riferirsi alla conservazione delle serie dinamiche, intese come gli stati e i tipi di vegetazione che sono incollegamento dinamico fra loro, in termini di rapporti temporali, di rapporti spaziali e delle diverse situazioni geologiche e pedologiche.

Il paesaggio è quindi costituito dalla base litologica e geomorfologia, dalle grandi condizioni climatiche e dagli elementi vegetali e dalle loro interconnessioni temporali e spaziali.

Il paesaggio nel suo complesso non è più quindi opinabile, come nelle antiche teorie estetiche, ma è dato dalla somma dell’intersezione delle relazioni temporali e spaziali, che sono alla base dei modelli cenotici su cui si fonda la moderna scienza del paesaggio.

Quindi, in base a questa concezione (recepita sostanzialmente anche nella Convenzione europea del paesaggio del 20 ottobre 2000), il paesaggio si sottrae a una percezione soggettiva estetizzante, oggi di fatto ampiamente superata.

Alcuni di questi concetti fondamentali erano già stati recepiti nella pianificazione delle aree protette contenuta nel Piano Urbanistico Regionale Generale (PURG) del 1978, in cui – ad esempio – i grandi fiumi (individuati come Parchi regionali) dovevano garantire una funzione di collegamento verticale fra fasce orizzontali molto diverse (montagna, fascia collinare, alta e bassa pianura, fascia costiera), anticipando un sistema di reti ecologiche che dovrebbero intersecare tutto il territorio regionale.

Uno dei principali obiettivi che deve porsi un Piano paesaggistico è perciò la restituzione della connettività biologica, da opporre alla frammentazione degli habitat, che per potersi mantenere devono non soltanto avere superficie sufficiente, ma anche essere collegati fra loro. Ciò è reso sempre più problematico dalla progressiva urbanizzazione e dal conseguente consumo del suolo, che porta come conseguenza all’alterazione e, appunto, alla frammentazione degli habitat. Diventa perciò centrale la previsione di “corridoi ecologici” adeguati.

6.3. Il paesaggio nel documento preliminare del PTR

Il documento preliminare del PTR – in materia di paesaggio – conserva un approccio prettamente estetico e vedutistico, legato ancora alla normativa anteguerra (la Legge 1497 del 1939) e appare perciò da un lato insufficiente e dall’altro concettualmente arretrato, anche rispetto all’impostazione presente già nel PURG del 1978.

Nel documento non si considera infatti lo strumento del vincolo in termini di reti ecologiche e quindi in modo positivo per la valorizzazione del patrimonio naturalistico, con le relative ricadute culturali, ma al contrario si lascia trasparire una forte negatività delle aree assoggettate a vincolo, negatività che si manifesta ad esempio nella carta “intensità della tutela sul territorio” (tavola 1/B), in cui vengono sovrapposti i diversi tipi di vincolo (secondo una scala da 0 a 6), in termini meramente quantitativi e senza una reale considerazione delle valenze paesaggistiche presenti sul territorio. Davvero non si comprende a cosa possa servire una tale cartografia!

Si aggiungano a ciò “perle” come ad esempio la seguente (già citata sopra), tratta dalla descrizione degli obiettivi del PTR: “offrire sostegno alla zootecnia ed al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a ‘fare paesaggio’)” - (par. 5.2). Ogni commento pare superfluo.

6.4. La mancanza di un adeguato quadro delle conoscenze

Per concretizzare l’obiettivo della creazione di reti ecologiche è fondamentale una profonda conoscenza del territorio (rappresentabile – ad esempio – almeno con una carta della vegetazione e unacarta litologica) e si osserva come nel documento presentato il quadro delle conoscenze non appaia sufficientemente approfondito e adeguato a sostenere una moderna pianificazione paesaggistica.

Le relazioni e le tavole grafiche allegate al documento preliminare sono infatti un mero assemblaggio di relazioni disorganiche, relative in realtà alle politiche regionali di settore, senza la minima traccia di conoscenze relative ai caratteri fisico-strutturali della regione come ad esempio i “caratteri” geologici, pedologici, idrogeologici, idrografici. Né vi è traccia di un elaborato che evidenzi i rischi idraulici, idrogeologici e le vulnerabilità territoriali.

Pare incredibile che, per quanto concerne specificamente le conoscenze relative al patrimonio naturalistico e ambientale, gli estensori del documento preliminare al PTR non siano ricorsi alle immense banche dati e al patrimonio di informazioni, dati ed esperienze disponibili presso le Università regionali (e in particolare presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Trieste).

Ci si riserva di integrare eventualmente le considerazioni sopra esposte con ulteriori elementi e si porgono con l’occasione i più distinti saluti.

“…Accumulazione capitalista da espropriazione è espropriare qualcuno dei suoi beni o dei suoi diritti. Tradizionalmente ci sono stati diritti che erano proprietà comune e uno dei modi in cui vengono espropriati questi diritti è attraverso la privatizzazione…” (David Harvey)

La legge sul governo del territorio della Regione Toscana (LR1/2005) afferma nel primo articolo al Capo I principi generali, che lo svolgimento delle attività pubbliche e private che incidono sul territorio e “l’utilizzazione delle risorse territoriali ed ambientali deve avvenire garantendo la salvaguardia e il mantenimento dei beni comuni e l’uguaglianza di diritti all’uso e al godimento dei beni comuni, nel rispetto delle esigenze legate alla migliore qualità della vita delle generazioni presenti e future”.

Viene quindi da chiedersi come pensa la Regione Toscana di garantire salvaguardia, mantenimento, uguaglianza all’uso e godimento dei beni comuni, in un regime di proprietà privata che da sempre ostacola ogni forma di pianificazione territoriale e urbana, che non sia succube della logica immobiliare, e limita la fruizione della maggior parte dei cittadini. Ma qui vogliamo trattare non del tema di rendere collettivo quello che è privato ma di fermare chi vuole privatizzare quello che è bene comune.

Infatti la proprietà privata dei suoli, da sempre grosso limite alla libertà (dei non immobiliaristi) nella fruizione del territorio, è stata attutita dal fatto che le amministrazione pubbliche ai vari livelli hanno ereditato dalla storia e talvolta hanno contribuito a mantenere un patrimonio pubblico di immobili sia nella aree urbane che nelle aree agricole forestali. Queste ultime molto cospicue in Toscana.

Ora avviene che la Giunta Regionale con la Decisione n.3 del 29/5/2006 “LR 27/12/2004 n.77 Demanio e Patrimonio Regione Toscana. Adozione schema di deliberazione della Giunta Regionale recante approvazione degli elenchi di cui all’articolo 20 della LR 77/2004 per l’invio preventivo al Consiglio Regionale previsto dalla LR 77/2004” abbia proposto una delibera che contiene un elenco di numerosi immobili da alienare con allarmanti motivazioni:“beni allegato D che si intende alienare in quanto non più necessari alle esigenze organizzative dell’ente, né strumentali ai fini dell’attività, né capaci di produrre conveniente reddito”. Che solo ciò che produce reddito abbia valore costituisce una affermazione di una gravità inaudita, che presuppone uno scadimento culturale e sociale che non verrà mai abbastanza denunciato. Da rilevare che non è la prima volta che la Regione agisce in questo modo e altre vendite simili sono già avvenute negli anni passati.

Si tratta di due elenchi. Il primo contiene ben 52 beni localizzati in tutte le province, molti dei quali sono alloggi. Fra di essi anche quelli dove si trova la “sede delle Regione Toscana da trasferire, di via Gustavo Modena 13/1 R”. Trasferimento previsto probabilmente in relazione al grosso affare Ligresti Fondiaria a Castello, in cui la Regione è riuscita a farsi fare un prezzo delle aree aumentato in base alla valorizzazione dovuta alla propria scelta di localizzazione dei propri uffici in un’area con gravi problemi idro –geo-morfologici, detto in modo più semplice è un’area esondabile e soggetta a subsidenza (vi ricordate i lavori al vicino aeroporto Vespucci di questa estate?). Una cosa è certa, anche senza ricorrere a dietrologia, appare chiaro e incontrovertibile che gli interessi collettivi non li sanno fare. Vista la carenza di abitazioni con prezzi “calmierati” perché non utilizzarle per questo? Spesso derivano da donazioni di persone che erano convinte di dare i propri beni perché fossero a beneficio di tutti e non perché finissero nel buco senza fondo di una privatizzazione di tutto quanto è pubblico.

Ma c’è anche il secondo elenco, l’allegato D paf (patrimonio agricolo forestale) e qui si tratta dell’alienazione di centinaia di appezzamenti agricoli, la gran parte dei quali appartenenti al demanio civico inalienabili, in quanto da sempre beni collettivi, aree che devono continuare ad esistere al di fuori dalla devastante e ignorante logica di “produrre reddito”. Anche per la loro importanza strutturale e funzionale dal punto di vista delle relazioni ecologiche, della biodiversità, della tutela delle acque, dei boschi, del suolo. Non tutte le attività producono reddito. Anzi, alcune come quelle culturali o ambientali vengono sminuite e distrutte dal reddito.

Ogni risorsa collettiva (bene comune) va conservata, protetta, consentendo gli usi che ne garantiscono la riproduzione e impedendo quelli che le distruggerebbero. Niente va venduto e privatizzato.

Se la proprietà pubblica ha garantito che nessuno realizzasse i soliti interventi distruttivi e degradanti ed escludenti, cosa capiterà se questi immobili (terre ed edifici)verranno venduti? Ci diranno che i proprietari hanno il diritto di costruire sempre e comunque? Quanti degli immobili a Firenze e in altre parti del territorio toscano rischiano di diventare l’ennesimo albergo? Quante colline e pianure ancora dovranno essere devastate da inutili e scadenti (ma molto redditizie) lottizzazioni? Quante aree agricole saranno ancora trasformate in campi da golf? Quante coste in porticcioli turistici o sedi di pericolosi e incoerenti impianti di rigassificazione offshore? Anche le coste e il mare che sono area demaniale rischiano la privatizzazione. Sarebbe questa l’eccellenza di cui parla la Regione? Il governo del territorio, deve garantire e incrementare il mantenimento dei beni comuni non come astrazione ma come concreta realtà. Sono aree necessarie anche ai fini della manutenzione del territorio, dei suoli e del sistema insediativo, della conservazione dinamica degli ecosistemi naturali e seminaturali, della tutela e dell’ incremento della biodiversità.

Come afferma Fabrizio Bertini del “Coordinamento dei comitati tosco liguri per la difesa dell’ambiente”: “Il regime della proprietà privata e i processi di espropriazione delle proprietà collettive, dei diritti di uso civico, dei beni in proprietà delle comunità locali, hanno avviato e accompagnato il passaggio – quasi sempre violento - da forme di produzione con al centro le esigenze primarie delle popolazioni insediate a forme di produzione con al centro le logiche del mercato e il profitto della classe dei proprietari privati. Questo è ciò che è sempre accaduto nella storia del capitalismo: dalle prime forme di accumulazione originaria alla attuale globalizzazione neoliberista”.

La Giunta Regionale Toscana, su proposta dell’assessore Bertolucci, (PCdI) ha approvato tutto il piano di vendita il 4 settembre con Delibera (DGR n.612 del 4/9/2006) “considerato che è decorso il termine ... e non sono state presentate osservazioni o proposte da parte del Consiglio Regionale " ai sensi della legge regionale 77/2004. Infatti questa legge prevede che "La proposta di deliberazione di cui al comma 1 è preventivamente inviata al Consiglio regionale. Nel termine di sessanta giorni dal ricevimento, il Consiglio regionale trasmette alla Giunta eventuali osservazioni e proposte".

Quindi, nonostante le sollecitazioni ricevute, nessuno in Consiglio regionale si è opposto (almeno per il momento) a questa ennesima alienazione di patrimonio pubblico.

Marvi Maggio (dell'International Network for Urban Research and Action)

Arrivare a Saepinum di primavera, al tramonto, è stata per me una delle emozioni della vita. Colpite da una luce ancora vivida le mura ciclopiche di quella antica città romana riportata alla luce pochi decenni or sono sembravano anche più tenere e insieme più potenti. All’interno, la cavea del teatro si stagliava netta sormontata da casette medioevali che il restauro aveva, per fortuna, preservato. La visione dell’antica Saepinum, fondata dal console Nerazio Pansa sfruttando i denari riscossi dai pastori transumanti in cambio del ricovero entro le mura lungo il cammino da o verso il mare di Puglia, era stata improvvisa, quasi inattesa in mezzo ad una campagna verdeggiante. Che subito ci sembrò “antica” essa pure con le siepi fiorite, altrove invece sradicate, a separare i campi. In alto sulla collina spiccava il borgo medioevale di Sepino, aggraziato e severo. Dentro le mura romane, oltre al teatro (come non immaginarvi una commedia di Plauto o una tragedia greca?), la città appariva leggibilissima coi suoi colonnati lungo il cardo e il decumano, col Foro, la Curia, la Basilica, le mura perimetrali degli edifici principali, e poi gli impianti agro-industriali dell’epoca: il mattatoio, i frantoi delle olive, i depositi per l’olio, le lavanderie e le tintorie. Una vera e propria città, in origine sannitica, potenziata e arricchita però in epoca imperiale, nel cuore dell’odierno Molise, a pochissimi chilometri da Campobasso.

Allora Saepinum contava poche migliaia di visitatori all’anno. Ora è arrivata attorno ai centomila. Nel frattempo, terminati i restauri e manifestatasi una prima corrente di turisti, sono cominciate pure a fiorire le idee bislacche. Per esempio un bel parcheggio asfaltato per i pullman dei gitanti proprio sotto le mura. Poi un motel a poche decine di metri da questa intatta città della transumanza. “Una siepe di lauri e qualche staccionata sono però riusciti a metterla lungo le mura”, commenta critico Oreste Rutigliano, consigliere nazionale di “Italia Nostra”, il quale si batte da anni a favore di Saepinum. In compenso nel borgo medioevale di Sepino, sono state restaurate dall’architetto Pasquale Parenze una antica taverna con alloggio e una dimora di pregio. Buoni esempi che si sperano contagiosi.

Da qualche tempo però sono ben più gravi le minacce che si addensano su questo autentico gioiello dell’età romana, studiato e recuperato da Adriano La Regina quando era soprintendente in Abruzzo e Molise. Invece di tenersi caro questo antico patrimonio, si pensa di circondarlo di cose che potranno soltanto guastare il bel paesaggio che lo circonda.

La montagna e l’alta collina della verde Valle del Tammaro in cui è adagiata la bianca città di Saepinum è infatti minacciata da vicino dalla installazione di trenta pale per l’energia eolica, alte 120 metri l’una, su di un crinale ben visibile, per la lunghezza di 4 chilometri. Non basta, purtroppo. Nella stessa vallata, soltanto in parte protetta da vincolo paesaggistico, la Regione Molise progetta un aeroporto con tutte le pesanti infrastrutture che esso comporta. Lì dovrebbe poi scorrere un grande asse stradale che è palesemente il doppione di un altro già in via di completamento. Né manca un’area industriale da insediare sempre nei pressi.

Contro questo modello di sviluppo vecchio e pesante hanno preso posizione “Italia Nostra”, il Wwf e numerosi Comuni della zona. Un primo risultato è stato ottenuto: una moratoria per le pale di Saepinum fino a quando il Consiglio regionale non avrà approvato il piano energetico (250 torri eoliche in luogo delle 900 preventivate). Ma le forze politiche in Regione si equilibrano nel pro e contro, e quindi la vigilanza deve continuare.

“Con una mano la Regione incentiva agricoltura doc e turismo culturale”, dicono all’ufficio studi della Coldiretti a Roma, “con l’altra promuove attività in rotta di collisione con quei due settori fondamentali.”. “ Noi siamo contrari a questo dilagare dell’eolico nel paesaggio molisano e altrove”, afferma Stefano Masini della Coldiretti nazionale, “e favorevoli invece all’eolico e al solare diffuso, di fattoria”. Il direttore regionale dei Beni culturali, Ruggero Martines, ci sta provando ad estendere il vincolo paesistico a tutta la Valle del Tammaro e però incontra resistenze, anche nel viluppo di norme del Codice Urbani. Possibile che il paesaggio agrario, che si sposa benissimo col patrimonio dei centri storici e dell’archeologia, qui diffusa, debba essere soltanto considerato come territorio in attesa di speculazione edilizia o comunque di sfruttamento intensivo e improprio?

Negli ultimi 50 anni Palermo ha triplicato la superficie costruita. Nel 1955 la città urbanizzata copriva 2.228 ettari, nel 2002 è cresciuta fino a 6.163 e, da allora, un centinaio di ettari di asfalto e cemento si è ancora aggiunto. Le aree verdi coprono ormai meno dell5percentodellapianu-ra che ospita la città. La mitica Conca d'oro è ridotta a pochi brandelli. Gli studiosi di ecologia rabbrividiscono al vedere le mappe dell'espansione urbana e a leggere gli indici che ne definiscono la sostenibilità ambientale. Chiusa dal mare e da un circuito di monti, Palermo ha largamente superato ili-miti della sua impronta ecologica, sembra—lo dicono i dati scientifici — prossima al collasso. Oltre ai dati parlano i fatti. La periferia urbana — quella che in Europa chiamano «paesaggio supermarket» per il contenere, l'uno accanto all'altro ma in un ben ordinato disegno urbanistico, abitazioni, aree agricole, piccole industrie, centri commerciali, parchi — è ridotta a «paesaggio discarica», dove gli usi e gli abusi più disparati, nel caos e nel degrado, si contendono il poco spazio ancora disponibile. Poi, improvvisamente, una discarica abusiva p rende fuoco e una nube tossica si espande nera sulla città e nei nostri polmoni. Carica di diossina (annuncio di quella quotidiana somministrazione che ci attende con l'inceneritore di rifiuti di Bellolampò) si miscela con le polveri sottili e gas inquinanti che quasi quotidianamente superano la soglia prevista dalla legge, incuranti di ridicole misure di contenimento come le targhe alterne due pomeriggi la settimana, che nessun esperto di inquinamento atmosferico potrebbe mai considerare efficaci. I boschi sulle montagne della città bruciano; il vandalismo e la speculazione le innesca e le temperature torride partecipano all'espandersi degli incendi.

I cambiamenti climatici in atto ci dicono che andrà sempre peggio, le temperature saliranno, gli incendi saranno sempre più probabili, l'aria che respiriamo sempre peggiore. L'incremento dell' effetto serra porterà con se anche l'intensificarsi dei fenomeni temporaleschi di lunga e intensa durata. Le pendici delle montagne povere di boschi, ma ricche di villini e di strade, non assorbono più l'acqua piovana che a velocità si dirige verso la città: questo inverno, l'alluvione del Papireto ha ricordato le disastrose inondazioni degli anni Trenta, quando una città che allora potevamo definire normale in termini ambientali patì disastrosamente un evento piovoso eccezionale. Figuriamoci cosa succederebbe ora al ripetersi di piogge altrettanto intense.

Il quadro è desolante. Le ragioni per cui tutto questo avviene chiare e inconfutabili. Dice una legge della fisica che là dove si trasforma energia, e le città sono i luoghi dove per unità di superficie questo avviene in maggiore misura, si producono inevitabilmente scorie, inquinamento. Le sole aree che svolgono azione positiva sono quelle verdi, animate dall'energia solare pulita: una città dovrebbe quindi mantenere al suo interno e al suo intorno grandi aree verdi che depurino l'aria, assorbano le acque in eccesso, raffreschino le temperature. Palermo per la sua posizione geografica, chiusa all'interno di una conca, dovrebbe tenere particolarmente care per la salute sua e dei suoi abitanti le residue aree verdi, veri polmoni di una città che soffoca. Quasi nessuno, al di là di teoriche posizioni di principio, sembra piuttosto preoccuparsene e progressivamente il cemento avanza. È degli ultimi giorni il parere positivo dell'assemblea comunale alla creazione di due nuovi centri commerciali dalle parti di Borgo Nuovo che si aggiungono a quelli minacciati o promessi nella piana dei Colli, nei pressi dello Zen, o alle porte della città a Maredolce, a Ciaculli e verso Villabate. Si discute anche di un nuovo stadio che sostituisca il "Renzo Barbera", al posto del velodromo o alla Bandita dove ora ci sono gli orti.

Uno splendido esempio di spreco delle risorse in un crescendo di ipermercati, parcheggi, discoteche, che prefigura una città di frenetici consumatori, in perpetuo e incosciente divertimento. Si vorrebbe mitigare il loro impatto, senza timore di incorrere in ridicolo anche considerando la meno che mediocre qualità delle ultime realizzazione di nuovi parchi e giardini, con aree a verde ornamentale in sostituzione degli antichi giardini di agrumi. Viene in mente il famoso capo indiano che ammoniva: «Quando anche l'ultimo albero sarà tagliato ci accorgeremo allora che i soldi non si mangiano."

Palermo, con i suoi amministratori sostenuti, quando fa comodo, anche da gran parte delle opposizioni, sembra non avere idea, se non ai convegni o nei programmi elettorali, dei rischi che corre, incurante di una politica "alta" che da Bruxelles, da Roma, qualche volta anche da Palazzo dei Normanni, proclama la necessità di salvaguardare le residue aree verdi e prefigura politiche (come la prossima programmazione europea 2007-2013) volte a difendere le residue aree periurbane non edificate.

Attorno alla cinquecentesca torre, oltre Borgo Nuovo, sopravvivono alcuni ettari di oliveti secolari, impianti di agrumi, frutteti e orti in parte ancora coltivati, in un contesto di degrado avanzato ma ancora facilmente rimediabile. Una area che i consiglieri che hanno votato a favore con ogni probabilità non hanno mai visitato ma che le politiche europee indicano come ottimale per la creazione di un parco agricolo: spazio dove l'agricoltura è incentivata, l'agricoltore ripagato per il suo ruolo di manutentore dell'ambiente e del paesaggio, il consumatore garantito nella qualità e nei prezzi da una "filiera corta", dal produttore al consumatore. Politiche che hanno radici nella vecchia esperienza del Parco agri colo di Ciaculli, cancellato dal Prg e nato da un progetto Life della UE e che fece vincere, nel 1995, a Palermo l'imprevedibile premio di "città sostenibile". Politiche che hanno avuto successo nelle periferie di Londra, Parigi, Milano e che ora si espandono ad altre città europee che non hanno la qualità paesaggistica, la storia prestigiosa, il valore simbolico nell'immaginario europeo della Conca d'oro. Su questi spazi non ancora urbanizzati, Palermo, che su essi ha fondato tremila anni di storia, dovrebbe fondare anche il suo futuro, considerandole intoccabili dal cemento:per ragioni di pura sopravvivenza, per le opportunità economiche che ne deriverebbero, per il mantenimento della sua identità culturale. Così, oggi, evidentemente non è: si combatte il verde residuo fino all'ultimo albero di mandarino in una visione cieca ed egoista dello sviluppo, incuranti del futuro della città e dei suoi prossimi abitanti. Chi se ne frega avranno pensato i consiglieri comunali: «noi non ci saremo», come cantavano "I Corvi" negli anni Sessanta.

Chi è Giuseppe Barbera, secondo Francesco Erbani

VILLASIMIUS. Il nuovo acquedotto della Costa sudorientale non è più una certezza. L’assessorato regionale all’Ambiente ha detto che il mega progetto dovrà essere sottoposto alla Valtuazione d’impatto ambientale se il ministero dirà: "È un’opera autonoma rispetto alla diga di Monte Perdosu sul Flumendosa", come sostiene l’Eaf, che ha finanziato l’acquedotto.

"Si tratta - dice Stefano Deliperi, portavoce del gruppo di Intervento giuridico e degli Amici della Terra di un deciso stop ad un progetto che è sembrava ormai cosa fatta nel silenzio generale". Il progetto costerà sessanta milioni di euro ed è compreso nel primo programma di opere di interesse nazionale (la cosiddetta legge obiettivo) approvato dal Comitato per la programmazione economica. "Il complesso delle opere - sottolinea Stefano Deliperi - appare dal forte impatto ambientale sia durante l’esecuzione che una volta ultimato. Prevede, tra l’altro, alcuni grandi scavi in zone rocciose di grande importanza naturalistica, oppure la costruzione di condotte per settanta chilometri, e ancora dodici grandi serbatoio in calcestruzzo sulle altura lungo la costa tra Muravera e Villasimius in vicinanza del mare. Davvero troppo".

Le due associazioni ecologiste sostengono che parte delle opere ricadono all’interno di aree tutelate e nei siti di importanza comunitaria dei Sette Fratelli e della foce del Flumendosa Sa Praia. "L’acquedotto in progetto - dice Deliperi - non avrà una fonte idrica diretta, in quanto la diga di Monte Perdosu da cui l’acquedotto dovrebbe dipendere, non è stata ancora realizzata e nè finanziata. Quest’opera - conclude Deliperi - potrebbe pertanto non essere mai realizzata viste anche l’opposizione dei comuni del Gerrei e delle popolazioni interessate, e quindi l’acquedotto resterebbe di fatto senz’acqua". Per le due associazioni ecologiste, inoltre, la Regione fa bene a difendere il Flumendosa, che, a causa di troppi sbarramenti, porterebbe alla salinizzazione della falda. La costruzione della condotta potrebbe inoltre causare l’interruzione della circolazione sotterranea della falda e danni gravissimi ai pozzi che sono la fonte potabile del Sarrabus. Durante la crisi idrica che ha colpito la Sardegna alla fine degli anni ’90 e nei primi due anni del 2000, Muravera, San Vito, Villaputzu, Castiadas e loro località turistiche non hanno patito la siccità proprio grazie a quei pozzi oggi in pericolo. "Questo progetto - dice Stefano Deliperi - ha posto e continua a porre moltissimi interrogativi che soltanto il procedimento di valutazione di impatto ambientale potrebbe far considerare nelle dovute prospettive. Tutto dev’essere valutato attentamente, perché tutta la mega struttura potrebbe costare cara alla collettività sul piano ambientale ed economico- sociale". Il Via è stato richiesto anche dal senatore di Rifondazione Francesco Martone, con un’interrogazione al ministro dell’Ambiente presentata alla fine della scorsa legislatura, mentre gli ambientalisti hanno già ricorso alla Commissione Europea.

Camminando lungo la strada che taglia la vita

Piccolo viaggio a piedi nel paesaggio italiano dell’autrice di "Dei bambini non si sa niente". Da la Repubblica del 23 aprile 2006

Qualche anno fa, una notte ho fatto un sogno, ho sognato una carta della provincia di Bologna, una cartina gigantesca, grande come un lenzuolo dispiegato, e io ci stavo seduta come si sta sopra un tappeto, c’era disegnata la linea rossa della Strada Provinciale 3, ribattezzata Trasversale di Pianura. È una strada che taglia in due, in senso orizzontale, un breve tratto di Emilia Romagna, doveva essere la via di collegamento tra Modena e Ravenna. In realtà, la Trasversale di Pianura propriamente detta è lunga cinquantadue chilometri e un po’ di metri: parte da San Giovanni in Persiceto e arriva a Medicina. Da un lato e dall’altro si innesta su altre due provinciali, in mezzo c’è il casello Interporto della Tangenziale che vomita, e risucchia, camion e automobili a getto continuo.

Quando ero una bambina, qui non c’era niente. La strada era fatta di polvere e sassi. Attorno, c’erano solo i campi e qualche casa colonica lontana, un’idea di mattoni, il fumo di un camino dritto nella luce della sera. Adesso, questi cinquantadue chilometri di asfalto ogni giorno si caricano addosso tonnellate di piastrelle, salami, cemento, liquidi altamente infiammabili, pendolari, stracchini, polli, maiali, rotoli di stoffa. E ancora. Ancora. Ancora. Nel sogno, puntavo il dito contro quella linea rossa, la seguivo facendo scorrere il polpastrello sulla carta e ripetevo ad alta voce i nomi dei paesi e delle località che toccava - il Postrino, Forcelli, Sala Bolognese, Colombarola, Pietroburgo (Pietroburgo?!), Funo, Bagnarola, Budrio, l’Olmo - ed ero felice, provavo una sensazione quasi elettrica, perché quel luogo io lo possedevo, lo conoscevo a memoria, lo avevo attraversato centinaia di volte, fin da quando ero una bambina: era di più che una strada, di più che un posto qualsiasi, era una geografia dell’anima, quel luogo ero io.

Dopo quel sogno, una mattina ho deciso: uscire di casa, chiudermi la porta alle spalle e dimenticare di possedere un qualunque mezzo di trasporto, niente automobile, niente moto, niente scooter, niente bicicletta, solo le gambe: gambe, colonna vertebrale, piedi, questa meravigliosa possibilità di muovermi nello spazio senza l’ausilio di nient’altro che questo, il mio corpo. E così sono cominciati i pellegrinaggi e la strada del sogno, e quella che ricordavo, si sono combinate e infine sovrapposte, dando vita a un’altra strada, quella reale. Giorno dopo giorno, viaggio dopo viaggio, ho raccolto indizi, catalogato i cambiamenti.

La domanda con la quale ho cominciato questo viaggio di pignola perlustrazione è la domanda apparentemente più banale di tutte: cos’è una strada? Una domanda talmente ovvia che anche un bambino delle elementari potrebbe rispondere senza la minima esitazione: una strada - come peraltro recita il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli - è «un’opera intesa a consentire, o a facilitare il transito in corrispondenza di una via di accesso o di comunicazione» / una strada è anche «un cammino, un itinerario». Una strada dunque è un passaggio. E a cosa serve? Per l’appunto a passarci, a transitarci, serve a collegare i posti, a spostarsi da un luogo all’altro, a mettere in comunicazione luoghi distanti, serve perché le persone possano muoversi con meno difficoltà nello spazio. E qui è arrivato il mio primo spaesamento. Un ciclista o un pedone che si mettano in viaggio su questa strada, lo fanno a proprio rischio e pericolo, come un gatto, una lepre, una formica o un riccio che decidano di attraversare la strada perché gli gira di attraversarla: questo muoversi con meno difficoltà infatti è ormai vero solo per i camion.

Durante le mie rischiose passeggiate incrocio i miei impavidi compagni di sventura: due filippine, una più giovane e una più vecchia, che ogni sera tornano a casa a piedi dopo la loro giornata di lavoro dal centro di Budrio verso le campagne, calpestando la linea bianca sul margine del fosso, qualche rara vecchietta in bici con il fazzoletto in testa e le sporte della spesa appese ai manubri, i ragazzini che tornano a casa dopo il pomeriggio in parrocchia, o al campo da calcio (pochissimi, questi ultimi). E i camion che passano a centotrenta all’ora ci fanno barcollare e tremare tutti quanti come figure ritagliate nella carta velina. Ci guardiamo negli occhi smarriti, e pensiamo la stessa cosa io credo, e cioè che una strada serve perché gli esseri umani si spostino da un luogo all’altro, che sia per lavoro, per necessità, o semplicemente per fare una passeggiata, e che dovrebbe essere evidente, naturale, ovvio, che una strada, ogni strada, fosse pensata perché ciascuno possa servirsene nel modo in cui desidera, o è costretto, a servirsene: se ho una macchina vado in macchina, se ho solo i piedi vado a piedi.

Invece ormai è come se un essere umano in movimento non potesse essere pensato altro che col culo piantato dentro un ammasso di ferro a motore. Punto. Per andare a camminare ci sono i percorsi pedonali, i percorsi trekking, come se appunto camminare fosse diventata una cosa assolutamente assurda per l’uomo contemporaneo, un’attività perduta nella notte dei tempi e dunque esotica e affascinante e vendibile come un "weekend in vigna" passato a pigiare l’uva nei tini. Riscopri un ritmo umano: vieni un weekend a camminare. E no che non ci vengo. Voglio camminare qui, a casa mia, e non posso farlo, voglio andare dal cartolaio a piedi, perché deve essere una sfida? Io abito in una strada sterrata che si chiama via Albareda (che in dialetto vuol dire alberata) e questa strada si immette direttamente sulla SP3, se non voglio uscire in macchina, o se non possiedo la macchina, lo faccio a mio rischio e pericolo.

Quando sopra una strada ci cammini ti viene naturale guardarti attorno, voltare la testa da una parte e dall’altra e vedere cosa c’è attorno a quella strada, qual è il paesaggio che attraversa e che tu stai attraversando. Cosa ci passa sopra? Merci di ogni tipo, organiche e inorganiche, gli scarti, i rifiuti, il tempo. Dunque puoi osservare, come scriveva Lawrence Durrell, «le lente concrezioni del tempo sul luogo». E così, camminando ho visto le case coloniche abbandonate, successivamente ristrutturate secondo moderni criteri di leziosità che poco hanno a che fare con l’originaria, spartana e un po’ rozza linearità, e portate a nuova vita, spesso dipinte in colori fosforescenti (forse perché i camion riescano a vederne la sagoma anche di notte, quando sfrecciano a centotrenta all’ora e fanno tremare i muri insieme ai proprietari e ai loro letti?). Ho visto i cantieri abbandonati: quante storie dietro quegli spazi «laconici» - come li definirebbe Gianni Celati - devastati, immobili, pencolanti, abbozzati. Cosa è successo? Perché se ne restano lì così, in quell’indeterminazione, per mesi, anni, fino a trasformarsi in un’ovvietà del paesaggio che piano piano la natura ricopre e mangia, riprendendo possesso di ciò che era suo fin dal principio? Ho visto i campi superstiti di barbabietola da zucchero, di mais e sorgo e patate. Qualche vivaio. I distributori di benzina. E poi la gente, sigillata nell’aria condizionata sulle automobili in corsa.

Negli ultimi due anni, il tracciato della SP3 è stato modificato e spostato al di fuori del centro urbano di Budrio - col suo corredo di espropri, battaglie, compromessi, ritardi - e per un lungo periodo, i lavori per le rotonde che ora connettono i due tronchi della SP3 circumnavigando il paese, sono apparsi in mezzo alla campagna come misteriosi cerchi nel grano. Immense aree circolari depilate e cementate senza nessun raggio che si dipartisse verso l’esterno a indicare una qualsiasi direzione verso il mondo, una funzionalità, e io le andavo a guardare in bicicletta, e insieme a me c’erano gli omarelli del paese, sporti sulle buche a guardare le frecce delle rotatorie con gli occhi sbarrati e il cervello confuso, tutti lì a cercare di immaginare come si sarebbe evoluta la questione.

Le strade, per capirle, andrebbero sempre anche viste dall’alto, anche se poi viste dall’alto fanno venire le vertigini, perché quando guardi le carte satellitari ti rendi conto che il mondo è diventato un reticolato di strade, che all’asfalto non c’è scampo, che questa smania di collegare tutto a tutto ci ha rinchiusi dentro una griglia quadrettata da battaglia navale che se da una parte rende il mondo una comoda ottimista spianata di asfalto attraversabile in lungo e il largo, in realtà lo riempie pure di confini, di reti, di limiti invalicabili, di barriere. Un mondo a misura di ruote e motori, non di piedi e corpi umani.

Un giorno, durante una delle mie perlustrazioni, sul muro di cemento di una fabbrica ho letto una scritta che diceva così: «CORRI CHE TI PASSA». Sono rimasta a fissarla per un po’, domandandomi chi l’avesse mai scritta, e cosa avesse nella testa uno che scriveva una cosa simile ai bordi di una strada del genere, se ci aveva davvero provato, lui, il bombolettatore misterioso, a correre sulla Sp3. Forse, una volta davvero su questa strada ci si poteva correre, doveva essere una strada che attraversava uno spazio tutto diverso: chilometri e chilometri di terra piatta e verde, in certi punti coperta di boschi e faggeti, e poi di campi ordinati, amorevolmente curati. Una terra viva. Adesso, le fabbriche abbandonate punteggiano la pianura con le loro ciminiere spente, le recinzioni di filo spinato corrose di ruggine, smangiate, in attesa di essere smantellate per far spazio a nuovi insediamenti industriali. Le fabbriche in attività che sputano lingue di fumo nel cielo. E lungo la strada, da una parte e dall’altra, insegne di trattorie per camionisti, cartelloni pubblicitari che reclamizzano ghiaia, lattonerie, vivai. Il fumo fetente dei gas di scarico che a bolle si diffonde in mezzo al paesaggio piatto, si disfa sulla superficie dei campi, contro le pareti delle case coloniche.

Sotto i miei occhi, oggi, c’è la strada. L’asfalto crepato e ruvido. Pieno di buchi, crateri, fenditure, mozziconi di sigaretta, preservativi, merde di cane rinsecchite, gatti spiaccicati, piume d’uccello, lattine accartocciate, frammenti di copertoni esplosi, chiodi, bulloni, pezzi di ferro arrugginito, carcasse di animali ormai irriconoscibili. Niente idea di progresso, collegamenti rapidi e sicuri, è una strada mortale, che attraversa piccoli centri - paesi grandi, medi, minuscoli, frazioni - e li deturpa, li soffoca, li ammutolisce. Con la lenta agonia dell’asfalto che si corrode sotto milioni di pneumatici, agonia di falene schiantate contro i parabrezza, di nutrie spappolate, civette, incidenti mortali. E io sono di nuovo qui, parte di questo movimento incessante, questa concrezione di tempo e storie e movimenti su un nastro d’asfalto, a cercare di immaginare come era il mondo prima, prima dell’ottimismo degli asfaltatori. Adesso, ci sono dei periodi che tutti questi chilometri di strada si popolano di striscioni rabbiosi e lenzuola graffitate appese ai muri degli edifici, che sventolano fuori dalle finestre come bandiere di guerra: via il traffico pesante dalla Trasversale. Siamo stanchi di respirare veleno. Stop ai camion. Siamo noi, che cerchiamo di riprenderci ciò che dovrebbe essere nostro: le strade, i passaggi, le vie di collegamento e transito, lo spazio e i luoghi e il tempo.

Il tracciato adesso c'è. Dopo anni di polemiche e battaglie politiche, la commissione ministeriale per l'impatto ambientale ha promosso il tratto costiero della Livorno-Civitavecchia sponsorizzato dalla Regione Toscana ed ha bocciato l'ipotesi collinare sostenuta dal ministro Lunardi.

Habemus autostrada? Niente affatto. Perché se è vero che dopo 36 anni il «tracciato» è stato scelto, l'autostrada «Tirrenica» (cioè il prolungamento della A12 da Livorno a Civitavecchia), buco nero della viabilità europea, resta un'ipotesi lontana. E non solo per mancanza di finanziamenti (servono almeno 2,5 miliardi di euro), ma perché il sì al tracciato costiero non mitiga le proteste di ambientalisti e comitati, appoggiati da residenti, vip, agricoltori e viticoltori che da sempre si battono per l'ammodernamento della vecchia Aurelia e sono pronti a scendere in piazza.

Non mancano i sostenitori dell'autostrada, amministratori regionali, comunali e imprenditori locali, guidati da nomi illustri come Giuliano Amato, residenza ad Ansedonia. «È un vantaggio, la Tirrenica separerà il traffico locale da quello pesante. Bene il no al tracciato di Lunardi, ma attenzione a non deturpare le zone più belle della Maremma, come il Fontanile dei Caprai vicino a Capalbio».

L'effetto comitati, come per la Tav e i rigassificatori, scatterà dopo le elezioni. Una settimana di tregua, poi sarà battaglia, durissima e trasversale. Nel cartello del «no» all'autostrada non ci sono solo Verdi. Contrari sono il produttore televisivo Marco Bassetti, marito di Stefania Craxi, il fisico Gianni Mattioli, lo storico Nicola Caracciolo, imprenditori e agricoltori. Sostengono le ragioni del no pure i senatori diessini Franco Bassanini ed Esterino Montino, che hanno casa a Manciano e Orbetello.

«Anche se il guaio più grave lo ha fatto il ministro Lunardi, puntando al percorso collinare con viadotti e gallerie che avrebbero deturpato una delle parti più belle della Maremma — spiega Bassanini — sono contrario pure all'ipotesi dell'autostrada costiera. Basta la messa in sicurezza dell'Aurelia».

Non ha dubbi neppure Montino: «Il tratto dell'Aurelia tra Civitavecchia e Tarquinia diventerà a quattro corsie. Battiamoci perché i lavori proseguano sino a Grosseto. Senza nuovi tracciati». E Pancho Pardi (casa all'Argentario), il professore-contestatore (è un geografo), ribatte: «L'Aurelia ha bisogno di essere sistemata in due brevi tratti, a sud di Ansedonia e tra Tarquinia e Civitavecchia. Il resto sono soldi sprecati».

Vittorio Emiliani, domicilio a Capalbio, già direttore del Messaggero, è presidente di uno dei comitati (quello della Bellezza) che da anni combattono i progetti dei due tracciati. «Questo progetto, come quello di Lunardi, è grottesco, non c'è un euro disponibile, eppure si insiste per costruire un'autostrada che non serve a niente. Basterebbe mettere in sicurezza i tratti peggiori della vecchia Aurelia, tra Orbetello e Civitavecchia, non più di 22 chilometri. Si spenderebbe la metà e l'impatto ambientale sarebbe minimo».

L'architetto Valentino Podestà, maremmano d'adozione, è convinto che l'autostrada provocherebbe danni irreparabili. «Non è un problema di tracciato — dice —. Quello costiero voluto dalla Regione e approvato dalla commissione non è migliore del progetto collinare di Lunardi. Entrambi deturpano, distruggono aree di grande impatto ambientale, minacciano il Parco naturale dell'Uccellina, rischiano di abbattere per sempre casali e aziende agricole. Ci batteremo per salvare la Maremma dal cemento».

MESTRE. Nei disegni strategici sovra-regionali doveva servire come valvola di sfogo al traffico in transito lungo il corridoio V Barcellona-Kiev. Nei più circoscritti disegni locali doveva alleggerire la tangenziale di Mestre di circa 50 mila veicoli. «E invece la funzione originaria del Passante di Mestre è stata dimenticata - attacca Paolo Cacciari (Rifondazione comunista) - E assistiamo a una corsa all’urbanizzazione e alla cementificazione che favorisce solo grandi affari immobiliari e speculativi e devasta il territorio». Nel mirino non c’è solo Veneto City. Lungo il tracciato del Passante ci sono altri 2 milioni 310 mila metri quadri pronti a trasformarsi da terreno agricolo in qualcos’altro. E ad attirare, solo attorno a Veneto City, 70 mila auto in più al giorno.

I segretari provinciali di Rifondazione (Roberto del Bello per Venezia e Alessandro Sabiucciu per Treviso), il consigliere provinciale Aldo Bertoldo e il capogruppo di Mira Stefano Lorenzin hanno analizzato piani regolatori, varianti urbanistiche ed esaminato le ultime richieste avanzate agli uffici Urbanistica dei Comuni interessati dal Passante. E hanno composto un puzzle che rappresenta l’immagine prossima ventura delle tonnellate di cemento pronto a colare lungo il nastro di 32 chilometri dell’arteria autostradale o nelle immediate vicinanze. Dimostrando così che il loro timore («Chi semina strade raccoglie cemento») non solo era fondato ma si sta concretamente realizzando. Le dimensioni dei progetti approvati e in discussione fanno paura. Si parte da Veneto City (in discussione): un’area di 572 mila metri quadri per una colata di cemento da un milione 720 mila metri cubi realizzabili. Pochissimi chilometri più in là il Prg di Pianiga prevede l’area «Pianiga commerciale»: 243.100 mq ancora liberi in un’area da un milione e 215 mila mq. A Mirano il consiglio comunale ha recentemente dato il via libera al Motel di Vetrego: 200 camere, ristorante e parcheggio da 600 posti per 38 mila mq. Ma ci sono altre maxi aree prenotate. A Ballò su un’area di 169 mila mq ce ne sono ancora 68 mila mq a disposizione per un deposito di mezzi pesanti; nell’area ex Fornace il Prg prevede un’area di 35 mila mq ancora a disposizione con richieste avanzate di altri 300 mila mq in più in aree agricole. Spinea è il territorio con il più alto tasso di sfruttamento del territorio: il 70% è compromesso da edificazioni. Ma non sembra averne abbastanza, dato che, a poche decine di metri dal casello del Passante, in località Crea, ci sono 150 appartamenti in fase di realizzazione. Ampie aree ancora a disposizione ci sono a Martellago (150 mila mq nell’area Boschi e 45 mila in località Cavino), Scorzè (un’area per camion di circa 60 mila mq) e Salzano (il Prg prevede altri 118 mila mq a disposizione in zona industriale mentre in commissione si è discusso di una zona commerciale da 2.500 mq). Infine, in terra trevigiana, altri criticati interventi ad elevatissimo impatto ambientale come la discarica di Preganziol (progetto definitivo, 60 mila mq), il parco tematico del Sile (520 mila mq di area da terziario, commerciale e industriale) e l’inceneritore di Bonisiolo. «I furbetti del quartierino non esistono solo a Roma - attacca Cacciari - I cacciatori di terreni si sono mossi anche qui. Ci troviamo di fronte a un’urbanistica pattizia, contrattata. C’è stata una deregolamentazione rispetto ai Prg. Da una parte chi ha comprato terreni agricoli per pochi euro al metro; dall’altra Comuni sempre più a corto di soldi a caccia di Ici e oneri di urbanizzazione che hanno approvato varianti urbanistiche discutibili».

E’ mancata, denuncia Rifondazione, una programmazione a livello sovracomunale. Domenica alle 9.45 al Centro anziani di Mogliano ci sarà un convegno in cui verranno presentati questi dati. «In quell’occasione - conclude Cacciari - lanceremo alla Provincia e ai Comuni la sfida a contenere questa cementificazione».

PADOVA. Chi si rivede: l’architetto Alberto Arvalli, socio di Luigi Endrizzi in mille e una progettazione, da Padova Est a Veneto City. E l’ingegner Tommaso Riccoboni, che faceva l’assessore comunale quando servivano i permessi per l’Ikea a Padova Est.

E poi, non rieletto nel 2004, si è messo nell’avventura di Veneto City tenendo i collegamenti con la Regione. E negando di farlo, chissà perché (dov’era il problema?). Adesso i due presentano insieme il progetto di una «Lottizzazione area termale di Battaglia Terme», che detto così non significa nulla. Proviamo a tradurre: edifici per 90.000 metri cubi nelle Valli Selvatiche, una piana rimasta libera da 400 anni, irraggiungibile senza una camionabile che taglierà a metà il giardino di Villa Selvatico progettato da Giuseppe Jappelli nel 1816. Anche la strada si dovrà fare.

Gli ispiratori. Sarà perché Arvalli comincia come Alvar Aalto, ma uno si aspetterebbe di ritrovare nel progettazione qualcosa che ricordi il famoso architetto finlandese. Un tratto nuovo, invenzioni, stupore. Caschiamo male, cari. Arvalli ha due lauree e in lui si combattono due professionisti: l’architetto e l’ingegnere. Purtroppo vince sempre l’ingegnere. D’altra parte il suo committente è l’Immobiliare San Carlo il cui titolare, un geometra di Arcugnano, è conosciuto anche come l’Attila dei Colli Berici. Si sta spostando verso Est.

Il progetto. Prevede un tappeto di casermoni a tre piani, incastrati come i Lego, senza offesa per l’inventore del gioco. Presi uno a uno potrebbero essere capannoni di carrozzerie industriali con finestre di aerazione al terzo piano. Oppure un complesso di caserme per militari di leva, commissionato fuori tempo massimo. Colonie montane stile anni sessanta con alberelli di falsa pineta. Case popolari di un improbabile piano Fanfani anni 2000. Soggiorni per anziani con sfruttamento intensivo dello spazio, perché i vecchietti non hanno voglia di camminare. Perfino la Soprintendenza ha avuto un moto di ribrezzo e ha detto: signori, no, questo progetto non si può fare. Motivo: gli edifici si vedono anche da lontano (testuale!). Retropensiero: almeno fossero bassi, nascosti. Insomma, avete ideato una sconcezza.

Il terzo piano. Colpiti nell’orgoglio, gli impavidi progettisti hanno fatto finta di niente e stanno prendendo per il collo il Comune di Battaglia Terme (raccomandata del 6 febbraio 2006, per conoscenza alla Soprintendenza di Venezia) perché convochi la conferenza dei servizi, disposti perfino a tagliare il terzo piano se proprio non se ne potrà fare a meno. Ma se pensate che recupererebbero nell’interrato vi sbagliate: è già previsto. Vero è che potrebbero sempre spingersi a -2. Farà più fresco e si potranno tenere i salami (no, poca aria, farebbero la muffa; meglio il vino).

Altri protagonisti. Questa storia è piena di personaggi già visti. Uno è l’architetto Vicenzo Fabris, l’uomo che Tommaso Riccoboni voleva come rappresentante della Regione quando organizzava incontri pubblici su Veneto City, in quel di Dolo. Un altro è l’architetto Guglielmo Monti, l’austero capo della Soprintendenza del Veneto, che il 23 luglio 1993 con una lettera di 9 righe e mezza autorizzava l’attraversamento stradale del giardino di Villa Selvatico e adesso, con raccomandata dell’11 ottobre 2005, cerca disperatamente di fare marcia indietro. Poi c’è l’Ente Parco, nella persona del presidente Simone Campagnolo e del direttore Silvio Bartolomei, che hanno un ruolo centrale nella costruzione del falso (avete letto bene: un falso) avallato dalla Regione, sul quale si regge questa storia. Infine, nel ruolo di cantore del paesaggio veneto, c’è il presidente della giunta regionale Giancarlo Galan, aiutato dal portavoce Franco Miracco che anche l’altro ieri indicava le linee maestre del governo regionale ad un convegno intitolato «Restauro del paesaggio verso il terzo Veneto». Qualche prolusione in meno e qualche controllo in più sull’operato degli uffici non guasterebbero. Fuori campo, ma tutt’altro che fuori gioco, ci sono le associazioni degli ambientalisti che urlano allo scandalo dal 2003 e la procura della repubblica di Padova che ha aperto un’inchiesta (pm Roberto D’Angelo).

Il falso. Eccolo qua: «Negli intorni delle emergenze architettoniche, riconosciuti nella tavola di piano, è escluso ogni intervento che possa pregiudicare la loro leggibilità e riconoscibilità o il loro apprezzamento paesistico. In particolare ciò comporta (la conservazione dei grandi connotati naturali, delle masse arboree e degli spazi aperti, e) l’esclusione di interventi edilizi (e infrastrutturali di nuova costruzione od ampliamento di strutture esistenti, nonché di ogni intervento, anche agroforestale,) che modifichi significativamente l’aspetto visibile dei luoghi o il loro rapporto con le emergenze interessate».

Questo è l’articolo 33 secondo comma del piano ambientale del Parco. Le parti messe tra parentesi in corsivo sono omesse. Per far correre il discorso, il verbo modifichi diventa modifichino. Chi fa l’operazione è il direttore del Parco Silvio Bartolomei, in un lettera spedita in Regione (Direzione urbanistica e beni ambientali) il 13 gennaio 2004, per attestare la compatibilità della variante adottata dal Comune di Battaglia con il piano ambientale del Parco.

Il risultato. Ne consegue che dove non si poteva piantare un albero, si possono tirare su 90.000 metri cubi di cemento. Non solo: lo strappo funziona a cascata per tutti gli intorni delle emergenze architettoniche, come sono definite le ville storiche. Gli ambientalisti parlano di «abbellimenti al paesaggio» in corso un po’ dovunque: un villaggio turistico con 50.000 metri cubi attorno a Villa Emo Maldura, a Rivella; costruzioni per 25.000 metri cubi addosso alla villa del Catajo, sempre a Battaglia Terme; un palazzetto dello sport nell’intorno di villa Lugli, a Bresseo di Teolo.

Jappelli Street. Il giardino di Villa Selvatico, attraverso cui dovrebbe passare la strada per arrivare alla lottizzazione (altro modo non c’è) è una pertinenza protetta da un secondo articolo del piano ambientale, il 32, comma 9, che consente solo «la manutenzione, il restauro e il risanamento conservativo, statico ed architettonico, filologicamente guidato ed eseguito con materiali tradizionali». Ci vuole un professore con il camice e i guanti bianchi. Altro che la ruspa. Se n’è reso conto anche il soprintendente Monti, che vuole conoscere «l’ingombro e l’esatto tracciato» della strada «perché la nuova viabilità non potrà interferire con l’ambito vincolato di Villa Selvatico». Ma Arvalli, riassumiamo con parole nostre, gli ha risposto: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, io non mi scordo il passato. Allude all’autorizzazione del 1993. Ha torto?

Titolo originale: Bound to charm, if only it gets done – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Chiamatela presunzione, o incrollabile ottimismo . Quando abbiamo comprato la casa, in Italia, dove aveva abitato il compositore Arturo Toscanini negli anni ‘30, speravo di trasformare questo un tempo elegante palazzo in un’affascinante locanda a nove camere con comodità high-tech e un ristorante, nel giro di un anno.

Dopo due anni non c’è ancora una data fissata, per la grande inaugurazione della Locanda Toscanini. Forse all’inizio della prossima estate: se tutto va bene.

Sarebbe facile dare la colpa dei rinvii al mio architetto. Ma non sarebbe giusto. È anche il mio caro marito, amorevole padre dei nostri tre figli. E deve fare molto. Non sono una cliente facile.

Abbiamo attraversato il nostro primo “inferno del restauro” dieci anni fa, quando scoprimmo una casa di campagna abbandonata a Palazzone, un incantevole angolo del Chianti meridionale, a metà strada fra Roma e Firenze, e decidemmo di farne la nostra seconda casa.

Una settimana dopo aver firmato il compromesso, ovvero l’impegno a comprare, e versato il 30% del prezzo d’acquisto concordato, crollò il tetto. Ed era solo l’inizio.

Nonostante una serie di rinvii, la casa fu terminata – in tempo – un anno più tardi. E, a rischio di esagerare, è semplicemente uno dei più adorabili posti i questo pianeta.

Il nostro nuovo progetto, il palazzo nel villaggio di Piazze, era in condizioni migliori della casa di campagna quando l’abbiamo comprata, con acqua corrente ed elettricità. Vero, il tetto perdeva, non c’era un vero e proprio sistema di tubi dell’acqua, e nell’edificio abitavano più gatti randagi che esseri umani. Ma non c’era niente con cui non potessimo confrontarci.

Gli italiani hanno un detto che recita, i ciabattini spesso hanno le suole bucate. E in realtà il mio architetto da’ grandi consigli, ma non sempre li segue.

Nella scelta dell’impresa di costruzione, per esempio, dice ai clienti di chiedere tre preventivi e scegliere quello intermedio. I contratti, insiste, devono comprendere forti penali per i ritardi (a differenza di altri architetti italiani, i suoi progetti sono completati in tempo). E quando le coppie clienti litigano su un progetto, saggiamente consiglia ai mariti di delegare alle mogli.

Per gli interventi sul palazzo abbiamo avuto due preventivi più o meno con la stessa cifra, e abbiamo passato i mesi successivi a bisticciarci sopra.

Un’impresa, guidata dall’energico Signor Angelo, coi baffi nerissimi, veniva dal nostro primo villaggio, o paese. L’altra, dell’anziano e affabile Signor Giovanni, è il costruttore principale di Piazze, il nostro nuovo paese.

In italiano, la parola paese significa sia la nazione che la cittadina natale. Se si pensa che l’Italia non è stata unita con Roma capitale sino al 1870, non sorprende che molte persone si identifichino più con la cittadina di quanto non facciano con lo stato.

Nel nostro tranquillo angolo di Toscana vicino al confine con l’Umbria, le rivalità scorrono profonde, accenti e addirittura nomi di pietanze cambiano da villaggio a villaggio, un paio di collinette più in là. Ma una cosa è universale: si favorisce sempre il paesano, il concittadino.

In quanto americana trapiantata, con un marito romano, ma di estrazione tedesca e italiana del nord, credevo che queste regole non scritte non valessero nel nostro caso. Ma alla fine, dopo molto digrignare di denti e vari appelli da parte di entrambi, abbiamo scelto il nostro paesano, Signor Angelo. È partito alla velocità del fulmine.

Grazie alle norme recenti, le riparazioni di urgenza possono cominciare 30 giorni dopo aver presentato un documento chiamato DIA all’ufficio tecnico locale, anche se i progetti definitivi di restauro non sono stati ancora approvati.

Angelo ha sostituito il tetto prima della scadenza prevista, così quando abbiamo firmato l’altra serie di contratti non abbiamo inserito la penale per i ritardi. Francamente a quel punto la nostra preoccupazione era di trovare i soldi per pagare i lavori completati in anticipo: a pensarci ora non c’era niente di cui preoccuparsi, visto cha Angelo si è impegnato in due altri grossi lavori oltre al nostro.

Ci sono altre ragioni per i rinvii. Io sono una di quelle. Quando il nuovo camino ha iniziato ad assomigliare a quello di una casetta svizzera dozzinale, ho insistito per rifarlo. Poi, e qui confesso di essere una tossica dell’informazione, le spesse pareti di pietra hanno dovuto essere cablate per internet ad alta velocità, televisione satellitare, e naturalmente l’aria condizionata.

E ci sono stati altri eventi fuori dal nostro controllo: la scomparsa di un parente, la morte di un papa, i problemi di un nuovo bambino e la necessità di trovare un’altra casa più grande a Roma. Nonostante il mio brontolare, il mio architetto ha dispiegato la solita pazienza: quasi sempre.

Una delle imprese più difficili è stato convincerlo che gli ospiti avrebbero avuto bisogno sia di una lavatrice che di un asciugatore. Per qualche motivo (sciovinista, secondo me) gli uomini italiani nutrono un’avversione per queste cose. Ma quando ho storto il naso davanti a certi muri di pietra e mattoni, il mio architetto è stato irremovibile. Era lui l’esperto di progetti, ha detto, e sarebbero andati benissimo.

Probabilmente sarà così. Vedremo. Cominciamo ad arredare il mese prossimo.

here English version

L'ultimo assalto del centrodestra al territorio siciliano si chiama "polo turistico" dell'Etna. In effetti, proprio per non farsi mancare niente, il disegno di legge in discussione nei prossimi giorni all'ARS di "poli turistici" ne istituisce quattro: uno dentro il parco dell'Etna, un altro nel parco dei Nebrodi, il terzo in quello delle Madonie e l'ultimo a cavallo fra quelli dell'Etna e dei Nebrodi. L'ambizione è quella di realizzarvi quattro stazioni sciistiche invernali (funivie, seggiovie, impianti sportivi, alberghi, strade, parcheggi, ecc.), obiettivo che ha fatto sollevare non solo tutte le associazioni ambientaliste ma anche tutti gli studiosi, vulcanologi, botanici, zoologi, geologi e persino urbanisti ed economisti, i quali non solo hanno spiegato come questa ipotesi comprometterebbe la salvaguardia dell'ambiente nei parchi, ma sarebbe anche economicamente destinata al fallimento. Giacché la Sicilia non è il Trentino né la Valle d'Aosta e piuttosto che inseguire modelli oggettivamente impraticabili, proprio la valorizzazione del parco, se attentamente condotta, ne farebbe quell'unicum anche turisticamente redditizio.

Ciò detto, il disegno di legge, bisogna ammetterlo, è un piccolo gioiello dell'inganno. Non solo perché di tutto questo non c'è scritto nulla (lo si apprende bene solo dal dibattito sulla stampa, dai lavori parlamentari e se ne trova appena la traccia nella relazione allo stesso ddl) ma perché è costituito da un solo articolo che a prima vista può sembrare perfino innocuo. Proprio per questo è molto interessante analizzarlo. I quattro poli turistici vengono infatti istituiti in zone cosiddette "di protezione di tipo C", già previste nella norma fondativa dei parchi in Sicilia, la famosa L.R. 98/81, poi modificata dalla 14/88. In quella erano ammesse "soltanto costruzioni, trasformazioni edilizie e del terreno rivolte specificatamente alla valorizzazione dei fini istitutivi del parco quali strutture turistico­-ricettive, culturali, aree di parcheggio"; nel ddl in oggetto vi è consentito "realizzare strutture turistico-ricettive, culturali, aree di parcheggio, nonché tras­formazioni edilizie fina­lizzate esclu­sivamente alla valorizzazione dei fini istitutivi dei parchi". Stessa cosa, come si vede. Il trucco dov'è? Nella perimetrazione di queste nuove zone "C", che il ddl evita di compiere ma rimanda ad una subdola procedura definita alla fine dell'articolo. Mentre la legge attuale prevede l'approvazione di un piano territoriale esteso all'intero parco in cui individuare le zone A, B e C organicamente relazionate fra loro sulla base di accurati studi e progetti, unitamente ad un regolamento che disciplina tutti i lavori di costruzione all'interno del parco, il ddl esplicitamente deroga a tale procedura prevedendo che l'Assessore regionale al Territorio ed Ambiente, con proprio decreto e senza alcuna pianificazione, catapulti dentro i parchi le zone "C" desiderate. Esattamente come sostituire ai piani regolatori delle città i decreti dell'assessore regionale che, accontentando il sindaco suo amico, decide qua un'area artigianale e là una zona di espansione edilizia. C'è anche un paravento, apposta per la bisogna: la proposta la formulano ufficialmente i sindaci dei comuni interessati (gli stessi, in massima parte di Forza Italia, che ce l'hanno già pronta e volevano l'istituzione delle zone C direttamente per legge) e vanno acquisiti i pareri dei comitati esecutivi e di quelli tecnico-scientifici dei parchi, da rendersi entro 30 giorni, decorsi i quali si intendono favorevolmente resi. Pareri, manco a dirlo, non vincolanti. Come si vede, più una finzione che altro.

Se, come si è visto, il ddl è un capolavoro di dissimulazione, sul piano politico è la summa delle ipocrisie. Indigna il governo regionale, che non ha un minimo di linea politica né di coerenza programmatica, che per sua natura dovrebbe avere un’idea e per ciò governare, e invece lascia fare senza intervenire. La proposta è infatti “di iniziativa parlamentare”, firmata da Forza Italia e questo gli dà l'alibi per dire che non c'entra nulla. Così il ddl va avanti e supera l'esame della IV commissione dell'ARS, grazie alla presenza massiccia, assolutamente insolita ma organizzata per l'occasione, dei deputati del centrodestra. La polemica gonfia, poi esplode. Con le semplificazioni di sempre: "cementificatori" contro "imbalsamatori". E ancora una volta il miracolo: dentro il governo c'è posto per tutti e il contrario di tutto, l'assessore Cascio da una parte, Granata dall'altra. Con Cuffaro che fino ad ora tace, solo per annusare da quale parte spira il vento migliore e poi dichiarare ad hoc una presa di posizione salvafaccia. Cascio è quello stesso che in queste settimane racconta la favola della riforma urbanistica e poi appoggia un disegno di legge che, prima ancora che compromettere i parchi siciliani, si mette sotto i piedi il principio stesso di pianificazione territoriale. E Granata va declamando poesie per i suoi viaggiatori mentre la Regione investe cifre colossali per cofinanziare impianti da golf e incredibili parchi di divertimento come quello di Regalbuto, vere truffe ai danni dei siciliani. Noi non stiamo meglio: la matrice culturale sembra essere la stessa, la superficialità delle analisi pure. Non vogliamo uno sfruttamento che comprometta l'ambiente, ma il nostro "sviluppo sostenibile" è ancora tutto da sviluppare.

Per questo sono convinto che dal prossimo governo la Sicilia debba attendersi una marcia in più ed in una direzione ben precisa, non un’altra marcia e basta.

Sul ddl ora in discussione si veda anche, in questo sito, l’articolo di Maria Zegarelli.

Il ministero contro se stesso. Lo Stato che rinuncia a difendersi. E che abbandona al loro destino i vincoli che aveva emesso per meglio tutelare un patrimonio naturale, ma anche storico e archeologico come il promontorio del Conero, nelle Marche, rischiando pure di dover pagare un sacco di soldi. È il paradossale esito di una vicenda che si trascina da un paio di anni e che, salvo sussulti dell’ultim’ora, dovrebbe concludersi oggi, quando scade il termine entro il quale l’Avvocatura dello Stato potrà costituirsi in giudizio presso il Consiglio di Stato contro alcuni Comuni e un gruppo di costruttori, un’associazione industriale e diversi ordini professionali i quali vorrebbero annullare il vincolo posto dalla Soprintendenza marchigiana. Vincolo che arrivò dopo un prezioso lavoro di salvaguardia: comprendeva un’estensione molto vasta, e questa venne considerata un’anomalia, ma non lo era, perché rispettava una consuetudine antica quanto il ministero e risalente a Giovanni Spadolini, il quale prese un provvedimento che copriva quasi per intero il lago di Bolsena. Il termine sta per scadere, ma dai vertici dei Beni culturali non giunge nessun segnale. Anzi ne arrivano in direzione contraria: non è un mistero, infatti, che diversi uffici centrali del Ministero hanno manifestato più volte la propria opposizione a quel vincolo, ribadita persino in una serie di lettere all’Avvocatura dello Stato.

La vicenda ha inizio nel settembre del 2003 quando le Soprintendenze (oltre quella regionale, anche quelle territoriali) raccolsero in un unico provvedimento la grande quantità di vincoli che da tempo tutelavano il Conero. Un vincolo paesaggistico esisteva già, ma ad avviso dei soprintendenti, non dava sufficienti garanzie per proteggere il promontorio dagli appetiti edificatori. Infatti quel genere di salvaguardia, centrato sugli aspetti naturalistici, era stato fortemente indebolito dal fatto che a custodirli fossero stati chiamati i Comuni, cioè gli enti locali che erogano le concessioni edilizie e che più sono oggetto delle lusinghe di chi costruisce (gran confusione ha poi creato il nuovo Codice promosso da Urbani). Inoltre, questo il ragionamento delle Soprintendenze, il Conero è un territorio di pregio per mille motivi. È vero che si tratta dell’unica emergenza montuosa (572 metri) in un territorio tutto pianeggiante, la lunga striscia di costa che va dal Gargano a Trieste. Ma è anche vero che questa posizione a picco sul mare ne ha fatto nei secoli luogo di avvistamento, una specie di faro in mezzo alle onde, dove dall’antichità sono sorti templi e poi chiese, eremi e monasteri. Nel verde della macchia mediterranea si trova, per esempio, la chiesa romanica di Santa Maria di Portonovo. Gli scavi hanno portato alla luce una necropoli usata fin dal mille a. C.. E l’importanza storica di tutto il sito è documentata dalla raffigurazione del Conero sulla Colonna Traiana a Roma e in un affresco nel Duomo di Siena.

Il Conero si è salvato dagli assalti speculativi degli anni Sessanta e Settanta. Nel 1987 è stato istituito un parco regionale, che ha contribuito a proteggerlo, anche se negli anni successivi si è cominciata a sentire la pressione di quella "città diffusa" che si espandeva lungo la pianura a ridosso dell’Adriatico.

Dopo il 2000 si scatena l’assalto. I Comuni che abbracciano il promontorio - Ancona, in primo luogo, e poi Sirolo e Numana - hanno preso a concedere licenze edilizie, faticosamente contrastate dalle varie Soprintendenze che si facevano scudo del solo vincolo paesaggistico. Nel settembre 2003, appunto, si è deciso di alzare una barriera protettiva più resistente: un vincolo in base alla legge 1089 del 1939, che tutelava il Conero in quanto bene di valore storico, artistico e archeologico. Ma al solo annuncio del provvedimento si è scatenata l’offensiva dei Comuni (Ancona, Sirolo, Numana e Porto Recanati) e delle associazioni dei costruttori, che insieme hanno presentato ricorso al Tar. Dopo una serie di giudizi, in un primo momento favorevoli alla Soprintendenza (a fianco della quale si erano schierate Italia Nostra e un’associazione anconetana), il Tar delle Marche ha dato ragione ai quattro Comuni e ai costruttori, ma non nel merito, bensì per un cavillo procedurale: difetto di notifica.

Ora la parola spetta al Consiglio di Stato, il quale si trova a decidere senza che il ministero per i Beni culturali faccia valere le proprie ragioni, anzi mostrando chiaramente che del problema di quei vincoli non vuol proprio saperne. L’attuale direttore regionale, Mario Lolli Ghetti, ha avanzato una proposta: difendiamoci in giudizio e, se vinciamo, dichiariamoci disponibili a rivedere il vincolo. L’idea è stata trasmessa al Ministero, che però non l’ha girata all’Avvocatura e non ha neanche risposto a chi l’aveva formulata. Italia Nostra spera in un ripensamento del ministro Rocco Buttiglione, che pure ha espresso tutta la sua contrarietà ai tagli che la Finanziaria prevede per il patrimonio storico-artistico. Altrimenti, addio vincolo. E non solo: i costruttori, vedendo l’arrendevolezza dello Stato, hanno anche chiesto un risarcimento danni per i mancati guadagni provocati dal vincolo. Se vinceranno, costruiranno e poi passeranno pure a incassare.

L’«ermo colle» dell' Infinito, tanto caro a Giacomo Leopardi, non sarà più protetto dal vincolo della Soprintendenza? È possibile, anzi probabile. Il ricorso, abbastanza anomalo, alla Presidenza della Repubblica di una signora recanatese - che vorrebbe costruire un albergo nei pressi - ha purtroppo avuto un avallo, per irregolarità formali, dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, in sede consulente. Parere favorevole alla eliminazione del vincolo, che rischia di giovare pure ad altri ricorsi marchigiani: per esempio, a quelli inoltrati da quattro Comuni su cinque del Parco del Conero (e cioè Ancona, Sirolo, Numana e Porto Recanati).

Un vincolo che era stato formalizzato nell'aprile 2004 per ragioni non soltanto paesistiche, ma anche storico-monumentali. La VI Sezione del Consiglio di Stato (Sezione giudicante), presso la quale pendono i ricorsi dei quattro Comuni nonché quelli soliti degli Ordini dei geometri, degli ingegneri, dei geologi, e via elencando, potrebbe essere influenzata, in senso negativo, da quell'avallo della IV Sezione. Un grimaldello. Ma, si obietterà, il promontorio del Conero non è già protetto da un Parco? Sì, ma, coi tempi bui sopravvenuti grazie al governo Berlusconi, si tratta ormai di un mini-ombrello. Negli ultimi anni la tutela naturalistica è stata molto indebolita dalle sub-deleghe delle Regioni ai Comuni in materia paesaggistica (così i peggiori sono indotti a fare come gli pare) e dal Codice Urbani il quale prevedeva l'insediamento di apposite commissioni paesistiche sin qui mai insediate (dovevano funzionare dal maggio scorso). Quindi, se un Comune vuoi "valorizzare" il Parco del Conero con alberghi e palazzine, lo può fare. A meno che non intervenga un altro tipo di vincolo. Quello, per l'appunto, di carattere storico-monumentale apposto con queste motivazioni: il Conero è stato scalo dorico, approdo di coloni provenienti da Siracusa, era sovrastato dal tempio di Venere, è luogo sacro a più religioni con le chiese millenarie di San Ciriaco e di Santa Maria di Portonuovo, con gli eremi, col cosiddetto "campo degli Ebrei" (la comunità anconetana è ancora importante), con scavi significativi come quello della Tomba della Regina. Insomma, oltre alle ragioni paesaggistiche, vi sono sacrosanti motivi di natura storica, archeologica, culturale, religiosa per salvaguardare l'intero promontorio, davvero unico nell'Adriatico.

Ma già il Tar delle Marche ha bocciato questo vincolo su richiesta di Comuni, privati e associazioni professionali. "Italia Nostra" regionale, allora, ha fatto ricorso al Consiglio di Stato. Ma, intanto, le costruzioni si stanno diffondendo sul Conero. E nessuno può fermarle se il Consiglio di Stato non ripristina i vincoli bocciati dal Tar. Il direttore regionale del Ministero, architetto Mario Lolli Ghetti, si era detto disposto a riesaminare i vincoli stessi, ma da posizioni di forza, cioè difendendo l'operato dell'Amministrazione. Purtroppo la sua proposta si è subito arenata nelle sabbie mobili di un Ministero sempre più impantanato e latitante. Essa non è stata neppure trasmessa all'Avvocatura di Stato, né ha ricevuto una qualche risposta. Del resto, alle ultime udienze della causa, la.stessa Avvocatura di Stato non si è neppure costituita, spingendo i ricorrenti (privati e Comuni) ad osare di più, cioè a chiedere pure il risarcimento danni per non aver potuto cementificare il Conero. O meglio, per averlo potuto cementificare... con qualche ritardo. Sull'intera materia la stessa Commissione regionale marchigiana per i Beni e le Attività culturali (Stato-Regione) ha espresso, non a caso, una allarmata valutazione.

Il ministro Rocco Buttiglione ha detto più volte di non voler accettare la scure della Finanziaria sulla cultura, sulla tutela e sullo spettacolo. Lo aspettiamo alla prova dei fatti. Anche questi del Colle dell'Infinito e del Conero sono fatti. Altro che se lo sono.

Per l'occasione, rileggetevi la bella poesia di Leopardi

Un rifugio circondato da un boschetto di faggi secolari, a pochi passi un abbeveratoio per il bestiame, prati verdissimi e cielo splendente, macchine vietate. Un angolo di paradiso, come tanti ce ne sono in Italia. Solo che qualcuno qui, nel mezzo del Parco nazionale d'Abruzzo, ha pensato bene di avvicinare il paradiso metaforico a quello vero: così il Rifugio la Difesa di Pescasseroli il dì 22 marzo 2005 è stato ceduto all'ente «Gesù Nazareno delle salesiane di don Bosco». Comodato gratuito, «al fine di svolgere attività di preghiera». Tempo qualche settimana e l'Ente suore, pregando pregando, si è allargato e con il sostanziale consenso dell'Ente Parco ha costruito affianco al rifugio una chiesetta: «sennò il Signore dove lo teniamo?». Piccolo particolare: la cappella è abusiva, e adesso incombe su di essa e sulle suore un ordine di demolizione. Che fa discutere la comunità di Pescasseroli allargata ai suoi tanti turisti, incrocia le travagliate vicende del Parco nazionale d'Abruzzo e chiama in ballo le massime istituzioni: lo Stato, la Chiesa e il loro Concordato, art. 5 comma 1. In nome del quale le suore fanno le barricate: «Giù le mani (cioè le ruspe) dalla casa del Signore».

«E' giunto dunque il momento di incamminarsi sul percorso contemplativo `Rinascere dall'Alto ... Le vie del Silenzio', una mano tesa ai giovani, futuri protagonisti della società, verso cui le Suore salesiane sono particolarmente dedite e per i visitatori, un nuovo modo di vivere il Parco!».

Le prodighe religiose

A parlare così non è la madre superiora, ma il direttore del Parco nazionale d'Abruzzo Aldo Di Benedetto, considerato molto vicino ad An (come la gran parte dei titolari di cariche nei Parchi naturali gestione Matteoli) e ultimamente preso da afflato mistico. Sua la scelta di dare in comodato gratuito alle suore il Rifugio la Difesa (che prima, come succede a tanti rifugi del Parco, era abbandonato a se stesso e ai vandali): l'operazione, ha fatto sapere, ha «l'intento di armonizzare la missione del Parco con finalità di carattere spirituale». Finalità che mal si concilierebbe con materiali richieste come quella di pagare l'affitto. Sua l'attiva partecipazione al mini-concilio dei giovani organizzato quest'estate dalle sorelle «lungo il percorso contemplativo». Suo il sostanziale nulla osta, poche settimane dopo la firma del contratto di comodato, a una serie di lavori di «adeguamento funzionale» del rifugio e al «posizionamento provvisorio di un prefabbricato di legno».

Così quelle che l'Ente Parco definisce «le prodighe religiose», hanno iniziato i lavori, «imbracciando picco e pala»; ma poiché «le ecclesiaste sono sì forti nello spirito, ma pur sempre limitate nel fisico» (le citazioni sono tutte da un comunicato stampa dell'Ente Parco, sic), hanno avuto il supporto di «mezzi gommati». Che non passano inosservati.

Così al sindaco di Pescasseroli arriva un esposto-denuncia scritto da Stefano Tribuzi, tecnico naturalista, nel quale si elencano le opere che le prodighe religiose stanno realizzando alla Difesa: scavo e posa in opera di tubi per l'acqua, scarico ed energia elettrica, costruzione di un tratto di strada sterrata larga tre metri e lunga 100 al posto del sentiero, costruzione di una casetta di legno, più gran via vai di camion e auto. Tribuzi - che del Parco è stato dipendente per dodici anni e dunque qualche regola la conosce - fa notare che mancano le autorizzazioni edilizie, che il terreno è in demanio comunale e che per di più rientra negli «usi civici», istituto di antica provenienza ma con una regola chiara: prima di procedere a qualsiasi cambiamento, la zona va sdemanializzata. Cosa che non è successa per La Difesa.

Insomma, le suore stanno compiendo un abuso. Siamo ai primi dell'estate e il comune procede: prima chiede di sospendere i lavori, poi - quando il caso arriva anche alla procura - parte l'ordinanza di demolizione. In sostanza si chiede alle suore di rimuovere il «manufatto», cosa che si guardano bene dal fare. Anzi le religiose nel frattempo sono passate al contrattacco.

Nella tre giorni di luglio delle «Vie del silenzio» il direttore dell'Ente Parco Di Benedetto cammina e prega, e fa sapere che lui non ha mai dato il via libera ad alcuna «opera di urbanizzazione», la quale di fatto «non c'è mai stata». Alla mini-kermesse partecipa anche monsignor Giovanni Giudici, vescovo di Pavia e fratello di suor Maria Pia Giudici, responsabile del progetto di Pescasseroli: il quale, tra un silenzio e l'altro, consacra in fretta e furia la chiesetta. Una consacrazione il cui effetto pratico non sfugge agli avvocati delle suore, che immediatamente tirano fuori l'arma con la quale si opporranno all'ordine di demolizione: il Concordato tra la Chiesa cattolica e lo stato italiano del 18 febbraio 1984, firmato dal cardinal Agostino Casaroli e da Craxi Benedetto detto Bettino.

Che c'entra il Concordato con il manufatto nel Parco, gli usi civici, le cisterne e le strade nei boschi? C'entra, c'entra. Giacché il secondo comma dell'articolo 5 del testo firmato da Craxi e Casaroli impedisce allo stato italiano di demolire un edificio aperto al culto, se non «per gravi ragioni e previo accordo con la competente autorità ecclesiastica». Ergo, la nostra chiesetta non si tocca, dicono le suore e i loro avvocati. E il sindaco Carmelo Giura, cardiologo di Pescasseroli, giunta di centrosinistra, si trova - tirato per i capelli - a fronteggiare un caso diplomatico.

L'asso nella manica

Il primo nella storia del Concordato: gli urbanisti italiani non ricordano precedenti in cui sia stato invocato l'art. 5 a difesa di una costruzione abusiva. Mentre i giuristi si interrogano sulla reale portata della norma e sulla sua applicabilità al caso de «La Difesa»: è vietato demolire edifici «aperti al culto», ma basta la consacrazione per parlare di edificio «aperto al culto»?

Oltre alle armi giuridiche, le suore affilano quelle diplomatiche. Ormai la chiesetta c'è, troviamo una soluzione, dicono alla stampa locale. «Se anche il seme è caduto fuori dal terreno la pianta che è nata è molto bella e dà buoni frutti. Abbatterla sarebbe da stolti», dichiara al Centro suor Maria Pia. Che ha avuto un incontro con il sindaco dai contenuti ancora segreti. Intanto l'ordinanza di demolizione incombe, tra qualche settimana i termini scadranno. Al comune si chiede di concedere una sorta di condono speciale, magari prendendosi in proprietà la chiesetta.

«Ricordo, se mai ce ne fosse bisogno, che l'Italia è una nazione laica con una Costituzione repubblicana, con leggi e regolamenti propri di uno stato di diritto ove i rapporti tra cittadini ed istituzioni sono stabiliti da regole uguali per tutti». La lettera di Stefano Tribuzi ai giornali locali è quasi un urlo di dolore, che elenca tutti i fatti compiuti finora e conclude: «Tutto ciò viene definito dalle leggi dello stato `abuso edilizio e manomissione ambientale' e non ha nulla a che vedere con la propria o con altre confessioni religiose».

Non solo. «Si potrebbe instaurare un precedente - dice Tribuzi - basta la consacrazione per sfuggire alla legge. Si darebbe il via ad altri illeciti ambientali. Non ho nulla contro 'le vie del silenzio', anzi ne sono interessato, ma le suore potrebbero limitarsi a utilizzare il rifugio che è stato dato loro». Tanto più che Pescasseroli, pur essendo il cuore del Parco, è storicamente colpita dall'abusivismo: «Qui le strutture abusive non sono mai state demolite, ci sono 1.300 richieste per il condono edilizio», dice Francesco Paglia, consigliere provinciale di Rifondazione, che ricorda anche che la zona della Difesa era considerata dal Parco così importante da richiedere l'inserimento tra le aree di Riserva integrale.

La croce di Ponza

A giorni si saprà se dallo scontro tra il comune di Pescasseroli - e varie leggi italiane - e l'Ente Gesù Nazareno delle suore salesiane di Don Bosco si uscirà con una chiesa in più e qualche legge in meno. Oltre che per la piccola chiesetta della Difesa - e per i suoi annessi - la soluzione del caso potrebbe avere valore come precedente: nell'era dei condoni, sapere che basta una croce per fermare le ruspe potrebbe dar luogo ad attività frenetiche e conversioni spurie.

Ne lamentano una i cittadini dell'isola di Ponza, dove sulla sommità del Monte Guardia, in area classificata tra i «biotopi», verrà benedetta domenica una piccola costruzione in muratura con una croce sul tetto. La cappella - derivante da un vecchio capanno prima utilizzato per lo più dai cacciatori e che adesso viene dedicata a San Venerio, patrono dei fanalisti - è di proprietà privata e costruita in una zona dove, secondo la regolamentazione dei «biotopi» contenuta nel Piano paesistico della regione Lazio, «è inibita la realizzazione di qualsiasi intervento edilizio, ogni forma di attività agro-silvo-pascolare, ogni intervento che alteri la vegetazione esistente e l'attuale regime idrico». Ma forse tutte queste «inibizioni» cadranno, con una croce e una benedizione.

Per l'ultimo film girato qui, The Passion di Mel Gibson, i Sassi sono stati trasformati in Gerusalemme e la scenografia di cartapesta, così precisa e così verosimile, ha conquistato a tal punto un paio di consiglieri comunali da spingerli a proporre, in Aula, di lasciare «per sempre, così com'è nel film» la Porta di Gerusalemme riprodotta da Gibson. Risate. Facce incredule. Occhi bassi. E rapido passaggio ad altro argomento all'ordine del giorno.

Non solo per non finire sepolti dalla fin troppo evidente ragione che i Sassi non possono e non devono diventare una sorta di Disneyland, ma anche e soprattutto perché parlare oggi dei Sassi come meriterebbe, a Matera, in Basilicata, in Italia, significa accendere una miccia dentro a una polveriera. Perché questo insediamento neolitico unico al mondo, paragonabile solo alla città di Petra, in Giordania, e appena nel 1993 dichiarato dall'Unesco «Patrimonio mondiale dell'umanità», sta subendo — assieme al resto della città moderna — un vero e proprio saccheggio edilizio e urbanistico.

Dovevano essere, questi anni, l'inizio di un'era nuova. Di riscatto e di rinascita. Il riscatto, dopo decenni di oblio e di vita grama e malsana, i «cristiani» insieme con gli animali nelle stesse grotte di tufo e la famosa denuncia di Palmiro Togliatti, «i Sassi sono la vergogna d'Italia». E la rinascita, con la speranza concreta accesa nel 1977 dal concorso internazionale per il recupero dei Sassi. Vince uno studio elaborato da architetti che per una volta non vengono da lontano, che hanno i Sassi nella testa perché si sono formati alla scuola dei Benevolo e dei Quaroni, ma li hanno anche nel sangue, perché sono nati qui, i loro sono nomi familiari, si chiamano Tommaso Giura Longo, Renato La Macchia, Letizia Martinez, Lorenzo Rota, Luigi Acito.

Forse ci siamo, pensano a questo punto anche i più scettici, forse è davvero arrivato il momento in cui nei Sassi, dopo la necessaria evacuazione di massa, tornerà la vita, con le persone a chiacchierare al fresco le sere d'estate, le botteghe, i bambini a giocare per strada. C'è anche una legge, perbacco, la numero 771, e ci sono i finanziamenti. Recupero conservativo, si chiama, e non ci sarà spazio per il trucco o per l'inganno. Basterà intervenire con saggezza, prudenza, garbo, intelligenza, lungimiranza, amore. Invece no, non è andata così. È andata, sta andando, come temevano e avevano detto gli scrittori Carlo Levi e Giorgio Bassani, il primo confinato in Basilicata dal regime fascista e «lucano» di fatto, il secondo presidente di Italia Nostra. «Temo che con il recupero i Sassi diventeranno preda di volpi e di serpenti» aveva detto Levi. E Bassani, in un intervento a Matera nel 1967: «Sono estremamente pessimista circa la sorte dei Sassi, come per Venezia». Aggiungeva, Bassani, che le amministrazioni comunali, specialmente se progressiste, hanno un dovere in più, «devono preservare le città e i centri storici dall'invasione di quella specie di Internazionale del vetro, dell'acciaio e del cemento armato, che sta coprendo di noia e di conformismo tutte le terre, tutti i Paesi e che

pensa soprattutto ai propri affari». Le parole di Bassani hanno quarant'anni, ma sembrano una fotografia di Matera e dei Sassi scattata oggi. C'è tutto, anche quella «amministrazione progressista» che governa da dodici anni con maggioranze bulgare del 72 per cento (tutti i «democristiani» dell'era Colombo diventati «comunisti») e che invece di vigilare di più e recuperare con rigore e saggezza ha aperto i recinti alle ruspe e ai palazzinari (pardon, immobiliaristi), che avvalendosi della zelante solerzia dell'Ufficio tecnico, dell'Ufficio Sassi e della Soprintendenza stanno cambiando i connotati alla città nuova e ai rioni antichi.

Lo documenta, con un bel numero monografico, la rivista Basilicata, fondata cinquant'anni fa sull'onda di quella grande esperienza culturale e di intervento pubblico urbanistico lanciata da Adriano Olivetti in Lucania con il nome di «Comunità». Il direttore di Basilicata, Leonardo Sacco, intelligenza critica rara e grande amico di Levi e Olivetti, sostiene che ormai anche Matera riassume «la cattiva urbanistica nazionale» e che il recupero dei Sassi è «maldestro, manipolato, fuori e contro piani e progetti». Mentre l'architetto Tommaso Giura Longo, il «capitano» della squadra che vinse il concorso internazionale del '77, denuncia la corsa ai finanziamenti statali a fondo perduto, senza cioè obbligo di restituzione, per la «ristrutturazione» di immobili e per l'avvio di nuove attività produttive nei Sassi. In teoria, un'opportunità di risanamento e sviluppo, se per esempio tenesse conto del Manuale del restauro approntato da un altro architetto materano, Amerigo Restucci, docente all'Università di Venezia. In pratica, una fabbrica di carte che renda possibile l'impossibile.

Due esempi chiariranno meglio. Nel Sasso Caveoso c'è un bel palazzo seicentesco. E c'è il figlio del presidente del tribunale di Matera, che lo vuole ristrutturare. In che modo? Taglia le volte interne, costruisce una canna fumaria non prevista, eleva una torre in cemento armato che fuoriesce di quattro metri dal tetto per metterci l'ascensore. Il cantiere viene bloccato, perché anche negli uffici tecnici comunali qualche geometra che fa bene il proprio lavoro c'è ancora. Ma l'ultima parola spetta al capo, in questo caso il dirigente dell'Ufficio Sassi, Francesco Gravina. Il figlio del giudice chiede una «sanatoria» e Gravina non si fa pregare. Del resto, anche il direttore della Soprintendenza per i Beni architettonici e il paesaggio, Attilio Maurano, ha dato il suo bel parere favorevole. I lavori riprendono. In che modo? Non secondo la già discutibile «sanatoria» ottenuta (e oggetto di ricorso al Tar), ma secondo nuove modifiche in corso d'opera, che nel progetto originario non c'erano e che, dice Raffaele Giura Longo, deputato del Pci per tre legislature, «sono un pesante attentato all'integrità futura dei Sassi, commesso da una lobby affaristica che non è trasversale, ma tutta intera espressione del centrosinistra».

Un altro caso clamoroso è quello del giardino del convento di Sant'Agostino, nel Sasso Barisano, meglio noto come «il parcheggio della Soprintendenza». Duecento posti macchina su tre piani interrati al posto del giardino e dei cipressi secolari, abbattuti. Lavori cominciati qualche mese fa e posti macchina che via via diminuivano e alla fine sono diventati 40 perché, com'era stato detto e ripetuto al sordo soprintendente, scavare lì avrebbe significato trovare tante di quelle testimonianze archeologiche da dover abbandonare l'idea. Come poi è avvenuto. Solo che ormai il giardino del convento è nulla più che una grande fossa a cielo aperto.

Nei Sassi tuttavia è stato fatto anche qualcosa di buono e un po' di gente è tornata a viverci. Non più di duemila persone però, contro le quattromila previste dall'opera di risanamento. E sono sempre di più quelli che pensano di andarsene di nuovo. Troppi pub, ristoranti, discoteche, taverne, pizzerie e addirittura 800 posti letto nei bed and breakfast. Troppo rumore, troppe auto nei vicoli tortuosi da percorrere invece a piedi. E troppo effetto zoo, tutto il contrario di quella vita «normale» che chi aveva abbandonato i Sassi sperava di trovare quando vi ha fatto ritorno. Leonardo Sacco ricorda ciò che disse Giulio Carlo Argan, storico dell'arte e sindaco di Roma, all'assemblea nazionale dei Centri storico-artistici, nel 1990: «È ancora possibile pensare alla tutela dei suoli urbani e dei centri storici, se chi persegue questo obiettivo trova il più delle volte contrari il governo, la legge, la magistratura?». E i Sassi, è ancora possibile salvarli?

cvulpio@corriere.it

I Sassi di Matera in uno scatto del 1951 del celebre fotografo francese Henri Cartier-Bresson, scomparso nel 2004 (foto Magnum) Nelle altre immagini Palmiro Togliatti, Carlo Levi, Giorgio Bassani, Leonardo Sacco

Titolo originale: The Couple who set Umbria alight – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Per John e Liliana Tunstill la goccia finale è stata la pioggia di Londra. “Ogni anno, dal nostro matrimonio, John mi prometteva che il tempo si sarebbe messo al meglio” ricorda Liliana, che è nata in Uruguay.

”Dopo sette anni, la voglia di spostarsi in qualche posto più caldo si è fatta insopportabile. Capisce, dove sono cresciuta, a Montevideo, ci sono spiagge dappertutto. E tanto sole, naturalmente”.

La ricerca di un posto al sole li ha portati a una rassegna delle offerte immobiliari all’estero, a Londra. “Ci siamo avvicinati a uno stand dove un signore stava seduto vicino a una scritta che diceva Northumbria” ricorda Liliana. “Per curiosità, gli abbiamo chiesto cosa ci faceva a una mostra delle offerte internazionali,e lui ci ha spiegato che in realtà quel cartello andava letto: North-Umbria”.

Un quarto di secolo fa, quello era un posto che pochi britannici avrebbero preso in considerazione per andarci ad abitare. Ma quando John e Liliana ci andarono, nei primi anni ‘70, si innamorarono immediatamente della regione, della gente: e del potenziale dell’investimento. La prima casa, comperata 23 anni fa, aveva capre che brucavano sulla loggia, e un albero che cresceva attraverso il soffitto; da allora, hanno comprato e venduto la stupefacente quantità di 227 case. La maggior parte si trovano in un raggio di 20-30 chilometri dai due centri principali della zona, Umbertide e Città di Castello.

Là dove una coppia più prudente avrebbe comprato uno o due immobili, per saggiare le acque, i Tunstill hanno acquistato all’ingrosso. È lo stesso comportamento impetuoso che ha consentito a John a suo tempo di conquistare Liliana. “Ci incontrammo su un aereo, quando c’erano ancora limiti per il duty-free “ ricorda Liliana. “Lui aveva quattro bottiglie di gin, e mi chiese se potevo tenergliene due per il passaggio alla dogana. Poi, mi ha offerto un caffè per ringraziamento, e chiacchierando ha scoperto che abitavo nella zona nord di Londra. Allora ha deciso di trovarmi, chiedendo in giro nei pubs di Islington se qualcuno conosceva una ragazza uruguaiana”.

Dopo aver sfatata l’improbabilità statistica di trovare una giovane sudamericana in una città da sei milioni di abitanti, John poteva considerare il fatto di comprare e ricostruire un rudere in Italia come un gioco da ragazzi. I Tunstill, tra l’altro, sono riusciti anche ad evitare la diffidenza che di solito si accompagna alla presenza di operatori immobiliari stranieri.

E ci sono riusciti non solo entrando a far parte della comunità locale, ma dando anche lavoro a una buona fetta della popolazione. Hanno almeno sette imprese del posto che lavorano sui cantieri Tunstill quasi a tempo pieno. Poi ci sono i lavori connessi a ciascuna opera di restauro ultimata: giardiniere, personale delle pulizie, manutenzione della piscina.

Gli abitanti del posto ci appoggiano, perché dicono che abbiamo illuminato la campagna” dice Liliana. “Trent’anni fa ci raccontano che la valle dell’alto Tevere era buia, ma ora ci sono scaglie di luce elettrica che brillano nella notte”.

Come riconoscimento del loro contributo all’economia locale negli ultimi vent’anni, di recente John è stato nominato cittadino onorario di Montone, uno dei numerosi centri medievali di collina dell’area.

E l’opera continua: l’ultimo progetto dei Tunstill è stato di trasformare un monastero del XII secolo in disuso, in un albergo country-house chiamato La Preghiera. “Quando l’abbiamo visitato la prima volta, c’erano cinque metri di fango al pianterreno, e il tetto era poco più che un colabrodo” ricorda John. “Il fatto che lo comprassimo ha confermato quello che gli abitanti della zona sospettavano da un pezzo: eravamo matti”.

Comunque, ora i matti gestiscono un adorabile manicomio, con biblioteca, sala da biliardo e dieci camere con vista panoramica sulla campagna intatta. C’è anche un museo di soldatini (prima di trasferirsi in Umbria, John gestiva il Soldier Shop a Lambeth, a due passi di distanza dallo Imperial War Museum di Londra).

Alla Preghiera, John ha stanziato una forza militare che conta circa 30.000 pezzi in piombo, insieme al pezzo forte della collezione: una scatola di carta igienica acquistata espressamente per il dittatore fascista Benito Mussolini in occasione della sua visita a un palazzo nella vicina Pierantonio, negli anni ‘30. Il Duce e i suoi accompagnatori hanno usato un po’ della carta nei loro tre giorni di soggiorno, ma il resto – ancora conservato nella confezione arancio brillante (marca Universal) – occupa orgogliosamente il proprio posto nel museo militare di John.

”I padroni del palazzo evidentemente ritenevano che il Duce meritasse un trattamento regale, e ordinarono una confezione di carta igienica speciale per questa visita” racconta John (la confezione è stampigliata con un motivo a corone). “Non si sa quanti [rotoli] siano stati effettivamente usati, ma sono lieto di aver acquistato quelli rimasti”.

Tra una spolveratura e l’altra delle sue armate, John, che ora ha 65 anni, si tiene occupato con il proseguimento dell’attività di recupero e riuso dei ruderi locali – abitualmente associato agli acquirenti britannici. La quotazione corrente di un immobile del genere nel nord dell’Umbria (senza tetto o impianti elettrici) è di circa €550 al metro quadro, e quattro volte tanto il restauro. Circa due terzi di quanto costerebbe nella più nota Toscana, dicono i Tunstill.

Oltre al denaro, ci vuole però anche pazienza. Dalla decisione di acquistare al giorno di ingresso possono passare anche tre anni. E anche una volta superata la soglia, c’è ancora una cosa indispensabile da fare: usare le buone maniere. “L’altro giorno, abbiamo mandato un paio delle nostre signore a pulire la casa di un inglese appena arrivato” dice Liliana. “Per dargli il benvenuto, loro gli hanno portato una borsa di pesche e una di pomodori, ma per tutto il tempo che hanno passato lì quello non gli ha offerto nemmeno un bicchier d’acqua”.

”Quello che si deve capire quando si viene qui, è che non ci si può prendere tutto. Date qualcosa in cambio alla gente che ci vive, e troverete amicizia, apertura e generosità”.

Non le manca la Gran Bretagna, allora? “Per niente!” ride Liliana. Quando ci svegliamo al mattino, vediamo una magnifico campo di granturco, e sulla collina una casa che abbiamo restaurato, circondata da piante di cipresso. Vediamo api e farfalle, non sentiamo altro che uccelli cantare. Perché dovrei volermene andare?”

Nota: il testo originale (per chi fosse proprio interessato, anche con i numeri di telefono dei signori Tunstill e il sito web dell’immobiliare) alle pagine di The Independent (f.b.)

IL VIANDANTE, il ciclista, o l’automobilista, che si lasciano alle spalle la Collegiata di San Candido col suo Cristo indifeso, attraversano un paesaggio verdissimo.

Pochi chilometri più in là c’è l’Austria: Sillian, Lienz, il Tirolo orientale. Ma l’Austria è molto meno bella dell’ultimo radioso lembo della Val Pusteria con i suoi piccoli paesi, che Gustav Mahler e Hugo von Hofmannsthal amavano. Tra questi paesi, mi piace soprattutto Obervierschach (Versciago di Sopra), dove forse la grazia e l’eleganza sudtirolese toccano il culmine. Masi secolari, oscuri o improvvisamente luminosi, con finissime ondulazioni e orlature e croci greche: legna tagliata con precisione, per un inverno che forse non verrà mai: discrezione; e su tutti i balconi moltitudini di gerani e di petunie d’ogni colore, come se i balconi e i cimiteri rivaleggiassero con la fecondità della natura. Infine, la chiesa gotica di santa Maddalena, che guarda dall’alto il paese addormentato.

Oggi, questa bellezza è minacciata. In mezzo al paese, sinistre e altissime gru gialle annunciano la costruzione di un grande albergo, che l’anno prossimo vedrà trionfalmente la luce. Non c’è il minimo dubbio che l’albergo distruggerà completamente il fascino di Versciago: adombrando per sempre masi, legnaie, fiori, chiese, stradine. Non capisco perché il comune di san Candido, al quale il paese appartiene, non abbia previsto di far costruire l’albergo cinquecento metri più in là.

Sarebbe bastato. I sudtirolesi, dopo aver salvato valli bellissime, sembrano oggi animati da un’immaginazione suicida. Guardano verso l’Italia e la Francia. Là trovano modelli: l’orribile Misurina, la Liguria occidentale distrutta, la Costa Azzurra distrutta, Deauville, Rouen, Positano, Siracusa, Agrigento distrutti. Farebbero meglio a guardare verso Fermo o Ascoli Piceno, nelle Marche, dove non è scomparsa, o forse è accresciuta, la grazia del tempo di Leopardi.

Questo disastro ha una ragione. Nel Sudtirolo è scomparsa la figura del Sovrintendente ai Beni culturali, ridotto a semplice funzionario.

Qui nessun La Regina e Paolucci possono impedire ai sindaci di Roma e Firenze di sconvolgere città e musei. Qui importa soltanto l’autorità politica e amministrativa, che pochi giorni fa, violando la sentenza di un giudice sudtirolese del Tribunale di Bolzano, ha raso al suolo a Monguelfo, un edificio del sedicesimo secolo.

Un futuro più oscuro si addensa, probabilmente, sulle regioni italiane previste dalla recente riforma. I poteri dei Sovrintendenti diminuiranno o scompariranno, l’ignoranza e l’arroganza delle autorità politico – amministrative cresceranno ogni giorno. A chi importa che un piccolo paese venga abolito? O che Palazzo Barberini abbia il suo museo? Basta costruire alberghi sempre più grandi, o minacciosi palazzi regionali, o musei che sogneranno di imitare gli infernali Beaubourg o Musée d’Orsay.

Titolo originale:The super Tuscans – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La prima generazione di britannici che ha comprato in Chiantishire, sta vendendo.

Quando Betsy e George Newell cercavano una casa sotto il sole toscano, c’era scelta in abbondanza, e qualunque cosa vedevano era a basso prezzo. Andavano e venivano da Londra, tutti i week-end per un paio di mesi, e in una ventosa giornata di febbraio comprarono due case agricole in cima a una collina con un’incredibile vista su sette castelli vicino a Gaiole in Chianti. Il prezzo? Un affare, a poche migliaia di sterline. Perché i Newell erano pionieri, e l’anno era il 1973. Ora la coppia ha deciso di vendere. E non sono soli: c’è un cambio della guardia in Toscana, con tutti i primi trasferiti stranieri, soprattutto da inizio anni ’70, a lasciare proprietà che richiedono troppo tempo e fatica.

Questa tendenza, in una regione dove altrimenti c’è molto poco ancora a disposizione, per gli acquirenti immobiliari ha aperto una possibilità di occasioni che non si vedeva da anni.

Il mercato completamente aperto incontrato da gente come i Newells trent’anni fa, significa che queste case sono spesso grandi, belle, e possono vantare magnifiche viste: il che naturalmente si riflette sul prezzo. La proprietà Newell, con 300 alberi di ulivo, è sul mercato per 2,6 milioni di sterline.

Dalla piscina, si possono vedere sette castelli del Chianti e le montagne a 80 chilometri di distanza. “Entrambe le case coloniche erano quasi dei ruderi, ma decidemmo di dare priorità alla piscina, così che i bambini potessero passare l’estate” ricorda George, banchiere americano in pensione, che all’epoca aveva trent’anni. “L’uomo che l’ha costruita ci credeva pazzi”.

I Newell hanno vissuto in tenda, i primi due anni, mentre si ricostruiva la prima casa, con spazio per sei camere. Con abbondanza di stanze per famiglia e ospiti, poi non è stato toccato il secondo edificio, le cui pareti spesse 50 cm sono abitate solo da un piccione solitario, ma che potrebbe essere trasformato in una casa da quattro camere.

La moglie inglese di George, Betsy, ex insegnante di cucina che ha trasformato la cima di collina intorno alla casa in un giardino a terrazze di lavanda, pruni e peri, dice che la famiglia non ha più tempo, per la Toscana.

“Sono un’appassionata di giardinaggio, e ho appena passato due mesi qui, a badare alle cose. Anche l’uliveto ha bisogno di molta manutenzione: bisogna potere gli alberi, tagliare l’erba sotto, e fare decine di altre cose”, dice. “Cerchiamo qualcuno che abbia l’energia non solo di gestire il posto, ma anche di restaurare la seconda casa”.

I Newell divideranno il proprio tempo fra le loro due altre case, una a Londra e una capanna di tronchi in Nuova Scozia, Canada, dove George ha iniziato un’attività nel campo del salmone affumicato.

Si sta preparando ad abbandonare la Toscana anche Douglas Anderson, un artista che comprò la sua casa vicino a Pisa nel 1972 scambiandola con un ritratto dell’allora proprietario, due grossi paesaggi, e 800 sterline. Ricorda una Toscana più tranquilla di quella di oggi.

A 71 anni, Anderson userà il ricavato dalla vendita della sua casa rosso ruggine – il prezzo richiesto è di circa 800.000 sterline, compreso un fienile che usa come studio, una piscina e 5000 metri quadrati – per pagarsi gli anni della pensione in Irlanda.

L’ironia sta nel fatto che nessuno della Vecchia Guardia pensava di fare un investimento acquistando immobili in Toscana. “Era solo un problema di comprare la cosa migliore che si trovava” dice Bill Thomson di Chianti Estates, associata all’agenzia immobiliare Knight Frank.

“Quando la gente iniziò a comprare negli anni ’70, c’era parecchio tra cui scegliere. At the time those homes were worth £10,000 at most. Ora, chi se ne va scopre che la propria casa vale più di 5 milioni di Euro (3,5 milioni di sterline)” dice Thomson.

È un cambio di generazione, e sta avendo un effetto valanga. Quando gente come i Newell se ne va, anche i loro amici iniziano a pensare seriamente a muoversi. E così vanno sul mercato case senza difetti evidenti: nessun vicino rumoroso, tralicci elettrici, fabbriche in vista, autostrade nei paraggi.

Le case più a buon mercato della Vecchia Guardia sono state vendute da Thomson poco sotto le 700.000 sterline. In catalogo ci sono due case vicine a Radda in Chianti che appartengono a un aristocratico britannico, e che per anni sono state disponibili in affitto. Hanno 40 ettari di terra, soprattutto boschi, e due piscine, a un prezzo di 3,5 milioni di sterline.

Gli agenti italiani in Chianti dicono che una casa di cima collina, restaurata con piscina e vista si può avere per circa un milione di sterline. Aggiungeteci una vigna e il prezzo sale a oltre 1,4.

La maggior parte delle case ora sul mercato hanno bisogno di restauri, o almeno di qualche manutenzione, perché non sono state toccate per molti anni. La classica casa di campagna del XVIII secolo comprata recentemente da Helen Wood, ex giornalista televisiva, e dal marito, da un proprietario di lunga data scozzese vicino al villaggio medievale di Castagnoli in Chianti, non fa eccezione.

Wood è stata la prima a innamorarsi della casa, detta L’Aiaccia, dopo aver cenato in un ristorante da cui si vedono la casa e i boschi e vigna circostanti. Ha pensato che fosse giusto dare al marito un’opportunità di scelta, e così lui è venuto a visitare L’Aiaccia e un’altra casa a Cortona verso sud, da dove era partita la ricerca.

Quando lui l’ha richiamata ha detto: “Beh, mi pare abbastanza ovvio, no?”. La signora Wood ha condotto lavori di rinnovamento che sono durati due anni e costati quanto la casa, a un prezzo di circa 1.000 sterline al metro quadro. Dato che l’edificio era costruito direttamente sul terreno, la coppia ha dovuto scavare e per costruire le fondamenta. È stato installato il riscaldamento centrale, tolte enormi travi di noce devastate dai tarli, trasformato il porcile in cottage per gli ospiti e il granaio in sala giochi, costruita un’elegante piscina, su progetto del noto architetto britannico Anthony Hudson, ravvivata da una passerella sotto il pelo dell’acqua.

“All’inizio venivamo una volta al mese, poi è diventato una volta ogni due settimane, e gli ultimi sei mesi una alla settimana” dice la Wood. Ha rinunciato al lavoro dell’epoca per dedicarsi al progetto, fondando poi “ Casa in Italia”, impresa di restauri e manutenzioni in Chianti.

Non tutti i nuovi arrivati in Toscana sono preparati, o possono permettersi, a ricostruire una casa praticamente da zero. A parere di un agente immobiliare, il Chianti è un campo di gioco per persone ricche, dove i prezzi – raddoppiati negli ultimi quattro anni – stanno lentamente togliendo il monopolio dalle mani britanniche, con nuovi arrivi come un produttore cinematografico di Hollywood, un finanziare di New York consigliere di amministrazione di una grossa banca americana, o un uomo d’affari russo.

“I prezzi in Chianti sono troppo alti per la maggior parte dei britannici, che di solito non spendono più di 600.000 Euro (415.000 sterline) e vogliono stare vicini a Pisa per i voli Ryanair o EasyJet,” dice Gregory Page, di Alfa Immobiliare, che ha sede in Chianti ma sta aprendo una filiale nella città murata di Lucca, a nord di Pisa, dove i compratori britannici chiedono case o appartamenti che non hanno bisogno di nessun lavoro.

“Lucca naturalmente è meno prestigiosa del Chianti, e gli immobili sono più piccoli, ma ha un ambiente molto più autentico del Chianti. Non ci sono olio, o negozi di ceramiche” dice Page.

Hamish Scott-Brown, fotografo dello Ayrshire che ha appena comprato una nuova casa di tre stanze fuori Barga, una cittadine nei pressi di Lucca, a 210.000 sterline, dice che non aveva i soldi per il Chianti, ma aggiunge che si sarebbe sentito un “bianco forestiero” là.

“A Barga mi sento molto più benvenuto che in Chianti. L’ospitalità è straordinaria” dice. “Ero in un bar dentro a un supermarket, ed entra un uomo – aveva appena comprato un’Ape rosso, uno di quei furgoncini a tre ruote. Era così contento di sé che offriva a tutti un caffè o qualsiasi altra cosa. Ha scoperto che ero scozzese e insisteva perché prendessi un whisky. Quand’è l’ultima volta che avete visto una cosa del genere a Waitrose?”

I Newell si preparano a lasciare la loro collina in Toscana, e Betsy dice che la cosa che le mancherà di più sono i tramonti dalla terrazza. “Tutte le sere, indipendentemente da tempo, tutti lasciamo quello che stiamo facendo per guardare il tramonto. I colori, le ombre, sono diversi ogni giorno. C’è profumo di gelsomino nell’aria, e coi boschi tanto vicini si possono sentire le civette, gli usignoli e i cinghiali selvatici. Poi arrivano le lucciole”.

Nota: il testo originale di questa specie di spot pubblicitario per gli immobili in Toscana, al sito del Times online (f.b.)

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