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Sta andando avanti l'asta di sette terreni edificabili delle isole Tremiti indetta dal Comune per ripianare il deficit dei conti. Nonostante la contrarietà della Regione Puglia, espressa a chiare lettere dall'assessore regionale all'assetto del territorio Angela Barbanente, dal Municipio tremitese hanno ribadito i termini della procedura. Entro oggi, alle 13, è prevista la consegna al protocollo delle istanze di partecipazione al pubblico incanto. L'ufficio resterà aperto nonostante il giorno festivo. L'asta vera e propria si terrà domani giovedì mentre la Commissione esaminatrice delle domande si riunirà sabato alle 9, in seduta pubblica, per l'apertura delle buste contenenti le offerte.

Il Comune spera di ricavare oltre quattro milioni di euro dalla vendita di 32mila metri quadrati (in più lotti) sull'isola maggiore, San Domino, e del lotto unico di 37mila mq sull'isola di San Nicola. I terreni in questione rientrano in un Piano di edilizia economica e popolare. La Regione è contraria e, per bloccare la procedura, è partita un'altra lettera destinata al Comune delle Tremiti, retto dal commissario straordinario Carmela Palumbo, che ha sostituito lo storico sindaco delle Tremiti Giuseppe Calabrese. Palumbo cerca di smontare la polemica: "Io sono un commissario prefettizio e finché ci sono applico la legge. La variante di cui parla l'assessore era stata discussa anni addietro e al mio arrivo l'ho trovata già approvata e definitiva. Nessuno intende fare speculazioni

sulle Tremiti e in quei lotti sorgeranno soltanto case popolari". Un'altra nota formale era stata inviata all'inizio di aprile a cui dal Municipio hanno risposto ribadendo che si tratta di una procedura corretta.

Dal Comune delle Tremiti, pertanto, non c'è alcuna marcia indietro perché la procedura è ritenuta "conforme" al Piano di edilizia sociale approvato dalla Regione. Tra l'altro qui a maggio si vota: sono quattro i candidati alla carica di sindaco e quello dell'asta non è il principale argomento di campagna elettorale visto che il turismo rimane il tema di punta, peraltro nell'anno in cui se n'è andato un "tremitese" adottivo doc, il cantautore Lucio Dalla, che aveva eletto le isole a suo "buen retiro" estivo e a cui in estate sarà dedicato un memorial. L'equilibrio su cui l'asta nasce è fragilissimo: sono in gioco le esigenze di cassa e di ripianamento del deficit pubblico e la tutela di isole affascinanti e perennemente minacciate da trivellazioni petrolifere o speculazioni edilizie. E ora molti temono che l'asta possa diventare il "cavallo di Troia" per una speculazione edilizia. Il Comune spera di ricavare quattro milioni di euro, forse anche qualcosa in più, in modo da rimettere in sesto le anemiche casse pubbliche. E non teme speculazioni perché si tratta di "housing sociale".

Le aree all'asta sono sulle isole principali di San Nicola e di San Domino anche perché le altre tre (Cretaccio, Caprara e Pianosa) sono disabitate ed inidonee. Per rintracciare l'avviso pubblico, è inutile consultare il sito internet del Comune che è disattivato, causa tagli alle spese. Su San Domino, l'isola maggiore dove vivono i circa 500 abitanti, la superficie complessiva del lotto edificabile è di mq 31.585 con vendita in porzioni di lotto dell'importo stimato in euro 370.536 ciascuno. Su San Nicola il lotto è unico, esteso mq 37.046 ed in vendita per intero ad euro 363.825, secondo la stima. L'asta, dunque, va avanti. Sta di fatto che ogni volta che un progetto riguarda le Tremiti, i vincoli vigenti ed il fascino delle isole sono una forte motivazione per dire "no". Non è molto lontana nel tempo l'intenzione di realizzare un ponte in legno, una "passeggiata turistica e commerciale", tra San Domino ed il Cretaccio.

Barbanente: “Ma è tutto surreale i terreni devono restare pubblici”

L'assessore all'Urbanistica della Regione Puglia, Angela Barbanente, non cede di un millimetro: "Quanto sta accadendo alle Tremiti, mi sembra tutto surreale". La Regione, insomma, s'è messa di traverso sul bando comunale che si chiude oggi alle 13 e mette all'asta tredici terreni edificabili, sette ettari parendo da una base di quattro milioni di euro. Angela Barbanente è determinata a impedire che nell'arcipelago che rientra anche nel territorio del parco nazionale del Gargano, si possano vendere aree pubbliche per fare cassa e rimettere ordine nei conti di un Comune commissariato e alla vigilia delle elezioni. Nelle ultime settimane c'è stata una fitta corrispondenza tra il commissario prefettizio Carmela Palumbo e gli uffici regionali. Ma non è servito a molto.

Cosa c'è di surreale, assessore Barbanente?

"Il fatto che le aree pubbliche che si mettono all'asta sono destinate a un piano di edilizia economica e popolare. Trovo surreale che per mettere quelle aree all'asta, le si debba vendere per fare cassa ma poi le si debba riacquistarle con un esproprio per realizzare quel piano di edilizia per costruire case per famiglie a basso reddito".

Cosa non la convince del bando?

"Non è chiaro come l'amministrazione comunale consideri compatibile la vendita delle aree con la disciplina di legge dell'edilizia economica e popolare, che al contrario prevede l'espropriazione dei suoli e la successiva concessione o vendita".

Il bando, però, spiega che il fabbisogno abitativo sarà comunque garantito.

"Ripeto: non è chiaro. La gara è aperta a soggetti indifferenziati, che non hanno i requisiti richiesti per l'edilizia residenziale pubblica, e che quindi, si presume, dovrebbero poi a loro volta cedere i suoli agli assegnatari degli alloggi. E dove sarebbe il contenimento dei costi? E come verrebbero determinati i prezzi popolari che sono alla base della "167" se l'asta, per sua natura, fa lievitare il costo dei suoli e quindi del prezzo di cessione successivo?".

Cosa hanno risposto dalle Isole Tremiti?

"Con risposte non esaustive sul rispetto delle finalità di quel piano che, ripeto, deve soddisfare i fabbisogni abitativi dei residenti. Anzi: intanto ci sono le autorizzazioni a costruire in quelle aree, proprio perché c'è un interesse generale che è quello di dare case a prezzi equi a famiglie a basso reddito. È bene chiarire che senza quell'interesse generale, con il pronunciamento favorevole anche del comitato urbanistico regionale, il piano di edilizia economica e popolare che autorizza le ruspe e le gru per costruire case sull'isola, non ci sarebbe stato".

Si può sempre fare una variante per rendere appetibile ciò che allo stato potrebbe non apparire conveniente?

"E chi le autorizzerà? Le Tremiti sono un'area protetta. Ci sono pareri paesaggistici da dare. Aggiudicarsi i terreni non basta".

Cosa propone di fare?

"Abbiamo invitato le Isole Tremiti a riesaminare l'attività amministrativa posta in essere e a valutare l'opportunità ad esercitare l'autotutela. Quei terreni devono restare pubblici perché l'interesse generale è di costruire case popolari".

Ma non è un interesse generale anche rimettere in ordine i conti del Comune visto che la legge consente questo tipo di alienazioni?

"Si possono usare altri cespiti. Si può agire sul mercato delle seconde case che alle Isole Tremiti è molto fiorente. Si può ritoccare la Tarsu. Le Isole Tremiti sono un comune turistico, tra i più apprezzati, anche fuori dai confini regionali, una potenzialità che in Puglia hanno pochi Comuni".

La cinquecentesca, aragonese Torre Talao domina la piana di Scalea. Il mare l’ha circondata per secoli, trasformandola in baluardo contro le incursioni dei pirati saraceni. Ma il pericolo ora viene da terra: progetti megagalattici, un porto turistico con barriere a mare alte 6 metri e con strutture che si allargheranno sino a trasformare completamente il litorale, con un impatto disastroso sull’ambiente. Ci sarà un'altra torre, stavolta tutta di cemento, che minaccia di oscurare quella antica e che controllerà un porto da 510 posti barca, più yachting club, centro commerciale e attrezzature di servizio.

Tutto sembra fatto e ormai deciso. C’è stata una gara nel 2007 ,indetta dal Comune di Scalea e la società che l’ha vinta, subito ha ampliato il progetto originario (che prevedeva un porto con poco più di 300 barche e una concessione di 30 anni), raddoppiando in sostanza il numero degli attracchi e portando a 90 gli anni della concessione. Per rendere affascinante la nuova struttura, che scaverà la terra attorno al promontorio, trasformandolo in un’isola circondata dal mare e che avrà ai fianchi le dighe di cemento, i progettisti si sono rifatti alle immagini del luogo (come si presentava la Torre agli inizi del ‘900).

Che fine faranno le grotte del periodo paleolitico, scavate da archeologi dalla metà dell’Ottocento e che, sino al 1970, hanno restituito tanti oggetti lavorati dall’uomo di Neandertal abitatore di quel promontorio 30-40 mila anni fa? Lo scavo e la rimozione di quella terra che ha occluso e conservato parte di quei documenti primordiali, le cancellerà annullando la stessa memoria storica: uno scempio incredibile. Com’è avvenuto dalla seconda metà del ‘900, quando la speculazione edilizia (pesantemente condizionata da ndrangheta e camorra) ha cementificato e stravolto la piana degli oliveti e degli agrumeti, facendo nascere un’altra città, con palazzoni enormi di cemento,una sorta di “Scampia 2”che si anima solo d’estate, portando la popolazione da 10.000 a 100.000 persone, senza fogne né discariche adeguate, così quasi tutto finisce nel mare.

Il nuovo porto turistico peggiorerà la situazione rischiando di far la fine di altre mastodontiche infrastrutture portuali rimaste incompiute o abbandonate per mancanza di richieste di attracco. Un grido d’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dai cittadini di Scalea nel Convegno promosso dall’Associazione “Scalea 2020”: nell’Italia del Sud , su ogni 100 posti solo un terzo viene utilizzato e in Calabria, nel tratto di costa (100 Km.) Praia–Vibo Valentia, la Regione ha approvato un sistema di 13 porti e approdi turistici con un’offerta di ben 5.000 posti barca che coprirà ampiamente, da solo, la richiesta rischiando di rendere inutile il megaporto di Scalea.

Non solo (ed è questo il dato allarmante emerso dal Convegno) in Calabria sono stati realizzati, nell’ultimo trentennio, molti porti turistici, lontani dai grandi bacini d’utenza e pertanto poco sicuri, mal collegati, poveri di infrastrutture e di servizi. Porti che non hanno mai prodotto la ricchezza annunciata. Ed un po’ lo scenario che si prospetta anche per Scalea, con la sua torre aragonese, la Torre Talao “recintata e circondata (avverte l’Associazione Scalea 2020) da un desolato, spoglio parcheggio di barche o, peggio ancora, da uno squallido e deserto cantiere abbandonato”.

Il Comitato per la Bellezza fa appello al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, alle Soprintendenze calabresi, a quanti ancora possono intervenire affinché venga scongiurato questo nuovo pesantissimo sfregio alla costa calabra, con un megaporto che si annuncia come l’ennesima colata di cemento: un autentico suicidio, anche sul piano turistico, in realtà.

Per il Comitato per la Bellezza: Vittorio Emiliani, Vezio De Lucia, Luigi Manconi, Paolo Berdini, Fernando Ferrigno

Sempre caro mi fu questo parcheggio da 50 posti auto più servizi igienici per le comitive in transito e – forse – pure l’allegra fila dei pullman in attesa coi motori accesi per mantenere il fresco d’estate e il tiepido d’inverno. Il Comune di Recanati non molla. Da anni vuole piazzare una struttura per accogliere altre automobili proprio su quel Colle dell’Infinito dove il poeta si sperdeva. Ma, al giorno d’oggi, c’è poco da indugiare, le casse piangono e bisogna trovare nuove iniziative per rilanciare le attività urbane. Ergo, nonostante il cambio di governo dal centro-destra a centrosinistra – con relativo passaggio dell’ex sindaco Pdl alla presidenza del Centro Nazionale di Studi Leopardiani –, l’idea avanza, procede, resiste. E si scontra con le romantiche aspirazioni di chi, in città, vorrebbe solo quiete e bellezza ad attrarre i turisti, non parchimetri e wc sanitarizzati.

Roberto Verdenelli, del Movimento Cinque Stelle, è furibondo: “Nel 2009, quando ha vinto la coalizione guidata dal Pd, speravamo venisse accantonata questa idea di spargere ancora cemento in un paese di ventimila abitanti che ha bisogno di intelligenza e di investimenti davvero culturali per sviluppare la sua vocazione turistica. Invece qua sono convinti che basti aggiungere 50 posti auto giusto sotto Casa Leopardi per far arrivare più gente. La verità è che vengono le gite scolastiche, un po’ di turismo stagionale, e per il resto zero. Il Cnsl non ha mai richiamato un granché, ed è pure un edificio bruttino, del periodo fascista: adesso che gli vogliono togliere gli alberi intorno non ci guadagnerà di sicuro”.

L’opera burocraticamente avviata dall’ex sindaco Fabio Corvatta e sostenuta ora dal successore Francesco Fiordomo dovrebbe cadere proprio su un versante del celebre colle al momento ricoperto da piante e alberi ad alto fusto, un’area che apparteneva al Cnsl ma che il Comune ha espropriato. “Non sarebbe più economico, più giusto, più naturale lasciare l’area così com’è? Come la vedeva il nostro famoso concittadino, un angolo di quel “natio borgo selvaggio” che tanto ci inorgoglisce e rende la nostra cittadina unica al mondo?” si sono chiesti quelli di Cinque Stelle in un comunicato che riprende il ping pong tra il settimanale “l’Espresso”, autore di un appello contro nuove costruzioni in loco, e il sindaco che ha risposto prontamente. “Nessuna nuova palazzina sotto l’Infinito” garantisce Fiordomo omettendo la notiziola sul parking e citando i consueti concetti di sviluppo, turismo et similia.

“Il problema è che questi politici fanno una gran confusione quando parlano di cultura ” sostiene Andrea Lodovichini, regista marchigiano, già aiuto di Paolo Sorrentino e vincitore di premi internazionali ma diventato famoso via Youtube per la protesta sullo spot della Regione Marche con Dustin Hoffman. Spiega: “Contestai alla Giunta la scelta di investire milioni di euro in quel progetto con modalità poco trasparenti, un bando lanciato in fretta e furia che ha scatenato la polemica nella polemica di far recitare a una star mondiale i versi del Leopardi. Risposta delle istituzioni: minacce di querela per i miei video in cui, mettendo in rete documenti pubblici, chiedevo conto di quelle scelte”. Secondo Lodovichini, i politici mescolano marketing e testi sacri, pubblicità e storia, piccoli interessi di parte e una gran paura di cambiare. “Sono tentativi puerili, con risultati spesso sterili. Io avevo riunito un gruppo di 110 artisti, Marche Autori, per sviluppare le arti audiovisive in una Regione capace di grande talento: dopo la storia degli spot non se n’è fatto più nulla, nessun finanziamento ci è arrivato, e si è sciolto tutto. Invece pare che Hoffman farà anche la terza edizione della pubblicità: spero funzioni per gli alberghi e i ristoranti, ma se si voleva spingere la cultura dei giovani e delle arti più contemporanee si poteva investire anche su altro”. Marche regione verde, con borghi e città, collina e spiagge, arte e cucina: un vero man-tra negli ultimi anni. “Però poi le scelte concrete vanno in un’altra direzione – sottolinea Anna Maria Ragaini del comitato No rigassificatore di Porto Recanati.

La Regione aveva dato parere favorevole all’installazione di due rigassificatori da piazzare a pochi chilometri dalle coste. Per quello più a Sud, praticamente davanti Loreto, ha fatto marcia indietro nonostante l’ok del Ministero dell’Ambiente. Per quella più a nord, davanti ad Ancona, il progetto è invece molto avanti grazie all’erroneo presupposto che, con questa concessione, il Gruppo Api manterrà il tenore dell’occupazione attualmente impegnata nel settore petrolifero. Ma nell’accordo siglato tra Api e Regione non si fa riferimento ai 380 operai e all’indotto, nessuno sa se questo rischio e questa bruttura serviranno all’economia o esporranno a danni incalcolabili le spiagge, il mare, l’intero ecosistema”.

Anche lo scrittore fermano Angelo Ferracuti è poco soddisfatto dalle logiche di investimento operate negli ultimi anni: “Marche o Italia cambia poco, l’idea è sempre quella dei ‘poteri fermi’, come li chiamava Paolo Volponi. Apriamo oggi un Premio in suo onore, a Fermo. Si parla di impegno civile, di argomenti poco attraenti e per nulla sponsorizzati. Rieditiamo alcuni scritti fondamentali in cui lui, scrittore e politico, criticava scelte scellerate come l’abbandono della linea ferroviaria Roma-Urbino o il taglio della scala mobile. Era un pensatore che, dal cuore di una piccola ma sapiente regione italiana, pensava con preoccupazione a una società superficiale, ingorda, atavicamente legata alle sue mafie e massonerie. Volponi oggi è di un’attualità imbarazzante, e certo non approverebbe nessuna di queste scelte, dal rigassificatore al gorgheggio di Dustin Hoffman sull’Infinito”. Con annesso parcheggio.

Corriere della Sera

Gli ulivi sterminati, la ferita del Salento

di Gian Antonio Stella

«Un bel paesaggio una volta distrutto non torna più e se durante la guerra c'erano i campi di sterminio, adesso siamo arrivati allo sterminio dei campi», scrisse Andrea Zanzotto, scomparso una ventina di giorni fa. Pensava alla sua campagna veneta, ma non solo. Ed è il dolore del grande poeta trevigiano che ti viene in mente guardando l'angosciante servizio che una giornalista di Telerama, un'emittente pugliese, ha dedicato allo stupro del paesaggio nel Comune di Carpignano Salentino, poco a nord di Maglie, nel Salento. Dove le ruspe hanno estirpato centinaia di bellissimi ulivi per fare posto a una centrale fotovoltaica.

L'abbiamo scritto e riscritto: nessuno, a meno che non accetti la rischiosa scommessa nucleare, può essere ostile alle energie alternative e in particolare a quella solare. Ma c'è modo e modo, luogo e luogo. Un conto è sdraiare i pannelli in una valletta di un'area non particolarmente di pregio e da risanare comunque perché c'erano i ruderi di una dozzina di capannoni d'amianto, come è stato fatto in Val Sabbia col consenso di tutti i cittadini, di destra e sinistra, un altro è strappare quelle piante nobilissime che la stessa Minerva avrebbe donato agli uomini e che fanno parte della nostra storia dalla Bibbia all'orto di Getsemani fino alle poesie meravigliose di Garcia Lorca: «Il campo di ulivi / s'apre e si chiude / come un ventaglio...».

C'è una legge in vigore, laggiù nel Salento. La numero 14 del 2007. Il primo articolo dice che «la Regione Puglia tutela e valorizza gli alberi di ulivo monumentali, anche isolati, in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché quali elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale». Né potrebbe essere diversamente: l'ulivo è nello stesso stemma della regione. È l'anima della regione. Eppure, denuncia Telerama, il progetto di quell'impianto «Saittole» da un megawatt della Solar Energy, è stato regolarmente presentato al Comune di Carpignano e da questi approvato nonostante l'area fosse agricola e fertile. Di più, l'autorizzazione finale è stata data dallo stesso assessore regionale all'agricoltura Dario Stefano che oggi dice: «Verificherò».

Certo è, accusano il Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e il Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, che quegli alberi che crescevano solenni su quattro ettari di uliveto secolare, come dimostrano le immagini registrate, «sono stati espiantati e ripiantati accatastati gli uni agli altri come pali di una fitta palizzata, lungo il margine del fondo, senza neppure le dovute prescritte cure d'espianto riportate nella stessa autorizzazione, ad esempio la prescrizione della presenza di una zolla del raggio di almeno un metro». Un delitto. Che fa venire in mente quanto scriveva Indro Montanelli: «Ogni filare di viti o di ulivi è la biografia di un nonno o un bisnonno». Buttare giù quelle piante non è solo una porcheria: è un insulto ai nostri nonni.

la Repubblica Bari

Il Pdl chiede meno vincoli, ma è rivolta: “Vogliono cemento al posto degli alberi”

di Antonio Di Giacomo

Una levata di scudi per difendere gli ulivi. È unanime la bocciatura della proposta di modifica della legge regionale per la "Tutela e valorizzazione degli ulivi monumentali della Puglia", presentata nei giorni scorsi da Massimo Cassano, consigliere regionale del Pdl. "In Puglia ci sono 60 milioni di ulivi e - premette Cassano - di questi, 5 milioni sono delle vere opere d'arte della natura. "Monumenti" che devono sì essere tutelati, ma non necessariamente a esclusivo danno delle esigenze di sviluppo del territorio". Secondo il consigliere, insomma, la salvaguardia degli ulivi rischia di risolversi in un ostacolo all'economia regionale. "Si tratta di agire al più presto - suggerisce - nella duplice ottica della tutela del paesaggio e nel contempo del rispetto dei diritti acquisiti dai privati relativamente, ad esempio, alle aree edificabili, alle lottizzazioni, o al diritto degli imprenditori agricoli di fare reddito e, quindi, di poter riconvertire l'azienda. Tutte esigenze che, in molti casi, vengono al momento frenate o addirittura inibite dalla legge regionale. A questo punto occorre agire, in tempi brevi, per decentrare a livello comunale le competenze per il rilascio di autorizzazioni agli espianti e spostamenti di piante secolari e dei necessari controlli per il rispetto delle norme, prevedendo maggiori deroghe e snellendo assurdi procedimenti burocratici".

Una prospettiva che fa saltare dalla sedia l'urbanista Dino Borri, presidente regionale del Fai: "Mi sembra un'idea folle. E per svariate ragioni. La Puglia è una terra che ha l'ulivo come una specie di bosco coltivato e diffuso, che andrebbe anzi tutelato e vincolato al pari di una foresta. Oltre a essere un elemento costitutivo dell'identità paesaggistica, i milioni di ulivi presenti nella regione rappresentano sia una risorsa produttiva per l'economia territoriale che uno strumento di tutela idrogeologica con uno straordinario valore ecologico. Sicché reputo impensabile l'idea che si possa manipolare questa risorsa per fini di edificabilità". Non solo. A sentire Borri la stessa legge regionale di tutela degli ulivi, pure elevata a modello, non è di per sé sufficiente. "La Regione dovrebbe anzi accrescere i livelli di salvaguardia - osserva - applicando agli ulivi i criteri della foresta naturale. E non riesco a capire, in tal senso, perché si debba operare una distinzione fra gli ulivi monumentali e la stessa diffusa coltivazione degli ulivi dell'età moderna, risalenti al '700 e '800, e altrettanto importanti. Si pensi, dunque, agli ulivi disseminati in Capitanata come in Salento e Valle d'Itria. Da qualsiasi punto di vista si prenda la vicenda mi pare, insomma, che quelle di Cassano siano affermazioni insensate e violente".

Un'analisi condivisa da Gianni Picella che interviene nel dibattito, in nome del Centro studi permanente per la salvaguardia degli olivi monumentali nel Mediterraneo. "La proposta del consigliere del Pdl - accusa - dietro il paravento dello snellimento delle procedure per ottenere le autorizzazioni all'espianto di esemplari di olivi monumentali tende, invece, chiaramente a favorire la speculazione edilizia e le lottizzazioni". Da qui la preoccupazione, poi, rispetto al fatto che "non si può consentire che una domanda anche generica, documentata male, per nulla o addirittura falsamente, consenta per un qualsiasi ritardo o intoppo burocratico che la legge venga aggirata e che alberi monumentali vengano distrutti. È vero, un illecito si può forse perseguire, un palazzo edificato in dispregio alle leggi si può talvolta abbattere, ma un ulivo di 500 anni divelto non ce lo potrà mai restituire nessuno".

Difendere le rive dal lago dall'assalto del cemento. È questo l'obiettivo del Comitato appena costituito a Desenzano, al quale hanno aderito 250 cittadini gardesani - di nascita o di adozione -, compreso il notissimo cantautore Roberto Vecchioni, vincitore dell'ultima edizione di San Remo. Coinvolgimento dettato dagli stretti legami fra l'autore di «Luci a San Siro» e il Garda, visto che il «professore» ha insegnato al liceo Bagatta ed ha abitato a Barcuzzi.

«Il valore di Desenzano è sotto minaccia - ha recentemente dichiarato Vecchioni -. Il progetto del lungolago che invade con il cemento le rive del lago ha dell'incredibile. Per me, milanese di nascita e gardesano d'adozione che ha scelto di frequentare questi luoghi abitandovi, il dispiacere è grande. Ma è anche grande la volontà di sostenere tutti coloro come il Comitato "Difendiamo le rive dal cemento", che si sono ribellati a questo stato di cose».

Postilla

ottima cosa, che per la tutela del paesaggio e delle risorse naturali del paese, si schieri anche una voce molto importante in termini di visibilità, come quella di un cantante. Se ne ricordano in molti, di cosa ha voluto dire ad esempio il concerto dello stesso Vecchioni a sostegno dell’allora considerata impossibile candidatura di Giuliano Pisapia a Milano. E l’impegno contemporaneo dei musicisti per le questioni urbanistiche a memoria del sottoscritto risale almeno alla fine degli anni ’50, quando il giovane cantautore Bob Dylan fu contattato dall’attivista Jane Jacobs per comporre una ballata in difesa del loro quartiere Greenwich Village, minacciato dal progetto di un’autostrada urbana.

Ma per fare a tutti i costi l’avvocato del diavolo, le attuali dichiarazioni di Vecchioni, pur certamente in ottima fede, potrebbero rischiare di apparire poco più di un’espressione nimby , magari a difesa della veduta dal terrazzo del soggiorno, più che degli interessi generali. Perché è giusto ricordare che appena l’anno scorso lo stesso Vecchioni senza troppo pensarci su si dichiarava favorevolissimo a spostare le sue famose Luci a San Siro, insieme a tutto l’impianto dello stadio, dentro al Parco Agricolo Sud Milano. Sicuramente preso alla sprovvista, per carità, magari anche per colpa di chi queste cose le capisce, ma sempre si spiega poco e male fuori dal dibattito di bottega. Cerchiamo, tutti, di far meglio in futuro, eh? (f.b.)

Studi che sembrano copia-incolla da Internet. Di più: relazioni stilate da dietro la scrivania, senza aver visto i luoghi. C’è chi si è dimenticato di un vulcano sommerso. Si presentano al ministero dell’Ambiente e permettono di piantare pozzi petroliferi a pochi passi da isole come Pantelleria, Favignana e Marettimo.

Lo dice in un comunicato anche la Northern Petroleum, una delle società interessate: “La legislazione italiana che vieta le trivellazioni off-shore entro le 12 miglia dalla costa avrà un effetto irrilevante...”. Come dire: le trivellazioni vanno avanti. Un mistero, gli abitanti sono contrari. Enti locali di entrambi gli schieramenti hanno votato “no”. Ma lungo le coste della sola Sicilia incombono 40 concessioni per ricerche ed estrazione petrolifera. Alcune con procedura in corso, altre già rilasciate. Insomma, si può cominciare. Da Pantelleria, per esempio. Proprio qui, domenica prossima, abitanti e frequentatori (tra cui gli attori Luca Zingaretti e Isabella Ferrari) si ritroveranno per protestare. “Vogliamo risposte e chiarimenti. Troppi punti sono oscuri”, chiede Alberto Zaccagni, uno degli organizzatori.

Il Fatto Quotidiano ne aveva parlato nel maggio 2010. Erano passati cinque giorni dal disastro della piattaforma della Louisiana quando l’allora ministro Claudio Scajola, con sfortunato tempismo, aveva varato un decreto “per semplificare le procedure per le attività di ricerca petrolifera svolte d’intesa con le Regioni”. Uno dei suoi ultimi atti prima delle dimissioni.

E dire che già l’Eni negli anni Ottanta aveva abbandonato i pozzi perché antieconomici. Stavolta, secondo l’associazione AltraSciacca, molti permessi sono già stati concessi in gran segreto, “senza la pubblicità prescritta”. I primi cinque arrivano nel novembre 2006 (governo di centrosinistra). “Ad aggiudicarseli sono stati la Shell e la Northern Petroleum (tra Marettimo e Favignana). Poi tocca alla Audax Energy e nel 2009 (era Berlusconi) alla San Leon Energy”, è la ricostruzione di Ignazio Passalacqua, consigliere provinciale di Trapani (centrosinistra), in prima fila contro le trivellazioni. Concessioni vecchie di anni, alcune forse scadute, ma ottengono una sospensione “sine die” pubblicata sul Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi e delle Georisorse.

Tutti vogliono trivellare il mare siciliano. Colossi e società sconosciute: “La San Leon Energy è una srl con capitale di diecimila euro. La sede è in un paesino della Puglia. Anche il Fatto ha provato a contattarli, ma ai recapiti forniti rispondono altre società. Non solo: la ditta risulta inattiva ed è stata ceduta a una società madre in Irlanda”. Niente di irregolare, però elementi che, secondo le associazioni, suscitano allarme: “Come si fa a concedere a un soggetto di queste dimensioni sondaggi tanto delicati? In caso di disastro su chi rivalersi?”, si chiedono l’ingegner Mario Di Giovanna e l’associazione AltraSciacca. La Audax Energy, altra società che vanta diritti importanti, ha un capitale di 120mila euro e rientra nella galassia di imprese del geologo Luigi Albanesi. Un nome che ricorre in questa storia: come esperto, ha firmato studi per le società petrolifere. Anche le proprie. E qui Mario di Giovanna ha qualcosa da dire: “Niente di illecito, ma ci pare poco opportuno che lo stesso amministratore firmi le relazioni tecniche delle sue imprese”. Studi, come ha ammesso l’interessato, compiuti senza recarsi sul luogo, perché in Sicilia ci va, “ma al mare”.

Dopo le polemiche dell’anno scorso si era cercato di frenare le trivellazioni, ponendo limiti (da 5 a 12 miglia dalle coste e dalle zone protette) per le ricerche. Alcune domande erano state bocciate. La corsa, però, è ripresa indisturbata.

Ma perché così interessati alla Sicilia? No, non pare che sotto l’isola si nasconda un mare di oro nero. Le ragioni sono altre: le royalties che le compagnie pagano alla Sicilia sono tra le più basse d’Italia (l’Emilia Romagna con quantità inferiori di idrocarburi incassa 33 volte di più), che già vanta royalties tra le più basse del mondo. Lo dicono i produttori nei loro siti: “La struttura delle royalties in Italia è una delle migliori del mondo. Per i permessi offshore le tasse sono solo del 4 per cento, ma nulla è dovuto fino a 300.000 barili l’anno”. E pensare che in Libia si arriva all’85 per cento, in Norvegia e Russia all’80.

Così nel rapporto annuale di una delle società, la Cygam, il nostro Paese viene eletto “il migliore per l’estrazione di petrolio off-shore”, forse anche per “l’assenza di restrizioni e limiti al rimpatrio dei profitti”.

Par di capire: di petrolio ce n’è pochino, magari si provocano danni ambientali. Ma il profitto è garantito. Ai petrolieri.

LUCA ZINGARETTI

POZZI NEL MEDITERRANEO, UN GIALLO PER MONTALBANO

“Ci stiamo giocando alcuni tra i tesori del Mediterraneo, diamo il via libera a pozzi di petrolio che nasceranno ovunque. E tutto questo sta avvenendo nello stile aumma aumma, come i compagnucci della parrocchietta”. Luca Zingaretti, il commissario Montalbano, è tornato sul luogo del delitto, la Sicilia. Anzi, nella sua Pantelleria: “Quando sono sbarcato qui la prima volta, appena sceso dall’aereo ho capito che il mare per me sarebbe diventato questo, così scuro, difficile da raggiungere. Stupendo”. Ma stavolta sarà una vacanza di protesta: domenica 14 manifestazioni anti-trivellazioni petrolifere.

Ma Zingaretti ci tiene a fare una premessa: “Non vogliamo difendere soltanto Pantelleria, perché qui viviamo o abbiamo la casa. No, protestiamo contro le trivellazioni che mettono in pericolo molti tratti delle coste italiane. Dalla Sicilia alla Riviera Romagnola”.

Montalbano riuscirà a risolvere il giallo delle trivellazioni a Pantelleria?

Non ci illudiamo di fermare la corsa al petrolio. Ma in Italia ci stiamo giocando il nostro mare senza che se ne parli, senza che nessuno se ne accorga. Non ci rendiamo conto di che cosa vuol dire mettere decine di pozzi di petrolio in un mare come il Mediterraneo.

Ce lo dica lei…

Avete visto che disastro terribile è successo in Louisiana perché si è guastato un pozzo petrolifero. Pensate se la stessa cosa succedesse nel Mediterraneo che è, appunto, un mare chiuso. Qui, se si rompe un impianto, la marea nera invade le coste di tutti i paesi. E poi nessuno parla di quelle vere e proprie bombe di profondità che vengono utilizzate per rilievi sottomarini con effetti devastanti sulla flora e la fauna.

Un rischio ambientale enorme…

Noi abitiamo in mezzo al mare, l’Italia è fatta di mare. È l’elemento centrale del nostro Paese, quasi la sua anima. Altrove è la campagna, sono i monti. Da noi credo davvero sia il mare. Dobbiamo trattarlo con maggiore cura. Ma non è soltanto una questione ambientale, è molto di più.

I sostenitori del petrolio dicono che porta denaro e autonomia energetica…

Ecco il punto. I pozzi a due passi da gioielli come Pantelleria, Favignana, Marettimo non convengono a nessuno, nemmeno da un punto di vista economico . La vera ricchezza del nostro Paese, che resta il più bello del mondo, non sarà mai il petrolio, ma semmai il turismo. E, in zone come queste, anche attività come la pesca. Ora immaginatevi concretamente l’impatto dei pozzi di petrolio sull’economia legata al mare: si rischiano migliaia di posti di lavoro.

Eppure qualcuno le deve aver date le concessioni a queste imprese...

Questo è il punto. Non si capisce chi abbia dato il via libera al petrolio. E come. Sembra impossibile: si parla di operazioni da decine di milioni di euro e a portarle avanti sono società con pochi euro di capitale. Non si riesce a sapere in base a quali criteri si affidino le concessioni. I politici, gli amministratori dovrebbero dare, a tutti noi, delle risposte. Invece niente, silenzio. Contano sul fatto che la gente si stufi di chiedere, che si arrenda. Ma stavolta non sarà così.

Realizzare nuovi porti turistici riconvertendo quelli commerciali dismessi. Una soluzione semplice, economica, sostenibile per combattere la cementificazione delle coste italiane rispondendo, allo stesso tempo, alla continua richiesta di nuovi posti barca. Va in questa direzione il protocollo sulla nautica sostenibile sottoscritto da ministero dell'Ambiente, operatori del settore ed enti gestori delle aree protette.

''I porti in disuso - spiega Stefano Donati, della direzione Protezione Natura e Mare del Minambiente - sono un centinaio. La loro conversione può consentire la creazione di circa 30.000 nuovi posti barca, senza aumentare le superfici cementificate sulle coste''. Anche secondo Legambiente, le infrastrutture dedicate alla nautica da diporto sarebbero tra i principali responsabili dell'impatto ambientale, in un settore generalmente sano e poco incidente sull'inquinamento marino.

Colpa, secondo Sebastiano Venneri, vicepresidente di Legambiente, di un ''malcostume dilagante per cui la realizzazione di queste strutture spesso non ha niente a che fare con le esigenze della nautica''. Le richieste dei diportisti mirano soprattutto all'aumento dei 140mila posti barca presenti oggi in Italia. ''Richieste legittime - commenta Venneri - alle quali si potrebbe rispondere senza aumentare il volume commerciale a terra, riutilizzando le strutture già esistenti".

"Oggi, invece, la costruzione di porti turistici - aggiunge Venneri - nasconde speculazioni commerciali, con tutto l'impatto sull'ambiente che ne deriva: erosione della costa e artificializzazione del litorale con ricadute sull'ecosistema e sull'economia locale''. Il problema di fondo sta, secondo il vicepresidente di Legambiente, nella pianificazione dei porti turistici, ''sottratta al controllo nazionale e affidata alle autonomie locali, comuni e regioni".

"Naturalmente - spiega Venneri - ogni comune vuole il suo porto turistico ed è così che ci troviamo di fronte a situazioni come quella del Porto di Villasimius che si è mangiato la Spiaggia del Riso e altri esempi di cattive realizzazioni''. Ma non mancano i buoni esempi, come il Porto di Acciaroli voluto dal ''sindaco pescatore'', Angelo Vassallo, ''realizzato con grande garbo e delicatezza e senza nulla togliere all'atmosfera propria del borgo marinaro della località, a dimostrazione che volendo tutto si può fare, nel rispetto dell'ambiente'', sottolinea Venneri.

A favore della cultura e dello sviluppo di una nautica sostenibile, il protocollo sottoscritto dal ministero dell'Ambiente prevede anche la realizzazione di campi boa a basso impatto. Anche in questo caso, si tratta di realizzare posti barca attraverso l'ancoraggio di cavitelli al fondale, evitando così il ricorso al cemento o a strutture che potrebbero impattare in maniera significativa sull'ecosistema.

Sul versante inquinamento, ogni barca ha la possibilità di raccogliere le acque nere e grigie, ma il problema di fondo è di nuovo nei porti, non sempre attrezzati per lo smaltimento, e nella normativa: è infatti obbligatorio per i costruttori predisporre la barca alle casse di raccolta delle acque nere, ma l'acquirente può scegliere se acquistare le casse oppure no.

E mentre il mare è in grado di smaltire perfettamente i reflui, un problema più grave è rappresentato dall'inquinamento chimico causato dagli oli esausti e dalle vernici, sebbene il loro impatto rappresenti sempre una percentuale relativamente contenuta (per farsi un'idea, basta pensare che il lavaggio di una cisterna causa, da solo, un danno ambientale pari a quello derivato da tutti i turisti da diporto).

Per migliorare la sensibilità dei diportisti in materia di difesa dell'ambiente marino, ''sarebbe utile -spiega Stefano Donati, della direzione Protezione natura e mare del Minambiente- prevedere un corpus di norme ambientali per il rilascio della patente nautica. In genere, il diportista tende a non essere ben informato. Al massimo si informa quando ha già commesso delle infrazioni''.

La corte d'appello di Perugia ribalta il giudizio di primo grado. L'edificio di cinque piani è sorto nel centro storico grazie al piano parcheggi del Comune. Ora rischia di crearsi un precedente per tutte le città d'arte dell'Umbria

Un palazzo di cinque piani proprio a ridosso delle mura antiche. Un edificio nuovo di zecca in una zona sottoposta al massimo vincolo paesaggistico. Un “ecomostro” nel centro storico di Spoleto, città d’arte della civilissima Umbria, famosa per il Festival dei due mondi. Si può fare. Anche se governa una giunta rossa con Pd, Rifondazione comunista e Idv. Anzi, può diventare un precedente per le tante cittadine gioiello della regione.

E’ la sentenza a sorpresa della corte d’appello di Perugia, che ha cancellato le condanne inflitte in primo grado dal Tribunale di Spoleto a sei persone: costruttori, direttori dei lavori e funzionari comunali. L’(ingombrante) oggetto del contendere sorge in via Interna delle Mura, in una zona nota coma la Posterna. Alto 16 metri, su una superficie 80 metri per 20, per 14 mila metri cubi di volume destinato a edilizia privata in virtù di un permesso di costruire rilasciato dal Comune nel 2006. Ma naturalmente un manufatto del genere, e in quella collocazione, non passa inosservato. I lavori avanzano, molti appartamenti sono acquistati da famiglie che ci andranno ad abitare, fino a che la Procura spoletina apre un’inchiesta. In città, intanto, il palazzo si guadagna il soprannome di “Mostro delle mura”.

Quel permesso di costruire, argomenta l’accusa retta dalla pm Federica Albano, è illegale. Ha concesso indici di edificabilità troppo alti, 7,50 metri cubi per ogni metro quadro di superficie, di gran lunga superiore a quella consentita del centro storico di Spoleto, grazie a un contestato scambio di volumetrie nel progetto. L’iter, infatti, era partito nella seconda metà degli anni Novanta, quando la Findem, di proprietà del geometra Rodolfo Valentini, aveva presentato al sindaco della cittadina umbra un progetto per riconvertire un vecchio magazzino in un “edificio polifunzionale” comprendente un’autorimessa da 478 posti auto. Il piano comprendeva anche un’area di proprietà del Comune, che comunque ci avrebbe guadagnato in termini di posti auto.

Partiva in quegli anni il progetto “Spoleto città senz’auto” per la mobilità alternativa, e tutti quei parcheggi all’ingresso del centro storico sarebbero stati utili. Ma le cose prendono una piega tutta diversa. Dopo una serie di passaggi e ridefinizioni del piano di intervento presentato dai costruttori, e una serie di annullamenti da parte della Sovrintendenza di Perugia dovuti all’incompatibiltà con il vincolo paesaggistico, nel 2006 arriva finalmente l’agognato permesso, intestato alla società Madonna delle Grazie, subentrata alla Findem. Il parcheggio pubblico, che era il solo obiettivo di “Spoleto città senz’auto” diventa secondario, sovrastato dall’edificio di edilizia privata, dove è concentrata la volumetria disponibile.

In base a queste contestazioni, l’8 luglio 2010 il tribunale di Spoleto chiude il processo di primo grado con sei condanne per reati urbanistici, in quanto la costruzione lungo le mura interne avrebbe “distrutto e alterato le bellezze naturali del centro storico della città di Spoleto”. Ne fanno le spese Valentini, il patron dell’operazione, l’amministratore della Findem Francesco Demegni, gli architetti Giuliano Macchia e Alberto Zanmatti, direttori dei lavori, il dirigente dell’Urbanistica comunale Giuliano Maria Mastroforti, il funzionario comunale Paolo Gentili. La sorte del “Mostro delle mura” sembra segnata. Sui costruttori avanza l’ombra di una prossima demolizione.

Il 13 luglio di quest’anno, invece, arriva il colpo di scena. La sentenza della corte d’appello di Perugia assolve tutti: il cantiere della Posterna è regolare. Le motivazioni, attese in autunno, spiegheranno la scelta dei giudici, che potrebbe avere effetti pesanti sulla tutela dei magnifici centri storici della regione: “Questa è una sentenza pilota”, hanno commentato gli avvocati della difesa. ”In Umbria non vi sono, né vi sono mai stati, a partire dall’anno 2000, casi analoghi a quello in causa”, aveva sottolineato nella sua requisitoria il sostituto procuratore generale Roberta Barberini. “La domanda che in questo processo ci si pone”, ha continuato, “in fondo è: si possono costruire grattacieli in centro storico, effettuando un’apparente cessione di cubatura da un’area destinata alla realizzazione di un’opera pubblica (i parcheggi di “Spoleto senz’auto”, ndr)?

La risposta, evidentemente, è sì.

Salina. Un insediamento turistico a cinque stelle mascherato da progetto culturale, “I Giardini dell’Eden”, per il quale sarebbero stati chiesti finanziamenti regionali da parte di una società i cui titolari sarebbero finiti in passato nel mirino delle indagini dei carabinieri di Messina. La demolizione di fabbricati rurali per fare spazio a decine di villette di un residence. Una strada che conduce ai “Giardini” che cancellerebbe svariati ettari di aree verdi e incontaminate. E poi aggressioni e danneggiamenti ai cittadini che denunciano e ricorrono al Tar per respingere quest’ondata di cemento senza precedenti, ritenuta dai residenti illegale e forse anche criminale, che sta per abbattersi su Pollara, la contrada di Salina, nelle Eolie, che fu il set di Troisi nel film Il postino, premio Oscar nel ’94 per la migliore colonna sonora, uno dei luoghi più belli del Mediterraneo, dichiarato, come l’intero arcipelago, patrimonio mondiale dell’Unesco.

Proprio all’Unesco, oltre anche alla regione siciliana, al ministero dell’Ambiente, alle associazioni ambientaliste da Legambiente al Wwf (ma anche ai carabinieri e alla procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto) si è rivolto un gruppo di residenti, turisti e non, che ha firmato un esposto denunciando il clima insostenibile che si respira nell’isola: tra gli aderenti al comitato spontaneo costituito per fronteggiare la colata di cemento vi sono anche i fratelli registi Paolo e Vittorio Taviani e l’eurodeputato Claudio Fava, ma altre firme note sono in corso di raccolta.

“Pollara è stata oggetto nel corso degli ultimi anni di una preoccupante espansione edilizia tale da minarne il pregresso assetto bioambientale – scrivono i residenti nell’esposto – nonché le normali dinamiche civili, essendosi verificata un’escalation di aggressioni e fatti violenti ai danni di alcuni cittadini, regolarmente denunciati alle competenti Autorità”.

Dopo i numerosi esposti e le denunce al Tar per fermare gli scempi edilizi il clima si è fatto incandescente e sono stati gli stessi Carabinieri a mettere in guardia i residenti dal non esporsi eccessivamente, suggerendo loro di riunirsi in un comitato che portasse avanti le legittime istanze di ripristino della legalità.

La battaglia dei residenti si muove verso un obiettivo: fermare il progetto “Il Giardini dell’Eden rubati agli Dei”, in contrada Mancuso (in zona Ovest rispetto al mare) ritenuta una mega-speculazione edilizia che trasformerebbe totalmente, stravolgendoli, i luoghi del set di Troisi, protetti da un vincolo di immodificabilità assoluta, sancito dal piano paesistico delle Eolie, la legge regionale 78 del 1976. Secondo i residenti il progetto, che prevede l’istituzione di “fattorie didattiche”, una fortunata formula di agriturismo già sperimentata con successo in varie parti d’Italia, dall’Emilia Romagna, al Veneto al Trentino Alto Adige, per avvicinare turisti e residenti alla cultura (e alla coltura) della terra, nasconderebbe una colossale speculazione edilizia.

Il comitato ha già chiesto l’accesso agli atti del progetto, per controllarne la legittimità, ma nell’esposto denuncia che “è in corso di redazione il piano regolatore generale, nel quale sarebbe prevista anche la costruzione di una imponente strada che dalla via Leni condurrebbe, sventrando parte delle attuali aree verdi, alla ctr. Mancuso ed alla “fattoria didattica”, prevista dal progetto del “Giardino dell’Eden”.

La variante è il primo atto giuridico del progetto che i residenti intendono fermare, una colata di asfalto davanti al mare di Salina che stravolgerebbe intere aree verdi, rimaste intatte da millenni. Il destinatario dell’appello è, in questo caso, il comune di Malfa al quale i cittadini chiedono di “disporre il non luogo a procedere e/o il rigetto espresso della istanza o delle istanze pendenti che violino o ledano il patrimonio naturalistico ambientale di Pollara, con particolare riferimento alla prevista strada ed agli interventi di natura alberghiero-ricettiva di contrada Mancuso, e delle altre opere ‘agricole-didattiche’ in territorio di Pollara”.

Le ruspe lavorano. Il verde della vegetazione mediterranea scompare, lascia spazio al giallo della terra che emerge, come una ferita. Ecco la grande piscina dell’Hotel Roca di Monterosso. Piscina dei record: sarebbe la prima di tutte le Cinque Terre. Non ancora finita e già si trova al centro delle polemiche, e degli esposti degli ambientalisti. Non solo: il suo progettista è l’architetto Mario Semino. Già, negli anni Ottanta era Sovrintendente della Liguria, insomma era il custode del patrimonio architettonico e ambientale della regione. Mentre oggi è l’autore di un progetto che fa tanto discutere. Strano destino. E c’è chi ha paura che quella piscina (di acqua salata pompata dal mare), quella chiazza azzurra sospesa sul mar Ligure possa essere il passo decisivo verso il definitivo sbarco del Partito del Cemento alle Cinque Terre, uno dei tratti di costa più famosi d’Italia. Dove ogni anno arrivano milioni di turisti, molti stranieri.

I primi allarmi sono partiti negli anni scorsi. Gli ambientalisti puntarono il dito contro la costruzione di villette nel villaggio turistico a picco sul mare di Corniglia (operazione sostenuta da Franco Bonanini, l’ex direttore del Parco, vicino al centrosinistra, arrestato l’anno scorso). Poi ecco il nuovo edificio destinato a ospitare una scuola nei boschi di Pianca. Quindi la sede del Parco vicino alla stazione di Manarola. Per finire con la funivia che dovrebbe partire alle spalle di Monterosso. Insomma, alle Cinque Terre gli allarmi si moltiplicano.

Ma il racconto deve partire dall’inizio, da Monterosso, comune feudo del centrodestra. Primo, semplicemente perché qui l’opposizione non esiste. Il centrosinistra non è nemmeno presente in consiglio comunale. Roba da fare invidia alla Cuba di Fidel. Secondo, perché da queste parti si ritrovano tanti esponenti del mondo berlusconiano, da Luigi Grillo, potente presidente della Commissione Opere Pubbliche e Comunicazioni del Senato, a Maurizio Belpietro, direttore di Libero. Qui gli ambientalisti sono a mal partito. Si battono contro i nuovi garage, contro verande che compaiono all’improvviso su vecchi palazzi storici in riva al mare. L’ultimo allarme è proprio lei, la piscina dell’Hotel Roca.

Praticamente l’unica di tutte le Cinque Terre. Ma leggendo la relazione tecnico-descrittiva del 2004 sembra che non possano esserci dubbi: “La proprietà ha ritenuto indispensabile dotarsi di piscine”. Non solo: “Il Comune ha ritenuto il soddisfacimento di tale esigenza di sicuro beneficio per l’Hotel Roca nonché di miglioramento dell’immagine complessiva turistica del Comune di Monterosso”. Ancora: “Il nuovo Piano Regolatore in itinere, gia’ritenuto meritevole di approvazione dalla Regione Liguria, ha previsto in zona limitrofa all’albergo la possibilita’ di realizzare la piscine”.

Claudio Frigerio dell’associazione Ambiental-Mente, uno dei pochi a essersi battuto negli ultimi anni contro le operazioni immobiliari alle Cinque Terre, non e’ d’accordo. E ribatte punto su punto: “Non si capisce perché sia stata approvata la realizzazione di questa piscina, l’unica di una zona super tutelata, di un Parco Naturale”. Non solo: “Per consentire la realizzazione della piscina si è derogato a tutti i livelli di pianificazione territoriale, a livello comunale (Piano Regolatore), a livello di Parco Naturale e perfino a livello regionale”. Come è stato possibile? “Qualcuno ha sostenuto che la piscina per i clienti dell’albergo va costruita perché di interesse pubblico”. Ma il Piano Regolatore “in itinere” cui fa riferimento la relazione tecnica? Frigerio sorride:”E’ in itinere da dodici anni”.

Negli uffici del Comune respingono le accuse: “E’ tutto in regola”, assicurano. Certo, quella macchia chiara in mezzo al verde delle alture a picco sul mare, quelle ruspe che si mangiano i rilievi fanno venire la pelle d’oca. Non soltanto agli ambientalisti, ma alle migliaia di persone che con il primo sole della primavera sono arrivate a Monterosso. Adesso la parola passerà alla Procura che dovrà occuparsi dell’esposto (finora non ci sono indagati). Ma in Comune sono convinti della scelta e vanno avanti per la loro strada. Del resto non c’è nemmeno l’opposizione.

La tutela del patrimonio archeologico all’italiana: ruspe che lavorano senza sosta per realizzare dieci milioni di metri cubi di capannoni industriali e spianano le colline dove sorgeva la città sabina di Cures. Dove basta camminare nei campi per trovare resti di antiche ville, necropoli, acquedotti e templi. Siamo a Passo Corese (Rieti), a 40 chilometri da Roma: miliardi di euro di investimento per il cantiere più grande d’Italia. Un progetto voluto da centrosinistra, centrodestra e sindacati. Tutti d’accordo, tranne i comitati degli abitanti che si vedono scomparire le colline. E gli archeologi che qui speravano di poter trovare i resti della città di Numa Pompilio e Tito Tazio, antichi re di Roma.

Ormai è perfino difficile immaginare la vita degli antichi sabini, con l’immenso cantiere che stravolge il paesaggio. Allora il nostro viaggio deve partire da una fotografia: ecco una cascina, quella terra chiara che ti ricorda il sole e ti dice che sei al Sud. Poi i campi segnati da solchi precisi. È un’immagine recente, ma sembrano passati secoli. Adesso vedi soltanto caterpillar. I rilievi morbidi che segnavano il paesaggio sono spariti insieme con il profumo e i rumori della campagna. Senti soltanto quelli dei motori e voci di operai.

È il 2000 quando il Consorzio per lo Sviluppo Industriale della Provincia di Rieti (un soggetto pubblico) lancia un nuovo piano regolatore consortile che prevede un Polo Logistico a Passo Corese. Sulle mappe è una grande macchia blu a due passi dal Tevere.

Basta sovrapporre la carta a quella tracciata dagli archeologi per accorgersi che la campagna qui è una miniera: ovunque trovi antichi cocci, resti millenari. Nel 1980 Maria Pia Muzzioli dedica a queste colline uno studio nella prestigiosa collana Forma Italiae. In pochi metri quadrati sono censiti 189 siti archeologici. Il risultato di uno studio del 2000 per la British School of Rome è ancora più sorprendente: una ricognizione superficiale rivela i resti di 13 ville. Senza contare i depositi di materiale antico e i 4 insediamenti del Paleolitico.

L’area è dentro al Parco archeologico

“È un sito ricchissimo perché la presenza dell’uomo comincia migliaia di anni fa e lascia tracce fino all’epoca romana. Qui si trovava l’antica Cures, con il suo porto sul Tevere. E forse anche le catacombe di Sant’Antimo”, è convinta l’archeologa Helga Di Giuseppe che ha lavorato con la British School. “La cosa più straordinaria – racconta Muzzioli – è, anzi era, il contesto, l’insieme, che si è mantenuto integro per migliaia di anni”.

Già, fino all’arrivo delle ruspe. È Paolo Campanelli (presidente dell’associazione Sabina Futura che si batte contro il progetto) a ripercorrere le tappe: “Nel 2001 un’inserzione invita le società a manifestare il loro interesse. Nel 2003… ma c’è stata una vera gara?... arriva la convenzione con l’Ati che realizza il progetto miliardario e avrà in concessione le aree per 99 anni”.

Intanto nel 2004 viene siglato il Piano Territoriale e Paesistico della Regione Lazio (presidente Francesco Storace): l’area dei capannoni è compresa nelle mappe delle zone a “vocazione di Parco Archeologico”. Non importa: il progetto va avanti. Ma che cosa prevede esattamente? Sembra l’Eden, a sfogliare l’opuscolo con cui gli enti locali – il comune di Fara Sabina e la Provincia di Rieti, entrambi di centrosinistra – informano i cittadini di quello che sta per accadere alla loro terra. “Il Polo logistico, la nuova risorsa di Passo Corese”, è il titolo. Poi fotografie di prati verdi, dove mamme con le carrozzine si muovono felici. Intanto nel 2009 con poche righe la Regione (guidata da Piero Marrazzo) approva una variante al piano regolatore consortile che porta la volumetria dei capannoni a quasi 10 milioni di metri cubi.

A confrontare le colline spianate dalle ruspe con le immagini dell’opuscolo viene qualche dubbio. Così come colpiscono al computer: “Duecento ettari di capannoni alti 15 metri, quasi l’equivalente di una città come Rieti”, raccontano all’associazione Sabina Futura. E snocciolano i dati: “Le ruspe si stanno portando via 1.400 ulivi, 3.000 viti, 3.000 alberi da frutto, cento ettari di coltivazione a foraggio e cento a grano”.

Non ci sono solo conseguenze sul patrimonio archeologico, ma anche sull’agricoltura. I sostenitori del progetto parlano di centinaia di nuovi posti di lavoro. Possibile, ma quanti ne sarebbero arrivati (e sono invece andati perduti) se una campagna intatta e vicina a Roma avesse investito nel turismo?

L’opera porterà 4 milioni di indennizzi

Fabio Melilli, presidente della Provincia di Rieti dal 2004 e presidente dell’assemblea regionale del Pd Lazio, si dice “favorevole” al progetto. Racconta: “È un’area strategica con l’autostrada e la ferrovia, è naturale che il Polo nasca qui”. E le critiche di abitanti e associazioni? “Legittime, ma tardive. Il progetto è di dieci anni fa, se lo avessimo bloccato avremmo dovuto pagare milioni di risarcimento”. Ma i resti archeologici? “La Sovrintendenza finora non ha trovato nulla di straordinario”. Questa è una delle campagne più belle d’Italia, ogni weekend vengono migliaia di romani in cerca del verde… “Vero, siamo nella Val d’Orcia del Lazio…”. Ma in Toscana non costruiscono 300 ettari di capannoni… “Si può ridurre l’impatto del Polo con strutture più attente all’ambiente”.

Chissà. Vincenzo Mazzeo, sindaco di Fara Sabina, difende il progetto: “Frange estreme lanciano messaggi apocalittici. Il Polo porterà lavoro. Noi abbiamo preteso che fossero realizzate opere viarie e depuratori”. La sinistra anche nel Lazio è amica del cemento? “Falso, noi abbiamo stoppato il mega-progetto di un nodo intermodale delle Ferrovie”. Mazzeo, però, aggiunge: “Io non ho più l’Ici sulla prima casa, dove prendo i soldi, come risolvo i problemi? Quest’opera ci porterà quattro milioni di indennizzi”. Il sindaco, come il presidente della Provincia, spiega: “Comunque il progetto è stato avviato prima del mio arrivo”. Ammette: “Quando vedo tutta quella roba là mi si chiude il cuore… A nessuno sta a cuore la Sabina più che a me, ho investito sulla produzione dell’olio, sull’ambiente.

E da oggi cambieremo e invertiremo il ciclo”. Troppo tardi, forse.

Affare miliardario e mattone

Ma chi sta dietro il cantiere miliardario? Nella società Parco della Sabina spa che realizza l’opera sono soci (con l’1% ciascuno) la Provincia di Rieti, il Comune di Fara Sabina e il Consorzio per lo Sviluppo Industriale di Rieti presieduto da Franco Ferroni. Ma la parte del leone l’hanno i privati: tra questi – con il 44% – la Seci che fa capo al Gruppo Maccaferri, uno dei giganti emiliani delle costruzioni. Il presidente Gaetano Maccaferri è anche stato numero uno dell’Associazione industriali di Bologna. Giuliano Montagnini, presidente della “Parco della Sabina”, siede in tante società immobiliari e miliane, a cominciare dalla Edilcoop.

Nel 2008, il Silp – sindacato di polizia della Cgil – parlava di “palesi tentativi di infiltrazioni della criminalità organizzata” proprio nella zona di Passo Corese. Spuntava il nome dei Casalesi, che hanno fatto la loro fortuna con il mattone. Anche se la camorra non c’entra con le società che realizzano il Polo,qualche cautela pare doverosa.

C’è anche chi teme che il Polo possa trasformarsi in una gigantesca operazione immobiliare. Avverte Campanelli: “Sono in costruzione a servizio del Polo un depuratore sufficiente per 30.000 abitanti e un campo pozzi capace di prelevare 1.300.000 litri d’acqua al giorno, cioè il fabbisogno di 25-30.000 abitanti. Non vorremmo che attraverso qualche alchimia all'italiana, come il Piano Casa della giunta Polverini o altri provvedimenti, si riuscisse a trasformare l'area in zona residenziale. Così sulle rive del Tevere potrebbe nascere una città grande come Rieti”.

Dopo una breve «primavera» ambientalista, la Calabria è tornata nelle mani degli speculatori. Al degrado da congestione di città e centri costieri, con abusi edilizi a go go, fa da contraltare il dissesto da abbandono delle zone interne, che provoca continue frane. In un territorio a rischio sismico.

In Calabria il cambio di colore dell'amministrazione regionale non è stata una sorpresa. Troppi gli influssi negativi attorno ad Agazio Loiero e alla sua amministrazione. Alcuni forse eccessivi, visto che in alcuni settori il centrosinistra calabrese aveva segnato non pochi elementi significativi. Tra questo quello del territorio. In quell'ambito in pochi anni l'assessorato regionale (Urbanistica e Governo del Territorio) guidato dall'ambientalista Michelangelo Tripodi (Pdci), ha reso operativa la nuova Legge Urbanistica (fatto senza precedenti nella quarantennale vicenda della Regione Calabria) ed ha approvato le Linee guida di Avvio della Pianificazione, un metapiano che definiva le regole per la tutela di ambiente e paesaggio e la riqualificazione sostenibile del territorio regionale. Questo si inquadrava in una logica di programmazione dello sviluppo regionale basato su risorse locali e cultura identitaria, alternativa alle opzioni del governo centrale che condannano la Calabria alla funzione di area socialmente disponibile per il capitale oligopolistico, speculativo e globalizzato, destinato a riceversi megastrutture scomode e grandi opere inutili e dannose.

Dopo circa un secolo lo "Sfasciume Pendulo" denunciato da Giustino Fortunato è sostanzialmente ancora tale. Anzi la situazione appare aggravata da una crescita edilizia e insediativa abnorme e squilibrata, rappresentata dalle dimensioni del volume costruito - oltre 800 milioni di metri cubi per poco più di due milioni di abitanti - che si concentra in una decina di «ambiti di concentrazione dell'insediamento», che si estendono su una fascia di urbanizzazione densificata pari a meno del 20% della superficie regionale.

A fronte di questo «degrado da congestione di città e centri costieri», le aree interne e le corone collinari soffrono invece di dissesti da abbandono. Quello che erano un tempo economie e produzioni di altura e di montagna sono scomparse lasciando il campo ad un "deserto", in cui l'assenza di antropizzazione significa obliterazione e mancata cura del territorio. L'assetto idrogeologico è diventato così un'emergenza urgente ed assoluta: ogni temporale di dimensioni appena rilevati diventa una catastrofe con crolli, rotture, interruzioni di collegamenti e attrezzature e, spesso, danni anche agli abitanti.

Al rischio idrogeologico si aggiunge quello sismico: la gran parte del territorio calabrese è «soggetto a rischio sismico di primo grado», ma solo poche strutture sono state messe in sicurezza. Il Quadro Territoriale Paesaggistico aveva previsto l'avvio di un programma speciale di risanamento ecologico del territorio, razionalizzando ed ampliando l'impiego di risorse già allocate in Regione. Gli esecutivi di centrodestra, nazionali e regionali, hanno cancellato tale posizione, congelando il Quadro Territoriale Paesaggistico e il Programma Operativo Regionale e dirottando i fondi Fas su operazioni affatto diverse, tra l'altro non calabresi e neppure meridionali.

Le politiche urbanistiche degli anni scorsi tentavano di sancire la fine della Calabria «dell'abusivismo e della villettopoli costiera», per disegnare nuove regole di tutela e una riqualificazione dell'assetto fondata ancora sulle caratteristiche del paesaggio. La partecipazione della base ambientalista al processo di pianificazione favoriva la riattribuzione di un ruolo strutturante alle risorse ecopaesaggistiche nelle politiche territoriali. Così dalle Linee Guida al Quadro Territoriale, ai Piani Provinciali, alla strumentazione comunale, si guardava di nuovo alla configurazione individuata decenni or sono da grandi studiosi come Manlio Rossi Doria e Lucio Gambi: una società regionale fortemente incardinata sulla propria struttura ambientale. Tale scenario di riferimento si fonda sul sistema rilievi-costa-fiumare. I quattro massicci interni (Pollino, Sila, Serre, Aspromonte) costituiscono zone geologicamente tuttora salde, ricche d'acqua, dal patrimonio ecopaesaggistico assai rilevante, anche se reso fragile dall'abbandono dell'attività primaria. I circa 750 km di costa rappresentano anch'essi una grande risorsa ambientale, purtroppo saccheggiata da un insediamento di dimensioni clamorose, sovente abusivo, che significa degrado e dequalficazione del paesaggio litoraneo. Il terzo grande elemento ecopaesaggistico di identificazione del territorio calabrese è costituito dalle oltre 220 fiumare e fiumarelle, che hanno costituito storicamente altrettanti sottosistemi dotati di propria organicità ecoterritoriale e socio-economica, oltre che elementi di legatura e collegamento rispetto ai maggiori contesti, sistemi interni, montani e collinari, le rade pianure e i due collettori costieri. La riqualificazione delle fiumare, anche con strumenti speciali e mirati (parchi fluviali, patti, contratti di fiume) permettono la riqualificazione paesistica, anche delle grandi macchie urbane che segnano oggi il territorio calabrese. In generale la tutela delle strutture paesaggistiche favorisce la riqualificazione del territorio, dal risanamento degli ambienti rurali, alla ripresa estetica, tipomorfologica, della città e degli insediamenti costieri.

Il processo di pianificazione partecipata promosso con le politiche territoriali degli anni scorsi non si limita peraltro alla tutela del paesaggio ed al risanamento ambientale. Le risorse culturali e paesistiche vengono anzi proposte e affermate quali elementi strutturanti per la riqualificazione dei luoghi urbani e addirittura per opzioni di crescita e sostenibilità sociale. Riprendendo e allargando un approccio già contenuto nella programmazione regionale, il Quadro Territoriale Paesaggistico riconosce tra i contesti un certo numero di categorie territoriali (basate ciascuna sulla propria identità paesaggistica) e, in funzione dei caratteri di questa, avanza programmi di riassetto territoriale e di localizzazione ed ampliamento di attività culturali e imprenditorialii,anche nuove. In questo quadro il territorio regionale è suddiviso in 16 contesti di sviluppo sostenibile: tre città metropolitane, i quattro grandi massicci interni - oggi Parchi Nazionali o Regionali - un certo numero di ambienti urbano-rurali ed alcuni ambiti di riqualificazione e sviluppo turistico costiero. Le tre grandi aree urbane principali prefigurano altrettanti paesaggi di città metropolitane: si affermano le istanze della cultura e della conoscenza (Università) a Cosenza, le funzioni direzionali e terziarie a Catanzaro, le valenze ecopaesaggistiche e turistico-culturali (Stretto di Messina e Aspromonte) di nuovo collegate a conoscenza e ricerca, a Reggio.

Nei Parchi (Pollino, Serre, Sila e Aspromonte) lo sviluppo turistico si declina nell'integrazione con l'intera "filiera della sostenibilità ecoculturale", visiting sociale e ambientale, ricerca e didattica, educazione, uso culturale del tempo libero; oltre che con le nuove istanze di produzione primaria, legata alle produzioni locali, anche bio. Nelle aree ex rurali, la limitazione dell'ingombrante insediamento degli ultimi anni comporta, oltre la ripresa, specie innovativa, delle attività produttive, anche la tutela e la valorizzazione di beni immateriali (parchi ambientali in luogo di attività agricole). Negli ambiti costieri la riqualificazione paesaggistica ed il risanamento ambientale regolano e qualificano l'insediamento turistico esistente.

L'intero quadro territoriale è arricchito dal riconoscimento, affermazione e valorizzazione del patrimonio artistico, storico- culturale e archeologico, assai rilevante, esistente in Calabria. Dalle vestigia magno- greche ai centri storici greci e albanesi, ai poli religiosi, alle fortificazioni, ai beni sparsi, si possono prospettare reti che attribuiscono ulteriore qualificazione culturale e paesaggistica ai programmi e i progetti previsti per ciascun ambito territoriale. La "primavera" del territorio calabrese non tentava soltanto di segnare una svolta di per sé significativa nella gestione urbanistica, nella fruizione dell'ambiente e nella tutela del paesaggio. Prospettava ambiziosamente un modello di sviluppo sostenibile e partecipato, basato sulle risorse culturali e paesistiche, alternativo alle politiche centrali.

La svolta nella politica regionale ha bloccato tutto ciò, rilanciando invece il ruolo della Calabria come spazio socialmente disponibile per operazioni speculative, territoriali e finanziarie, promosse dai grandi interessi del capitale globalizzato, che trovano nel governo nazionale e dintorni grande spazio. Non è un caso che i primi atti dell'Ufficio Regionale siano consistiti nel blocco del Quadro Territoriale Paesaggistico descritto (già adottato in Giunta, era stato inviato al Consiglio per la definitiva approvazione) e nel rilancio della versione calabra del "Piano Casa" caro a Berlusconi, rifiutato dall'amministrazione precedente. Torna dunque la Calabria dello sfascio,delle grandi operazioni inutili e dannose - e spesso incompiute - dell'abusivismo, del "mare di cemento", dei disastri e dei dissesti. A tutto questo devono opporsi quei soggetti sociali, movimenti e associazioni,che avevano partecipato invece con grande entusiasmo alla nuova - e troppo breve - stagione della pianificazione sostenibile nella regione. E tutti coloro che hanno a cuore la difesa dei luoghi di vita, propri e altrui.

Una colata di cemento è in arrivo a Monterosso, Vernazza e Riomaggiore, nel cuore del parco delle Cinque terre. Merito del piano regolatore comunale e di una variante paesistica ancora in discussione. Ufficialmente si chiama «edilizia residenziale sociale». In pratica si tratta di speculazione immobiliare, anche in territori a rischio frane. E la regia politica è bipartisan

Trenta villette (ufficialmente alloggi Ers-edilizia residenziale sociale) e un mega parcheggio con campo da calcio: a Monterosso al mare, pieno parco nazionale delle Cinque terre, tesoro dell'Unesco, potrebbero colare metri cubi di cemento, grazie ad alcune stranezze dei piani regolatori comunali e una variante paesistica regionale ancora allo studio. Un cemento promosso dal centro-destra (lo è la giunta comunale) col consenso dell'ex presidente del parco, Franco Bonanini, uomo del Pd, ora agli arresti domiciliari dopo l'inchiesta sulla malversazione di fondi pubblici e altri reati. Insomma, cemento bipartisan.

Il commissario del ministero dell'ambiente al parco delle Cinque terre, Aldo Cosentino, qualche settimana fa aveva detto al manifesto di non essere a conoscenza di tentativi di speculazione edilizia sul territorio del parco delle Cinque terre precisando che «già oggi ogni costruzione deve avere il parere del parco, come previsto dal dpr costitutivo del parco del '99».

Bene, abbiamo scoperto che nel Comune di Monterosso, che insieme a Vernazza e Riomaggiore insiste sul territorio del parco nazionale, potrebbero essere realizzate trenta case mono e bifamiliari, in località Villa Mesco, una collina incantevole a precipizio sul mare, sulle alture di Monterosso, sempre nel territorio del parco, come dimostra la cartina a fianco che fa parte di documentazione depositata dai progettisti presso gli enti competenti. Com'è possibile?

Prima di tutto, Monterosso non ha un vero e proprio piano regolatore in vigore: caso più unico che raro il Comune è infatti in regime di salvaguardia da ben dodici anni, vale a dire che il vecchio piano regolatore nato nel 1977 è scaduto nel 1987 e quello successivo adottato nel 1998 non ha mai completato l'iter di approvazione. Secondo la legge, in questi casi si è appunto in regime di salvaguardia e vale il piano più restrittivo tra i due, però val la pena notare che entrambi sono nati prima della nascita del parco (1999) e che da allora non è stato emanato nessun nuovo strumento urbanistico. Intanto neanche il parco ha un piano a tutti gli effetti e nemmeno un regolamento: un piano è stato adottato nel 2002, avrebbe dovuto essere approvato quattro anni dopo e non è successo. Tanto che una sentenza del Tar Ligure del 2008 ha annullato un parere negativo dell'ente parco e del comune di Monterosso su un condono edilizio, perchè «si dà per scontato quello che non è: che il piano adottato, operativo in salvaguardia, sia immediatamente e pienamente efficace; che la disciplina urbanistica-territoriale anteriore, comprensiva di quella limitativa connessa all'istituzione del parco, sia stata sostituita o abrogata dal piano ancora in itinere sebbene la legge annetta tale efficacia alla definitiva approvazione del piano del parco».

L'idea delle trenta casette parte con la giunta precedente e lo stesso sindaco di oggi, Angelo Maria Betta. Alla fine di marzo del 2009 la giunta emanazione di una lista civica di centro-destra approva una «riqualificazione urbana dei percorsi protetti per i nuovi alloggi Ers». Arrivano le elezioni e a luglio 2009 s'insedia un'altra giunta monocolore di centro-destra, formalmente presentata con la lista civica "Per Monterosso", capitanata sempre da Betta, che riesce a ramazzare 911 su 1.136 votanti (99 schede bianche e 126 non valide) in un comune di millecinquecento abitanti: un vero plebiscito. Per di più l'elezione per la prima volta avviene senza una lista concorrente. Alla fine la giunta è tutta della lista civica di centro-destra. Il consiglio comunale tutto destra e centro-destra, con due indipendenti ma di destra.

Betta dal 2005 è vicepresidente del consiglio del parco e membro del consiglio direttivo del parco stesso, dove è stato nominato con decreto del ministero dell'ambiente tra i cinque rappresentanti degli enti locali nella Comunità del Parco. Praticamente è il braccio destro di Bonanini, un alleato prezioso dall'altra parte dello steccato politico, protetto dal nume del territorio, il senatore Pdl Luigi Grillo che a Monterosso possiede una casa con vigneto poi trasformata in agriturismo dove produce vino doc e Sciacchettrà.

Il 16 luglio s'insedia la nuova giunta e si scaldano i motori. Infatti la cooperativa, La Rondine, che promuove la costruzione delle trenta abitazioni e ha sede a La Spezia, a novembre avvia le pratiche per gli allacciamenti alle forniture idriche ed elettriche. Il documento acquisito dal manifesto parla di «abitazioni sociali (circa una trentina) in località Mesco in Comune di Monterosso al mare». Intanto diversi monterossini si attivano su consiglio di qualche amministratore per accaparrare metri quadri di terreno a Villa Mesco da ignari contadini, convinti che si tratti solo di un terreno agricolo. Il manifesto ha visto l'atto di vendita di un terreno di 12 ettari a uliveto e un altro per un vigneto di un ettaro, comprati per poche centinaia di euro. Fingendoci anche noi interessati all'affaire, un socio della cooperativa edilizia ci ha spiegato che il primo requisito è essere abitanti a Monterosso da almeno cinque anni: «siamo stati incaricati dagli enti locali di avviare una sottoscrizione tra chi risiede a Monterosso e non sia proprietario di una casa. Abbiamo già una sessantina di soci, perché molti si sono iscritti nella speranza che altri rinuncino. A breve faremo la convenzione col Comune». Si tratta infatti di edilizia convenzionata e la cooperativa assicura ai suoi iscritti che i lavori inizieranno entro un paio d'anni per cui le consegne delle abitazioni potrebbero avvenire già entro tre anni. Un'altra monterossina ha versato 60 euro e dice di essere stata informata che il costo complessivo di ogni abitazione supererà i 400 mila euro. Se fosse vero, strana edilizia pubblica convenzionata.

Mentre in Comune il progetto passava sottotraccia, il grimaldello viene trovato in Regione, dove è al vaglio una richiesta di variante del Piano regionale di coordinamento paesistico (si chiama Ptcp). L'area di Villa Mesco risulta classificata come «insediamenti sparsi - mantenimento» e potrebbe trasformarsi invece in zona di «insediamento diffuso», permettendo quindi la speculazione. Intanto il parco nazionale ha adottato ma non approvato il suo piano, che anche se varato sarebbe in scadenza nel 2012. Infatti dalle intercettazioni dell'inchiesta, Bonanini ne stava già scrivendo un altro. Il piano in vigore comunque fa fede: come ha sentenziato una deliberazione della giunta regionale «nelle more dell'approvazione del piano del parco trovano applicazione le disposizioni contenute nell'allegato A del d.P.R. 6 ottobre 1999, ovvero in salvaguardia le norme del piano del parco come sopra adottato se più restrittive». Bene, il piano del parco classifica quella zona in parte come l'area D (promozione economica e sociale), in parte come area di protezione-sistema terrazzato in equilibrio C1 e poi come foresta. La prima prevede che vi si possa costruire solo modificando il piano regolatore comunale e per di più con un passaggio in Regione, mentre nelle aree C sono previsti solo restauri e manutenzione dei rustici esistenti senza nessuna possibilità di ampliamento («restano esclusi gli interventi che costituiscano incremento della superficie utile lorda e della volumetrie esistente») e il bosco deve restare bosco. Quindi tornando alle 30 villette, il piano prevede per le aree C che «l'adozione di nuovi strumenti urbanistici e loro varianti, generali e parziali, deve essere preceduta da intesa con l'ente parco» e infatti un «protocollo d'intesa fra il comune di Monterosso al mare e il parco nazionale delle Cinque terre - strumenti urbanistici» è passato nella seduta consiliare di Monterosso del 25 maggio scorso. Un primo via libera incassato.

Le sorprese non finiscono qui, perché guardando i piani di bacino della Provincia di Spezia (ambito 19-Cinque terre) si scopre che l'area interessata dall'intervento immobiliare in parte risulta avere una suscettibilità di dissesto media, vale a dire è mediamente a rischio frane.

Le speculazioni edilizie non si fermano alle villette «popolari». A Monterosso è anche in via d'ultimazione un parcheggio per 300 posti auto a ridosso del centro. I lavori in corso sono stati affidati alla ditta Monterosso Park srl, con sede a Genova, con la progettazione dell'architetto Angela Zattera che per il Comune firma da tempo diversi progetti. Anche questo progetto ha avuto l'avvallo del Parco con un protocollo d'intesa del settembre del 2008, nonostante l'esistenza nell'area di un vecchio mulino che verrà conservato, non certo valorizzato, dal parcheggio. Ma nelle intercettazioni dell'inchiesta sul parco Bonanini parla dei «parcheggi di Monterosso con una società del senatore Grillo» e in un'altra dice che non avrebbe mai dovuto dare le autorizzazioni ai parcheggi. Il plurale parcheggi non è peregrino perché in località Molinelli, sotto le trenta casette, c'è un altro progetto per un altro parcheggio che una volta ultimato avrà in cima un bel campo da calcio. Il progetto preliminare è già passato in giunta. Si parla di un valore di 16 milioni di euro. Certo il disegno delle cementificazione era strettamente vincolato all'appoggio politico di Bonanini, ma chissà che qualcun altro non sia già pronto a dare il suo avvallo.

Nel Veneto delle migliaia di sfollati nelle province di Verona e Padova, della città di Vicenza allagata, dei 121 comuni gravemente colpiti dagli straripamenti, di un disperso a Caldogno per la piena del Bacchiglione, delle frane nel trevigiano e delle strade interrotte, si sono permessi lo stravagante lusso di tagliare perfino i fondi per la manutenzione ordinaria di fiumi e canali. E lo hanno fatto concentrando le sforbiciate proprio nelle zone ora più in sofferenza, Padova e Vicenza. Da un momento all’altro, di colpo, hanno cancellato circa 15 milioni di euro sui 100 impegnati di solito per ripulire i fossi, tenere in efficienza le casse di espansione, consolidare gli argini e riparare paratie e idrovore. È stata una decisione ponderata, presa addirittura con una legge, la numero 12 articolo 37, approvata dalla giunta uscente di Giancarlo Galan e sostenuta dalla stessa maggioranza di centrodestra che ora appoggia il leghista Luca Zaia.

L’intenzione dichiarata era quella di sgravare i cittadini da una tassa, i contributi che i proprietari di immobili fino a quel momento erano tenuti a versare ai Consorzi di bonifica per pagare lo smaltimento delle acque “meteoriche”, cioè le piogge. Al posto dei cittadini, a tirar fuori i soldi sarebbero stati i gestori dei servizi idrici integrati, per esempio le società degli acquedotti. Ma fino a questo momento non hanno versato nemmeno un euro e alla voce manutenzione idrogeologica nei mesi passati sono mancati, appunto, 15 milioni. Con questi quattrini si sarebbero evitati i disastri di questi giorni? Probabilmente no, ma forse i danni sarebbero stati più contenuti.

Di fronte all’esito disastroso delle scelte della giunta veneta, ora pare che tutti, maggioranza e opposizione, vogliano innestare una rapida marcia indietro, approvando un secondo provvedimento a correzione del precedente. Ma intanto il danno è fatto. E mentre il Veneto vive uno dei momenti più dolorosi della sua storia recente, nessuno è ancora in grado di assicurare se alla fine la manutenzione ordinaria sarà rifinanziata davvero e per intero e soprattutto se saranno attuati gli interventi strutturali di prevenzione su cui a parole nei momenti di emergenza tutti concordano, ma che di solito vengono speditamente riposti nei cassetti appena rispunta il primo raggio di sole.

L’Unione dei Consorzi veneti di bonifica, che con i suoi circa 1.300 dipendenti, in prevalenza operai, è uno dei pochi organismi che fa qualcosa perimpedire il peggio curando come può i 6 mila chilometri di canali della regione, ha calcolato che ci vorrebbero circa 750 milioni di euro per ridare sicurezza agli abitanti. Ma il presidente nazionale dell’associazione, Massimo Gargano, da mesi non riesce neppure ad accennare questi programmi al ministro, Stefania Prestigiacomo, da cui non è stato mai ricevuto. E neppure riesce a discutere con un delegato tecnico, magari un direttore generale.

Al Ministero non esiste più neanche una direzione specifica per la Difesa del suolo, è stata soppressa ed accorpata a quella per l’Inquinamento. Fonti ufficiali dicono che la decisione è stata presa nell’ambito di una riorganizzazione complessiva degli uffici che prevedeva la riduzione delle direzioni da 6 a 5, con l’obiettivo di risparmiare. Di fatto, però, in seguito a queste modifiche, i soggetti che dovrebberoavere scambi ripetuti e continui con gli uffici ministeriali sui temi dell’ambiente non trovano più nessuna porta aperta. La faccenda è tanto più anomala perché capita proprio nel momento in cui almeno sulla carta sarebbero disponibili i primi finanziamenti per gli interventi più urgenti, circa 1 miliardo e 200 milioni di euro dei Fas, i fondi per le aree sottoutilizzate, soldi in parte nazionali, ma soprattutto di provenienza comunitaria, da utilizzare con programmi concordati con le Regioni, i comuni e i Consorzi di bonifica.

Intanto, mentre le prime pioggeautunnali portano lutti e disastri, circolano previsioni da brivido per i prossimi mesi ed anni. Il presidente del Consiglio dei geologi, Antonio De Paola, in un voluminoso rapporto sullo stato del territorio redatto alcune settimane fa in collaborazione con il Cresme, il centro di ricerche economiche per l’edilizia, elaborando i dati Istat ha previsto che da ora al 2020 crescerà in maniera massiccia la popolazione nelle zone ad alto rischio sismico ed idrogeologico, circa 700 mila persone in più, in prevalenza immigrati, e metà si insedieranno proprio nel Nordest.

Alla domanda se l’evento è ineluttabile o se al contrario sarebbepossibile impedire che queste previsioni nefaste si avverino, risponde sconsolato che le leggi ci sarebbero e anche severe, ma nessuno, a cominciare dalla maggioranza dei sindaci, ha la minima intenzione di farle rispettare. Grazie alla disinvolta disattenzione delle autorità locali negli ultimi 15 anni è stato costruito ed asfaltato un pezzo d’Italia grande quanto il Lazio e l’Abruzzo messi insieme. Senza contare la marmellata delle case abusive spalmata su tutto il territorio nazionale.

Il Fatto Quotidiano

Contro le frane bastano 4 miliardi: la stessa cifra destinata al Ponte sullo Stretto

di Ferruccio Sansa,

Massa. Quattro miliardi e duecento milioni di euro. È la somma che, secondo l’Associazione Bonifiche, sarebbe necessaria per risistemare torrenti e rogge, pendii e canali di tutta Italia. Una cifra importante, ma non impossibile per un Paese come il nostro. Denaro che salverebbe migliaia di vite umane. E invece l’Italia preferisce investire altrove: grandi opere, ponti e autostrade di dubbia utilità almeno per i cittadini, ma certo vantaggiosi per le imprese.

Così ecco altre tragedie, lutti cittadini, disastri ambientali: 6 morti nell’ultimo mese in una Toscana fragilissima, ormai in allarme rosso, gli ultimi tre la scorsa notte a Massa, uccisi da una frana (mamma e bimbo abbracciati), un treno deragliato in Liguria, caos nel Veronese (2500 sfollati).

E poi di nuovo tutti avanti a costruire e a maltrattare il territorio. Mentre uomini e donne muoiono. Perché in Italia le frane sono migliaia ogni anno, colpa della conformazione geologica, ma anche della mancanza di cura del territorio: negli ultimi cinquant’anni, secondo i dati dell’Associazione nazionale Bonificheci sono state 470 mila frane, a una media di 9.400 l’anno (783 al mese). Una tragedia continua: a volte i giornali se ne ricordano, altre volte passa tutto sotto silenzio. Così ogni mese, in media, sei vite umane vengono spazzate via da crolli e fango: in mezzo secolo ci sono stati 3.500 morti.

Giampilieri, Serchio, Atrani: Paese fragile

È passato meno di un anno dall’alluvione della Toscana provocata dal lago di Massaciuccoli e dal fiume Serchio e siamo di nuovo da capo. Neppure un mese dal ritrovamento del corpo di Francesca Mansi, 25 anni, a Panarea, trascinata alle Eolie dalle correnti dopo esser stata travolta da una frana ad Atrani, in Costiera amalfitana il 9 settembre scorso. E quanti ricordano ancora il disastro di Giampilieri, in provincia di Messina, dove il 1° ottobre 2009 sono morte 39 persone? Pochi. E in Calabria? Quasi nessuno sa che soltanto a febbraio ci sono state 180 frane e che il 100 per cento dei Comuni della regione sono a rischio idrogeologico, come ricorda la Coldiretti. Intanto a pochi chilometri di distanza cominciano i primi scaviper il faraonico Ponte sullo Stretto voluto dal governo Berlusconi.

Un’opera che rischia – in una zona ad altissima penetrazione mafiosa – di avere ricadute positive solo per le tasche della criminalità organizzata, oltre che per quelle delle imprese che hanno vinto l’appalto. Di sicuro da un punto di vista scenografico (ed elettorale) paga molto di più un ponte lungo 5.300 metri, sorretto da due piloni alti 382 metri. Già, i più alti del mondo, c’è di che gonfiarsi il petto d’orgoglio. Invece, risanare tutti i rivi e i fiumi d’Italia, ridurre drasticamente il rischio delle frane sarebbe un’opera che pochi noterebbero e non porterebbe benefici politici. E pensare che il costo dei due progetti sarebbe quasi uguale: 3 miliardi e 900 milioni (salvo aumenti in corso d’opera) per il Ponte sullo Stretto, appena 300 milioni meno della bonifica del territorio di un intero Paese.

Scandalo Nuova Romea

Le maxi opere volute da centrodestra e centrosinistra costellano l’intera Penisola. Che dire della colossale autostrada Mestre-Orte-Civitavecchia (Nuova Romea)? Qui i miliardi messi in preventivo sono addirittura 10,8. A favore di quest’opera sono scesi in campo tutti. Ma lo sponsor più agguerrito è Pier Luigi Bersani, che è presidente dell’Associazione Nuova Romea. Il 28 ottobre 2008 il segretario del Pd ha presentato un’interrogazione in Parlamento per sollecitare l’avvio del progetto. Un atto che sembra preso con il copia e incolla dal dossier presentato dalla Fondazione Nord-Est di Confindustria (difficile capire chi dei due abbia copiato, però). Bersani, giustamente, ricorda che sulle strade della costa Romagnola il tasso di mortalità è uno dei più alti d’Italia. Quindi la nuovaautostrada sarebbe giustificata anche da ragioni di sicurezza. Ma i cittadini contrari all’autostrada contrattaccano: “Vero – spiega Mattia Donadel, dei Cat, Comitati ambiente e territorio della Riviera del Brenta – l’attuale percorso è pericoloso, ma con 10,8 miliardi si potrebbero risolvere i problemi di sicurezza di tutte le strade d’Italia”. E ricordano altre questioni spinose: i quasi 500 chilometri del percorso taglierebbero sei regioni, toccando – e stravolgendo– zone di pregio ambientale come il Delta del Po, l’Appennino tra le Marche e la Toscana (a due passi dalla Valmarecchia di Tonino Guerra o da Sansepolcro), poi la campagna umbra e quella del Lazio.

E intanto, continuano i comitati, “sulla realizzazione dell’opera si concentrano gli obiettivi di persone come Vito Bonsignore”, politico in orbita berlusconiana, che, però, non disdegna contatti con i leader del centrosinistra. Chi non ricorda la celebre telefonata nel bel mezzo del ciclone Antonveneta-Unipol del 2005: “Ho parlato con Bonsignore… evidentemente è interessato a latere in un tavolo politico”, disse D’Alema. Basta? Nemmeno per sogno: il governatore Roberto Formigoni è un sostenitore accanito dei progetti che porterebbero oltre 400chilometri di nuove autostrade in Lombardia. Milano ha bisogno di decongestionare il traffico, ma, come ricorda Legambiente, rispetto alle altre metropoli europee mancano metropolitane e ferrovie. Non certo autostrade e inquinamento. E invece via con l’asfalto in Lombardia, su cui aveva messo gli occhi anche la Cricca (come dimostrano le carte dell’inchiesta P3).

L’autostrada Spaccamaremma

Il caso della Livorno-Civitavecchia è simbolo di tutto questo. Sponsor numero uno: Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture e sindaco di Orbetello. L’autostrada che taglierà la Maremma sarà realizzata dalla Sat (che fa riferimento a Benetton). Presidente del cda Antonio Bargone, ex deputato dalemiano nominato anche commissario governativo per la realizzazione dell’opera. Costo previsto: 3,7 miliardi, a carico dei privati, ma poi lo Stato dovrà pagare la stessa somma per rientrare in possesso dell’opera. Appena 500 milioni in meno di quanto servirebbe per salvare tutta l’Italia dalle frane. Per evitare tragedie come quelle di ieri a Massa.

la Repubblica online

Meglio il Ponte o la Sicurezza

di Antonio Cianciullo

Ancora vittime di frana. Quante ce ne vorranno ancora per ridurre il rischio al livello minimo? Secondo una ricerca appena completata dal Cresme e dal Consiglio nazionale dei geologi i Comuni a elevato rischio sismico sono 3.069, per un’estensione di 140 mila chilometri quadrati, pari al 46 per cento del territorio italiano. In questi Comuni risiede il 40 per cento della popolazione. Inoltre 6 milioni di persone abitano nei 29.500 chilometri quadrati del nostro territorio considerato a elevato rischio idrogeologico. E un milione e 260 mila edifici sono minacciati da frane e alluvioni ( di questi oltre 6 mila sono scuole, 531 ospedali).

Tutto ciò ci è già costato caro: dal dopoguerra a oggi abbiamo speso 213 miliardi di euro per riparare le ferite del dissesto idrogeologico e dei terremoti. Ora si potrebbe invertire la rotta e cominciare a investire per curare il territorio invece che per incerottarlo. Ma per mettere in sicurezza le aree a rischio ci vorrebbero 40 miliardi e i soldi per la prevenzione vengono progressivamente tagliati, mentre i fondi per rimediare ai danni continuano – di conseguenza – crescere. I Verdi e le associazioni ambientaliste propongono una ricetta semplice: spostare le risorse che il governo intende investire sul Ponte sullo Stretto indirizzandole alla difesa del territorio dal punto di vista idrogeologico utilizzando tecniche di rinaturalizzazione che oltretutto aumentano i posti di lavoro. Perché non farlo?

«L’opera servirebbe a fermare lo spopolamento delle nostre montagne» «E’ un pretesto: in futuro si vorrebbe costruire un albergo a quattro stelle»

BOLZANO. Passo delle Erbe, 7 agosto. Un chiassoso corteo funebre interrompe la festa della Svp, il partito di lingua tedesca che da 60 anni governa l’Alto Adige. In testa al gruppo c’è l’albergatore-ambientalista Michil Costa, in mano stringe una piccola bara nera. «Salutiamo il Munt de Antersasc nato 250 milioni di anni fa e morto nell’estate 2010», recita la partecipazione in ladino consegnata ai politici sbigottiti. Non è un vero funerale, ma un colpo di teatro per protestare contro la costruzione di una strada da Passo Juel a malga Antersasc, nel bel mezzo del Parco naturale Puez-Odle, uno dei siti messi dall’Unesco nella lista dei patrimoni dell’Umanità.

Questo è solo l’episodio più eclatante di quella che in Alto Adige è chiamata «la guerra di Antersasc». Su un fronte ci sono gli abitanti della valle, i Verdi e la Federazione dei protezionisti sudtirolesi; sull’altro la Provincia - che ha autorizzato i lavori - e il Bauernbund, la potente associazione dei contadini. Ieri gli ambientalisti hanno vinto la prima battaglia: il Tribunale amministrativo regionale di Bolzano, infatti, ha bloccato il cantiere. «Non avevamo dubbi - esclama con soddisfazione Costa - Antersasc è un tesoro nazionale da tutelare. Certo, questo non è un abuso edilizio simile a quelli che si vedono nel resto d'Italia, ma è una ferita in uno dei luoghi magici delle Dolomiti».

Ma facciamo un passo indietro. Nei mesi scorsi - nonostante il parere negativo della Commissione ambiente - la giunta provinciale aveva approvato la delibera che dava il via ai lavori. Il progetto prevedeva una carrozzabile larga due metri e mezzo e lunga due chilometri per malga Antersasc, che appartiene a Johann Mair, un contadino. Obiettivo: arginare lo spopolamento delle montagne garantendo le infrastrutture ad agricoltori e allevatori. «Se una baita lavora, ha bisogno di una strada, così come una casa necessita di una scala e di una porta d’ingresso», questa la similitudine usata dal presidente della Provincia, Luis Durnwalder, per motivare la decisione. E così gli operai dell’Ispettorato forestale hanno iniziato ad abbattere i larici secolari e a scoperchiare la terra con le ruspe.

Da un giorno all’altro il silenzio delle cime è stato spezzato da un rumoroso cantiere. Ma gli ambientalisti non sono rimasti a guardare: nell’ultimo mese hanno organizzato manifestazioni, assemblee, e hanno creato anche un gruppo su Facebook (1400 adesioni). Alla fine la carta vincente l’ha giocata il Wwf, che ha presentato un ricorso contro la delibera della giunta al Tar. Ora è arrivata la decisione dei giudici amministrativi: stop alle scavatrici della Provincia. «La carrozzabile - dice Costa - è solo il pretesto per costruire un albergo a quattro stelle in futuro. Una storia già vista». Hans Pircher, il pastore che da vent’anni prende in affitto la malga, ammette di lavorare senza problemi utilizzando i sentieri di montagna, ma Mair - il proprietario - sostiene di avere bisogno della strada per curare meglio l’alpeggio. La Provincia lo appoggia e non si ferma: i tecnici stanno già valutando i progetti alternativi.

«Accettiamo la decisione del Tar - spiega l’assessore provinciale all’Ambiente Michl Laimer, l’unico in giunta disposto a un’apertura -. L’iter burocratico è stato azzerato, ma studieremo una soluzione più soft»; «Nessun compromesso, lotteremo ancora per difendere le nostre montagne», replica Costa. La guerra di Antersasc continua.

Ecomostri

Salento da salvare

di Stefano Miliani

Un’autostrada che fa tabula rasa di olivi secolari per 5 minuti di meno. 7 chilometri rovineranno il “Tacco d’Italia”

Muretti a secco in pietra su zolle dure, olivi antichi ed enormi, un territorio di lieve ondulazione dove l’odore de mare e della terra si confondono e si compenetrano, dove i paesi in cui d’estate e a Natale torna chi è andato altrove, sono collegati da un reticolo di strade e stradine. L’immaginario un po’ da cartolina eppure non lontano dalla realtà assegna questo scenario al «Tacco d’Italia»: a quel Salento che da un po’ di anni s’è conquistato una reputazione da meta paesaggisticavacanziera grazie a più varianti (umane, non urbanistiche): da un lato un risveglio culturale maturato intorno alla riscoperta della «pizzica» e delle tradizioni con i suoi addentellati culturalturistici, dall’altro grazie a un territorio parzialmente ben conservato e comunque, laddove non ferito, unico (e che ha peraltro affascinato più registi). Salvo mutamenti (non inversioni) di rotta, però, il paesaggio ultimo salentino verrà ferito gravemente da un’autostrada con un viadotto sproporzionato e una rotonda stradale a dir poco troppo invadente.

Un progetto, in origine pensato per comprensibili ragioni di sicurezza stradale lungo un tragitto segnato da troppi incidenti, raddoppia la statale 275 (la strada che porta da Lecce all’estrema punta del «Tacco»), nel tratto a sud di Maglie alle porte di Santa Maria di Leuca. Per l’ultimo tratto il piano ha incontrato forti contestazioni e diviso gli animi. Il Tar ha bocciato gli ultimi ricorsi del Comune di Alessano e di associazioni ambientaliste. Salvo copertura dei finanziamenti incompleta l’Anas avvierà i lavori nel 2011.

E mentre sul sito www.sos275.it l’omonimo comitato raccoglie firme per una petizione popolare, lotta per soluzioni più compatibili Luigi Nicolardi, sindaco di Alessano, paesino 11 chilometri a nord di Santa Maria di Leuca. Architetto, 50 anni, descrive allarmato lo scenario prossimo venturo: «I nuovi 7 chilometri dell’ultimo tratto dall’intersezione con la provinciale 210 a Santa Maria di Leuca taglieranno in due l’ultima propaggine delle serre salentine. Per realizzarli costruiranno un viadotto lungo 500 metri con 13 coppie di piloni alti 12 metri: avrà bisogno di essere preceduto e seguito da due terrapieni di altri 500 metri ciascuno, creando alla fine una piccola montagna larga 30 metri e lunga un chilometro e mezzo.

Non bastasse questo scempio, per collegare la nuova autostrada a 4 corsie con la 274, che porta a Gallipoli, costruiranno una rotatoria immensa che creerà una sorta di terra di nessuno e in un’area di alto valore archeologico. Tutto questo per 7 chilometri. Realizzate le 4 corsie, si risparmieranno 5 minuti». A quale prezzo? Almeno un centinaio di milioni di euro, indica Nicolardi, forse qualcosa di più. E con effetti paradossali, segnala l’architettosindaco in carica dal 2001 e che nel 2011 lascerà: «Per arrivare a Santa Maria di Leuca avremo 16 corsie: le 2 dell’attuale 275, le 2 della Jonica (la 274), le 2 della litoranea da Otranto, le strade e stradine di penetrazione intercomunali, infine le nuove 4». Sedici corsie, utili per una città media.

Il progetto approvato nel marzo 2006 è nato in casa del centrodestra, il Pdl locale lo difende e attacca Nicolardi, in realtà non ha un’etichetta politica univoca e spacca le popolazioni, come dividerà le serre salentine, perché la 275 è chiamata anche la strada della morte per i suoi incidenti fatali. «La verità è che questi 7 chilometri di autostrada devasteranno il territorio. Ma abbiamo bisogno di una vera stradaparco che, invece di avere svincoli e quel viadotto, sia “a raso”, cioè a livello del terreno, abbia 2 corsie e piste ciclabili. Abbiamo la controproposta concreta, non siamo per il no integrale, siamo per una modifica. La sicurezza stradale è essenziale, ma uccide soprattutto la velocità, e se ora distruggiamo il territorio, diamo anche un colpo mortale al turismo». A riprova ricorda che il primo tratto dell’autostrada, da Scorrano a Montesano, non ha incontrato proteste. Attraversa un territorio già urbanizzato e con industrie, dal traffico pesante: allarga quanto già esiste. È nuovo invece il tratto da Montesano a Santa Maria di Leuca.

Chi lo difende teme anche di perdere finanziamenti. Non sono spiccioli: l’ex governatore Fitto il 31 luglio 2009 aveva fatto fare una delibera al Cipe il Comitato interministeriale per la programmazione economica da 135 milioni, cui ne ha aggiunti 152 la Regione Puglia portando l’intero appalto a quasi 288 milioni. Già, la Regione non può tirarsi fuori. La giunta Vendola è contraria? «Sì, ricorreremo al Consiglio di Stato risponde l’assessore regionale ai trasporti Guglielmino Minervini . Quest’opera, nata male e gestita peggio, è figlia del suo tempo. Come Regione, insieme a Vendola abbiamo cercato di mitigare l’impatto ambientale per la fragilità del territorio formalizzando delle prescrizioni all’Anas, che l’Anas non ha considerato. Il 6 agosto abbiamo rispedito loro una proposta per un tavolo tecnico. Per noi i margini per migliorare il progetto ci sono, la matassa è aggrovigliata, se non si vuole pregiudicare la disponibilità finanziaria, dobbiamo cogliere questa opportunità nata con una filosofia sbagliata». Una filosofia, anzi un’ideologia del costruire ovunque che in Italia ha fatto danni inestimabili, ai paesaggi e a chi ci vive, e che ferirà gravemente il lembo finale delle ineguagliabili serre salentine.

La bellezza della Puglia vale meno del cemento?

di Beppe Sebaste

Se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza ha scritto lo psicologo James Hillman ci sarebbe ribellione per le strade». Ma c’è un partito trasversale del cemento che della politica e dell’economia della bellezza, nella sua miopia o cecità, proprio non si cura. È un tema ovunque attuale, ma ora riguarda la meravigliosa bellezza del Salento, in particolare le cosiddette Serre salentine che da Specchia si avvicinano al capo di Leuca, la terra dei due mari. Il progetto di superstrada già finanziato dal governo (come fu per la ridicola metropolitana a Parma, poi abbandonata), in nome di un’inutile velocità disprezza e rischia di devastare un territorio, già amato dai turisti, che aspetta solo di essere valorizzato per quello che già è, senza abbellimenti né soprattutto omologarsi a modelli importati.

Cammino nell’ultima propaggine delle serre salentine, tra olivi secolari, lecci, macchia mediterranea, piante di mirto e carrubo; costeggio muretti a secco, pietre che cantano e testimoniano una cultura millenaria sedimentata in una placida e laboriosa bellezza, come la terra rossiccia sotto i piedi. Cammino sotto il cielo azzurro sui sentieri di campagna tra Alessano, San Dana e Gagliano del Capo alla mia destra la morbida collina in cui sorgeva un villaggio messapico, e oggi lo stupendo borgo di Montesardo.

Percorro il tragitto virtuale di quell’ultimo pezzo di superstrada che violenterà questa bellezza, e sento angosciosamente incombere sulla testa il peso virtuale del viadotto, 26 piloni di cemento per 12 metri di altezza, più 1 km di terrapieno che cancellerebbe, oltre a tremila alberi di ulivo, l’identità di questo paesaggio. Che cancellerebbe la ragione stessa per cui io e tanti altri ci troviamo qui, in Salento, turisti e amatori, in una terra stupenda la cui identità è inseparabile dal valore della lentezza. È qui che la regione Puglia, il Comune di Alessano e l’Università del Salento hanno realizzato un «Ecomuseo del Paesaggio», valorizzando i caratteri identitari del territorio col recupero di memorie orali, la Storia e le storie, insieme a visioni, odori, sapori.

A che vale arrivare 5 minuti prima a Santa Maria di Leuca, spendendo 100 milioni di euro per 7 devastanti chilometri? Ci pensino, il partito del cemento e i suoi padrini. Abbiamo smarrito la percezione e la consapevolezza dei luoghi, delle pietre, degli alberi, della terra stessa su cui stiamo camminando.

Belle immagini dei paesaggi salentini le trovate sui siti di Bruno Vaglio, di terrarossa, e cercando su Goggle.

Val Badia. Prosegue il viaggio del Fatto Quotidiano nei luoghi simbolo delle vacanze a rischio cementificazione. Dopo l’autostrada tirrenica in Maremma, ecco le Dolomiti, tra piccole ferite già consumate e colossali scempi già progettati.

L’Antersasc. Pochi lo conoscono: devi salire quassù per sentire il silenzio delle Dolomiti, perché ogni luogo ha un suo silenzio, diverso da tutti gli altri. Ti arrampichi su per la Val Badia, abbandoni l'auto a Juel e poi lentamente ti incammini. Sali e a ogni passo lasci un pezzo dei rumori che porti con te: prima il grido delle auto che arrancano in salita, poi le suonerie dei cellulari (“assenza di campo”), le voci delle persone, le campane dei paesi in lontananza attutite dai prati. Alla fine resta il calpestio dei tuoi passi che ti viene dietro come se ti inseguisse. Allora ti puoi fermare e chiudere gli occhi: non senti più nulla. Eccolo, il silenzio delle Dolomiti, umido come il bosco di larici e cirmoli che hai intorno, morbido di muschio. Freddo dell'aria che scende dalle vette. Per questo chi conosce le Dolomiti sale all'Antersasc: non per raggiungere una meta, ma per allontanarsi da qualcosa. Allora immaginatevi la sorpresa quando, mesi fa, avviandosi per il sentiero ci si è imbattuti in una strada. Non una piccola traccia, ma una sterrata larga oltre 3 metri che saliva per più di un chilometro e mezzo (ma diventeranno due e mezzo). Ai lati decine di larici secolari abbattuti e poi quella ruspa gialla su per il bosco e una scia di terra scoperchiata. Anche il silenzio era scomparso.

Il funerale di una montagna

No, questa non è la storia di uno scempio edilizio da milioni di metri cubi che stravolge una regione, come quelli della pianura veneta o delle coste liguri. Una strada lunga due chilometri e mezzo può sembrare, forse è, una piccola cosa. Ma di sicuro è anche un segno, perché siamo nel cuore del parco Puez-Odle, uno dei più intatti e selvaggi delle Alpi. Ai piedi delle Odle, quei massi alti centinaia di metri che sembrano caduti dal cielo per piantarsi dritti nei prati.

Una ferita per le Dolomiti, una delle tante, però. Così da queste parti qualcuno ripete sempre più spesso un nome: Dresda. Ma che cosa c'entra la Germania con i Monti Pallidi al confine fra Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli? “Dresda era stata inserita nell'elenco dei beni patrimonio dell'Umanità, poi si è deciso di costruire un ponte sull'Elba per collegare le due parti della città. E l'Unesco ha ritirato il riconoscimento”, racconta Michil Costa, albergatore di Corvara. Aggiunge: “Se continuiamo così anche le Dolomiti perderanno il titolo che hanno conquistato appena nel 2009”.

Da mesi Michil non pensa ad altro, a quella strada che sale tra larici e prati al “suo” Antersasc. Appena può, con Giovanna Pedrollo, si arrampica su per la montagna per fotografare il cantiere. Costa non è tipo da arrendersi, ha un carattere pirotecnico, così le sta tentando tutte perché quella strada sia fermata e diventi un caso. In Alto Adige, ma non solo. “Abbiamo lanciato delle iniziative, magari provocatorie, ma non vogliamo mancare di rispetto a nessuno”, racconta Michil. Si riferisce a quei necrologi comparsi sui giornali altoatesini: “Resterai sempre nei nostri cuori per tutto quello che ci hai dato e che hai fatto per noi, Munt de l'Antersasc”. Poi la cerimonia funebre: decine di persone in corteo al passo delle Erbe, turisti e la gente della Val Badia e della Val di Funes. “Un'iniziativa di dubbio gusto”, l'ha bollata qualcuno. Chissà, una cosa però è certa: da giorni in Alto Adige non si parla d'altro.

Una strada, ma per chi?

Vero, non è tutto bianco o nero, qui non si tratta di una colata di cemento per riempire le tasche dei soliti noti: “Abbiamo approvato il progetto perché il percorso consentirà di raggiungere una malga altrimenti abbandonata. Le nostre montagne sono così belle perché sono abitate. Oggi non possiamo più pretendere che i contadini portino a spalla il sale per gli animali o la legna per riparare la malga”, racconta Luis Durnwalder, presidente della Provincia di Bolzano. Ma più d'uno solleva dei dubbi: “Si spendono centinaia di migliaia di euro pubblici per costruire una strada che ha un impatto devastante sul paesaggio”, attacca Andreas Riedl, direttore della federazione Protezionisti sud-tirolesi. Aggiunge: “Non solo la Provincia ha dato il via libera al taglio di decine di larici secolari, ma lo ha anche finanziato (il primo tratto del percorso, circa un chilometro e mezzo, è costato 116mila euro, il secondo deve ancora essere realizzato)”. Durnwalder replica: “L'abbiamo pagata noi perché è una strada forestale”. Ma soprattutto c'è di mezzo un parere negativo degli stessi uffici provinciali: “La commissione Tutela del Paesaggio aveva dato parere negativo. Nonostante la bocciatura, il presidente Durnwalder ha deciso di andare avanti lo stesso”, ricorda Michil Costa. E domanda: “Ma voi credete davvero che quella strada dove passano anche i camion servirà soltanto per una malga? Vedrete, poi magari nascerà un ristorante, e alla fine ci passeranno decine di auto”. La Provincia invece giura: “La strada servirà soltanto per i trattori. Quella resterà una malga”.

Marmolada, il gigante ferito

Chissà quante persone ogni anno salivano all'Antersasc. Poche. Ma quella strada non riguarda soltanto loro. Ora tutti – i turisti, ma soprattutto la gente di qui – si chiedono dove stiano andando le Dolomiti. E allora la storia non riguarda soltanto le Odle, ma anche il gigante dei Monti Pallidi. La Marmolada, che riconosci subito per quella vetta che arriva alle nuvole. Un gigante, però, ferito, con quel ghiacciaio che ogni anno si ritrae. Chissà se sia per il “global warming” oppure per quei pali della funivia piantati nel ghiaccio. Adesso ai suoi piedi hanno addirittura deciso di costruirci un residence. Lo chiamano così, ma è molto di più: un palazzo da 100 appartamenti con intorno 54 chalet, il centro benessere, quello per congressi, piscine coperte, saloni, negozi, palestre. Secondo i primi calcoli, il complesso dovrebbe contare quasi 90.000 metri cubi di nuove costruzioni (e pensare che la Regione gli ha già dato, nel 2007, una bella sforbiciata). Ai tre abitanti di Malga Ciapela si aggiungeranno novecento persone.

Ma ormai qui i progetti fioriscono più delle stelle alpine: si parlava di realizzare una pista, con tanto di tunnel scavato nella roccia, per collegare la Marmolada e il San Pellegrino anche se i comuni di Falcade (Belluno) e Soraga (Trento) l'hanno bocciata. A promuoverla, come il resort della Marmolada, la famiglia Vascellari, signori degli impianti di risalita veneti alla guida degli industriali bellunesi. E c’è il progetto di un impianto che dovrebbe collegare Cortina con San Vigilio di Marebbe (ai margini della zona vincolata) e il Sella Ronda, il giro del Sella che ogni anno attira mezzo milione di sciatori: “Cortina è isolata, bisogna collegarla alla Val Badia, sarebbe per tutti un’occasione unica. Si potrebbero fare sessanta chilometri con gli sci ai piedi”, già sogna Mario Vascellari che fa parte anche del Consorzio ampezzano che gestisce gli impianti a fune. Peccato che di mezzo ci siano gli alpeggi vergini del Col di Lana.

A Sappada (Belluno) invece dovrebbe essere realizzato un nuovo albergo da 180 stanze. In Alta Badia gira da tempo l’idea di un rifugio fu-turistico firmato dal designer Ross Lovegrove. Sembra una navicella spaziale in mezzo ai prati. “Per non parlare delle nuove piste alla porte delle Dolomiti, nella zona di Folgaria, che spazzeranno via tanti pascoli e la memoria della Prima guerra mondiale”, racconta Luigi Casanova di Mountain Wilderness. “Chissà che cosa dirà l'Unesco”, dicono gli ambientalisti. Bisogna agitare lo spauracchio di una bocciatura internazionale, perché da soli le nostre montagne non riusciamo a difenderle.

Trieste e Siracusa, due modi opposti di coniugare la tutela con lo sviluppo economico legato al mare. Soprattutto di intendere il rapporto tra istituzioni e associazioni ambientaliste. Per esempio Italia Nostra. Dice Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale dell’associazione: «Non abbiamo ideologie, non siamo contrari per principio a quegli interventi necessari per il nostro futuro. Ma ci opponiamo all’avidità e alla speculazione, al disprezzo dei vincoli. Che invece proteggono un bene collettivo, cioè il nostro patrimonio storico e paesaggistico».

Dunque, Trieste e Siracusa. A Trieste, tra pochi giorni, il complesso ottocentesco del Porto Vecchio verrà affidato a un nuovo concessionario (ancora da indicare) che non lo abbatterà, come si era immaginato fino a dieci anni fa, ma lo riqualificherà sul modello dello «Speicherstadt» di Amburgo, dove le strutture del vecchio porto sono state riutilizzate e dialogano con fantasia e creatività con interventi contemporanei di ottima qualità. Dice Antonella Caroli, ex segretario dell’autorità portuale di Trieste e ora impegnata in Italia Nostra: «Si voleva abbattere. Poi, grazie a noi, è arrivato il vincolo nel 2001. E ora gli imprenditori sono soddisfatti, ormai convinti della validità di un’operazione di riuso che porterà benefici senza distruggere».

Discorso diametralmente opposto per Siracusa, per quel secondo porto turistico che diventerà uno dei casi-simbolo della campagna 2010 di Italia Nostra sui Paesaggi Sensibili, quest’anno interamente dedicata alle coste. I fatti. A Siracusa sono a buon punto i lavori per il primo porto turistico, ratificato dal 18 gennaio 2007, proposto dalla società «Marina di Archimede Spa», progetto poi acquistato dalla Acqua Pia Antica Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone: 500 posti barca, negozi, ristorante, caffetteria, centro benessere. Italia Nostra ha avuto le sue perplessità ma ormai lo considera un dato acquisito. Ciò che invece allarma è il progetto del secondo porto turistico, estremamente a ridosso del primo, presentato nel novembre 2008 dalla società locale «Spero srl»: altri 350 posti barca, altri edifici, ulteriori 50.000 metri quadrati di interramento del mare, soprattutto un braccio particolarmente lungo proteso verso il largo.

Il progetto è ora sul tavolo del sindaco ed è sottoposto alla valutazione ambientale strategica e alla valutazione di incidenza. Il 13 luglio scadranno i termini entro i quali gli enti competenti potranno presentare osservazioni e perplessità per la valutazione ambientale, poi si passerà al gradino successivo.

Protesta Enzo Maiorca, siracusano, uomo-record dell’immersione in apnea: «Avrei da ridire anche sul primo porto ma capisco che non ci si può schierare sempre contro tutto e tutti. Invece sul secondo non se ne parla neppure. Mi pare solo sporco business. Siracusa meriterebbe maggior rispetto anche perché non è mai stata realizzata una vera campagna di esplorazione del fondo: qui, nel 412 avanti Cristo, Siracusa sconfisse Atene nella grandiosa battaglia navale. Lì sotto chissà quanti resti di navi si potrebbero trovare». Per questa ragione Alessandra Mottola Molfino ha pronto un esposto all’Unesco, visto che dal 2005 Siracusa fa parte della lista dei bei considerati Patrimonio culturale dell’umanità: «Quel secondo porto sembra fatto apposta per far attraccare le navi da crociera da centinaia di passeggeri. Un turismo mordi e fuggi che non porta ricchezza ma allontana quello pregiato».

Gli ambientalisti locali sono in fermento. Lucia Acerra, presidente di Italia Nostra-Siracusa: «L’impatto di questa seconda struttura portuale altererà irrimediabilmente l’armonica linea del bacino portuale. Ricordo che sul porto c’è il vincolo paesaggistico del 1988». Un vincolo studiato ai tempi dal funzionario della soprintendenza architetto Antonio Pavone e poi firmato dall’allora soprintendente Giuseppe Voza, creatore del museo archeologico cittadino «Paolo Orsi». Il quale assicura: «Nessuno vuole musealizzare Siracusa né bloccare uno sviluppo intelligente capace di confrontarsi col nostro retaggio culturale. Ma non siamo Singapore, non c’è bisogno di due porti turistici». Aggiunge Amedeo Tullia, anche lui archeologo: «Quell’opera altererebbe sostanzialmente l’aspetto storico del porto e lo renderebbe illeggibile. Per non dire del contraccolpo sulle correnti marine e sulla stessa pesca».

Il progetto del secondo porto ha impensierito anche i responsabili del primo del Gruppo Acqua Pia Antica Marcia, che tengono a precisare di aver «sempre manifestato la più ampia apertura sul progetto della Spero a condizione che non vengano lesi i diritti consolidati» del primo porto. Comunque le dimensioni e la collocazione del molo centrale di sopraflutto comprometterebbero l'accesso al primo porto turistico e la fruibilità dei servizi. Dice Oreste Braga, amministratore del settore portuale della Società di Caltagirone: «Abbiamo formulato alcune osservazioni alle autorità amministrative competenti e lo stesso Assessorato regionale Territorio e Ambiente ha ritenuto di dettare alcune prescrizioni la cui legittimità è stata confermata da una pronuncia cautelare del Tribunale amministrativo regionale di Catania».

Invece il sindaco Paolo Visentin, centrodestra, ribatte con decisione: «Il secondo porto turistico sta seguendo tutte le procedure ed è stato ammesso alla seconda fase delle valutazioni di legge. Navi da crociera? Italia Nostra sbaglia, quel porto ospiterà solo barche da diporto, i natanti più grandi attraccheranno al Porto Grande e non vedo alcuno scandalo, anche quel turismo serve. Capienza sovradimensionata? Il porto di Caltagirone ospiterà solo nautica di alta qualità, qui le condizioni saranno diverse». E l’impatto con la storia del porto? «Possiamo benissimo mummificare tutto. Ma a un prezzo sociale enorme. Noi dobbiamo portare turismo a Siracusa, trasformare il nostro patrimonio in occasione anche economica. Siracusa ha fame di occupazione, il porto può offrirne. Non vedo perché non si possa fare, nel pieno rispetto delle regole».

Postilla

Nel consueto stile cerchiobottista tipico del Corrierone, ed ancor più dell’articolista, la sacrosanta denuncia (ma l’ultima parola, come si noterà, è lasciata al sindaco cementificatore) del devastante progetto del secondo porto turistico a Siracusa, eclissa e anzi finisce per giustificare lo scempio che si sta per abbattere sul bacino portuale della città siciliana.

Il cosiddetto primo porto turistico in corso di costruzione ad opera della società di Francesco Bellavista Caltagirone è infatti altrettanto devastante di quello ora contestato: prevede l'interramento di un'area di grande importanza archeologica con annessa costruzione, sopra l'interramento, di alberghi del medesimo Caltagirone, oltre a dragaggi, moli ecc.

Il progetto fu approvato in spregio a vincoli e pronunciamenti (fra cui uno del consiglio regionale dei BBCC) nel silenzio quasi generale degli organi di tutela e delle associazioni ambientaliste. Il Soprintendente del Mare Sebastiano Tusa, potenziale oppositore, fu escluso illegittimamente dalla conferenza dei servizi e addirittura un provvidenziale provvedimento ad hoc tolse, per l’occasione, alla Soprintendenza del Mare, la competenza sui porti della Sicilia, per poi decadere: ma ormai il danno era fatto e la conferenza dei servizi aveva approvato il porto di Caltagirone.

L’avidità di speculatori e amministratori è però tale che i progetti sono raddoppiati, in nome del consueto paradigma, secondo il quale le risorse del nostro patrimonio culturale e paesaggistico vanno spremute a fini turistici quanto più possibile, anche se ciò, come inevitabilmente succederà anche in questo caso, ne provoca il degrado e la perdita in tempi sempre più accellerati.

La vicenda dei due porti di Siracusa, oltre a sottolineare ancora una volta l’insensatezza della frenesia cementificatoria che si sta abbattendo sulle nostre coste, evidenzia una preoccupante schizofrenia presente anche in chi dovrebbe tutelare e denunciare – senza distinzioni- chi sta deturpando, ad esclusivo scopo speculativo, uno dei porti storicamente più famosi di tutto il Mediterraneo.(m.p.g.)

Neanche gli stadi dei Mondiali forse c’erano riusciti: il nuovo porto turistico di Imperia, fortissimamente voluto da Claudio Scajola, sarebbe costato cinque volte più del previsto. È scritto nel documento della Commissione di Vigilanza e Collaudo finito alla Procura di Imperia. “È necessario – scrivono i tecnici – osservare che l’ultimo certificato di pagamento emesso stima in 145,8 milioni il costo delle opere marittime, valore assolutamente non congruo rispetto al progetto approvato, il cui costo in fase di progettazione era stato stimato in maniera considerevolmente inferiore (29,3 milioni)”.

La colata di cemento

I riflettori si accendono ancora una volta su quest’opera faraonica: 1.440 posti barca più 117 appartamenti. Il tutto realizzato dall’Acquamare di Francesco Bellavista Caltagirone (non indagato), noto anche per aver partecipato alla cordata Alitalia sponsorizzata dal Governo. L’Acquamare a sua volta detiene il 33 per cento della società Porto di Imperia spa. Un altro terzo è del Comune di Imperia. L’ultima fetta è in mano a imprenditori locali tra cui risultava anche Pietro Isnardi, consuocero di Alessandro Scajola, fratello dell’ex ministro, ma soprattutto suocero di Marco Scajola, fino a pochi mesi fa vicesindaco della città.

Il nuovo scalo è forse la più grande colata di cemento in una Liguria dove i porticcioli – benedetti da centrodestra e centrosinistra – sono stati il cavallo di Troia per milioni di metri cubi di costruzioni. Proprio quel porto di cui Angelo Balducci era stato nominato commissario. E la presenza nella Riviera dei Fiori di uno dei protagonisti delle indagini sulla Cricca sta attirando sul progetto l’attenzione delle procure. Non soltanto di quella imperiese. Gli investigatori stanno valutando molti elementi, “come il mancato svolgimento di gare di evidenza europea”.

Caltagirone, Scajola e Fiorani

Ma il mega-porto, perfino nella Liguria scajolizzata, aveva suscitato perplessità già prima che arrivasse il cemento. Così qualcuno ricorda quel volo in elicottero compiuto nel 2003 per visionare dall’alto le opere. A bordo, oltre a Bellavista Caltagirone, c’erano Scajola e Gianpiero Fiorani che nel cemento ligure sognava di investire cento milioni. L’episodio, nonostante le inchieste sulle scalate bancarie dell’estate 2005 (Francesco Bellavista Caltagirone partecipò all’operazione Antonveneta attraverso Hopa, ma non fu indagato), fu presto dimenticato. Nel 2006 ecco il taglio del nastro dei cantieri, presenti Scajola e il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando. Soltanto la Cgil, guidata allora da Claudio Porchia, tentò di sollevare la questione. Scajola replicò: “Caro Porchia, non sei il sindaco di Imperia, sei il capo di un gruppo parassitario che non conta un tubo e non prende un voto”. L’ex ministro si beccò una querela, ma invocò l’immunità parlamentare. Le ruspe andarono avanti, nonostante un’inchiesta per le variazioni in corso d’opera (ammesse dagli stessi costruttori) per un enorme capannone portuale. Una situazione paradossale: per autorizzare la costruzione era necessaria una variante dello stesso comune che è proprietario di un terzo della società. Per non dire dell’ipotesi di una condanna: il Comune rischiava di pagare, attraverso la società, una sanzione a se stesso. Alla fine, però, è giunta la contestata richiesta di archiviazione. Basta? Neanche per sogno, perché qui si affaccia Balducci. All’inizio del 2008 gli enti pubblici dovevano nominare la Commissione incaricata di verificare la conformità del porticciolo alla concessione demaniale. Bisognava esaminare le opere a mare realizzate, ma soprattutto andavano stabiliti gli oneri che il concessionario doveva pagare allo Stato. Una verifica amministrativa, ma anche contabile, su cui puntavano gli occhi Bellavista Caltagirone e Beatrice Cozzi Parodi (sua compagna e socia, soprannominata “Nostra Signora dei porticcioli”). La prassi, in questi casi, è che si scelga un membro dell’amministrazione. Invece venne designato anche Balducci. Chi lo scelse? Tutti puntano il dito sull’allora sindaco di Imperia, Luigi Sappa (Pdl), vicino a Scajola (è stato poi scelto dal Pdl come presidente della Provincia di Imperia). Balducci venne nominato presidente della Commissione, ma dopo un paio di mesi si dimise.

Intanto i lavori procedevano: nel 2009 ecco l’inaugurazione del molo lungo, presenti Scajola e Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset. Adesso, però, l’ultima tegola: il parere dei tecnici della Regione Liguria. Che non usano mezzi termini: “Il concessionario non ci ha fornito la documentazione necessaria per svolgere pienamente i propri compiti… nonostante richieste in tal senso siano state espresse e reiterate più volte”. E il documento conclude: “La Commissione ritiene che il comportamento del concessionario costituisca una violazione degli obblighi previsti”. La Commissione così sospende la propria attività chiedendo alle autorità di “valutare l’opportunità di procedere all’avvio del procedimento di decadenza della concessione”. Firmato: ingegner Roberto Boni, il tecnico indicato dalla Giunta Burlando che negli ultimi anni ha mostrato cautele sul progetto.

La concessione e le accuse

Il ritiro della concessione sarebbe un terremoto. La Porto di Imperia Spa replica alle accuse:“Le osservazioni sono incongruenti e fuorvianti, nonché destituite di fondamento. Abbiamo sempre fornito tutte le informazioni utili, l’assistenza necessaria e la massima disponibilità per i controlli a cui la Commissione è tenuta per legge”. E i costi cresciuti di 110 milioni? “L’aumento è dovuto a una maggiore qualità, bellezza e durata dell’opera. La spesa resta a carico della Acquamare, gli enti pubblici non pagheranno un euro”. Tutti tranquilli? Niente affatto. Giuseppe Zagarella e Paolo Verda, consiglieri comunali del Pd, da anni si oppongono al porticciolo: “Adesso devono essere fornite alla Commissione tutte le carte richieste sulle spese sostenute e la loro fatturazione. La società cui sono rivolte le fatture è partecipata dal Comune. Abbiamo paura che un terzo dei costi aggiuntivi, cioè quasi 40 milioni, possano essere a carico dei cittadini”. Anche di questo si occuperà la Procura.

Pareva tutto facile, sulla carta. Chi mai poteva opporsi all’idea di usare meglio tanti beni statali a volte abbandonati passandoli a Regioni, Province e Comuni? È vero o no, come spiegò Giulio Tremonti, che «c’è un enorme patrimonio ed è una pazzia che sia gestito da un ufficio a Roma dove non sanno quanto vale» e dunque «è giusto che lo Stato abbia beni nazionali e simbolici ma non che faccia la mano morta al contrario su beni che hanno senso se gestiti localmente»? Macché: il «federalismo demaniale» sta incontrando obiezioni maggiori del previsto. E non solo delle opposizioni, degli ambientalisti o dei guardiani di quello che Croce chiamava «il volto della patria».

Alcuni si chiedono fino a che punto lo Stato possa trasferire agli enti locali spiagge, caserme, stazioni, terreni o edifici vari senza intaccare quel patrimonio che è la vera garanzia di «ultima istanza» per l’immenso debito pubblico. Altri, come uno studio del Servizio bilancio della Camera, confermando il rischio di «affievolire gli strumenti di garanzia dello Stato», segnalano che il passaggio «a titolo non oneroso» di tanta ricchezza immobile potrebbe impedire di destinare all’abbattimento del debito i proventi delle dismissioni visto che lo Stato è obbligato a farlo ma gli enti locali no. Altri ancora, come il direttore dell’Agenzia del demanio Maurizio Prato, ammettono scetticismo sui tempi: è plausibile che entro 30 giorni ogni amministrazione dica esattamente quali beni vuole mantenere e che entro 180 giorni arrivi il primo decreto della presidenza del Consiglio con l’elenco dettagliato di questi beni da «restituire», dicono i leghisti, al territorio? Per non dire dei contrasti tra le Regioni, che vorrebbero rastrellare tutto e redistribuire, e gli altri enti che vorrebbero al contrario che questa «restituzione» fosse diretta e senza intermediari. Insomma: un caos. Sul quale ha gioco facile chi chiede, sia a sinistra sia nella maggioranza, di veder bene i conti prima di sbagliare il passo.

Al di là degli aspetti tecnici, sui quali Calderoli è convinto di trovar la quadra («Se il debito degli enti locali rientra nel debito pubblico generale, allora anche il patrimonio degli enti locali rientra nel patrimonio pubblico») c’è qualcosa di fondo che non è chiaro: siamo sicuri che non saranno tolti al demanio certi gioielli di famiglia? Certo, il governo ha giurato che non verranno smistati i beni culturali. Ma resta quel dubbio sottolineato dal presidente stesso del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici Franco Karrer al Sole 24 Ore: «Finora, valorizzare ha voluto dire dismettere » . Cosa che Vittorio Emiliani ha tradotto brusco così: i Comuni, «indebitati dalla demagogica soppressione dell’Ici sulla prima casa, saranno portati a vendere il prima possibile».

Una forzatura polemica? Sarà... Ma è difficile immaginare un Comune con l’acqua alla gola che, potendo dire «questo lo voglio, questo no», si faccia carico di un pezzo di patrimonio da valorizzare investendo soldi che non ha. Più facile che punti a prendere tutto ciò che può sfruttare o vendere per fare cassa. La domanda chiave è: sfilati al demanio statale, tutti quei beni resteranno inalienabili e cioè di proprietà dei cittadini italiani per essere dati solo «in gestione» agli enti locali? O potranno essere ceduti anche a «fondi comuni di investimento» in cui gli enti locali possono essere soci di minoranza di privati che cercano solo l’affare? Le risposte finora non sono state nette. E finché il nuovo testo non sarà definito, come dice Italia Nostra, «è difficile scartare i peggiori sospetti».

L'uomo in giaccone piomba all'improvviso nel cantiere con un gruppo di manovali e urla: "Via di qui! Basta fotografie! È violazione di domicilio! Adesso chiamo la polizia!". Cammina avanti e indietro furente, il cinquantenne che chiamano "titolare". Poi afferra il cellulare e confabula in siciliano stretto; poi ancora ordina ai suoi uomini di cacciare gli intrusi: "Cortesemente sbattiamoli fuori!", strilla un paio di volte. E gli operai stanno per obbedire, perché i curiosi non sono graditi in questo spicchio dei monti Peloritani che sovrasta Messina. Nessuno, a quanto pare, ha il diritto di verificare come su queste colline di sabbia e terra stia spuntando un'infilata di palazzine che il cartello chiama "Il grande Olimpo".

Nessuno dovrebbe soffermarsi a osservare la scarpata e il suo terreno instabile, tanto debole da richiedere sostegni artificiali. Tantomeno è apprezzato, da queste parti, che si aggiunga un altro dettaglio: quello del torrente Trapani, che qui accanto smette di scorrere in superficie e s'infila sotto l'asfalto stradale in un varco di cemento armato circondato dal pattume. Una bomba d'acqua che già in passato ha causato esondazioni e un morto, e che fa ancora più paura guardando le colline sbeccate dalle frane. "L'alluvione del primo ottobre 2009 non ha insegnato niente", denuncia il capo del Genio civile messinese Gaetano Sciacca. "Non contano i 31 morti e sei dispersi di Giampilieri e villaggi vicini". Non conta neppure che pochi giorni fa, il 14 febbraio, abbiano dovuto evacuare dal borgo di San Fratello duemila persone per l'ennesima frana. "Là è successo quello che è successo senza bisogno di abusi edilizi, mentre qui massacrano la città con cantieri spericolati.

Poi tutti piangono quando arrivano le disgrazie; tutti giurano di avere tutelato la nostra provincia, i suoi 257 corsi d'acqua e i 108 comuni a rischio sismico. La verità è che pochissimi stanno cercando di fermare il disastro. A quattro mesi dall'alluvione le ruspe continuano a sventrare le colline, la coscienza civile latita ed è il trionfo assoluto dell'abusivismo ambientale: quello di chi edifica seguendo le regole umane, ma non quelle imposte dalla natura". Il risultato è un collasso territoriale. L'agonia di una Messina dove ogni giorno spuntano nuove gru: "Anche nelle aree più impensabili, anche dove il buon senso suggerirebbe di evitare", dice Anna Giordano del Wwf. Per esempio nella zona dell'Annunziata, un quartiere residenziale della fascia nord cittadina.

"Sopra incombe il Monte Ciccia, 609 metri di una montagna geologicamente giovane e a rischio dissesti. Sotto c'è una grande fiumara, e come non bastasse ci costruiscono dentro una chiesa". Un edificio già enorme anche se è ancora da completare. Un operaio sta riposando all'ora di pranzo nell'abitacolo della ruspa, ma quando vede il fotografo spalanca lo sportello: "Qui è tutto a posto, tutto in regola ", assicura. E avrà anche ragione. Però è impossibile confermarlo, visto che all'ingresso del cantiere non c'è il cartello con la descrizione dei lavori e della società chi li sta svolgendo. "Noi cittadini", spiega un militare che abita in zona, "partiamo da concetti semplici: ci chiediamo perché collochino una struttura imponente in corrispondenza di una fiumara, peraltro già affiancata da una palazzina. Non capiamo perché si arrivi a un simile azzardo, insomma. E soprattutto, ci domandiamo chi abbia reso edificabili posti simili".

Certo è singolare che dopo il disastro di Giampilieri, e dopo la recente morte di due bambine per il cedimento di una palazzina a Favara, nell'agrigentino, si costruisca un luogo di culto in un'area tanto delicata. Anche perché, una cinquantina di metri più a sud della chiesa, tra massi sgretolati e misera vegetazione spunta un tubo nero che, a detta dei residenti, dovrebbe contenere il torrente Annunziata quando s'ingrossa. In teoria: perché in pratica il tubo ha due sezioni scollegate, e potrebbe non bastare in caso di emergenza. Il che riporta alla questione centrale: ha senso tutto questo?, chiediamo al presidente dell'Associazione costruttori messinesi Carlo Borella. È una situazione accettabile, nel 2010, per una città con 247 mila abitanti? "La nostra edilizia", risponde Borella, anche titolare dell'impresa di costruzioni De.mo.ter, "è conseguenza di un Piano regolatore approvato tanti anni fa. Inutile discolparsi o negare gli eccessi di qualche imprenditore. L'aggressione alle colline messinesi c'è e fa paura, anche perché non si è trovata un'alternativa valida".

Detto questo, assicura Borella, è arrivata l'ora di cambiare atteggiamento: "Da una parte controllando con più scrupolo la qualità dei progetti, dall'altra confrontandosi attorno a un tavolo con gli ambientalisti". Quanto alla chiesa della fiumara, il presidente sostiene di non saperne niente ("Ma mi informerò", assicura). E nemmeno accenna ai pensieri che gli sta provocando Maurizio Marchetta, ex vicepresidente del Consiglio comunale di Barcellona, secondo cui Borella avrebbe "costituito un gruppo di imprenditori che fanno parte del Consiglio direttivo e stabiliscono preventivamente, a tavolino, a chi fare aggiudicare gli appalti in provincia e fuori". Frasi che altrove farebbero scalpore, mentre a Messina scivolano tra le infinite contraddizioni. Per dire: quando l'8 gennaio il capo del Genio civile Sciacca ha invocato la sospensione immediata del Piano regolatore (spiegando che "durante queste ultime settimane, in barba a qualunque motivazione etica dopo il disastro del primo ottobre, ci sono pervenute nuove richieste di pareri e autorizzazioni relativamente a imponenti complessi edilizi"), il presidente dell'Ordine degli architetti Gaetano Montalto (che è anche presidente della Commissione edilizia) ha risposto invitando a risparmiarsi "crisi di panico e patetici buonismi ambientalistici".

Eppure è facile vedere quanto stia soffrendo Messina. Basta leggere cosa scrive il capo del Genio civile in un documento inviato il 14 dicembre al sindaco Giuseppe Buzzanca. Un testo dove si parla del quartiere San Lìcandro e dei lavori per un complesso residenziale con quattro corpi di fabbrica da sette piani ciascuno. Palazzi che potrebbero "modificare sensibilmente le attuali condizioni del territorio e determinare di riflesso effetti negativi sull'intera area oggetto d'intervento", dice Sciacca. Non solo: nella sua nota specifica che "i drammatici eventi alluvionali di ottobre hanno mostrato come una dissennata attività edificatoria a ridosso delle zone collinari possa produrre effetti devastanti sul territorio ".

Appunto per questo, ammonisce, è fondamentale che al business si anteponga "la pubblica incolumità". Parole che, per il momento, bloccheranno il cantiere. Ma è una piccola vittoria in una guerra infinita. "Fate un giro al quartiere Montepiselli", suggerisce un operaio con trent'anni di esperienza, "guardate come le ruspe aggrediscono la collina". Ed è un buon consiglio, perché il tragitto stesso per Montepiselli è istruttivo. La strada che sale dalla centrale via Principe Umberto è parzialmente franata. E così pure il fianco del monte, dove un'imbragatura penzola fin quasi a terra. Sull'altro versante del colle, poi, la strada porta a una curva dove l'asfalto sta cedendo sul ciglio a strapiombo. "Colpa della terra rimossa per costruire le case a valle", sostengono gli ambientalisti. Gli stessi che fanno strada, in cima alla collina, fino al complesso Aralia: un elegante blocco di palazzine in via di rifinitura voluto dal costruttore Vincenzo Pergolizzi, il titolare della società E.P. srl arrestato nel 1999 con l'accusa di concorso in associazione mafiosa, assolto nel 2008 e uscito con la prescrizione dall'ipotesi di favoreggiamento della latitanza di due boss. Colpisce, in questo insieme di cemento e palerie di rinforzo, come il fianco della collina sia prossimo agli appartamenti. E ancor più impressiona, al di là delle autorizzazioni chieste e concesse, la scarpata di fronte, dove il terreno è puntellato ma l'acqua piovana continua a scivolare fino a un muretto crepato.

Quanto basta, spiegano gli ambientalisti, per mostrare la fragilità del luogo e l'inopportunità di costruirci massicciamente sopra. Ma il discorso Aralia non termina qui, perché c'è ancora da ascoltare il resoconto fatto da più giornalisti del loro dialogo con Enrico Ricevuto, legale del costruttore Pergolizzi. "Stavamo parlando di questi sbancamenti e della loro sicurezza", racconta uno dei presenti. "Al che l'avvocato, per sottolineare la bontà dei lavori, ha detto che la relazione sul terreno è stata sottoscritta anche dal geologo Sergio Dolfin, e che i palazzi sono talmente sicuri che Dolfin stesso ha acquistato un appartamento per il figlio".

Riassumendo: il geologo Dolfin, già membro della Commissione per la verifica delle valutazione d'incidenza, avrebbe firmato il via libera allo sbancamento della collina, comprando poi un appartamento nel complesso di Montepiselli. Non solo: in un'intercettazione della Procura Sergio Dolfin, parlando con l'ex assessore all'Urbanistica Antonio Catalioto, ha definito l'ambientalista Giordano "una testa di cazzo", mentre il suo interlocutore prevede che la signora "continuerà a rompere le palle...". E il perché è evidente: "Nel 2009 il Wwf si è battuto per fermare il Piano regolatore, ma ha anche presentato quattro denunce specifiche per anomalie edilizie", spiega il legale Aurora Notarianni. "Un lavoro finito prima nel registro degli atti che non costituiscono notizie di reato, e poi all'attenzione del procuratore capo Guido Lo Forte". Cosa significhi, in concreto, non si può sapere. Lo Forte non rilascia dichiarazioni ufficiali, nel suo ufficio. Ragiona però sul dopo alluvione ponendo una domanda fondamentale: "Come mai, da più parti, dicono che la popolazione messinese diminuisce mentre gli appartamenti aumentano?". Un'ipotesi, in corso di verifica, è che la malavita organizzata finanzi indirettamente le costruzioni, acquistandole poi con prestanome per riciclare il denaro sporco.

Un sistema mai contrastato con troppa determinazione, secondo la Procura, e quindi impermeabile a qualsiasi alluvione. "Chi ha investito deve comunque guadagnare ", ironizza l'avvocato Notarjanni. E l'assessore in carica all'Urbanistica, Giuseppe Corvaja, conferma quanto sia complicato opporsi: "Non si tratta semplicemente di legalità o illegalità: se il piano regolatore permette di costruire in zone pericolose, gli imprenditori lo fanno e basta. Provassimo a bloccare i cantieri, verrebbero chiesti al Comune risarcimenti sontuosi".Dopodiché tutto è possibile, a Messina. Anche che sopra la strada Panoramica, a due passi dal mare, si salga per una viuzza qualsiasi e si spalanchi un groviglio di ruspe e cemento, mattoni e palazzi che crescono dietro al cartello "Victoria Park, costruendi appartamenti signorili con ampie verande e cantine". Il tutto a cura della ditta Co.Gest.Ir srl, che offre metrature da 50 a200 metri quadri con tanto di box auto.

Un complesso che sicuramente ha tutte le carte in regola, tutte le autorizzazioni a posto e tutte le cautele prese. Ma nasce in un ambiente che si commenta da solo, con una centrale elettrica della Terna vicina, la solita fiumara sotto l'asfalto e il terreno intorno che Giordano classifica come "la nota sabbia e ghiaia di Messina, adatta alle fondamenta di un edificio ma meno per i pendii, spesso instabili e propensi alle frane". Un discorso valido, a grandi linee, anche per altre zone della Messina post alluvione. A partire da quella di Conca d'Oro, vicino al quartiere Annunziata, dove sono in corso i lavori per completare le 29 aule delle scuole superiori. Una struttura, spiegano gli operai, che per un decennio è andata avanti a singhiozzo e adesso vedrà la luce. Finalmente, dicono i residenti; che sono soddisfatti ma non nascondono qualche preoccupazione. Dietro gli edifici gialli e amaranto della scuola, infatti, c'è una collina che verrà messa in sicurezza con un muro e adeguate palificazioni (garantiscono sempre gli operai). Ma ancora più in alto c'è un condominio, la cui cinta di protezione ha una crepa che non piace. "Sarà abbastanza sicura la scuola?", si chiedono i residenti. "O dovremo vivere con l'ansia per i nostri figli?". Perché la risposta sia rassicurante, e inauguri nel messinese una stagione di edilizia più ragionevole e ragionata, il vicesindaco Giovanni Ardizzone (Udc) sta battendosi per applicare il cosiddetto Piano territoriale paesaggistico, che la Soprintendenza ai beni culturali ha trasmesso il 23 dicembre. Da parte sua, il sindaco Giuseppe Buzzanca ha annunciato l'avvio dell'iter per il nuovo piano regolatore, che dovrebbe scattare dopo un anno di consultazioni. "Comunque vada a finire", riconosce Ardizzone, "i politici consegneranno alle prossime generazioni una città devastata".

Un pensiero che torna quando, in una giornata di pioggia gelida, i vigili del fuoco danno il via libera per visitare il centro di Giampilieri. Qui a ottobre sono morte 19 persone, e qui oggi tra cumuli di macerie e stoviglie, giocattoli abbandonati e camere da letto sepolte dalla frana, un soccorritore racconta come recuperarono le salme una dopo l'altra, coprendole con i teli su barelle improvvisate: "Ricordo il panico dei sopravvissuti, il terrore di riconoscere sotto ai lenzuoli familiari o amici", dice. "Un dolore che i messinesi non vorrebbero vivere nella loro città, ma che lo scempio edilizio potrebbe imporci al prossimo temporale".

Il signor Innocente Proverbio, 62 anni portati con irruenza, da quando è in pensione neppure d’inverno rinuncia alla passeggiata sul lungolago con il cagnolino al guinzaglio. Ogni tanto si ferma davanti agli oblò aperti nella palizzata che nasconde il cantiere del «Piccolo Mose». Guarda e vede il deserto. Perché i lavori sono fermi da un paio di settimane e dietro il sipario di legno nulla si muove. Il muro che il signor Proverbio per primo denunciò pubblicamente con una lettera alla Provincia, il quotidiano locale, è lì al suo posto e ci resterà ancora per almeno un paio di mesi. Monumento all’immobilismo italico, all’ingorgo di poteri e alle alchimie della politica.

Il muro in questione è una colata di cemento di 120 metri di lunghezza e 2,5 di altezza che dallo scorso mese di settembre è inopinatamente apparso sul Lungolago Trento, la passeggiata che si apre a sinistra di piazza Cavour, il cuore di Como. Da gennaio 2008 quello spicchio di riva è diventato riserva di caccia di gru e betoniere. Obiettivo: la costruzione di un sistema di paratie che difendano la piazza e i quartieri a lago della città dalle esondazioni del Lario. Un progetto da 15 milioni di euro, finanziato da Stato e Regione con i fondi della legge Valtellina. Peccato che il lago in piazza dal 1845 a oggi ci sia finito in tutto 17 volte. E che l’altezza delle paratie (230 centimetri) nulla avrebbe potuto contro le alluvioni veramente devastanti, tipo quella dell’ottobre ’93, con l’acqua a 265 centimetri sopra lo zero idrometrico.

Ma quei 15 milioni di euro facevano comodo soprattutto per rifare completamente il lungolago. Lugano, a pochi chilometri, vanta spazi verdi e aperti sulle acque del Ceresio. Como a tutt’oggi deve accontentarsi di una passeggiata larga pochi metri.

Perché — in tempi di vacche magre per le casse degli enti locali— non approfittare dell’occasione? E allora, dopo anni di discussioni e di progetti, via con il «Piccolo Mosé», gestito, per risparmiare, dall’Ufficio Tecnico del Comune. Tutto bene fino a che il direttore dei lavori, l’ingegner Antonio Viola, decide che il muretto di contenimento previsto dal progetto è troppo basso, in alcuni punti potrebbe diventare a rischio inciampo, e perciò lo corregge, portandolo a due metri e mezzo.

La variazione non incide per più del 5% sui costi complessivi dell’opera, per cui non ha bisogno né di nuove delibere, né di discussioni pubbliche. Il muro viene su alla chetichella fino alla scoperta del signor Proverbio. E lì apriti cielo: sollevazione popolare, marce di protesta, indagine della Procura. Bossi che tuona «No al muro, Como non è Berlino», la Lega che se la prende con il sindaco, maggioranza che vacilla, l’assessore responsabile delle grandi opere dimissionato con i voti della sua stessa maggioranza. Insomma un vespaio. Al termine del quale il sindaco Bruni (segno politico Pdl, ascendente Comunione e Liberazione) si rassegna e sentenzia: «Il muro verrà abbattuto». Eravamo ai primi di ottobre. A fine dicembre il muro è ancora lì. Come mai?

Fino a che la magistratura non avrà concluso la sua inchiesta, non è possibile tirarlo giù» spiega Bruni. Intanto non si sta con le mani in mano: la Regione scova nelle pieghe dei bilanci un paio di milioni di euro per sistemare il disastro, ci si accorda per un nuovo progetto che prevede solo paratie mobili e, nella parte che fronteggia piazza Cavour, anche trasparenti, che la vista del lago non ne soffra. Non solo, viene dato il via ad un concorso internazionale, “per la sistemazione ambientale e territoriale” della zona del lungolago.

E il muro? Il cantiere resterà chiuso fino a febbraio, quando sarà completato l’iter del nuovo progetto. Il primo colpo di piccone non potrà partire prima. E cosa c’è di meglio di una demolizione voluta a furor di popolo che parte giusto ad mese dalle elezioni regionali?

La sera di domenica 2 ottobre parecchie migliaia di persone si sono affollate alla Marina di Siracusa davanti al Tir giallo di Prodi per sentire dalla sua voce qual è il programma dell’Unione, ovvero anche – l’impressione era palpabile – per manifestare la propria protesta verso quanto sta accadendo in questi giorni.

Prodi ha detto cose in gran parte note, lo ha fatto con chiarezza e da questo punto di vista la manifestazione è riuscita. In me ed altri amici è rimasta però una forte delusione riguardo a quel che è stato detto, o non detto, su due questioni centrali per la Sicilia.

La prima è la mafia. Il professore ne ha parlato di sfuggita, a proposito degli ostacoli che l’illegalità diffusa nel Sud costituirebbe… per gli investitori cinesi. In una città fino ad ieri immune dal flagello e che proprio adesso sta cadendo nelle mani del racket, dove quasi ogni notte brucia un negozio o un’automobile, m’è parso davvero poco. Al diavolo i cinesi. Mi sarei atteso piuttosto una presa d’atto della strategia della mafia “sommersa” (le analisi ormai non mancano) e la proposizione di una serie d’interventi rigorosi “a monte”, per esempio in materia di controllo sul riciclaggio dei capitali, di appalti e subappalti, di confisca dei beni. Come ci hanno insegnato Falcone e La Torre – i quali hanno pagato con la vita proprio per questo – la pista da seguire è quella dei soldi, ed è qui che la mafia dev’essere combattuta. A Siracusa specialmente, poi, era il caso di denunciare l’inerzia colpevole dell’attuale commissione antimafia, presieduta da un senatore di Forza Italia nostro concittadino.

Il secondo motivo di delusione riguarda il turismo. Su questo tema, ormai cruciale, Prodi non ha saputo far altro che lamentare la mancanza d’infrastrutture e di coordinamento fra le regioni. In positivo però, il suo modello dichiarato sono state la Tunisia e Malta e le infrastrutture auspicate villaggi turistici e ahimè – proprio così! – campi da golf. Ritengo che simili cadute (almeno dal mio punto di vista) possano essere fatte risalire per una parte a mancanza d’informazione – rimediabile – e per il resto invece all’influenza di un’ideologia “sviluppista”, di cui evidentemente Prodi è in qualche modo partecipe, e che, all’interno del centrosinistra bisognerebbe contrastare con forza.

Mancanza d’informazione. Non è vero, come ha detto Prodi alla folla, che il centrodestra “non ha fatto niente” per il Mezzogiorno. Qualcosa ha fatto e fra le poche, perniciose, misure adottate ci sono quelle promosse dall’attuale ministro per la “coesione territoriale” Miccichè, con le quali sono stati creati giganteschi “poli turistici” (villaggi e campi da golf) in Sicilia, in Basilicata e altrove. Vediamo qualche esempio.

A Sciacca un complesso di 500 posti letto con due green, a ridosso di un sito comunitario, 58% di contributi pubblici, imprenditore inglese (il mediatore dell’affare è stato indicato nel noto Zappia, quello arrestato per le infiltrazioni mafiose nell’affare del Ponte di Messina), su terreni in parte proprietà della moglie e del suocero di Miccichè.

A Regalbuto (Enna) lo stesso Miccichè ha autorizzato la costruzione di un parco tematico con annessi campi da golf e alberghi per 2600 posti letto, sempre all’interno di un sito comunitario. Il parco è grande all’incirca cinque volte la Disneyland di Parigi ed è, a detta degli esperti in materia, destinato a sicuro fallimento sebbene coperto con fondi pubblici al 53% (o forse proprio per questo). La legge 488 per altro (fondi nazionali, tabelle di competenza regionale), nel bando 2003 ora in via di attuazione, ha privilegiato in Sicilia proprio le strutture dotate di campi da golf, e queste adesso spuntano come funghi un po’ dovunque, monopolizzando i sussidî (la presenza dei campi, infatti, fa scattare altri indicatori delle tabelle, legati all’estensione dei progetti). Per i mafiosi festa grande: la legge, strutturalmente, pare fatta su misura per loro (puro movimento terra e speculazione sulle aree, con le spese pagate). Non sono illazioni, sono loro stessi a farcelo sapere illustrando le loro iniziative: si vedano per esempio le straordinarie intercettazioni ambientali del boss di Brancaccio Guttadauro.

Altri poli turistici sono stati proposti pochi giorni fa, in un disegno di legge regionale, addirittura all’interno dei parchi dell’Etna, delle Madonie e dei Nebrodi, con vivo allarme dei naturalisti.

E proprio nella città in cui Prodi ha parlato, Siracusa, è stato costruito, con un contributo di sette milioni della legge 488 ed eludendo le norme sulla VIA, un villaggio Alpitour di oltre 1500 posti letto, della cui superfluità anche economica la città si sta pian piano accorgendo. Altre iniziative consimili, promosse dalla locale amministrazione di centrodestra, sono state fermate dopo dure polemiche, la cui è eco qui è ancora viva.

Non è vero perciò, in via di fatto, che il centrodestra non abbia realizzato niente. Magari.

Quanto alla parte propositiva del discorso di Prodi sul turismo, non mi pare che, per com’è stata presentata, essa si discosti granché nella sostanza dal modello ora malamente seguito. Né conta molto se si riuscirà ad evitare, di quest’ultimo, le forzature clientelari e localistiche. Nemmeno su ciò per altro c’è da giurare: l’incredibile Disneyland di Regalbuto è appoggiata coralmente anche dai sindaci e dal deputato locale del centrosinistra!

Senza dilungarmi (nel sito del resto sono già apparsi, sul tema, alcuni contributi pertinenti, per esempio quelli di Carla Ravaioli e Giorgio Todde), accenno in modo sommario ai requisiti che dovrebbero caratterizzare il nuovo modello, da contrapporre a quello affaristico-speculativo ora invalso. Dovrebbe essere sostenibile (trovate pure un’altra espressione se questa vi pare consunta), endogeno e diffuso. La sostenibilità bene intesa esclude di per sé quasi tutte le iniziative promosse dalle lobbies e in parte accettate dallo stesso Prodi: dai villaggi spalmati su quanto resta delle nostre coste per finire con i campi da golf, un insulto e un crimine in una terra povera d’acqua. Essere endogeno significa promuovere le iniziative locali, arrestando la colonizzazione delle multinazionali del turismo e il drenaggio delle risorse. Essere diffuso vuol dire tener conto, senza superarle, delle capacità di carico, ambientale e sociale, delle singole aree, e delle loro vocazioni.

Prodi – per cui malgrado tutto voterò alle primarie – porta a modello la Tunisia (che non è più, è vero, quella degli anni ‘60) [1] e Malta, la cui politica turistica si segnala per un’indubbia dinamicità “levantina”, ma che di certo sostenibile non si può definire. Ci sarebbe molto da precisare al riguardo, a cominciare dall’opportunità di accostamenti con paesi in via di sviluppo, la concorrenza con i quali, per tanti motivi, ci vedrà sempre perdenti.

Mi limito a chiedere qui: e se invece il modello a cui guardare, fondato sulla non esauribilità della crescita e delle risorse e sulla loro “monopolizzazione” virtuosa, fosse da cercare molto più vicino, per esempio nella Sardegna di Soru?

[1] Qui su eddyburg, si vedano le riflessioni e le impressioni, di prima mano, dedicate al turismo in Tunisia da Maria Pia Guermandi.

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