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La Repubblica e il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2016 (m.p.r.)


La Repubblica

LA BEFFA DELLE TRIVELLE: LA GUIDI LE AUTORIZZÒ PRIMA DEL DIVIETO

di Liana Milella

Roma. Le isole Tremiti. Ma anche il golfo di Taranto. E pure Pantelleria. E Ombrina mare in Abruzzo. Per poche migliaia di euro, per la precisione 5,16 euro per chilometro quadrato, il Mise, alias il ministero per lo Sviluppo economico retto dall’ex vice presidente di Confindustria Federica Guidi, ha concesso altrettanti permessi di ricerca petrolifera. Ha autorizzato trivellazioni insomma.
Attenti alle date. Lo ha fatto giusto il 22 dicembre, con tanto di suoi decreti pubblicati in bella evidenza nel Bollettino ufficiale degli idrocarburi. Nessun equivoco, dunque, le carte sono lì. Ne denuncia l’esistenza il verde Angelo Bonelli. S’arrabbia il governatore pugliese Emiliano. Ironizza il sindaco di Tremiti Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, 2mila euro, che dire? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga...».

Ma c’è una coincidenza, le date appunto, su cui conviene riflettere. Decreti del 22 dicembre. Firmati in tutta fretta prima di Natale. Peccato che giusto il giorno dopo, il 23 dicembre, la Camera approva definitivamente la legge di Stabilità, nella quale si cerca di mettere una pezza agli imminenti sei referendum contro le trivelle, proposti da ben dieci Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto), cui la Cassazione ha già dato il via libera il 26 novembre. Ma se la legge cambia i giudici debbono rioccuparsi del caso. Che fa il governo? Inserisce nella legge di Stabilità l’articolo 239 che modifica il decreto legislativo del 2006, il famoso 152 sui reati ambientali. La nuova norma stabilisce “il divieto nelle zone di mare poste entro 12 miglia dalla costa lungo l’intero perimetro nazionale”. Ma proroga fino “alla durata della vita utile del giacimento i titoli abilitativi già rilasciati”. Insomma, finché il giacimento dà petrolio la ditta concessionaria può trivellare, ma stop a nuove autorizzazioni. Che comportano l’utilizzo di tecniche tali da danneggiare la fauna marina. Gli esperti assicurano per esempio che i capodogli sparirebbero per sempre.

Tant’è. Questo articolo 239 un risultato lo ottiene. La Cassazione deve tornare sui suoi passi. L’Ufficio centrale per il referendum il 7 gennaio riesamina i sei referendum alla luce di una regola inderogabile stabilita dalla Consulta, il referendum ha diritto di sopravvivere se la nuova legge lascia un margine. Il presidente Giuseppe Maria Berruti, indicato dal governo come futuro commissario alla Consob, boccia cinque referendum, ma lascia in vita il sesto. Ora sarà la Consulta, da dopodomani, a dire la parola definitiva. Ovviamente, il governo può sempre cambiare la legge finché il referendum non si svolge.

Ma lo stesso articolo della legge di stabilità, che ufficialmente entra in vigore il 30 dicembre, non scalfisce le autorizzazioni rilasciate il 22 dicembre dal ministro Guidi. Per quelle licenze ormai non vale alcun divieto, perché precedono la modifica del governo. Quindi ricadranno nella clausola del possibile sfruttamento del giacimento fin quando esso sarà attivo.

I governatori, Emiliano in testa, sono pronti alla battaglia. Il verde Bonelli è scandalizzato per la mossa del Mise che autorizza le ricerche del petrolio “a Tremiti, uno dei gioielli d’Italia, concesse alla società Petroceltic srl, su una superficie di 373,70 km, per un importo pari a 1.928,292 euro all’anno”. Lo stesso Bonelli denuncia gli altri permessi, a Pantelleria e a Taranto, a favore della Schlumberger Italia. A questo punto, per il destino del referendum sopravvissuto, non c’è che attendere la Consulta.

Il Fatto Quotidiano
“SÌ ALLE ESPLOSIONI PER CERCARE PETROLIO

Il ministero dello Sviluppo ha dato il via libera alle le ricerche petrolifere davanti alle isole Tremiti, per la cifra di 1.929,292 euro l’anno. Lo denuncia Angelo Bonelli, della Federazione dei Verdi.
«IL Ministero dello Sviluppo Economico ha autorizzato le ricerche di petrolio di fronte ad uno dei gioielli ambientali più importanti d’Europa: le isole Tremiti», afferma Bonelli, precisando che «il 22 dicembre 2015 con decreto n.176 è stato conferito il permesso B.R274.EL alla società Petroceltic Italia Srl». L’esponente dei Verdi rileva che le ricerche petrolifere riguarderanno «una superficie di 373,70 chilometri quadrati e in un’area dalla ricca biodiversità marina» e che «verranno utilizzate le tecniche più devastanti, come l’air gun, per le ricerche di idrocarburi». La Petroceltic Italia, prosegue, pagherà allo Stato italiano «la cifra di euro 5,16 per chilometro quadrato, per un totale di 1.928,292 euro l’anno».
Una cifra esigua che scatena l'ironia del sindaco delle Tremiti, Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, cosa vuole che le dica? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga». «Ho chiamato subito il presidente della Regione Puglia - riferisce il sindaco - mi chiedo: può un governo decidere senza tenere conto del parere delle Regioni, alcune delle quali hanno proposto i referendum contro le trivellazioni?. Noi siamo un piccolo comune, abbiamo fatto diverse manifestazioni, qui e a Peschici, Manfredonia, anche con il compianto Lucio Dalla. Tutto per fermare questa idea». Da parte sua il governatore della Puglia, Michele Emiliano, invita «le Regioni che hanno proposto il referendum a non fare passi indietro. Dovranno elevare subito conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato davanti alla Corte Costituzionale».
Ma non è solo nell'Adriatico che partiranno le ricerche. Altri permessi, secondo l’esponente dei Verdi, «sono in corso di autorizzazione» in un’area di 4.124 chilometri quadrati davanti all’isola di Pantelleria e nel golfo di Taranto, per estensione di 4.025 chilometri «a favore della Schlumberger Italiana». Sempre a Pantelleria, prosegue, «è stato sospeso un permesso all’Audax Energy, non revocato, in attesa di un idoneo impianto di perforazione».
Complessivamente, aggiunge Bonelli, «in Italia sono vigenti permessi di ricerca per idrocarburi per un totale di 36.462 chilometri quadrati». Di questi, 90 riguardano la terraferma, per 27.662,97 chilometri quadrati; le autorizzazione per i fondali marini sono 24, per 8.800 chilometri quadrati: «Si sta perforando - osserva - un territorio equivalente a quello di Lombardia e Campania messe insieme». Per Bonelli «l'Italia deve fermare le trivelle, non i referendum, valorizzare i suoi tesori ambientali, tutelare l'economia della pesca, dell’agricoltura e del turismo che sono messe a rischio dalle tecniche invasive e distruttive di perforazione».

La Repubblica

“TRADITI I PATTI: ORA PRONTI A SCATENARE L'INFERNO”
intervista a Vittorio Emiliani di Giuliano Foschini

Bari. «Una vergogna e una follia». Il Governatore della Puglia, Michele Emiliano, giura che non ci sarà alcuna possibilità: «Il mare delle Tremiti non sarà trivellato. Caso contrario, scateneremo l’inferno».
Presidente, il decreto , firmato il 22 dicembre dal ministro Guidi, parla chiaro: con duemila euro all’anno, Petroceltic Italia può cominciare i lavori.
«Trovo questo atteggiamento del Governo irresponsabile con le regioni e con il popolo italiano. Da un lato mandano in Gazzetta ufficiale lo stop alle trivellazioni e dall’altro, poche ore prima, autorizzano nuove ricerche. Tra l’altro nei posti più belli d’Italia: le Tremiti, Pantelleria, il Golfo di Taranto. Non è possibile».
Che si fa quindi?
«Faccio appello al presidente Matteo Renzi affinché revochi immediatamente tutte le autorizzazioni. Tra l’altro, il Governo, tramite alti esponenti, aveva dato a tutti noi presidenti di Regione la propria parola che la questione era conclusa. Non può essere che la volontà di ben dieci Regioni di tutelare il loro mare sia sbeffeggiata. Non posso credere che l’emendamento “natalizio” sia stato soltanto un trucco per ammansirci e poi, comunque, trivellare ovunque come se niente fosse, una volta superata l’emergenza della reazione dell’opinione pubblica. Anche perché il diavolo fa le pentole e non i coperchi».
Che vuole dire?
«Che resta il fatto che almeno un quesito dei sei sarà sottoposto a referendum. E certo le Regioni non faranno alcun passo indietro. Anzi».
Anzi?
«Dovremo elevare subito un conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per alcune norme dell’emendamento natalizio che hanno scippato al popolo italiano la possibilità di esprimersi in sede referendaria. Si dovrà inoltre iniziare subito la campagna referendaria valutando tutte le altre iniziative necessarie alla tutela del nostro mare».
Sarà un nuovo motivo di scontro tra lei e il governo del segretario del suo partito.
«Qui è in gioco la difesa della mia terra e della volontà popolare. Io credo molto nel referendum: è giusto che si dia alle nostre comunità la possibilità di decidere sulle ricerche di idrocarburi, che possono essere sì un’opportunità, ma anche una minaccia che rischia di rovinare il nostro mare, che è la principale risorsa e attrattiva turistica delle regioni del Sud. Noi siamo per ridurre queste ricerche, se possibile per azzerarle. Il Governo mi sembrava avesse un’altra posizione. Che aveva però rivisto con l’emendamento di dicembre. Ma evidentemente avevamo capito male. E io l’avevo intuito: era stato formulato e approvato senza neppure uno straccio di dichiarazione politica di pentimento da parte del Governo e della sua maggioranza. Poi ora scopriamo queste nuove autorizzazioni. Ecco perché serve un passo indietro subito. Altrimenti, sarà battaglia».

il manifesto, 10 gennaio 2016

TORNA LO SPAURACCHIO TRIVELLE
di Serena Giannico

Chieti. «Perché questa matassa, in questo Paese?», è la domanda della ricercatrice e docente universitaria Maria Rita D’Orsogna, abruzzese «doc» anche se lavora in California, che segue vicende e scempi legati al petrolio. Il quesito riguarda la piattaforma off shore «Ombrina mare» che la Rockhopper Exploration vuole realizzare in provincia di Chieti a ridosso delle spiagge della decantata Costa dei Trabocchi.

Il governo dopo il colpo di scure inferto prima di Natale, invece di «seppellire» definitivamente il progetto, ha prorogato di un anno la concessione alla multinazionale. Lasciando tutti interdetti, tutti tranne il coordinamento No Triv, che aveva messo in allerta riguardo ad eventuali tranelli. Nel frattempo la battaglia, che sembrava avviarsi a conclusione, prosegue a suon di carta bollata e ricorsi.
Attraverso emendamenti alla legge di Stabilità, il governo a fine 2015 ha ripristinato il limite di 12 miglia dalla costa per nuovi permessi di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare. E la Rockhopper, compagnia con interessi nel bacino delle Falkland e nel Mediterraneo, che sembrava aver incassato tutte le autorizzazioni per avviare la costruzione del contestatissimo impianto, in un’area di 271,25 chilometri quadrati, si è ritrovata improvvisamente bloccata. Così il 30 dicembre scorso si è rivolta alla magistratura, con un ricorso al Tar del Lazio contro il ministero - oltre che nei confronti della Regione Abruzzo, delle Province di Pescara e Chieti e dei comuni interessati dal progetto - , reo di «non aver ancora rilasciato la concessione di coltivazione del giacimento Ombrina mare», «in violazione» - viene fatto presente negli atti - di tutti i termini di legge e per essere «in contrasto col fondamentale principio del buon andamento dell’azione amministrativa».
Però scrive sul proprio sito, ai propri azionisti... «At the same time, Rockhopper has been granted a 12 month extension to the suspension of the Ombrina Mare exploration permit to 31 December 2016». Ossia... «Allo stesso tempo abbiamo ottenuto una proroga della concessione per 12 mesi...». Che significa? «Che per l’Abruzzo non è l’ora di cantare vittoria, io credo”» dichiara Maria Rita D’Orsogna. Prima si fa la legge e poi subito... l’inganno. «I provvedimenti pre festivi sono stati adottati per evitare il referendum? - chiede la ricercatrice - Era solo un’attesa in vista di elezioni future, e quindi inventiamoci uno standby? Era perché i prezzi del petrolio sono bassi e quindi meglio aspettare? C’è dell’altro? E chi lo sa. Sappiamo solo che c’è questo limbo di un anno. È una storia senza fine, in cui, come sempre, a perderci è forse l’unica cosa più importante dell’ambiente italiano, e cioè la democrazia».
Ma ripercorriamo le tappe di Ombrina. «Prima del 2010 - rammenta D’Orsogna - non esistevano fasce di rispetto in mare e infatti si poteva trivellare un po’ dove capitava. Pure a meno di due chilometri dalla riserva naturale di Punta Aderci, nel Vastese, come voleva fare la Petroceltic d’Irlanda. Questo mentre in California, per dirne una, la fascia di rispetto era di 100 chilometri da almeno trent’anni». Nel 2010 anche l’Italia vara la sua fascia di protezione, di 5 miglia, che diventano 12 in caso di aree protette. Ombrina pare defunta, perché a sei chilometri dal litorale. «Nel 2012 arrivano Corrado Passera e i suoi amici a inventarsi il barbatrucco della fascia di rispetto "non retroattiva": non si applica a concessioni esistenti, che poi sono quelle che coprono la stragrande maggioranza delle coste della Penisola». Ombrina resuscita.
Nel 2015 la fascia di rispetto viene ripristinata. «Ombrina muore di nuovo. Anzi, no. È solo in coma». «Non è da Paese normale - tuona la docente universitaria - fare una legge e cambiarla cosi radicalmente ogni due o tre anni. Con questi comportamenti non siamo di fronte a governanti che hanno a cura la Res publica, in modo pulito, chiaro. Abbiamo a che fare con una accozzaglia di decisioni confuse. Tornando ad Ombrina: perché mai aspettare ancora un altro anno? Sono otto anni che si va avanti. A rimpalli. E siamo ancora qui a discutere di un petrol-mostro che nessuno, da nessuna parte del mondo civile, metterebbe così vicino a riva». È evidente - sostiene invece il coordinamento No Ombrina - che la nuova norma ha stoppato il progetto, così come appare chiaro come non sia centrale la questione della sospensione del decorso temporale del permesso di ricerca (che comunque sarebbe scaduto tra anni anche senza la sospensione). «Prima eravamo noi a dover fare ricorso al Tar - dicono gli attivisti - Ora sono loro, in un sentiero molto stretto. Ovviamente interverremo ad opponendum per contrastare tutte le istanze dell’azienda e per evitare qualche scherzo da parte del ministero».

MIGLIAIA A LICATA CONTRO I POZZI OFF-SHORE
di Andrea Incorvaia

Licata. La piazza parla, canta e fa sentire il suo dissenso da Licata, periferia della periferia, in una regione abbandonata a se stessa. Quasi duemila donne e uomini di ogni età hanno partecipato alla manifestazione lanciata dal comitato No Triv di Licata. L’iniziativa è stata abbracciata da un’isola intera, stretta attorno a una comunità che prova con forza a dire no ad un progetto calato dall’alto e privo di ogni logica. Proponendo, per mezzo di un’autentica piattaforma politica, un piano di sviluppo diverso, che guardi al bene reale della collettività.
Le strade della cittadina siciliana hanno visto una buonissima cornice di pubblico: secondo le stime ufficiali il «fiume umano» annoverava più di millecinquecento persone, con una nutrita rappresentanza regionale. Il coro unanime del dissenso ha fatto da eco alle notizie provenienti da Roma: il governo infatti è stato bocciato dalla Cassazione sul capitolo referendario sulle trivellazioni, notizia resa nota proprio il giorno prima della manifestazione. Il quesito sulle operazioni di trivellazioni a mare potrà svolgersi, così hanno deciso i giudici. Ora la battaglia si sposterà sugli altri quesiti in materia di estrazione di idrocarburi.
La manifestazione di Licata ha fatto da cassa di risonanza a tutto quello che è accaduto, tante le voci che hanno voluto testimoniare questo dissenso collettivo. «Il problema delle trivellazioni andrebbe a toccare tre punti pericolosi per la collettività - osserva Fabio, portavoce e direttore del gruppo archeologico locale - anzitutto il danno all’ambiente e all'economia del pescato. Poi un danno di immagine turistico enorme, poiché queste operazioni di trivellazione allontanerebbero sensibilmente il turismo, come già successo per Gela. Infine il danno al potenziale archeologico: queste operazioni invasive andrebbero a ricadere su settori che quasi sicuramente celano resti di quella che fu la grande battaglia del Monte Ecnomo, del 264 a. C. tra Roma e Cartagine».
Rocco, attivista del comitato No Triv, tira le somme della manifestazione: «Le sensazioni sono state molto positive, oltre alla partecipazione dei pescatori è stata importante la presenza in piazza di alcuni pezzi delle istituzioni. Notevole l’intervento del vicesindaco di Noto, un comune da tempo in guerra per le trivellazioni, e di una consigliera comunale di Palermo, che ha letto il messaggio inviato da Leoluca Orlando con la sua solidarietà e vicinanza, sia come sindaco che come presidente dell’Anci siciliana. Assordante invece il silenzio dell’amministrazione locale, è mancato un intervento pubblico con un chiara presa di posizione». Parole precise, che si sposano con quelle di Andrea, attivista No Muos di Gela, città molto interessata da quello che sta accadendo: «Siamo venuti in buon numero dalla nostra città, perché l'intera comunità guarda con apprensione alle vicende del petrolchimico e alla sua paventata "riconversione ecologica".
Dalla fine del 2014 assistiamo ad un ricatto di Eni sulla riconversione e le eventuali trivellazioni. Sono venuti in piazza i dissidenti dell’amministrazione messinese (il sindaco Accorinti ndr), per manifestare la loro contrarietà ai progetti della giunta». Al coro si unisce Antonino, presidente dell’associazione A testa alta, da tempo impegnata nella lotta alle mafie: «È stata una manifestazione vissuta all’insegna dell’unità tra cittadini, associazioni, comitati e movimenti, provenienti da più parti della Sicilia e che, mossi da un obiettivo comune, hanno sfilato per la città in modo civile, rivendicando diritti e valori fondamentali come l’ambiente e la salute.
In una città come Licata dove, addirittura nel silenzio delle istituzioni, si è assistito in tempi recenti a devastanti operazioni speculative immobiliari e commerciali danneggiando il litorale cittadino, mascherate da investimento nel settore turistico e diportistico, quella di oggi è una giornata storica». Non poteva mancare la presenza degli studenti: «Bisogna lottare e combattere contro questo genere di opere - denuncia il liceale classico Davide - che devastano e stuprano il nostro territorio. Bisogna sensibilizzare tutti gli studenti, e tutti gli istituti scolastici della zona».
Riferimenti
Si veda su eddyburg di Cristiana Salvagni Trivelle in mare, stop del governo, Sulle battaglie dei no triv e sul progetto Ombrina numerosi articoli su eddyburg raggiungibili con il "cerca".

La Repubblica, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

Il governo fa marcia indietro sulle trivellazioni in mare e lo fa presentando un emendamento alla legge di stabilità che ripristina nell’Adriatico il divieto di perforazioni petrolifere entro le 12 miglia dalla costa.

Vince così la sua lunga battaglia ambientalista la Regione Abruzzo perché uno dei primi progetti a saltare potrebbe essere quello che interessa Ombrina Mare, della società inglese Rockhopper, che prevede la trivellazione di sei pozzi a sette chilometri dalle spiagge, davanti a San Vito Chietino. Sono comunque almeno una decina gli altri progetti di sfruttamento di idrocarburi liquidi e gassosi che potrebbero trovarsi in bilico.
Negli ultimi mesi sono state molteplici le manifestazioni e le proteste che hanno fatto pressione sull’esecutivo per spingerlo a fare dietrofront in tema di trivelle: dai 60mila scesi in piazza a Lanciano, nel maggio scorso, alle centinaia di persone che un mese fa hanno sfilato sotto al ministero dello Sviluppo economico durante una conferenza dei servizi.
L’onda delle proteste ha anche portato tre mesi fa dieci regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) a depositare in Cassazione sei quesiti referendari contro le trivellazioni entro le dodici miglia, che chiedono l’abrogazione di un articolo dello Sblocca Italia e di cinque articoli del decreto Sviluppo. Quesiti a cui la Cassazione ha dato il via libera il 28 novembre scorso.
«Tutto è partito dall’iniziativa referendaria decisa a luglio con i presidenti delle Regioni Marche, Molise, Puglia, Basilicata e Calabria. Anch’esse minacciate da progetti di escavazione petrolifera», commenta soddisfatto il presidente dell’Abruzzo Luciano D’Alfonso. «Oggi raccogliamo i frutti di quell’intesa, anche grazie all’attenzione che ci ha riservato il governo».
Un’attenzione su cui si è scatenata una piccola polemica politica. «È incredibile la giravolta di Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera, tra i fautori della legge Sblocca Italia. Oggi dice che voterà sì al referendum antitrivellazioni: voterà contro una legge che con tutto se stesso ha contribuito a far approvare » commentano i deputati del Movimento 5 stelle delle commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera. «Ben venga che si sia reso conto che trivellare il mare è sbagliato. Ma evidentemente era più importante assecondare i progetti pro-fossili del governo».

«Non è un'analisi tecnica, ma è piuttosto un tentativo di sintesi ampio e didascalico che cerca di analizzare politicamente una deriva, senza sconti per nessuno. Un contributo per informare, per aprire a pubblici nuovi, per discutere e quindi per poter andare avanti».

Aree protette, una forma di tutela specifica

I parchi naturali - o aree protette, termine che però ha significato tecnico più ampio - sono strumenti di tutela della natura, del paesaggio e del territorio tra i più visibili e popolari.

Non è difficile comprendere i motivi di questa popolarità. Si tratta di porzioni di territorio precisamente delimitate all’interno delle quali valgono regole particolari, che hanno per lo più come fine la salvaguardia di “oggetti” cari all’immaginario collettivo (quell’animale, quel bosco, quella specie botanica, quella montagna o quel tratto di costa, quel panorama). Inoltre tra i loro scopi fondamentali ci sono l’educazione naturalistica e il turismo sostenibile cosicché gli enti che li gestiscono svolgono da sempre un’intensa attività promozionale che accresce la visibilità e la popolarità delle loro ricchezze, ambientali e antropiche. In alcuni paesi - Stati Uniti in testa - i parchi rappresentano storicamente delle componenti essenziali dell’identità nazionale.

All’interno della cultura urbanistica più avvertita si è più volte messa in discussione la logica che sta alla base della creazione dei parchi. Si è denunciato la limitata efficacia di una tutela territoriale che si applica a frazioni - spesso molto piccole - di territorio a volte con il risultato di distogliere l’attenzione dalla necessità di tutelare adeguatamente il territorio nel suo complesso. In qualche caso si è arrivati a imputare alle aree protette una sorta di funzione consapevolmente compensativa e consolatoria: proteggere qualche emergenza per avere mano libera di mettere a sacco senza troppe critiche o remore il resto del territorio.

Il caso italiano nei decenni più recenti, dallo slancio alla crisi

Se queste critiche possono avere qualche fondamento per qualche caso specifico o in specifici contesti e se possono più in generale puntare utilmente il dito su culture della tutela “orbe”, incapaci cioè di farsi carico della complessità e della totalità del territorio, il caso italiano parla però di un’altra storia.

Il momento più alto dei parchi italiani, quello che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta, è stato infatti animato da un movimento ampio e articolato che ha ragionato in modo sistemico dei parchi e li ha spesso progettati in ottiche globali, connesse alla tutela complessiva dell’ambiente, alla ricerca di modelli alternativi di sviluppo, in relazione ad altre forme di tutela e con un ambizioso sguardo al futuro. Non isole “belle”, capaci di acquietare i bisogni eterei di élite romantiche, ma strumenti di governo e di sviluppo dei territori incardinati in visioni più ampie e gestiti democraticamente. La legge quadro sulle aree protette, la n. 394 del 1991, costituisce il frutto più maturo di questa visione e dell’operato di quel movimento e non casualmente è stata approvata nella medesima legislatura in cui fu approvata un’altra grande legge di governo del territorio, la n. 183 del 1989, sulla difesa del suolo.

Se il periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta può essere effettivamente considerato il punto di massimo slancio ed incisività del movimento, quello delle sue massime realizzazioni, al tempo stesso costituì il momento dell’inizio del suo declino. Erano gli ultimi barlumi della grande spinta democratica e progressista avviatasi alla metà degli anni Sessanta, presto sepolti dall’avvento del berlusconismo e ancor più dai suoi cascami neoliberisti che si prolungano fino ad oggi acquistando peraltro un’aggressività sempre maggiore. Non è un caso che le due grandi leggi appena citate, quella sulle aree protette e quella sulla difesa del suolo, sono rimaste largamente inapplicate oppure inapplicate in diversi loro aspetti cruciali.

I parchi naturali italiani, conquista di civiltà, frutto del lavoro benemerito di élite illuminate dagli anni Dieci agli anni Sessanta e in seguito frutto della crescita culturale e politica di larghissime fasce di popolazione, vivono di conseguenza da un ventennio in una spirale di crisi crescente e per molti aspetti drammatica. E diversi segnali recenti parlano di un aggravamento ulteriore di questo quadro di crisi, senza alcun segno che vada in controtendenza.

Ho cercato di isolare quelli che a mio avviso sono gli elementi strutturali di questa deriva. E li elenco.

L’asfissia finanziaria

Da diversi anni, anzitutto, si sta procedendo in Italia a un lento strangolamento dei parchi attraverso la progressiva decurtazione delle disponibilità finanziarie e all’imposizione di pastoie burocratiche che rendono molto difficile spendere in modo efficiente. Questa modalità non è però specifica delle aree protette: coerentemente con le premesse della politica economica neoliberista dominante nei paesi occidentali da quasi un quarantennio essa investe la stragrande maggioranza delle istituzioni pubbliche rivolte ai servizi alla collettività. Ne sono affetti del pari il sistema formativo (scuole, università), il sistema sanitario, gli enti locali, i vari sistemi di controllo e di tutela, quelle che erano le partecipazioni statali.

Alla base del progressivo ischeletrirsi della capacità di spesa dello Stato è innegabile che ci siano l’ormai insostenibile servizio del debito pubblico e la restrizione della base imponibile dovuta alla crisi economica in atto dal 2007-2008. E tuttavia l’abolizione di alcune fondamentali forme di prelievo fiscale da un lato (caso esemplare: ICI/IMU) e dall’altro la scelta plateale di non intaccare per alcun motivo le spese riguardanti il monopolio statale della forza interna ed esterna (caso esemplare: F35) e i provvedimenti che favoriscono le lobby imprenditoriali e finanziarie legate a doppio filo con gli apparati di partito (caso esemplare: ponte sullo Stretto) mostrano come sia all’opera oggi in Italia un meccanismo neoliberista lucido, determinato e sempre più implacabile di smantellamento di tutto l’intervento pubblico, anche quello basilare, nel campo dei diritti di cittadinanza: salute, istruzione, ambiente, cultura, previdenza, infrastrutture civili. La nuova “crisi fiscale dello Stato” viene anzi impugnata come pretesto per smantellamenti sempre più radicali.

I parchi stanno pienamente dentro questa bufera, per di più come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. Se infatti l’istruzione, la sanità, la previdenza e in parte anche la cultura si possono privatizzare “valorizzandone” i pezzi vendibili e chiudendo o lasciando tutto il resto all’abbandono, per la “natura di valore” non c’è sostanzialmente mercato. E anzi, se mercato c’è è pressoché soltanto per consumarla indiscriminatamente: cioè proprio per fare ciò che i parchi devono scongiurare.

Il lucido smantellamento degli strumenti di tutela

Che questa sia l’intenzione di coloro che si sono alternati al governo negli ultimi anni, con una decisa e non casuale impennata decisionista più recente, è dimostrato dal combinato di disposizioni con al centro il cosiddetto “decreto Madia” che aboliscono la più che secolare autonomia di due fondamentale corpi di tutela, culturale e ambientale, come le Soprintendenze e la Forestale per metterli rispettivamente sotto il controllo delle Prefetture e dei Carabinieri. Tale abolizione fa al tempo stesso venire meno la specificità della loro missione e l’efficacia del loro operato, lasciando così più assai più libere le mani a chi voglia disporre senza pastoie dei beni culturali e ambientali italiani. Ed è ben difficile credere alle ragioni di economicità e di razionalizzazione addotte dal legislatore quando appare ben evidente da un lato che questi provvedimenti non producono risparmio di sorta e da un altro lato che avevano carattere squisitamente programmatico le parole dell’allora sindaco di Firenze e oggi Presidente del Consiglio quando affermava nel 2010 che «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia sin dalla terza sillaba [...] un potere monocratico che non risponde a nessuno».

Dei contorni e dei possibili esiti di questo programma neoliberista di “stato minimo” nel campo della tutela artistica ha di recente stilato un’analisi illuminante Vittorio Emiliani introducendo un incontro dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, una lettura che fa impressione e alla quale non posso che rimandare.

La latitanza delle strutture di governo

La crisi progressiva delle aree protette italiane dipende in modo cospicuo dalla latitanza, che in qualche caso è cronica e in qualche altro è sopravvenuta di recente, degli organi di governo istituzionale da cui esse dipendono: il governo centrale - e in particolare il Ministero dell’Ambiente - e le Regioni. Se la legge quadro prevedeva un ruolo attivo e dinamico del Ministero attraverso una serie di strumenti gestione assai avanzati, quel che è successo è da un lato che tali strumenti sono stati presto messi da parte in modo tale che la funzione di coordinamento e indirizzo centrale è totalmente saltata già a livello normativo e da un altro lato si sono succeduti ministri e direttori generali che hanno totalmente abbandonato a se stesse le aree protette, salvo vessarle di tanto in tanto con circolari burocratiche, paralizzanti e di nessuna utilità e procedere con le nomine nei modi e coi criteri che presto vedremo.

Da molti anni insomma il Ministero, puramente e semplicemente, non c’è, a differenza della quasi totalità degli altri paesi europei e possono passare indisturbati provvedimenti che dimidiano la stessa legge quadro, come la sottrazione alle aree protette della competenza sul paesaggio. Le Regioni, protagoniste di un eccezionale moto di rinnovamento e di protagonismo negli anni Settanta e Ottanta, stanno anch’esse nel loro complesso tirando i remi in barca. Anche alcune di quelle che in passato si sono maggiormente distinte per intraprendenza e capacità di governo stanno rinnovando “al ribasso” le proprie normative, a testimonianza di un interesse e di una volontà politica che stanno rapidamente scemando. Proprio di queste ore è ad esempio il caso, denunciato da un drammatico appello delle associazioni ambientaliste, della Regione Marche che si appresta a mandare in bancarotta il sistema delle proprie aree protette dimezzando la loro dotazione finanziaria.

Ma la cronica assenza ministeriale e la lenta ritirata delle Regioni si manifesta plasticamente in questa chiusa di 2015 con un evento a suo modo storico: lo smembramento di fatto del Parco Nazionale dello Stelvio, che infatti rimarrebbe unitario e nazionale soltanto sulla carta. E’ la prima volta in Europa che un parco nazionale così antico (1935), così vasto (130.000 ettari, per decenni di gran lunga la più ampia riserva italiana) e così importante dal punto di vista naturalistico viene di fatto abolito. E’ vero che la sua eliminazione è stato obiettivo storico dei politici sudtirolesi sin dal 1945, perseguito con una tenacia prossima all’ossessione in quanto imposizione “italiana” su un territorio “tedesco”. E’ vero - come sottolinea Franco Pedrotti e come avvertirono lucidamente già all’epoca le associazioni ambientaliste - che tale esito era potenzialmente segnato già nelle norme di attuazione dello Statuto Speciale della Regione Trentino-Alto Adige nel 1974. Ma è altrettanto vero che in oltre quarant’anni quest’esito è stato evitato, in taluni casi anche in modo drammatico come quando nel 2011 il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto che attuava tale disegno. Oggi invece, in armonia con lo spirito dei tempi, la morte annunciata può finalmente verificarsi: “il governo Renzi - comunica Salvatore Ferrari di Italia Nostra - ha dato il via alla nuova governance del Parco Nazionale dello Stelvio, che tradotto significa soppressione del Consorzio del Parco istituito con DPCM nel 1993 e smembramento del Parco in 2 parchi provinciali ‘speciali’ e un parco regionale ‘ordinario’, quello lombardo”.

Abbiamo così i politici sudtirolesi che fanno finta di piangere lacrime di coccodrillo ma assaporano una così a lungo sospirata vittoria, le istituzioni della tutela silenti, il mondo ambientalista italiano pervaso da stupore e da un dolore sordo e impotente e l’Europa che guarda con ulteriore preoccupazione a un Paese come il nostro capace di conquistare il record di primo paese europeo ad abolire la gestione unitaria - l’unica che può dargli senso e reale efficacia - di un grande parco nazionale di importanza mondiale mentre gli altri paesi, a partire dalla confinante Svizzera, continuano a potenziare le loro reti di parchi istituendo riserve di ogni livello.

Presidenze e direzioni: appendici partitiche e funzionari sotto ricatto

Il silenzio delle istituzioni di tutela, e dei parchi stessi in particolare, non è però casuale.

Della grande anomalia storica degli anni 1965-95 che ha portato alla legge quadro e alla decuplicazione della superficie territoriale protetta da parchi faceva parte un notevole grado di autonomia dei direttori e dei presidenti dei parchi. Non che non ci fossero nomine squisitamente politiche o persino direttamente partitiche, ma molte figure di direttori e di presidenti erano valide espressioni del mondo scientifico o ambientalisti convinti e per lo più operavano con notevole indipendenza operativa e progettuale. Alcune di queste figure hanno fatto la storia dei parchi italiani mantenendo un rapporto fortemente dialettico con il mondo politico: l’ossatura dell’attuale legge quadro, tanto per dare un’idea di questo rapporto, non è nata in uffici ministeriali né nelle commissioni parlamentari ma soprattutto da successive riscritture avvenute nella sede del Parco nazionale d’Abruzzo, a Pescasseroli.

Si trattava di un’anomalia istituzionale? Può darsi. Ma in questo modo il contributo che le aree protette hanno dato in quegli anni allo sviluppo della protezione della natura in Italia è stato formidabile in termini di idee, di denuncia, di proposte, di stimolo culturale.

Bene, quell’anomalia è stata progressivamente “sanata”, sia nella prassi corrente sia operando sui meccanismi di nomina.

Dopo un periodo in cui Alleanza Nazionale ha tentato - peraltro con un momentaneo successo - di fare delle presidenze dei parchi nazionali una propria “specialità” all’interno di coalizioni di governo che aveva la testa in tutt’altre cose, il pallino è definitivamente tornato nelle mani dei partiti (o meglio: degli eredi dei partiti) che avevano “fatto” i parchi regionali e la legge quadro, cioè il Pci e la Dc ora nella nuova veste di partito unico. Ma ci è tornato non più nell’ottica che animava (almeno nominalmente) la legge quadro, quella cioè della partecipazione democratica alla gestione delle aree protette, ma in quello di un controllo diretto di presidenze e direzioni. Si è assistito così a nomine sempre più politiche, sempre più sganciate da competenze e da storie di coinvolgimento serio nella protezione della natura e da una marcatura sempre più stretta sui direttori, che oggi infatti possono essere magari ottimi amministratori ma appaiono quasi sempre soggetti politicamente inerti e silenti, contrariamente a quanto avveniva nella fase precedente. Su alcuni casi di nomine si sono addirittura incentrate battaglie nazionali, come nel delicatissimo caso della presidenza del Parco nazionale d’Abruzzo verificatosi lo scorso anno.

Ma se è difficile effettuare una ricostruzione e una interpretazione globale delle vicende che nel corso degli anni, anche più recenti, hanno riguardato le nomine nelle aree protette italiane, il disegno di azzerare l’autonomia dei direttori è chiarissima nella volontà dei legislatori tanto berlusconiani quando “democratici”. Circola infatti da due anni una proposta di riforma della legge quadro del 1991, presentata in chiusura di legislatura dal senatore berlusconiano Antonio D’Alì e poi significativamente ripresentata con i medesimi contenuti e in gran parte con l’identico testo in apertura della nuova dal senatore “democratico” Massimo Caleo. Tra i punti chiave di questa “riforma” (che evita con cura di affrontare alcuni nodi cruciali del funzionamento delle aree protette - pur lucidamente additati da molti - ma si concentra quasi esclusivamente su aspetti “corporativi” e di “valorizzazione”) sta la modifica della composizione dei consigli direttivi e il criterio di nomina del direttore dei parchi nazionali. I consigli direttivi vedono radicalmente decurtata la rappresentanza “generale” (mondo scientifico, ambientalismo, ministeri) che passa da oltre la metà a circa un terzo e al contrario vedono amplificata la rappresentanza “locale” (comuni) che passa dal 38,5% al 45% alla quale si aggiunge però un’inedita e incongrua rappresentanza di “categoria”: quella delle associazioni agricole.

Alla realizzazione di un antico sogno di controllo locale sui parchi nazionali si aggiungerebbe inoltre la nomina del direttore, non più scelto come oggi dal ministero tra una rosa di tre iscritti a uno speciale albo cui si accede per concorso ma sarebbe nominato direttamente dal presidente del Parco (a sua volta di nomina politica tout court) sulla base di sue preferenze personali che non passano al vaglio di nessun organo o criterio stringente.

Anche in questo caso si avvera un antico sogno: quello, appunto, di “sanare” l’anomalia italiana di tecnici troppo autonomi, troppo ligi alla missione istituzionale delle aree protette e troppo capaci di progettualità e di iniziativa. Come potranno essere amministrati in queste condizioni i parchi nazionali italiani del futuro non è difficile prevederlo.

Un mondo in ogni caso attraversato da lampi di responsabilità civica

Se si vuole essere onesti, bisogna tuttavia ammettere che - come avviene in molta della pubblica amministrazione italiana - il sistema delle aree protette italiane non si è finora afflosciato su se stesso e non è caduto totalmente preda della disperazione o dello sbando grazie al lavoro paziente e appassionato di una parte cospicua dei suoi dipendenti e dei suoi responsabili. Nonostante le difficilissime condizioni di lavoro, le restrizioni progressive e il disinteresse del mondo della politica l’ampio corpo delle aree protette italiane continua a produrre una quantità strategica e assolutamente preziosa di ricerca scientifica, di educazione ambientale, di sensibilizzazione, di governo del territorio e di tutela della natura. Lo fa - è bene ripeterlo ancora - in condizioni sempre più sfavorevoli e con prospettive sempre più cupe, ma lo fa e resta in tal modo un prezioso baluardo di civiltà, di coesione sociale e di infrastrutturazione culturale e civile.

Un associazionismo in qualche caso poco incisivo e in qualche caso complice. Comunque diviso

Un’altra nota dolente è costituita dalla situazione del mondo dell’associazionismo, che è stato probabilmente il maggior protagonista storico, dalla metà degli anni Sessanta in poi, della crescita e dell’affermazione delle aree protette italiane. Italia Nostra prima di tutte le altre, poi il World Wildlife Fund Italia, il Club Alpino Italiano, Legambiente e in tempi più recenti anche il Comitato per la Bellezza hanno dato un contributo decisivo, soprattutto negli anni Ottanta, alla nascita dei nuovi parchi e all’approvazione della legge quadro, sia a livello di iniziative nazionali sia a livello di iniziative regionali e locali. Il momento di massima incisività è stato sicuramente quello tra il 1985 e il 1991, quando il sostegno attivo di diverse forze politiche e la concorde spinta associativa, ben rappresentata nelle aule parlamentari da figure come Michele Cifarelli, Antonio Cederna e Gianluigi Ceruti, ha consentito la promulgazione di provvedimenti chiave come il decreto Galasso (1985), la legge sui suoli (1989) e quella sulle aree protette (1991).

Da quei tempi il peso reale dell’associazionismo è diminuito in vari sensi. Il senso dell’urgenza della questione ambientale, la sensibilità collettiva al riguardo si è appannata, riducendo così la base di consenso e la conseguente spinta dal basso. Ma a ciò bisogna aggiungere che l’universo dei partiti e della vita politica in generale ha cominciato ad avvertire non più come stimolante, ma come fastidioso e persino accessorio il contributo che veniva dall’associazionismo. La figura dell’attuale Presidente del Consiglio e la sua retorica da messaggeria telefonica rappresentano plasticamente la piena maturazione di questo tipo di atteggiamento: battute ad effetto come quelle riguardanti i “gufi”, i “professoroni” e i “comitatini” esprimono come meglio non si potrebbe un profondo disprezzo per i corpi intermedi della società civile e soprattutto per quelli che svolgono un ruolo di riflessione critica e di proposta alternativa. Oltre - naturalmente - una postura mentale non lontana dalla famosa frase di un non dimenticato despota “orientale” che chiedeva sprezzantemente quante divisioni avesse il Papa.

L’associazionismo si ritrova così indebolito, con frequenti problemi di bilancio, con stimoli dalla base e dai territori più flebili che in passato e non sempre riesce a tenere efficacemente il punto. Nel caso delle aree protette, come si osserva da molti anni a volte con troppa enfasi ma non sempre a torto, il meccanismo delle rappresentanze ambientaliste negli enti parco può provocare spesso atteggiamenti locali di auto-moderazione e di avallo a linee e provvedimenti che altrimenti verrebbero valutati criticamente. Anche chi si batte con maggiore energia trova sempre meno ascolto e anzi - peggio - sempre più porte sbarrate, cosa che in altri tempi non avveniva. La voga “decisionista” porta sempre più a fare a meno anzi di qualsiasi confronto pubblico, di qualsiasi dialogo. Per altri, invece, la tentazione di una sorta di “ambientalismo di governo” è diventato un vero e proprio habitus che consente di tenere posizioni associative e personali a scapito della limpidezza delle iniziative e delle battaglie. Faccio due esempi, e assai dolorosi, tanto per non lasciare le cose nel vago.

Ermete Realacci, ormai all’invidiabile traguardo del quarto mandato, conserva la possibilità di rappresentare l’associazionismo ambientalista italiano in Parlamento - possibilità via via negata ad altri - grazie a una elasticità tale che lo ha portato a votare senza fare una piega i provvedimenti riguardanti Soprintendenze e Forestale che ho citato più sopra. Il premio per l’attivo sostegno di Federparchi, l’organizzazione delle aree protette italiane discendente dal glorioso coordinamento fondato nel 1989, alle politiche bipartisan di depotenziamento dei parchi è invece ben rappresentato da un articolo della proposta di riforma della legge quadro che fa di essa una sorta di agenzia parastatale con delega al controllo e all’orientamento delle aree protette.

Questa deriva, e non poteva essere altrimenti, ha finito col produrre persino spaccature clamorose come quando i “governativi” sono arrivati a tacciare una presa di posizione congiunta di FAI, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Lega per la protezione degli uccelli e Wwf come «ambientalismo da giovani marmotte».

Pezze peggiori dei buchi: dal nesso tutela/ecosviluppo al nesso branding/composizione di interessi locali

Chi ha più potere e interlocuzione politica in mano pensa oggi di uscire da questa grave crisi delle aree protette non più mediante ambiziose proposte di rilancio oppure mediante ragionevoli proposte che correggano le storture e i malfunzionamenti più palesi e al contempo con un appello alla mobilitazione della società civile più sensibile, come è sempre stato negli ultimi decenni. L’idea dominante appare piuttosto quella di spingere a fondo in direzione di un adeguamento delle aree protette all’esistente, cioè al predominio della cultura neoliberista e degli interessi locali e privati.

Mentre nel momento alto degli anni Settanta-Ottanta si puntava su un rapporto audace da costruire tra tutela ambientale e forme di economia sperimentali, più rispettose degli uomini e della natura e più eque, possibili paradigmi per il futuro da esportare al resto della società, nelle proposte di “riforma” della legge quadro presentate dalla maggioranza con il sostegno di Federparchi e Legambiente - quest’ultima con qualche più recente ripensamento - tutto viene ridotto all’ingresso dei portatori di interessi privati (imprenditoria) nei consigli direttivi e alla monetizzazione di attività potenzialmente devastanti.

Un altro punto fondamentale, sul quale si consumarono scontri epici tra forze promotrici dei parchi e della legge quadro, è quello della partecipazione democratica, una volta inteso come elemento di dialogo, di progettazione e di crescita comune di tecnici, studiosi, esperti, ambientalisti, amministratori locali e popolazioni e oggi ridotto a un occhiuto controllo consociativo da parte dei partiti politici e degli amministratori locali sull’attività dei parchi grazie ai nuovi meccanismi di nomina dei consigli e dei direttori.

In questo clima le dirigenze più “avanzate” del mondo dei parchi italiani appaiono quelle oggi freneticamente impegnate nel vendere il brand della propria riserva saltando da una fiera enogastronomica a una borsa turistica, in Italia o all’estero, quando non - come avviene ormai strategicamente nel parco regionale toscano di San Rossore-Massaciuccoli - nell’offrire la parte più pregiata della riserva come location per qualsiasi grande evento si preannunci a portata di mano, dai raduni di massa ai vertici internazionali. Una impostazione che vuole apparire (e a qualcuno effettivamente finisce con l’apparire) una brillante e audace navigazione tra le tendenze più avanzate della società postindustriale e che invece costituisce un triste e rischioso cabotaggio nelle miserie di un modello economico e culturale in crisi profonda. Un cabotaggio, peraltro, del tutto subalterno: che finisce col togliere alle aree protette non solo gran parte della specificità della loro missione, ma anche la possibilità - che in altri tempi c’è stata, e forte - di additare nuovi approcci e nuove strade alla società tutta intera.

Sperare, ma in cosa?

Abolizione del Parco Nazionale dello Stelvio, fine dell’indipendenza della Forestale, mercificazione delle aree protette e loro riduzione a location, proposte di riforma della legge quadro inadeguate e al tempo stesso gravide di rischi: diversamente da come è avvenuto in altre fasi storiche, quando esisteva un ampio consenso e una vasta mobilitazione popolare, questa sembra un’onda di risacca inarrestabile rispetto alla quale sembrano avere voce in capitolo solo coloro che l’assecondano.

Eppure bisogna rimanere convinti che c’è uno spazio per resistere, per continuare a denunciare, a discutere, a dialogare, a sensibilizzare, a fare proposte alternative, a progettare futuri diversi. In molti, in questi anni e anche nei mesi scorsi, hanno fatto sentire cocciutamente la propria voce, con iniziative e appelli. E continuano a farlo, proponendo di continuare a battersi e a discutere in sedi pubbliche.

La storia non finisce qui: a partire dalla nostra capacità di scriverne, di analizzare, di confrontarsi o , per dirla con Edward Said, di «dire la verità».

Il manifesto, 10 dicembre 2015 (m.p.r.)

L’attacco è al «podestà» Renzi. E ai suoi vassalli, valvassori e valvassini. Eh sì, secondo il coordinamento «No Ombrina», che combatte contro la petrolizzazione selvaggia, il governo attuale, con le sue decisioni unilaterali, è a metà tra il «becero autoritarismo» e i passacarte. «E mentre a Parigi, nella Conferenza internazionale sul clima, il nostro premier proclama di voler salvare il pianeta e l’economia, e spinge per un mondo di rinnovabili, in Italia fa carne da macello. All’estero dà un’immagine verde e poi s’affretta a distruggere il suo, il nostro paese»: Alessandro Lanci, coordinatore del movimento, non si risparmia.

Il gruppo antitrivelle dall’Abruzzo approda alla camera dei deputati per una conferenza in cui ribadisce l’assoluta contrarietà di un intero territorio alla realizzazione della piattaforma «Ombrina Mare», della società inglese Rockhopper le cui autorizzazioni sono alla fase finale presso il ministero dello sviluppo economico «nonostante vi sia l’opposizione della Regione, di decine di enti locali, delle associazioni agricole, del turismo e della pesca e della stragrande parte dei cittadini che hanno manifestato in massa contro il progetto».
Che prevede - viene ricordato - di perforare 4–6 pozzi a 5 chilometri dalla Costa dei Trabocchi, che una legge del 2001 ha individuato come meritevole di tutela attraverso l’istituzione di un Parco nazionale. Oltre alla piattaforma si intende ormeggiare per 25 anni una nave raffineria lunga oltre 300 metri che dovrà trattare fino a 50.000 tonnellate di greggio alla volta. «Il tutto - aggiunge Renato Di Nicola - in una zona dove insistono riserve naturalistiche e che è a forte valenza turistica, settore in cui lavorano decine di migliaia di operatori. Basterebbe un solo incidente per devastare l’intero Adriatico e mettere in ginocchio le realtà che si affacciano su questo mare».

Per fermare questo intervento ed altri simili saranno depositati uno o due emendamenti alla legge di stabilità ora in discussione alla camera. Saranno proposti dalle opposizioni, al netto di una probabile fiducia che il governo potrebbe porre sulla manovra. Nello specifico Sel, M5s e Fi ne dovrebbero proporre uno che chiede il ripristino del divieto di perforazioni entro le 12 miglia dalla costa e un altro che scende nel dettaglio e pone il divieto anche dove insistono parchi in costituzione, come in questo caso. Presenti, accanto ai «No Ombrina» Gianni Melilla, di Sel, Gianluca Vacca, dei Cinque Stelle, e la senatrice, di Forza Italia, Paola Pelino.

Emendamenti di questo tipo sono stati bocciati in commissione bilancio, ricorda Melilla: «Il Pd e Ncd-Ap hanno ritenuto di non confermare quello che avevano detto a livello locale». Nel ruolo di minoranza, evidenzia Pelino, «l’unica cosa da fare è presentare gli emendamenti. Le regioni interessate - prosegue - dovrebbero poi premere per un decreto legge che potrebbe essere l’unico strumento per bloccare le multinazionali del greggio». «Il governo è colluso con i petrolieri - riprende Lanci - e mette a rischio l’ambiente e la salute. Questo però - osserva - è un problema che riguarda tutta l’Italia». Il grillino Vacca affonda: «Il Pd è il partito del petrolio». E, quasi a conferma, i deputati del partito democratico, seppur invitati, non si presentano all’appello dei «No Ombrina». «Perché - afferma Lanci - il podestà richiama all’ordine e punisce. Ma poi non si disfa di funzionari ministeriali che spalleggiano lobbies private; poi non rivede i progetti approvati dal Comitato Via (Valutazione impatto ambientale) sciolto perché regno di personaggi con palesi conflitti di interesse o con legami accertati con la ’ndrangheta…».

Tutto ciò mentre il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, dichiara che «la difesa del mare blu è potentemente all’ordine del giorno e il dialogo tra governo e Regioni è molto, molto avanzato. Sono fiducioso». Ma la sua «fiducia» in Renzi non convince gli operatori turistici che ieri sono scesi in campo, a Pescara, a chiedere un «Abruzzo senza idrocarburi. Il contrario? Sarebbe opzione autolesionista, futuro senza prospettive».

Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2015

Il Governo Renzi sta prendendo tutte le contromisure per sbrigliare la matassa dello “sblocca trivelle” e arginare gli escamotage delle Regioni per stoppare le ricerche di gas e petrolio in mare. Dopo il via libera della Cassazione ai sei quesiti referendari presentati da dieci consigli regionali contro il famigerato provvedimento, l’esecutivo è in pieno allarme. E i tentennamenti non mancano. Da una parte mantiene la linea dura e impugna la nuova legge dell’Abruzzo che estende il divieto di ricerca di gas e petrolio. Dall’altra ha allo studio alcune misure che rivedono lo “sblocca trivelle” allo scopo di evitare il referendum, visto come fumo negli occhi: una sconfitta alle urne - temono a Palazzo Chigi - potrebbe mettere in discussione l’intera politica energetica renziana.

Quanto all’Abruzzo, il Consiglio dei Ministri ha deliberato l’impugnativa della legge della Regione denominata Provvedimenti urgenti per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema della costa abruzzese (n.29 del 14 ottobre 2015). Una legge che vieta - recita l’articolo 1 al comma 1 - «le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nelle zone di mare poste entro le dodici miglia marine dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero della Regione Abruzzo». Ma che secondo il Governo «invade materie di esclusiva competenza statale» in materia di energia. Tra i progetti interessati c’è Ombrina Mare di Rockhopper, sulle coste abruzzesi, nel mirino da anni dell’opposizione locale.

La decisione del Cdm non prende tuttavia di sorpresa la Regione, che anzi annuncia guerra al Tar e conferma che i lavori per Ombrina verranno comunque sospesi in attesa del giudizio della Consulta. Il ragionamento è semplice e lo spiega il sottosegretario alla Giunta regionale, Mario Mazzocca. Sulla base della delibera del Cdm, l’Avvocatura dello Stato procederà all’elaborazione del ricorso, che verrà depositato in Corte costituzionale. Ci vorranno alcuni mesi per il giudizio finale. Nel frattempo, la Regione Abruzzo chiederà al Tar Lazio di voler sospendere in via cautelare, nelle more del giudizio della Corte, i provvedimenti amministrativi riguardanti Ombrina mare.

«E’ la riprova del fatto che la nostra iniziativa legislativa ha colto nel segno - commenta Mazzocca - Eravamo ben consci tanto dell’elevata possibilità di incostituzionalità del progetto di legge, quanto della pressante esigenza di porre un freno alla deriva petrolifera perseguita dal governo nazionale nell’ottica di concreto sostegno alla proposta referendaria nel frattempo lanciata da 10 Regioni». A mettere in discussione le certezze di Mazzocca è tuttavia il M5S Abruzzo, che da mesi lotta contro il progetto Ombrina e in generale le trivellazioni in Adriatico. «Lo avevamo detto fino a perdere il fiato, questa legge è stata l’ennesimo palliativo mediatico e ora il Consiglio dei Ministri presenta il conto», commenta Sara Marcozzi, consigliere regionale del partito pentastellato. «L’unica strada è quella della legge di iniziativa regionale alle camere presentata dal M5S e approvata dal consiglio regionale - continua Marcozzi, prima firmataria della legge - che va a modificare ed abrogare parzialmente l’articolo 35 del Decreto Sviluppo” (ripristinando quindi il limite di 12 miglia marine dalla costa per le attività delle piattaforme petrolifere).

Ma a non far dormire sonni tranquilli al Governo Renzi è in realtà soprattutto il referendum contro lo “sblocca trivelle”. A fine novembre la Corte di Cassazione ha dato il suo ok ai sei quesiti referendari presentati da dieci regioni, su spinta dei “No Triv”, contro il provvedimento. Secondo la Cassazione sono “conformi alla legge”. Entro il prossimo gennaio la Consulta dovrà dare un giudizio di legittimità e nel frattempo Palazzo Chigi non vuole stare con le mani in mano perché teme di vedersi messe in discussione tutte le politiche in materia di energia. Così i ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente si sono messi al lavoro per smussare lo “sblocca trivelle” in senso “No Triv” ed evitare le urne.

Riferimenti
Sui quesiti referendari proposti da 10 Regioni si veda di Serena Giannico La carica No Triv delle dieci regioni. Sul pro­getto di «svi­luppo del gia­ci­mento Ombrina» si vedano di Serena Giannico

La rivolta dei No-Triv. Venderemo cara la pelle, e L’Aquila scaccia il falco.

Coordinamento Nazionale No Triv

Comunicato stampa
I sei quesiti referendari contro le trivelle in mare e su terraferma hanno superato indenni l'esame di regolarità della Corte di Cassazione.

Con due ordinanze adottate il 26 novembre 2015 la Corte di Cassazione ha accolto i sei quesiti referendari così come deliberati dalle Assemblee Regionali di Basilicata, Abruzzo, Marche, Campania, Puglia, Sardegna, Veneto, Liguria, Calabria e Molise.

Le ordinanze verranno comunicate al Presidente della Repubblica, al Presidente della Corte Costituzionale ed ai Presidenti delle Camere, e verranno notificate ai delegati dei dieci Consigli Regionali proponenti.

L'ultimo scoglio da superare sarà l'esame di legittimità costituzionale della Suprema Corte che si pronuncerà entro febbraio 2016.

I sei "SI'" giungono a coronamento di una lunga fase di impegno per la formulazione dei quesiti e della pressione democratica dal basso esercitata da oltre 200 associazioni italiane. L’abnegazione ed il merito della proposta complessiva hanno consentito di intercettare prima l’unanime consenso della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee elettive regionali e, successivamente, lo storico risultato delle 10 delibere di richiesta referendaria, da parte di altrettanti Consigli regionali.

Compiuto questo nuovo passo, è giunto dunque il momento di consolidare il risultato ottenuto preparandosi alla costruzione di un sistema di alleanze -il più ampio e trasversale possibile- e di un percorso organizzativo che consenta di portare al voto la maggioranza degli aventi diritto, senza mediazioni con il Governo su un referendum che ha un obiettivo molto chiaro e non emendabile, se non a rischio di stravolgerne e affievolirne senso e scopo.

La via referendaria è l'unica che possa raggiungere nel breve termine l'obiettivo sia di fermare nuovi progetti petroliferi sia di contenere e ridimensionare il ruolo delle energie fossili nel mix energetico nazionale.

Ma anche qualora le richieste di modifica normativa in senso No Triv venissero avanzate in buona fede, bisognerebbe tener conto della maggiore efficacia del referendum rispetto a quella, più limitata, dell'abrogazione per via legislativa. I divieti introdotti dal Decreto Prestigiacomo non furono forse rimossi per numerosi progetti petroliferi in mare proprio dall'art. 35 comma 1 del Decreto Sviluppo?

Quindi, non si persegua la strada della modifica per via legislativa delle norme che, per mezzo del referendum abrogativo, è invece possibile cancellare stabilmente dall'ordinamento.

Il Referendum non è nella disponibilità del Governo.

L'Assemblea "Verso il Referendum" dell'8 novembre scorso, rappresentativa delle associazioni vere promotrici del Referendum, ha stabilito in modo unitario ed inequivocabile che nessuno è legittimato a "mediare" o a dialogare con un Governo che più di ogni altro ha dimostrato fredda determinazione nel portare a compimento il contenuto fossile della Strategia Energetica Nazionale e che si appresta ad assestare un colpo mortale al coinvolgimento delle comunità locali e delle Regioni nelle scelte strategiche che determinano il futuro dei territori e del Paese.

Il Referendum è di tutti e ciò significa che nessuno può disporne oltre la Corte Costituzionale e, ovviamente, i Cittadini.

Prossima tappa intermedia sarà l'incontro a Roma, il 9 dicembre prossimo, tra i delegati delle Assemblee delle dieci Regioni che hanno deliberato la richiesta di referendum ed i rappresentanti delle associazioni promotrici del Referendum: in quella sede verranno messi a fuoco i principali aspetti organizzativi e discusse le prime soluzioni che dovranno portarci al voto di primavera.

La strada è tracciata. Adesso tocca percorrerla tutti assieme per arrivare al risultato per anni inseguito: liberare il mare e la terraferma da nuove trivelle ed aprire la strada ad una nuova politica energetica, economica ed ambientale.

Coordinamento Nazionale No Triv

Roma, 28 novembre 2015

appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”». Il manifesto, 11 novembre 2015 (m.p.r.)

Brindisi. Non ci stanno cittadini e agricoltori del brindisino a vedersi privare in un sol colpo dell’identità, dell’unica fonte di guadagno familiare, l’unico polmone d’ossigeno e l’intero paesaggio che si scorga a perdita d’occhio da tutte le finestre di ogni paese.
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Così in un solo giorno, hanno occupato i binari della stazione di San Pietro Vernotico; bloccato le strade di Torchiarolo con trattori, famiglie, mamme, papà, bambine e bambini delle elementari; impedito alle guardie della Forestale di fare i campionamenti sugli ulivi, perché le guardie erano sprovviste del necessario documento di accompagnamento autorizzativo dei prelievi.

Sale la tensione nella provincia di Brindisi e aumenta anche l’organizzazione dei cittadini nelle azioni di sabotaggio del piano del commissario straordinario per l’emergenza xylella. Il piano, denominato “Silletti bis”, dal nome del commissario Giuseppe Silletti, prevede che nella provincia di Brindisi si sradichino e si distruggano gli ulivi, anche plurisecolari, risultati positivi alla presenza del batterio xylella fastidiosa, un batterio incluso dalla Ue nella lista “Eppo”, cioè la lista degli organismi da quarantena, la cui sola presenza sul territorio nazionale fa scattare le misure di contrasto previste dalla direttiva europea 29 del 2000, che non prevede né impone lo sradicamento di alberi, tantomeno se secolari, in campo aperto.

Come si sia potuti arrivare a tale livello di tensione sociale e di furia distruttrice è una storia lunga, raccontata nel libro-inchiesta “Xylella report” e risponde ad una precisa scelta politica compiuta all’epoca della giunta di Nichi Vendola, nell’ottobre 2013, quando si decise, a priori e senza alcuna evidenza scientifica che ancora oggi manca (all’epoca il batterio non era stato neanche isolato in laboratorio), di sradicare l’intera foresta di ulivi della provincia di Lecce, cioè 11 milioni di ulivi, per la maggior parte secolari.

La xylella era stata trovata su alcuni alberi vicino Gallipoli, zona di forte richiamo turistico e di grande appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”, facendo subito domanda per ottenere i finanziamenti (rimborsi a consuntivo) per le operazioni di sradicamento.

Ora l’Unione europea, rispondendo alle indicazioni della regione Puglia, ha imposto di sradicare e distruggere gli ulivi positivi a xylella e tutti gli alberi e le piante anche sane nel raggio di 100 metri attorno all’albero risultato positivo. S’impone cioè di desertificare a macchia di leopardo potenzialmente tutta la Puglia: attorno ad ogni albero positivo a xylella si desertifica un territorio vasto tre ettari e mezzo.

Un esempio: nel brindisino sono stati trovati solo 8 alberi positivi a xylella e per quegli otto alberi se ne sono già sradicati oltre 1000.

Intanto, mentre Michele Emiliano, presidente della Regione, convoca per il 16 novembre prossimo una quarantina di esperti riuniti in una “task force” con l’obiettivo di dimostrare che sradicare non serva, un gruppo di ricercatori e giuristi dell’Università del Salento presenteranno giovedì prossimo a Torchiarolo un documento dal titolo ““Emergenza Xilella Fastidiosa: perché l’obbligo di estirpazione di tutti gli ulivi non infetti (privi di sintomi indicativi di possibile infezione e non sospetti di essere infetti) nel raggio di 100 metri da quelli infetti è una misura contestabile sul piano giuridico e scientifico” che sintetizza, in versione semplificata per la diffusione al pubblico, i risultati di uno studio interdisciplinare coordinato dai professori Massimo Monteduro (associato di Diritto Amministrativo) e Luigi De Bellis (ordinario di Fisiologia Vegetale) e curato da un gruppo di professori, ricercatori e giovani studiosi dell’Università del Salento denominato L.A.I.R. (“Law and Agroecology Ius et Rus”), che si occupa dei rapporti tra diritto e agro/ecologia.

L’obiettivo è fornire ai Comuni e a tutti i cittadini basi scientifiche solide su cui appoggiare i ricorsi al Tar, non appena ricevute le ordinanze di abbattimento degli alberi.

Una ricerca “open source”, gratuita e subito a disposizione di tutti, nata dall’idea di un artista, musicoterapeuta, musicista degli Officina Zoè, con una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche nel cassetto: Giorgio Doveri, che ha proposto ai ricercatori di mettersi insieme, parlarsi, collaborare per il bene comune.

Serviva l’arte per far vedere la realtà con occhi puliti.

Dal mini­stero delle Infra­strut­ture giunge una noti­zia di un certo rilievo, anche se in qual­che modo attesa: l’abrogazione della legge Obiet­tivo sulle grandi opere. Nell’emendamento gover­na­tivo al Codice degli appalti che ini­zia l’iter alla Camera, dopo l’approvazione del Senato, si inse­ri­sce un comma che dispone «la sop­pres­sione della Legge 443/2001», per l’appunto la fami­ge­rata norma sud­detta; uno dei capi­saldi delle poli­ti­che berlusconiane.

L’atto era piut­to­sto scon­tato, spe­cie dopo che Raf­faele Can­tone aveva defi­nito la stessa legge Obiet­tivo «cri­mi­no­gena»; e dopo l’inchiesta della Pro­cura di Firenze — avvia­tasi con l’indagine sullo stram­pa­lato sot­toat­tra­ver­sa­mento fer­ro­via­rio del suo cen­tro sto­rico — che ne sta dimo­strando le distorsioni.

Inten­dia­moci: non è che Renzi e Del­rio si siano con­ver­titi improv­vi­sa­mente alla pia­ni­fi­ca­zione ambien­tale e alla mobi­lità soste­ni­bile. Hanno sem­pli­ce­mente preso atto dei pro­blemi e del cla­mo­roso fal­li­mento di una norma e di un pro­gramma, dimo­strato dai numeri: in 15 anni di ope­ra­ti­vità sono stati rea­liz­zati poco più del 15% delle opere pre­vi­ste e meno di 1/3 degli inve­sti­menti programmati.

Spre­chi e cor­ru­zione non sono age­vol­mente para­me­tra­bili, ma ne costi­tui­scono sicu­ra­mente la cifra prin­ci­pale. Peral­tro, una serie di peri­co­lose «sem­pli­fi­ca­zioni» soprav­vi­ve­ranno, già recu­pe­rate nello Sblocca Ita­lia. Men­tre il qua­dro di opere da rea­liz­zare si è ridotto, nell’allegato Infra­strut­ture del Def, a un terzo, con la can­cel­la­zione di opere tra le più inu­tili, dan­nose e bizzarre.

Le sem­pli­fi­ca­zioni della legge Obiet­tivo con la figura del con­traente gene­rale, gruppo di imprese appal­tanti che poteva sce­gliersi addi­rit­tura il diret­tore dei lavori (con­trol­lando così se stesso) face­vano sì che attorno alle rela­zioni con il con­ces­sio­na­rio per conto dello Stato o dell’ente pub­blico, si creasse una «mac­china» sem­pre più grande e potente in grado di attrarre ingenti risorse, spen­derne e spre­carne, spesso con­di­zio­nando, anche con la cor­rut­tela, i deci­sori coinvolti.

Attorno a que­sti mec­ca­ni­smi si è creato quell’enorme arci­pe­lago di società pic­cole e grandi — per la gran parte inu­tili pas­sa­carte dedite in realtà ad atti­vità di lob­bing — ruo­tante attorno a opere pub­bli­che e pro­ject finan­cing che, secondo gli stu­diosi del set­tore come Ivan Cic­coni, ammon­tano oggi a più di ventimila.

La nor­ma­tiva pre­ve­deva la nega­zione com­pleta delle istanze sociali inte­res­sate e anche delle rap­pre­sen­tanze isti­tu­zio­nali del ter­ri­to­rio. Solo le regioni — e dopo appo­sito ricorso alla Corte Costi­tu­zio­nale — ave­vano potuto inter­fe­rire nelle inte­ra­zioni governo-impresa. La valu­ta­zione ambien­tale non era com­ple­ta­mente can­cel­lata, ma molto ridi­men­sio­nata: la pia­ni­fi­ca­zione urba­ni­stica poteva essere igno­rata. Come ormai noto, tale mec­ca­ni­smo non ha sem­pli­fi­cato alcun­ché, spo­stando i con­flitti dai con­si­gli comu­nali ai tri­bu­nali, o diret­ta­mente sul ter­reno come in Val di Susa.

Con gli esiti com­ples­si­va­mente fal­li­men­tari ricor­dati all’inizio. Gli enormi pro­blemi del pro­gramma erano stati pun­tual­mente denun­ciati da mol­tis­simo tempo da ambien­ta­li­sti, comi­tati e tec­nici; oltre che dagli attori costi­tui­tisi diret­ta­mente a con­tra­sto : dap­prima il Coor­di­na­mento con­tro le grandi opere (pro­mosso nel 2006 da No Tav, No Mose, No Ponte e dalla rivi­sta Carta, con la forte pre­senza del com­pianto Osvaldo Pie­roni, decano di Socio­lo­gia Ambien­tale e già diret­tore del Des dell’Università della Cala­bria), con­fluito poi nel Patto di Mutuo Soc­corso (tra i ter­ri­tori aggre­diti dalle mega infra­strut­ture) e oggi nel Forum anti Goii (Grandi opere inu­tili e impo­ste), dive­nuto realtà anche euro medi­ter­ra­nea. Sog­getti cui spesso que­sto gior­nale ha for­nito sup­porto, tra l’altro con i tanti arti­coli di Guglielmo Ragozzino.

La sto­ria della Legge Obiet­tivo dimo­stra come, smar­rite razio­na­lità pro­gram­ma­tica e uti­lità sociale, le opere di tra­sfor­ma­zione del ter­ri­to­rio diven­tino — oltre che spre­chi eco­no­mici e ambien­tali inac­cet­ta­bili — facil­mente pene­tra­bili da spe­cu­la­zione, cor­ru­zione, cri­mi­na­lità orga­niz­zata. E come spesso non basti indi­vi­duare e sosti­tuire i tito­lari respon­sa­bili, in quanto l’unico mec­ca­ni­smo di con­tra­sto effi­cace si rivela l’interruzione dei flussi di danaro, cioè del con­tratto di appalto. Spe­cie quando è la cor­ru­zione stessa che ha deter­mi­nato la natura delle ope­ra­zioni (Mose). Can­tone invece ha accet­tato di usare l’arma — che può rive­larsi spun­tata — del con­trollo, cor­re­zione e modi­fica, fino al com­mis­sa­ria­mento, della gestione. Ma spesso le distor­sioni in essere pos­sono pro­se­guire con l’operazione.

Con il Codice biso­gna tor­nare a pro­ce­dure più votate all’ordinarietà, in cui con­tino di nuovo gli enti locali e riac­qui­stino il giu­sto peso ambiente, urba­ni­stica e pae­sag­gio. Ma soprat­tutto la lezione del fal­li­mento della legge Obiet­tivo signi­fica che è assai pro­ble­ma­tico, quasi impos­si­bile, inter­ve­nire su un ter­ri­to­rio con­tro la volontà dei suoi abi­tanti. Si torni allora alla pia­ni­fi­ca­zione par­te­ci­pata, anche di mobi­lità e trasporti.

Il Manifesto, 1 ottobre 2015 (m.p.r.)

Non vogliamo il Paese delle tri­velle. E così ieri i dele­gati di dieci Con­si­gli regio­nali – Basi­li­cata, come capo­fila; e poi Mar­che, Puglia, Sar­de­gna, Abruzzo, Veneto, Cala­bria, Ligu­ria, Cam­pa­nia e Molise - hanno depo­si­tato in Cas­sa­zione sei que­siti refe­ren­dari con­tro l’invasione delle piat­ta­forme petro­li­fere. Con essi si chiede l’abrogazione dell’articolo 38 dello Sblocca Ita­lia e di vari suoi commi e dell’articolo 35 del Decreto svi­luppo. «Vogliamo che non ci siano pozzi entro le 12 miglia e che siano ripri­sti­nati i poteri delle Regioni e degli enti locali, met­tendo inol­tre i cit­ta­dini al riparo dalla limi­ta­zione del loro diritto di pro­prietà rispetto alle società estrat­trici», spiega il pre­si­dente del Con­si­glio regio­nale della Basi­li­cata, Piero Lacorazza.

Il refe­ren­dum, sulla cui ammis­si­bi­lità dovrà ad anno nuovo pro­nun­ciarsi la Corte Costi­tu­zio­nale, porta la firma e l’intuizione del coor­di­na­mento nazio­nale No Triv e di altre 200 asso­cia­zioni. «Con que­sta con­sul­ta­zione – afferma Enrico Gagliano, No Triv – si resti­tui­sce ai cit­ta­dini il diritto di deci­dere di se stessi e del futuro del pro­prio ter­ri­to­rio. Si tratta di un fatto straor­di­na­rio ed unico nella sto­ria dell’Italia repub­bli­cana, il cui signi­fi­cato va ben oltre la pur impor­tante dimen­sione ener­ge­tica». «Sul piano isti­tu­zio­nale, - aggiunge Enzo Di Sal­va­tore, No Triv - il governo dovrà fare i conti con una mutata realtà e con mutati rap­porti di forza nel Paese. Quanto alle scelte ener­ge­ti­che, l’esercizio dell’opzione refe­ren­da­ria con­sen­tirà di ria­prire una par­tita che sem­brava già persa all’indomani del varo della Stra­te­gia Ener­ge­tica Nazio­nale: i que­siti sull’articolo 38 rimet­tono in discus­sione il sistema di gover­nance che finora ci è stato impo­sto a suon di leggi e decreti (Sblocca Ita­lia su tutti); quello «secco» sull’articolo 35 punta ad inflig­gere un duro colpo alle mire delle com­pa­gnie petro­li­fere, a sal­va­guar­dare i nostri mari e a pre­ve­nire qual­siasi ten­ta­tivo di ritorno al pas­sato (abo­li­zione del limite delle 12 miglia o sua ridu­zione a 5) da parte di un governo aper­ta­mente schie­rato sul fronte delle ener­gie fossili».

Un’iniziativa che viene defi­nita «una delle poche note liete in una lunga e tri­ste sta­gione color nero-petrolio». «E’ la prima volta che dei que­siti refe­ren­dari soste­nuti dai Con­si­gli regio­nali ven­gono pre­sen­tati da dieci Regioni, che rap­pre­sen­tano il dop­pio del quo­rum richie­sto -, riprende Laco­razza -. In Basi­li­cata, una delle realtà più mar­to­riate, con­tiamo già la pre­senza di 70 impianti di tri­vel­la­zione: non siamo affetti dal ’nimby’, ossia non vogliamo non ’spor­care il nostro giar­dino’ e spo­stare il pro­blema in quello degli altri, ma cre­diamo che la poli­tica ener­ge­tica dell’Italia debba rac­cor­darsi con l’Unione euro­pea, che non può sol­tanto occu­parsi di moneta e buro­cra­zia». «Dieci Regioni – evi­den­zia Fabri­zia Arduini, refe­rente Ener­gia Wwf Abruzzo - sono un mes­sag­gio gra­ni­tico a Renzi. I que­siti refe­ren­dari par­lano chiaro e una rile­vante parte del Paese ha capito che l’Italia non può riper­cor­rere gli stessi modelli di svi­luppo che hanno pro­dotto una delle peg­giori crisi eco­no­mi­che mai vis­sute. Un modello di spre­chi e disu­gua­glianze, inso­ste­ni­bile per la nostra fra­gi­lis­sima e bella nazione, ma anche per il pia­neta intero.

Il costo ambien­tale di que­ste atti­vità è davanti gli occhi di tutti: i cam­bia­menti cli­ma­tici sono un vero fla­gello. A Parigi, nella COP21 (Con­fe­renza sul clima) di dicem­bre, gli Stati dovranno con­clu­dere un accordo glo­bale per agire in fretta, in modo effi­cace ed equo per stop­pare le alte­ra­zioni cli­ma­ti­che. Che dirà il pre­mier? Che l’Italia punta sulle sue risi­bili pro­du­zioni di idro­car­buri sino all’ultima goccia?

Nell’attesa che la Cas­sa­zione si pro­nunci sul refe­ren­dum, - con­ti­nua Arduini - con­ti­nue­ranno le azioni di mobi­li­ta­zione per fer­mare pro­getti petro­li­feri off shore recen­te­mente sdo­ga­nati, a comin­ciare da “Ombrina Mare”, la piat­ta­forma con raf­fi­ne­ria gal­leg­giante, che dovrebbe sor­gere a poche miglia dalla costa della pro­vin­cia di Chieti e di cui si discu­terà il pros­simo 14 otto­bre al mini­stero dello Svi­luppo eco­no­mico in una con­fe­renza dei servizi».

«E poi – fa eco Vit­to­rio Cogliati Dezza, pre­si­dente nazio­nale di Legam­biente – biso­gna bloc­care “Vega B, piat­ta­forma pre­vi­sta nel Canale di Sici­lia, al largo del lito­rale ragu­sano, che da poco ha rice­vuto il nulla osta ambien­tale e su cui pen­dono già ricorsi al Tar». «Occorre abban­do­nare il petro­lio – afferma Luzio Nelli, Legam­biente Abruzzo – e ripar­tire dalle fonti rin­no­va­bili e soste­ni­bili, garan­tendo la qua­lità del ter­ri­to­rio e il benes­sere delle popo­la­zioni, non gli inte­ressi delle mul­ti­na­zio­nali del greggio».

Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2015 (m.p.r.)

Basilicata, Marche,Puglia e Molise. Eieri anche la Sardegna:il consiglio regionaleha votato in favoredel referendum controle trivellazioni per la ricercae l’estrazione di idrocarburinel sottosuoloe in mare, previstenel decreto Sblocca Italia.Con la Sardegna èstato quindi raggiunto ilnumero necessario perpresentare la richiestadel referendum: «Il 30settembre sarà depositatain Cassazione –spiega al Fatto QuotidianoEnzo Di Salvatore,docente di Dirittocostituzionaledell’UniversitàdiTeramo ecofondatoredel movimentoNoTriv - Ci sarà il controlloformale della richiesta etra il 20 gennaio e il 10febbraio si dovrebbe decideresulla sua ammissibilità.Se ammissibile,cinque giorni dopo ci saràil decreto del presidentedella Repubblica,previa deliberazione delConsiglio dei ministriche indirà il referendum.Insomma, seguendotutto l’iter, il voto dovrebbeesserci tra il 15 aprilee il 15 giugno».

Lo Sblocca Italia, difatto, esautora le regionidalle decisioni in materiadi energia, rende la ricercae le trivellazioni operazionistrategiche enon tiene conto dell'opinionedelle Regioni. Propriocome per gli inceneritori.Oggi, però, dovrebberoesprimersi infavore del referendumanche altri consigli regionali:Abruzzo, Veneto,Liguria. Solo la Sicilia,ieri, ha votato contro,inaspettatamente, perotto voti. Secondo i movimentiNo Triv, il consigliosi era detto inizialmented’accordo. Poi èarrivato il no del Pd e dellostesso governatoreRosario Crocetta. «È importante che ilreferendum si facciaquanto prima – spiegaancora Di Salvatore –perché le trivelle sono ritenutestrutture strategichee allo Sblocca Italiafa riferimento granparte delle richieste di esplorazione.Che potrebberoessere approvateanche nel giro di unanno”

Il manifesto, 9 agosto 2015



LA RIVOLTA DEI NO-TRIV
VENDEREMO CARA LA PELLE

di Serena Giannico

Adriatico. La rabbia dell’Abruzzo dopo il via libera del governo alle trivellazioni petrolifere. Al via ricorso al Tar ma la lotta non si ferma: «Così si distrugge turismo e agricoltura»

È «Ombrina» la parola che, più d’ogni altra, attual­mente fa imbe­stia­lire l’Abruzzo e il suo milione e 332mila abi­tanti. E nelle scorse ore il governo Renzi, col Pd, con i suoi fede­lis­simi, ha rega­lato ad una società delle Fal­kland l’ok alla distru­zione di uno dei tratti più belli dell’Adriatico.

Il mini­stro dell’Ambiente Gian Luca Gal­letti e il mini­stro dei Beni cul­tu­rali Dario Fran­ce­schini, l’altro ieri, hanno infatti fir­mato il decreto di com­pa­ti­bi­lità ambien­tale per la costru­zione della piat­ta­forma «Ombrina mare» della mul­ti­na­zio­nale Roc­khop­per al largo della Costa dei Tra­boc­chi, in pro­vin­cia di Chieti. È l’ultimo atto ammi­ni­stra­tivo — a parte il decreto di con­ces­sione del mini­stero dello Svi­luppo eco­no­mico che, però, a que­sto punto diventa mera for­ma­lità — prima dell’avvio dei lavori per la nascita dell’impianto petro­li­fero. Un pro­getto con­te­sta­tis­simo e com­bat­tuto da anni, da movi­menti e comi­tati, e dai cit­ta­dini che il 23 mag­gio scorso a Lan­ciano (Ch) – erano in 60 mila — e il 13 aprile 2013 a Pescara – in 40 mila — sono scesi in massa in piazza per riba­dire che que­sta regione non vuole diven­tare il regno delle tri­velle. Un fiume di no ad Ombrina e alla poli­tica ener­ge­tica del pre­mier che, tra un tweet e un sel­fie, sta tra­sfor­mando il Bel­paese in Texas. In barba alla volontà delle popo­la­zioni. «Se ci penso… è folle… a pochi chi­lo­me­tri da riva, nel mezzo di un mare chiuso, vicino alle spiagge, di fronte al costi­tuendo Parco nazio­nale della Costa Tea­tina. Ma che razza di mini­stero dell’Ambiente approva que­ste cose? - chiede la ricer­ca­trice Maria Rita D’Orsogna - . E quale sal­va­guar­dia ci si può atten­dere da un mini­stero dei Beni cul­tu­rali che, in 53 pagine più alle­gati, auto­rizza uno scem­pio del genere?».

Il pro­getto di «svi­luppo del gia­ci­mento Ombrina», come spiega pro­prio lo scia­gu­rato decreto numero 0000172 del 7 ago­sto, pre­vede la rea­liz­za­zione «a circa 6,5 chi­lo­me­tri dalla costa, su un fon­dale di circa 20 metri, pre­va­len­te­mente sab­bioso», di «una piat­ta­forma per la pro­du­zione di gas plio­ce­nico» e petro­lio «da cui si dipar­ti­ranno da un minimo di 4 ad un mas­simo di 6 pozzi di pro­du­zione»; di «un ser­ba­toio gal­leg­giante» (nave Fpso che sarà sem­pre in fun­zione con fumi, torce e ter­mo­di­strut­tori) «per il trat­ta­mento e lo stoc­cag­gio» del petro­lio; di circa 25 chi­lo­me­tri di con­dotte sot­to­ma­rine o «sea­li­nes per il tra­sfe­ri­mento del greg­gio dai pozzi alla nave desol­fo­rante e del metano».

La con­ces­sione era stata ori­gi­na­ria­mente rila­sciata alla Medoil­gas, che l’ha ceduta a Roc­khop­per. «La strut­tura – spiega Anto­nio Mas­simo Cri­staldi, inge­gnere di Monza, esperto in mate­ria – por­terà al rila­scio di sostanze tos­si­che in mare, come è prassi in tutte le instal­la­zioni off­shore del mondo. “Ombrina” abbrac­cerà ben due riserve di pesca, finan­ziate con fondi pub­blici e comu­ni­tari, che saranno inte­res­sate da feno­meni di bio­ac­cu­mulo di inqui­nanti gravi, fra cui mer­cu­rio e cad­mio. Nel luglio 2008 – evi­den­zia -, le prove di pro­du­zione pro­vo­ca­rono l’intorbidimento del mare attorno ad essa. L’Agenzia regio­nale di tutela ambien­tale (Arta) dimo­strò che men­tre lon­tano da “Ombrina” le acque erano “buone”, quelle atti­gue erano pas­sate ad “inqui­na­mento medio”. E ciò in soli tre mesi. Secondo i docu­menti for­niti dalla ditta pro­po­nente ai suoi inve­sti­toti – spiega ancora Cri­staldi – il petro­lio in quest’area non è facile da estrarre e per ciò si pre­vede l’uso di tec­ni­che aggres­sive, fra cui quelle della aci­diz­za­zione del pozzo, di vio­lente tec­ni­che di sti­mo­la­zione, tra cui la frat­tu­ra­zione; dell’utilizzo di fan­ghi die­sel di per­fo­ra­zione, i più impat­tanti che esi­stano. Que­sti fan­ghi sono vie­tati nei mari del Nord dal 2000, a causa dell’inquinamento che com­por­tano, a seguito della con­ven­zione Ospar. Vogliamo par­lare anche dell’inceneritore instal­lato sulla Fpso? Emet­terà di con­ti­nuo sostanze tos­si­che, come l’idrogeno sol­fo­rato, un veleno ad ampio spet­tro. E c’è anche il peri­colo di sub­si­denza». L’impianto sor­gerà nel cuore di una riviera che sta pun­tando «ad una rina­scita turi­stica», con il pro­li­fe­rare di atti­vità ricet­tive – soprat­tutto hotel e bed and break­fast – , con gite in barca, con vela e surf , con la cucina tipica e la risto­ra­zione sugli anti­chi tra­boc­chi, che attrag­gono turi­sti da ogni parte del pia­neta. Minac­ciata anche la fio­rente pro­du­zione vitivinicola.

«A Mat­teo Renzi e ai suoi – riprende D’Orsogna — piac­ciono le tri­velle, e non c’è demo­cra­zia, o intel­li­genza o buon senso che tenga. Nes­suno mette navi desol­fo­ranti così vicino a riva nel mondo civile, ma in Ita­lia sì. Le pre­scri­zioni all’impresa? Fanno ridere. Ci sono tanto per­ché ci devono essere…». «Il parere posi­tivo di Valu­ta­zione d’impatto ambien­tale (Via) – tuona il coor­di­na­mento “No Ombrina” -, da una prima ana­lisi, mostra falle cla­mo­rose e un’illogica inver­sione pro­ce­du­rale riguar­dante l’Analisi del rischio che, per un pro­getto in cui basta un inci­dente per mas­sa­crare l’intero Adria­tico, non è oggetto di valu­ta­zione pre­ven­tiva ma si fa… dopo il decreto! Cioè prima si rila­scia il parere favo­re­vole e poi si stu­diano, da parte dell’azienda inte­res­sata, gli effetti deva­stanti di un inci­dente. Inau­dito…». Anche su altri aspetti fon­da­men­tali, «come le moda­lità di scavo di chi­lo­me­tri di reti sot­to­ma­rine per gli idro­car­buri, quelle per l’ancoraggio della mega­nave Fpso lunga 330 metri e addi­rit­tura per il piano di sman­tel­la­mento delle opere, il decreto rimanda a fasi pro­get­tuali suc­ces­sive». «Tra l’altro – sot­to­li­nea Augu­sto De Sanc­tis, del Forum Acqua — que­sto pro­getto non è stato sot­to­po­sto a Via tran­sfron­ta­liera secondo quanto pre­ve­dono pre­cise norme inter­na­zio­nali quando è evi­dente che uno scop­pio o un incen­dio potrebbe coin­vol­gere le acque e le coste degli altri Paesi. Un prov­ve­di­mento – aggiunge – che è solo il sigillo a scelte anti­de­mo­cra­ti­che di un governo mai eletto e che sta por­tando avanti poli­ti­che mai oggetto di con­sul­ta­zione popo­lare». Per­ché deci­sioni così impor­tanti sono state prese a ridosso di fer­ra­go­sto? «Sem­bra quasi che gli stessi esten­sori di tali atti si ver­go­gnino delle loro scelte. O pro­ba­bil­mente spe­rano di pas­sare inos­ser­vati. Ma que­sto non è cer­ta­mente pos­si­bile per “Ombrina” che è l’opera meno amata dagli abruz­zesi negli ultimi anni»’: scri­vono Wwf, Legam­biente, Fai, Ita­lia Nostra, Mare­vivo, Pro Natura e Arci.

Sotto attacco, oltre al governo, la Com­mis­sione Via nazio­nale, che pre­ce­den­te­mente, a pri­ma­vera, ha dato il nulla osta ad “Ombrina”. «E’ inquie­tante quanto emerge da inter­ro­ga­zioni di euro­de­pu­tati di L’Altra Europa con Tsi­pras e di par­la­men­tari del Movi­mento 5 Stelle – afferma Mau­ri­zio Acerbo, di Rifon­da­zione — sui com­po­nenti del comi­tato nazio­nale per la Via. Ci si aspet­te­rebbe che a esa­mi­nare i pro­getti fos­sero fior di esperti e scien­ziati e invece si sco­prono per­so­naggi che poco hanno a che fare con l’ambiente e con bio­gra­fie poco ras­si­cu­ranti. Un vero cara­van­ser­ra­glio: inda­gati per cor­ru­zione, sospet­tati di legami con la ’ndran­gheta, pid­dui­sti… Quando ci rac­con­tano che le grandi opere sono state sot­to­po­ste a tutte le veri­fi­che ricor­dia­moci che razza di gente è que­sta». Il decreto – sostiene ancora il coor­di­na­mento “No Ombrina” — è uno schiaffo per il pre­si­dente della Regione, Luciano D’Alfonso: la linea dia­lo­gante con il governo è boc­ciata ine­so­ra­bil­mente. A lui doman­diamo: quando si rom­perà defi­ni­ti­va­mente con Renzi, che non ha timore di costruire un enorme gasdotto sulle faglie sismi­che più peri­co­lose d’Europa pas­sando anche per L’Aquila?».

Il decreto emesso obbliga da un lato la società Roc­khop­per a rea­liz­zare il pro­getto entro 5 anni, nello stesso tempo ammette il ricorso al Tri­bu­nale ammi­ni­stra­tivo regio­nale, entro 60 giorni dalla pub­bli­ca­zione in Gaz­zetta uffi­ciale, e al Capo dello Stato, entro 120 giorni. E su que­sto si sta già lavo­rando. «Stiamo stu­diando, con un gruppo scien­ti­fico e con le asso­cia­zioni, il dove­roso ricorso al Tar avverso detto atto gover­na­tivo. Pari­menti pro­ce­de­remo anche con­tro l’eventuale futuro decreto con­ces­so­rio — dichiara l’assessore regio­nale all’Ambiente, Mario Maz­zocca -. Il modello di svi­luppo che vogliamo si basa su cri­teri impron­tati ad una reale soste­ni­bi­lità. Per l’affermazione di que­sto modello di cre­scita la Regione, que­sta Regione, si bat­terà fino in fondo. E ven­derà cara la pro­pria pelle».

In sei con­tro la petro­liz­za­zione: Abruzzo, Molise, Basi­li­cata, Cala­bria, Mar­che e Puglia hanno deciso di far fronte unico in difesa dell’Adriatico e dello Ionio. Nei giorni scorsi, infatti, a Ter­moli (Cb) i ver­tici di que­ste Regioni si sono riu­niti «per con­cor­dare una linea comune in difesa dell’ambiente marino a rischio tri­vel­la­zioni a seguito dello Sblocca Ita­lia» e per dar vita ad un coor­di­na­mento. Al sum­mit i pre­si­denti delle Regioni Abruzzo (Luciano D’Alfonso), Basi­li­cata (Mar­cello Pit­tella), Molise (Paolo di Laura Frat­tura), Puglia (Michele Emi­liano); il vice­pre­si­dente della Regione Mar­che, Anna Casini, e, per la Cala­bria, l’assessore all’Ambiente, Anto­nella Rizzo. Erano inol­tre pre­senti gli asses­sori all’Ambiente di Abruzzo (Mario Maz­zocca), Basi­li­cata (Aldo Ber­lin­guer) e Molise (Vit­to­rino Fac­ciolla). All’incontro anche l’europarlamentare croato Ivan Jakov­cic che ha espresso «pre­oc­cu­pa­zione per quello che sta suc­ce­dendo in Adria­tico e per il futuro… nero a cui esso va incon­tro». «E’ neces­sa­rio – ha sot­to­li­neato – che le Regioni si fac­ciano por­ta­voce presso il Governo affin­ché venga ela­bo­rata una nuova stra­te­gia di svi­luppo in grado di favo­rire una cre­scita com­pa­ti­bile». «Le Regioni — afferma Maz­zocca, — hanno valu­tato l’idea di intra­pren­dere il refe­ren­dum abro­ga­tivo pre­vi­sto dall’articolo 75 della Costi­tu­zione. L’obiettivo è di eli­mi­nare, tra l’altro, quella parte del Decreto Svi­luppo rela­tiva a: «dichia­ra­zione di stra­te­gi­cità, indif­fe­ri­bi­lità ed urgenza delle opere». I pre­si­denti si ritro­ve­ranno il pros­simo 18 set­tem­bre a Bari. L’obiettivo è di coin­vol­gere nelle ini­zia­tive anche Cam­pa­nia ed Emi­lia Roma­gna. se. gian.

Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2015

Dissero che era colpa del destino cinico e baro, che i piloni del viadotto Himera sull’autostrada tra Palermo e Catania avevano ceduto a causa degli smottamenti causati dalle piogge torrenziali e quindi non era assolutamente possibile prevedere il repentino evento in modo da evitare il disastro. E che in ogni caso la faccenda non riguardava l’Anas. Non era vero niente. Il vertice della società stradale, a cominciare dal presidente di allora, Pietro Ciucci, e compresa la prima linea tecnica che gli faceva corona e che è rimasta al suo posto con il nuovo presidente ed amministratore Gianni Armani, sapevano benissimo che quel ponte era a rischio, ma non fecero assolutamente nulla per metterlo in sicurezza. Il risultato è che dal 10 aprile il viadotto è chiuso, impraticabile, l’autostrada in quel tratto non percorribile e la Sicilia spaccata in due dal punto di vista automobilistico. La situazione è così grave e destinata a durare a lungo che per unire le due importanti città le Ferrovie hanno deciso di impiegare sette treni in più al giorno.

Le gravi responsabilità dell’Anas emergono chiaramente dal rapporto di un gruppo di tecnici incaricati di fare chiarezza sull’accaduto dal ministro dei Trasporti, Graziano Delrio. I tecnici sono gli ingegneri Salvatore Acampora, Giovanni Coppola, Carlo Ricciardi e Andrea Tumbiolo. Dopo un’indagine accurata i quattro hanno consegnato al ministro un documento molto dettagliato di un centinaio di pagine che è un severo atto d’accusa nei confronti dell’ex presidente Ciucci e del vertice Anas. Le conclusioni non lasciano spazio a dubbi: «L’Anas era in possesso degli elementi atti ad avere la consapevolezza della esistenza, entità e gravità del fenomeno di dissesto e delle criticità geologiche sin dalla definizione della scelta di progetto ed era a conoscenza dell’aggravio della situazione dal 2005». Detto in parole più semplici: l’Anas sapeva fin dal momento della costruzione del viadotto all’inizio degli anni Settanta che c’erano movimenti franosi gravi in atto, ma fecero finta di niente. Peggio: nel 2005, quando le condizioni complessive si aggravarono tanto da far temere il crollo, i responsabili dell’azienda pubblica delle strade fecero di nuovo orecchie da mercante.

Ciucci diventò presidente Anas l’anno successivo ed è rimasto in carica per circa un decennio fino alle dimissioni forzate a metà maggio 2015: in tutto questo tempo non ha mosso foglia per il viadotto Himera. E invece era suo dovere intervenire. A disastro avvenuto l’allora presidente si giustificò dicendo che avrebbero dovuto provvedere altri, a cominciare dalla Protezione civile. Il rapporto ministeriale sostiene esattamente l’opposto: «L’Anas aveva l’onere di intervenire in quanto soggetto cui spetta la gestione e la manutenzione delle infrastrutture autostradali in gestione diretta e, di conseguenza, aveva l’obbligo di vigilare sull’efficienza e salvaguardia di tali opere».

Il disastro dell’Himera purtroppo non è isolato. In Sicilia soprattutto, ma anche in molte altre parti d’Italia, al sud in particolare, le strade, i ponti e i viadotti, segnatamente quelli costruiti dalla Cassa del Mezzogiorno, stanno letteralmente cadendo a pezzi. E’ un fatto gravissimo, ma assolutamente non imprevedibile. I tecnici Anas delle gestioni precedenti a quella di Ciucci sapevano che quelle opere stavano arrivando a fine corsa e per questo cercavano di curarle con una manutenzione costante. Con Ciucci cambiò tutto. Ossessionato dai tagli dei nastri e dalle grandi opere, l’ormai ex presidente mise la manutenzione in terza fila. I tecnici che più gli sono stati vicini hanno condiviso con lui questa scelta. Uscito di scena il capo, sono rimasti tutti ai loro posti.

A cominciare da Michele Adiletta ingegnere specializzato in aeronautica che conserva il compito di responsabile della manutenzione delle strade Anas. Sopra Adiletta c’è Alfredo Bajocon direttore generale tecnico, ex Stretto di Messina, ex Toto costruzioni dove si occupava di nuove opere, ma a corto pure lui di competenze inerenti la manutenzione. Sul suo curriculum pesano i crolli e i monumentali fallimenti sulla Salerno-Reggio Calabria. Il vicedirettore esercizio e coordinamento del territorio, Roberto Mastrangelo, è laureato in ingegneria meccanica, quindi anche lui non ha competenze specifiche in geologia, geotecnica, frane, fondazioni, asfalti e cemento armato. Ancora: Stefano Caroselli fu assunto da Ciucci il primo gennaio 2014 per seguire le manutenzioni straordinarie, anche se nel suo curriculum ufficiale non sono segnalate precedenti e specifiche attività in materia.

Al suo posto resta pure Ugo Dibennardo, direttore centrale progettazione e per anni direttore regionale proprio in Sicilia, la regione del viadotto Himera e del record di crolli e strade interrotte. E non ha mosso un passo neanche Salvatore Tonti, il direttore regionale attuale della Sicilia, il tecnico che aveva negato di essere a conoscenza dei pericoli incombenti sull’Himera. Ai tempi di Ciucci era stato pure premiato per gli eccellenti risultati ottenuti sulla Salerno-Reggio.

Un lieto fine per i basalti colonnari sommersi di Grotta delle Colombe, affioranti in una parte dell’imponente falesia basaltica nota come Timpa di Acireale, che si estende sulla costa orientale della Sicilia, circa 10 km a nord di Catania.

È stato infatti accantonato il progetto ideato dal Comune di Acireale che, come era stato riportato lo scorso 11 novembre qui su Eddyburg, col presunto scopo di evitare l’erosione costiera, avrebbe sepolto queste straordinarie formazioni geologiche.

L’amministrazione comunale di Acireale ha infatti riconosciuto l’enorme danno ambientale che sarebbe derivato dalla realizzazione dell’opera e si è attivata per promuovere, con le somme per essa previste, un intervento alternativo. Così l’impegno di Legambiente che, anche mediante il ricorso all’autorità giudiziaria e il sostegno di autorevoli studiosi, di amanti del mare e dei pescatori locali, si era posta l’obiettivo di evitare che quell’assurdo progetto si concretizzasse è stato alla fine premiato.

Questa assai travagliata vicenda, conclusasi, a differenza di tante altre, positivamente, consente di trarre alcune conclusioni e può fornire nuovi stimoli.

È sconfortante che in un periodo di crisi economica e in una regione come la Sicilia, nella quale, per vari motivi, sarebbe oltremodo opportuno realizzare progetti di risanamento ambientale, si seguiti invece a concepire opere inutili, mettendo a rischio beni di straordinario interesse scientifico. Nel caso di Grotta delle Colombe, formazioni geologiche rare nel bacino del Mediterraneo, soprattutto in ambiente sottomarino.

Quanto è avvenuto in questa parte della Sicilia dimostra però che non bisogna rassegnarsi all’idea che distruzione ambientale e spreco di pubblico denaro siano processi ineluttabili. Occorre anzi ripetere che alle illogiche consuetudini di consumo irreversibile del territorio e delle risorse naturali si possono e si devono contrapporre le ragioni della conservazione. Questa inversione di tendenza, in prospettiva, si rivela conveniente anche in termini economici, in quanto nel primo caso i benefici avvengono una sola volta e solo a vantaggio dei realizzatori dell’opera, mentre nel secondo diventano permanenti e diffusi, soprattutto a favore delle popolazioni locali.

Convinti di ciò non ci si è voluti limitare alla semplice gratificazione di aver impedito uno scempio ambientale è si è deciso di impegnarsi, in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania, per pervenire alla rapida istituzione di un geosito nell’area in cui affiorano, sia a livello subaereo, sia a livello subacqueo, i basalti colonnari di Grotta delle Colombe.

L’istituzione del geosito consentirà di tutelare quest’area e di promuovere la conoscenza sia dei suoi aspetti geologici, sia di quelli culturali e naturalistici. Tale processo accrescerà la consapevolezza dell’importanza di questo luogo tra coloro che già lo conoscono e soprattutto genererà un nuovo, e qualificato, turismo. A trarne benefici saranno la popolazione locale e, in particolare, i pescatori di Santa Maria La Scala, giacché la visita dei luoghi, essendo le falesie, per le loro morfologie, difficilmente accessibili da terra, si presta ad essere effettuata via mare e quindi con l’inevitabile coinvolgimento dei pescatori stessi.

La difesa dei basalti colonnari di Grotta delle Colombe è servita, infine, a evidenziare, anche grazie al ripetuto intervento dei mezzi di informazione, l’elevata importanza di queste formazioni geologiche, che in Sicilia sono state, invece, a torto, ritenute finora di scarso interesse ai fini della conservazione.

È paradossale, infatti, che in questa regione, nella quale si registra la più elevata presenza di basalti colonnari del Mediterraneo, non si sia ritenuto di prevedere adeguate forme di protezione per la maggior parte di essi, omettendo persino di inserirli all’interno di aree protette anche quando le stesse si trovino a breve distanza dai siti (come nel caso dei basalti colonnari del fiume Simeto, il più grande della Sicilia, di contrada Barrili, privi di qualunque forma di protezione e pertanto non inseriti né nella vicina riserva naturale “Forre laviche del Simeto”, né nel contiguo Sito di Interesse Comunitario ITA070026 “Forre laviche del Simeto”). C’è dunque la speranza che quanto avvenuto per Grotta delle Colombe inneschi in Sicilia un processo che conduca finalmente alla tutela delle più importanti aree in cui affiorano questi particolari prodotti vulcanici.

La Repubblica, 16 novembre 2014

Milano invasa da Seveso e Lambro, Genova e la Liguria che spiano col fiato sospeso i loro torrenti, Alessandria allagata. Il disastro annunciato che colpisce l’Italia a ogni botta di maltempo innesca ogni volta gli stessi effetti: i primi giorni pianti e lacrime, imprecazioni, ipotesi di mega- piani risolutori. Subito dopo, le chiacchiere si dissolvono nel nulla e si torna alla consueta strategia dell’oblio. Eppure quel che è in ballo è la vita dei cittadini, la salute del territorio, la salvaguardia delle generazioni future. Viceversa, ci industriamo a sbandierare alibi: cambiamenti climatici, bombe d’acqua, il fato, la sfortuna. Ma non ci sono scuse: non è vero né che questi disastri siano imprevedibili, né che siano recente novità, dato che già negli anni 1985-2011 si sono verificati in Italia 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti (rapporto Ance-Cresme).

È vero invece che i governi d’ogni segno chiudono gli occhi per non vedere che l’Italia è il Paese più fragile d’Europa, col 10% del territorio a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, mezzo milione di frane in movimento. Un solo rimedio è possibile: mettere in sicurezza il territorio, programmare e avviare grandi opere di manutenzione e salvaguardia. Fare, per quel corpo di tutti che è l’Italia, quello che ognuno fa per il proprio corpo: non aspettiamo una malattia grave per andare dal medico, corriamo ai ripari da prima, sappiamo che prevenire è meglio che curare. Non si eviteranno tutti i danni, ma se ne ridurrà enormemente il numero, la frequenza e la portata.
Quali sono i costi di questa mancata manutenzione? Secondo il rapporto Ance-Cresme, non meno di 3,5 miliardi di euro l’anno, senza contare morti e feriti. E quanto ci vorrebbe per mettere in sicurezza l’intero territorio italiano? Qualcosa come 1,2 miliardi l’anno, per vent’anni. Dunque l’opera di prevenzione, nei tempi lunghi, non è solo un investimento, è un risparmio. Ma proprio questo è il problema: i nostri governi rifuggono dai tempi lunghi, sono anzi afflitti da cronica miopia. Non sanno guardare lontano, non praticano la nobile lungimiranza predicata da Piero Calamandrei («la Costituzione dev’essere presbite »). Sono afflitti da strabismo, anche: davanti ai peggiori disastri, ne distolgono lo sguardo e sognano “grandi opere” (cioè grandi appalti), proclamando che da lì, e da lì solo, verrà l’agognato benessere.
E la storia si ripete: nel 2009, dopo la frana di Giampilieri (Messina) che seppellì 39 cittadini, il sottosegretario Bertolaso sostenne che era impossibile finanziare la messa in sicurezza dell’area, e due giorni dopo il ministro Prestigiacomo proclamò che bisognava affrettarsi a fare (su quelle frane) il Ponte sullo Stretto. Con identica sequenza, a far da contrappunto ai lutti in Liguria è venuta la dichiarazione del ministro Lupi alla Camera (10 novembre): «Io sono sempre favorevole alla realizzazione del Ponte e credo sia un tema che qualunque governo dovrebbe porsi».
Anziché leggere i segni premonitori dei prossimi disastri nel paesaggio deturpato, nell’assenza di piani paesaggistici regionali (invano prescritti dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio), nella mancanza di una carta geologica aggiornata (per il 60% del territorio dobbiamo accontentarci di quella del 1862!), ci stracciamo le vesti a ogni disastro, come se i colpevoli non fossimo proprio noi. Questa incuria, che coinvolge anche un’opinione pubblica incline a distrarsi, è ormai “strutturale”, un dato fisso dell’orizzonte politico italiano. A chi giova? A chi pratica una selvaggia deregulation, che nega ogni pianificazione di lungo periodo e in nome della libertà delle imprese e di uno “sviluppo” identificato con la speculazione edilizia calpesta i diritti dei cittadini e la tutela del territorio.
Nessun governo ha finora avuto il coraggio di fare una spregiudicata analisi degli errori, prerequisito indispensabile di ogni capacità progettuale. Anzi, nel recente Sblocca-Italia si prevede per la manutenzione del territorio un contentino di 110 milioni, a fronte di quasi 4 miliardi di spese in nuove “grandi opere” che accresceranno la fragilità del territorio. Dopo la Bre-Be-Mi, autostrada fallimentare e semivuota, avremo dunque la Orte-Mestre, con un beneficio fiscale di quasi due miliardi per le imprese costruttrici. Verrà perfino ripresa la costruzione della Valdastico, già nota come Pi-Ru-Bi (Piccoli- Rumor-Bisaglia), e lasciata poi cadere perché superflua. Ma l’unica, la vera “grande opera” di cui il Paese ha urgentissimo bisogno (e che genererebbe moltissimi posti di lavoro) è la messa in sicurezza del territorio. Per imboccare questa strada manca a quel che pare l’ingrediente essenziale: un’idea di Italia, un’idea declinata al futuro.

Come in molte parti d’Italia, in Sicilia si costruisce e si trasforma il territorio in spregio alle norme tecniche e ai principi urbanistici più elementari. E, anche in assenza di fenomeni naturali gravi ed evidenti, come ad esempio eventi meteorici intensi, si generano condizioni di rischio per il territorio e l’incolumità delle persone. Il paradosso è che spesso le stesse Pubbliche Amministrazioni, proprio facendo riferimento a non prioritarie o inesistenti emergenze, approvano o incoraggiano interventi inutili e dannosi.

È il caso di un progetto concepito dal Comune di Acireale, in provincia di Catania, per “rimuovere”, presunte cause di “degrado e di erosione” da tratti costieri con falesie di natura basaltica, ricoperte da formazioni a bosco e macchia mediterranea, ricadenti in una riserva naturale regionale (“La Timpa”) e in un Sito di Interesse Comunitario (ITA070004 “Timpa di Acireale”).

Di tale intervento, finanziato con fondi POR (POR Sicilia 2000/2006, n° 2: "Interventi integrati finalizzati alla rimozione delle cause di degrado ed erosione di tratti di costa in corrispondenza delle frazioni di S. Caterina, S. M. La Scala e Pozzillo"), sono stati portati a termine finora lavori a dir poco devastanti che, a detta dell’Amministrazione Comunale, avrebbero “rimosso” l’erosione costiera nei tratti interessati[1]. Tali lavori hanno invece comportato, in alcune aree di massima protezione della riserva naturale, la posa di spropositate e sovradimensionate reti metalliche, la totale e radicale distruzione della fitta vegetazione a macchia mediterranea inizialmente presente, nonché il disgaggio di rocce e lo scivolamento di suolo, determinando un processo erosivo che, in relazione ai tempi di erosione naturale della Timpa, avrebbe richiesto secoli. L’assurdità degli interventi consiste nella distruzione o dalla pesantissima manomissione di formazioni vegetali naturali e geologiche, cioè proprio di quegli elementi per la conservazione dei quali era stata istituita la riserva naturale.
In accordo con l’inizialmente richiamata illogica scala di priorità che caratterizza alcune pubbliche amministrazioni, gli stessi funzionari del Comune di Acireale che hanno ideato e inflitto un simile trattamento alla riserva naturale, hanno invece omesso di programmare e realizzare gli interventi mirati a evitare che le acque meteoriche provenienti dalle aree edificate a monte della riserva si riversino in modo selvaggio e senza controllo sulla sottostante falesia, innescando, come ripetutamente avvenuto e ampiamente documentato, crolli, frane e fenomeni erosivi artificiali estremamente violenti e dagli effetti osservabili in tempi estremamente brevi.

Come "necessario" completamento dell'intervento, la Giunta comunale ha adesso approvato (delibera n° 93 dell'8 settembre 2014) la costruzione di una barriera soffolta in un tratto di costa di incalcolabile interesse geologico per la presenza di spettacolari basalti colonnari, in parte anche sommersi, al fine di “rimuovere”, anche in questo caso, l’erosione. Si tratta di un luogo mitico, meglio noto con il toponimo di Grotta delle Colombe, in cui Ovidio, nel XIII libro delle Metamorfosi, ambienta la storia d’amore tra la nereide Galatea e il pastore Aci, che viene ucciso dal ciclope Polifemo.

La barriera soffolta, per la struttura dell’opera, per il posizionamento previsto e per la natura dei fondali e del tratto di costa interessato (rocce basaltiche a picco sul mare), si rileverebbe tecnicamente inutile e comunque inefficace a “rimuovere” l’erosione, come è stato evidenziato da autorevoli specialisti[2]. Indipendentemente dalla validità tecnica dell’opera, appare comunque assurda l’idea di volere “rimuovere” il naturale processo di erosione di una costa rocciosa basaltica e intollerabile lo spreco di pubblico denaro.

Peggio ancora: inutile agli scopi prefissi, la barriera sconvolgerebbe i variegati fondali dello specchio di mare interessato, che possiede una ricchissima biodiversità animale e vegetale. Numerosi studi hanno accertato in questi fondali la presenza di specie di alghe a rischio o minacciate di estinzione, sottoposte a vincoli di protezione dalla normativa internazionale e nazionale, e hanno censito ben sei habitat prioritari secondo la disciplina comunitaria[3].

Ma senza dubbio il danno maggiore che produrrebbe la barriera soffolta deriva dalla presenza di basalti colonnari proprio in corrispondenza del tratto di costa in cui dovrebbe essere realizzata. Le parti sommerse di queste straordinarie formazioni geologiche sarebbero infatti sepolte dall’opera.

Questi basalti sono diversi rispetto a quelli riscontrabili nella vicina Aci Trezza, costituiti da corpi magmatici raffreddatisi all’interno della crosta terrestre. Presso Grotta delle Colombe sono presenti, infatti, affioramenti di lave a colonne sub-verticali eruttati da apparati fissurali, periferici rispetto all’area in cui si formò l’apparato centrale etneo. Si tratta in ogni caso di formazioni geologiche rarissime nel Mediterraneo, soprattutto in ambiente marino; anzi, la particolarità di essere sommersi e di presentare una significativa estensione li rende unici nel Mediterraneo. La loro bellezza, scaturente dalle geometrie regolari, tendenti all’esagono, tipiche, appunto, dei basalti colonnari e il loro elevatissimo valore scientifico non meritano di essere cancellate da un’opera tanto inutile quanto assurda. Piuttosto i basalti colonnari di Grotta delle Colombe, sia nelle parti emerse sia sommerse, dovrebbero essere rigorosamente tutelati e diventare motivo di promozione turistica.

Se la barriera soffolta fosse realizzata, seppellendo questi tesori naturali sommersi, i funzionari che l’hanno voluta e continuano a volerla, sarebbero ricordati per sempre come responsabili di un inaccettabile scempio.

Ci auguriamo che l'allarme esca dall'ambito locale e coinvolga l'opinione pubblica nazionale. Sulla vicenda Legambiente ha presentato denuncia alla Procura della Repubblica e alla Procura della Corte dei Conti.

[1] Una barriera frangiflutti per tutelare Santa Maria La Scala e Santa Caterina, "La Sicilia", 17 set. 2014.
[2] Così nel 2008 il prof. Giuliano Cannata, uno dei massimi esperti in Italia nel campo della difesa costiera. A sua volta il prof. Carmelo Ferlito, vulcanologo dell'università di Catania, definisce "ingenui" i tentativi di "bloccare" l'erosione di una scogliera a picco sul mare (Timpa di Acireale, il parere degli esperti, quotidiano online "CTZEN", 30-9-2014: ).
[3] Alcuni studi, in particolare, hanno evidenziato la presenza di ben 269 taxa tra Rhodophyceae, Phaeophyceae e Chlorophyceae, tra cui quattro specie a rischio o minacciate e sottoposte a vincoli di protezione dalla normativa internazionale e nazionale. Nell'area in cui in particolare è prevista la barriera è stata rilevata la presenza di tre delle quattro specie e di cinque dei sei habitat. Riguardo alla fauna, altri studi hanno rilevato la presenza di specie indicatrici, che denotano un'elevata ricchezza degli ambienti dell'infralitorale superiore (Catra M., Giaccone T., Giardina S., Nicastro A., Il patrimonio naturale marino bentonico della Timpa di Acireale (Catania), 2006: Boll. Acc. Gioenia Sci. Nat., 39 [366]:129‐158). In una relazione del 2008 la prof. Grazia Cantone, ordinario di Biologia Marina dell'università di Catania, ha evidenziato l'azione distruttiva che l'enorme massa di pietrame lavico determinerebbe, "giacché sarebbero ricoperti e distrutti tutti i popolamenti algali e animali sui quali verrà riversato il materiale della barriera". Diversamente da quanto sostenuto dagli estensori dello studio di impatto ambientale, la prof. Cantone osserva che, "anche se nel tempo gli inerti verranno colonizzati, si avrà certamente una minore ricchezza specifica dovuta all'uniformarsi dell'habitat". La barriera inoltre comporterebbe un'alterazione della circolazione delle correnti marine (influenzata dalla presenza di sorgenti di acque dolci), che potrebbe compromettere in modo irreversibile ogni possibilità di ripresa della vegetazione, quanto meno nelle condizioni attuali.

Roberto De Pietro è componente di Legambiente Catania
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arrivi in un porto industriale, ma in un paradiso naturale: San Foca, provincia di Lecce. “Impensabile”, dichiara l’ex ministro Massimo Bray, appoggiando l’idea di farlo arrivare nell’inutilizzato Petrolchimico di Brindisi». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2014

Tra gli infiniti lutti che lo Sblocca Italia sta per addurre al già martoriato territorio italiano ce n’è uno che viene da lontano. Il Tap: il Trans Adriatic Pipeline, cioè il gasdotto trans-adriatico che deve portare in Italia il gas dell’Azerbaigian. Nel quadro dell’attuale (criticabile) politica energetica, l’Italia e soprattutto l’Unione europea hanno bisogno di quel gas. E Matteo Renzi ci tiene particolarmente, perché il superlobbista del consorzio industriale che realizza il Tap è quel Tony Blair che il nostro presidente del Consiglio ha eletto a icona personale.

Ma c’è un dettaglio: e cioè che il progetto prevede che il “tubone” azero arrivi sulla costa italiana non in un porto industriale, ma in un paradiso naturale: San Foca, sul litorale di Melendugno (in provincia di Lecce). «Impensabile», ha dichiarato l’ex ministro per i Beni culturali, il leccese Massimo Bray, appoggiando invece l’idea di far arrivare il gasdotto nell’area dell’inutilizzato Petrolchimico di Brindisi. Infatti, di fronte al comprensibile insorgere delle comunità locali e dei relativi amministratori, la Regione Puglia di Nichi Vendola ha sostanzialmente accolto l’alternativa di Brindisi, proposta in una lettera a Renzi da tre consiglieri comunali di quest’ultima città. Sabato scorso a Bari, Renzi ha risposto alle proteste “no-Tap” di 40 suoi ex-colleghi sindaci dicendo: «Trovate voi la soluzione alternativa».
Più una sfida mediatica (prontamente raccolta da Beppe Grillo) che un’apertura politica , visto che il giorno prima la Gazzetta Ufficiale aveva pubblicato lo Sblocca Italia, il cui articolo 37 segna la sorte di San Foca senza se e senza ma. Eppure la tutela dell’ambiente e della salute degli italiani dovrebbe essere un problema del governo italiano, non dei pugliesi di San Foca. Se il ministero dell’Ambiente dell’inesistente Galletti ha dato semaforo verde al Tap senza grossi problemi, il ministero per i Beni culturali del più solido Franceschini ha invece detto no, con un articolatissimo parere di 57 pagine che elenca tutti i problemi. Tra questi, il disboscamento di 26.000 mq e la realizzazione di impianti industriali e alte ciminiere in una zona ancora vergine e “di eccezionale importanza”: e una recente sentenza del Consiglio di Stato ha detto che “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato”. E, d’altra parte, il parere del Mibact non dice solo no: prende in considerazione alcune alternative, e spiega perché sono preferibili.

Nei prossimi giorni vedremo se Renzi proverà a governare il problema, o se invece prevarrà la logica dello Sblocca Italia: che è quella di tradurre in legge i progetti industriali presentati dai privati. E la domanda è: cosa vuol dire governare? Vuol dire imporre il “fare”, comunque e a ogni costo, o capire invece come fare? Vuol dire assumere per buone le ragioni del consorzio industriale, e poi semmai gettare la palla nel campo dei sindaci che protestano? O non deve invece voler dire farsi carico di tutti gli interessi in gioco, e trovare una soluzione che vada incontro al bene comune? Sulla spiaggia di San Foca ci giochiamo molto più della spiaggia di San Foca.

Costiera Amalfitana. Circa trent’anni fa un’accesa polemica divampò a proposito di un progetto da realizzare nello splendido scenario della Costiera Amalfitana. Per iniziativa del sindaco del comune di Furore, Raffaele Ferraioli, si voleva costruire due ascensori nel Fiordo di Furore. Il WWf. e gli ambientalisti si opposero e l’opera fu poi bocciata dalla Soprintendenza, dal Tar e dal Consiglio di Stato, perché l’iniziativa era in contrasto con le prescrizioni della pianificazione regionale, che sottoponeva l’intero Fiordo a tutela integrale e vietava in esso ogni intervento pubblico o privato, al fine di mantenere intatte le singolari caratteristiche ambientali e paesaggistiche. Il Fiordo di Furore è da sempre una meraviglia della Costa d’Amalfi ; dal 1997 è stato dichiarato patrimonio mondiale dell’Umanità, e perciò protetto dall’Unesco Tra le scalinate del borgo , nell’antico villaggio dei pescatori incastonato sul fianco della montagna, nel 1948 Roberto Rossellini girò il vero omaggio all’arte della bravissima Anna Magnani: l’episodio centrale del film “Amore”,

E proprio qui Anna Magnani e Roberto Rossellini, vissero la loro tormentata e intensa storia d’amore: si innamorarono del Fiordo tanto da comprare due “monazzeni”, case dei pescatori proprio sulla spiaggia, ironicamente ribattezzate con i loro soprannomi: “ la villa del Dottore” e “la villa della storta”. Finito l’idillio abbandonarono il loro nido d’amore. Anna Magnani non tornò mai più nel fiordo di Furore, regalò la sua casa al vecchio custode che ancora oggi la affitta a coloro che vogliono respirare questa strana atmosfera a metà tra mito e realtà. Lungo la statale tra Praiano e Conca dei Marini al km 23, c’è il ponte che scavalca il fiordo; da qui partono le scale, ripide, che scendono nella ria. Un’insenatura naturale strettissima con una spiaggetta deliziosa. Boccone da far gola a chiunque , particolarmente a chi è amante del bello e si diletta a poetare.

Tant’è vero che qualcuno il suo amore per il bello l’ha in passato espresso sbancando e distruggendo la parte esterna del fiordo ,edificando proprio in cima a esso una casa a forma di botte. Ora il Consiglio comunale di Furore capeggiato allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli ha programmato e fatto approvare la costruzione di un ascensore da infilare nel Fiordo. Nelle intenzioni dell’amministrazione comunale l’ascensore installato nella roccia dovrebbe servire a collegare il centro abitato sovrastante con la spiaggia del Fiordo , permettendo così anche il recupero dell’arenile. L’idea di realizzare un ascensore tra le rocce del Fiordo è quella – secondo quanto dichiarato dal sindaco Ferraioli, “ di ripristinare quell’equilibrio rotto dall’apertura dell’ottocentesca rotabile Positano-Vietri, che nel connettere alcune aree ne ha fatalmente emarginate delle altre” . Il progetto elaborato dal Comune prevede, oltre alla realizzazione di un ascensore che si svilupperà su un unico tracciato lungo trecento metri, di cui sessanta allo scoperto e duecentoquaranta in galleria, anche un parcheggio d’interscambio di oltre duecento posti macchina. Il costo preventivato dell’opera sembra che si aggiri tra i tre e sette milioni. Un progetto sicuramente ambizioso ma dai risvolti paesaggistici drammatici, per la creazione delle varie strutture previste per la realizzazione dei parcheggi, l'accoglienza dei cittadini e dei turisti : sarà come sbancare una montagna. Non si comprende perciò come l’amministrazione comunale, rappresentata allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli, possa non solo sostenere che l’attuale progetto sottoposto e approvato dal consiglio comunale abbia tutte le carte in regola per essere realizzato, ma ritenere anche che lo stesso possa essere un volano per lo sviluppo turistico di Furore

L’impiego di un ascensore per raggiungere il fiordo è invece esattamente il contrario di quanto richiederebbe una moderna concezione dell’attività turistica, che si qualifica culturalmente solo quando rispetta l’identità storica di un luogo e non quando lo appiattisce in un’ottica di frettoloso e banale consumo. Tra l’altro , l’ambiente eccezionale del Fiordo di Furore è da sempre raggiungibile, oltre che dal mare,anche attraverso una caratteristica scalinata, certo non vertiginosa poiché il centro abitato è appena a 300 metri sul livello del mare. Ormai lo sanno tutti : lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza , l’integrità dell’ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, frane, da’ vita al turismo e quindi porta guadagni .I turisti cercano l’ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato e un territorio non manomesso. E la gente della Costa D’Amalfi lo sa, visto le tante scandalose manomissioni già compiute sul territorio che da Vietri sul Mare porta a Positano. Sono i “ saraceni “ del partito del cemento che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in modo distorto la parola “ sviluppo “.

Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2014

La direzione generale Ambiente della Commissione europea ha chiesto formalmente all'Italia chiarimenti sull’inquinamento delle acque della diga del Pertusillo (Potenza) e sul rischio sismico dell’attività estrattiva. Dopo la denuncia, fatta nel 2013 dal comitato ambientalista Mediterraneo No Triv, l’Europa chiede risposte. E lo fa a pochi giorni dall’annuncio del premier Matteo Renzi: “Se c’è il petrolio in Basilicata sarebbe assurdo, in questo momento, rinunciarvi”.

Il decreto sblocca Italia, che vorrebbe raddoppiare le estrazioni di greggio in territorio lucano, preoccupa le associazioni ambientaliste e i cittadini, i pochi rimasti. Dal dossier presentato alla Commissione, realizzato da Albina Colella, docente di Geologia all'università della Basilicata, si scopre che nelle acque della diga, che disseta Puglia e Basilicata, sono state rinvenute abbondanti quantità di fosforo, azoto e zolfo. Ma soprattutto una forte presenza di idrocarburi e metalli pesanti. “Le concentrazioni di idrocarburi superano sempre i limiti di riferimento – si legge nella relazione – in quantità fino a 646 volte superiori al limite di microgrammi per litro fissato dall’Istituto Superiore di Sanità per le acque potabili. È stato rinvenuto, ad esempio, il bario (un metallo pesante usato nei pozzi di petrolio per appesantire i fluidi di trivellazione, ndr) con una concentrazione fino a 3000 microgrammi per litro, cioè in quantità fino a tre volte superiore al limite consentito per l'acqua potabile”.

Lo studio fotografa un rischio per la salute e la sicurezza delle persone elevato: “Ci sono idrocarburi anche nel miele della Val d'Agri – si legge testimoniare che l'inquinamento è ormai entrato nella catena alimentare”. E non è tutto. Come spiega l’avvocato Giovanna Bellizzi, presidente del comitato Mediterraneo No Triv, “anche la situazione geologica della Val d’Agri risulta incompatibile con l’attività di ricerca e di estrazione del petrolio”. Secondo il dossier, infatti, la zona in cui si vorrebbero raddoppiare le estrazioni è a forte rischio sismico. “È un territorio caratterizzato da faglie attive e da terremoti di forte intensità. Molto fragile e vulnerabile rispetto alle attività petrolifere”, scrive la professoressa Colella.

Oggi in Val d’Agri ci sono 25 pozzi petroliferi attivi, l’oleodotto più grande d'Europa e un pozzo di reiniezione (che raccoglie i gas di scarto). L’attività petrolifera, secondo l'Agenzia per l’Ambiente degli Stati Uniti (EPA), vale un rischio inquinamento da 7 a 8 su una scala il cui massimo grado è 9. Ma Renzi ha idee diverse: «È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti quello che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini».

Ma per Stefano Prezioso della Svimez, il mito dell’occupazione portata dal petrolio è falso: “La Basilicata è una delle regioni con il più alto flusso migratorio d'Italia. E la causa principale per cui in tanti se ne vanno è la disoccupazione. L’industria estrattiva non può risolvere il problema: impiega poche persone, in gran parte inviato sul posto da [....]

1l manifesto, 19 settembre 2013. Con postilla

Il 2 agosto 2013, a seguito dell'approvazione da parte del ministero per i Beni Culturali, la Giunta Regionale della Puglia presieduta da Nichi Vendola ha finalmente potuto adottare il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, predisposto dall'ottimo assessore alla qualità del territorio Angela Barbanente, frutto di un complesso e lungo lavoro, che ha visto all'opera una grande équipe di specialisti coordinata da Alberto Magnaghi, uno dei più grandi urbanisti a livello internazionale.

Com'era prevedibile si è scatenato un fuoco di fila di opposizioni, di distinguo, di cautele, di timori. Una dura opposizione che vede attivi non solo i partiti del centrodestra ma anche pezzi del Pd, oltre ad esponenti del mondo delle imprese e delle professioni e a sindaci di entrambi gli schieramenti: tutti a difesa di un vecchio modo di intendere lo sviluppo, basato sulla cementificazione, sul consumo delle risorse, sulla distruzione dei beni comuni, accomunati nella richiesta di rinvii o addirittura di revoche.

Le motivazioni dichiarate si basano su una presunta mancata condivisione. La motivazione reale è, invece, il terrore per un Piano che disegna una Puglia diversa, innovativa, con progetti di sviluppo sostenibile e compatibile con le peculiarità del territorio; un Piano che blocca il bulimico consumo di territorio; un Piano fondato su una solida base conoscitiva e dotato di una Carta Regionale dei Beni Culturali nella quale sono censiti oltre diecimila siti di interesse culturale; un Piano che non si limita a proporre un approccio estetico e a proteggere alcune énclaves, isole di "bel paesaggio" in un oceano di brutture e di cemento, ma che si occupa dell'intero territorio regionale, delle periferie, delle coste, delle aree interne; un Piano che è ormai considerato un modello, studiato e imitato da molte altre regioni italiane. Un vero primato pugliese, anche perché è effettivamente il primo Piano Paesaggistico adottato in Italia, con le nuove norme.

Assurda appare proprio la tardiva critica di mancata condivisione. Quello della Puglia è, infatti, un Piano largamente condiviso, frutto di un'impostazione realmente democratica e partecipata. Non solo perché ci hanno lavorato nel corso di molti anni decine di specialisti provenienti dalle quattro università della Puglia e di altre regioni italiane e un ampio gruppo di giovani ricercatori e di professionisti, con l'apporto di numerose associazioni e di migliaia di cittadini, ma perché è stato presentato e discusso in molte conferenze d'aria (non meno di 13) tenute tanto nelle città principali quanto in piccoli centri della Puglia. Il Piano è stato, inoltre, oggetto anche di numerose pubblicazioni ed è interamente consultabile fin dal 2010, data della prima approvazione regionale, su uno specifico sito web ( http://paesaggio.regione.puglia.it ).

Gli attacchi sono chiaramente strumentali e denotano anche una sostanziale ignoranza del Piano. Gli oppositori, inoltre, si affannano a presentare quanti hanno contribuito a predisporre il Piano e quanti ora ne difendono la filosofia, come dei talebani, illiberali, centralisti, vincolisti, fanatici che vogliono affamare la Puglia e bloccarne lo 2sviluppo". Nulla di più sbagliato! Il Pptr della Puglia è tutt'altro che vincolistico, ma insiste sulle premialità, sugli incentivi, sulle buone prassi da diffondere. Non pensa di trasformare la Puglia in un immenso museo o in un grande Parco naturalistico, ma di favorire nuove e più innovative procedure di sviluppo del territorio. Si tratta, dunque, di obiettivi che anche gli ambienti più avveduti degli imprenditori, degli stessi costruttori, dei professionisti dovrebbero condividere, ampliando lo sguardo alle realtà più evolute del mondo.

Mi auguro che i partiti della sinistra, le associazioni culturali e ambientali, i settori più avveduti e avanzati delle professioni e della società civile, facciano sentire forte la propria voce, per evitare che prevalgano gli interessi particolari nel bloccare o stravolgere il Pptr, sollecitando tutti semmai a contribuire a migliorare ulteriormente questo straordinario strumento democratico di pianificazione del futuro della Puglia.

Non mancano anche attacchi da parte di chi considera il Piano addirittura eccessivamente permissivo e accomodante. A costoro ricordo l'esperienza della giunta di Renato Soru in Sardegna, caduta proprio sul Piano Paesaggistico. Cosa è successo successivamente con le politiche di Ugo Cappellacci è sotto gli occhi di tutti.
In Puglia è aperto un confronto tra diverse visioni, non solo politiche ed economiche ma anche culturali, tra chi cerca di difendere e valorizzare i beni comuni, i patrimoni culturali, i monumenti e siti archeologici, i paesaggi unici, l'agricoltura sana, lo sviluppo turistico di qualità, l'industria culturale, la ricerca e innovazione, e chi propone ancora retrive e disastrose politiche di un malinteso sviluppo basato solo su cementificazione, inquinamento, consumo di territorio, devastazione di paesaggi, degrado delle periferie, deturpamento delle coste, avvelenamento dell'agricoltura, a vantaggio di pochissimi e con gravi danni economici, sociali, sanitari e culturali della stragrande maggioranza dei cittadini pugliesi,che certamente non intendono tornare ad un passato che solo pochissimi nostalgici rimpiangono. Un confronto che ha una valenza non solo regionale ma anche nazionale ed europea.

Puglia e Sardegna: due piani paesaggistici formati secondodue diversi modelli ma caratterizzati da un’identica volontà: tutelare ilpaesaggio, patrimonio delle comunità in tutte le sue scale dalla locale allaplanetaria. Tutelarlo a partire dalle aree più a rischio a causa dellepressioni del dilagare della “città della rendita”. Più che di modelli parlereidi diversi “modi”, con l’attenzione focalizzata su visioni e aspetti diversi manon contrastanti: l’uno orientato alla lenta, difficile, ma necessariaformazione di una consapevolezza diffusa, virtualmente maggioritaria, dellaqualità e del valore (parliamo ovviamente di valor d’uso, non di valore discambio) del patrimonio costituito dal paesaggio, l’altro diretto primariamentealla difesa nell’immediato di ciò che del Belpaese è ancora sopravvissuto eperciò è minacciato più rapidamente d’essere travolto e cancellato per sempredagli attacchi della speculazione fondiaria, resa più potente dal fulgore delnuovo moloch, il Mercato. Sulle differenze e sulla necessità d’integrazione traquesti due modi mi propongo di tornare più distesamente. Per ora voglio limitarmi ad annotare che ledue esperienze, quella pugliese e quella sarda, sono accomunate oltre che dalleintenzioni, da una circostanza: entrambe sono violentemente attaccate daifautori della mercificazione delpaesaggio e dalla cementificazione del territorio nel silenzio assoluto deimezzi d’informazione (si fa per dire) dell’opinione pubblica, pronti a denunciaregiustamente ogni fiammelle dell’incendio che devasta l’Italia , a deprecare,altrettanto giustamente, il consumo di suolo, e mai a difendere l’unicostrumento capace – se usato a fin di bene- di tutelare il territorio in tutti i suoiaspetti: la pianificazione.

In limine una precisazione all’articolo di Volpe. Il primopiano paesaggistico regionale approvato aisensi del Codice del paesaggio è stato quello della Sardegna, pienamentevigente dal settembre 2006. A partire dalla sconfitta di Renato Soru è iniziataun’operazione di svuotamento del PPR con leggi regionali della giunta del berlusconiano Cappellacci in pienocontrasto col piano, sottoposte al giudizio della Corte costituzionale ma, inattesa delle sentenze d’incostituzionalità, pienamente operanti benché illegittime. Nel silenzio generale dell’opinione pubblica nazionale.

— Questa è la storia di una laguna che è diventata una mangiatoia. Una laguna malata e mai bonificata. Un buco nero di sprechi e veleni nel quale lo Stato ha annegato 100 milioni. È una storia di fanghi al mercurio e commissari indagati, di canali otturati e analisi creative. Per raccontare lo scandalo della laguna di Grado e Marano basterebbe dire come è iniziato e come sta (forse) finendo. È iniziato con uno stato di emergenza (3 maggio 2002, ministro dell’Ambiente era Altero Matteoli) e la nomina di un commissario da parte dell’allora boss della Protezione civile Guido Bertolaso (dall’anno dopo e fino allo stop di Monti si andrà avanti col sistema della deroga che ha causato le porcate del G8 e della ricostruzione post-terremoto dell’Aquila).

Lo scandalo sta finendo con la richiesta di rinvio a giudizio per 14 persone (tra commissari e soggetti attuatori; diversi i politici di entrambi gli schieramenti). Dovranno rispondere di peculato, omissione e truffa ai danni dello Stato. Non solo: si sta prefigurando anche il reato di disastro ambientale. Perché — ha scoperto Viviana Del Tedesco, il sostituto procuratore di Udine che indaga sulla vicenda e ha firmato le 40 pagine d’accusa — i lavori per l’eliminazione dei fanghi inquinanti («un falso presupposto »), in questi dieci anni — ecco l’ulteriore beffa — hanno provocato, a loro volta, seri danni alla laguna. «Sia alla morfologia che all’ecosistema». Per la serie: non bastava sprecare 100 milioni per non risolvere un problema; bisognava anche aggravarlo.

Un pasticcio all’italiana. Con tutti gli ingredienti al loro posto e qualche chicca. Per esempio l’immancabile cognato (indagato) di Bertolaso, quel Francesco Piermarini esperto di cinema ma anche

di bonifiche, ma forse più di cinema se dopo il flop della Maddalena (72 milioni per ripulire i fondali che però sono ancora pieni di idrocarburi) l’hanno imbarcato (47mila euro) anche in questa folle operazione nell’Alto Adriatico finita nella maxi-inchiesta della procura di Udine. L’hanno chiamata, non a caso, “finta emergenza del Sin” (sito inquinato di interesse nazionale, la laguna appunto).

In origine è lo stabilimento Caffaro di Torviscosa. La Caffaro sta alla chimica come l’Ilva sta all’acciaieria. Fondata nel 1938 alla presenza di Mussolini come sede produttiva del gruppo “Snia Viscosa”, più di 25mila tonnellate di prodotti venduti ogni anno. Adesso l’azienda è chiusa (il gruppo Snia è in amministrazione straordinaria). Per anni, però, la Caffaro ha sputato veleno. Fango al mercurio trascinato in laguna dai fiumi Aussa e Corno. Il risultato è che lo specchio d’acqua antistante lo stabilimento si è riempito di metalli. I canali (cinque) si sono intasati rendendo sempre più difficile la navigazione e mandando su tutte le furie

le marinerie di Aprilia Marittima (si costituiranno parte civile assieme a Caffaro). «Era chiaro fin da subito che l’inquinamento riguardava solo una minima parte della laguna di Grado e Marano — osserva il pm Del Tedesco —. Ma qualcuno ne ha approfittato». È il 2001, iniziano le sorprese. La commissione fanghi nominata dalla Regione deposita un progetto definitivo per i drenaggi di tutti i canali. Lo studio viene consegnato il 28 febbraio 2002. Resterà nel cassetto per dieci anni. Due giorni fa la Guardia di finanza di Udine va a prenderlo a Trieste negli uffici della Regione.

Una scoperta «interessante». Per due motivi: primo, il 3 maggio del 2002 — tre mesi dopo il deposito della ricerca — il ministero dell’Interno decreta lo stato di emergenza. Che manda il progetto in soffitta. Secondo: il piano “dimenticato” dalla Regione (quanto è costato?) prevedeva di rimettere i fanghi tolti dai canali in laguna (come si fa dai tempi della Serenissima) e non certo, come si è deciso dopo, di portarli a Trieste o a Venezia, o stoccarli come rifiuti speciali in vasche di colmata che cadono a pezzi. Perché si sono scordati del progetto? La risposta ce l’hanno i magistrati. «Hanno voluto e poi cavalcato lo stato di emergenza per abbuffarsi di incarichi, consulenze, nomine, poltrone ». Un valzer costato 100 milioni in dieci anni. I commissari che si avvicendano sono tre. Il primo (giugno 2002) è Paolo Ciani, consigliere e segretario regionale di Fli, già assessore all’ambiente. pidiellino Riccardo Riccardi.

L’anno scorso il premier Monti, d’accordo col ministro Corrado Clini e con il nuovo capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, decide che può bastare: stop al commissario della laguna. I fari della magistratura sono già accessi. Il prosciugamento del denaro pubblico è iniziato con le analisi dei fanghi. Costate 4 milioni, si rivelano inutili perché mai validate da nessun organismo pubblico. I carotaggi vengono affidati alla Nautilus, un’azienda calabrese all’epoca sprovvista del certificato antimafia. Poi arrivano gli altri “investimenti”. Gettati, è il caso di dire, nel fango. Vasche di raccolta e palancole (paratie di ferro) garantite 64 anni che a distanza di seianni stanno crollando (il metallo si sbriciola e inquina la laguna). I commissari ottengono strutture da 30 persone, gli stipendi schizzano da 5 a 11mila euro al mese.

Una bengodi per tecnici e soggetti attuatori. Una piccola Maddalena, con la sua cricca. Persino grottesche alcune iniziative messe in campo: dopo il decreto dello stato di emergenza per inquinamento ambientale, all’Università viene commissionato uno studio di fattibilità per installare un’attività di allevamento di molluschi nella stessa laguna. In tutto questo non può mancare la ciliegia sulla torta: al netto dei 100 milioni spesi, l’area Caffaro — secondo alcuni l’unica inquinata, secondo altri l’epicentro della presunta pandemia dell’intera laguna (1600 ettari) — , non è stata mai bonificata. È il colmo. La giunta regionale tace. Sulla vicenda l’unica a martellare è l’emittente televisiva locale “Triveneta”. Intanto i magistrati vanno avanti. Malata curabile, immaginaria o terminale, per la laguna gli orizzonti sono sempre meno blu.

Un grido di dolore si leva da coloro che amano la natura e vorrebbero preservarla. Una parte di costa abruzzese sta per essere cementificata brutalmente, legalmente, con il solito argomento della crescita e dello sviluppo.

«Abbiamo perso l'opportunità di salvare il rarissimo tratto di fascia costiera non ancora edificato», scrive il Comitato riserva naturale regionale Borsacchio. Al posto della spiaggia «avremo palazzine e stabilimenti e al posto della splendida pineta, strade e piazze coperte di asfalto».

Stiamo parlando di una riserva naturale che si trova nei comuni di Roseto degli Abruzzi e Giulianova con spiagge pulite e pinete intatte chiamato Riserva del Borsacchio. Nata nel 2005, da anni la Riserva è nelle mire di chi vorrebbe costruire megavillaggi e casette a schiera. Eppure, come spiegano quelli di Legambiente, «centinaia di appartamenti costruiti negli ultimi lustri rimangono sempre più desolatamente inutilizzati e invenduti».

«Perché tanta indifferenza del governatore, dei sindaci e di buona parte dei consiglieri regionali e comunali, che pur potendo non lo hanno impedito?» si chiedono preoccupati. «Avranno una sola buona ragione? Purtroppo sembra che l'unica spiegazione del loro comportamento sia di non sapere dire no a chi, con mezzi economici convincenti, impone il solo interesse realmente tute

lato in questa brutta vicenda, lo spessore del suo portafoglio».

«L'area protetta del Borsacchio del Teramano è stata oggetto di numerosi interventi legislativi finalizzati alla modifica della linea di confine per rispondere agli appetiti della speculazione edilizia», commenta Fabio Celommi del Comitato.

I cittadini in maggioranza si sono schierati contro la divisione in due della Riserva che verrebbe a perdere gran parte della sua pineta e le foci del Tordino e del Borsacchio, per cui si avrebbe «una Riserva del Borsacchio senza il Borsacchio medesimo», come dice Pio Rapagnà che da anni difende coraggiosamente le ragioni della comunità... Ma come al solito, gli appetiti degli speculatori si dimostrano più forti della volontà popolare.

C'è chi si riempie la bocca della magica parola «sviluppo». Ma è cieco e sordo chi pensa che lo sviluppo consista solo nella moltiplicazione delle case e nelle gettate di asfalto. Oppure è in malafede e usa la comoda parola per nascondere le ingordigie di grossi investitori.

Ormai lo sanno tutti: lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza, l'integrità dell'ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, slavine, desertificazione, dà vita al turismo e quindi porta anche guadagni. I turisti cercano l'ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato. E la gente del luogo lo sa. Sono gli speculatori che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in malafede la parola «sviluppo».

Dall'8 maggio della vicenda si occupa il Consiglio di Stato. Il progetto presentato nel 2004 dal costruttore Muto prevede la costruzione di 200 villette, alberghi e altri edifici sulle rive del Mincio. Un lungo braccio di ferro, fatto di decisioni politiche, sentenze e ricorsi: lo scontro tra il business e la salvaguardia dell'ambiente

È il paesaggio mantovano che Andrea Mantegna ha incorniciato nella grande finestra che fa da sfondo alla Morte della vergine, dipinto nel 1462 e ora al Prado di Madrid: il fiume Mincio che si allarga e diventa lago, il ponte che lo attraversa. Se si realizzasse il progetto che prevede di costruire un quartiere di centottantamila metri cubi - duecento villette, alberghi e altri edifici per milleduecento abitanti - proprio lì dove il ponte tocca la sponda e una cortina di pioppi sfiora l'acqua, quel paesaggio non sarebbe più lo stesso. Alterato per sempre. Tutto dipende da cosa deciderà, a partire da martedì 8 maggio, il Consiglio di Stato presso il quale pende il ricorso di una società immobiliare, la Lagocastello, contro una sentenza del Tar Lombardia che a quella società aveva già dato torto, dichiarando validi i vincoli posti dalla Soprintendenza su tutta l'area dei laghi intorno alle mura di Mantova.

La partita è delicata e si combatte da anni, intrecciandosi alle vicende politiche della città, dividendo gli schieramenti anche al loro interno. È in gioco uno dei paesaggi urbani che sintetizzano i più celebrati valori del Rinascimento italiano. I laghi mantovani abbracciano le mura della città sovrastate dal castello di San Giorgio e dal Palazzo Ducale, che custodisce le opere di Mantegna (fra le quali la Cameradegli sposi) e poi di Pisanello e di Giulio Romano. Architetture e natura compongono un insieme che va tutelato, stando alla Soprintendenza e alla Direzione regionale dei beni culturali della Lombardia. Che aggiungono un altro elemento: anche i laghi sono opera dell'uomo e modellati in maniera da costituire un sistema che va conservato nella sua interezza, come se fosse un monumento. L'integrità di questo complesso paesaggistico e la sua percezione verrebbero stravolte dalle costruzioni. Da qui un vincolo di inedificabilità che stronca i progetti di lottizzazione e salva un patrimonio sul quale vigila anche l'Unesco.

Tutto ha inizio negli ultimi mesi del 2004. La società Lagocastello, di proprietà di Antonio Muto, calabrese di Cutro, in provincia di Crotone, diventato negli anni uno dei più ricchi e potenti costruttori del mantovano, presenta un progetto all'amministrazione comunale, allora retta dal diessino Gianfranco Burchiellaro. Per vararlo è però necessaria una variante urbanistica, che viene approvata facendo una corsa contro il tempo, evitando che la fine della legislatura, nella primavera del 2005, blocchi tutto. I consiglieri della maggioranza vengono precettati, uno di loro, in ospedale per assistere un parente, viene prelevato dai vigili. Più volte manca il numero legale, ma alla fine la variante passa con i voti di due consiglieri del centrodestra. E subito partono il cantiere e gli sbancamenti.

Ma contro quell'insediamento monta la protesta di una parte della città. Alle elezioni del 2005 si candida a sindaco per i Ds Fiorenza Brioni che fin dalle prime battute della campagna elettorale annuncia che farà di tutto per bloccare il progetto di Muto. Gli elettori la premiano con una netta vittoria al ballottaggio. Appena insediata, Brioni parte lancia in resta, ma si accorge subito che parte del suo stesso gruppo non la segue. Inoltre le procedure amministrative per superare il voto del precedente Consiglio comunale non sono semplici. Ma anche il progetto di edificazione ha i suoi punti deboli. Li scova un ingegnere esperto di norme urbanistiche e consulente di molte Procure, Paolo Rabitti: il piano interessa un'area grande una trentina di ettari ed essendo incluso nel perimetro del Parco del Mincio necessita di una Via (Valutazione di impatto ambientale). Che non c'è. E dunque è viziato. Il sindaco firma un provvedimento che sospende i lavori. Ma contro questa decisione il costruttore fa ricorso al Tar, ottenendo che il provvedimento sia sospeso.

Inizia un braccio di ferro interminabile, fatto di ricorsi e di pronunce del Tar e del Consiglio di Stato. Intanto si mobilitano le associazioni ambientaliste - Italia Nostra, il Fai, Legambiente - tutte a sostegno del sindaco. Interviene Salvatore Settis. A favore delle villette si schiera invece Vittorio Sgarbi. Il caso mantovano diventa un caso nazionale. Nel 2007 viene emesso dalla Soprintendenza un primo vincolo, che però viene bocciato dal Tar. Il vincolo viene riproposto nel 2009 e questa volta, siamo nel marzo del 2011, passa il vaglio dei giudici amministrativi. Inoltre il Consiglio di Stato stabilisce che la Via è obbligatoria, nonostante quanto sostiene una perizia tutta a favore dei costruttori: la firma l'allora Provveditore alle opere pubbliche della Toscana, Fabio De Santis, finito in galera nell'inchiesta contro Angelo Balducci, Diego Anemone e gli altri della "cricca".

Nel frattempo è cambiata la scena politica cittadina. Nel 2010 Fiorenza Brioni è stata sconfitta alle elezioni (in molti hanno parlato di "fuoco amico" alimentato proprio dalla polemica sulla lottizzazione) e sindaco è stato eletto Nicola Sodano, Pdl. Che ha assunto un atteggiamento molto più morbido verso i costruttori, preoccupato, ha dichiarato, per le richieste di risarcimento minacciate da Antonio Muto. Il quale conta su diversi amici nel partito del sindaco, fra i quali Carlo Acerbi, capogruppo in Consiglio comunale e amministratore della società Ecologia & Sviluppo s. r. l. di cui Muto è socio unico.

La vicenda è alle ultime battute. Il Consiglio di Stato deve decidere se sono prevalenti le ragioni di un privato che da un decennio guarda alle sponde del Mincio e alle mura di Mantova come un'irripetibile occasione di business. O se invece vale di più la difesa di un paesaggio che resterebbe intatto soltanto sullo sfondo di un quadro.

“Il sentiero”. Si chiama così una delle tele che Carlo Levi – sì, lo scrittore di Cristo si è fermato a Eboli era anche un pittore di razza – ha dipinto sulle alture di Alassio. In cinquanta centimetri per sessanta ci sono la luce, la vegetazione, la bellezza della Liguria degli anni Cinquanta. Oggi, chissà, Levi camminando sulla stessa collina potrebbe dipingere un quadro titolato “Il cantiere”. Per anni è stato un assalto incessante di ruspe e gru. Ovunque. L’ultimo: il progetto di Punta Murena, proprio di fronte al paradiso naturalistico dell’Isola Gallinara.

“Ma per combattere le battaglie, ci vuole anche qualche vittoria. C’è bisogno ogni tanto di una buona notizia”, sorride Antonio Ricci, alassino, un passato da professore, un presente da padre di “Striscia la notizia”.

Eccola, allora: Villa La Pergola con il suo straordinario parco riapre al pubblico. È una novità importante, ma è anche e soprattutto un segnale per chi in Liguria si batte contro la cementificazione e da anni deve registrare tante sconfitte. Invece oggi (dalle 15.30 alle 18) e domani (dalle 10 alle 18) i cancelli della famosa villa saranno aperti con la collaborazione del Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano). “Quaranta studenti di licei classici e scientifici, di istituti agrari e alberghieri faranno da guida nel parco”, racconta Ricci. È proprio lui che ha messo insieme la cordata improvvisata che ha acquistato la Pergola e il Pergolino: “Mi sono gasato e ho deciso di provare. Senza pensarci e senza ascoltare gli avvertimenti di mia moglie”, aveva raccontato Ricci nel 2006. Certo, un’impresa un po’ “folle”: comprare due ville costruite dagli inglesi alla fine dell’Ottocento con lo splendido parco (forse il vero tesoro), metterle a posto, mantenerle. Ma la posta in gioco è grossa: sul Pergolino avevano messo gli occhi immobiliaristi, per occupare definitivamente la collina di Alassio.

Ma non sarà così facile, adesso: “Abbiamo salvato la villa e chiuso la strada che avrebbe portato alla conquista della collina”, spiega Ricci. Che ha mantenuto la promessa fatta anni fa: “La Pergola sarà aperta ai ragazzi”.

Una storia che è diventata anche un libro : Un sogno inglese in Riviera, le stagioni di villa della Pergola (a cura di Alessandro Bartoli, Mondadori Electa). Dalle memorie vittoriane di aristocratici e scrittori inglesi nella Riviera Ligure al recupero della villa. Dal generale McMurdo, dal cugino di Virginia Woolf, Walter Dalrymple, dalla famiglia Hanbury fino al padre del Gabibbo. Che ha vinto un’altra battaglia, quella contro i grattacieli di Albenga. La cittadina che sognava di diventare una specie di Manhattan della Riviera.

Ma le vittorie si contano sulle dita di una mano, in una cittadina, in una regione che somiglia sempre più a quella descritta da Italo Calvino nella Speculazione edilizia. Le colate di cemento, gli appetiti che suscitano tra imprenditori, politici e cittadini sono gli stessi degli anni Cinquanta. La Liguria, però, non è in grado di reggere un’altra rapallizzazione, con progetti che ogni giorno sorgono con il placet di centro-destra e centrosinistra.

Alassio da anni è uno dei campi di battaglia. La collina di Carlo Levi, della Pergola, punteggiata da gru. Il sindaco è stato a lungo l’architetto Marco Melgrati (Pdl). Guidava il Comune e firmava progetti guadagnandosi una sfilza di avvisi di garanzia per illeciti urbanistici per poi presentarsi in tribunale con la bandana stile Cavaliere. “Oggi il nuovo sindaco (che poi è Roberto Avogadro, in passato già sindaco con il Carroccio) guida una lista civica composta da ex leghisti, ma anche da assessori del centrosinistra.

Finora hanno dimostrato di voler frenare l’invasione del cemento”, racconta Giovanna Fazio, presidente di Italia Nostra Alassio. Aggiunge: “Il Comune è intervenuto per frenare i progetti di altre villette in collina (alla Madonna delle Grazie) e del megaparcheggio sotterraneo sotto lo storico tennis. Ma resta il progetto di Punta Murena, un promontorio affacciato sull’isola della Gallinara. Un luogo meraviglioso, uno dei più belli e delicati della Liguria”, racconta Fazio. Italia Nostra e il Wwf si sono battuti contro il progetto. Ma sarà dura: il consiglio comunale due anni fa ha approvato la costruzione di appartamenti all’interno della villa e della dependance di Punta Murena. Poi bungalow. I progettisti? “Tra gli altri, l’ex sindaco Melgrati”.

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