La Repubblica
Roma. Le isole Tremiti. Ma anche il golfo di Taranto. E pure Pantelleria. E Ombrina mare in Abruzzo. Per poche migliaia di euro, per la precisione 5,16 euro per chilometro quadrato, il Mise, alias il ministero per lo Sviluppo economico retto dall’ex vice presidente di Confindustria Federica Guidi, ha concesso altrettanti permessi di ricerca petrolifera. Ha autorizzato trivellazioni insomma.
Attenti alle date. Lo ha fatto giusto il 22 dicembre, con tanto di suoi decreti pubblicati in bella evidenza nel Bollettino ufficiale degli idrocarburi. Nessun equivoco, dunque, le carte sono lì. Ne denuncia l’esistenza il verde Angelo Bonelli. S’arrabbia il governatore pugliese Emiliano. Ironizza il sindaco di Tremiti Antonio Fentini: «Di fronte a questa somma, 2mila euro, che dire? Se serve a risanare il bilancio dello Stato, ben venga...».
Ma c’è una coincidenza, le date appunto, su cui conviene riflettere. Decreti del 22 dicembre. Firmati in tutta fretta prima di Natale. Peccato che giusto il giorno dopo, il 23 dicembre, la Camera approva definitivamente la legge di Stabilità, nella quale si cerca di mettere una pezza agli imminenti sei referendum contro le trivelle, proposti da ben dieci Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto), cui la Cassazione ha già dato il via libera il 26 novembre. Ma se la legge cambia i giudici debbono rioccuparsi del caso. Che fa il governo? Inserisce nella legge di Stabilità l’articolo 239 che modifica il decreto legislativo del 2006, il famoso 152 sui reati ambientali. La nuova norma stabilisce “il divieto nelle zone di mare poste entro 12 miglia dalla costa lungo l’intero perimetro nazionale”. Ma proroga fino “alla durata della vita utile del giacimento i titoli abilitativi già rilasciati”. Insomma, finché il giacimento dà petrolio la ditta concessionaria può trivellare, ma stop a nuove autorizzazioni. Che comportano l’utilizzo di tecniche tali da danneggiare la fauna marina. Gli esperti assicurano per esempio che i capodogli sparirebbero per sempre.
Tant’è. Questo articolo 239 un risultato lo ottiene. La Cassazione deve tornare sui suoi passi. L’Ufficio centrale per il referendum il 7 gennaio riesamina i sei referendum alla luce di una regola inderogabile stabilita dalla Consulta, il referendum ha diritto di sopravvivere se la nuova legge lascia un margine. Il presidente Giuseppe Maria Berruti, indicato dal governo come futuro commissario alla Consob, boccia cinque referendum, ma lascia in vita il sesto. Ora sarà la Consulta, da dopodomani, a dire la parola definitiva. Ovviamente, il governo può sempre cambiare la legge finché il referendum non si svolge.
Ma lo stesso articolo della legge di stabilità, che ufficialmente entra in vigore il 30 dicembre, non scalfisce le autorizzazioni rilasciate il 22 dicembre dal ministro Guidi. Per quelle licenze ormai non vale alcun divieto, perché precedono la modifica del governo. Quindi ricadranno nella clausola del possibile sfruttamento del giacimento fin quando esso sarà attivo.
I governatori, Emiliano in testa, sono pronti alla battaglia. Il verde Bonelli è scandalizzato per la mossa del Mise che autorizza le ricerche del petrolio “a Tremiti, uno dei gioielli d’Italia, concesse alla società Petroceltic srl, su una superficie di 373,70 km, per un importo pari a 1.928,292 euro all’anno”. Lo stesso Bonelli denuncia gli altri permessi, a Pantelleria e a Taranto, a favore della Schlumberger Italia. A questo punto, per il destino del referendum sopravvissuto, non c’è che attendere la Consulta.
Il Fatto Quotidiano
“SÌ ALLE ESPLOSIONI PER CERCARE PETROLIO”
“TRADITI I PATTI: ORA PRONTI A SCATENARE L'INFERNO”
intervista a Vittorio Emiliani di Giuliano Foschini
il manifesto, 10 gennaio 2016
TORNA LO SPAURACCHIO TRIVELLE
di Serena Giannico
Chieti. «Perché questa matassa, in questo Paese?», è la domanda della ricercatrice e docente universitaria Maria Rita D’Orsogna, abruzzese «doc» anche se lavora in California, che segue vicende e scempi legati al petrolio. Il quesito riguarda la piattaforma off shore «Ombrina mare» che la Rockhopper Exploration vuole realizzare in provincia di Chieti a ridosso delle spiagge della decantata Costa dei Trabocchi.
MIGLIAIA A LICATA CONTRO I POZZI OFF-SHORE
di Andrea Incorvaia
La Repubblica, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)
«Non è un'analisi tecnica, ma è piuttosto un tentativo di sintesi ampio e didascalico che cerca di analizzare politicamente una deriva, senza sconti per nessuno. Un contributo per informare, per aprire a pubblici nuovi, per discutere e quindi per poter andare avanti».
Aree protette, una forma di tutela specifica
I parchi naturali - o aree protette, termine che però ha significato tecnico più ampio - sono strumenti di tutela della natura, del paesaggio e del territorio tra i più visibili e popolari.
Non è difficile comprendere i motivi di questa popolarità. Si tratta di porzioni di territorio precisamente delimitate all’interno delle quali valgono regole particolari, che hanno per lo più come fine la salvaguardia di “oggetti” cari all’immaginario collettivo (quell’animale, quel bosco, quella specie botanica, quella montagna o quel tratto di costa, quel panorama). Inoltre tra i loro scopi fondamentali ci sono l’educazione naturalistica e il turismo sostenibile cosicché gli enti che li gestiscono svolgono da sempre un’intensa attività promozionale che accresce la visibilità e la popolarità delle loro ricchezze, ambientali e antropiche. In alcuni paesi - Stati Uniti in testa - i parchi rappresentano storicamente delle componenti essenziali dell’identità nazionale.
All’interno della cultura urbanistica più avvertita si è più volte messa in discussione la logica che sta alla base della creazione dei parchi. Si è denunciato la limitata efficacia di una tutela territoriale che si applica a frazioni - spesso molto piccole - di territorio a volte con il risultato di distogliere l’attenzione dalla necessità di tutelare adeguatamente il territorio nel suo complesso. In qualche caso si è arrivati a imputare alle aree protette una sorta di funzione consapevolmente compensativa e consolatoria: proteggere qualche emergenza per avere mano libera di mettere a sacco senza troppe critiche o remore il resto del territorio.
Il caso italiano nei decenni più recenti, dallo slancio alla crisi
Se queste critiche possono avere qualche fondamento per qualche caso specifico o in specifici contesti e se possono più in generale puntare utilmente il dito su culture della tutela “orbe”, incapaci cioè di farsi carico della complessità e della totalità del territorio, il caso italiano parla però di un’altra storia.
Il momento più alto dei parchi italiani, quello che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta, è stato infatti animato da un movimento ampio e articolato che ha ragionato in modo sistemico dei parchi e li ha spesso progettati in ottiche globali, connesse alla tutela complessiva dell’ambiente, alla ricerca di modelli alternativi di sviluppo, in relazione ad altre forme di tutela e con un ambizioso sguardo al futuro. Non isole “belle”, capaci di acquietare i bisogni eterei di élite romantiche, ma strumenti di governo e di sviluppo dei territori incardinati in visioni più ampie e gestiti democraticamente. La legge quadro sulle aree protette, la n. 394 del 1991, costituisce il frutto più maturo di questa visione e dell’operato di quel movimento e non casualmente è stata approvata nella medesima legislatura in cui fu approvata un’altra grande legge di governo del territorio, la n. 183 del 1989, sulla difesa del suolo.
Se il periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta può essere effettivamente considerato il punto di massimo slancio ed incisività del movimento, quello delle sue massime realizzazioni, al tempo stesso costituì il momento dell’inizio del suo declino. Erano gli ultimi barlumi della grande spinta democratica e progressista avviatasi alla metà degli anni Sessanta, presto sepolti dall’avvento del berlusconismo e ancor più dai suoi cascami neoliberisti che si prolungano fino ad oggi acquistando peraltro un’aggressività sempre maggiore. Non è un caso che le due grandi leggi appena citate, quella sulle aree protette e quella sulla difesa del suolo, sono rimaste largamente inapplicate oppure inapplicate in diversi loro aspetti cruciali.
I parchi naturali italiani, conquista di civiltà, frutto del lavoro benemerito di élite illuminate dagli anni Dieci agli anni Sessanta e in seguito frutto della crescita culturale e politica di larghissime fasce di popolazione, vivono di conseguenza da un ventennio in una spirale di crisi crescente e per molti aspetti drammatica. E diversi segnali recenti parlano di un aggravamento ulteriore di questo quadro di crisi, senza alcun segno che vada in controtendenza.
Ho cercato di isolare quelli che a mio avviso sono gli elementi strutturali di questa deriva. E li elenco.
L’asfissia finanziaria
Da diversi anni, anzitutto, si sta procedendo in Italia a un lento strangolamento dei parchi attraverso la progressiva decurtazione delle disponibilità finanziarie e all’imposizione di pastoie burocratiche che rendono molto difficile spendere in modo efficiente. Questa modalità non è però specifica delle aree protette: coerentemente con le premesse della politica economica neoliberista dominante nei paesi occidentali da quasi un quarantennio essa investe la stragrande maggioranza delle istituzioni pubbliche rivolte ai servizi alla collettività. Ne sono affetti del pari il sistema formativo (scuole, università), il sistema sanitario, gli enti locali, i vari sistemi di controllo e di tutela, quelle che erano le partecipazioni statali.
Alla base del progressivo ischeletrirsi della capacità di spesa dello Stato è innegabile che ci siano l’ormai insostenibile servizio del debito pubblico e la restrizione della base imponibile dovuta alla crisi economica in atto dal 2007-2008. E tuttavia l’abolizione di alcune fondamentali forme di prelievo fiscale da un lato (caso esemplare: ICI/IMU) e dall’altro la scelta plateale di non intaccare per alcun motivo le spese riguardanti il monopolio statale della forza interna ed esterna (caso esemplare: F35) e i provvedimenti che favoriscono le lobby imprenditoriali e finanziarie legate a doppio filo con gli apparati di partito (caso esemplare: ponte sullo Stretto) mostrano come sia all’opera oggi in Italia un meccanismo neoliberista lucido, determinato e sempre più implacabile di smantellamento di tutto l’intervento pubblico, anche quello basilare, nel campo dei diritti di cittadinanza: salute, istruzione, ambiente, cultura, previdenza, infrastrutture civili. La nuova “crisi fiscale dello Stato” viene anzi impugnata come pretesto per smantellamenti sempre più radicali.
I parchi stanno pienamente dentro questa bufera, per di più come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. Se infatti l’istruzione, la sanità, la previdenza e in parte anche la cultura si possono privatizzare “valorizzandone” i pezzi vendibili e chiudendo o lasciando tutto il resto all’abbandono, per la “natura di valore” non c’è sostanzialmente mercato. E anzi, se mercato c’è è pressoché soltanto per consumarla indiscriminatamente: cioè proprio per fare ciò che i parchi devono scongiurare.
Il lucido smantellamento degli strumenti di tutela
Che questa sia l’intenzione di coloro che si sono alternati al governo negli ultimi anni, con una decisa e non casuale impennata decisionista più recente, è dimostrato dal combinato di disposizioni con al centro il cosiddetto “decreto Madia” che aboliscono la più che secolare autonomia di due fondamentale corpi di tutela, culturale e ambientale, come le Soprintendenze e la Forestale per metterli rispettivamente sotto il controllo delle Prefetture e dei Carabinieri. Tale abolizione fa al tempo stesso venire meno la specificità della loro missione e l’efficacia del loro operato, lasciando così più assai più libere le mani a chi voglia disporre senza pastoie dei beni culturali e ambientali italiani. Ed è ben difficile credere alle ragioni di economicità e di razionalizzazione addotte dal legislatore quando appare ben evidente da un lato che questi provvedimenti non producono risparmio di sorta e da un altro lato che avevano carattere squisitamente programmatico le parole dell’allora sindaco di Firenze e oggi Presidente del Consiglio quando affermava nel 2010 che «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia sin dalla terza sillaba [...] un potere monocratico che non risponde a nessuno».
Dei contorni e dei possibili esiti di questo programma neoliberista di “stato minimo” nel campo della tutela artistica ha di recente stilato un’analisi illuminante Vittorio Emiliani introducendo un incontro dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, una lettura che fa impressione e alla quale non posso che rimandare.
La latitanza delle strutture di governo
La crisi progressiva delle aree protette italiane dipende in modo cospicuo dalla latitanza, che in qualche caso è cronica e in qualche altro è sopravvenuta di recente, degli organi di governo istituzionale da cui esse dipendono: il governo centrale - e in particolare il Ministero dell’Ambiente - e le Regioni. Se la legge quadro prevedeva un ruolo attivo e dinamico del Ministero attraverso una serie di strumenti gestione assai avanzati, quel che è successo è da un lato che tali strumenti sono stati presto messi da parte in modo tale che la funzione di coordinamento e indirizzo centrale è totalmente saltata già a livello normativo e da un altro lato si sono succeduti ministri e direttori generali che hanno totalmente abbandonato a se stesse le aree protette, salvo vessarle di tanto in tanto con circolari burocratiche, paralizzanti e di nessuna utilità e procedere con le nomine nei modi e coi criteri che presto vedremo.
Ma la cronica assenza ministeriale e la lenta ritirata delle Regioni si manifesta plasticamente in questa chiusa di 2015 con un evento a suo modo storico: lo smembramento di fatto del Parco Nazionale dello Stelvio, che infatti rimarrebbe unitario e nazionale soltanto sulla carta. E’ la prima volta in Europa che un parco nazionale così antico (1935), così vasto (130.000 ettari, per decenni di gran lunga la più ampia riserva italiana) e così importante dal punto di vista naturalistico viene di fatto abolito. E’ vero che la sua eliminazione è stato obiettivo storico dei politici sudtirolesi sin dal 1945, perseguito con una tenacia prossima all’ossessione in quanto imposizione “italiana” su un territorio “tedesco”. E’ vero - come sottolinea Franco Pedrotti e come avvertirono lucidamente già all’epoca le associazioni ambientaliste - che tale esito era potenzialmente segnato già nelle norme di attuazione dello Statuto Speciale della Regione Trentino-Alto Adige nel 1974. Ma è altrettanto vero che in oltre quarant’anni quest’esito è stato evitato, in taluni casi anche in modo drammatico come quando nel 2011 il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto che attuava tale disegno. Oggi invece, in armonia con lo spirito dei tempi, la morte annunciata può finalmente verificarsi: “il governo Renzi - comunica Salvatore Ferrari di Italia Nostra - ha dato il via alla nuova governance del Parco Nazionale dello Stelvio, che tradotto significa soppressione del Consorzio del Parco istituito con DPCM nel 1993 e smembramento del Parco in 2 parchi provinciali ‘speciali’ e un parco regionale ‘ordinario’, quello lombardo”.
Abbiamo così i politici sudtirolesi che fanno finta di piangere lacrime di coccodrillo ma assaporano una così a lungo sospirata vittoria, le istituzioni della tutela silenti, il mondo ambientalista italiano pervaso da stupore e da un dolore sordo e impotente e l’Europa che guarda con ulteriore preoccupazione a un Paese come il nostro capace di conquistare il record di primo paese europeo ad abolire la gestione unitaria - l’unica che può dargli senso e reale efficacia - di un grande parco nazionale di importanza mondiale mentre gli altri paesi, a partire dalla confinante Svizzera, continuano a potenziare le loro reti di parchi istituendo riserve di ogni livello.
Presidenze e direzioni: appendici partitiche e funzionari sotto ricatto
Il silenzio delle istituzioni di tutela, e dei parchi stessi in particolare, non è però casuale.
Della grande anomalia storica degli anni 1965-95 che ha portato alla legge quadro e alla decuplicazione della superficie territoriale protetta da parchi faceva parte un notevole grado di autonomia dei direttori e dei presidenti dei parchi. Non che non ci fossero nomine squisitamente politiche o persino direttamente partitiche, ma molte figure di direttori e di presidenti erano valide espressioni del mondo scientifico o ambientalisti convinti e per lo più operavano con notevole indipendenza operativa e progettuale. Alcune di queste figure hanno fatto la storia dei parchi italiani mantenendo un rapporto fortemente dialettico con il mondo politico: l’ossatura dell’attuale legge quadro, tanto per dare un’idea di questo rapporto, non è nata in uffici ministeriali né nelle commissioni parlamentari ma soprattutto da successive riscritture avvenute nella sede del Parco nazionale d’Abruzzo, a Pescasseroli.
Si trattava di un’anomalia istituzionale? Può darsi. Ma in questo modo il contributo che le aree protette hanno dato in quegli anni allo sviluppo della protezione della natura in Italia è stato formidabile in termini di idee, di denuncia, di proposte, di stimolo culturale.
Bene, quell’anomalia è stata progressivamente “sanata”, sia nella prassi corrente sia operando sui meccanismi di nomina.
Dopo un periodo in cui Alleanza Nazionale ha tentato - peraltro con un momentaneo successo - di fare delle presidenze dei parchi nazionali una propria “specialità” all’interno di coalizioni di governo che aveva la testa in tutt’altre cose, il pallino è definitivamente tornato nelle mani dei partiti (o meglio: degli eredi dei partiti) che avevano “fatto” i parchi regionali e la legge quadro, cioè il Pci e la Dc ora nella nuova veste di partito unico. Ma ci è tornato non più nell’ottica che animava (almeno nominalmente) la legge quadro, quella cioè della partecipazione democratica alla gestione delle aree protette, ma in quello di un controllo diretto di presidenze e direzioni. Si è assistito così a nomine sempre più politiche, sempre più sganciate da competenze e da storie di coinvolgimento serio nella protezione della natura e da una marcatura sempre più stretta sui direttori, che oggi infatti possono essere magari ottimi amministratori ma appaiono quasi sempre soggetti politicamente inerti e silenti, contrariamente a quanto avveniva nella fase precedente. Su alcuni casi di nomine si sono addirittura incentrate battaglie nazionali, come nel delicatissimo caso della presidenza del Parco nazionale d’Abruzzo verificatosi lo scorso anno.
Ma se è difficile effettuare una ricostruzione e una interpretazione globale delle vicende che nel corso degli anni, anche più recenti, hanno riguardato le nomine nelle aree protette italiane, il disegno di azzerare l’autonomia dei direttori è chiarissima nella volontà dei legislatori tanto berlusconiani quando “democratici”. Circola infatti da due anni una proposta di riforma della legge quadro del 1991, presentata in chiusura di legislatura dal senatore berlusconiano Antonio D’Alì e poi significativamente ripresentata con i medesimi contenuti e in gran parte con l’identico testo in apertura della nuova dal senatore “democratico” Massimo Caleo. Tra i punti chiave di questa “riforma” (che evita con cura di affrontare alcuni nodi cruciali del funzionamento delle aree protette - pur lucidamente additati da molti - ma si concentra quasi esclusivamente su aspetti “corporativi” e di “valorizzazione”) sta la modifica della composizione dei consigli direttivi e il criterio di nomina del direttore dei parchi nazionali. I consigli direttivi vedono radicalmente decurtata la rappresentanza “generale” (mondo scientifico, ambientalismo, ministeri) che passa da oltre la metà a circa un terzo e al contrario vedono amplificata la rappresentanza “locale” (comuni) che passa dal 38,5% al 45% alla quale si aggiunge però un’inedita e incongrua rappresentanza di “categoria”: quella delle associazioni agricole.
Alla realizzazione di un antico sogno di controllo locale sui parchi nazionali si aggiungerebbe inoltre la nomina del direttore, non più scelto come oggi dal ministero tra una rosa di tre iscritti a uno speciale albo cui si accede per concorso ma sarebbe nominato direttamente dal presidente del Parco (a sua volta di nomina politica tout court) sulla base di sue preferenze personali che non passano al vaglio di nessun organo o criterio stringente.
Anche in questo caso si avvera un antico sogno: quello, appunto, di “sanare” l’anomalia italiana di tecnici troppo autonomi, troppo ligi alla missione istituzionale delle aree protette e troppo capaci di progettualità e di iniziativa. Come potranno essere amministrati in queste condizioni i parchi nazionali italiani del futuro non è difficile prevederlo.
Un mondo in ogni caso attraversato da lampi di responsabilità civica
Se si vuole essere onesti, bisogna tuttavia ammettere che - come avviene in molta della pubblica amministrazione italiana - il sistema delle aree protette italiane non si è finora afflosciato su se stesso e non è caduto totalmente preda della disperazione o dello sbando grazie al lavoro paziente e appassionato di una parte cospicua dei suoi dipendenti e dei suoi responsabili. Nonostante le difficilissime condizioni di lavoro, le restrizioni progressive e il disinteresse del mondo della politica l’ampio corpo delle aree protette italiane continua a produrre una quantità strategica e assolutamente preziosa di ricerca scientifica, di educazione ambientale, di sensibilizzazione, di governo del territorio e di tutela della natura. Lo fa - è bene ripeterlo ancora - in condizioni sempre più sfavorevoli e con prospettive sempre più cupe, ma lo fa e resta in tal modo un prezioso baluardo di civiltà, di coesione sociale e di infrastrutturazione culturale e civile.
Un associazionismo in qualche caso poco incisivo e in qualche caso complice. Comunque diviso
Un’altra nota dolente è costituita dalla situazione del mondo dell’associazionismo, che è stato probabilmente il maggior protagonista storico, dalla metà degli anni Sessanta in poi, della crescita e dell’affermazione delle aree protette italiane. Italia Nostra prima di tutte le altre, poi il World Wildlife Fund Italia, il Club Alpino Italiano, Legambiente e in tempi più recenti anche il Comitato per la Bellezza hanno dato un contributo decisivo, soprattutto negli anni Ottanta, alla nascita dei nuovi parchi e all’approvazione della legge quadro, sia a livello di iniziative nazionali sia a livello di iniziative regionali e locali. Il momento di massima incisività è stato sicuramente quello tra il 1985 e il 1991, quando il sostegno attivo di diverse forze politiche e la concorde spinta associativa, ben rappresentata nelle aule parlamentari da figure come Michele Cifarelli, Antonio Cederna e Gianluigi Ceruti, ha consentito la promulgazione di provvedimenti chiave come il decreto Galasso (1985), la legge sui suoli (1989) e quella sulle aree protette (1991).
Da quei tempi il peso reale dell’associazionismo è diminuito in vari sensi. Il senso dell’urgenza della questione ambientale, la sensibilità collettiva al riguardo si è appannata, riducendo così la base di consenso e la conseguente spinta dal basso. Ma a ciò bisogna aggiungere che l’universo dei partiti e della vita politica in generale ha cominciato ad avvertire non più come stimolante, ma come fastidioso e persino accessorio il contributo che veniva dall’associazionismo. La figura dell’attuale Presidente del Consiglio e la sua retorica da messaggeria telefonica rappresentano plasticamente la piena maturazione di questo tipo di atteggiamento: battute ad effetto come quelle riguardanti i “gufi”, i “professoroni” e i “comitatini” esprimono come meglio non si potrebbe un profondo disprezzo per i corpi intermedi della società civile e soprattutto per quelli che svolgono un ruolo di riflessione critica e di proposta alternativa. Oltre - naturalmente - una postura mentale non lontana dalla famosa frase di un non dimenticato despota “orientale” che chiedeva sprezzantemente quante divisioni avesse il Papa.
L’associazionismo si ritrova così indebolito, con frequenti problemi di bilancio, con stimoli dalla base e dai territori più flebili che in passato e non sempre riesce a tenere efficacemente il punto. Nel caso delle aree protette, come si osserva da molti anni a volte con troppa enfasi ma non sempre a torto, il meccanismo delle rappresentanze ambientaliste negli enti parco può provocare spesso atteggiamenti locali di auto-moderazione e di avallo a linee e provvedimenti che altrimenti verrebbero valutati criticamente. Anche chi si batte con maggiore energia trova sempre meno ascolto e anzi - peggio - sempre più porte sbarrate, cosa che in altri tempi non avveniva. La voga “decisionista” porta sempre più a fare a meno anzi di qualsiasi confronto pubblico, di qualsiasi dialogo. Per altri, invece, la tentazione di una sorta di “ambientalismo di governo” è diventato un vero e proprio habitus che consente di tenere posizioni associative e personali a scapito della limpidezza delle iniziative e delle battaglie. Faccio due esempi, e assai dolorosi, tanto per non lasciare le cose nel vago.
Ermete Realacci, ormai all’invidiabile traguardo del quarto mandato, conserva la possibilità di rappresentare l’associazionismo ambientalista italiano in Parlamento - possibilità via via negata ad altri - grazie a una elasticità tale che lo ha portato a votare senza fare una piega i provvedimenti riguardanti Soprintendenze e Forestale che ho citato più sopra. Il premio per l’attivo sostegno di Federparchi, l’organizzazione delle aree protette italiane discendente dal glorioso coordinamento fondato nel 1989, alle politiche bipartisan di depotenziamento dei parchi è invece ben rappresentato da un articolo della proposta di riforma della legge quadro che fa di essa una sorta di agenzia parastatale con delega al controllo e all’orientamento delle aree protette.
Questa deriva, e non poteva essere altrimenti, ha finito col produrre persino spaccature clamorose come quando i “governativi” sono arrivati a tacciare una presa di posizione congiunta di FAI, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Lega per la protezione degli uccelli e Wwf come «ambientalismo da giovani marmotte».
Pezze peggiori dei buchi: dal nesso tutela/ecosviluppo al nesso branding/composizione di interessi locali
Chi ha più potere e interlocuzione politica in mano pensa oggi di uscire da questa grave crisi delle aree protette non più mediante ambiziose proposte di rilancio oppure mediante ragionevoli proposte che correggano le storture e i malfunzionamenti più palesi e al contempo con un appello alla mobilitazione della società civile più sensibile, come è sempre stato negli ultimi decenni. L’idea dominante appare piuttosto quella di spingere a fondo in direzione di un adeguamento delle aree protette all’esistente, cioè al predominio della cultura neoliberista e degli interessi locali e privati.
Mentre nel momento alto degli anni Settanta-Ottanta si puntava su un rapporto audace da costruire tra tutela ambientale e forme di economia sperimentali, più rispettose degli uomini e della natura e più eque, possibili paradigmi per il futuro da esportare al resto della società, nelle proposte di “riforma” della legge quadro presentate dalla maggioranza con il sostegno di Federparchi e Legambiente - quest’ultima con qualche più recente ripensamento - tutto viene ridotto all’ingresso dei portatori di interessi privati (imprenditoria) nei consigli direttivi e alla monetizzazione di attività potenzialmente devastanti.
Un altro punto fondamentale, sul quale si consumarono scontri epici tra forze promotrici dei parchi e della legge quadro, è quello della partecipazione democratica, una volta inteso come elemento di dialogo, di progettazione e di crescita comune di tecnici, studiosi, esperti, ambientalisti, amministratori locali e popolazioni e oggi ridotto a un occhiuto controllo consociativo da parte dei partiti politici e degli amministratori locali sull’attività dei parchi grazie ai nuovi meccanismi di nomina dei consigli e dei direttori.
In questo clima le dirigenze più “avanzate” del mondo dei parchi italiani appaiono quelle oggi freneticamente impegnate nel vendere il brand della propria riserva saltando da una fiera enogastronomica a una borsa turistica, in Italia o all’estero, quando non - come avviene ormai strategicamente nel parco regionale toscano di San Rossore-Massaciuccoli - nell’offrire la parte più pregiata della riserva come location per qualsiasi grande evento si preannunci a portata di mano, dai raduni di massa ai vertici internazionali. Una impostazione che vuole apparire (e a qualcuno effettivamente finisce con l’apparire) una brillante e audace navigazione tra le tendenze più avanzate della società postindustriale e che invece costituisce un triste e rischioso cabotaggio nelle miserie di un modello economico e culturale in crisi profonda. Un cabotaggio, peraltro, del tutto subalterno: che finisce col togliere alle aree protette non solo gran parte della specificità della loro missione, ma anche la possibilità - che in altri tempi c’è stata, e forte - di additare nuovi approcci e nuove strade alla società tutta intera.
Sperare, ma in cosa?
Abolizione del Parco Nazionale dello Stelvio, fine dell’indipendenza della Forestale, mercificazione delle aree protette e loro riduzione a location, proposte di riforma della legge quadro inadeguate e al tempo stesso gravide di rischi: diversamente da come è avvenuto in altre fasi storiche, quando esisteva un ampio consenso e una vasta mobilitazione popolare, questa sembra un’onda di risacca inarrestabile rispetto alla quale sembrano avere voce in capitolo solo coloro che l’assecondano.
Eppure bisogna rimanere convinti che c’è uno spazio per resistere, per continuare a denunciare, a discutere, a dialogare, a sensibilizzare, a fare proposte alternative, a progettare futuri diversi. In molti, in questi anni e anche nei mesi scorsi, hanno fatto sentire cocciutamente la propria voce, con iniziative e appelli. E continuano a farlo, proponendo di continuare a battersi e a discutere in sedi pubbliche.
La storia non finisce qui: a partire dalla nostra capacità di scriverne, di analizzare, di confrontarsi o , per dirla con Edward Said, di «dire la verità».
Il manifesto, 10 dicembre 2015 (m.p.r.)
L’attacco è al «podestà» Renzi. E ai suoi vassalli, valvassori e valvassini. Eh sì, secondo il coordinamento «No Ombrina», che combatte contro la petrolizzazione selvaggia, il governo attuale, con le sue decisioni unilaterali, è a metà tra il «becero autoritarismo» e i passacarte. «E mentre a Parigi, nella Conferenza internazionale sul clima, il nostro premier proclama di voler salvare il pianeta e l’economia, e spinge per un mondo di rinnovabili, in Italia fa carne da macello. All’estero dà un’immagine verde e poi s’affretta a distruggere il suo, il nostro paese»: Alessandro Lanci, coordinatore del movimento, non si risparmia.
Per fermare questo intervento ed altri simili saranno depositati uno o due emendamenti alla legge di stabilità ora in discussione alla camera. Saranno proposti dalle opposizioni, al netto di una probabile fiducia che il governo potrebbe porre sulla manovra. Nello specifico Sel, M5s e Fi ne dovrebbero proporre uno che chiede il ripristino del divieto di perforazioni entro le 12 miglia dalla costa e un altro che scende nel dettaglio e pone il divieto anche dove insistono parchi in costituzione, come in questo caso. Presenti, accanto ai «No Ombrina» Gianni Melilla, di Sel, Gianluca Vacca, dei Cinque Stelle, e la senatrice, di Forza Italia, Paola Pelino.
Tutto ciò mentre il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, dichiara che «la difesa del mare blu è potentemente all’ordine del giorno e il dialogo tra governo e Regioni è molto, molto avanzato. Sono fiducioso». Ma la sua «fiducia» in Renzi non convince gli operatori turistici che ieri sono scesi in campo, a Pescara, a chiedere un «Abruzzo senza idrocarburi. Il contrario? Sarebbe opzione autolesionista, futuro senza prospettive».
Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2015
Il Governo Renzi sta prendendo tutte le contromisure per sbrigliare la matassa dello “sblocca trivelle” e arginare gli escamotage delle Regioni per stoppare le ricerche di gas e petrolio in mare. Dopo il via libera della Cassazione ai sei quesiti referendari presentati da dieci consigli regionali contro il famigerato provvedimento, l’esecutivo è in pieno allarme. E i tentennamenti non mancano. Da una parte mantiene la linea dura e impugna la nuova legge dell’Abruzzo che estende il divieto di ricerca di gas e petrolio. Dall’altra ha allo studio alcune misure che rivedono lo “sblocca trivelle” allo scopo di evitare il referendum, visto come fumo negli occhi: una sconfitta alle urne - temono a Palazzo Chigi - potrebbe mettere in discussione l’intera politica energetica renziana.
Quanto all’Abruzzo, il Consiglio dei Ministri ha deliberato l’impugnativa della legge della Regione denominata Provvedimenti urgenti per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema della costa abruzzese (n.29 del 14 ottobre 2015). Una legge che vieta - recita l’articolo 1 al comma 1 - «le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nelle zone di mare poste entro le dodici miglia marine dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero della Regione Abruzzo». Ma che secondo il Governo «invade materie di esclusiva competenza statale» in materia di energia. Tra i progetti interessati c’è Ombrina Mare di Rockhopper, sulle coste abruzzesi, nel mirino da anni dell’opposizione locale.
La decisione del Cdm non prende tuttavia di sorpresa la Regione, che anzi annuncia guerra al Tar e conferma che i lavori per Ombrina verranno comunque sospesi in attesa del giudizio della Consulta. Il ragionamento è semplice e lo spiega il sottosegretario alla Giunta regionale, Mario Mazzocca. Sulla base della delibera del Cdm, l’Avvocatura dello Stato procederà all’elaborazione del ricorso, che verrà depositato in Corte costituzionale. Ci vorranno alcuni mesi per il giudizio finale. Nel frattempo, la Regione Abruzzo chiederà al Tar Lazio di voler sospendere in via cautelare, nelle more del giudizio della Corte, i provvedimenti amministrativi riguardanti Ombrina mare.
«E’ la riprova del fatto che la nostra iniziativa legislativa ha colto nel segno - commenta Mazzocca - Eravamo ben consci tanto dell’elevata possibilità di incostituzionalità del progetto di legge, quanto della pressante esigenza di porre un freno alla deriva petrolifera perseguita dal governo nazionale nell’ottica di concreto sostegno alla proposta referendaria nel frattempo lanciata da 10 Regioni». A mettere in discussione le certezze di Mazzocca è tuttavia il M5S Abruzzo, che da mesi lotta contro il progetto Ombrina e in generale le trivellazioni in Adriatico. «Lo avevamo detto fino a perdere il fiato, questa legge è stata l’ennesimo palliativo mediatico e ora il Consiglio dei Ministri presenta il conto», commenta Sara Marcozzi, consigliere regionale del partito pentastellato. «L’unica strada è quella della legge di iniziativa regionale alle camere presentata dal M5S e approvata dal consiglio regionale - continua Marcozzi, prima firmataria della legge - che va a modificare ed abrogare parzialmente l’articolo 35 del Decreto Sviluppo” (ripristinando quindi il limite di 12 miglia marine dalla costa per le attività delle piattaforme petrolifere).
Ma a non far dormire sonni tranquilli al Governo Renzi è in realtà soprattutto il referendum contro lo “sblocca trivelle”. A fine novembre la Corte di Cassazione ha dato il suo ok ai sei quesiti referendari presentati da dieci regioni, su spinta dei “No Triv”, contro il provvedimento. Secondo la Cassazione sono “conformi alla legge”. Entro il prossimo gennaio la Consulta dovrà dare un giudizio di legittimità e nel frattempo Palazzo Chigi non vuole stare con le mani in mano perché teme di vedersi messe in discussione tutte le politiche in materia di energia. Così i ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente si sono messi al lavoro per smussare lo “sblocca trivelle” in senso “No Triv” ed evitare le urne.
La rivolta dei No-Triv. Venderemo cara la pelle, e L’Aquila scaccia il falco.
Coordinamento Nazionale No Triv
Comunicato stampa
I sei quesiti referendari contro le trivelle in mare e su terraferma hanno superato indenni l'esame di regolarità della Corte di Cassazione.
Con due ordinanze adottate il 26 novembre 2015 la Corte di Cassazione ha accolto i sei quesiti referendari così come deliberati dalle Assemblee Regionali di Basilicata, Abruzzo, Marche, Campania, Puglia, Sardegna, Veneto, Liguria, Calabria e Molise.
Le ordinanze verranno comunicate al Presidente della Repubblica, al Presidente della Corte Costituzionale ed ai Presidenti delle Camere, e verranno notificate ai delegati dei dieci Consigli Regionali proponenti.
L'ultimo scoglio da superare sarà l'esame di legittimità costituzionale della Suprema Corte che si pronuncerà entro febbraio 2016.
I sei "SI'" giungono a coronamento di una lunga fase di impegno per la formulazione dei quesiti e della pressione democratica dal basso esercitata da oltre 200 associazioni italiane. L’abnegazione ed il merito della proposta complessiva hanno consentito di intercettare prima l’unanime consenso della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee elettive regionali e, successivamente, lo storico risultato delle 10 delibere di richiesta referendaria, da parte di altrettanti Consigli regionali.
Compiuto questo nuovo passo, è giunto dunque il momento di consolidare il risultato ottenuto preparandosi alla costruzione di un sistema di alleanze -il più ampio e trasversale possibile- e di un percorso organizzativo che consenta di portare al voto la maggioranza degli aventi diritto, senza mediazioni con il Governo su un referendum che ha un obiettivo molto chiaro e non emendabile, se non a rischio di stravolgerne e affievolirne senso e scopo.
La via referendaria è l'unica che possa raggiungere nel breve termine l'obiettivo sia di fermare nuovi progetti petroliferi sia di contenere e ridimensionare il ruolo delle energie fossili nel mix energetico nazionale.
Ma anche qualora le richieste di modifica normativa in senso No Triv venissero avanzate in buona fede, bisognerebbe tener conto della maggiore efficacia del referendum rispetto a quella, più limitata, dell'abrogazione per via legislativa. I divieti introdotti dal Decreto Prestigiacomo non furono forse rimossi per numerosi progetti petroliferi in mare proprio dall'art. 35 comma 1 del Decreto Sviluppo?
Quindi, non si persegua la strada della modifica per via legislativa delle norme che, per mezzo del referendum abrogativo, è invece possibile cancellare stabilmente dall'ordinamento.
Il Referendum non è nella disponibilità del Governo.
L'Assemblea "Verso il Referendum" dell'8 novembre scorso, rappresentativa delle associazioni vere promotrici del Referendum, ha stabilito in modo unitario ed inequivocabile che nessuno è legittimato a "mediare" o a dialogare con un Governo che più di ogni altro ha dimostrato fredda determinazione nel portare a compimento il contenuto fossile della Strategia Energetica Nazionale e che si appresta ad assestare un colpo mortale al coinvolgimento delle comunità locali e delle Regioni nelle scelte strategiche che determinano il futuro dei territori e del Paese.
Il Referendum è di tutti e ciò significa che nessuno può disporne oltre la Corte Costituzionale e, ovviamente, i Cittadini.
Prossima tappa intermedia sarà l'incontro a Roma, il 9 dicembre prossimo, tra i delegati delle Assemblee delle dieci Regioni che hanno deliberato la richiesta di referendum ed i rappresentanti delle associazioni promotrici del Referendum: in quella sede verranno messi a fuoco i principali aspetti organizzativi e discusse le prime soluzioni che dovranno portarci al voto di primavera.
La strada è tracciata. Adesso tocca percorrerla tutti assieme per arrivare al risultato per anni inseguito: liberare il mare e la terraferma da nuove trivelle ed aprire la strada ad una nuova politica energetica, economica ed ambientale.
Coordinamento Nazionale No Triv
appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”». Il manifesto, 11 novembre 2015 (m.p.r.)
Brindisi. Non ci stanno cittadini e agricoltori del brindisino a vedersi privare in un sol colpo dell’identità, dell’unica fonte di guadagno familiare, l’unico polmone d’ossigeno e l’intero paesaggio che si scorga a perdita d’occhio da tutte le finestre di ogni paese.
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Così in un solo giorno, hanno occupato i binari della stazione di San Pietro Vernotico; bloccato le strade di Torchiarolo con trattori, famiglie, mamme, papà, bambine e bambini delle elementari; impedito alle guardie della Forestale di fare i campionamenti sugli ulivi, perché le guardie erano sprovviste del necessario documento di accompagnamento autorizzativo dei prelievi.
Sale la tensione nella provincia di Brindisi e aumenta anche l’organizzazione dei cittadini nelle azioni di sabotaggio del piano del commissario straordinario per l’emergenza xylella. Il piano, denominato “Silletti bis”, dal nome del commissario Giuseppe Silletti, prevede che nella provincia di Brindisi si sradichino e si distruggano gli ulivi, anche plurisecolari, risultati positivi alla presenza del batterio xylella fastidiosa, un batterio incluso dalla Ue nella lista “Eppo”, cioè la lista degli organismi da quarantena, la cui sola presenza sul territorio nazionale fa scattare le misure di contrasto previste dalla direttiva europea 29 del 2000, che non prevede né impone lo sradicamento di alberi, tantomeno se secolari, in campo aperto.
Come si sia potuti arrivare a tale livello di tensione sociale e di furia distruttrice è una storia lunga, raccontata nel libro-inchiesta “Xylella report” e risponde ad una precisa scelta politica compiuta all’epoca della giunta di Nichi Vendola, nell’ottobre 2013, quando si decise, a priori e senza alcuna evidenza scientifica che ancora oggi manca (all’epoca il batterio non era stato neanche isolato in laboratorio), di sradicare l’intera foresta di ulivi della provincia di Lecce, cioè 11 milioni di ulivi, per la maggior parte secolari.
La xylella era stata trovata su alcuni alberi vicino Gallipoli, zona di forte richiamo turistico e di grande appeal per le speculazioni edilizie, ma si certificò, comunicandolo alla Ue, che “l’intera provincia di Lecce è da ritenersi infetta”, facendo subito domanda per ottenere i finanziamenti (rimborsi a consuntivo) per le operazioni di sradicamento.
Ora l’Unione europea, rispondendo alle indicazioni della regione Puglia, ha imposto di sradicare e distruggere gli ulivi positivi a xylella e tutti gli alberi e le piante anche sane nel raggio di 100 metri attorno all’albero risultato positivo. S’impone cioè di desertificare a macchia di leopardo potenzialmente tutta la Puglia: attorno ad ogni albero positivo a xylella si desertifica un territorio vasto tre ettari e mezzo.
Un esempio: nel brindisino sono stati trovati solo 8 alberi positivi a xylella e per quegli otto alberi se ne sono già sradicati oltre 1000.
Intanto, mentre Michele Emiliano, presidente della Regione, convoca per il 16 novembre prossimo una quarantina di esperti riuniti in una “task force” con l’obiettivo di dimostrare che sradicare non serva, un gruppo di ricercatori e giuristi dell’Università del Salento presenteranno giovedì prossimo a Torchiarolo un documento dal titolo ““Emergenza Xilella Fastidiosa: perché l’obbligo di estirpazione di tutti gli ulivi non infetti (privi di sintomi indicativi di possibile infezione e non sospetti di essere infetti) nel raggio di 100 metri da quelli infetti è una misura contestabile sul piano giuridico e scientifico” che sintetizza, in versione semplificata per la diffusione al pubblico, i risultati di uno studio interdisciplinare coordinato dai professori Massimo Monteduro (associato di Diritto Amministrativo) e Luigi De Bellis (ordinario di Fisiologia Vegetale) e curato da un gruppo di professori, ricercatori e giovani studiosi dell’Università del Salento denominato L.A.I.R. (“Law and Agroecology Ius et Rus”), che si occupa dei rapporti tra diritto e agro/ecologia.
L’obiettivo è fornire ai Comuni e a tutti i cittadini basi scientifiche solide su cui appoggiare i ricorsi al Tar, non appena ricevute le ordinanze di abbattimento degli alberi.
Una ricerca “open source”, gratuita e subito a disposizione di tutti, nata dall’idea di un artista, musicoterapeuta, musicista degli Officina Zoè, con una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche nel cassetto: Giorgio Doveri, che ha proposto ai ricercatori di mettersi insieme, parlarsi, collaborare per il bene comune.
Serviva l’arte per far vedere la realtà con occhi puliti.
Dal ministero delle Infrastrutture giunge una notizia di un certo rilievo, anche se in qualche modo attesa: l’abrogazione della legge Obiettivo sulle grandi opere. Nell’emendamento governativo al Codice degli appalti che inizia l’iter alla Camera, dopo l’approvazione del Senato, si inserisce un comma che dispone «la soppressione della Legge 443/2001», per l’appunto la famigerata norma suddetta; uno dei capisaldi delle politiche berlusconiane.
L’atto era piuttosto scontato, specie dopo che Raffaele Cantone aveva definito la stessa legge Obiettivo «criminogena»; e dopo l’inchiesta della Procura di Firenze — avviatasi con l’indagine sullo strampalato sottoattraversamento ferroviario del suo centro storico — che ne sta dimostrando le distorsioni.
Intendiamoci: non è che Renzi e Delrio si siano convertiti improvvisamente alla pianificazione ambientale e alla mobilità sostenibile. Hanno semplicemente preso atto dei problemi e del clamoroso fallimento di una norma e di un programma, dimostrato dai numeri: in 15 anni di operatività sono stati realizzati poco più del 15% delle opere previste e meno di 1/3 degli investimenti programmati.
Sprechi e corruzione non sono agevolmente parametrabili, ma ne costituiscono sicuramente la cifra principale. Peraltro, una serie di pericolose «semplificazioni» sopravviveranno, già recuperate nello Sblocca Italia. Mentre il quadro di opere da realizzare si è ridotto, nell’allegato Infrastrutture del Def, a un terzo, con la cancellazione di opere tra le più inutili, dannose e bizzarre.
Le semplificazioni della legge Obiettivo con la figura del contraente generale, gruppo di imprese appaltanti che poteva scegliersi addirittura il direttore dei lavori (controllando così se stesso) facevano sì che attorno alle relazioni con il concessionario per conto dello Stato o dell’ente pubblico, si creasse una «macchina» sempre più grande e potente in grado di attrarre ingenti risorse, spenderne e sprecarne, spesso condizionando, anche con la corruttela, i decisori coinvolti.
Attorno a questi meccanismi si è creato quell’enorme arcipelago di società piccole e grandi — per la gran parte inutili passacarte dedite in realtà ad attività di lobbing — ruotante attorno a opere pubbliche e project financing che, secondo gli studiosi del settore come Ivan Cicconi, ammontano oggi a più di ventimila.
La normativa prevedeva la negazione completa delle istanze sociali interessate e anche delle rappresentanze istituzionali del territorio. Solo le regioni — e dopo apposito ricorso alla Corte Costituzionale — avevano potuto interferire nelle interazioni governo-impresa. La valutazione ambientale non era completamente cancellata, ma molto ridimensionata: la pianificazione urbanistica poteva essere ignorata. Come ormai noto, tale meccanismo non ha semplificato alcunché, spostando i conflitti dai consigli comunali ai tribunali, o direttamente sul terreno come in Val di Susa.
Con gli esiti complessivamente fallimentari ricordati all’inizio. Gli enormi problemi del programma erano stati puntualmente denunciati da moltissimo tempo da ambientalisti, comitati e tecnici; oltre che dagli attori costituitisi direttamente a contrasto : dapprima il Coordinamento contro le grandi opere (promosso nel 2006 da No Tav, No Mose, No Ponte e dalla rivista Carta, con la forte presenza del compianto Osvaldo Pieroni, decano di Sociologia Ambientale e già direttore del Des dell’Università della Calabria), confluito poi nel Patto di Mutuo Soccorso (tra i territori aggrediti dalle mega infrastrutture) e oggi nel Forum anti Goii (Grandi opere inutili e imposte), divenuto realtà anche euro mediterranea. Soggetti cui spesso questo giornale ha fornito supporto, tra l’altro con i tanti articoli di Guglielmo Ragozzino.
La storia della Legge Obiettivo dimostra come, smarrite razionalità programmatica e utilità sociale, le opere di trasformazione del territorio diventino — oltre che sprechi economici e ambientali inaccettabili — facilmente penetrabili da speculazione, corruzione, criminalità organizzata. E come spesso non basti individuare e sostituire i titolari responsabili, in quanto l’unico meccanismo di contrasto efficace si rivela l’interruzione dei flussi di danaro, cioè del contratto di appalto. Specie quando è la corruzione stessa che ha determinato la natura delle operazioni (Mose). Cantone invece ha accettato di usare l’arma — che può rivelarsi spuntata — del controllo, correzione e modifica, fino al commissariamento, della gestione. Ma spesso le distorsioni in essere possono proseguire con l’operazione.
Con il Codice bisogna tornare a procedure più votate all’ordinarietà, in cui contino di nuovo gli enti locali e riacquistino il giusto peso ambiente, urbanistica e paesaggio. Ma soprattutto la lezione del fallimento della legge Obiettivo significa che è assai problematico, quasi impossibile, intervenire su un territorio contro la volontà dei suoi abitanti. Si torni allora alla pianificazione partecipata, anche di mobilità e trasporti.
Il Manifesto, 1 ottobre 2015 (m.p.r.)
Non vogliamo il Paese delle trivelle. E così ieri i delegati di dieci Consigli regionali – Basilicata, come capofila; e poi Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise - hanno depositato in Cassazione sei quesiti referendari contro l’invasione delle piattaforme petrolifere. Con essi si chiede l’abrogazione dell’articolo 38 dello Sblocca Italia e di vari suoi commi e dell’articolo 35 del Decreto sviluppo. «Vogliamo che non ci siano pozzi entro le 12 miglia e che siano ripristinati i poteri delle Regioni e degli enti locali, mettendo inoltre i cittadini al riparo dalla limitazione del loro diritto di proprietà rispetto alle società estrattrici», spiega il presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Piero Lacorazza.
Il referendum, sulla cui ammissibilità dovrà ad anno nuovo pronunciarsi la Corte Costituzionale, porta la firma e l’intuizione del coordinamento nazionale No Triv e di altre 200 associazioni. «Con questa consultazione – afferma Enrico Gagliano, No Triv – si restituisce ai cittadini il diritto di decidere di se stessi e del futuro del proprio territorio. Si tratta di un fatto straordinario ed unico nella storia dell’Italia repubblicana, il cui significato va ben oltre la pur importante dimensione energetica». «Sul piano istituzionale, - aggiunge Enzo Di Salvatore, No Triv - il governo dovrà fare i conti con una mutata realtà e con mutati rapporti di forza nel Paese. Quanto alle scelte energetiche, l’esercizio dell’opzione referendaria consentirà di riaprire una partita che sembrava già persa all’indomani del varo della Strategia Energetica Nazionale: i quesiti sull’articolo 38 rimettono in discussione il sistema di governance che finora ci è stato imposto a suon di leggi e decreti (Sblocca Italia su tutti); quello «secco» sull’articolo 35 punta ad infliggere un duro colpo alle mire delle compagnie petrolifere, a salvaguardare i nostri mari e a prevenire qualsiasi tentativo di ritorno al passato (abolizione del limite delle 12 miglia o sua riduzione a 5) da parte di un governo apertamente schierato sul fronte delle energie fossili».
Un’iniziativa che viene definita «una delle poche note liete in una lunga e triste stagione color nero-petrolio». «E’ la prima volta che dei quesiti referendari sostenuti dai Consigli regionali vengono presentati da dieci Regioni, che rappresentano il doppio del quorum richiesto -, riprende Lacorazza -. In Basilicata, una delle realtà più martoriate, contiamo già la presenza di 70 impianti di trivellazione: non siamo affetti dal ’nimby’, ossia non vogliamo non ’sporcare il nostro giardino’ e spostare il problema in quello degli altri, ma crediamo che la politica energetica dell’Italia debba raccordarsi con l’Unione europea, che non può soltanto occuparsi di moneta e burocrazia». «Dieci Regioni – evidenzia Fabrizia Arduini, referente Energia Wwf Abruzzo - sono un messaggio granitico a Renzi. I quesiti referendari parlano chiaro e una rilevante parte del Paese ha capito che l’Italia non può ripercorrere gli stessi modelli di sviluppo che hanno prodotto una delle peggiori crisi economiche mai vissute. Un modello di sprechi e disuguaglianze, insostenibile per la nostra fragilissima e bella nazione, ma anche per il pianeta intero.
Il costo ambientale di queste attività è davanti gli occhi di tutti: i cambiamenti climatici sono un vero flagello. A Parigi, nella COP21 (Conferenza sul clima) di dicembre, gli Stati dovranno concludere un accordo globale per agire in fretta, in modo efficace ed equo per stoppare le alterazioni climatiche. Che dirà il premier? Che l’Italia punta sulle sue risibili produzioni di idrocarburi sino all’ultima goccia?
Nell’attesa che la Cassazione si pronunci sul referendum, - continua Arduini - continueranno le azioni di mobilitazione per fermare progetti petroliferi off shore recentemente sdoganati, a cominciare da “Ombrina Mare”, la piattaforma con raffineria galleggiante, che dovrebbe sorgere a poche miglia dalla costa della provincia di Chieti e di cui si discuterà il prossimo 14 ottobre al ministero dello Sviluppo economico in una conferenza dei servizi».
«E poi – fa eco Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente – bisogna bloccare “Vega B, piattaforma prevista nel Canale di Sicilia, al largo del litorale ragusano, che da poco ha ricevuto il nulla osta ambientale e su cui pendono già ricorsi al Tar». «Occorre abbandonare il petrolio – afferma Luzio Nelli, Legambiente Abruzzo – e ripartire dalle fonti rinnovabili e sostenibili, garantendo la qualità del territorio e il benessere delle popolazioni, non gli interessi delle multinazionali del greggio».
Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2015 (m.p.r.)
Basilicata, Marche,Puglia e Molise. Eieri anche la Sardegna:il consiglio regionaleha votato in favoredel referendum controle trivellazioni per la ricercae l’estrazione di idrocarburinel sottosuoloe in mare, previstenel decreto Sblocca Italia.Con la Sardegna èstato quindi raggiunto ilnumero necessario perpresentare la richiestadel referendum: «Il 30settembre sarà depositatain Cassazione –spiega al Fatto QuotidianoEnzo Di Salvatore,docente di Dirittocostituzionaledell’UniversitàdiTeramo ecofondatoredel movimentoNoTriv - Ci sarà il controlloformale della richiesta etra il 20 gennaio e il 10febbraio si dovrebbe decideresulla sua ammissibilità.Se ammissibile,cinque giorni dopo ci saràil decreto del presidentedella Repubblica,previa deliberazione delConsiglio dei ministriche indirà il referendum.Insomma, seguendotutto l’iter, il voto dovrebbeesserci tra il 15 aprilee il 15 giugno».
Lo Sblocca Italia, difatto, esautora le regionidalle decisioni in materiadi energia, rende la ricercae le trivellazioni operazionistrategiche enon tiene conto dell'opinionedelle Regioni. Propriocome per gli inceneritori.Oggi, però, dovrebberoesprimersi infavore del referendumanche altri consigli regionali:Abruzzo, Veneto,Liguria. Solo la Sicilia,ieri, ha votato contro,inaspettatamente, perotto voti. Secondo i movimentiNo Triv, il consigliosi era detto inizialmented’accordo. Poi èarrivato il no del Pd e dellostesso governatoreRosario Crocetta. «È importante che ilreferendum si facciaquanto prima – spiegaancora Di Salvatore –perché le trivelle sono ritenutestrutture strategichee allo Sblocca Italiafa riferimento granparte delle richieste di esplorazione.Che potrebberoessere approvateanche nel giro di unanno”
Il manifesto, 9 agosto 2015
Adriatico. La rabbia dell’Abruzzo dopo il via libera del governo alle trivellazioni petrolifere. Al via ricorso al Tar ma la lotta non si ferma: «Così si distrugge turismo e agricoltura»
È «Ombrina» la parola che, più d’ogni altra, attualmente fa imbestialire l’Abruzzo e il suo milione e 332mila abitanti. E nelle scorse ore il governo Renzi, col Pd, con i suoi fedelissimi, ha regalato ad una società delle Falkland l’ok alla distruzione di uno dei tratti più belli dell’Adriatico.
Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti e il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, l’altro ieri, hanno infatti firmato il decreto di compatibilità ambientale per la costruzione della piattaforma «Ombrina mare» della multinazionale Rockhopper al largo della Costa dei Trabocchi, in provincia di Chieti. È l’ultimo atto amministrativo — a parte il decreto di concessione del ministero dello Sviluppo economico che, però, a questo punto diventa mera formalità — prima dell’avvio dei lavori per la nascita dell’impianto petrolifero. Un progetto contestatissimo e combattuto da anni, da movimenti e comitati, e dai cittadini che il 23 maggio scorso a Lanciano (Ch) – erano in 60 mila — e il 13 aprile 2013 a Pescara – in 40 mila — sono scesi in massa in piazza per ribadire che questa regione non vuole diventare il regno delle trivelle. Un fiume di no ad Ombrina e alla politica energetica del premier che, tra un tweet e un selfie, sta trasformando il Belpaese in Texas. In barba alla volontà delle popolazioni. «Se ci penso… è folle… a pochi chilometri da riva, nel mezzo di un mare chiuso, vicino alle spiagge, di fronte al costituendo Parco nazionale della Costa Teatina. Ma che razza di ministero dell’Ambiente approva queste cose? - chiede la ricercatrice Maria Rita D’Orsogna - . E quale salvaguardia ci si può attendere da un ministero dei Beni culturali che, in 53 pagine più allegati, autorizza uno scempio del genere?».
Il progetto di «sviluppo del giacimento Ombrina», come spiega proprio lo sciagurato decreto numero 0000172 del 7 agosto, prevede la realizzazione «a circa 6,5 chilometri dalla costa, su un fondale di circa 20 metri, prevalentemente sabbioso», di «una piattaforma per la produzione di gas pliocenico» e petrolio «da cui si dipartiranno da un minimo di 4 ad un massimo di 6 pozzi di produzione»; di «un serbatoio galleggiante» (nave Fpso che sarà sempre in funzione con fumi, torce e termodistruttori) «per il trattamento e lo stoccaggio» del petrolio; di circa 25 chilometri di condotte sottomarine o «sealines per il trasferimento del greggio dai pozzi alla nave desolforante e del metano».
La concessione era stata originariamente rilasciata alla Medoilgas, che l’ha ceduta a Rockhopper. «La struttura – spiega Antonio Massimo Cristaldi, ingegnere di Monza, esperto in materia – porterà al rilascio di sostanze tossiche in mare, come è prassi in tutte le installazioni offshore del mondo. “Ombrina” abbraccerà ben due riserve di pesca, finanziate con fondi pubblici e comunitari, che saranno interessate da fenomeni di bioaccumulo di inquinanti gravi, fra cui mercurio e cadmio. Nel luglio 2008 – evidenzia -, le prove di produzione provocarono l’intorbidimento del mare attorno ad essa. L’Agenzia regionale di tutela ambientale (Arta) dimostrò che mentre lontano da “Ombrina” le acque erano “buone”, quelle attigue erano passate ad “inquinamento medio”. E ciò in soli tre mesi. Secondo i documenti forniti dalla ditta proponente ai suoi investitoti – spiega ancora Cristaldi – il petrolio in quest’area non è facile da estrarre e per ciò si prevede l’uso di tecniche aggressive, fra cui quelle della acidizzazione del pozzo, di violente tecniche di stimolazione, tra cui la fratturazione; dell’utilizzo di fanghi diesel di perforazione, i più impattanti che esistano. Questi fanghi sono vietati nei mari del Nord dal 2000, a causa dell’inquinamento che comportano, a seguito della convenzione Ospar. Vogliamo parlare anche dell’inceneritore installato sulla Fpso? Emetterà di continuo sostanze tossiche, come l’idrogeno solforato, un veleno ad ampio spettro. E c’è anche il pericolo di subsidenza». L’impianto sorgerà nel cuore di una riviera che sta puntando «ad una rinascita turistica», con il proliferare di attività ricettive – soprattutto hotel e bed and breakfast – , con gite in barca, con vela e surf , con la cucina tipica e la ristorazione sugli antichi trabocchi, che attraggono turisti da ogni parte del pianeta. Minacciata anche la fiorente produzione vitivinicola.
«A Matteo Renzi e ai suoi – riprende D’Orsogna — piacciono le trivelle, e non c’è democrazia, o intelligenza o buon senso che tenga. Nessuno mette navi desolforanti così vicino a riva nel mondo civile, ma in Italia sì. Le prescrizioni all’impresa? Fanno ridere. Ci sono tanto perché ci devono essere…». «Il parere positivo di Valutazione d’impatto ambientale (Via) – tuona il coordinamento “No Ombrina” -, da una prima analisi, mostra falle clamorose e un’illogica inversione procedurale riguardante l’Analisi del rischio che, per un progetto in cui basta un incidente per massacrare l’intero Adriatico, non è oggetto di valutazione preventiva ma si fa… dopo il decreto! Cioè prima si rilascia il parere favorevole e poi si studiano, da parte dell’azienda interessata, gli effetti devastanti di un incidente. Inaudito…». Anche su altri aspetti fondamentali, «come le modalità di scavo di chilometri di reti sottomarine per gli idrocarburi, quelle per l’ancoraggio della meganave Fpso lunga 330 metri e addirittura per il piano di smantellamento delle opere, il decreto rimanda a fasi progettuali successive». «Tra l’altro – sottolinea Augusto De Sanctis, del Forum Acqua — questo progetto non è stato sottoposto a Via transfrontaliera secondo quanto prevedono precise norme internazionali quando è evidente che uno scoppio o un incendio potrebbe coinvolgere le acque e le coste degli altri Paesi. Un provvedimento – aggiunge – che è solo il sigillo a scelte antidemocratiche di un governo mai eletto e che sta portando avanti politiche mai oggetto di consultazione popolare». Perché decisioni così importanti sono state prese a ridosso di ferragosto? «Sembra quasi che gli stessi estensori di tali atti si vergognino delle loro scelte. O probabilmente sperano di passare inosservati. Ma questo non è certamente possibile per “Ombrina” che è l’opera meno amata dagli abruzzesi negli ultimi anni»’: scrivono Wwf, Legambiente, Fai, Italia Nostra, Marevivo, Pro Natura e Arci.
Sotto attacco, oltre al governo, la Commissione Via nazionale, che precedentemente, a primavera, ha dato il nulla osta ad “Ombrina”. «E’ inquietante quanto emerge da interrogazioni di eurodeputati di L’Altra Europa con Tsipras e di parlamentari del Movimento 5 Stelle – afferma Maurizio Acerbo, di Rifondazione — sui componenti del comitato nazionale per la Via. Ci si aspetterebbe che a esaminare i progetti fossero fior di esperti e scienziati e invece si scoprono personaggi che poco hanno a che fare con l’ambiente e con biografie poco rassicuranti. Un vero caravanserraglio: indagati per corruzione, sospettati di legami con la ’ndrangheta, pidduisti… Quando ci raccontano che le grandi opere sono state sottoposte a tutte le verifiche ricordiamoci che razza di gente è questa». Il decreto – sostiene ancora il coordinamento “No Ombrina” — è uno schiaffo per il presidente della Regione, Luciano D’Alfonso: la linea dialogante con il governo è bocciata inesorabilmente. A lui domandiamo: quando si romperà definitivamente con Renzi, che non ha timore di costruire un enorme gasdotto sulle faglie sismiche più pericolose d’Europa passando anche per L’Aquila?».
Il decreto emesso obbliga da un lato la società Rockhopper a realizzare il progetto entro 5 anni, nello stesso tempo ammette il ricorso al Tribunale amministrativo regionale, entro 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale, e al Capo dello Stato, entro 120 giorni. E su questo si sta già lavorando. «Stiamo studiando, con un gruppo scientifico e con le associazioni, il doveroso ricorso al Tar avverso detto atto governativo. Parimenti procederemo anche contro l’eventuale futuro decreto concessorio — dichiara l’assessore regionale all’Ambiente, Mario Mazzocca -. Il modello di sviluppo che vogliamo si basa su criteri improntati ad una reale sostenibilità. Per l’affermazione di questo modello di crescita la Regione, questa Regione, si batterà fino in fondo. E venderà cara la propria pelle».
Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2015
Dissero che era colpa del destino cinico e baro, che i piloni del viadotto Himera sull’autostrada tra Palermo e Catania avevano ceduto a causa degli smottamenti causati dalle piogge torrenziali e quindi non era assolutamente possibile prevedere il repentino evento in modo da evitare il disastro. E che in ogni caso la faccenda non riguardava l’Anas. Non era vero niente. Il vertice della società stradale, a cominciare dal presidente di allora, Pietro Ciucci, e compresa la prima linea tecnica che gli faceva corona e che è rimasta al suo posto con il nuovo presidente ed amministratore Gianni Armani, sapevano benissimo che quel ponte era a rischio, ma non fecero assolutamente nulla per metterlo in sicurezza. Il risultato è che dal 10 aprile il viadotto è chiuso, impraticabile, l’autostrada in quel tratto non percorribile e la Sicilia spaccata in due dal punto di vista automobilistico. La situazione è così grave e destinata a durare a lungo che per unire le due importanti città le Ferrovie hanno deciso di impiegare sette treni in più al giorno.
Le gravi responsabilità dell’Anas emergono chiaramente dal rapporto di un gruppo di tecnici incaricati di fare chiarezza sull’accaduto dal ministro dei Trasporti, Graziano Delrio. I tecnici sono gli ingegneri Salvatore Acampora, Giovanni Coppola, Carlo Ricciardi e Andrea Tumbiolo. Dopo un’indagine accurata i quattro hanno consegnato al ministro un documento molto dettagliato di un centinaio di pagine che è un severo atto d’accusa nei confronti dell’ex presidente Ciucci e del vertice Anas. Le conclusioni non lasciano spazio a dubbi: «L’Anas era in possesso degli elementi atti ad avere la consapevolezza della esistenza, entità e gravità del fenomeno di dissesto e delle criticità geologiche sin dalla definizione della scelta di progetto ed era a conoscenza dell’aggravio della situazione dal 2005». Detto in parole più semplici: l’Anas sapeva fin dal momento della costruzione del viadotto all’inizio degli anni Settanta che c’erano movimenti franosi gravi in atto, ma fecero finta di niente. Peggio: nel 2005, quando le condizioni complessive si aggravarono tanto da far temere il crollo, i responsabili dell’azienda pubblica delle strade fecero di nuovo orecchie da mercante.
Ciucci diventò presidente Anas l’anno successivo ed è rimasto in carica per circa un decennio fino alle dimissioni forzate a metà maggio 2015: in tutto questo tempo non ha mosso foglia per il viadotto Himera. E invece era suo dovere intervenire. A disastro avvenuto l’allora presidente si giustificò dicendo che avrebbero dovuto provvedere altri, a cominciare dalla Protezione civile. Il rapporto ministeriale sostiene esattamente l’opposto: «L’Anas aveva l’onere di intervenire in quanto soggetto cui spetta la gestione e la manutenzione delle infrastrutture autostradali in gestione diretta e, di conseguenza, aveva l’obbligo di vigilare sull’efficienza e salvaguardia di tali opere».
Il disastro dell’Himera purtroppo non è isolato. In Sicilia soprattutto, ma anche in molte altre parti d’Italia, al sud in particolare, le strade, i ponti e i viadotti, segnatamente quelli costruiti dalla Cassa del Mezzogiorno, stanno letteralmente cadendo a pezzi. E’ un fatto gravissimo, ma assolutamente non imprevedibile. I tecnici Anas delle gestioni precedenti a quella di Ciucci sapevano che quelle opere stavano arrivando a fine corsa e per questo cercavano di curarle con una manutenzione costante. Con Ciucci cambiò tutto. Ossessionato dai tagli dei nastri e dalle grandi opere, l’ormai ex presidente mise la manutenzione in terza fila. I tecnici che più gli sono stati vicini hanno condiviso con lui questa scelta. Uscito di scena il capo, sono rimasti tutti ai loro posti.
A cominciare da Michele Adiletta ingegnere specializzato in aeronautica che conserva il compito di responsabile della manutenzione delle strade Anas. Sopra Adiletta c’è Alfredo Bajocon direttore generale tecnico, ex Stretto di Messina, ex Toto costruzioni dove si occupava di nuove opere, ma a corto pure lui di competenze inerenti la manutenzione. Sul suo curriculum pesano i crolli e i monumentali fallimenti sulla Salerno-Reggio Calabria. Il vicedirettore esercizio e coordinamento del territorio, Roberto Mastrangelo, è laureato in ingegneria meccanica, quindi anche lui non ha competenze specifiche in geologia, geotecnica, frane, fondazioni, asfalti e cemento armato. Ancora: Stefano Caroselli fu assunto da Ciucci il primo gennaio 2014 per seguire le manutenzioni straordinarie, anche se nel suo curriculum ufficiale non sono segnalate precedenti e specifiche attività in materia.
Al suo posto resta pure Ugo Dibennardo, direttore centrale progettazione e per anni direttore regionale proprio in Sicilia, la regione del viadotto Himera e del record di crolli e strade interrotte. E non ha mosso un passo neanche Salvatore Tonti, il direttore regionale attuale della Sicilia, il tecnico che aveva negato di essere a conoscenza dei pericoli incombenti sull’Himera. Ai tempi di Ciucci era stato pure premiato per gli eccellenti risultati ottenuti sulla Salerno-Reggio.
Un lieto fine per i basalti colonnari sommersi di Grotta delle Colombe, affioranti in una parte dell’imponente falesia basaltica nota come Timpa di Acireale, che si estende sulla costa orientale della Sicilia, circa 10 km a nord di Catania.
È stato infatti accantonato il progetto ideato dal Comune di Acireale che, come era stato riportato lo scorso 11 novembre qui su Eddyburg, col presunto scopo di evitare l’erosione costiera, avrebbe sepolto queste straordinarie formazioni geologiche.
L’amministrazione comunale di Acireale ha infatti riconosciuto l’enorme danno ambientale che sarebbe derivato dalla realizzazione dell’opera e si è attivata per promuovere, con le somme per essa previste, un intervento alternativo. Così l’impegno di Legambiente che, anche mediante il ricorso all’autorità giudiziaria e il sostegno di autorevoli studiosi, di amanti del mare e dei pescatori locali, si era posta l’obiettivo di evitare che quell’assurdo progetto si concretizzasse è stato alla fine premiato.
Questa assai travagliata vicenda, conclusasi, a differenza di tante altre, positivamente, consente di trarre alcune conclusioni e può fornire nuovi stimoli.
È sconfortante che in un periodo di crisi economica e in una regione come la Sicilia, nella quale, per vari motivi, sarebbe oltremodo opportuno realizzare progetti di risanamento ambientale, si seguiti invece a concepire opere inutili, mettendo a rischio beni di straordinario interesse scientifico. Nel caso di Grotta delle Colombe, formazioni geologiche rare nel bacino del Mediterraneo, soprattutto in ambiente sottomarino.
Quanto è avvenuto in questa parte della Sicilia dimostra però che non bisogna rassegnarsi all’idea che distruzione ambientale e spreco di pubblico denaro siano processi ineluttabili. Occorre anzi ripetere che alle illogiche consuetudini di consumo irreversibile del territorio e delle risorse naturali si possono e si devono contrapporre le ragioni della conservazione. Questa inversione di tendenza, in prospettiva, si rivela conveniente anche in termini economici, in quanto nel primo caso i benefici avvengono una sola volta e solo a vantaggio dei realizzatori dell’opera, mentre nel secondo diventano permanenti e diffusi, soprattutto a favore delle popolazioni locali.
Convinti di ciò non ci si è voluti limitare alla semplice gratificazione di aver impedito uno scempio ambientale è si è deciso di impegnarsi, in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania, per pervenire alla rapida istituzione di un geosito nell’area in cui affiorano, sia a livello subaereo, sia a livello subacqueo, i basalti colonnari di Grotta delle Colombe.
L’istituzione del geosito consentirà di tutelare quest’area e di promuovere la conoscenza sia dei suoi aspetti geologici, sia di quelli culturali e naturalistici. Tale processo accrescerà la consapevolezza dell’importanza di questo luogo tra coloro che già lo conoscono e soprattutto genererà un nuovo, e qualificato, turismo. A trarne benefici saranno la popolazione locale e, in particolare, i pescatori di Santa Maria La Scala, giacché la visita dei luoghi, essendo le falesie, per le loro morfologie, difficilmente accessibili da terra, si presta ad essere effettuata via mare e quindi con l’inevitabile coinvolgimento dei pescatori stessi.
La difesa dei basalti colonnari di Grotta delle Colombe è servita, infine, a evidenziare, anche grazie al ripetuto intervento dei mezzi di informazione, l’elevata importanza di queste formazioni geologiche, che in Sicilia sono state, invece, a torto, ritenute finora di scarso interesse ai fini della conservazione.
È paradossale, infatti, che in questa regione, nella quale si registra la più elevata presenza di basalti colonnari del Mediterraneo, non si sia ritenuto di prevedere adeguate forme di protezione per la maggior parte di essi, omettendo persino di inserirli all’interno di aree protette anche quando le stesse si trovino a breve distanza dai siti (come nel caso dei basalti colonnari del fiume Simeto, il più grande della Sicilia, di contrada Barrili, privi di qualunque forma di protezione e pertanto non inseriti né nella vicina riserva naturale “Forre laviche del Simeto”, né nel contiguo Sito di Interesse Comunitario ITA070026 “Forre laviche del Simeto”). C’è dunque la speranza che quanto avvenuto per Grotta delle Colombe inneschi in Sicilia un processo che conduca finalmente alla tutela delle più importanti aree in cui affiorano questi particolari prodotti vulcanici.
La Repubblica, 16 novembre 2014
Come in molte parti d’Italia, in Sicilia si costruisce e si trasforma il territorio in spregio alle norme tecniche e ai principi urbanistici più elementari. E, anche in assenza di fenomeni naturali gravi ed evidenti, come ad esempio eventi meteorici intensi, si generano condizioni di rischio per il territorio e l’incolumità delle persone. Il paradosso è che spesso le stesse Pubbliche Amministrazioni, proprio facendo riferimento a non prioritarie o inesistenti emergenze, approvano o incoraggiano interventi inutili e dannosi.
È il caso di un progetto concepito dal Comune di Acireale, in provincia di Catania, per “rimuovere”, presunte cause di “degrado e di erosione” da tratti costieri con falesie di natura basaltica, ricoperte da formazioni a bosco e macchia mediterranea, ricadenti in una riserva naturale regionale (“La Timpa”) e in un Sito di Interesse Comunitario (ITA070004 “Timpa di Acireale”).
Come "necessario" completamento dell'intervento, la Giunta comunale ha adesso approvato (delibera n° 93 dell'8 settembre 2014) la costruzione di una barriera soffolta in un tratto di costa di incalcolabile interesse geologico per la presenza di spettacolari basalti colonnari, in parte anche sommersi, al fine di “rimuovere”, anche in questo caso, l’erosione. Si tratta di un luogo mitico, meglio noto con il toponimo di Grotta delle Colombe, in cui Ovidio, nel XIII libro delle Metamorfosi, ambienta la storia d’amore tra la nereide Galatea e il pastore Aci, che viene ucciso dal ciclope Polifemo.
Peggio ancora: inutile agli scopi prefissi, la barriera sconvolgerebbe i variegati fondali dello specchio di mare interessato, che possiede una ricchissima biodiversità animale e vegetale. Numerosi studi hanno accertato in questi fondali la presenza di specie di alghe a rischio o minacciate di estinzione, sottoposte a vincoli di protezione dalla normativa internazionale e nazionale, e hanno censito ben sei habitat prioritari secondo la disciplina comunitaria[3].
Ma senza dubbio il danno maggiore che produrrebbe la barriera soffolta deriva dalla presenza di basalti colonnari proprio in corrispondenza del tratto di costa in cui dovrebbe essere realizzata. Le parti sommerse di queste straordinarie formazioni geologiche sarebbero infatti sepolte dall’opera.
Questi basalti sono diversi rispetto a quelli riscontrabili nella vicina Aci Trezza, costituiti da corpi magmatici raffreddatisi all’interno della crosta terrestre. Presso Grotta delle Colombe sono presenti, infatti, affioramenti di lave a colonne sub-verticali eruttati da apparati fissurali, periferici rispetto all’area in cui si formò l’apparato centrale etneo. Si tratta in ogni caso di formazioni geologiche rarissime nel Mediterraneo, soprattutto in ambiente marino; anzi, la particolarità di essere sommersi e di presentare una significativa estensione li rende unici nel Mediterraneo. La loro bellezza, scaturente dalle geometrie regolari, tendenti all’esagono, tipiche, appunto, dei basalti colonnari e il loro elevatissimo valore scientifico non meritano di essere cancellate da un’opera tanto inutile quanto assurda. Piuttosto i basalti colonnari di Grotta delle Colombe, sia nelle parti emerse sia sommerse, dovrebbero essere rigorosamente tutelati e diventare motivo di promozione turistica.
Se la barriera soffolta fosse realizzata, seppellendo questi tesori naturali sommersi, i funzionari che l’hanno voluta e continuano a volerla, sarebbero ricordati per sempre come responsabili di un inaccettabile scempio.
Ci auguriamo che l'allarme esca dall'ambito locale e coinvolga l'opinione pubblica nazionale. Sulla vicenda Legambiente ha presentato denuncia alla Procura della Repubblica e alla Procura della Corte dei Conti.
[1] Una barriera frangiflutti per tutelare Santa Maria La Scala e Santa Caterina, "La Sicilia", 17 set. 2014.
[2] Così nel 2008 il prof. Giuliano Cannata, uno dei massimi esperti in Italia nel campo della difesa costiera. A sua volta il prof. Carmelo Ferlito, vulcanologo dell'università di Catania, definisce "ingenui" i tentativi di "bloccare" l'erosione di una scogliera a picco sul mare (Timpa di Acireale, il parere degli esperti, quotidiano online "CTZEN", 30-9-2014: ).
[3] Alcuni studi, in particolare, hanno evidenziato la presenza di ben 269 taxa tra Rhodophyceae, Phaeophyceae e Chlorophyceae, tra cui quattro specie a rischio o minacciate e sottoposte a vincoli di protezione dalla normativa internazionale e nazionale. Nell'area in cui in particolare è prevista la barriera è stata rilevata la presenza di tre delle quattro specie e di cinque dei sei habitat. Riguardo alla fauna, altri studi hanno rilevato la presenza di specie indicatrici, che denotano un'elevata ricchezza degli ambienti dell'infralitorale superiore (Catra M., Giaccone T., Giardina S., Nicastro A., Il patrimonio naturale marino bentonico della Timpa di Acireale (Catania), 2006: Boll. Acc. Gioenia Sci. Nat., 39 [366]:129‐158). In una relazione del 2008 la prof. Grazia Cantone, ordinario di Biologia Marina dell'università di Catania, ha evidenziato l'azione distruttiva che l'enorme massa di pietrame lavico determinerebbe, "giacché sarebbero ricoperti e distrutti tutti i popolamenti algali e animali sui quali verrà riversato il materiale della barriera". Diversamente da quanto sostenuto dagli estensori dello studio di impatto ambientale, la prof. Cantone osserva che, "anche se nel tempo gli inerti verranno colonizzati, si avrà certamente una minore ricchezza specifica dovuta all'uniformarsi dell'habitat". La barriera inoltre comporterebbe un'alterazione della circolazione delle correnti marine (influenzata dalla presenza di sorgenti di acque dolci), che potrebbe compromettere in modo irreversibile ogni possibilità di ripresa della vegetazione, quanto meno nelle condizioni attuali.
Roberto De Pietro è componente di Legambiente Catania
Qui il pdf con la versione integrale dell'articolo
arrivi in un porto industriale, ma in un paradiso naturale: San Foca, provincia di Lecce. “Impensabile”, dichiara l’ex ministro Massimo Bray, appoggiando l’idea di farlo arrivare nell’inutilizzato Petrolchimico di Brindisi». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2014
Tra gli infiniti lutti che lo Sblocca Italia sta per addurre al già martoriato territorio italiano ce n’è uno che viene da lontano. Il Tap: il Trans Adriatic Pipeline, cioè il gasdotto trans-adriatico che deve portare in Italia il gas dell’Azerbaigian. Nel quadro dell’attuale (criticabile) politica energetica, l’Italia e soprattutto l’Unione europea hanno bisogno di quel gas. E Matteo Renzi ci tiene particolarmente, perché il superlobbista del consorzio industriale che realizza il Tap è quel Tony Blair che il nostro presidente del Consiglio ha eletto a icona personale.
Nei prossimi giorni vedremo se Renzi proverà a governare il problema, o se invece prevarrà la logica dello Sblocca Italia: che è quella di tradurre in legge i progetti industriali presentati dai privati. E la domanda è: cosa vuol dire governare? Vuol dire imporre il “fare”, comunque e a ogni costo, o capire invece come fare? Vuol dire assumere per buone le ragioni del consorzio industriale, e poi semmai gettare la palla nel campo dei sindaci che protestano? O non deve invece voler dire farsi carico di tutti gli interessi in gioco, e trovare una soluzione che vada incontro al bene comune? Sulla spiaggia di San Foca ci giochiamo molto più della spiaggia di San Foca.
Costiera Amalfitana. Circa trent’anni fa un’accesa polemica divampò a proposito di un progetto da realizzare nello splendido scenario della Costiera Amalfitana. Per iniziativa del sindaco del comune di Furore, Raffaele Ferraioli, si voleva costruire due ascensori nel Fiordo di Furore. Il WWf. e gli ambientalisti si opposero e l’opera fu poi bocciata dalla Soprintendenza, dal Tar e dal Consiglio di Stato, perché l’iniziativa era in contrasto con le prescrizioni della pianificazione regionale, che sottoponeva l’intero Fiordo a tutela integrale e vietava in esso ogni intervento pubblico o privato, al fine di mantenere intatte le singolari caratteristiche ambientali e paesaggistiche. Il Fiordo di Furore è da sempre una meraviglia della Costa d’Amalfi ; dal 1997 è stato dichiarato patrimonio mondiale dell’Umanità, e perciò protetto dall’Unesco Tra le scalinate del borgo , nell’antico villaggio dei pescatori incastonato sul fianco della montagna, nel 1948 Roberto Rossellini girò il vero omaggio all’arte della bravissima Anna Magnani: l’episodio centrale del film “Amore”,
E proprio qui Anna Magnani e Roberto Rossellini, vissero la loro tormentata e intensa storia d’amore: si innamorarono del Fiordo tanto da comprare due “monazzeni”, case dei pescatori proprio sulla spiaggia, ironicamente ribattezzate con i loro soprannomi: “ la villa del Dottore” e “la villa della storta”. Finito l’idillio abbandonarono il loro nido d’amore. Anna Magnani non tornò mai più nel fiordo di Furore, regalò la sua casa al vecchio custode che ancora oggi la affitta a coloro che vogliono respirare questa strana atmosfera a metà tra mito e realtà. Lungo la statale tra Praiano e Conca dei Marini al km 23, c’è il ponte che scavalca il fiordo; da qui partono le scale, ripide, che scendono nella ria. Un’insenatura naturale strettissima con una spiaggetta deliziosa. Boccone da far gola a chiunque , particolarmente a chi è amante del bello e si diletta a poetare.
Tant’è vero che qualcuno il suo amore per il bello l’ha in passato espresso sbancando e distruggendo la parte esterna del fiordo ,edificando proprio in cima a esso una casa a forma di botte. Ora il Consiglio comunale di Furore capeggiato allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli ha programmato e fatto approvare la costruzione di un ascensore da infilare nel Fiordo. Nelle intenzioni dell’amministrazione comunale l’ascensore installato nella roccia dovrebbe servire a collegare il centro abitato sovrastante con la spiaggia del Fiordo , permettendo così anche il recupero dell’arenile. L’idea di realizzare un ascensore tra le rocce del Fiordo è quella – secondo quanto dichiarato dal sindaco Ferraioli, “ di ripristinare quell’equilibrio rotto dall’apertura dell’ottocentesca rotabile Positano-Vietri, che nel connettere alcune aree ne ha fatalmente emarginate delle altre” . Il progetto elaborato dal Comune prevede, oltre alla realizzazione di un ascensore che si svilupperà su un unico tracciato lungo trecento metri, di cui sessanta allo scoperto e duecentoquaranta in galleria, anche un parcheggio d’interscambio di oltre duecento posti macchina. Il costo preventivato dell’opera sembra che si aggiri tra i tre e sette milioni. Un progetto sicuramente ambizioso ma dai risvolti paesaggistici drammatici, per la creazione delle varie strutture previste per la realizzazione dei parcheggi, l'accoglienza dei cittadini e dei turisti : sarà come sbancare una montagna. Non si comprende perciò come l’amministrazione comunale, rappresentata allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli, possa non solo sostenere che l’attuale progetto sottoposto e approvato dal consiglio comunale abbia tutte le carte in regola per essere realizzato, ma ritenere anche che lo stesso possa essere un volano per lo sviluppo turistico di Furore
L’impiego di un ascensore per raggiungere il fiordo è invece esattamente il contrario di quanto richiederebbe una moderna concezione dell’attività turistica, che si qualifica culturalmente solo quando rispetta l’identità storica di un luogo e non quando lo appiattisce in un’ottica di frettoloso e banale consumo. Tra l’altro , l’ambiente eccezionale del Fiordo di Furore è da sempre raggiungibile, oltre che dal mare,anche attraverso una caratteristica scalinata, certo non vertiginosa poiché il centro abitato è appena a 300 metri sul livello del mare. Ormai lo sanno tutti : lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza , l’integrità dell’ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, frane, da’ vita al turismo e quindi porta guadagni .I turisti cercano l’ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato e un territorio non manomesso. E la gente della Costa D’Amalfi lo sa, visto le tante scandalose manomissioni già compiute sul territorio che da Vietri sul Mare porta a Positano. Sono i “ saraceni “ del partito del cemento che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in modo distorto la parola “ sviluppo “.
Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2014
La direzione generale Ambiente della Commissione europea ha chiesto formalmente all'Italia chiarimenti sull’inquinamento delle acque della diga del Pertusillo (Potenza) e sul rischio sismico dell’attività estrattiva. Dopo la denuncia, fatta nel 2013 dal comitato ambientalista Mediterraneo No Triv, l’Europa chiede risposte. E lo fa a pochi giorni dall’annuncio del premier Matteo Renzi: “Se c’è il petrolio in Basilicata sarebbe assurdo, in questo momento, rinunciarvi”.
Il decreto sblocca Italia, che vorrebbe raddoppiare le estrazioni di greggio in territorio lucano, preoccupa le associazioni ambientaliste e i cittadini, i pochi rimasti. Dal dossier presentato alla Commissione, realizzato da Albina Colella, docente di Geologia all'università della Basilicata, si scopre che nelle acque della diga, che disseta Puglia e Basilicata, sono state rinvenute abbondanti quantità di fosforo, azoto e zolfo. Ma soprattutto una forte presenza di idrocarburi e metalli pesanti. “Le concentrazioni di idrocarburi superano sempre i limiti di riferimento – si legge nella relazione – in quantità fino a 646 volte superiori al limite di microgrammi per litro fissato dall’Istituto Superiore di Sanità per le acque potabili. È stato rinvenuto, ad esempio, il bario (un metallo pesante usato nei pozzi di petrolio per appesantire i fluidi di trivellazione, ndr) con una concentrazione fino a 3000 microgrammi per litro, cioè in quantità fino a tre volte superiore al limite consentito per l'acqua potabile”.
Lo studio fotografa un rischio per la salute e la sicurezza delle persone elevato: “Ci sono idrocarburi anche nel miele della Val d'Agri – si legge testimoniare che l'inquinamento è ormai entrato nella catena alimentare”. E non è tutto. Come spiega l’avvocato Giovanna Bellizzi, presidente del comitato Mediterraneo No Triv, “anche la situazione geologica della Val d’Agri risulta incompatibile con l’attività di ricerca e di estrazione del petrolio”. Secondo il dossier, infatti, la zona in cui si vorrebbero raddoppiare le estrazioni è a forte rischio sismico. “È un territorio caratterizzato da faglie attive e da terremoti di forte intensità. Molto fragile e vulnerabile rispetto alle attività petrolifere”, scrive la professoressa Colella.
Oggi in Val d’Agri ci sono 25 pozzi petroliferi attivi, l’oleodotto più grande d'Europa e un pozzo di reiniezione (che raccoglie i gas di scarto). L’attività petrolifera, secondo l'Agenzia per l’Ambiente degli Stati Uniti (EPA), vale un rischio inquinamento da 7 a 8 su una scala il cui massimo grado è 9. Ma Renzi ha idee diverse: «È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti quello che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini».
Ma per Stefano Prezioso della Svimez, il mito dell’occupazione portata dal petrolio è falso: “La Basilicata è una delle regioni con il più alto flusso migratorio d'Italia. E la causa principale per cui in tanti se ne vanno è la disoccupazione. L’industria estrattiva non può risolvere il problema: impiega poche persone, in gran parte inviato sul posto da [....]
1l manifesto, 19 settembre 2013. Con postilla
Il 2 agosto 2013, a seguito dell'approvazione da parte del ministero per i Beni Culturali, la Giunta Regionale della Puglia presieduta da Nichi Vendola ha finalmente potuto adottare il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, predisposto dall'ottimo assessore alla qualità del territorio Angela Barbanente, frutto di un complesso e lungo lavoro, che ha visto all'opera una grande équipe di specialisti coordinata da Alberto Magnaghi, uno dei più grandi urbanisti a livello internazionale.
Le motivazioni dichiarate si basano su una presunta mancata condivisione. La motivazione reale è, invece, il terrore per un Piano che disegna una Puglia diversa, innovativa, con progetti di sviluppo sostenibile e compatibile con le peculiarità del territorio; un Piano che blocca il bulimico consumo di territorio; un Piano fondato su una solida base conoscitiva e dotato di una Carta Regionale dei Beni Culturali nella quale sono censiti oltre diecimila siti di interesse culturale; un Piano che non si limita a proporre un approccio estetico e a proteggere alcune énclaves, isole di "bel paesaggio" in un oceano di brutture e di cemento, ma che si occupa dell'intero territorio regionale, delle periferie, delle coste, delle aree interne; un Piano che è ormai considerato un modello, studiato e imitato da molte altre regioni italiane. Un vero primato pugliese, anche perché è effettivamente il primo Piano Paesaggistico adottato in Italia, con le nuove norme.
Assurda appare proprio la tardiva critica di mancata condivisione. Quello della Puglia è, infatti, un Piano largamente condiviso, frutto di un'impostazione realmente democratica e partecipata. Non solo perché ci hanno lavorato nel corso di molti anni decine di specialisti provenienti dalle quattro università della Puglia e di altre regioni italiane e un ampio gruppo di giovani ricercatori e di professionisti, con l'apporto di numerose associazioni e di migliaia di cittadini, ma perché è stato presentato e discusso in molte conferenze d'aria (non meno di 13) tenute tanto nelle città principali quanto in piccoli centri della Puglia. Il Piano è stato, inoltre, oggetto anche di numerose pubblicazioni ed è interamente consultabile fin dal 2010, data della prima approvazione regionale, su uno specifico sito web ( http://paesaggio.regione.puglia.it ).
Gli attacchi sono chiaramente strumentali e denotano anche una sostanziale ignoranza del Piano. Gli oppositori, inoltre, si affannano a presentare quanti hanno contribuito a predisporre il Piano e quanti ora ne difendono la filosofia, come dei talebani, illiberali, centralisti, vincolisti, fanatici che vogliono affamare la Puglia e bloccarne lo 2sviluppo". Nulla di più sbagliato! Il Pptr della Puglia è tutt'altro che vincolistico, ma insiste sulle premialità, sugli incentivi, sulle buone prassi da diffondere. Non pensa di trasformare la Puglia in un immenso museo o in un grande Parco naturalistico, ma di favorire nuove e più innovative procedure di sviluppo del territorio. Si tratta, dunque, di obiettivi che anche gli ambienti più avveduti degli imprenditori, degli stessi costruttori, dei professionisti dovrebbero condividere, ampliando lo sguardo alle realtà più evolute del mondo.
Mi auguro che i partiti della sinistra, le associazioni culturali e ambientali, i settori più avveduti e avanzati delle professioni e della società civile, facciano sentire forte la propria voce, per evitare che prevalgano gli interessi particolari nel bloccare o stravolgere il Pptr, sollecitando tutti semmai a contribuire a migliorare ulteriormente questo straordinario strumento democratico di pianificazione del futuro della Puglia.
Non mancano anche attacchi da parte di chi considera il Piano addirittura eccessivamente permissivo e accomodante. A costoro ricordo l'esperienza della giunta di Renato Soru in Sardegna, caduta proprio sul Piano Paesaggistico. Cosa è successo successivamente con le politiche di Ugo Cappellacci è sotto gli occhi di tutti.
In Puglia è aperto un confronto tra diverse visioni, non solo politiche ed economiche ma anche culturali, tra chi cerca di difendere e valorizzare i beni comuni, i patrimoni culturali, i monumenti e siti archeologici, i paesaggi unici, l'agricoltura sana, lo sviluppo turistico di qualità, l'industria culturale, la ricerca e innovazione, e chi propone ancora retrive e disastrose politiche di un malinteso sviluppo basato solo su cementificazione, inquinamento, consumo di territorio, devastazione di paesaggi, degrado delle periferie, deturpamento delle coste, avvelenamento dell'agricoltura, a vantaggio di pochissimi e con gravi danni economici, sociali, sanitari e culturali della stragrande maggioranza dei cittadini pugliesi,che certamente non intendono tornare ad un passato che solo pochissimi nostalgici rimpiangono. Un confronto che ha una valenza non solo regionale ma anche nazionale ed europea.
— Questa è la storia di una laguna che è diventata una mangiatoia. Una laguna malata e mai bonificata. Un buco nero di sprechi e veleni nel quale lo Stato ha annegato 100 milioni. È una storia di fanghi al mercurio e commissari indagati, di canali otturati e analisi creative. Per raccontare lo scandalo della laguna di Grado e Marano basterebbe dire come è iniziato e come sta (forse) finendo. È iniziato con uno stato di emergenza (3 maggio 2002, ministro dell’Ambiente era Altero Matteoli) e la nomina di un commissario da parte dell’allora boss della Protezione civile Guido Bertolaso (dall’anno dopo e fino allo stop di Monti si andrà avanti col sistema della deroga che ha causato le porcate del G8 e della ricostruzione post-terremoto dell’Aquila).
Lo scandalo sta finendo con la richiesta di rinvio a giudizio per 14 persone (tra commissari e soggetti attuatori; diversi i politici di entrambi gli schieramenti). Dovranno rispondere di peculato, omissione e truffa ai danni dello Stato. Non solo: si sta prefigurando anche il reato di disastro ambientale. Perché — ha scoperto Viviana Del Tedesco, il sostituto procuratore di Udine che indaga sulla vicenda e ha firmato le 40 pagine d’accusa — i lavori per l’eliminazione dei fanghi inquinanti («un falso presupposto »), in questi dieci anni — ecco l’ulteriore beffa — hanno provocato, a loro volta, seri danni alla laguna. «Sia alla morfologia che all’ecosistema». Per la serie: non bastava sprecare 100 milioni per non risolvere un problema; bisognava anche aggravarlo.
Un pasticcio all’italiana. Con tutti gli ingredienti al loro posto e qualche chicca. Per esempio l’immancabile cognato (indagato) di Bertolaso, quel Francesco Piermarini esperto di cinema ma anche
di bonifiche, ma forse più di cinema se dopo il flop della Maddalena (72 milioni per ripulire i fondali che però sono ancora pieni di idrocarburi) l’hanno imbarcato (47mila euro) anche in questa folle operazione nell’Alto Adriatico finita nella maxi-inchiesta della procura di Udine. L’hanno chiamata, non a caso, “finta emergenza del Sin” (sito inquinato di interesse nazionale, la laguna appunto).
In origine è lo stabilimento Caffaro di Torviscosa. La Caffaro sta alla chimica come l’Ilva sta all’acciaieria. Fondata nel 1938 alla presenza di Mussolini come sede produttiva del gruppo “Snia Viscosa”, più di 25mila tonnellate di prodotti venduti ogni anno. Adesso l’azienda è chiusa (il gruppo Snia è in amministrazione straordinaria). Per anni, però, la Caffaro ha sputato veleno. Fango al mercurio trascinato in laguna dai fiumi Aussa e Corno. Il risultato è che lo specchio d’acqua antistante lo stabilimento si è riempito di metalli. I canali (cinque) si sono intasati rendendo sempre più difficile la navigazione e mandando su tutte le furie
le marinerie di Aprilia Marittima (si costituiranno parte civile assieme a Caffaro). «Era chiaro fin da subito che l’inquinamento riguardava solo una minima parte della laguna di Grado e Marano — osserva il pm Del Tedesco —. Ma qualcuno ne ha approfittato». È il 2001, iniziano le sorprese. La commissione fanghi nominata dalla Regione deposita un progetto definitivo per i drenaggi di tutti i canali. Lo studio viene consegnato il 28 febbraio 2002. Resterà nel cassetto per dieci anni. Due giorni fa la Guardia di finanza di Udine va a prenderlo a Trieste negli uffici della Regione.
Una scoperta «interessante». Per due motivi: primo, il 3 maggio del 2002 — tre mesi dopo il deposito della ricerca — il ministero dell’Interno decreta lo stato di emergenza. Che manda il progetto in soffitta. Secondo: il piano “dimenticato” dalla Regione (quanto è costato?) prevedeva di rimettere i fanghi tolti dai canali in laguna (come si fa dai tempi della Serenissima) e non certo, come si è deciso dopo, di portarli a Trieste o a Venezia, o stoccarli come rifiuti speciali in vasche di colmata che cadono a pezzi. Perché si sono scordati del progetto? La risposta ce l’hanno i magistrati. «Hanno voluto e poi cavalcato lo stato di emergenza per abbuffarsi di incarichi, consulenze, nomine, poltrone ». Un valzer costato 100 milioni in dieci anni. I commissari che si avvicendano sono tre. Il primo (giugno 2002) è Paolo Ciani, consigliere e segretario regionale di Fli, già assessore all’ambiente. pidiellino Riccardo Riccardi.
L’anno scorso il premier Monti, d’accordo col ministro Corrado Clini e con il nuovo capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, decide che può bastare: stop al commissario della laguna. I fari della magistratura sono già accessi. Il prosciugamento del denaro pubblico è iniziato con le analisi dei fanghi. Costate 4 milioni, si rivelano inutili perché mai validate da nessun organismo pubblico. I carotaggi vengono affidati alla Nautilus, un’azienda calabrese all’epoca sprovvista del certificato antimafia. Poi arrivano gli altri “investimenti”. Gettati, è il caso di dire, nel fango. Vasche di raccolta e palancole (paratie di ferro) garantite 64 anni che a distanza di seianni stanno crollando (il metallo si sbriciola e inquina la laguna). I commissari ottengono strutture da 30 persone, gli stipendi schizzano da 5 a 11mila euro al mese.
Una bengodi per tecnici e soggetti attuatori. Una piccola Maddalena, con la sua cricca. Persino grottesche alcune iniziative messe in campo: dopo il decreto dello stato di emergenza per inquinamento ambientale, all’Università viene commissionato uno studio di fattibilità per installare un’attività di allevamento di molluschi nella stessa laguna. In tutto questo non può mancare la ciliegia sulla torta: al netto dei 100 milioni spesi, l’area Caffaro — secondo alcuni l’unica inquinata, secondo altri l’epicentro della presunta pandemia dell’intera laguna (1600 ettari) — , non è stata mai bonificata. È il colmo. La giunta regionale tace. Sulla vicenda l’unica a martellare è l’emittente televisiva locale “Triveneta”. Intanto i magistrati vanno avanti. Malata curabile, immaginaria o terminale, per la laguna gli orizzonti sono sempre meno blu.
Un grido di dolore si leva da coloro che amano la natura e vorrebbero preservarla. Una parte di costa abruzzese sta per essere cementificata brutalmente, legalmente, con il solito argomento della crescita e dello sviluppo.
«Abbiamo perso l'opportunità di salvare il rarissimo tratto di fascia costiera non ancora edificato», scrive il Comitato riserva naturale regionale Borsacchio. Al posto della spiaggia «avremo palazzine e stabilimenti e al posto della splendida pineta, strade e piazze coperte di asfalto».
Stiamo parlando di una riserva naturale che si trova nei comuni di Roseto degli Abruzzi e Giulianova con spiagge pulite e pinete intatte chiamato Riserva del Borsacchio. Nata nel 2005, da anni la Riserva è nelle mire di chi vorrebbe costruire megavillaggi e casette a schiera. Eppure, come spiegano quelli di Legambiente, «centinaia di appartamenti costruiti negli ultimi lustri rimangono sempre più desolatamente inutilizzati e invenduti».
«Perché tanta indifferenza del governatore, dei sindaci e di buona parte dei consiglieri regionali e comunali, che pur potendo non lo hanno impedito?» si chiedono preoccupati. «Avranno una sola buona ragione? Purtroppo sembra che l'unica spiegazione del loro comportamento sia di non sapere dire no a chi, con mezzi economici convincenti, impone il solo interesse realmente tute
lato in questa brutta vicenda, lo spessore del suo portafoglio».
«L'area protetta del Borsacchio del Teramano è stata oggetto di numerosi interventi legislativi finalizzati alla modifica della linea di confine per rispondere agli appetiti della speculazione edilizia», commenta Fabio Celommi del Comitato.
I cittadini in maggioranza si sono schierati contro la divisione in due della Riserva che verrebbe a perdere gran parte della sua pineta e le foci del Tordino e del Borsacchio, per cui si avrebbe «una Riserva del Borsacchio senza il Borsacchio medesimo», come dice Pio Rapagnà che da anni difende coraggiosamente le ragioni della comunità... Ma come al solito, gli appetiti degli speculatori si dimostrano più forti della volontà popolare.
C'è chi si riempie la bocca della magica parola «sviluppo». Ma è cieco e sordo chi pensa che lo sviluppo consista solo nella moltiplicazione delle case e nelle gettate di asfalto. Oppure è in malafede e usa la comoda parola per nascondere le ingordigie di grossi investitori.
Ormai lo sanno tutti: lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza, l'integrità dell'ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, slavine, desertificazione, dà vita al turismo e quindi porta anche guadagni. I turisti cercano l'ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato. E la gente del luogo lo sa. Sono gli speculatori che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in malafede la parola «sviluppo».
Dall'8 maggio della vicenda si occupa il Consiglio di Stato. Il progetto presentato nel 2004 dal costruttore Muto prevede la costruzione di 200 villette, alberghi e altri edifici sulle rive del Mincio. Un lungo braccio di ferro, fatto di decisioni politiche, sentenze e ricorsi: lo scontro tra il business e la salvaguardia dell'ambiente
È il paesaggio mantovano che Andrea Mantegna ha incorniciato nella grande finestra che fa da sfondo alla Morte della vergine, dipinto nel 1462 e ora al Prado di Madrid: il fiume Mincio che si allarga e diventa lago, il ponte che lo attraversa. Se si realizzasse il progetto che prevede di costruire un quartiere di centottantamila metri cubi - duecento villette, alberghi e altri edifici per milleduecento abitanti - proprio lì dove il ponte tocca la sponda e una cortina di pioppi sfiora l'acqua, quel paesaggio non sarebbe più lo stesso. Alterato per sempre. Tutto dipende da cosa deciderà, a partire da martedì 8 maggio, il Consiglio di Stato presso il quale pende il ricorso di una società immobiliare, la Lagocastello, contro una sentenza del Tar Lombardia che a quella società aveva già dato torto, dichiarando validi i vincoli posti dalla Soprintendenza su tutta l'area dei laghi intorno alle mura di Mantova.
La partita è delicata e si combatte da anni, intrecciandosi alle vicende politiche della città, dividendo gli schieramenti anche al loro interno. È in gioco uno dei paesaggi urbani che sintetizzano i più celebrati valori del Rinascimento italiano. I laghi mantovani abbracciano le mura della città sovrastate dal castello di San Giorgio e dal Palazzo Ducale, che custodisce le opere di Mantegna (fra le quali la Cameradegli sposi) e poi di Pisanello e di Giulio Romano. Architetture e natura compongono un insieme che va tutelato, stando alla Soprintendenza e alla Direzione regionale dei beni culturali della Lombardia. Che aggiungono un altro elemento: anche i laghi sono opera dell'uomo e modellati in maniera da costituire un sistema che va conservato nella sua interezza, come se fosse un monumento. L'integrità di questo complesso paesaggistico e la sua percezione verrebbero stravolte dalle costruzioni. Da qui un vincolo di inedificabilità che stronca i progetti di lottizzazione e salva un patrimonio sul quale vigila anche l'Unesco.
Tutto ha inizio negli ultimi mesi del 2004. La società Lagocastello, di proprietà di Antonio Muto, calabrese di Cutro, in provincia di Crotone, diventato negli anni uno dei più ricchi e potenti costruttori del mantovano, presenta un progetto all'amministrazione comunale, allora retta dal diessino Gianfranco Burchiellaro. Per vararlo è però necessaria una variante urbanistica, che viene approvata facendo una corsa contro il tempo, evitando che la fine della legislatura, nella primavera del 2005, blocchi tutto. I consiglieri della maggioranza vengono precettati, uno di loro, in ospedale per assistere un parente, viene prelevato dai vigili. Più volte manca il numero legale, ma alla fine la variante passa con i voti di due consiglieri del centrodestra. E subito partono il cantiere e gli sbancamenti.
Ma contro quell'insediamento monta la protesta di una parte della città. Alle elezioni del 2005 si candida a sindaco per i Ds Fiorenza Brioni che fin dalle prime battute della campagna elettorale annuncia che farà di tutto per bloccare il progetto di Muto. Gli elettori la premiano con una netta vittoria al ballottaggio. Appena insediata, Brioni parte lancia in resta, ma si accorge subito che parte del suo stesso gruppo non la segue. Inoltre le procedure amministrative per superare il voto del precedente Consiglio comunale non sono semplici. Ma anche il progetto di edificazione ha i suoi punti deboli. Li scova un ingegnere esperto di norme urbanistiche e consulente di molte Procure, Paolo Rabitti: il piano interessa un'area grande una trentina di ettari ed essendo incluso nel perimetro del Parco del Mincio necessita di una Via (Valutazione di impatto ambientale). Che non c'è. E dunque è viziato. Il sindaco firma un provvedimento che sospende i lavori. Ma contro questa decisione il costruttore fa ricorso al Tar, ottenendo che il provvedimento sia sospeso.
Inizia un braccio di ferro interminabile, fatto di ricorsi e di pronunce del Tar e del Consiglio di Stato. Intanto si mobilitano le associazioni ambientaliste - Italia Nostra, il Fai, Legambiente - tutte a sostegno del sindaco. Interviene Salvatore Settis. A favore delle villette si schiera invece Vittorio Sgarbi. Il caso mantovano diventa un caso nazionale. Nel 2007 viene emesso dalla Soprintendenza un primo vincolo, che però viene bocciato dal Tar. Il vincolo viene riproposto nel 2009 e questa volta, siamo nel marzo del 2011, passa il vaglio dei giudici amministrativi. Inoltre il Consiglio di Stato stabilisce che la Via è obbligatoria, nonostante quanto sostiene una perizia tutta a favore dei costruttori: la firma l'allora Provveditore alle opere pubbliche della Toscana, Fabio De Santis, finito in galera nell'inchiesta contro Angelo Balducci, Diego Anemone e gli altri della "cricca".
Nel frattempo è cambiata la scena politica cittadina. Nel 2010 Fiorenza Brioni è stata sconfitta alle elezioni (in molti hanno parlato di "fuoco amico" alimentato proprio dalla polemica sulla lottizzazione) e sindaco è stato eletto Nicola Sodano, Pdl. Che ha assunto un atteggiamento molto più morbido verso i costruttori, preoccupato, ha dichiarato, per le richieste di risarcimento minacciate da Antonio Muto. Il quale conta su diversi amici nel partito del sindaco, fra i quali Carlo Acerbi, capogruppo in Consiglio comunale e amministratore della società Ecologia & Sviluppo s. r. l. di cui Muto è socio unico.
La vicenda è alle ultime battute. Il Consiglio di Stato deve decidere se sono prevalenti le ragioni di un privato che da un decennio guarda alle sponde del Mincio e alle mura di Mantova come un'irripetibile occasione di business. O se invece vale di più la difesa di un paesaggio che resterebbe intatto soltanto sullo sfondo di un quadro.
“Il sentiero”. Si chiama così una delle tele che Carlo Levi – sì, lo scrittore di Cristo si è fermato a Eboli era anche un pittore di razza – ha dipinto sulle alture di Alassio. In cinquanta centimetri per sessanta ci sono la luce, la vegetazione, la bellezza della Liguria degli anni Cinquanta. Oggi, chissà, Levi camminando sulla stessa collina potrebbe dipingere un quadro titolato “Il cantiere”. Per anni è stato un assalto incessante di ruspe e gru. Ovunque. L’ultimo: il progetto di Punta Murena, proprio di fronte al paradiso naturalistico dell’Isola Gallinara.
“Ma per combattere le battaglie, ci vuole anche qualche vittoria. C’è bisogno ogni tanto di una buona notizia”, sorride Antonio Ricci, alassino, un passato da professore, un presente da padre di “Striscia la notizia”.
Eccola, allora: Villa La Pergola con il suo straordinario parco riapre al pubblico. È una novità importante, ma è anche e soprattutto un segnale per chi in Liguria si batte contro la cementificazione e da anni deve registrare tante sconfitte. Invece oggi (dalle 15.30 alle 18) e domani (dalle 10 alle 18) i cancelli della famosa villa saranno aperti con la collaborazione del Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano). “Quaranta studenti di licei classici e scientifici, di istituti agrari e alberghieri faranno da guida nel parco”, racconta Ricci. È proprio lui che ha messo insieme la cordata improvvisata che ha acquistato la Pergola e il Pergolino: “Mi sono gasato e ho deciso di provare. Senza pensarci e senza ascoltare gli avvertimenti di mia moglie”, aveva raccontato Ricci nel 2006. Certo, un’impresa un po’ “folle”: comprare due ville costruite dagli inglesi alla fine dell’Ottocento con lo splendido parco (forse il vero tesoro), metterle a posto, mantenerle. Ma la posta in gioco è grossa: sul Pergolino avevano messo gli occhi immobiliaristi, per occupare definitivamente la collina di Alassio.
Ma non sarà così facile, adesso: “Abbiamo salvato la villa e chiuso la strada che avrebbe portato alla conquista della collina”, spiega Ricci. Che ha mantenuto la promessa fatta anni fa: “La Pergola sarà aperta ai ragazzi”.
Una storia che è diventata anche un libro : Un sogno inglese in Riviera, le stagioni di villa della Pergola (a cura di Alessandro Bartoli, Mondadori Electa). Dalle memorie vittoriane di aristocratici e scrittori inglesi nella Riviera Ligure al recupero della villa. Dal generale McMurdo, dal cugino di Virginia Woolf, Walter Dalrymple, dalla famiglia Hanbury fino al padre del Gabibbo. Che ha vinto un’altra battaglia, quella contro i grattacieli di Albenga. La cittadina che sognava di diventare una specie di Manhattan della Riviera.
Ma le vittorie si contano sulle dita di una mano, in una cittadina, in una regione che somiglia sempre più a quella descritta da Italo Calvino nella Speculazione edilizia. Le colate di cemento, gli appetiti che suscitano tra imprenditori, politici e cittadini sono gli stessi degli anni Cinquanta. La Liguria, però, non è in grado di reggere un’altra rapallizzazione, con progetti che ogni giorno sorgono con il placet di centro-destra e centrosinistra.
Alassio da anni è uno dei campi di battaglia. La collina di Carlo Levi, della Pergola, punteggiata da gru. Il sindaco è stato a lungo l’architetto Marco Melgrati (Pdl). Guidava il Comune e firmava progetti guadagnandosi una sfilza di avvisi di garanzia per illeciti urbanistici per poi presentarsi in tribunale con la bandana stile Cavaliere. “Oggi il nuovo sindaco (che poi è Roberto Avogadro, in passato già sindaco con il Carroccio) guida una lista civica composta da ex leghisti, ma anche da assessori del centrosinistra.
Finora hanno dimostrato di voler frenare l’invasione del cemento”, racconta Giovanna Fazio, presidente di Italia Nostra Alassio. Aggiunge: “Il Comune è intervenuto per frenare i progetti di altre villette in collina (alla Madonna delle Grazie) e del megaparcheggio sotterraneo sotto lo storico tennis. Ma resta il progetto di Punta Murena, un promontorio affacciato sull’isola della Gallinara. Un luogo meraviglioso, uno dei più belli e delicati della Liguria”, racconta Fazio. Italia Nostra e il Wwf si sono battuti contro il progetto. Ma sarà dura: il consiglio comunale due anni fa ha approvato la costruzione di appartamenti all’interno della villa e della dependance di Punta Murena. Poi bungalow. I progettisti? “Tra gli altri, l’ex sindaco Melgrati”.