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Il rischio di impresa nel caso del Ponte è in capo alla Stretto di Messina spa. Una società di diritto privato ma con soci e capitale tutti pubblici: Iritecna, Anas, Regione Calabria e Regione Sicilia.

Il 6 novembre scorso il ministro dei Trasporti Altero Mattioli dichiarò: «Confermo che il Ponte si realizza in gran parte con capitali privati attraverso il project financing. I capitali pubblici servono solo per le opere a terra».Ma è davvero così? Il Ponte di Messina sarà finanziato dai privati? La risposta è no. Alla fine sarà solo lo Stato a farsene carico. Fu così anche con il sistema Tav. Si disse che l’opera sarebbe stata garantita dalle grandi imprese. I mille chilometri di Alta Velocità sono finiti, invece, tutti sulle spalle del cittadino. A una cifra salatissima: 32 milioni a chilometro, secondo i parametri delle Ferrovie, 60 milioni secondo le stime di comitati indipendenti. Comunque dalle tre alle cinque volte rispetto al prezzo iniziale.

LO SCHEMA

Per il Ponte non andrà diversamente. Lo schema o la catena contrattuale, come ci spiega Ivan Cicconi, direttore dell’Istituto per la Trasparenza Aggiornamento e Certificazione Appalti (Itaca) sono gli stessi. Come nell’Alta Velocità, l’architrave dell’inganno sta nell’affidamento «da parte dello Stato alla Stretto di Messina Spa della concessione per la costruzione e la gestione dell’opera». Normalmente è attraverso la gestione che si dovrebbe recuperare l’investimento che si fa. Èil rischio che un’impresa corre. Costruisce l’opera e poi ne gestisce i guadagni.

Ma non in questo caso. «Il rischio nel caso del Ponte è in capo alla Stretto di Messina spa. Una società di diritto privato ma con soci e capitale tutti pubblici». Come Iritecna, che è posseduta al100%dal ministero dell’Economia, Anas spa, di proprietà del Tesoro, e quote insignificanti della Regione Calabria e della Regione Sicilia.

Il costruttore, invece, è un altro. In questo caso è un consorzio di imprese guidato da Impregilo, che assume il ruolo di «general contractor ».Che vuol dire? L’affidamento a contraente generale si differenzia da un normale appalto pubblico per un elemento: «Il contraente generale - spiega Cicconi – è un concessionario. E quindi è quello che fa la progettazione esecutiva e che nomina la direzione dei lavori». In poche parole è quello che esegue i lavori e che li dovrebbe controllare.

Che cosa rischia il contraente generale? Dal punto di vista finanziario nulla. «È pagato al 100% dallo Stretto di Messina spa, con la semplice differenza, rispetto a un appalto, che anticipa circa il20%del costo di costruzione». Ma è solo una partita di giro. Alla fine dei lavori il consorzio avrà comunque i suoi soldi indietro. Ne deriva che il contraente generale non ha nessun interesse oggettivo e soggettivo a fare presto e bene. «Potrà aumentare i costi dell’opera, come è successo con la Tav, come vorrà. Nessuno potrà contestargli rialzi nei prezzi». In qualsiasi caso, sia ci metta cinque anni, come scritto nel contratto, sia venti come è plausibile avvenga, è pagato al 100% da Stretto di Messina spa.

CHI GUADAGNA E CHI PERDE

In sostanza, lo schema consente di avere duepiccioni con unafava. Permette alle grandi imprese costruttrici di avere guadagni sicuri ma anche alle banche di fare affari certi. In che modo? Siccome Stretto di Messina è una spa, e quindi è fuori dai conteggi del Parametro di Stabilità europei, può richiedere qualsiasi tipo di finanziamento. Di solito i prestiti e relativi interessi sono coperti attraverso la gestione dell’opera (in questo caso i pedaggi). «Ma è stato calcolato - spiega Cicconi - che per recuperare l’investimento sul Ponte solo con gli introiti di gestione occorrano dai 150 ai 200 anni». Un lasso di tempo un po’ troppo lungo per le banche. Quindi sarà lo Stato a dover sborsare subito i soldi. «È il cosiddetto debito a babbo morto». Proprio come successo con la Tav nel 2006. Quando pagammo alle banche.

Messina. Vinci un superappalto e cinque anni dopo ti ritrovi con un contratto nuovo. Ancora più "super". Che il Ponte sullo Stretto sia un'opera dal costo faraonico è noto. Ciò che ancora non si sa è che Eurolink, il consorzio con capofila Impregilo che dovrà unire Scilla e Cariddi, s'è visto riconoscere a settembre dalla società Stretto di Messina una maggiorazione sul compenso altrettanto faraonica: un miliardo e 90 milioni in più rispetto al corrispettivo pattuito nel 2005. Che è lievitato da quasi 4 miliardi di euro (3.879.600, per l'esattezza) a 4.969.530. E tutto questo senza aver mosso una pietra. Con l'effetto non solo di annullare il ribasso del 12% con cui il cartello di imprese - che comprende anche Condotte, Cmc, la spagnola Sacyr e la giapponese Ishigawa - si era aggiudicata la gara, ma addirittura di accrescere il compenso in misura più che doppia rispetto allo stesso ribasso.

Il nuovo corrispettivo è fissato nella relazione di aggiornamento del piano finanziario dell'opera, firmato dall'amministratore delegato della Stretto di Messina e presidente dell'Anas Piero Ciucci e inviato per conoscenza al governo. Nella relazione, Ciucci sdogana la maggiorazione con la necessità di adeguare il valore di base definito con la gara alla dinamica dei prezzi e dei costi intervenuta e prevista tra il 2002 (chiusura del progetto preliminare) e il 2011, data presunta dell'approvazione del progetto definitivo. Che, è bene ricordare, non c'è ancora. Nel documento, non mancano i punti che lasciano perplesso più di un economista. A partire da Guido Signorino, ordinario di Economia applicata all'Università di Messina e membro del Centro studi per l'area dello Stretto Fortunata Pellizzeri. Che osserva: "In poco tempo, mentre non si è mossa una ruspa, la commessa è lievitata del 28%, anche se, nello stesso periodo, la dinamica dei prezzi ha raggiunto record secolari di stabilità". Che cosa hanno fatto, invece, alla Stretto di Messina? Un esempio utile è quello dell'acciaio: l'accordo giustifica l'aumento del corrispettivo citando anche "l'eccezionale aumento dei prezzi registrato tra il 2003 e il 2004" e l'andamento dell'inflazione intervenuta e attesa nel periodo 2002-2011. Curioso che la valutazione dei prezzi si proietti al 2011, mentre quella dei costi si fermi al 2004. Se la Stretto di Messina avesse considerato l'andamento del costo dell'acciaio fino al 2009, avrebbe scoperto che questo è calato di molto, e che le stime del trend di domanda e offerta fino al 2011 dovrebbero far prevedere un assestamento su un valore molto più basso di quello del 2004.

Le perplessità, però, non finiscono qui. Stranamente, il corrispettivo dei lavori cresce di oltre un miliardo, mentre la stima del valore finale dell'opera - che include gli oneri finanziari - aumenta di soli 200 milioni, passando da 6,1 a 6,3 miliardi. Insomma, se da un lato è aumentata del 28% la somma da versare all'impresa, dall'altro il valore stimato del Ponte è cresciuto solo del 3,3. Una contraddizione che si può spiegare così: aumentare il valore dell'opera oltre i 6,3 miliardi avrebbe significato esporsi alle critiche di chi sostiene già adesso che l'investimento è troppo costoso e non remunerativo. Resta poi da spiegare per quale motivo in questi anni la Stretto di Messina non abbia ridotto il valore finale dell'opera, proporzionandolo al ribasso offerto dalla cordata vincitrice. La Corte dei Conti informa, infatti, che nel 2008 la società indicava ancora un costo finale pari a circa 6 miliardi, quando il ribasso offerto da Impregilo avrebbe dovuto far scendere il valore attorno ai 5 e mezzo. Secondo Signorino, questa scelta potrebbe significare che il ribasso col quale il consorzio ha vinto la gara era eccessivo: "Stretto di Messina ha tenuto invariata la stima del costo finale dell'opera, quando avrebbe fatto meglio a rifiutare l'offerta". In proposito, è il caso di ricordare che l'appalto fu impugnato al Tar da Astaldi, che aveva partecipato alla gara, e che il suo presidente Vittorio Di Paola dichiarò come "sul maxi ribasso di Impregilo" bisognasse riflettere. Ma il ricorso non andò avanti, perché il governo Prodi dichiarò il Ponte opera non più prioritaria, facendo venir meno l'oggetto del contendere.

Un altro aspetto da ricordare è che per anni si è paventato di dover pagare a Eurolink penali pesantissime nel caso in cui l'opera fosse stata fermata dal governo senza mai arrivare al progetto definitivo. In realtà, afferma Ciucci, al consorzio non sarebbero dovute penali qualora venisse intimato l'alt anche dopo aver ricevuto il progetto definitivo e quello esecutivo: le penali sono invece dovute se lo stop avvenisse anche un solo giorno dopo l'inizio dei lavori.

E qui si apre un'altra questione. Per il governo, i lavori del Ponte sono ufficialmente iniziati il 23 dicembre, con la prima pietra del progetto di spostamento di un binario nella frazione Cannitello di Villa San Giovanni. Si tratta di un'opera che avrebbero dovuto eseguire le Ferrovie e che, invece, il Cipe ha dichiarato a luglio di competenza della Stretto di Messina, "calandola" nel progetto Ponte. Il 23 dicembre le ruspe hanno iniziato a lavorare, fermandosi subito dopo per la pausa natalizia. Da allora il cantiere non è avanzato. Né poteva essere altrimenti, visto che dell'opera non esiste il progetto definitivo né la relativa variante urbanistica è mai stata approvata. Anzi, la Regione Calabria ha fatto ricorso al Tar e alla Corte costituzionale, lamentando di non essere stata sentita prima che il Cipe classificasse l'opera come preliminare al Ponte (al quale la giunta calabrese di centrosinistra si oppone).

Ma c'è di più: il terreno su cui le ruspe hanno lavorato per qualche giorno non è ancora stato espropriato, come confermano i proprietari. Eppure, su questo bluff Eurolink potrebbe fondare la futura pretesa di penali. Calcolate sul nuovo corrispettivo astronomico.

La Corte dei Conti boccia il ponte sullo Stretto di Messina. Dopo anni di battaglie degli ambientalisti, arriva ora il suggello della massima magistratura contabile che demolisce punto su punto i pilastri progettuali dell’infrastruttura. Sotto accusa i costi elevatissimi, la fattibilità tecnica e la compatibilità ambientale. Ma andiamo con ordine. La Corte dei Conti ha innanzitutto ricordato che la spesa per l’opera, risultante dall’importo previsto nel progetto preliminare approvato nel 2003, ammonta a 4,68 miliardi di euro ma che nell’Allegato Infrastrutture al Dpef 2009/2013 l’importo per il ponte sullo Stretto di Messina è indicato in 6,1 miliardi (la stessa cifra è indicata nel Dpef 2010/2013).

Conti alla mano, un aumento di oltre 1,5 miliardi. Sotto accusa della magistratura contabile anche le stime del traffico, formulate nel 2001 e che oggi «potrebbero verosimilmente non solo essere non più aggiornate ai tempi attuali, ma anche non coerenti con il quadro economico della sopraggiunta congiuntura economica». In due parole: bisogna rifare tutti i conti. «Solo un’adeguata stima dei volumi di traffico viario e ferroviario potrà effettivamente consentire, rispettando il quadro della finanza di progetto su cui si fonda circa il 60% delle risorse complessive, di sostenere gli oneri finanziari per interessi che graveranno sui capitali presi a mutuo».

Riguardo alla fattibilità tecnica, la Corte segnala che «il modello progettuale infrange ogni primato sinora esistente: rispetto al ponte più lungo ad unica campata attualmente esistente al mondo, il ponte giapponese di Akashi-Kaiky con una campata unica di metri 1.991,quello sullo stretto di Messina avrebbe una lunghezza superiore del 39,6%, pari a metri 3.300». E il j’accuse dei giudici contabili non si ferma qui. La Corte ha infatti raccomandato all’Amministrazione di valutare attentamente le questioni ambientali «al fine di rendere compatibile l’intervento con le misure di tutela e protezione adottate nell’area».

Un’analisi costi-benefici che delinea uno scenario di oggettivo spreco di risorse e che, naturalmente, fa esultare i Verdi e gli ambientalisti: «Quelle della Corte dei Conti - rileva il presidente del Sole che ride, Angelo Bonelli - sono le stesse obiezioni che da sempre poniamo al governo Berlusconi su un’opera costosissima e senza alcuna utilità. Il governo eviti di buttare letteralmente a mare circa 7 miliardi di euro per il Ponte. Le vere priorità dell’Italia e del Mezzogiorno sono altre: lotta al dissesto idrogeologico, realizzazione di collegamenti ferroviari efficienti e realizzazione di una rete idrica per portare l’acqua in città che ancora sono servite da autobotti».

Gli fa eco il senatore Pd Roberto Della Seta: «Prima ancora dell’apertura dei cantieri il costo preventivato per l’opera è già lievitato di un miliardo e mezzo». Dal 17 dicembre del 1971, giorno in cui il governo Colombo approvò la legge 1158 che autorizzava la creazione di una società concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione del collegamento stabile viario e ferroviario, sono passati 39 anni. Miliardi al vento. E della prima pietra si son perse le tracce.

Il sito Terra è raggiungibile qui

Messina. Tre ore scarse di lavoro, uno sbancamento di qualche centinaio di metri quadrati, due ruspe “prese a prestito”, un cancello chiuso con lucchetto e sigillato con legature in fil di ferro, e tanti saluti. Ci si rivede il 7 gennaio. La posa della prima pietra del ponte, attesa da quarant’anni, è tutta qui. Le defezioni del premier Silvio Berlusconi prima e del ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli dopo l’hanno azzoppata. Le continue puntualizzazioni del personale presente sul fatto che si trattasse dell’apertura del cantiere senza alcuna pietra da posare, hanno fatto il resto. Il ponte sullo Stretto nasce così.

Un mercoledì da leoni

“Guardi, non ci risulta che ci sia alcun coinvolgimento di Impregilo, non è prevista nessuna attività. Noi non ne sappiamo niente”. L’ufficio relazioni pubbliche di Impregilo, impresa capofila di Eurolink, l’associazione temporanea di imprese che materialmente dovrebbe costruire costruire il ponte, della posa della prima pietra non ne sa nulla. Al momento simbolico mancano una quindicina di ore. È il pomeriggio di martedì 22 dicembre. A Cannitello di cantieri non ce n’è ombra, nemmeno la rete arancione che delimita il cantiere. “A dire la verità noi non ne sappiamo granché. Ad occuparsi di tutto dovrebbe essere Eurolink. Comunque, si tratterà delle opere propedeutiche ai cantieri, messa in sicurezza e cose del genere”. Anche alla Stretto di Messina cadono dalle nuvole. Della prima pietra nessuno ne ha conoscenza, su chi la poserà c’è il più assoluto mistero. E dire che Impregilo dell’inizio dei lavori dovrebbe saperne qualcosa, visto che la sua quota di già stanziati per il ponte è di circa 500 milioni di euro, e che il suo titolo a piazza Affari a Milano ha registrato un’impennata del 3,36% alla comunicazione dell’inizio dei lavori.

In realtà, un tecnico del colosso delle costruzioni di Sesto San Giovanni a Cannitello c’è. Si chiama Paolo Brogani, e dirige i lavori sotto la supervisione dell’Anas. Che lavori? “Quelli propedeutici all’apertura dei cantieri”, è il mantra ripetuto allo sfinimento dalla decina di tecnici e addetti ai lavori presenti. Di prima pietra nemmeno a parlarne: il progetto della variante di Cannitello è ancora “sub judice”, impossibile posare prime pietre. A fianco dello spiazzo parzialmente “bonificato”, scorre la ferrovia. Se tutto va secondo i piani, tra 18 mesi scorrerà qualche metro più in alto. “Massimo 35, nel tratto di maggiore ampiezza della curva”, spiegano dall’Anas. Ad eseguire i lavori, si affannano a sottolineare i responsabili, è l’Eurolink, l’associazione di imprese capeggiata da Impregilo che ha ottenuto il ruolo di general contractor. Una notizia vera a metà. O anche meno.

Mi presti la ruspa?

Al lavoro nel cantiere ci sono due mezzi. Un escavatore rosso ed una ruspa gialla. Entrambi, nelle fiancate, hanno attaccati alla bell’e meglio gli adesivi “Eurolink Scpa”. Terminati i lavori, e stesa la rete arancione, i cingolati se ne vanno. L’escavatore giusto una decina di metri più in là, dentro un cantiere privato a spostare massi. Il proprietario, della prima pietra, non vuole saperne niente. “Sacciu nenti du ponti, ieu”, esclama allargando le braccia. La ruspa, invece, viene caricata su un camion, diretta al luogo d’origine: il terzo macrolotto dell’autostrada A3. L’eterna incompiuta Salerno-Reggio Calabria. Perché, sotto l’adesivo Eurolink, spunta il nome dell’impresa proprietaria del mezzo. Che è la Europea 92 di Isernia, al lavoro sull’autostrada in un consorzio che si chiama Erea assieme alla Ricci Costruzioni.

Il consorzio Erea fa parte a sua volta di un’associazione temporanea di imprese, affidataria dei lavori del macrolotto. Un “subappalto” dato all’Ati dal committente Anas spa, che ha pensato bene di sfruttare le economie di scala, cercare in “famiglia” e fare arrivare a Cannitello un mezzo e otto operai dai vicini cantieri dell’autostrada. Beffa delle beffe, la Europea 92, per la costruzione di una diga in Algeria ha un committente “scomodo”: la Astaldi, ditta concorrente di Impregilo nell’appalto (poi aggiudicato da quest’ultima) per i lavori del ponte. Che non inizieranno, per bene che vada, prima del 10 febbraio.

I nodi irrisolti

Guido Signorino è un economista dell’Università di Messina. In due semplici parole spiega il perché del “bluff della prima pietra”. Fino al 10 febbraio il progetto è soggetto alle osservazioni da parte dei privati. Quindi, di fatto, non esiste. Non c’è”. E, a rigor di legge, non potrebbe esserci. Il perché lo spiega lo stesso Signorino. “In origine, la bretella ferroviaria (un chilometro per 23 milioni di euro, ndr) avrebbe dovuto realizzarla Rfi. Lo diceva la delibera Cipe del 2006, che sganciava l’opera dall’operazione ponte. Era un progetto che viveva di vita propria. Senonché – continua Signorino – a luglio del 2009 una nuova delibera Cipe assegna la realizzazione alla Stretto di Messina che l’affida al general contractor. Che quindi inizierà formalmente i lavori sul ponte. E se per qualsiasi motivo poi il ponte non si farà, ci saranno le penali da pagare”. Da 390 a 630 milioni di euro, secondo il Wwf, a seconda che si consideri il 10% del valore di aggiudicazione della gara o dell’investimento totale. per un’opera che, per ammissione dell’amministratore delegato della Stretto di Messina, Pietro Ciucci, non ha alcuna attinenza con il ponte. Per questo motivo, la regione Calabria ha impugnato di fronte al Tar la delibera Cipe del 31 luglio.

Inaugurazione a lutto

“Il 23 dicembre è una giornata importante. Non per la prima pietra, ma per i funerali di Franco Nisticò”. La giornata “campale”, la rete No ponte la celebra così. Franco Nisticò, ex sindaco di Badolato, è morto sabato 19 dicembre, per un infarto, subito dopo aver gridato dal palco della manifestazione contro il ponte il suo deciso “no” ad un’opera calata dall’alto che non ha mai ascoltato i bisogni di un territorio e di una comunità. “Qualcuno ha definito Franco Nisticò la prima vittima del ponte”, hanno concluso i responsabili della rete.

«È un’opera inutile e dannosa, e non ha nemmeno un progetto definitivo»Roberto Rossi, intervista ad Alessandro Bianchi

Alessandro Bianchi è stato sempre uno dei più incalliti contestatori del Ponte di Messina. Anche quando era ministro dei Trasporti, nel passato governo Prodi, non ha mai nascosto il suo scarso feeling con un’opera dalui definita «inutile, dannosa » e per la quale, ancora, «non si conoscono bene tutti problemi legati all’impatto della struttura».

Com’è possibile che a pochi giorni dalla posa della prima pietra non si abbia ancora un quadro chiaro sui costi e benefici dell’opera?

«Semplicemente perché non è stato presentato un progetto definitivo. Le opere pubbliche hanno bisogno di tre tipi di progetti prima di poter iniziare la costruzione: quello di massima, quello definitivo, sul quale vengono rilasciate le varie autorizzazioni e fatte le verifiche ambientali, e poi un progetto esecutivo sul quale si realizza l’opera. Ecco non esiste né il progetto esecutivo né quello definitivo. Esiste solo il progetto di massima. Tutte le verifiche di impatto ambientale non si sono fatte e non si possono fare perché non c’è uno schema completo ».

I problemi strutturali sono tutti aperti.

«Certo. I geologi dell’area hanno fatto vedere che il pilone che ricadrebbe sul territorio calabrese, a Villa San Giovanni - Cannitello, va ad appoggiare su un punto di frana naturale. Questo in condizioni normali. Si immagini con un peso di quel genere. Con un piccolo sisma avremmo danni incalcolabili».

Un terremoto da quelle parti non è un fatto così inusuale.

«Tenga conto che quella è una delle tre zone a più alta pericolosità sismica del mondo dopo Giappone e California. Il terremoto di Messina del 1908 è stato uno di quelli con maggiore magnitudo. Quindi è molto probabile che avvengano sismi anche di intensità non elevata ma che metterebbero a rischio la struttura del Ponte».

Secondo lei, dunque, si parte alla cieca. Per realizzare poi cosa?

«Un’opera che non serve a nessuno. Non serve ai calabresi che non hanno strade per raggiungerla, non serve ai messinesi che ne saranno scavalcati ».

Scavalcati?

«Se parto dalla Calabria e sto sul Ponte quando arrivo dall’altra parte, dove finisce l’acqua, Messina me la ritrovo sotto, a 70 metri più in basso. E siccome per guadagnare terra serve una pendenza dello 0,01 per cento, altrimenti i treni deragliano, occorrono decine di chilometri di svincoli per poter arrivare in Sicilia. Quindi parto da Reggio ma arrivo a Milazzo o a Catania».

È stato detto che il Ponte è strategico perché ci avvicina all’Africa..

«Anche questa è una bella bufala. Ammesso che si riuscisse ad attraversarlo visto che ci sono mesi, specie quelli invernali, che dovrebbe star chiuso per i forti venti, una volta sbarcati in Sicilia si arriva a Mazara del Vallo e poi? Poi si resta lì perché c’è il mare».

Secondo lei è anche dannoso, perché? «Nessuno ha idea dell’impatto che questa opera avrebbe. Il territorio, il paesaggio, le culture agricole verrebbero devastati per chilometri e chilometri. Si pensi ai laghi di Ganzirri, distrutti per sempre. Ci saranno delle ricadute tali che nessuno immagina». Forse perché nessuno ha voglia di tirarle fuori.

Lo stesso schema della Tav: i privati lucrano, lo Stato pagaIntervista di Roberto Rossi ad Ivan Cicconi

Il 6 novembre scorso il ministro dei Trasporti Altero Mattioli dichiarò: «Confermo che il Ponte si realizza in gran parte con capitali privati attraverso il project financing. I capitali pubblici servono solo per le opere a terra».Maè davvero così? Il Ponte di Messina sarà finanziato dai privati? La risposta è no. Alla fine sarà solo lo Stato a farsene carico. Fu così anche con il sistema Tav. Si disse che l’opera sarebbe stata garantita dalle grandi imprese. I mille chilometri di Alta Velocità sono finiti, invece, tutti sulle spalle del cittadino. A una cifra salatissima: 32 milioni a chilometro, secondo i parametri delle Ferrovie, 60 milioni secondo le stime di comitati indipendenti. Comunque dalle tre alle cinque volte rispetto al prezzo iniziale.

LO SCHEMA

Per il Ponte non andrà diversamente. Lo schema o la catena contrattuale, come ci spiega Ivan Cicconi, direttore dell’Istituto per la Trasparenza Aggiornamento e Certificazione Appalti (Itaca) sono gli stessi. Come nell’Alta Velocità, l’architrave dell’inganno sta nell’affidamento «da parte dello Stato alla Stretto di Messina Spa della concessione per la costruzione e la gestione dell’opera». Normalmente è attraverso la gestione che si dovrebbe recuperare l’investimento che si fa. Èil rischio che un’impresa corre. Costruisce l’opera e poi ne gestisce i guadagni. Ma non in questo caso. «Il rischio nel caso del Ponte è in capo alla Stretto di Messina spa. Una società di diritto privato ma con soci e capitale tutti pubblici». Come Iritecna, che è posseduta al100%dal ministero dell’Economia, Anas spa, di proprietà del Tesoro, e quote insignificanti della Regione Calabria e della Regione Sicilia. Il costruttore, invece, è un altro. In questo caso è un consorzio di imprese guidato da Impregilo, che assume il ruolo di «general contractor ».Chevuol dire? L’affidamento a contraente generale si differenzia da un normale appalto pubblico per un elemento: «Il contraente generale - spiega Cicconi - èun concessionario. E quindi è quello che fa la progettazione esecutiva e che nomina la direzione dei lavori». In poche parole è quello che esegue i lavori e che li dovrebbe controllare. Che cosa rischia il contraente generale? Dal punto di vista finanziario nulla. «È pagato al 100% dallo Stretto di Messina spa, con la semplice differenza, rispetto a un appalto, che anticipa circa il20%del costo di costruzione». Ma è solo una partita di giro. Alla fine dei lavori il consorzio avràcomunque i suoi soldi indietro. Ne deriva che il contraente generalenon ha nessun interesse oggettivo e soggettivo a fare presto e bene. «Potrà aumentare i costi dell’opera, come è successo con la Tav, come vorrà. Nessuno potrà contestargli rialzi nei prezzi». In qualsiasi caso, sia ci metta cinque anni, come scritto nel contratto, sia venti come è plausibile avvenga, è pagato al 100% da Stretto di Messina spa.

CHI GUADAGNA E CHI PERDE

In sostanza, lo schema consente di avere due piccioni con una fava. Permette alle grandi imprese costruttrici di avere guadagni sicuri ma anche alle banche di fare affari certi. In che modo? Siccome Stretto di Messina è una spa, e quindi è fuori dai conteggi del Parametro di Stabilità europei, può richiedere qualsiasi tipo di finanziamento. Di solito i prestiti e relativi interessi sono coparto attraverso la gestione dell’opera (in questo caso i pedaggi). «Ma è stato calcolato - spiega Cicconi - che per recuperare l’investimento sul Ponte solo con gli introiti di gestione occorrano dai 150 ai 200 anni». Un lasso di tempo un po’ troppo lungo per le banche. Quindi sarà lo Stato a dover sborsare subito i soldi. «È il cosiddetto debito a babbo morto». Proprio come successo con la Tav nel 2006. Quando pagammo alle banche 13 miliardi di euro. In contanti.

Il bluff della prima pietra: costi in più per i contribuenti

Iolanda Bufalini

È stato annunciato in pompa magna e, nei piani originari, sarebbe dovuto andare Berlusconi. Ma,in realtà, cosa succederà il 23 dicembre? Il cantiere che si apre è quello della variante di Cannitello, lo spostamento di un tratto di binari ferroviari dal centro di Villa San Giovanni all’esterno della cittadina. Un investimento pubblico di 26 milioni di euro che non ha a che fare direttamente con il Ponte e che, probabilmente, sarebbe stato più utile investire in opere più urgenti sulla costa calabra (a cominciare dai problemi del dissesto idro-geologico). Tanto più che ad oggi non esiste un progetto esecutivo per la Grande opera dello Stretto e ancora non si sa se effettivamente si potrà fare. Le obiezioni degli esperti sono, infatti, molto importanti e numerose.

Il ponte chiuso dal vento.

A cominciare da quelle formulate da Remo Calzona, che è stato consulente dell’Anas e del governo ma che da convinto sostenitore è diventato fortemente critico. Per l’ingegnere la campata troppo lunga rischia di oscillare al forte vento dello stretto e il ponte di restare chiuso per 200 giorni l’anno.

L’evoluzione dei grattacieli.

Un altro ingegnere che ha sollevato forti critiche alla campata unica è Federico Mazzolari, che insegna alla Università Federico II di Napoli: «Prima di parlare di ponti - sostiene Mazzolari - può essere istruttivo esaminare l’evoluzione dei grattacieli» Dal 1931, anno di costruzione dell’Empire State Building (alto 381 metri) al 1973, anno di inaugurazione delle sfortunate Twin Towers (415 metri) , fino ai 450 metri delle Torri di Kuala Lumpur in Malesia, la crescita dei grattacieli è stata di 127 metri in 73 anni. Un’evoluzione veloce nei primi anni e poi costante ma abbastanza lenta. Passando ai ponti: i primi a superare la lunghezza dei mille metri furono il Washington Bridge di New York e il Golden Gate di San Francisco (1931). Oggi il ponte più lungo è l’Akashi-Kaikyo Bridge in Giappone (1990 metri): ci sono voluti settanta anni perché l’evoluzione delle tecniche ingegneristiche consentissero un aumento di 900 metri della luce di un ponte a campata unica. La domanda è: quali innovazioni tecnologiche consentono oggi di fare un salto di oltre mille metri per raggiungere i 3 chilometri e 300 che distanziano Scilla e Cariddi? Gli esperti non hanno notizia di innovazioni tecnologiche eccezionali che, in ogni caso, dovrebbero essere oggetto di confronto scientifico. Tanto più che il ponte sullo Stretto dovrà consentire anche il passaggio dei treni. Il ponte di Lisbona costruito sul fiume Tago nel 1973 è stato il primo tentativo di utilizzazione mista, ferroviaria e stradale. È lungo poco più di un chilometro e, per i treni, è rimasto chiuso fino al 1998, dopo 25 anni di lavori di adeguamento della struttura.

Ponte sullo Stretto, il grande spot. L'avvio ai lavori. Ma è bluffJolanda Bufalini

Un’unica grande via trans/europea che da Berlino arriva a Palermo, scavando il Brennero e gettando l’avveniristico ponte con tremilatrecento metri di luce sullo Stretto. Sogno ingegneristico ed economico per unire la Sicilia al continente ma, come dice uno spot sul gioco responsabile, «bisogna sognare senza illudersi». Altrimenti il risveglio potrebbe essere brusco e la scommessa foriera di cattive sorprese: «Attenti a non unire due cosche anziché due coste», mette in guardia la rete «No ponte». A scendere dal mondo dei sogni con i piedi per terra dovrebbero aiutarci gli studi preliminari (1986 e 2003) che proiettavano le loro ipotesi al 2012.

«Ma ormai ci siamo» osserva Gaetano Giunta, che è stato presidente della commissione sul Ponte del consiglio comunale di Messina. «Oggi quelle previsioni le possiamo confrontare con ciò che è successo». Le previsioni sulle magnifiche sorti e progressive dell’economia siciliana stimavano 8 milioni di passeggeri sullo Stretto nel 2000, 9 milioni 700mila nel 2012 (un aumento del 20 per cento su base annua nel caso di una crescita economica bassa) oppure 12 milioni 300mila in caso di crescita economica alta (un aumento 52%).

Queste stime si sono rivelate sbagliate per più motivi. Purtroppo la crescita economica non è stata quella prospettata: gli estensori dello Studio di impatto ambientale ipotizzavano che il Pil sarebbe cresciuto del 4,4% nell’ipotesi migliore e dell’1,7%, nell’ipotesi peggiore. «E ci marciavano - sostiene Gaetano Giunta - perché il traffico passeggeri non cresce di pari passo con il Pil». Come sono andate effettivamente le cose? Nel periodo 2001-2007 l’economia siciliana è cresciuta dello 0.9 % e quella calabrese dell’1%, l’anno migliore è stato il 2001 (2,8%), dal 2002 in poi lo sviluppo è stato sempre inferiore a quello del Centro nord.

Merci via mare

Ma, in tutti questi anni, che le cose andassero bene o male, il traffico marittimo delle merci sullo Stretto è sempre diminuito mentre è cresciuto l’export via mare da Palermo, Trapani, Catania, Messina e, ovviamente, da Gioia Tauro. È per mare che le merci arrivano da e per il Nord e, si presume, tanto più si svilupperanno negli anni in cui il gigantesco cantiere metterà sottosopra Scilla e Cariddi. Chi è che fa la spola nei traghetti dello Stretto? Oltre ai pendolari fra Messina e Reggio (poco trans/europei) ci sono i “padroncini”. I possessori di un furgone o camioncino che portano la merce da paese a paese: un traffico residuale che difficilmente giustifica la Grande Opera in Project Financing. Chi mette i soldi dovrebbe poter rientrare attraverso i pedaggi, ma se il traffico non giustifica l’opera, allora molto difficilmente si troveranno forze imprenditorialmente sane disposte a rischiare i 3.300 milioni di euro richiesti.

Tutto questo alimenta due tipi di preoccupazione. La prima: il Ponte potrebbe rivelarsi una grande occasione di riciclaggio per le mafie delle due sponde sinergicamente interessate al controllo del territorio, alla copertura del traffico di droga , alla gestione dei posti di lavoro. E ci sono attività come il movimento terre, gli espropri, il ciclo del cemento e i servizi ai cantieri che sono particolarmente a rischio perché settori tradizionalmente infiltrati da organizzazioni. La seconda: i costi sono ora ripartiti al 40% per lo Stato e al 60% per i privati. Ma se il Ponte fallisse chi si assumerebbe il passivo? Alla fine l’intero costo potrebbe finire a carico del debito pubblico e dei contribuenti.

È un no con molti sì, quello contro il Ponte sullo Stretto che ha manifestato a Villa S.Giovanni.

Se la parola capitale non configgesse con il termine sociale, potremmo dire che il «capitale sociale» scende in piazza per rivendicare autonomia e salvaguardia del territorio meridionale e per un altro modello di «sviluppo». Più di 150 associazioni, dai centri sociali alla Cgil, dalle associazioni culturali, ai comitati locali alle grandi associazioni ambientaliste, hanno aderito alla manifestazione contro l'insostenibile ponte sullo Stretto di Messina e sostenuto una articolata piattaforma programmatica. Messa in sicurezza delle abitazioni e delle scuole nelle aree sismiche e idrogeologicamente instabili; bonifica dei territori inquinati e del mare; un sistema di trasporti leggero, articolato, multimodale e sostenibile (anche in attraversamento dello Stretto); infrastrutture utili e necessarie, beni comuni (ad esempio e in primo luogo l'acqua); difesa e riqualificazione dei patrimoni ambientali e culturali: questi sono alcuni dei punti che qualificano lo slogan «tanti sì, un solo no - fermiamo i cantieri del ponte, lottiamo per le vere priorità».

A questo movimento, che risponde all'iniziativa della «Rete No Ponte», si sono affiancati partiti della sinistra ed istituzioni (regione, provincia e comuni). La Giunta Regionale della Calabria ha aderito alla manifestazione e, finalmente, con coerenza esce dal consiglio di amministrazione della Società Stretto di Messina.

«Capitale sociale», ovvero intelligenza collettiva che crea coesione e network sociale, a onta di chi sostiene che il Sud è solo familismo, clientela e mafia, si schiera contro il capitale finanziario e la dispossession (sfruttamento a fini di accumulazione privata) dei territori. Il no al progetto del ponte non si basa quindi soltanto sulle critiche alla inutilità trasportistica di questa assurda infrastruttura, al devastante impatto ambientale in un'area - quella tra Scilla e Cariddi - rivendicata come patrimonio dell'umanità, allo sperpero di danaro pubblico che, secondo una logica di «keynesismo all'incontrario», passerebbe dalle mani degli abitanti e dei contribuenti a quelle di poche corporation private. Il no al ponte - che peraltro ancora non dispone di progetti definitivi e esecutivi e presenta inoltre gravi carenza tecnico-strutturali e enormi rischi dal punto di vista geologico e sismico - è un no a un obsoleto concetto di modernizzazione, che si vorrebbe imporre come modello all'intero paese. Il movimento e la rete sociale e istituzionale che sono scesi in piazza affermano la priorità dei sistemi locali sostenibili e la loro autonomia a fronte dei devastanti processi di globalizzazione, la priorità della partecipazione diretta e della iniziativa dal basso a fronte della pericolosa crisi della democrazia, l'importanza della cura dei luoghi e dei patrimoni ambientali e culturali, una appartenenza riflessiva, aperta e solidaristica, strettamente connessa alla ricchezza dei milieux meridionali.

Nel denunciare l'imbroglio del presunto avvio delle opere connesse al Ponte i manifestanti di Villa si oppongono non solo e non tanto a cantieri che probabilmente non si vedranno mai, ma alla colossale truffa che si sta perpetrando ai danni dei cittadini italiani, non solo siciliani e calabresi: si accelera la procedura di riaffido del progetto ad Impregilo proprio perché in mancanza di progetto esecutivo - come spiegano diversi amministrativisti in queste ore- così verranno pagate operazioni che l'impresa potrà non eseguire e tra l'altro si riattiveranno le penali a carico dello stato, e quindi di tutta la comunità nazionale, a suo tempo congelate dal governo Prodi.

Nemmeno il finto avvio dei lavori del «binario morto di Cannitello» può essere effettuato, almeno con procedura regolare: il progetto cui esso appartiene (che non è quello del ponte) è tuttora sotto verifica di «ottemperanza delle prescrizioni ambientali» che non si potrà concludere prima del febbraio 2010 e che blocca l'avvio, anche solo formale, dell'iter. Siamo all'imbroglio nell'imbroglio.

E allora “No Ponte! significa buttare definitivamente a mare il vecchio modello di sviluppo meridionale” - tra l'altro rivelatosi fallimentare -che ha prodotto i disastri economici e ambientali di cui sono marcati i contesti siciliani e calabresi.

Il 19 dicembre si mobiliterà il popolo del «No Ponte» proprio nei giorni in cui il governo, attraverso il Cipe, ha cominciato a sperperare denaro pubblico per finanziare la progettazione del Ponte sullo Stretto di Messina, costo iniziale 6,3 miliardi di euro, ed avviare la variante ferroviaria di Cannitello a Villa San Giovanni (costo 27 milioni di euro) che è sbandierata da Matteoli come l'inaugurazione dell'opera.

La decisione del governo Berlusconi di rifinanziare il Ponte sullo Stretto, che era stato definanziato dal governo Prodi, è un insulto all'Italia che frana e alle sue vittime, ai pendolari, ai cittadini del Sud che non hanno infrastrutture ferroviarie degne di questo nome, alle centinaia di migliaia di persone che ancora oggi non hanno acqua potabile in casa a causa dell'assenza di acquedotti, alle settemila persone che ogni anno muoiono a causa dello smog provocato dal traffico nelle grandi città mentre si azzerano i fondi per il trasporto pubblico.

Il Ponte sullo stretto è il simbolo della grande contraddizione di uno sviluppo che divora risorse ambientali ed economiche non affrontando le vere priorità del paese. Le operazioni complessive attorno al Ponte e i 12 cantieri, di cui uno in pieno centro a Messina, ribalteranno l'assetto della zona interessata: solo a Ganzirri, ecosistema pregiato e protetto, si dovranno espropriare 700mila metri cubi di costruzioni, cambiare destinazione d'uso a 180mila metri quadrati di terreno.

Il Ponte è inutile e insostenibile sia sul piano economico che ambientale. La società Stretto di Messina Spa ha sottostimato i costi e i tempi di realizzazione del Ponte e sovrastimato i benefici. La società prevede sei anni e sei mesi per costruire ponte e 24 chilometri fra gallerie e raccordi. Per lo Store Baelt, in Danimarca, ci sono voluti dodici anni. Se si considera che il Ponte sullo stretto ha delle dimensioni doppie rispetto a quello danese, la stima della durata dei lavori sale almeno a 20 anni con ovvie conseguenze sui costi. Che la società (a consuntivo) valuta in sei miliardi di euro, inflazione compresa (la stima è sui prezzi 2002).

Si tratta di una valutazione che non tiene conto almeno di tre elementi: 1) l'incremento del costo dell'acciaio; 2) la credibilità dei tempi di realizzazione dell'opera; 3) l'effetto di prescrizioni e raccomandazioni che il Cipe ha fatto nell'approvare il progetto preliminare. La conseguenza è che le spese lieviteranno sicuramente almeno a nove miliardi di euro.

Anche il Capo dello Stato, dopo la tragedia di Messina, è intervenuto in modo netto: prima di realizzare opere faraoniche bisogna mettere in sicurezza il territorio. Il punto è che con quelle risorse si potrebbero realizzare infrastrutture socialmente utili dalla messa in sicurezza del territorio, ben 80 Km di metropolitana o acquistare nuovi treni per i pendolari. Il Ponte è figlio della stessa logica che ha portato il governo a reintrodurre il nucleare in Italia. Ossia quella di creare una torta di appalti pubblici, che avrà un costo per i cittadini di almeno 30 miliardi di euro, da spartire.

Ho un grande rammarico che dalle pagine del manifesto voglio ricordare. Il governo Prodi poteva chiudere definitivamente la vicenda Ponte se l'allora ministro dei Lavori pubblici, Antonio Di Pietro, non si fosse opposto allo scioglimento della Società Ponte sullo Stretto, adducendo false motivazioni di inesistenti penali da pagare. Oggi siamo a un paradosso: se Berlusconi deve ringraziare qualcuno per l'avvio dei lavori del Ponte...questi si chiama Di Pietro.

* Presidente dei Verdi

Da un punto di vista finanziario il Ponte sullo Stretto è un colosso dai piedi d’argilla. L’opera ieri ha avuto il via libera dal Cipe (il comitato interministeriale per la programmazione economica che si occupa anche di grandi opere) per la fase di progettazione. Ma la decisione del governo non cancella come d’incanto i molti dubbi che gravano sull’operazione. Sapete su che cosa poggia la fattibilità economica della struttura, cioè la possibilità che tutto il sistema possa risultare sostenibile, senza il rischio di restare travolto dai debiti crollando come un castello di carte? Sulle Ferrovie dello Stato. Proprio le Fs, la società pubblica più sussidiata d’Italia, quella del miracolo alla rovescia della Tav (Alta velocità), con l’allungamento assolutamente anomalo dei tempi di realizzazione e la moltiplicazione dei costi scaricati sul bilancio dello Stato, l’azienda che nonostante tutti i proclami non riesce a far circolare scorrevolmente i treni, soprattutto quelli per i pendolari, e a dispetto delle reiterate promesse non è in grado neanche di assicurare la pulizia delle carrozze.

Una decisione tenuta in ombra

Senza l’apporto economico delle Fs niente Ponte. Ma d’altra parte con l’apporto determinante delle Fs il Ponte, economicamente parlando, parte con il piede sbagliato ed appare un azzardo prima ancora della posa della prima pietra prevista per l’inizio di dicembre. È come se qualcuno volesse correre la maratona con le stampelle o come se si mettessero insieme due debolezze. La circostanza che siano proprio le Ferrovie il pilastro di tutta l’impalcatura finanziaria è apparsa probabilmente così avventata agli stessi propugnatori dell’opera, che di fatto hanno finito per nasconderla nelle comunicazioni ufficiali; nei siti governativi non è più neanche rintracciabile. Per recuperare i termini di una faccenda sempre tenuta in ombra bisogna rispolverare un vecchio documento prodotto nel 2004 dalla società Stretto di Messina in cui si riportano gli elementi del piano economico-finanziario con i dettagli del meccanismo alla base della fattibilità del progetto. Cinque anni fa il costo dell’operazione era previsto in 6 miliardi di euro (nel frattempo è salito a 6,3), da ammortizzarsi al 50 per cento in 30 anni (che è la durata della concessione) attraverso rate costanti. Queste rate devono essere pagate, appunto, dalle Fs con la controllata Rfi (Rete ferroviaria italiana) che si impegna a sborsare un canone minimo annuo per l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria di 100,6 milioni di euro, più di 8 milioni al mese.

E non è finita perché le Ferrovie dovranno girare al gestore del Ponte anche il contributo che oggi ricevono dal ministero dei Trasporti a compensazione degli oneri sostenuti per il traghettamento da una parte all’altra del canale, cifre riscosse per garantire quella che gli addetti ai lavori chiamano la “continuità territoriale”. Sono un’altra trentina di milioni (27,8 nel 2008 per l’esattezza) che sommati alla quota precedente fanno circa 130 milioni, 11 milioni al mese. In più Rfi si impegna “ad effettuare a suo carico la manutenzione ordinaria e straordinaria”.

Tutto questo sforzo in cambio di che cosa? Ufficialmente Rfi diventa “gestore del collegamento ferroviario dell’opera”. E detto così sembra un grande affare. In realtà il traffico ferroviario sia di persone sia di merci tra la Sicilia e la Calabria è assai modesto, e negli ultimi anni si è ulteriormente rattrappito a vantaggio del trasporto aereo, soprattutto low cost. Secondo l’edizione 2008 del Conto nazionale dei trasporti, la bibbia del settore, in 18 anni, cioè a partire dal 1990, il totale delle carrozze transitate sullo Stretto è calato del 46,4 per cento. La diminuzione è stata repentina soprattutto negli ultimi 8 anni, a partire dal Duemila: meno 17, 8 per cento con punte del 37 per i treni viaggiatori e con un decremento più contenuto per le merci (meno 3,5). Peccato che le merci non abbiano granché bisogno di un collegamento veloce, e dal punto di vista degli scambi economici le 2-3 ore guadagnate sui tempi di percorrenza con il treno grazie al futuro Ponte siano di fatto quasi irrilevanti.

Boom del traffico aereo sull’Isola

Mentre diminuisce a rotta di collo il traffico dei treni, registra un boom il numero dei viaggiatori negli aeroporti siciliani, più 200 per cento in totale a Catania, Palermo e Trapani (fonte Assaeroporti ed Enac). A Catania, in particolare, negli ultimi vent’anni la crescita è stata del 219 percento; dal 2000 al 2008, il numero dei viaggiatori transitati nello scalo catanese è passato da poco meno di 4 milioni a 6. Se 19 anni fa, inoltre, sullo Stretto transitavano circa 15 milioni di passeggeri all’anno tra traghetti privati, Fs e treni, mentre i viaggiatori fuori dello Stretto erano appena 4 milioni, nel 2008 il rapporto si è invertito: i passeggeri passati dallo Stretto sono in minoranza, 10,7 milioni, in prevalenza trasportati dalle compagnie private tipo Caronte & Tourist della famiglia Matacena, mentre quelli fuori dallo Stretto sono più che raddoppiati e in totale ora sono un milione in più degli altri, e per di più quasi tutti clienti delle compagnie aeree. Gli affezionati del treno, infine, appaiono un’esigua minoranza della minoranza, sull’ordine delle centinaia di migliaia di viaggiatori.

Tra una sponda e l’altra, oggi transitano appena 8 coppie di treni passeggeri e 8 merci al giorno, cioè 32 convogli tra andata e ritorno. Quindi ogni anno sullo Stretto passano soltanto 11.680 treni, tanti quanti ne viaggiano in un solo giorno su tutta la rete ferroviaria nazionale, e una volta costruito il Ponte ogni treno tramite il canone elargito da Fs pagherà, di fatto, un pedaggio stratosferico, 11.130 euro in media per percorrere 3 chilometri e 300 metri, più di 3 euro per ogni metro di binario.

Sorride solo la Impregilo

Numeri alla mano, la faccenda del canone è quindi tutt’altro che un affare per le Ferrovie, mentre lo è, e parecchio, per il futuro gestore dell’opera, la società Impregilo, a cui nel 2005 il precedente governo Berlusconi affidò la realizzazione della struttura, e i cui soci di maggioranza, detto per inciso, sono anche i famosi “patrioti” del business Cai-Alitalia, da Marcellino Gavio ai Benetton a Ligresti. Ma perché le Fs avendo poca o nessuna convenienza ad infilarsi nell’affare del Ponte sullo Stretto non si sottraggono al patto leonino a favore di Impregilo? Perché non possono, probabilmente.

Essendo un’azienda pubblica dipendente dalle decisioni della politica e dai finanziamenti del governo non possono mettersi di traverso ad un affare che per l’esecutivo Berlusconi è diventato una specie di punto d’onore, un gigantesco monumento alla mitologia del fare. Del resto la relazione del 2001 del gruppo di lavoro del ministero dei Trasporti individuava proprio nello scarso traffico ferroviario il tallone d’Achille dell’impalcatura finanziaria dell’opera. E le banche chiamate a prestare il 60 per cento dei fondi necessari per l’infrastruttura fecero capire a suo tempo che senza adeguate garanzie avrebbero fatto dietro front. Quali garanzie? Che arrivassero soldi per l’ammortamento di almeno metà dell’opera tramite il pagamento certo di un canone.

Le Ferrovie, in sostanza, agiscono come sostituti finanziatori: la finzione è che paghino per un servizio, la realtà è che strapagano in cambio di poco. Ma tanto, gira e rigira, quei soldi Fs sono soldi pubblici, frutto della fiscalità generale, cioè sborsati dai cittadini onesti con le tasse.

«Sono politiche keynesiane alla rovescia. In precedenza si prendeva la ricchezza prodotta per redistribuirla, oggi si danno soldi a chi è già ricco. Sono costi che pagheremo per diversi decenni». A parlare è Ivan Cicconi, uno dei maggiori esperti di infrastrutture e lavori pubblici, commentando l'annuncio del governo della prima pietra del Ponte sullo Stretto. «La varianti come quella di Cannitello sono ad hoc per il Ponte, si tratta di opere funzionali al progetto». Cicconi ha denunciato già molti anni fa le storture dell'Alta velocità. Profitti privati, costi per tutta la collettività, cantieri lumaca. Oggi ravvisa nel Ponte lo stesso modello. Il keynesimo alla rovescia, Robin Hood al contrario: la ricchezza sociale che finisce nella tasche dei soliti noti: i grandi contractors, con Impregilo sempre in testa.

Esattamente quanto sostenuto nel libro "Ponte sullo Stretto e mucche da mungere": è «l'economia basata sulle partnership tra pubblico e privato che mungono attività senza rischio. Al primo soggetto spettano i costi, al secondo i benefici. È l'economia delle infrastrutture inutili, addirittura non volute ed imposte al territorio. È l'economia dei disastri e delle guerre».

Diventa dunque sterile disquisire di particolari tecnici, problemi ingegneristici, balle mediatiche o bluff elettorali. La "mucca da mungere" è un modello che esiste di per sé, è il cuore del problema. Il Ponte non è realizzabile? Un'ottima occasione per nuovi studi e revisioni di progetto. Le opere collaterali vanno fatte prima? Intanto si muove la solita economia para-mafiosa fatta di movimento terra, sub-appalti, cantieri eterni, lavoratori ricattati ed umiliati. L'esperienza dell'A3 ci racconta di continue revisioni dei conti, infiltrati mafiosi in pianta stabile, operai coinvolti loro malgrado in scene da Far West oppure morti in incidenti sul lavoro che non meritano neppure poche righe in cronaca.

Già nel maggio 2003 terrelibere.org scriveva: «Attenzione. Quando leggete Ponte, non pensate al manufatto da modellino, agli esempi virtuali dei computer. Meno che mai alla fattibilità, all'utilità effettiva dell'Opera. (...) Quando si dice Ponte si pensa a: cantieri, studi di fattibilità, commesse, ingegneri, parcelle, movimento terra, tangenti sugli appalti, pizzo sul movimento terra, ricorsi, avvocati, parcelle, interventi ulteriori, subappalti». A distanza di pochi anni, la facile profezia si avvera in un paese senza memoria.

Lo schema proposto per il Ponte, infatti, è identico a quello del Tav. Si tratta di un "metodo" datato 1991, durante l'ultimo nefasto governo Andreotti. Spiega ancora Cicconi, questa volta in una intervista del 2002: «Il sistema fu inventato dal fantasioso ministro Paolo Cirino Pomicino. Si crea una società dalla costola delle ferrovie, il Tav, che assegna i lavori alle solite grandi imprese. Il secondo passo è il project-financing, che consente di attivare finanziamenti privati. Che sono i prestiti per Tav spa, garantiti dallo Stato». Sostituendo al Tav la "Stretto di Messina" il risultato non cambia.

A proposito del Tav, d'altronde, c'è una storia illuminante. Negli anni '96-'97, il conflitto tra i piccoli imprenditori e i grandi che lavorano per i cantieri dell'Alta velocità era al culmine. L'associazione delle imprese medio-piccole produsse un "documento bomba" dove si diceva che, rifacendo quei contratti, e pur pagando le penali, lo Stato avrebbe comunque risparmiato circa 5 mila miliardi di vecchie lire. Dopo lunghissima riflessione, arriviamo al 2000: il ministro Bersani annulla i contratti. Il governo successivo li ha ripristinati. Tali e quali. Qual è il movente di questo modo di operare? Intanto reperire fondi che non ci sono e poter avviare i cantieri promessi. Secondo: spostare su una società privata un rilevante deficit pubblico che all'Unione Europea non risulterà e ci consentirà di non sforare sugli impegni comunitari.

Per quanto riguarda la data di consegna dei lavori, il ministro Matteoli ha indicato che nel tempo record di sei anni Sicilia e Calabria saranno collegate. Perché non ci crede nessuno? «Il general contractor tende a far durare i lavori più a lungo possibile e a farli costare di più», dice ancora Cicconi. «Perché questo è il suo interesse d'impresa e senza rischio di gestione viene meno la volontà di ridurre tempi e costi».

* www.terrelibere.org(ha collaborato Claudio Metallo)

Giovedì 15 ottobre il ponte sullo Stretto di Messina è piombato nella vita degli italiani. Il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, ha annunciato che a Natale partiranno i lavori per spostare la ferrovia che arriva al porto di Villa San Giovanni. La costruzione del ponte, costo stimato 6,3 miliardi di euro, sarà finita in sette anni. Per il ministro i dibattiti sul progetto definitivo che manca, sugli interessi mafiosi per gli appalti, sull'utilità di un'opera che mai si ripagherà sono finiti: il ponte si farà.

Nel fronte dei contrari tanta sicurezza è stata letta come una mossa politica: il governo è alla ricerca di un colpo a effetto e l'apertura in diretta televisiva del cantiere per un'opera accessoria si riduce a mera propaganda. I reali motivi dell'accelerazione di Matteoli, però, sono probabilmente diversi. Le più recenti cifre sul traffico, infatti, dicono che il passaggio sullo Stretto sta diventando sempre meno cruciale nelle rotte per la Sicilia. Da quando il progetto preliminare è stato varato, infatti, l'isola ha vissuto un boom di voli low cost e di navi cargo che saltano lo Stretto, collegando direttamente Palermo con Napoli, Livorno, Genova. E questo, per Matteoli, è un grosso problema.

Il piano finanziario prevede infatti che una fetta consistente dei soldi necessari, circa 3,8 miliardi, venga presa a prestito in banca e restituita nel tempo con i pedaggi incassati da chi userà il ponte. Soltanto 2,5 miliardi dovrebbero venire dalle casse dello Stato e, di questi, appena 1,3 miliardi a fondo perduto: il resto dovrebbe essere restituito al socio pubblico nei modi previsti per le banche.

Questa struttura, però, è a rischio.

Gli istituti di credito vogliono certezze su quando riavranno indietro i loro prestiti. E ci sono i consueti dubbi su un costo reale che potrà essere più alto del previsto. Timori che potrebbero far saltare i prestiti bancari, una prospettiva che va sempre tenuta in considerazione, vista la lezione del fallimento finanziario dell'Eurotunnel, la galleria sotto la Manica che, pur collocata sull'asse fra due megalopoli vivissime come Londra e Parigi, ha causato perdite miliardarie agli investitori. Di qui il tentativo in extremis di Matteoli per serrare le fila, convincere le banche sulla serietà delle intenzioni e non mandare all'aria un progetto fortemente voluto dal premier Silvio Berlusconi e dal partito del cemento, visto l'appalto affidato a un consorzio guidato da Impregilo, società che conta fra i soci pezzi da novanta come i Ligresti, i Benetton e il costruttore Marcellino Gavio.

In apparenza, il traffico sullo Stretto è tutto fuorché in crisi. Fra traghetti privati e navi delle Ferrovie dello Stato, ai moli messinesi di Rada San Francesco e di Tremestieri e a quelli calabresi di Reggio e Villa San Giovanni si contano 280 partenze giornaliere, che salgono a 400 in alta stagione. Gli imprenditori sostengono che i treni merci prima di essere imbarcati aspettano anche due giorni. Per chi viaggia con l'auto i ritardi sono una dannazione, come appare inevitabile se si considera che lo Stretto è affollato anche da 20 mila cargo l'anno in viaggio fra Tirreno e Mediterraneo. Di qui la difesa dell'utilità del ponte fatta da Pietro Ciucci, numero uno della Stretto di Messina Spa, la società dell'Anas chiamata prima a sovrintenderne la costruzione e poi a gestirlo per trent'anni: "Anche un non amico del ponte come Alessandro Bianchi, l'ex ministro dei Trasporti, in un'audizione definì lo Stretto una delle aree più trafficate del Mediterraneo. Ogni quattro minuti parte un traghetto, mentre un terzo delle navi che incrociano trasporta prodotti chimici e petroliferi: i rischi per la sicurezza e l'ambiente sono facilmente immaginabili", dice Ciucci.

Se però si scende nei particolari, le prospettive di ritorno economico di un'infrastruttura tanto impegnativa appaiono fortemente dubbie. Basta prenotare un viaggio via Internet per farsene un'idea. In un giorno feriale di novembre, un trasferimento da Trapani a Roma con la compagnia aerea Ryanair costa 30 euro e dura un'ora e mezza, mentre con il treno si va dai 55 euro dell'interregionale ai 126 dell'Intercity e ci vogliono da 16 a 23 ore, cambi compresi. Da Palermo a Roma si vola con EasyJet a 40 euro e con WindJet a 75 euro, mentre in treno - scegliendo il Frecciarossa da Napoli - ci vogliono 11 ore e 87 euro.

Il passaggio via ponte accorcerà un po' i tempi, ma il vero ostacolo restano l'arretratezza della linea di oltre 400 chilometri fra Reggio e Napoli, nonché quella delle ferrovie che congiungono Messina a Catania e Palermo. Dipende anche da questo il successo negli ultimi anni del traffico aereo. Se si guardano solo i viaggi tra la Sicilia e il resto d'Italia, il boom è superiore a quello nazionale. Nel 2001 era il 13,4 per cento dei viaggiatori a utilizzare l'aereo, mentre nella prima parte del 2009 si è raggiunto il 17 per cento.

Dagli aerei alle navi, i dubbi sul ponte non vengono meno. L'anno scorso sono diminuiti sia i passeggeri che le merci passate per lo Stretto. Le Ferrovie, in particolare, hanno tagliato del 5 per cento le corse rispetto alle previsioni, ma sono molte le valutazioni che indicano come il transito da Reggio a Messina non sia più un passaggio obbligato per i trasporti di merce per la Sicilia. I camion hanno molteplici rotte con il resto d'Italia. Il 42 per cento dei posti disponibili, stando ai dati di Confitarma, è su navi che collegano Palermo con tutto il Tirreno: solo il 23 per cento passa da Messina. Persino la Caronte & Tourist, la storica società dei traghetti dello Stretto, realizza ormai metà dei propri ricavi su rotte diverse: una diversificazione attuata in vista del ponte, ma che già oggi dà i suoi frutti.

La questione è delicata. "Se alla fine le stime di traffico non dovessero essere rispettate, chi ci metterà i quattrini necessari: le banche, i privati o i contribuenti?", si domanda Marco Ponti, che insegna Economia dei trasporti al Politecnico di Milano. A domande come queste, Ciucci risponde che i piani elaborati dalla Stretto Spa non presentano falle: "È stato considerato un ventaglio di scenari sia in relazione alla crescita del Pil che all'evoluzione del traffico. A settembre, come ulteriore prudenza è stato scelto di utilizzare le nuove previsioni di traffico stradale ridotte del 5 per cento e di calcolare, a partire dal quinto anno, flussi di traffico stradale e ferroviario costanti. Anche in questo scenario, molto prudenziale, il progetto è risultato economicamente fattibile", dice.

Può darsi che sia così. Il problema, però, resta quello delle cifre in gioco. Se si guardano i bilanci delle Ferrovie e della Caronte & Tourist, emerge un dato interessante: oggi il giro d'affari del trasporto sullo Stretto vale circa 120 milioni di euro. Una piccola torta, se si considera che la Stretto Spa dovrà restituire alle banche e ai soci pubblici (l'Anas e le Fs) circa 5 miliardi su 6,3. Se anche riuscisse ad accaparrarsi l'intero business del transito, polverizzando la concorrenza navale e aumentando i prezzi, ci vorrebbero decenni per ripagare l'investimento. È questo il nodo principale che, probabilmente, Matteoli e Ciucci dovranno sciogliere con le banche: se anche le cose andassero al meglio, nei 30 anni di concessione la Stretto Spa non riuscirà a restituire l'intera cifra.

Dal punto di vista tecnico, Ciucci la mette così: "Abbiamo previsto di effettuare nel periodo di gestione un ammortamento dell'opera non inferiore al 50 per cento dell'investimento ed il riconoscimento alla Stretto di Messina da parte dello Stato di un valore di riscatto pari, al massimo, al 50 per cento dell'investimento stesso al termine del periodo di gestione". Il valore di riscatto, aggiunge, troverà "integrale copertura mediante utilizzo di parte delle risorse che verranno acquisite dallo Stato rimettendo a gara la gestione al termine del periodo della prima concessione". Che cosa significa? Che anche se tutto filerà liscio alla fine dei 30 anni metà dei 5 miliardi probabilmente non sarà ancora stata restituita ai finanziatori e dovrà essere, nella migliore delle ipotesi, spalmata su una nuova concessione trentennale. I banchieri lo chiamano 'balloon', che in italiano vuol dire mongolfiera. Una mongolfiera di debiti che, prima o poi, bisognerà restituire.

È bastata una nuova ondata di maltempo per riportare la paura nelle zone del Messinese distrutte dall’alluvione del primo ottobre. La pioggia che si è abbattuta l’altra notte sulla Sicilia, ed in particolare su Palermo e sulla costa di Messina, ha creato non pochi problemi alla popolazione. Tra Taormina e Santa Teresa di Riva alcuni torrenti sono straripati e si sono registrate frane e allagamenti. Alcune auto sono rimaste intrappolate nel fango e sull’autostrada Messina-Catania, nel tratto della galleria Giardini, a causa di uno smottamento, si circolava solo sulla corsia di sorpasso.“Ma se non riusciamo a uscire dalla città perché la situazione delle infrastrutture è già disastrosa, che ce ne facciamo di un Ponte che ci colleghi al continente?”. Non ha dubbi, nel bocciare la grande opera, Claudio Villari, ingegnere strutturista di Messina, ex docente della Facoltà di Architettura all’Università di Reggio Calabria, grande esperto di terremoti. “Perfettamente inutile, sia in un’immediata visione della realtà, sia in una prospettiva futura. Noi non abbiamo problemi a raggiungere l’altra sponda, ma abbiamo moltissimi problemi a raggiungere l’altra parte dell’isola. L’attuale sistema ferroviario e viario è fragilissimo”.

Sicilia e Calabria, secondo Villari, sono due terre che scontano decenni di abbandono, ma che hanno anche gravissimi problemi idrogeologici. “Si parla di territori che subiscono profonde modificazioni perché di recente formazione”, spiega.

E il cuore della questione è proprio questo: “Non esiste un progetto definitivo per il Ponte sullo Stretto - prosegue Villari - né esiste uno studio ufficiale di fattibilità. Un’opera di queste dimensioni e che richiede un tale impegno finanziario non può essere fatta se non si è assolutamente certi che non si siano situazioni di instabilità dovuta ai movimenti tellurici, al terreno e, in generale, al contesto idrogeologico. Come si fa a dire che si farà in piena sicurezza quando non esiste una progettazione definitiva, che abbia avuto un esame di fattibilità e di buona esecuzione formale? Tutto ciò finora non esiste, c’è solo un progetto di massima e una dichiarazione informale di fattibilità”.

C’è poi un discorso economico da fare, perché, secondo l’ingegnere, non c’è la copertura finanziaria per un simile progetto, che deve comprendere anche tutte le opere connesse (come le infrastrutture). “Il primo finanziamento è di 2.100 miliardi di euro (sui 6.500 ritenuti necessari per il completamento dei lavori), effettuato dal Cipe con il denaro pubblico, mentre il resto viene subordinato ad un inesistente interesse privato”.

Eppure pochi giorni fa il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli ha annunciato in pompa magna che i cantieri partiranno a dicembre e dureranno sei anni. Se volessimo fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe dire: finalmente, dopo 40 anni, una data certa. “Ma quali cantieri? Hanno annunciato soltanto una modifica dell’asse ferroviario della stazione di Villa San Giovanni: faranno quella, poi si fermeranno perché avranno finito i soldi. E a quel punto si metteranno nelle condizioni di farsi ricattare dall’impresa aggiudicataria dell’appalto. Tutto ciò è contrario ai principii fondamentali di chi appalta un’opera: non ci sono soldi e non c’è progetto. Eppure sono 40 anni che vengono elargiti fondi alle varie società che si sono susseguite. C’è tutta l’aria dell’imbroglio, o di una sottovalutazione ignobile delle urgenze e delle priorità che drammaticamente si impongono”.Non tutti i siciliani la pensano come il professor Villari, però. “I cittadini non hanno la possibilità di farsi un’idea precisa di questa grande opera - risponde lui - la società ha costruito un bellissimo modellino di ponte (visibile al pubblico), con tanto di aria calma e mare cristallino; hanno raccontato che servirà anche ad incrementare il turismo. La gente si illude che l’opera possa realizzarsi subito e che tutto sia semplice e scontato. Ma si tratta di sensazioni sbagliate, fondate su un errore di fondo”.

Dunque una condanna senza appello: “Inutile, lo ripeto. Nessuno mi convincerà mai dell’utilità di un’opera simile, neanche se vi fossero un progetto definitivo e uno studio di fattibilità che tenga conto del dissesto del territorio. Abbiamo bisogno di strade, non di ponti”.

Anche il capo dello Stato, dopo la tragedia annunciata di Messina, è intervenuto con parole molto nette: prima di realizzare opere faraoniche bisogna mettere in sicurezza il territorio. E tutti hanno pensato al Ponte sullo Stretto di Messina, l’opera simbolo del governo Berlusconi che costa 6,3 miliardi di euro. Nemmeno le esortazioni di Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, hanno indotto una seria riflessione nel governo, quando ha detto che per rendere sicuro il nostro territorio e mettere un freno al dissesto idrogeologico servono 25 miliardi di euro e che bisogna smettere di costruire in modo abusivo parti di territorio e città. Niente da fare, non servono i morti e non servono gli autorevoli interventi: il governo Berlusconi tira dritto sul progetto del Ponte sullo Stretto e non ritira il famoso Piano casa di cementificazione selvaggia, dell’urbanistica “fai da te”.

Tanto, è il ritornello ricorrente, Ponte, Piano casa, dissesto idrogeologico e tragedia di Messina sono cose diverse, che non c’entrano, e il ripeterlo in modo ossessivo è la miglior prova della “relazione”. Il governo ha ammesso di non avere i 25 miliardi necessari (come una manovra finanziaria) e che quindi il Ponte sullo Stretto può andare avanti perché in fondo costa “solo” 6,3 miliardi, che per il 60% verranno da fondi privati. Proprio in questi giorni è scaduto il mandato del commissario straordinario Pietro Ciucci, “l’uomo del Ponte “ che è anche amministratore delegato della Società Stretto di Messina e presidente di Anas, che aveva il compito di presentare il nuovo piano finanziario evitando le forche caudine del Cipe.

Secondo le prime indiscrezioni uscite dai giornali, il progetto preliminare costa 6,3 miliardi di euro, sono prenotati 1,3 miliardi da Fintecna (ma erogati di anno in anno secondo le disponibilità della Finanziaria, come ha voluto il ministro Tremonti); il 40% dovrebbe provenire da risorse pubbliche e il 60% da capitale privato da ricercare sul mercato. è la solita favola che abbiamo contestato e vissuto con la Tav e le concessioni autostradali: che i privati siano disposti a rischiare capitale proprio per grandi opere. Niente di più falso, e l’alta velocità ferroviaria, come in tutto il resto d’Europa, è stata pagata interamente con soldi pubblici e anche nel caso delle autostrade si è intervenuto con proroghe delle concessioni (per incassi sicuri) e con garanzie pubbliche di subentro alla scadenza delle concessioni.

“Ho già parlato con Ciucci, amministratore delegato di Stretto di Messina spa, e mi ha detto che tutto è a posto. La società e Impregilo hanno già trovato gli accordi. Il Ponte si farà”. Così ha parlato il Ministro Altero Matteoli di fronte all’ennesima tragedia annunciata che ha cancellato decine di vite a Messina. Mentre il governatore, Raffaele Lombardo, fautore del Ponte, piange lacrime di coccodrillo: “bisogna smetterla di intaccare la natura”.

L’uomo nominato dal precedente Governo Berlusconi, ad della società Sdm, nata per realizzare l’opera più discussa mai messa in cantiere con un preventivo di investimento in project financing di 6 miliardi di euro, si chiama Pietro Ciucci. Manager con stipendio da superenalotto: 900.000 euro l’anno. Riconfermato dal Governo Prodi e nominato presidente della più grande azienda dello Stato, l’Anas, azionista di maggioranza della Sdm. Senza contare che l’Anas ha anche funzioni di controllo sulle pubbliche concessionarie. Privatizzate proprio da lui, quando era direttore finanziario dell'Iri con Prodi. La staffetta prosegue, il testimone è sempre lo stesso: Ciucci. L’attuale Governo lo riconferma all’Anas e lo nomina anche commissario straordinario della Sdm per superare le difficoltà finanziarie e procedurali e rilanciare il Ponte.

Ciucci, come commissario straordinario, verifica quello che lui stesso fa: un personaggio, dunque, capace di incarnare il mistero della santissima trinità riuscendo a sedere, contemporaneamente, in due, tre consigli di amministrazione dando vita ad un conflitto di interessi sovrumano. C’è da chiedersi: con quali soldi verrà realizzato il Ponte visto che di nuovi finanziamenti non c’è neppure l’ombra e il miliardo e mezzo di euro che avrebbe dovuto mettere la Fintecna è stato, dapprima, assegnato ad altro dal Governo Prodi, poi utilizzato dal Governo Berlusconi per compensare l’abolizione dell’Ici? Semmai si farà, verrà adottato il cosiddetto ‘modello Tav’: prestiti erogati dalle banche, garantiti dallo Stato. Uguale: debiti che condizioneranno il futuro delle giovani generazioni, mentre i profitti saranno privati. Intanto Eurolink (associazione di imprese che oltre alla capofila Impregilo comprende la giapponese Ishikawajima, la spagnola Sacyr e altre imprese italiane) vincitrice della gara per la realizzazione del Ponte, per il non rispetto dei termini contrattuali ha già collezionato con la Sdm un contenzioso, che, a colpi di 3milioni di euro al mese, è schizzato a 100 milioni. Le organizzazioni criminali intanto festeggiano.

Il Ponte, come rivelano diverse inchieste in corso, fra cui quella sul riciclaggio di capitali di presunta provenienza mafiosa del cosiddetto “tesoro” di Vito Cincimino, per dirla con Niki Vendola: “più che unire due coste unirà due cosche”.

Ma quanti soldi ha mangiato finora la Sdm? La sede, 3600 metri quadrati su quattro piani, attico, seminterrato e giardino nella centralissima via Po della capitale, è costata, in questi anni, 75 mila euro al mese di affitto incassato dalla srl Fosso del Ciuccio, immobiliare della Cisl. Ma nulla è cambiato per Ciucci nonostante molti parlamentari del centro sinistra lo ritenessero responsabile di aver presentato un piano di project financing ‘taroccato’ per far credere che il Ponte si sarebbe realizzato con i soldi di Fintecna, delle Ferrovie e dell’Anas e un piccolo contributo dei privati. Mentre, secondo questi parlamentari, si trattasse di un piano che giustificava l’opera sulla base di dati gonfiati, e i costi (e i prezzi) della società lievitassero a causa delle spese di propaganda e pubblicità, passate in due anni da 110.000 euro a 1.480.000 euro. E a causa degli aumenti degli emolumenti e dei gettoni di presenza agli amministratori, stabiliti in 526.000 euro nel 2002 e arrivati a 1.616.000 euro nel 2006.

Neppure il Governo Prodi è riuscito a eliminare questa ‘scatola vuota’ macina soldi e ha premiato Ciucci con la presidenza dell’Anas. Viene da domandarsi: lo scioglimento della società Stretto di Messina spa non era nel programma dell’Ulivo? La risposta è sì. Anche se il Ministro Di Pietro assieme al ministro Mastella e al centro destra votò contro l’emendamento proposto dalla sua maggioranza facendo andare in minoranza il Governo al Senato, durante la discussione dei 47 articoli del decreto fiscale collegato alla manovra finanziaria. La motivazione fu: chiudere la società comporterebbe una penale di centinaia di milioni di euro da pagare a Eurolink, perchè Ciucci nel 2006, poco prima della vittoria di Prodi, aveva firmato il contratto di 3,9 miliardi di euro con il general contractor Eurolink (impresa capofila Impregilo). Ma in caso di fallimento della società, la penale non l’avrebbe dovuta pagare la Stretto di Messina spa attingendo dal suo capitale sociale? In quel caso però il capitale non sarebbe bastato e Impregilo ne sarebbe uscita con le ossa rotte.

L’emendamento istituiva una fantomatica società per svolgere attività “proprie dei Ministeri competenti e delle Regioni, un nuovo carrozzone per coltivare clientele e spreco di soldi” si difese allora Di Pietro proponendo di far confluire Stretto di Messina spa nell’Anas. Ovvero di mettere Stretto di Messina e il contrato di Impregilo in una cassaforte, visto che l’Anas vanta un capitale di oltre 400 milioni di euro. Alla vigilia delle elezioni del 2008 che sarebbero state vinte da Berlusconi, per cui il Ponte era la priorità, Ciucci esegue l’ordine di Di Pietro e avvia lo smantellamento della società: sito online del Ponte scomparso, sedi di Villa San Giovanni e Messina chiuse, computer mobili venduti, personale dimezzato e nei 3600 metri quadri della sede romana viene trasferito l’ispettorato di vigilanza sulle concessionarie autostradali dell’Anas. E Stretto di Messina spostata a Piazza Cinquecento, proprio sopra alla galleria centrale della stazione Termini. Zona meno prestigiosa, sede più piccola ma più costosa al metro quadro, di proprietà della società Grandi Stazioni di cui è azionista Sintonia del gruppo Benetton che controlla Atlantia, cioè autostrade per l’Italia, che attraverso Igli detiene un terzo di Impregilo, impresa capofila dell’Eurolink che ha vinto la gara per il Ponte. Come dire: in attesa che la storia senza fine della società Sdm veda la luce, una quota dell’affitto va a finire a casa Benetton.

Oggi si ha una sola certezza: Ciucci, uno dei tanti manager pubblici della società post moderna, frutto del sistema partitocratico trasversale basato sulla cooptazione politica (requisito necessario: eseguire la volontà dei premier che si succedono) continua a guadagnare 900.000 euro l’anno, cioè 75.000 euro al mese. Un emolumento che va misurato con le parole affidate il 14 agosto scorso da Prodi a Il Messaggero: “la mia affermazione che vent’anni fa la differenza di remunerazione tra il direttore e gli operai di una stessa azienda era da 1 a 40, creò scandalo. Oggi, dopo un iniziale sdegno, nel momento più acuto della crisi, nessuno si stupisce del fatto che questa differenza sia in molti casi da 1 a 400. Tutto è stato dimenticato”. Forse anche da lui. Che da Premier ha nominato Moretti amministratore delegato di Ferrovie dello Stato spa a 1 milione di euro l’anno e Ciucci Presidente dell’Anas a 900.000 euro, conflitto di interessi compreso.

Il Governo Berlusconi vuole realizzare il Ponte sullo Stretto, nomina commissario straordinario Pietro Ciucci, ma poi frena sulle risorse per finanziarlo. Intanto la rete No Ponte riparte e si prepara a manifestare a Messina l’8 di agosto contro il progetto e per la difesa del territorio.

Si potrebbero riassumere così le ultime novità sul progetto Ponte sullo Stretto.

Inserito “naturalmente” dal Governo nell’Allegato Infrastrutture al DPEF 2010-2012 tra le priorità, in realtà un emendamento al Decreto Legge Anticrisi approvato dal Parlamento a fine luglio tira fortemente il freno sulle risorse finanziarie da assegnare al progetto. L’emendamento precisa che le risorse - pari ad 1,3 miliardi prenotate per l’opera - saranno date annualmente “compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica” e deliberate dal CIPE: quindi niente assegnazione immediata ed in blocco delle risorse alla società Stretto di Messina da parte del Cipe come era stato annunciato più volte. E’ stato il Ministro Tremonti a volere questa misura cautelativa che ha scatenato le reazioni dell’MPA di Lombardo, che non ha partecipato al voto anche a causa dello scippo sistematico dei fondi FAS al sud.

Nello stesso articolo viene anche nominato Pietro Ciucci, commissario straordinario per il Ponte, incarico che aggiunge al ruolo di Amministratore Delegato della società Stretto di Messina e di Presidente-Direttore dell’ANAS, che per l’82% è l’azionista principale dello società Stretto di Messina. Tutto il potere nelle mani di un solo commissario per superare le difficoltà finanziarie e procedurali del progetto, che se da un lato sono la solita scorciatoia per evitare le procedure ordinarie (già semplificate dalla legge obiettivo) dall’altro indicano le grandi difficoltà in cui è immerso il progetto.

Il commissario Ciucci dice la norma “dovrà rimuovere tutti gli ostacoli frapposti al riavvio delle attività anche mediante l’adeguamento dei contratti stipulati con il contraente generale” e la conseguente approvazione delle eventuali modifiche del piano economico-finanziario. I costi sono dunque destinati a lievitare anche se adesso non è ancora noto di quanto. E che vi siano difficoltà finanziarie ne è la riprova anche la dichiarazione di Mario Ciaccia, AD e Direttore Generale di Biis Banca Intesa San Paolo, che ha dichiarato di essere pronti a fare la loro parte nel progetto di Ponte sullo Stretto.

Il Commissario Straordinario avrà 60 giorni di tempo per svolgere il suo mandato e quindi a fine settembre dovrà riferire al Cipe ed al Ministro delle Infrastrutture e Trasporti: ma è davvero inaccettabile che sia un solo uomo a decidere del piano economico e finanziario di un progetto che costa sei miliardi di euro solo alla fase preliminare.

Dopo il tremendo terremoto in Abruzzo, per una attimo anche il progetto del Ponte sullo stretto di Messina era sembrato tornare in discussione perché troppo vistosa la sproporzione tra costruire un’opera di dubbia utilità ed un’area ad elevato rischio sismico che se vivesse un nuovo e grave terremoto – hanno detto i tecnici – vedrebbe crollare a Messina la metà della case con un carico di morte e sofferenza devastante ed insostenibile.

Anche l’economista Alberto Quadro Curzio, preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’università Cattolica di Milano, aveva scritto un pezzo sul Corriere della Sera in cui proponeva che per recuperare risorse da destinare alla ricostruzione in Abruzzo fosse opportuna “la revisione di alcune priorità del governo tra cui il Ponte sullo Stretto” che essendo in progettazione da almeno 4 decenni non era certo una urgenza nazionale.

Ma quasi di nascosto, venerdì 17 aprile, il progetto ha fatto un balzo in avanti: la Società Stretto di Messina ha firmato l’accordo con Eurolink spa per la realizzazione dell’opera, alla presenza del ministro per le infrastrutture Matteoli. Soddisfatto Massimo Ponzellini, AD di Impregilo, impresa capofila di Eurolink con il 45% di azioni, che con questa commessa si porta a casa tra i 4,5 ed i 5 miliardi di lavori.

L’accordo stima il costo dell’opera in 6,3 miliardi di euro ( 200 milioni in più rispetto al 2006) e viene tre anni dopo la firma del contratto con Impregilo, sottoscritto a pochi giorni dalle elezioni politiche da Pietro Ciucci, AD della Stretto di Messina (poi diventato anche presidente di ANAS). Contratto poi congelato dalla decisione del Governo Prodi di sospendere l’iter di realizzazione del ponte sospeso, come scritto del programma dell’Unione.

Inutilmente Verdi e Rifondazione Comunista hanno chiesto ripetutamente che venisse anche sciolta la società Stretto di Messina ma l’opposizione del Ministro Di Pietro ( che agitava il fantasma di una maxipenale) e dell’Italia dei Lavori non hanno consentito di ottenere questo risultato.

In sede europea hanno riaperto il fascicolo sul progetto del Ponte di Messina perché la procedura d’infrazione aperta con l’ipotesi di violazioni ambientali era stata poi sospesa a causa della decisione del governo Prodi di fermare il progetto. Ma le questioni ambientali non sono mai state risolte ed ora la Commissione Europea vuole vederci chiaro ed entro fine settembre si dovrà pronunciare.

Un primo passo era stato deciso dal Governo Berlusconi il 6 marzo 2009 dal CIPE con la prenotazione di 1,3 miliardi alla società Stretto di Messina Spa, ma il piano economico e finanziario dovrà essere rifatto e secondo la nuova norma del DL Anticrisi le risorse verranno assegnate annualmente sulla base delle effettive disponibilità di risorse. Va poi ricordato che il Ponte non rientra tra i progetti TEN finanziati con risorse europee.

Nessuno ha ancora risposto alle pesanti obiezioni tecniche del prof. Remo Calzona, ex coordinatore scientifico della Società Stretto di Messina sulle reali condizioni sismologichedell’area secondo cui il progetto attuale, ha totalmente e colpevolmente trascurato la presenza di faglie attive che interessano pesantemente l’area, specie dalla parte calabrese. “Misteriosamente in questa rappresentazione (……) sono scomparse le faglie sotto le pile, portando a pensare che queste potessero cadere in zone non interessate da faglie. La realtà delle sezioni, fatta nell’ambito degli studi per il progetto di massima, contraddice questa tesi e pone una nuova argomentazione ostativa alla realizzazione del ponte a campata unica proposta dalla Società SdM nel 2002” scrive nel suo libro “La ricerca non ha fine. Il Ponte sullo Stretto di Messina” (ed. DEI Tipografia del Genio Civile).

Un’accusa pesante e documentata, che già esperti, geologi ed ambientalisti avevano segnalato durante la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale, ma che viene bellamente trascurata, come se niente il governo Berlusconi avesse imparato dalla dura lezione del terremoto in Abruzzo.

Anche per queste ragioni, la rete No Ponte (www.retenoponte.it) con l’adesione delle associazioni ambientaliste WWF, Italia Nostra e Legambiente, di sindacati, centri sociali e comitati si sono dati appuntamento a Messina per l’8 agosto “Contro il Ponte e per la tutela dei territori”, per rimettere in marcia una grande battaglia popolare.

Il Ponte di Messina va avanti, Impregilo incassa, ma i cittadini e le cittadine fanno sentire di nuovo la loro voce, come già hanno fatto tante altre volte in passato, perché insieme possiamo fermarlo di nuovo.

«Non solo rinvii, si rinunci al ponte»

intervista di Angela Mauro a

Edoardo Salzano

Edoardo Salzano, urbanista da sempre contrario al ponte sullo Stretto di Messina, non è per niente impressionato dal dibattito che, dopo il terremoto in Abruzzo, si sta sviluppando intorno alla Grande opera promessa dal governo Berlusconi. «I politici italiani ragionano sempre nell'ottica immediata, mai sul lungo termine», dice Salzano a proposito di chi, anche nel Pdl, comincia a pensare che per favorire la ricostruzione in Abruzzo sarebbe meglio rinviare il Ponte sullo stretto. L'ultimo in ordine di tempo è stato il deputato del Pdl Giuliano Cazzola, imprenditore, che proprio ieri diceva a Repubblica Tv : «Se ci sono delle priorità, credo che anche il ponte possa passare in seconda fila». Meglio che niente, è il pensiero di Salzano. Ma non basta.

Sarebbe meglio rinunciare all'opera. Ma il terremoto in Abruzzo non ha portato il dibattito così lontano...

Il ponte non è una priorità e non è utile. Per il bene della Sicilia, andrebbe potenziato il trasporto via mare. Con il ponte, l'isola diventerebbe un "cul de sac", la fine di un percorso di terra. Se si potenziassero le vie d'acqua diventerebbe una cerniera di collegamento con i porti d'Europa e con quelli dell'Africa settentrionale.

Oltre che considerazioni di carattere paesaggistico e ambientale, la sua valutazione comprende anche il rischio sismico della zona del ponte.

Oltre che essere sbagliato dal punto di vista funzionale, il ponte è sbagliato dal punto di vista della sicurezza. La faglia passa proprio da quelle parti, sarebbe una struttura a rischio, i terremoti in quell'area non sono una novità. Per non parlare dell'abusivismo in zona...

Dopo il sisma in Abruzzo, il Corsera ha lanciato l'idea di rinviare la costruzione del ponte. Anche molti del Pd, prima favorevoli, ora suggeriscono di far slittare i lavori per recuperare fondi per la ricostruzione. E cominciano a pensarla così anche nel Pdl. Manca ancora però una valutazione seria e ad ampio raggio sui rischi di un'opera del genere.

I nostri politici ragionano a seconda dell'immagine immediata che le loro dichiarazioni possono avere. Non ci sono più politici che studino problemi e soluzioni nel lungo periodo. Intorno al ponte hanno messo in giro speranze e affari. Una cosa è dire: rinviamo. Un'altra è dire: non se ne fa più niente, dichiarazione che farebbe perdere voti. Le forze legali e illegali entusiasmate dal progetto sono consistenti, capisco che i politici preferiscano parlare di rinvio. In qualche modo sono schiavi degli interessi che si agitano intorno al ponte.

L'Mpa di Lombardo, governatore della Sicilia, insiste sul ponte. Mentre il presidente della Regione Calabria, Loiero del Pd, insiste sul fatto che l'opera non è una priorità. Forse Lombardo ha maggiori interessi anche elettorali, visto che alle europee debutta nell'alleanza con Storace.

Probabile. Il punto è che alla gente non si raccontano le cose giuste. C'è un immaginario collettivo per il quale il ponte è il collegamento facile tra la Sicilia e il continente, fonte di benessere per la Sicilia. Questa è una follia: la Sicilia non è solo appendice dell'Italia. Potrebbe essere cerniera verso altri continenti. C'è un municipalismo di fondo, una chiusura dialettale, una incapacità di guardare al ruolo strategico dell'isola in relazione a un territorio più vasto. Eppure la Sicilia storicamente è stata un luogo con rapporti con il mondo arabo o con la Grecia: c'è un'eredità storica che va recuperata e per farlo non ti serve certamente il ponte.

Cosa servirebbe per portare la discussione su una rinuncia al ponte?

Va detto che è meglio sentir parlare di rinvio piuttosto che di"facciamolo e basta". Serve a guadagnare tempo, ma è insufficiente. Servirebbe rendersi conto che il suolo non ha come destinazione ottimale l'ospitare case, fabbriche o autostrade. Il suolo ha un valore in sè che dipende anche dalla sua naturalità. Rinunciare a questo si può se serve a cose socialmente più utili. Ogni ettaro sottratto alla natura, lo sottraiamo agli usi indispensabili per la sopravvivenza dell'umanità. Inoltre le trasformazioni del territorio devono essere viste e decise nel loro insieme. E' profondamente sbagliato dividere in compartimenti stagni tra prevenzione, espansione delle città, mobilità, difesa dell'agricoltura, ecc. Tutte queste cose devono essere viste insieme e lo strumento per farlo è la pianificazione territoriale e urbanistica che purtroppo in Italia è considerata un impaccio, soprattutto per gli interessi immobiliari che vengono sempre favoriti a dispetto di tutto. In Italia più la città cresce, più il sindaco è contento; più le cubature aumentano, più il pil cresce. Finchè restiamo dentro questa logica, siamo fottuti.

Si può dire che il terremoto in Abruzzo abbia fermato l'ultimo scempio annunciato dal governo: il piano casa.

Sperando che l'abbia davvero fermato. In realtà, ancora prima di pensare di introdurre nelle nuove norme sull'edilizia una maggiore attenzione per i criteri antisismici, si è pensato a norme più severe per gli sciacallaggi. Questo la dice lunga... E poi la protesta dei governatori regionali prima del sisma non ha migliorato il piano.

Nel senso che le Regioni si sono limitate a difendere le proprie competenze legislative in materia?

Esatto. Non hanno migliorato il tutto, hanno solo reso possibile quello che sembrava obbligatorio. Hanno difeso le loro competenze e ora il risultato è che ogni regione potrà fare il bello e il brutto e sono poche quelle che vogliono fare il bello, privilegiando gli interessi dell'ambiente e della sicurezza sugli interessi dei gruppi edili. Una cosa su cui tutte le Regioni sono d'accordo è svincolarsi dal rispetto della pianificazione paesaggistica nazionale: stanno ottenendo di ridurre il potere delle soprintendenze, riconosciuto all'articolo 9 della Costituzione. Per questo sul piano casa parlerei di vittoria delle Regioni, non di vittoria del popolo.

21 aprile 2009

Il terremoto e la catastrofe della cultura dominante

di Piero Bevilacqua

Il piano casa del governo Berlusconi (nella sua annunciata prima versione)e il terremoto del 6 aprile, che ha sconvolto l’Aquila e i paesi vicini, sono due “eventi” in diversa misura esemplari della storia dell’Italia contemporanea. E‘ “esemplare”, drammaticamente e dolorosamente, il terremoto, perché esso è un fenomeno consueto e direi funestamente familiare nel nostro Paese. Ogni cento anni, in media, l’Italia viene colpita da circa 100 terremoti di magnitudo compresa fra 5 e 6, nonché da 5- 10 sismi di magnitudo superiore a 6. Questo ci dicono, con ricerche ponderose condotte negli ultimi decenni, gli storici italiani del terremoti, tanto stimati nel mondo quanto negletti e inascoltati in patria.

Il nostro, infatti, è un territorio geologicamente giovane, gran parte del quale è emersa da non più di 1 milione di anni. E’ sufficiente ricordare che l’Italia, unica in Europa, ospita ben 4 vulcani attivi : il Vesuvio, l’Etna, lo Stromboli e Vulcano. E vulcanismi e terremoti sono paresti stretti. Ma occorre ricordare che la giovinezza geologica della Penisola non si esprime solo con gli eventi improvvisi e imprevedibili dei terremoti.La catena dell’Appennino, che attraversa l’intera Penisola, costituisce un immenso campo di forze in movimento, perché lì l’azione delle acque e degli eventi meteorici tende a trascinare i materiali erosi alle montagne e alle colline verso le valli sottostanti e le cimose litoranee dei due opposti mari. Quelle montagne scendono.L’Italia, infatti, non soltanto è terra di terremoti, è anche un Paese di frane.Una indagine ministeriale, condotta dopo la sciagura di Sarno del 1998, ha calcolato che oltre il 45% del territorio è da considerare a rischio idrogeologico elevato o molto elevato

All’interno di un abitat così fragile, così esposto agli imprevisti della natura è ospitato un patrimonio artistico e monumentale fra i cospicui e preziosi al mondo.Si tratta, di chiese, monasteri, palazzi, piazze, fontane, statue, interi centri cittadini che custodiscono la nostra storia e la nostra identità. E al tempo stesso, non dimentichiamolo, testimoniano una cultura delle società del passato non ancora devastate dalla furia dell’economicismo insensato del nostro tempo.

Ebbene, a fronte di questo quadro naturale e storico, le classi dirigenti italiane da decenni non riescono a esprimere una consapevolezza culturale, prima ancora che politica, all’altezza della drammatica originalità del nostro caso.Esiste una cecità persistente di fronte al nostro paesaggio visibile, quello delle frane, ma anche di fronte a quello invisibile dei terremoti.Quest’ultimo – come ha scritto Emanuela Guidoboni, una delle maggiori studiose del fenomeno - «risulta nascosto da un abito culturale che tende a consolidarsi nelle fasi lunghe e delicate delle ricostruzioni: è allora, infatti, che progettualità e razionalità dovrebbero delineare i termini del successivo appuntamento con il terremoto, quando un’altra generazione dovrà raccogliere l’eredità della ricostruzione». Chi governa tende a dimenticare che ci sarà un altro terremoto, che la vita di migliaia di bambini, donne, uomini, alcuni ancora non nati, dipende da come noi ricostruiamo oggi.

E’ proprio la memoria storica e la lungimiranza di questo costruire per il futuro che latita nel comportamento delle classi dirigenti italiane. Ma il primo progetto per la casa del governo in carica, sepolto dalle critiche delle regioni e dalle macerie del terremoto abruzzese, costituisce un segnale fra i più gravi e allarmanti del grado di irresponsabilità a cui è giunto il ceto politico nazionale degli ultimi decenni. Nel nostro Paese chi dovrebbe rappresentare i cittadini italiani, continua a obbedire a una stagione del capitalismo contemporaneo ormai morta, finita nell’infamia del tracollo finanziario e del disastro industriale. Il ceto politico, sia di governo che di opposizione, per ubbidire agli imperativi di una crescita che nessuno sa a quale traguardo sia diretta, è pronta a consumare il nostro territorio come una qualunque altra merce nel mercato universale nei beni. I comuni italiani sono presi da una furia costruttiva e si vanno mangiando la campagna per edificare centri commerciali, ipermercati, seconde e terze case, capannoni industriali. Ma il territorio è una risorsa finita, in Italia particolarmente scarsa. Non solo: come abbiamo visto essa è costituita da un habitat di speciale vulnerabilità. Più che in ogni altro Paese d’Europa esso dovrebbe essere considerato, tutto intero e indivisibilmente, un bene comune. Perché lì è la sede delle nostre abitazioni, della nostre attivtà produttive, del nostro vivere quotidiano. Lì è la sede delle risorse e della vita delle generazioni dei nostri figli e nipoti. Eppure il governo Berlusconi, per il fine strumentale di accrescere il proprio consenso elettorale, per una breve stagione di dominio, si mostra pronta a dare in pasto agli appetiti disordinati dei singoli, valutati solo come eterni elettori, il bene più prezioso e più fragile del nostro Paese.

Non dimentichiamo che il governo oggi in carica non solo intende dilapidare immense risorse per finanziarie le cosiddette grandi opere, come il ponte sullo stretto, mentre manca la sicurezza abitativa in tante nostre scuole ed edifici pubblici.Il Parlamento italiano si appresta a ridiscutere il disegno di legge urbanistica Lupi, che mira a considerare il diritto di edificabilità come intrinseco alla proprietà delle aree.Si vuole aprire una nuova fase di consumo disordinato di suolo dentro e intorno alle nostre città. Il cancro dell’ideologia neoliberista, storicamente sconfitta, in Italia si appresta a dare altri colpi irreversibili al nostro territorio, a compromettere le possibilità di vita delle generazioni che verranno.

Tutti a far festa per il Ponte. Innanzitutto Silvio Berlusconi e lo stato maggiore della coalizione di centro-destra. Poi gli “autonomisti” siciliani di Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia e azionista di minoranza della società concessionaria per la realizzazione del Ponte, la Stretto di Messina S.p.A. (a capitale interamente pubblico). Sono ovviamente felici azionisti ed amministratori d’Impregilo, la capofila del consorzio che si è aggiudicata progettazione e lavori della megainfrastruttura. Di certo avranno brindato pure piccole e grandi cosche in Calabria e in Sicilia e forse anche aldilà dell’Oceano. È tanto il clamore sollevato sullo sblocco dei lavori e un primo finanziamento del CIPE che sembrano passati anni luce da quando organi di stampa, ambientalisti e qualche parlamentare denunciavano le tante zone d’ombra della lunga gara d’appalto.

Le cosiddette “anomalie”? Innanzitutto la partecipazione alla fase di pre-qualifica per la progettazione e realizzazione del Ponte di una società su cui sarebbe stato rilevante il controllo di una delle più potenti organizzazioni mafiose nordamericane. Poi, tutte da comprendere ancora oggi, le ragioni delle improvvise defezioni dei grandi gruppi esteri proprio alla vigilia dell’apertura delle buste. E ci sono gli innumerevoli conflitti d'interesse sorti nelle relazioni tra la società concessionaria, le aziende in corsa per il general contractor (1) e i gruppi azionari di riferimento. Per non dimenticare l’inserimento di clausole contrattuali più che benevoli con i vincitori e che prevedono una penale stratosferica (il 10% dell’importo totale più le spese già affrontate) in caso di recesso da parte dello Stato dopo la definitiva approvazione dell’opera. In ultimo l’ingiustificato ribasso del 12,33% praticato dalla cordata guidata da Impregilo (pari a 500 milioni di euro su una base d'asta di circa 4 miliardi e 425 milioni), oggetto di ricorso presso il TAR Lazio da parte del raggruppamento avversario con mandataria Astaldi.

Ponti, coppole e lupare

Ottobre 2004. La Società Stretto di Messina S.p.A. comunica i risultati della fase di pre-qualifica per la scelta del contraente generale. Alla tappa successiva, quella delle gara d’appalto vera e propria, sono ammessi tre dei cinque raggruppamenti internazionali che avevano presentato una proposta preliminare. Il primo di essi è guidato dall’austriaca Strabag AG ed è composto dalla francese Bouygues Travaux Publics SA, dalla spagnola Dragados SA, e dagli italiani Consorzio Risalto e Baldassini-Tognozzi Costruzioni Generali; segue il raggruppamento formato da Astaldi, Pizzarotti & C., CCC - Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna, Grandi Lavori Fincosit, Vianini Lavori, Ghella, Maire Engineering, la giapponese Nippon Steel Corporation e le spagnole Necso Entrecanales Cubiertas e Ferrovial Agroman; infine l’associazione con capogruppo Impregilo e mandanti la francese Vinci Construction Grands Projets, la spagnola Sacyr S.A.U., la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries CO Ltd. e le italiane Società Italiana Condotte d’Acqua, CMC - Cooperativa Muratori & Cementisti e Consorzio Stabile A.C.I. S.c.ar.l.. Le tre cordate vengono invitate alla presentazione delle offerte entro il termine del 20 aprile 2005, successivamente prorogato al 25 maggio.

Nella relazione presentata dalla società concessionaria viene omessa la composizione delle due associazioni d’imprese escluse dalla Commissione e i motivi di tale esclusione. Questione tutt’altro che marginale, non fosse altro perché una di esse era finita nel mirino della Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sul tentativo di turbativa d’asta ed infiltrazione mafiosa nella realizzazione del Ponte da parte del gruppo criminale italo-canadese diretto dal boss Vito Rizzuto (la cosiddetta “Operazione Brooklin”).

Secondo gli inquirenti romani, Rizzuto & soci volevano assumere il ruolo di registi dell’operazione, investendovi 5 miliardi di euro provenienti in buona parte dal traffico internazionale di eroina e cocaina. «L’attenzione dell’associazione si era focalizzata nella realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare della Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari del Tribunale Penale di Roma. «L’interesse prioritario dell’organizzazione sarebbe stato quello di finanziare l’opera indipendentemente da un coinvolgimento diretto nella sua realizzazione dato che così, comunque, avrebbe potuto partecipare ai ricavi connessi alla sua concreta gestione… Per concretizzare l’affaire Ponte, Rizzuto si sarebbe valso dell’ingegnere Giuseppe Zappia, imprenditore apparentemente “pulito”, privo di precedenti penali e con una pregressa esperienza nel campo delle opere pubbliche». (2)

In vista della gara del Ponte, l’ingegnere Zappia aveva fondato una modestissima società a responsabilità limitata (30 mila euro di capitale), la Zappia International, la cui sede legale veniva fissata a Milano negli uffici dello studio Pillitteri-Sarni, titolare Stefano Pillitteri, consigliere di Forza Italia e figlio dell’ex sindaco socialista del capoluogo lombardo, Paolo. Collega di studio del Pillitteri è Cinzia Sarni, moglie del giudice Ersilio Sechi che ha assolto Marcello Dell'Utri e Filippo Rapisarda per il crack Bresciano. (3) Era a lei che Giuseppe Zappia confidava i suoi propositi. «Lei è al corrente che io voglio fare il ponte di Messina?», rivelava l’ingegnere in un colloquio telefonico del 13 giugno 2003. «Io se faccio il ponte lo faccio perché ho organizzato 5 miliardi di euro… e questi 5 miliardi furono organizzati da tempo, mi comprende? Da tempo!» (4)

L’ingegnere italo-canadese aveva allestito un team di professionisti internazionali per la gestione degli aspetti economici e finanziari dell’operazione. Consulente legale del gruppo fu nominato l’avvocato romano Carlo Della Vedova, mentre i contatti con i potenziali finanziatori esteri furono affidati al mediatore cingalese Sivalingam Sivabavanandan. Per stringere relazioni e alleanze con ministri, sottosegretari e imprenditoria capitolina, Zappia si avvalse di un ex attore televisivo di origini agrigentine, Libertino Parisi, noto al grande pubblico per aver fatto l’edicolante nella trasmissione Rai "I fatti vostri". Con Parisi vennero programmati appuntamenti e riunioni ai massimi vertici istituzionali, finanche con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e con il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi.

«Ho parlato con quelle persone che erano molto interessate del fatto che un’impresa con capitali arabo-canadesi intende costruire il ponte finanziando l’opera per intero», rivelava l’ingegnere a Libertino Parisi, in una telefonata del 5 marzo 2004. «Ho ricevuto indicazioni di mandare un fax con la proposta alla segreteria del Presidente della società Stretto di Messina». Il fax partirà quattro giorni più tardi, oggetto la richiesta di un appuntamento per discutere in «maniera riservata della costruzione del ponte con la propria impresa mediante il finanziamento di una cordata di capitali internazionali». Il 24 marzo, giorno in cui il consiglio d’amministrazione della Stretto S.p.A. approvava il bando di gara proposto dall’amministratore delegato Pietro Ciucci per la pre-selezione del general contractor (5), l’ingegnere era intercettato mentre dava le ultime istruzioni a Parisi in vista di una riunione con i vertici della società concessionaria. «Quello che io ho bisogno – affermava Zappia – è di uscire dalla riunione di questo pomeriggio con la facoltà di sedersi con il Governo e di fare l’accordo a cui posso io arrivare con i miei finanzieri. Perché, i miei finanzieri, non li svelerò a loro… Io, ho due finanzieri, uno separato dall’altro, tutti e due sono pronti a mettere non 4.500, insomma quant’è? Questo, 4 miliardi e mezzo? So’ pronti a mettere cinque miliardi di euro! È una cosa che loro non hanno, e che spero che la guarderanno un po’ fuori limite».

Il 22 aprile 2004 Zappia informava l’avvocato Dalla Vedova dell’esito di una lunga riunione con gli ingegneri e gli avvocati della Stretto di Messina e di un’altra riunione con Salvatore Glorioso, segretario particolare dell’allora ministro Enrico La Loggia ed assessore provinciale di Forza Italia a Palermo. L’ingegnere aggiungeva: «Per la legge italiana devono fare una presentazione d’offerta, ma è solo una formalità perché loro già sanno chi farà il ponte ed è un loro amico che si chiama Joe Zappia!». «Sono già stato alla sede romana della Stretto di Messina con Sivabavanandan», aggiungeva l’anziano ingegnere. «Non ti posso riferire adesso quello che ci siamo detti in quelle ore, ma hanno deciso che l’uomo che farà il ponte sarò io perché posso gestire i problemi in quell’area del Paese. Sono calabrese!».

Il sapersi muovere in un ambiente notoriamente “difficile”, la disponibilità di imponenti capitali da offrire per i lavori del Ponte, facevano di Giuseppe Zappia un uomo fermamente convinto di poter imporre le proprie regole, senza condizionamenti di sorta. Del resto società concessionaria e potenziali concorrenti manifestavano già qualche difficoltà a reperire i fondi necessari per avviare il progetto. «Il bando di concorso: chi vuole partecipare deve pagare sei milioni di euro. Una cosa ti posso dire, che loro hanno duecento... due miliardi e mezzo. E quelli lì non bastano per fare il ponte», spiegava Zappia a Libertino Parisi. «Loro non hanno diritto di chiedere sei miliardi, sono in una posizione debole, che non si sa quando si fa il ponte. Loro devono dire, prima di poter dare, che vogliono sei miliardi. Devono avere il finanziamento organizzato! La posizione mia è che io posso finanziare il ponte!».

Zappia era certo di poter andare da solo, ma provava pure a tessere possibili alleanze con i colossi mondiali delle costruzioni. Nel corso di una lunga conversazione del 19 maggio 2004 con il mediatore cingalese Sivabavanandan, Zappia mostrava un certo interessamento al gruppo franco-canadese Vinci, in gara per il Ponte. «Ho appena finito di parlare con qualcuno per il finanziamento del ponte, e mi ha segnalato lo studio Vinci», dichiarava Zappia. «Hanno costruito un ponte di 14 miglia, e l’hanno costruito, finanziato e tutto il resto, al costo di 1,5 miliardi. E lo stanno ridando al Governo per un dollaro dopo 50 anni. Sto prendendo i loro prospetti e le persone. Sono miei amici stretti, sono in assoluto i costruttori numero uno in Canada e sono italiani. Sono da molto al mio fianco, da quando ho costruito il villaggio Olimpico a Montreal. Va bene, penso che Vinci sta pensando di prendere questo ponte». Lo interrompeva il cingalese: «Vogliono farlo in maniera indipendente o vogliono andare con qualcun altro?». Rispondeva Zappia: «No, lo faranno, non con qualcun altro, lo faranno con noi. Ma dovremo organizzare questo in maniera tale che otterremo alla fine lo stesso. Noi, in altre parole, dobbiamo finanziare l’intera cosa. La finanzieranno loro, in una situazione di spalleggiamento. Ma quello di cui loro sono preoccupati è ottenere il contratto».

Una breve pausa di riflessione e Zappia aggiungeva: «Penso che dovremo usare il principe qui, con l’uomo numero uno. Questo è come lo vedo io: se loro sono stati in grado di fare quel ponte, per 1,5 miliardi, dovrebbero essere capaci di fare questo qui per 2,5 miliardi. Loro daranno una piena, completa garanzia d’esecuzione con costi e tempi. Sono a Milano e in Francia, Vinci».(6) «Penso che dovremmo cominciare a parlare con loro», suggeriva Sivabavanandan. «Lo sto facendo ma non io, il mio uomo», rispondeva l’ingegnere. «Ti dico chi è il mio uomo, è quello che lavora alla situazione del Congo, dove io ho firmato il contratto per Inga, che dovrebbe essere in tribunale adesso». Il faccendiere cingalese si dichiarava d’accordo: «Sono contento che Vinci sta entrando, se puoi prendere Vinci a bordo possiamo mettere la J&P (società di costruzioni a livello internazionale N.d.A.) e la Vinci. Tutti possono trarre beneficio da una struttura piramidale, e il lavoro andrà veloce. Se abbiamo J&P e Vinci da una sola parte nessuno può dissestare. Questo è quello che ti ho detto ieri e l’altro ieri».

Il segreto d’onore

La società franco-canadese oscillava però da un partner all’altro e l’ipotesi della grande alleanza Vinci-Zappia sembrava dover naufragare. Il 26 giugno 2004, Giuseppe Zappia e Libertino Parisi si soffermavano su un articolo apparso sul quotidiano “Il Messaggero” nel quale erano indicate alcune società in gara per la realizzazione del Ponte di Messina. L’articolo riportava, tra l’altro, che la società Vinci, dopo aver dato la propria disponibilità a partecipare al consorzio guidato dall’azienda romana Astaldi S.p.A., aveva preferito alla fine la partnership con la concorrente Impregilo di Sesto San Giovanni. «Questi Vinci, sono pronti a venire con me, ma credo che non li prenderò», commentava astiosamente Zappia. «Perché loro vogliono venire a mettere moneta e della loro moneta non ne abbiamo bisogno. Vinci, lo può fare da solo. Questo te lo posso dire io soltanto: Vinci non ha il segreto mio».

Un segreto dunque. L’asso nella manica che concerne forse l’aspetto finanziario, i soci ancora “occulti” dell’imprenditore e della sua organizzazione. Il gruppo Zappia decise così di presentarsi da solo alla pre-selezione per il general contractor. Il 14 settembre l’ingegnere informava Sivabavanandan di essersi recato dall’avvocato Dalla Vedova. «Abbiamo finito la presentazione della situazione del ponte e la consegnerà lui stesso domani mattina presto perché apriranno l’intera cosa a mezzogiorno. Per questo dovrà essere lì per le 9, le 10…». Zappia esprimeva tuttavia la sua preoccupazione: «Una cosa che sento è che se loro aprono quelle richieste i giornalisti saranno lì e non c’è dubbio che il giorno dopo tutto sarà sui giornali». Il motivo del timore di Zappia emergeva chiaramente nella risposta di Sivabavanandan: «Sì, ma è buono perché la tua partnership, la tua associazione è segreta. Così non possono scoprire il tuo partner…».

Era Libertino Parisi a redigere la lettera con cui la Zappia International avanzava la sua proposta di partecipazione alla prequalifica. Tre cartellette dattiloscritte che pare abbiano lasciato un po’ perplessi gli esaminatori della società Stretto di Messina. Non solo per la loro lunghezza. Il piano tecnico-finanziario di Zappia & Soci prevedeva infatti un costo per la realizzazione dell'opera variabile tra i tre e i quattro miliardi di dollari e la consegna del Ponte nell'arco di tre anni grazie all’impiego di turni di lavoro notturno. La società “a capitale italo-arabo-canadese” si impegnava ad eseguire i lavori con costi e tempi tecnici di realizzazione inferiori del 50%, assemblando pezzi prefabbricati all’estero e senza ricorrere a subappalti.(7) Da qui l’esclusione del gruppo Zappia.

L’odore dei soldi

Quella che doveva rappresentare l’uscita di scena dell’ingegnere italo-canadese, si rivelava invece una tappa importante, più propriamente una svolta, nel tentativo di partecipare direttamente alla realizzazione del Ponte. Sono le telefonate effettuate subito dopo l’ufficializzazione dell’esclusione a indicare che Zappia aveva partecipato alla gara pur sapendo di non possedere i requisiti richiesti. Era però riuscito a mettersi in contatto con le imprese concorrenti di ben più solida competenza tecnico-organizzativa, proponendosi come indispensabile finanziatore dell’opera. I nomi delle società con cui l’ingegnere italo-canadese aveva preso contatti “diretti” o “indiretti” sono elencati nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dai magistrati romani: ancora una volta Vinci (in associazione con Impregilo), la francese Bouygues (partner di Strabag), «nonché la società Fincosit in A.T.I. con Astaldi, che sarebbe stata indicata come società mafiosa da vari pentiti».(8)

Erano stati questi “contatti” a convincere Zappia del fatto che le società concorrenti non avrebbero potuto far fronte alla clausola del bando di gara che imponeva al general contractor una quota del finanziamento con risorse proprie pari ad almeno il 10% del valore dell’opera. L’ingegnere – o i suoi misteriosi soci arabi e nordamericani – potevano mettere invece sul tavolo l’intero importo previsto per la realizzazione del Ponte e delle infrastrutture di collegamento. «Questa è una situazione che mi aspettavo», rispondeva Zappia all’avvocato Carlo Dalla Vedova che gli comunicava l’esito negativo nella gara di prequalifica. «Ciò che ci serve è parlare con sua altezza reale. E tenere questa situazione con l’uomo numero uno. Così possiamo andare avanti. Quello che sta facendo la Astaldi, è che non ha soldi e non ci sta mettendo soldi. I suoi uomini ci metteranno dieci anni per fare il lavoro. L’intera questione è illegale perché non hanno i soldi per fare la cosa. Se e quando parleremo con sua altezza e l’uomo numero uno e diremo “abbiamo i soldi”, questi tizi saranno tirati fuori dall’affare». Nel prosieguo della conversazione Giuseppe Zappia spiegava meglio quali sarebbero stati i successivi “passi” da attuare: «Credo che quello che dovremo fare sia chiamare Ciucci... Chiamalo e poi fra l’altro il nostro amico Sivabavanandan arriverà domani sera. Perché lui ha parlato con sua altezza che è una persona lenta e non è uno che va di fretta».

Giuseppe Zappia ribadiva anche all’amico Parisi di non essere preoccupato per l’avvenuta esclusione. «Quello che c’ha il contratto generale può dare tutto a tutti quanti; tutto dipende da quanta moneta c’è», spiegava l’ingegnere. «Ma la moneta non ce l’hanno ancora. Questi sono tutti quelli che sono pronti a spartirsi la torta e inoltre, guarda, come dice lui, in quell’affare il contraente generale non è lui che sceglie. È insomma Ciucci che sceglie tutta questa gente. Il contrattore generale non fa niente e se non vuole e se può trovare un altro che gli fa la medesima cosa per metà prezzo, che fa insomma tutto il comando Ciucci». Come sottolineano i magistrati romani, Zappia conosceva appieno il ruolo e l’autonomia decisionale dell’amministratore delegato della società Stretto di Messina che, quale concessionaria, in base alla normativa del settore, ha ampi poteri di scelta per reperire parte dei capitali necessari.

Non c’era il tempo però di firmare un qualsivoglia accordo con una delle società rimaste in gara, né di accreditarsi come inesauribile banca del Ponte di fronte al Governo e ai dirigenti della Stretto S.p.A.. Il 12 febbraio 2005, il capo della Dda di Roma Italo Ormanni ed il pubblico ministero Adriano Iassillo ottenevano dal Gip cinque provvedimenti di custodia cautelare contro l’ingegnere Giuseppe Zappia, il cingalese Savilingam Sivabavanandan, il broker Filippo Ranieri, il faccendiere franco-algerino Hakim Hammoudi ed il boss siculo-canadese Vito Rizzuto. «In concorso tra di loro e con l’apporto determinante di Giuseppe Zappia – scrivono i magistrati – con mezzi fraudolenti e collusioni, turbavano la gara a licitazione privata alla scelta del general contractor; eliminando così la libera e regolare concorrenza tra varie ditte, con evidente lesione, quindi, degli interessi della pubblica Amministrazione». (9)

L’istruttoria era rapida e il processo Brooklyn, la mafia del Ponte iniziava il 16 marzo 2006 davanti alla sesta sezione penale del tribunale di Roma. Nel corso dell’udienza preliminare Sivalingam Sivabavanandan sceglieva di patteggiare una pena a due anni di reclusione. Zappia e coimputati devono spiegare l’origine dei miliardi di euro messi a disposizione delle aziende in gara. Del loro operato rispondono solo alla pubblica accusa. La società presieduta da Pietro Ciucci (che oggi è pure presidente dell’ANAS), i suoi azionisti di Stato, la pubblica Amministrazione i cui interessi sono stati lesi dalla presunta associazione mafiosa, hanno rinunciato a costituirsi parte civile.

Una proroga sospetta

Torniamo alla gara per la definizione del general contractor. il 18 aprile 2005, quarantotto ore prima della scadenza dei termini fissati dal bando, i vertici della Stretto di Messina S.p.A. decisero di concedere ai consorzi in gara un mese di tempo in più per la presentazione delle offerte. Le ragioni della benevola proroga restarono ignote, ma numerosi osservatori finanziari la giudicarono perlomeno discutibile, anche perché i tre mesi precedenti erano stati caratterizzati da altalenanti e contraddittori contatti tra i due colossi italiani capofila delle cordate in gara, l’Impregilo di Sesto San Giovanni e l’Astaldi di Roma.

Impregilo era al centro di una grave crisi finanziaria ed i vertici aziendali erano stati azzerati da un’inchiesta della procura di Monza per falso in bilancio, false comunicazioni sociali ed aggiotaggio (il procedimento è ancora in corso presso il Tribunale lombardo e vede imputati l’ex presidente d’Impregilo, Paolo Savona, e l’ex amministratore delegato Piergiorgio Romiti). Per evitare il tracollo finanziario i principali azionisti della società avevano invocato l’intervento del governo e delle banche creditrici, auspicando l’ingresso di nuovi e più solidi soci. Nel febbraio 2005 i manager Astaldi dichiararono la propria disponibilità a fornire 250 milioni di euro per ricapitalizzare la società di Sesto San Giovanni, ma la loro offerta veniva respinta. In Impregilo fece invece ingresso un consorzio, IGLI, costituito appositamente dai gruppi Argofin (10), Techint-Sirti (11), Efibanca (12) ed Autostrade S.p.A. (gruppo Benetton). (13) Efibanca, Techint e Sirti cederanno un anno più tardi la loro quota di IGLI a Salvatore Ligresti, il costruttore originario di Paternò a capo del gruppo assicurativo Fondiaria-Sai e della finanziaria Immobiliare Lombarda.

Sfumata l’ipotesi di una compartecipazione in Impregilo, Astaldi tornava al contrattacco proponendo alla “concorrente” un’alleanza strategica per la formulazione di un’unica offerta per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. «L’unificazione delle cordate per la gara del Ponte è un’ipotesi di buon senso», dichiarava Vittorio Di Paola, amministratore delegato di Astaldi, all’indomani dello slittamento del termine per la presentazione delle offerte. «Dopo la fuga di partner stranieri di entrambe le cordate e la scarsa convinzione degli altri – aggiungeva Di Paola – il buon senso vorrebbe che i due gruppi in qualche modo mettessero insieme le forze».

Ancora l’amministratore di Astaldi: «Quello che rimane delle due cordate non è sufficiente a realizzare un’opera come questa. Non è solo un fatto tecnico, c’è anche la necessità di prefinanziare il 20% dell’opera. La presentazione di un’offerta unica diluirebbe i rischi e servirebbe a recuperare la fiducia dei partner. Noi eravamo pronti a presentare l’offerta ma una proroga può far riflettere e favorire un processo di ricomposizione».(14)

La dichiarazione di Vittorio Di Paola non deve stupire più di tanto. Essa giungeva infatti qualche giorno dopo la decisione delle due società spagnole partner di Astaldi, la Necso Entrecanales Cubiertas SA e Ferrovial Agroman SA, di ritirarsi dalla gara per il Ponte. Inaspettatamente, anche il raggruppamento internazionale guidato dall’austriaca Strabag aveva comunicato di essersi ritirato dalla competizione. «Per noi era troppo alto il rischio che avremmo dovuto affrontare dal punto di vista legale, geologico e tecnico-finanziario», dichiarava Roland Jurecka, membro del consiglio d’amministrazione della Strabag.

Meglio soli che la turbativa

Il 2 maggio 2005, il nuovo consiglio d’amministrazione di Impregilo respingeva l’offerta di alleanza con Astaldi. Perché Impregilo ha rifiutato una proposta che avrebbe sicuramente comportato minori rischi e maggiori vantaggi di ordine finanziario e tecnico? Di certo c’è che nei giorni immediatamente precedenti alla riunione del Cda della società di Sesto San Giovanni, era stata depositata un’interrogazione parlamentare al Ministro delle Infrastrutture, a firma dei senatori Brutti e Montalbano (Ds). In essa si affermava che la presentazione di un'unica offerta da parte di Astaldi e Impregilo per il Ponte sullo Stretto «configurava un’effettiva turbativa d’asta e quindi l'irregolarità della gara».

Nell’interrogazione i due parlamentari raccontavano che dopo il ritiro della Strabag, i due raggruppamenti «iniziavano una trattativa con i buoni uffici di un noto avvocato, consulente legale dell’ANAS per la sorveglianza sui lavori dell’Impregilo, notoriamente legato da vincoli professionali ventennali con l’impresa Astaldi, per giungere, attraverso un rimescolamento delle carte, a presentare un’unica offerta in comune tra Astaldi e Impregilo, riducendo in tal modo ad uno il numero dei partecipanti effettivi alla fase conclusiva della gara stessa». Brutti e Montalbano aggiungevano che il rinvio dei termini della gara in questione «era stato fortemente sollecitato alla società Stretto di Messina da una delle due società concorrenti, indebolita nella sua composizione interna dall’uscita di un fondamentale partner francese». Sempre secondo gli interroganti, a tal fine il consiglio d’amministrazione della società concessionaria aveva inserito nel bando una clausola che consentiva di aggiudicare la gara anche in presenza di una sola offerta.

«Appare quanto meno sospetto un rinvio dei termini idoneo a far maturare un accordo tra i due concorrenti e la contemporanea decisione di modificare il bando al fine di rendere aggiudicabile la gara anche in presenza di una sola offerta, che sembra proprio spingere nella direzione dell’accordo tra i concorrenti», commentavano i senatori diessini. Infine si chiedeva al ministro Lunardi se non ritenesse che «il comportamento della società Ponte sullo Stretto sia stato gravemente lesivo degli interessi pubblici, avendo la società consentito, con il rinvio, proprio il perfezionamento dell’intesa tra i concorrenti, con un'evidente lesione della concorrenza e con danno al bilancio pubblico». (15)

Che fosse stato proprio il governo a sollecitare l’accordo tra le aziende italiane, lo avrebbe confermato qualche anno più tardi lo stesso premier Silvio Berlusconi. Nel corso di un comizio tenuto nel novembre 2008 durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore della regione Abruzzo, Belusconi ha dichiarato: «Sapete com’è andata col Ponte sullo Stretto? Avevamo impiegato cinque anni a metter d’accordo le imprese italiane perché non si presentassero separate alla gara d’appalto ma in consorzio... Eravamo andati dai nostri colleghi chiedendo che le imprese non si presentassero in modo molto aggressivo, proprio perché volevamo una realizzazione di mano italiana, e poi avremmo saputo ricompensarli con altre opere pubbliche». L’episodio è stato raccontato dal giornalista Marco Travaglio su “L’Espresso” del 30 dicembre 2008. Come sottolinea lo stesso Travaglio, «se le parole hanno un senso, il premier spiega di avere – non si sa a che titolo – aggiustato una gara internazionale per far vincere Impregilo sui concorrenti stranieri, invitando quelli italiani a farsi da parte in cambio di altri appalti (pilotati anche quelli?)».

Quando alla scadenza del termine, giunsero le offerte delle uniche due cordate rimaste in gara, certe “anomalie” furono sotto gli occhi di tutti.(16) In meno di un anno si erano verificati cambiamenti rilevanti nelle composizioni dei raggruppamenti. Nell’associazione temporanea a guida Impregilo, ad esempio, non comparivano più la francese Vinci, numero uno mondiale del settore, che aveva il 20% delle quote al momento della sua costituzione nel giugno 2004, e la statunitense Parsons, definita dai manager Impregilo come «l’operatore con le maggiori competenze a livello mondiale nella progettazione e realizzazione di ponti sospesi». Nella cordata a guida Astaldi spiccava invece la scomparsa di una delle due società spagnole originarie (Ferrovial Agroman SA era poi rientrata nell’ATI), della giapponese Nippon Steal Corporation e delle italiane Pizzarotti e C.C.C. – Consorzio Cooperative Costruzioni. Vere e proprie fughe provvidenziali, verrebbe da dire, dato che hanno permesso la conclusione della gara per il Ponte diradando alcuni dei i dubbi di legittimità e regolarità.

Sul comportamento di Vinci, “avvicinata” dai faccendieri internazionali legati all’organizzazione criminale di Vito Rizzuto, erano piovute dure critiche da parte dei dirigenti di Astaldi, i quali, in più riprese, avevano rivendicato di aver sottoscritto un accordo in esclusiva con la società francese proprio in vista della realizzazione del Ponte. Il forfait di Parsons evitava invece che la transnazionale finisse nella ragnatela dei conflitti d’interesse che hanno segnato la stagione delle selezioni dei soggetti chiamati alla realizzazione del collegamento stabile. La controllata Parsons Transportation Group, a fine 1999, era stata nominata “advisor” dal Ministero dei lavori pubblici per l’approfondimento degli aspetti tecnici del progetto di massima del Ponte di Messina. La stessa Parsons Transportation Group ha poi partecipato al bando per il Project Management Consultant per la vigilanza delle attività di progettazione ed esecuzione del general contractor del Ponte. Se Parsons Transportation Group avesse vinto questa gara (cosa poi puntualmente verificatasi) e la società madre fosse rimasta associata ad Impregilo, la Stretto di Messina si sarebbe trovata nella spiacevole situazione di affidare i due bandi multimilionari ad una medesima entità, in cui avrebbero coinciso controllore e controllato.

Scelta quasi obbligata quella invece di Pizzarotti. Nel 2004, la società di Parma aveva stipulato con Todini Costruzioni Generali S.p.A. un contratto di acquisizione del ramo d’azienda comprendente la partecipazione nel Consorzio CEPAV Due, incaricato della realizzazione della nuova linea ferroviaria Milano-Verona. Si da il caso che contestualmente Todini Costruzioni aveva costituito insieme a Rizzani de Eccher e Salini Costruzioni, il Consorzio Risalto, uno dei soci dell’austriaca Strabag nella fase di pre-qualifica del Ponte sullo Stretto.

Perlomeno miracolosa l’uscita di scena del Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna. Originariamente la Lega delle Cooperative si vedeva rappresentata in entrambe le cordate in gara per i lavori del Ponte: con la CCC in ATI con Astaldi e con la CMC - Cooperatriva Muratori Cementisti di Ravenna in ATI con la “concorrente” Impregilo. Con l’aggravante che proprio la CMC risultava essere una delle 240 associate, la più importante, della cooperativa “madre” CCC di Bologna. Ciò avrebbe comportato la violazione delle normative europee e italiane in materia di appalti pubblici, le quali escludono espressamente la partecipazione ad una gara di imprese che «si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo», ovverossia di società tra esse «collegate o controllate». In particolare nel Decreto Legislativo del 10 gennaio 2005 n. 9, che integra e modifica le norme previste dalle leggi per l’istituzione del sistema di qualificazione dei contraenti generali delle «opere strategiche e di preminente interesse nazionale» si stabilisce che «non possono concorrere alla medesima gara imprese collegate ai sensi dell’articolo 3 della direttiva 93/37/CEE del Consiglio, del 14 giugno 1993». Lo stesso decreto afferma il «divieto ai partecipanti di concorrere alla gara in più di un’associazione temporanea o Consorzio, ovvero di concorrere alla gara anche in forma individuale qualora abbiano partecipato alla gara medesima in associazione o Consorzio, anche stabile».

L’ipotesi di violazione di queste norme da parte delle due coop è stato sollevato, tra gli altri, dalla parlamentare Anna Donati e ripreso dai maggiori organi di stampa nazionali. Il WWF, in particolare, è ricorso davanti all’Autorità per i Lavori Pubblici e alla Commissione Europea per chiedere l’annullamento della gara. (17)

Mentre la Società Stretto di Messina sceglieva di non intervenire, alla vigilia dell’apertura delle buste per il general contractor, il Consorzio Cooperative Costruzioni scompariva provvidenzialmente dalla lista delle società della cordata Astaldi. Così la coop "madre" lasciava il campo alla coop "figlia" che si aggiudicava con Impregilo il bando di gara.

Ha vinto Impregilo!

«La gara per il Ponte sullo Stretto la vincerà Impregilo». Alla vigilia dell’apertura delle offerte delle due cordate in gara, nel corso di una telefonata con Paolo Savona (l’allora presidente della società di Sesto San Giovanni), l’economista Carlo Pelanda si dichiarava sicuro che sarebbe stata proprio l’associazione d’imprese guidata da Impregilo ad essere prescelta dalla Stretto di Messina per la costruzione del Ponte. Nel corso della stessa telefonata Pelanda sosteneva di avere avuto assicurazioni del probabile esito della gara dal senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, già presidente di Publitalia ed amministratore delegato di Mediaset.

Sfortunatamente, il colloquio tra Paolo Savona e l’amico Carlo Pelanda è stato intercettato dagli inquirenti della procura di Monza nell’ambito dell’inchiesta per falso in bilancio e false comunicazioni sociali nella società di Sesto San Giovanni. Incuriositi dalla singolare vocazione profetica dell’interlocutore, i magistrati lombardi interrogarono l’ex presidente d’Impregilo, Paolo Savona, sul senso di quella telefonata. «Era una legittima previsione», risponderà Paolo Savona. «Il professor Pelanda mi stava spiegando che noi eravamo obiettivamente il concorrente più forte». (18)

Carlo Pelanda, editorialista del “Foglio” e del “Giornale” – quotidiani del gruppo Berlusconi – ricopriva al tempo l’incarico di consulente del ministro della difesa Antonio Martino, origini messinesi e uomo di vertice di Forza Italia. Pelanda era pure un intimo amico di Marcello Dell’Utri, al punto di aver ricoperto l’incarico di presidente dell’associazione “Il Buongoverno”, fondata proprio dal senatore su cui pesa una condanna in primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. (19)

In verità, le premesse per una vittoria d’Impregilo c’erano tutte. Basti pensare ai conflitti d’interesse che avevano turbato l’intero iter di gara. Come ad esempio quelli relativi alla composizione della Commissione nominata dalla Stretto di Messina S.p.A. per valutare le offerte e disporre l’aggiudicazione della gara. La necessaria “indipendenza” della Commissione fu messa in dubbio ancora dalla parlamentare Anna Donati, che in un’interrogazione presentata subito dopo l’ufficializzazione dei vincitori, rilevò come l’ingegnere danese Niels J. Gimsing, uno dei membri dell’organismo aggiudicatore, aveva fatto parte (dal 1986 al 1993) della commissione internazionale di esperti per la valutazione del progetto di massima del Ponte sullo Stretto; Gimsing aveva inoltre lavorato ininterrottamente dal 1983 al 1998, come consulente per la progettazione di gara e la supervisione lavori per la costruzione dello Storbelt East Bridge. (20)

Coincidenza vuole che il ponte di Storbelt sia stato progettato dalla società di consulenza Cowi di Copenaghen a cui il raggruppamento temporaneo d’imprese guidato da Impregilo aveva affidato “in esclusiva” l’elaborazione progettuale del Ponte di Messina. Membro del Cowi Group è pure lo studio d’ingegneria Buckland & Taylor Ltd., con sede a Vancouver, altro progettista del Ponte sullo Stretto e di tutte le infrastrutture di collegamento similari disseminate in Canada, paese di Giuseppe Zappia. L’ingegnere Niels Gimsing avrebbe dovuto astenersi dal partecipare alla Commissione di gara per il general contractor, anche perché l’allora amministratore delegato della società Impregilo, Alberto Lina, era stato dal 1995 al 1998 presidente di Coinfra, la società dell'IRI che aveva partecipato come “fornitore” alla realizzazione in Danimarca dello Storebelt Bridge, insieme a Cowi, collaborando direttamente con il professionista danese.

L’ingegnere Niels J. Gimsing ha pure ricoperto il ruolo di membro della Commissione tecnica di aggiudicazione della gara per il ponte Stonecutters, Hong Kong. Si tratta di una struttura lunga 1.018 metri ed alta 300 che collegherà il porto commerciale di Kwai Chung con il nuovo aeroporto di Hong Kong. Ebbene, il progetto “Stonecutters” vede pure la firma dello studio Flint & Neill Partnership (Gran Bretagna) di cui è titolare l’ingegnere Ian Firth, altro componente della Commissione aggiudicatrice della gara per il general contractor del Ponte sullo Stretto. Firth aveva pure fatto da consulente per la Società Stretto di Messina per la redazione dei documenti tecnici di gara. Nel progetto di Hong Kong, il nome dell’ingegnere britannico compare come concept designer accanto a Cowi Consulting Engineers and Planners AS, controllata dall’omonimo gruppo danese, e allo studio canadese Buckland & Taylor. Ulteriore consulenza progettuale per il ponte di Hong Kong è stata pure fornita dalla società statunitense Maunsell AECOM, il cui project engineer è John Cadei, tra i membri della commissione nominata per l’aggiudicazione della gara per il Project Management Consultant del Ponte.

Un consulente autostradale

Altrettanto inopportuna è apparsa la nomina nella Commissione di gara per il general contractor dell’urbanista Francesco Karrer. Il professore Karrer è stato infatti consulente della Società Italiana per il Traforo del Monte Bianco, gestore dell’omologo tunnel, in mano per il 51% alla finanziaria della famiglia Benetton, saldamente presente in Autostrade S.p.A. e nel consorzio IGLI-Impregilo. Karrer è poi consulente di R.A.V. – Raccordo Autostradale Valle d’Aosta, realizzatore e gestore del raccordo autostradale fra la città di Aosta e il traforo del Monte Bianco. Dell’autostrada Aosta-Monte Bianco il professore di Roma ha pure svolto lo studio di valutazione d’impatto ambientale. Il pacchetto di maggioranza di R.A.V. è in mano alla stessa Società Italiana per il Traforo del Monte Bianco della famiglia Benetton, mentre tra gli azionisti di minoranza compare il costruttore Marcellino Gavio, altro importante azionista di IGLI-Impregilo e della A.C.I. S.c.p.a. (Argo Costruzioni Infrastrutture Soc. consortile), in A.T.I. con la società di Sesto San Giovanni per i lavori del Ponte.

Le consulenze professionali di Francesco Karrer sono inoltre tra le più richieste dal gioiello di casa Benetton, Autostrade S.p.A., a capo di buona parte del sistema autostradale italiano. Il professionista è stato incaricato della costruzione del primo “bilancio ambientale” della società; sempre di Autostrade S.p.A., Karrer è stato consulente per il riavvio del progetto della Variante di Valico; “incaricato“ del coordinamento scientifico dello studio d’impatto ambientale del progetto di riqualificazione dell’Autostrada A14 e della Tangenziale di Bologna; “responsabile scientifico del S.I.A.” del progetto di adeguamento dell’Autostrada A1 nei tratti Aglio-Incisa e Firenze Sud-Incisa Valdarno. L’urbanista è stato anche membro della Commissione della Regione Veneto per la valutazione della proposta di realizzazione del cosiddetto “Passante autostradale di Mestre”, i cui lavori sono stati poi assegnati ad un consorzio guidato dalla solita Impregilo.

Ma nel curriculum vitae del professore Karrer spicca soprattutto la lunga opera professionale svolta a favore del Ponte: per conto della concessionaria Stretto di Messina, Karrer ha prestato la sua consulenza per la gestione degli studi ambientali connessi alla realizzazione dell’opera, mentre su incarico dell’Istituto Superiore dei Trasporti (ISTRA) ha coordinato lo studio dell’“opzione zero” (o “senza opera”) nell’ambito del SIA del progetto di attraversamento stabile. Nel 2002 ha pure ricoperto il ruolo di componente della commissione per l’aggiudicazione dei servizi relativi allo studio d’impatto ambientale (gara affidata ad un raggruppamento temporaneo d’imprese in cui compariva Bonifica S.p.A., società di cui Karrer è stato progettista e consulente).21 Un anno prima l’urbanista aveva pure collaborato allo studio finalizzato a valutare «gli effetti di valorizzazione e riorganizzazione territoriale a seguito della realizzazione del Ponte sullo Stretto», commissionato al CERTeT – Centro di Economia Regionale dei Trasporti e del Turismo dell’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. Karrer è stato infine «vincitore, in associazione con l’Università Bocconi, PriceWaterhouse e Net Engineering, della gara internazionale indetta dal Ministero dei Lavori Pubblici per l’advisor sul progetto di attraversamento stabile dello Stretto di Messina (aspetti ambientali, territoriali-urbanistici, trasportistici e di fattibilità economica)».

L’Impregilo sul Ponte

Se poi si passa ad alcuni dei professionisti che sono stati membri del consiglio di amministrazione della Stretto di Messina S.p.A., sembra esserci più di un feeling con il colosso delle costruzioni di Sesto San Giovanni.

Nell’aprile del 2005, ad esempio, venne nominato quale membro del Cda della concessionaria del Ponte, il dottor Francesco Paolo Mattioli, ex manager Fiat e Cogefar-Impresit (oggi Impregilo), consulente della holding di Torino e responsabile del progetto per le linee ad alta velocità ferroviaria Firenze-Bologna e Torino-Milano di cui Impregilo ricopre il ruolo di general contractor. Dodici anni prima dell’incarico nella Stretto S.p.A., Francesco Paolo Mattioli era stato arrestato su ordine della Procura di Torino interessata a svelare i segreti dei conti esteri della Fiat, dove risultavano parcheggiati 38 miliardi di vecchie lire destinati a tangenti. Nel maggio ‘99 arrivò per Mattioli la condanna a un mese di reclusione, pena confermata in appello e infine annullata in Cassazione per «sopravvenuta prescrizione del reato».

Nel consiglio di amministrazione della società concessionaria sedeva al momento dell’espletamento delle gare il Preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università "La Sapienza" di Roma, prof. Carlo Angelici. Angelici era contestualmente consigliere di Pirelli & C. e di Telecom Italia Mobile (TIM), società di cui erano (e sono) azionisti i Benetton. Edizioni Holding, altro gioiello del gruppo di Treviso - attraverso Schemaventotto - controlla la Società per il Traforo del Monte Bianco, di cui è stato consulente l’ingegnere Karrer e membro del consiglio d’amministrazione un altro “storico” del Cda della Stretto di Messina, il direttore generale ANAS Francesco Sabato. Va poi rilevato che sindaco effettivo di Autostrade-Benetton è la riconfermata sindaco effettivo della Stretto di Messina, dottoressa Gaetana Celico.

Presenze “pesanti” anche all’interno di Società Italiana per Condotte d’Acqua, altro partecipante alla cordata general contractor del Ponte. Condotte d’Acqua è quasi internamente controllata dalla finanziaria Ferfina S.p.A. della famiglia Bruno. Ebbene, nei consigli d’amministrazione di Ferfina e di Condotte Immobiliare (la immobiliare di Condotte d'Acqua) compariva nel giugno 2005 il professore Emmanuele Emanuele, contestualmente membro del Cda della concessionaria statale per il Ponte.

Dal 2002, presidente della Stretto di Messina S.p.A. è l’on. Giuseppe Zamberletti, più volte parlamentare Dc e sottosegretario all’interno e agli esteri ed ex ministro per la protezione civile e dei lavori pubblici. Invidiabile pure la sua lunga esperienza in materia di grandi infrastrutture: Giuseppe Zamberletti è stato presidente del Forum europeo delle Grandi Imprese, uno degli interlocutori privilegiati della Commissione europea, mentre da più di un ventennio ricopre la massima carica dell’Istituto Grandi Infrastrutture (IGI), il “centro-studi” d’imprese di costruzione, concessionarie autostradali, enti aeroportuali, istituti bancari, per approfondire l’evoluzione del mercato dei lavori pubblici, monitorare le grandi opere e premere sugli organi istituzionali per ottenere modifiche e aggiustamenti legislativi in materia di appalti e concessioni a vantaggio degli investimenti privati. In questa potente lobby dei signori del cemento, compaiono quasi tutti i concorrenti alle gare per la realizzazione del Ponte.

Vicepresidente vicario di IGI al tempo delle gare del Ponte, il cavaliere Franco Nobili, trent’anni a capo della società di costruzione Cogefar del gruppo Gemina-Fiat (poi entrata a far parte di Impregilo), passato poi nel Cda della Pizzarotti di Parma, che ha integrato in un primo tempo la cordata guidata da Astaldi per il general contractor del Ponte. Dal 1989 al 1993 Franco Nobili ha pure ricoperto la carica di presidente dell’IRI, l’istituto - poi liquidato - a capo dell’industria statale nazionale e di cui è stato direttore generale e membro del Collegio dei liquidatori l’odierno amministratore delegato della Stretto di Messina, Pietro Ciucci.

Tra gli odierni vicepresidenti del consiglio direttivo dell’Istituto Grandi Infrastrutture ci sono i manager delle società entrate nel business del Ponte: Alberto Rubegni amministratore delegato d’Impregilo (recentemente condannato a 5 anni di reclusione nell’ambito del processo TAV Firenze); Pietro Gian Maria Gros, presidente di Autostrade-Benetton;, Vittorio Morigi, Ad del Consorzio Muratori Cementisti; Paolo Pizzarotti, a capo dell’omonima azienda di Parma; finanche il professor Carlo Bucci (in rappresentanza dell’ANAS, azionista di maggioranza della Stretto di Messina S.p.A.), consigliere d’amministrazione della concessionaria per il Ponte nel triennio 2005-2007.

Ci sono poi le aziende presenti nel consiglio direttivo dell’Istituto. Anche qui abbondano le società che hanno concorso su fronti opposti ai differenti bandi di gara per il Ponte sullo Stretto. Tra esse, ad esempio, Società Italiana per Condotte d’Acque (nell’ATI general contractor), più SATAP S.p.A.., società autostradale controllata dalla finanziaria Argos di Marcellino Gavio (azionista IGLI-Impregilo). All’interno di IGI anche Astaldi, capogruppo dell’ATI “contrappostasi” a Impregilo, con le associate Grandi Lavori Fincosit e Vianini Lavori dell’imprenditore-editore Caltagirone.

Uno dei prossimi maggiori impegni della Stretto S.p.A. sarà quello di ritoccare l’ammontare del contratto sottoscritto da Impregilo & socie; ferro e acciaio sono cresciuti vertiginosamente nel mercato internazionale, mentre altre voci di spesa potrebbero essere state sottostimate in fase di pre-progettazione. Date affinità e cointeressenze, chissà se alla fine, per comodità, non ci si veda tutti in Piazza Cola di Rienzo 68, sede dell’IGI e dei signori del Ponte.

Note

(1) Il general contractor o “contraente generale” è la figura nata con la cosiddetta “Legge obiettivo” (n. 190/2002) che regola tutte le Grandi Opere strategiche. Questa figura gode della “piena libertà di organizzazione del processo realizzativo, ivi compresa la facoltà di affidare a terzi anche la totalità dei lavori stessi”, una libertà, che si traduce anche nel fatto che “i rapporti del contraente generale sono rapporti di diritto privato”. Fortemente contestata da ambientalisti ed operatori economici, nel giugno 2006 il general contractor è stato duramente censurato dalla Commissione europea che lo ha giudicato «non conforme» al diritto comunitario in materia di appalti pubblici e «segnatamente alla direttiva 93/37/CEE e alla nuova direttiva 2004/18/CE, della disciplina del sistema di riqualificazione dei contraenti generali delle opere strategiche e di preminente interesse nazionale».

(2) Tribunale Penale di Roma, Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari Ufficio 23°, Ordinanza di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nei confronti di Vito Rizzuto + 4, Roma, 22 dicembre 2004.

(3) M. Lillo e A. Nicaso, I grandi affari del Padrino del Ponte, “L’Espresso”, 22 febbraio 2005.

(4) I testi delle intercettazioni telefoniche ed ambientali riportate da qui in poi tra virgolette sono tratti da: Tribunale Penale di Roma, Ordinanza di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nei confronti di Vito Rizzuto + 4, cit.

(5) Il bando di gara per la pre-selezione del general contractor sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il successivo 15 aprile 2004. Veniva fissato come termine per la presentazione delle domande di partecipazione la data del 13 luglio 2004, poi prorogato al 15 settembre.

(6) Secondo quanto raccontato da Giuseppe Zappia ai magistrati romani, il “principe” sarebbe stato Bin Nawaf Bin Abdulaziz Al Saud, uno dei nipoti di re Fahd d’Arabia, personaggio legato da antica amicizia a Silvio Berlusconi. Per gli inquirenti, il “numero uno” sarebbe invece stato il boss mafioso Vito Rizzuto.

(7) A. Perrongelli, Le mani del clan Rizzuto sul Ponte di Messina, “Corriere Canadese”, 24 maggio 2005.

(8) Nell’ordinanza non vengono specificati i termini secondo cui i “pentiti” avrebbero fatto riferimento alla presunta mafiosità della società, né tantomeno risultano indagini relative a possibili collusioni con la criminalità organizzata.

(9) Tribunale Penale di Roma, Ordinanza di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nei confronti di Vito Rizzuto + 4, cit., p.4.

(10) Argofin è una società finanziaria controllata dal costruttore Marcellino Gavio, che opera principalmente nel settore della gestione di reti autostradali e delle costruzioni. Ad Argofin risale il controllo di due delle maggiori imprese di costruzioni italiane, Itinera e Grassetto.

(11) Techint è la holding della famiglia italo-argentina dei Rocca e controlla le società siderurgiche dello storico gruppo Dalmine e importanti acciaierie in America latina, Stati Uniti, Tailandia, Giappone e Cina. Sirti S.p.A. è il gruppo leader in Italia nel settore dell’impiantistica e telefonia fissa e cellulare, attivo anche nel settore dell’Alta velocità ferroviaria e dei sistemi militari avanzati (impianti di telecomunicazione e radio, ecc.).

(12) Efibanca è la merchant bank di BPI - Banca Popolare Italiana (ex Banca di Lodi), al centro delle cronache finanziarie (e giudiziarie) per l’assalto alla Banca Antonveneta.

(13) Nei mesi successivi alla presentazione dell’offerta per la gare del Ponte, Impregilo è stata oggetto di ulteriori scambi azionari. Nell’autunno 2005, è stato il colosso statunitense Hbk Investments ad entrare nel capitale della società con una quota del 2,29%. La Consob ha poi rilevato la scalata da parte della Banca Popolare di Milano, che ha prima portato la sua partecipazione nella società al 4,72%, per poi scendere nel marzo 2006 al di sotto del 2%. Nel febbraio 2006 ha invece fatto ingresso il gruppo finanziario italo-britannico Theorema Asset Management, rilevando il 2,13% del pacchetto azionario. Gli analisti finanziari hanno pure indicato un controllo su Impregilo da parte di uno dei maggiori gruppi finanziari internazionali, Morgan Stanley, che sarebbe giunto a controllare nel settembre 2005 l’8% del capitale azionario della società (5,25% in mano a Morgan Stanley International e 2,87% a Morgan Stanley & Co.). Un’acquisizione tutt’altro che limpida e lineare: chiamata in causa dal quotidiano Il Giornale di Milano in due articoli del 19 e 20 ottobre 2005 (Stanley Morgan veniva accusato di fare da «scudo a un possibile cavaliere mascherato»), il gruppo rispondeva con un ambiguo comunicato in cui dichiarava che «nessuna società del gruppo deteneva posizioni in Impregilo per le quali fosse necessario effettuare le comunicazioni previste dalla normativa di riferimento. La partecipazione complessivamente calcolata era infatti composta da posizioni detenute per conto di terzi a vario titolo, per le quali non esiste da parte di Morgan Stanley nessun obbligo di comunicazione».

(14) ”Astaldi: unificare le cordate”, Gazzetta del Sud, 20 aprile 2005.

(15) P. Brutti, Montalbano, Interrogazione parlamentare ai Ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti e dell'Economia e delle Finanze, Legislatura 14º - Aula - Resoconto stenografico della seduta n. 791 del 03/05/2005.

(16) A conclusione della gara furono presentate le offerte dell’A.T.I. con capogruppo Astaldi S.p.A. e i mandanti Ferrovial Agroman SA, Maire Engineering S.p.A., Ghella S.p.A., Vianini Lavori S.p.A., Grandi Lavori Fincosit S.p.A.;; e dell’A.T.I. formata dalla mandataria Impregilo S.p.A. e dai mandanti Sacyr SA, Società Italiana per Condotte D’Acqua S.p.A., Cooperativa Muratori Cementisti-C.M.C. di Ravenna, Ishikawajima-Harima Heavy Industries CO Ltd., A.C.I. S.c.p.a. (Argo Costruzioni Infrastrutture Soc. consortile per azioni)-Consorzio stabile.

(17) WWF Italia, Richiesta di annullamento della fase di prequalifica e conseguente sospensione delle procedure di valutazione delle offerte per la scelta del General Contractor del Ponte sullo Stretto per violazione dell’art. 3 della Direttiva 93/37/CEE, Roma, 28 giugno 2005.

(18) L. Fazzo, F. Sansa, «Il Ponte? Lo vince Impregilo», parola di Marcello Dell’Utri, “La Repubblica”, 3 novembre 2005.

(19) Già consigliere di Francesco Cossiga nel settennato alla Presidenza della Repubblica, il 28 gennaio 1996 Carlo Pelanda ha partecipato assieme a Marcello Dell’Utri ad una conferenza dell’associazione “Il Buongoverno” a Mondello (Palermo). De “Il Buongoverno” è pure socio l’ex ministro Antonio Martino.

(20) “Il Sole 24 ore”, 11 giugno 2005.

(21) In particolare il professore Francesco Karrer ha curato per conto dell’A.T.I. Bonifica-Roksoil-Hydrodata il progetto di variante della strada per Gressoney (sul fiume Lys), in Valle d’Aosta. Rocksoil è la società di ingegneria dell’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi

L'UOMO del Ponte si chiama Remo Calzona. Al dipartimento di ingegneria strutturale e geotecnica della Sapienza di Roma tutti lo conoscono. E anche a Reggio Calabria. Decine e decine di sopralluoghi tra Scilla e Cariddi e viaggi in tutto il mondo. Figura illuminata a cui prima l'Anas (1986) poi il governo (2002) hanno affidato la presidenza del comitato tecnico-scientifico per la verifica della fattibilità della grandiosa opera del Ponte sullo Stretto.

"La soluzione progettuale mi appare oggi assai costosa e per nulla immune da crisi strutturali".



Ahi, casca il Ponte?

"Bellissima domanda alla quale rispondo con Popper (ho rubato al suo pensiero il titolo del mio ultimo lavoro): La ricerca non ha fine".



L'uomo è fallibile.

"In Danimarca il ponte sullo Storebelt ha patìto il fenomeno del cosiddetto galopping. Il nastro d'asfalto si è andato deformando, tecnicamente è una deformazione ortogonale alla direzione del vento".



Su e giù, come fosse un grosso serpente.

"Esattamente così. Una deformazione, dovuta al fluido dinamico che impone di bloccare per motivi di sicurezza il passaggio di cose e persone. Ma il ponte si realizza proprio per permettere il transito ininterrotto".



Se soffia il vento a Scilla, ponte chiuso.

"Anche cento giorni all'anno".



Lei propone di ridurre l'ampiezza delle campate da 3300 a 2000 metri.

"Ci siamo accorti che la riduzione azzera quel fenomeno".



Ma nel 2002 era di diverso parere.

"Bellissima considerazione: mi viene in aiuto ancora Popper. La scienza misura i suoi passi sui propri errori".



I ponti si costruiscono ma ogni tanto cadono.

"Hai voglia se cadono! Nel secolo scorso abbiamo conosciuto il collasso provocato dalla fatica dei materiali".



Come un asinello che si stanca e stramazza al suolo.

"Carichi ripetuti sulla medesima struttura, fatica sviluppata fino al punto di insostenibilità".



Crash.

"Con la crisi del ponte di Tacoma, sopra Los Angeles, ci siamo accorti di un altro elemento destabilizzante, chiamato fletter. Sempre causato dal vento".



Il vento eccita, maledetto lui.

"Eccita".



Adesso siamo di fronte al galopping.

"Fare un ponte e spendere tanti quattrini per vederlo chiuso che senso ha?".



Ne ha parlato con la società dello Stretto di Messina?

"Pensi che l'amministratore delegato, l'ingegner Ciucci, mi ha persino diffidato a pubblicare il libro che documenta le mie nuove ragioni".



E perché?

"E che ne so! Uno gli dice che si può fare un ponte con meno della metà dei soldi e più sicuro e si sente trattato in questo modo".



Lo deve dire a Gianni Letta.

"Io scrivo e riscrivo. Soprattutto a Letta: guarda che così non va".



Ma Impregilo, la ditta costruttrice, ha il suo progetto. Chiederà penali.

"Chiamassero me: la metterei in ginocchio".



Professore: e se tra tre anni, o cinque o dieci lei scova qualche altro errore?

"Bellissima domanda: rispondo ancora con Popper. Lavoriamo sugli errori e sull'esperienza per fornire una soluzione progettuale che riduca il rischio di collasso della struttura entro limiti convenuti".



Limiti convenuti.

"Io non sono un mago".

Insieme abbiamo dato vita alla manifestazione del 22 gennaio 2006. Quella giornata segnò il punto di arrivo di un percorso più che decennale che è giunto mobilitare decine di migliaia di persone ed ha fatto del movimento contro il ponte un laboratorio politico e sociale capace di far convivere al proprio interno anime molto differenti tra di loro. Fu quella manifestazione a segnalare l'avversione al ponte di una parte consistente dell'opinione pubblica. Quel segnale venne raccolto sul piano elettorale e tradotto nella formula ambigua di "opera non prioritaria" nel programma del Governo Prodi (operazione che ha fermato la costruzione del ponte, ma che ha lasciato sul campo la Stretto di Messina Spa ed il contratto con il general contractor).

Oggi ci troviamo a dover nuovamente affrontare l’offensiva dei fautori del Ponte. Sostenuti da Berlusconi, che ne ha sempre fatto una sua bandiera, e dal Presidente della Regione Sicilia Lombardo, che guarda evidentemente con grande interesse ai flussi finanziari che ne deriverebbero, i pontisti si apprestano se non proprio a costruirlo (rimangono, infatti, inalterati gli interrogativi dal punto di vista ingegneristico e del finanziamento) ad aprire un capitolo di spesa dentro il quale, di volta in volta, far confluire le risorse a disposizione per progettazione, sbancamenti, movimento terra, info-point ecc.

Va detto, peraltro, che sulla politica delle grandi opere si gioca in parte il futuro delle condizioni materiali di vita di tutti. L'utilizzo dei fondi Fintecna (originariamente destinati alla costruzione del ponte e poi stornati dal Governo Prodi per opere infrastrutturali in Sicilia ne Calabria) per coprire i mancati introiti causati dall'abolizione dell'Ici sulla prima casa dimostra che i soldi per le grandi opere saranno ricavati dalla riduzione delle spese sociali (istruzione, sanità, servizi). Da questo punto di vista l'agire nell'ambito del generale Patto di Mutuo Soccorso tra le comunità in lotta contro le devastazioni territoriali da un significato politico ulteriore alla nostra battaglia.

Facciamo, quindi, appello a tutti perchè si rimetta in moto la mobilitazione contro il ponte, affinché si comincino a tessere nuovamente quelle relazioni virtuose che ci hanno consentito di fermarli la prima volta, per costruire un percorso di iniziative che ci porti a realizzare, magari proprio a gennaio prossimo, a tre anni di distanza, una nuova grande manifestazione.

RETE NO PONTE, Stretto di Messina, luglio 2008

Le grandi opere sono numerose, sorgono in molte zone del paese nell’intendimento di risolvere le necessità più diverse, ma hanno sempre alcuni tratti comuni.

In primo luogo sono, appunto, grandi e occupano molto spazio e usano (o sprecano) molte risorse ambientali, tanto nel corso della costruzione che in quello di funzionamento. Poi modificano per sempre il paesaggio trasformando e deformando la memoria delle cose. I tempi di realizzazione, alla fine, saranno almeno doppi di quelli preventivati e anche il costo finale dell’opera, se va tutto bene, sarà raddoppiato o triplicato. Alla fine di tutto, tra il pubblico si diffonde una sensazione: che l’opera sia esagerata.

Sarebbe potuta essere assai più piccola, cioè meno imponente e meno invadente; tanto più se, terminato il ciclo di vita o di uso; o finiti i soldi prima del completamento, ciò che avviene di frequente; o cambiate le tecniche o le scelte prioritarie della società, le grandi opere del ciclo politico precedente rimangono inutili e abbandonate. O, come si dice, dismesse.

1. Non tutte le interruzioni dei lavori, o i cambi di destinazione in corso d’opera, sono però negative.

C’è un’eterogenesi dei fini perfino nelle grandi opere. Se poi c’è di mezzo l’imperscrutabile fine ultimo, la questione è ancora più impervia per una mente umana. Un caso assai noto è quello del duomo di Siena, la cattedrale di S. Maria Assunta; un avvenimento non infrequente nelle storie delle cattedrali. Le città-stato rivaleggiavano nel costruire cattedrali, che erano la forma massima dell’orgoglio cittadino e la prova del potere della Chiesa, degli ordini religiosi e degli ottimati locali. Ma è avvenuto varie volte che si sia reso necessario ridurre in modo drastico gli esagerati progetti iniziali. Nel caso di Siena, l’edificio attuale, di perfezione assoluta, così ricolmo di arte e di religiosità, è solo il transetto della grande opera prevista inizialmente.

Oggi i tecnici sanno che se la grande opera fosse stata completata con le potenti navate, secondo il progetto di Lando di Pietro, mezza città sarebbe franata sotto il peso. D’altro canto, non è sempre andata così a buon fine. Ogni persona conosce almeno un gigantesco stabilimento abbandonato, spesso prima dell’inaugurazione o un ponte che si erge nella campagna senza senso, senza strade di uscita. Sono le repliche moderne, metafisiche, delle rovine antiche, degli acquedotti romani? Di certo manca la patina della memoria e della bellezza.

2. Per tornare alle grandi opere odierne, molti tra i critici pensano che le dimensioni del manufatto siano strettamente connesse al ricavo delle imprese o dell’impresa che ha curato i lavori. La visibilità, l’imponenza stessa dell’opera non è strettamente necessaria all’uso che è previsto, ma è una sorta di prova della sua indispensabilità. E’ talmente grosso questo manufatto, talmente costoso che deve anche essere necessario: molti ragionano così. Vi è insomma un capovolgimento tra interesse primario e secondario. Quello che conta è scegliere di fare l’opera e farla immensa. Il perché farla lo si deciderà dopo, in un secondo tempo. A qualcosa, comunque, servirà.

3. Si deve insomma immaginare che una grande impresa di lavori pubblici, proprio come una cooperativa di costruzione, sia artigianale sia con migliaia di addetti, hanno sempre bisogno di lavorare, quest’anno, l’anno prossimo, tra cinque anni; e per loro lavorare significa costruire; meglio se in grande.

Ma come nota per esempio Marco Cedolin, autore di un libro assai apprezzabile in argomento, (“Grandi opere – Le infrastrutture dell’assurdo” Arianna editrice), l’interesse per le grandi opere è condiviso da un ceto economico e finanziario, fatto di promotori e industriali, pubblici amministratori e banchieri, giornalisti e professori che spinge per ottenere le costruzioni, un po’ per condividere il profitto connesso alla grande opera, un po’ perché il clima sociale favorevole alle grandi opere è quello che mettein movimento i capitali e consente di realizzare i fini della società nella tale o talaltra generazione; o almeno quelli ritenuti tali. Gli stakeholder, i portatori d’interessi, delle grandi opere sono in ultima analisi assai più numerosi degli shareholder, gli azionisti delle compagnie costruttrici. E’ importante segnalare il ruolo decisivo degli intellettuali e dei media che hanno il compito di convincere l’opinione pubblica e la maggioranza della popolazione dell’utilità del nuovo manufatto, anzi della sua assoluta necessità.

Gli argomenti sono quelli ben conosciuti del confronto internazionale, del ritardo nei confronti degli altri paesi consimili con cui ci si vede in competizione; e un po’ anche quelli, meno economicistici, di erigere un monumento a se stessi, al proprio futuro. Sono in modo un po’ farsesco, gli argomenti dei costruttori di cattedrali, anche se la fede in dio non è proprio uguale alla fede in Mammona.

4. C’è una grande opera di cui nel corso di molti anni è stato possibile studiare a fondo e discutere la progettazione e l’utilità: è il Ponte sullo Stretto di Messina. Si è parlato di poesia e mitologia, di paesaggio e di fauna, di terremoti e di mafie, di ambiente e di denaro, di traffici e di modernità, di imprese pubbliche e di imprese private, di treni e di autoveicoli, di Anas e di Regioni, di 30 campi di calcio consecutivi da appoggiare sul Ponte, di vento forte e di Valutazione d’impatto ambientale, di monumento e di riscatto siciliano, di gare internazionali e di cordate sempre uguali, di progettazione da centinaia di milioni di euro e di penalità da pagare, di associazioni ambientaliste e di sindaci, di consiglieri regionali siciliani e calabresi, di lavoratori assunti e licenziati: sterratori, edili, manovali, manutentori, traghettatori di Messina e di Villa San Giovanni. E se ne parla ancora: il Ponte immaginato è sempre là che ci aspetta.

5. Il ministro delle infrastrutture Altero Matteoli ha scritto una lettera, invitando il presidente della Società Stretto di Messina a riprendere l’annoso progetto del Ponte e portarlo a termine. Pietro Ciucci – questo il suo nome – nel frattempo è diventato presidente e direttore generale dell’Anas, la società pubblica delle strade statali che della Stretto di Messina spa è il maggiore azionista con l’80% delle azioni. Ciucci rimane impassibile all’inattesa comunicazione.

Promette secondo l’indicazione del ministro di cominciare i lavori nel 2010 e di concluderli sei anni dopo. «E chiaro però – ha osservato – che prima è opportuno terminare l’autostrada per la quale siamo a circa il 40% dei lavori totali». Il presidente dell’Anas allude alla A3 (Salerno- Reggio Calabria). Inoltre ha assicurato di essere convinto che «il Ponte sullo Stretto sia come l’ultimo lotto della Salerno-Reggio. Di concerto con il nuovo Governo,adesso il progetto potrà partire».

Ciucci in questo modo ha indebolito, piuttosto che rafforzato la soluzione Ponte. In breve tempo è presumibile che salterà o come presidente dell’Anas o come presidente del Ponte, ridando spazio a uno degli uomini di Pietro Lunardi o di qualche altro giro più alla moda. Corre poi un’altra voce, secondo la quale i quattrini accantonati per grandi opere viarie (Ponte ovvero Palermo-Messina) in realtà sarebbero quelli che il governo dovrà sequestrare per adempiere alla sua promessa in tema di Ici sulla prima casa. Ma trascuriamo questo maligno sospetto.

6. Ciucci aveva però qualche ragione. Era a colloquio con il presidente della giunta di Calabria, Giuseppe Scopelliti che gli faceva presente i disagi profondi, tra tangenziale di Reggio e tratto autostradale tra Bagnara e Scilla, moltiplicati dai problemi di certificato antimafia alla società Condotte, incaricata di molti lavori.

Non poteva dunque dimenticare che il futuro Ponte serve a poco se non ci sono strade che lo raggiungano.

7. Questo dal lato calabrese.

Al lato siciliano ci ha pensato l’ingegner Castelli. Roberto Castelli, senatore leghista, è oggi anche sottosegretario alle infrastrutture, quindi particolarmente autorizzato a dire il suo pensiero a proposito di ponti e strade.

In un’intervista a la Repubblica(Luisa Grion, 24 maggio) Castelli, dopo aver chiarito che da federalista verace ritiene che ciascuno debba decidere sui ponti di pertinenza, mette in chiaro la scarsità di capitale per tutte le grandi opere desiderate. «Quando il governo Prodi decise che quell’opera (il Ponte, ndr.) non sarebbe stata realizzata, i fondi vennero indirizzati ad altre opere per il Sud, come la Messina-Palermo, per esempio. Ora sia chiaro: non è che i fondi destinati al Meridione possono raddoppiare a scapito delle altre opere. Bisognerà fare delle scelte: se ci sarà il ponte probabilmente non ci sarà la Messina-Palermo». Senza strade in Calabria, senza strade in Sicilia, per entrare e per uscire dall’importante manufatto, la sua vita appare piuttosto precaria.

Anche i sostenitori del corridoio Berlino-Palermo avranno qualche dubbio...

8. Carenza di investimenti privati, concorrenza con altre spese per grandi opere e con gli adempimenti di promesse elettorali del tutto alternative, costi che si moltiplicheranno nel corso degli anni e dei rinvii, devastazioni ambientali, tanto per la costruzione del Ponte in sé che per la necessità di servire il Ponte con collegamenti viari e ferroviari molto complessi. In questo contesto trascorrerebbero gli anni che ci separano dal fatidico 2010. Tutto per lo scarso traffico prevedibile . e previsto da tutti gli urbanisti e gli economisti del traffico indipendenti . con la necessità di potenziare, anche in presenza del Ponte, il sistema portuale che comunque deve reggere i traffici aumentati, per effetto della stessa costruzione del Ponte e per unaquindicina di anni, non speculando sulla carenza viaria, per un Ponte, ormai ridotto al significato di monumento celebrativo.

9. Dedicare tanta attenzione a un’opera di così difficile e controverso avvio, ai soldi che mancano e sui quali si sono manifestati troppi appetiti è proprio perché si tratta di un simbolo, di un monumento al fare male dell’intero settore delle grandi opere nel nostro paese. Il vizio di origine è proprio in una non scelta.

C’è un ponte sul Danubio tra Bulgaria e Romania in progetto, ma è lungo un terzo e soprattutto largo un terzo. Tra tutti ponti lunghi esistenti nel mondo, quello che avrebbe dovuto unire Sicilia e resto d’Italia è in pratica l’unico previsto per il traffico di autoveicoli e treni. Non c’è stata alcuna scelta, i sostenitori di auto e di treno, logicamente in alternativa, ovunque, qui non sono in grado di imporsi, di battere l’altro partito, con una proposta capace di prevalere, quali che ne siano le motivazioni. Così i due partiti, del ferro e della gomma, si accordano sul programma di massima, e su altri affari (Grandi stazioni, per esempio). Mettono insieme i sostegni politici, si spartiscono cariche, e assunzioni e finiscono non tanto per cooperare, ciò che sarebbe una novità, ma per non portarsi guerra a vicenda e per accettare un assurdo piano che fa del ponte non forse il più lungo, ma certamente il più largo mai programmato, proprio per l’obbligo di fare correre assieme due linee ferroviarie e otto corsie stradali. Questo significa porre al progetto condiziona-menti e vincoli assai difficili da superare, dal punto di vista della stabilità e dell’enormità di mezzi da mettere in campo. Il risultato è che i numeri dei treni e delle auto messi in preventivo sono entrambi spropositati, quattro o cinque volte maggiori della più rosea delle prospettive. I passaggi effettivi di lunga distanza sono passati (i dati sono tratti da un recente articolo di Alberto Ziparo su la Repubblica –Sicilia) dagli 11 milioni del 1985 ai 6,5 del 2002.

Naturalmente andare da Reggio a Messina e viceversa continuerà ad essere, in presenza dell’eventuale Ponte, molto più rapido ed economico con i traghetti che non con un’automobile, costretta a un giro pesca sui raccordi e poi alla ricerca del posteggio nell’altra città.

10. La grande opera per definizione è però nel nostro paese la Tav. Si tratta di mille chilometri di ferrovia, in parte già costruiti che prosciugheranno ogni altra spesa ferroviaria in Italia per un lungo periodo in una spesa senza pari. Senza pari, nel senso che i nostri modelli di Tav, proprio come il Ponte che non ha saputo scegliere tra i binari e la gomma, non sanno scegliere tra i passeggeri e le merci. “In Francia e in Giappone – scrive Marco Cedolin – sulle linee ad alta velocità passano solo treni passeggeri; in Francia i treni non passano la notte quando viene effettuata la manutenzione….I traffici passeggeri e merci previsti nel progetto (Tav Italia, ndr), sono un puro esercizio di fantasia, totalmente disancorato dalla realtà”. I treni da 300 all’ora hanno bisogno di binari lisci e puliti, impossibili da ottenere se sui binari passano treni merci da 1.000 tonnellate che deformano le rotaie.

Tutto lascia pensare che la linea doppio scopo sarà sempre in manutenzione. Ma in fondo avrà rispettato i suoi due compiti precipui: la forte spesa iniziale che si protrae nel tempo, la prova di forza o di autoesaltazione della classe dirigente, inebriata di sé e della propria modernità, anche se è stata costretta alla demagogia delle merci per ottenere tutti i miliardi di euri necessari a fare la Tav, proprio come in Francia.

Da anni vengono lanciati preoccupati allarmi sui tentativi della criminalità organizzata di mettere le mani sull’affare del Ponte sullo Stretto di Messina. Il grande potere criminogeno della mega-opera è stato confermato da numerose indagini che hanno evidenziato, da una parte, come le cosche locali puntino ad inserirsi nei sub-appalti, nelle opere secondarie e nell’imposizione di pizzo; dall’altra, come la grande mafia internazionale abbia provato a finanziare direttamente l’opera, grazie alle enormi disponibilità economiche in suo possesso.

Obiettivo cantieri

“Circa il 40 per cento delle opere potrebbe teoricamente alimentare i circuiti mafiosi” . È lo scenario che emerge da uno studio sull’impatto criminale del Ponte commissionato al Centro Studi Nomos del Gruppo Abele di Torino dall’Advisor della Società Stretto di Messina. Gli interessi mafiosi potrebbero manifestarsi nella fase di scavo e realizzazione delle fondazioni e della movimentazione terra, ed in questo caso imprese mafiose – già esistenti o più probabilmente costituite ad hoc – potrebbero rivendicare una partecipazione diretta ai lavori.

Identico rischio di penetrazione criminale per quanto riguarda le strutture di ancoraggio dei cavi di sospensione, per le quali è previsto un volume di 328.000 metri cubi in Sicilia e di 237.000 in Calabria.

Se si tiene inoltre conto che per la realizzazione del manufatto occorrono in totale circa 860.000 metri cubi di calcestruzzo, il rischio criminalità appare di gran lunga più elevato, data la tradizionale specializzazione dei gruppi mafiosi in Calabria e Sicilia nel cosiddetto “ciclo del cemento”.

Ma è nell’ambito dei lavori per i collegamenti ferroviari e stradali, in buona parte previsti in galleria e nelle rampe di accesso al Ponte, che il rischio criminalità è ancora più alto ed evidente.

Un altro settore particolarmente sensibile alla penetrazione mafiosa è quello relativo all’offerta di servizi necessari per il funzionamento dei cantieri.

Oltre alla tradizionale funzione di guardianìa - secondo il sociologo Rocco Sciarrone - “i mafiosi cercheranno con molta probabilità di inserirsi nelle fasi di installazione e organizzazione dei cantieri, e successivamente anche nella gestione dei loro canali di approvvigionamento.

È dunque ipotizzabile il tentativo di controllare il rifornimento idrico e quello di carburante, la manutenzione di macchine e impianti e la relativa fornitura di pezzi di ricambio, il trasporto di merci e persone”.

Nelle mani di mafia e ‘ndrangheta, in più, potrebbero finire cemento, ferro, finanche il catering e gli alloggi per gli operai.

Questa è però una visione “minimalista” che non tiene conto delle evoluzioni dell’impresa mafiosa e della sua forza finanziaria e di inserimento nei mercati “legali”.

Nella relazione trasmessa al Parlamento nel novembre 2005, la Direzione Distrettuale Antimafia (Dia), affermava che “la mafia è pronta a investire il denaro del narcotraffico nella costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina”.

Nello specifico, le indagini avrebbero accertato che “ingenti capitali illecitamente acquisiti da un’organizzazione mafiosa a carattere transnazionale sarebbero stati reinvestiti nella realizzazione di importanti opere pubbliche, con particolare riguardo a quelle finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina”.

Il primo allarme degli inquirenti sugli interessi delle organizzazioni mafiose nella realizzazione dell’infrastruttura risale comunque al 1998. Anche allora fu la Dia a denunciare la “grande attenzione” di ‘ndrangheta e Cosa Nostra per il progetto relativo alla realizzazione del Ponte.

La Dia approfondiva il tema nella sua seconda relazione semestrale per l’anno 2000. Soffermandosi sulla ristrutturazione territoriale dei poteri criminali in Calabria e in Sicilia, si segnalava come le indagini avessero evidenziato che “le famiglie di vertice della ‘ndrangheta si sarebbero già da tempo attivate per addivenire ad una composizione degli opposti interessi che, superando le tradizionali rivalità, consenta di poter aggredire con maggiore efficacia le enormi capacità di spesa di cui le amministrazioni calabresi usufruiranno nel corso dei prossimi anni”.

Nel mirino, secondo l’organo investigativo, innanzitutto i progetti di sviluppo da finanziare con i contributi comunitari previsti dal piano Agenda 2000, stimati per la sola provincia di Reggio Calabria in oltre cinque miliardi di euro nel periodo 2000-2006.

“Altro terreno fertile ai fini della realizzazione di infiltrazioni mafiose nell’economia legale – aggiungeva il rapporto - è rappresentato dal progetto di realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, al quale sembrerebbero interessate sia le cosche siciliane che calabresi. Sul punto è possibile ipotizzare l’esistenza di intese fra Cosa Nostra e ‘ndrangheta ai fini di una più efficace divisione dei potenziali profitti” .

Dal Canada allo Stretto di Messina via Arabia Saudita

Intanto alcuni faccendieri lanciavano l’assalto, per conto delle più potenti cosche mafiose d’oltreoceano, alla gara per il general contractor del Ponte di Messina.

L’intrigata ragnatela di interessi è venuta alla luce il 12 febbraio 2005, quando la stampa dava notizia dell’emissione di cinque provvedimenti di custodia cautelare per associazione per delinquere di stampo mafioso e delle perquisizioni in diverse città italiane.

I provvedimenti venivano notificati al boss Vito Rizzuto, capo dell’organizzazione legata ai mafiosi Cuntrera-Caruana e sospettato di rappresentare in Canada la “famiglia” Bonanno di New York, all’ingegnere Giuseppe Zappia (residente in Canada ma arrestato a Roma), al broker Filippo Ranieri (originario di Lanciano in Abruzzo), all’imprenditore cingalese Savilingam Sivabavanandan e all’algerino Hakim Hammoudi.

L’inchiesta (denominata “Brooklin”), coordinata dal capo della Dda di Roma Italo Ormanni e dal pm Adriano Iassillo, sulla base di numerose intercettazioni, individuava un’operazione concepita da Cosa Nostra per riciclare 5 miliardi di euro provenienti dal traffico di droga nella realizzazione del Ponte. Ad ordire le trame il boss Vito Rizzuto, originario di Cattolica Eraclea, figlio di Nicola “Nick” Rizzuto, personaggio eminentissimo della mafia internazionale.

Stando alle accuse dei magistrati romani, il mafioso italo-canadese si sarebbe avvalso dell’imprenditore Giuseppe Zappia che aveva capeggiato una cordata partecipante alla gara preliminare per il general contractor, avviata dalla Società Stretto di Messina il 14 aprile 2004. Sei mesi più tardi, tuttavia, la “cordata Zappia” e un non precisato raggruppamento di aziende meridionali venivano escluse nella fase di pre-qualifica, perché non in possesso dei requisiti richiesti .

Zappia ha negato i contatti con la criminalità italo-canadese e a sua difesa ha prodotto un affidavit, una sorta di accordo sancito con una società, la Tatweer international company for industrial investiments, in mano ad uno dei principi della famiglia reale dell’Arabia Saudita . I soldi per il Ponte, cioè, dovevano venire dagli immensi profitti del petrolio.

In realtà i faccendieri internazionali avevano fatto la spola tra Canada e Arabia Saudita, intrecciando inquietanti relazioni tra mafiosi e sovrani mediorientali, ed avviando i contatti con i manager delle maggiori società di costruzione in corsa per il Ponte sullo Stretto. La mafia, consapevole delle loro difficoltà a reperire capitali freschi per avviare i lavori, si era offerta a metterceli lei e per intero.

Come ha evidenziato Stefano Lenzi, responsabile dell’Ufficio istituzionale del WWF Italia, “l’attuale salto di qualità vede la holding mafiosa mettere sul tavolo dei suoi rapporti con le imprese il suo ruolo di ‘intermediatore finanziario’, con enormi disponibilità economiche. Un mediatore che non ha nemmeno bisogno di condizionare il general contractor per realizzare l’opera ‘con qualsiasi mezzo’, ma tenta, addirittura, di diventare esso stesso (attraverso le necessarie coperture) l’elemento centrale di garanzia del GC, che dovrà redigere la progettazione definitiva ed esecutiva e realizzare l’infrastruttura”.

Ma più di tutto, l’establishment criminale aveva colto l’alto valore simbolico del Ponte, comprendendo che con il finanziamento e la realizzazione della megaopera era possibile ottenere nuova legittimazione istituzionale e sociale.

“Quando farò il ponte – dirà in una telefonata l’imprenditore Zappia – con il potere politico che avrò io in mano, l’amico (il boss Rizzuto ndr) lo faccio ritornare…”.

Dal 19 marzo 2006 è in corso presso il Tribunale di Roma il processo contro i protagonisti dell’operazione Brooklin. In esso, incomprensibilmente, la Società Stretto di Messina ha scelto di non costituirsi parte civile.

Indipendentemente da quello che sarà l’esito giudiziario, un verdetto storico è inconfutabile: in vista dei flussi finanziari promessi ad una delle aree più fragili del pianeta, è avvenuta la riorganizzazione di segmenti strategici della borghesia mafiosa in Calabria, Sicilia e nord America. Ma non solo.

Dietro tanti dei Padrini del Ponte, infatti, si celano i nomi più o meno noti di mercanti d’armi e condottieri delle guerre che insanguinano il mondo. Quasi a voler enfatizzare il volto “moderno” del capitale. Saccheggiatore di risorse naturali e dei territori; generatore prima, beneficiario dopo, di ogni conflitto bellico.

Infiltrazioni criminali sui lavori autostradali

In attesa del Ponte, la criminalità organizzata ha scelto di sedere attivamente al banchetto dei lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (oltre 1.200 milioni di euro), lavori appaltati proprio ad alcune delle grandi società italiane di costruzione che guidano l’Associazione temporanea d’imprese “Eurolink”, general contractor per la progettazione definitiva e la realizzazione del “Mostro sullo Stretto”.

Per l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, mafia e ‘ndrangheta avrebbero riscosso il pizzo da quasi tutte le aziende coinvolte. Lo ricorda l’ultimo rapporto su criminalità e imprenditoria di Sos Impresa/Confesercenti. Impregilo, ad esempio, capofila Eurolink, “aveva insediato nelle società personaggi che, secondo gli inquirenti da sempre avevano avuto a che fare con esponenti della criminalità organizzata e con imprese di riferimento alle cosche”. Lo stesso sarebbe accaduto con la Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.a., partner del gruppo di Sesto San Giovanni nella costruzione del Ponte sullo Stretto.

Il modus operandi delle due società è stato delineato dall’inchiesta condotta nel luglio 2007 dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che ha portato all’arresto di quindici persone, tra cui gli esponenti di spicco dei clan Piromalli di Gioia Tauro, Pesce di Rosarno, Condello di Reggio Calabria, Longo di Polistena e Mancuso di Vibo Valentia.

Per i lavori autostradali nel tratto compreso tra gli svincoli di Rosarno e Gioia Tauro, le cosche avrebbero imposto ad Impregilo e Condotte l’assegnazione dei lavori e la fornitura di materiali e servizi ad imprese a loro vicine, più una tangente del 3% sul valore delle commesse.

Spiega Confesercenti: “La scelta da parte di entrambe le imprese di investire personaggi discussi della carica di capo aerea della Calabria, secondo gli investigatori non era casuale ed a testimoniarlo vi sarebbero delle conversazioni intercettate e le indagini pregresse che avevano già portato ad inquisire due professionisti. Nelle intercettazioni risalta la piena consapevolezza delle regole mafiose imposte dalle organizzazioni criminali e l’adeguamento ad esse da parte delle grosse imprese, le quali recuperavano il famoso 3% da destinare alle cosche mediante l’alterazione degli importi delle fatture”.

Ogni intervento sui cantieri era già stato attribuito a tavolino alle varie cosche, secondo rigide regole territoriali: ai Mancuso è toccata la competenza nel tratto Pizzo Calabro-Serra San Bruno, ai Pesce quello tra Serre e Rosarno, ai Piromalli l’area tra Rosarno e Gioia Tauro. “Le procedure di subappalto erano state avviate ancor prima dell’autorizzazione dell’ente appaltante, il tutto a scapito delle imprese pulite estromesse dalle gare in quanto non gradite all’ambiente”, conclude Confesercenti.

La prefettura di Reggio Calabria aveva sempre negato la certificazione antimafia alle ditte sospette, ma puntualmente esse erano riammesse ai subappalti grazie alle benevoli sentenze del Tar della Calabria.

Destino beffardo quello dei lavori autostradali: il 1° aprile 2005 il consorzio Impregilo-Condotte aveva firmato con la Prefettura di Reggio Calabria e l’ANAS, un protocollo d’intesa per la “prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiose durante la realizzazione dell’opera”. Le due società si erano impegnate, in particolare, ad “adottare tutte le misure del caso atte ad evitare affidamenti ad imprese sub-appaltatrici e sub-affidatarie nel caso in cui le informazioni antimafia abbiano dato esito positivo”, e ad effettuare “controlli, verifiche e monitoraggi per scongiurare l'intromissione di imprese irregolari, forme di caporalato o lavoro nero”.

Chissà cosa faranno per il Ponte...

E il certificato antimafia?

Nell’euforia generale post-elezioni dove vincitori e sconfitti preannunciano il riavvio dell’iter progettuale ed esecutivo della megainfrastruttura tra Scilla e Cariddi, è finita nell’oblio una vicenda inquietante che in uno Stato di diritto, perlomeno avrebbe dovuto imporre a forze politiche, imprese, organizzazioni sindacali e sociali, organi giudiziari, una pausa di riflessione sull’intero sistema delle Grandi Opere.

Nella primavera 2008, infatti, è stato negato il certificato antimafia alla società Condotte, terza in Italia per fatturato e in gara – oltre al Ponte – per l’Alta Velocità ferroviaria e il Mose di Venezia.

Il fatto è stato reso noto direttamente dall’allora ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro.

“Nei giorni scorsi - ha spiegato il ministro - avevo segnalato al ministero dell’interno come dalle indagini della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria e di altri organi investigativi era emerso uno stretto legame tra la società e la criminalità organizzata calabrese, in particolare in merito alla gestione di alcuni cantieri dell'autostrada Salerno-Reggio Calabra e della nuova strada statale 106 Jonica”.

“Alla mia segnalazione - ha proseguito Di Pietro - il ministro Amato ha risposto rendendomi noto che a seguito del parere del comitato per l’alta sorveglianza, attivo presso il dicastero dell’interno, il prefetto di Roma ha adottato, lo scorso 20 marzo un provvedimento di diniego della certificazione antimafia nei confronti della società Condotte”.

“Tutto questo ho tempestivamente comunicato all’ANAS - ha concluso il ministro - oltre che agli altri organi competenti, affinché adottino tutti i provvedimenti del caso, in merito ai cantieri della A/3 e della 106, ma anche in relazione ad eventuali altri rapporti contrattuali, gestiti da controllate o dalle concessionarie autostradali”.

Il nulla osta antimafia è richiesto nelle distinte fasi dell’appalto e non solo all’inizio e serve per ottenere i pagamenti in ogni fase di avanzamento dei lavori. Anche se ogni prefettura è autonoma nella valutazione discrezionale sul provvedimento, buon senso impone che le altre prefetture vi si adeguino, negando la certificazione per gli altri appalti ricadenti nella loro giurisdizione.

Il provvedimento di revoca del certificato antimafia è stato pure commentato dal prefetto Bruno Frattasi, alla guida del Comitato di sorveglianza sulle grandi opere. Frattasi, in particolare, ha fatto riferimento a “numerose verifiche del gruppo interforze di Reggio Calabria, che ha visitato più volte i cantieri trovando un contesto ambientale inquinato”.

Si è pure appreso che sempre in data 20 marzo 2008, la stessa Prefettura di Roma ha provveduto ad invitare la capofila Impregilo a “procedere alla estromissione, con eventuale sostituzione, della Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.a. dalla propria compagine sociale” nel termine di trenta giorni, pena il “recesso del contratto ai sensi dell’art. 11, comma tre, del DPR 3.6.1998, n. 252”.

A seguito della comunicazione del ministero delle Infrastrutture, l’ANAS ha provveduto in data 2 aprile alla “revoca di tutti i contratti con Condotte”, ma il diniego è stato poi tamponato con un ricorso della società di fronte al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, che l’11 aprile ha concesso la sospensiva del provvedimento, in attesa della causa di merito.

Al colosso delle costruzioni italiane non è comunque mancata la piena solidarietà dell’associazione di categoria dei general contractor, l’AGI (Associazione Grandi Imprese).

Un suo comunicato recita che “la revoca dei contratti avrebbe effetti di devastante gravità per una delle maggiori, più antiche e più qualificate imprese del settore”. Per la cronaca, vicepresidente di AGI è l’ingegnere Duccio Astaldi, vicepresidente di Condotte d’Acqua.

Con la mafia, parole dell’ex ministro delle Infrastrutture Lunardi, si deve pur convivere.

Così, forse, nessuno richiederà più il certificato antimafia a chicchessia. Oggi, di certo, nessuno ritiene tuttavia ingombrante sedere accanto ad un’impresa fortemente censurata dall’autorità giudiziaria e dai ministri di un esecutivo. Nelle isole Eolie, ad esempio, Condotte d’Acqua ha costituito da poco una società mista con il comune di Lipari, la “Porti di Lipari S.p.a.”, per la realizzazione di un devastante programma di porti e porticcioli.

Grande sponsor dell’iniziativa l’intero stato maggiore di Alleanza Nazionale nella provincia di Messina.

L’assedio allo Stretto continua.

Di Pietro, da mani pulite a mani libere

di Andrea Carugati

NON DEVE aver fatto piacere al ministro Di Pietro sentirsi definire «un uomo d’onore» da Totò Cuffaro. Eppure ieri è successo anche questo, dopo che la pattuglia di senatori dell’Idv ha votato con il centrodestra per salvare la società per il ponte sullo Stretto di Messina. «Parole strumentali», replicano dall’entourage del ministro. Da dove arrivano secchiate di acqua fredda su ogni possibile tentativo dell’ex eroe di Mani Pulite di destabilizzare il governo Prodi. Di tenersi le mani libere. La notizia di una discussione sulle dimissioni del ministro, mercoledì in una riunione con i parlamentari dell’Idv? «Totalmente infondata». E la proposta di un governo tecnico lanciata ieri a un incontro con la stampa estera? «Il ministro si è limitato a far suo il ragionamento del presidente Napolitano sulla necessità di non tornare alle urne con questa legge», dice il capogruppo alla Camera Massimo Donadi.

Eppure il ministro, dopo le roventi polemiche con Mastella sul caso De Magistris, è in costante agitazione. Ieri è tornato all’attacco del Guardasigilli, dopo il duro lavoro di Prodi per arrivare a una tregua nel Cdm di martedì: «Resterà un alone di sospetto su di lui», ha detto alla stampa estera. La questione è poi rimbalzata alla riunione dei capigruppo dell’Unione a Montecitorio: Fabio Evangelisti, dell’Idv, ha detto che se fosse stato in Di Pietro, «quando Prodi ha espresso solidarietà a Mastella in Cdm me ne sarei andato via». Immediata la reazione del capogruppo dell’Udeur Fabris: «Visto che io sono come Mastella, mi alzo e me ne vado. Con persone così non voglio stare».

Di Pietro ha parlato anche del voto in Vigilanza che ha sfiduciato il presidente della Rai Petruccioli: «Se all’ordine del giorno ci fosse stato il voto sull’intero cda avremmo votato ugualmente contro. L’informazione pubblica non deve essere controllata dai partiti. E l’unico modo per cambiare è votare».

Insomma, alla fine il vertice di ieri pomeriggio a palazzo Chigi con Prodi, Di Pietro e il titolare dei Trasporti Alessandro Bianchi (argomento ufficiale: fondi per le Ferrovie) è diventato anche un occasione di chiarimento tra il Prof. e Tonino. Prodi ha chiesto rassicurazioni al suo ministro e, una volte che le ha ottenute, l’ha invitato a trasmettere questo messaggio anche agli italiani, con comportamenti coerenti. Poco dopo Di Pietro ha dichiarato: «L’Impegno dell’Idv è rafforzare l’opera del governo. C’è stata una caduta di credibilità, vogliamo porvi rimedio». Insomma, ok a Prodi, ma il ministro non ha voluto rinunciare a una stoccata contro «la politica dei veti» e il «furore ideologico» della sinistra radicale.

Poi ha spiegato le ragioni del voto in Senato: «Noi ci siamo espressi per ripristinare il testo originario del decreto, come era uscito dal Cdm. Per questa coerenza Prodi dovrebbe ringraziarci. «Non ho alcuna intenzione di fare il ponte. Ma nella società sono già stati investiti 150 milioni, non dobbiamo fare come i talebani con le statue di Buddah». Cancellare quella società, spiega, sarebbe costato, tra penali e ricorsi, «500 milioni di euro». Già, ma la società che resta in vita? «Ne ho disposto il totale dimagrimento - dice il ministro- portando la struttura dai circa 100 dipendenti che aveva con Berlusconi a non più di 5 o 10 persone». Quanto ai soldi per il ponte, circa un miliardo di euro «è stato finalizzato, con un accordo di poche settimane fa, per le metropolitane di Palermo, Agrigento e Messina e al collegamento tra Agrigento e Caltanissetta».

Franca Rame, che ieri ha votato diversamente dal suo gruppo, non ci sta. Dopo il voto in Senato si è chiamata fuori dall’Idv: «Non ho capito la posizione di Di Pietro. Avrebbero dovuto informarmi e discuterne, invece non l’hanno fatto. Dunque da domani farò quello che devo fare». «Ci auguriamo sia possibile un chiarimento», fanno sapere dall’entourage del ministro. Anche nel popolo della rete ci sono malumori espressi sul blog di Di Pietro: «Vergognati! Si vede che De Gregorio non era con te per caso», scrive un navigatore. E Massimo Baroncini: «Averti votato è la scelta peggiore che abbia mai fatto». «C’è qualcosa dietro, la prego di spiegarci bene», scrive Andrea M. E un altro: «Mastella sarà una vergogna ma tu sei uguale». C’è anche chi incoraggia il ministro: «Non abbassare mai la testa».

Lo strano caso della società che

spende milioni per non fare nulla

di Eduardo Di Blasi

Fu Ballarò, il mese scorso, a farci vedere le facce dei timorosi impiegati dell’infopoint messinese della società Stretto di Messina Spa che, in un locale preso a fitto a 20mila euro mensili, avevano il kafkiano compito di spiegare ad ipotetici avventori le meraviglie del Ponte sullo Stretto di Messina, opera già derubricata dal governo, e quindi tecnicamente morta. Gli impiegati stavano lì, ovviamente sfaccendati, così come tutti i dipendenti, i manager e i consulenti di un progetto che la politica aveva già deciso di abbandonare. In studio da Giovanni Floris quel giorno c’era Oliviero Diliberto, segretario del Pdci. Non potè che esclamare: «Presenteremo un emendamento in finanziaria per sciogliere questa società».

E in verità l’onorevole Diliberto, assieme ai colleghi Licandro, Sgobio, Soffritti e Pignataro, aveva già chiesto al governo il 20 settembre 2006 che quella società fosse cancellata. «Non si capisce come e perché la società Stretto di Messina continui a spendere ed a sprecare denaro», domandavano in un’interrogazione nella quale spiegavano come la predetta società avesse stretto con «Impregilo, il 29 marzo 2006, in piena campagna elettorale, il contratto per l’affidamento della progettazione definitiva ed esecutiva del ponte del valore di 3,9 miliardi di euro». Quello su cui, per intenderci, adesso grava la costosa penale. Seguivano una serie di cifre che davano conto di quanto detto. La fonte era un informato articolo che Luca Domenichini aveva pubblicato sull’Espresso del 31 agosto 2006 dal titolo «Quanti ricchi sotto il Ponte». Cifre impietose: «19 milioni di euro spesi per il costo del personale, 4 milioni per i gettoni di presenza degli amministratori e 17 milioni di euro per le consulenze e inserite nel bilancio sotto la voce: “Prestazioni professionali di terzi”. Nei quattro anni del sogno ingegneristico - calcolava Domenichini - dipendenti e spese sono saliti alle stelle: da 29 impiegati e 7 dirigenti del 2002 si è passati agli 85 del 2005, di cui 13 manager. Per non parlare delle bollette: luce, acqua, gas, telefoni, i buoni pasto, l’assicurazione e la manutenzione degli uffici: triplicate, decollando da 3,5 milioni a 10,7 milioni». Dal 2002 al 2005 la voce «Emolumenti e gettoni di presenza per gli amministratori», erano passati da 526mila a 1,5 milioni».

Altre cifre si possono ricavare dall’interrogazione che i senatori Brutti, Donati, Villone, Adragna , Casson , Mele , Palermo, Pisa e Sodano hanno presentato a Palazzo Madama la scorsa settimana. Uno degli obiettivi dell’interrogazione era l’attuale amministratore delegato della società, quel Pietro Ciucci, da anni manager pubblico, arrivato frattanto al vertice dell’Anas. Altro quadro oscuro: «Il compenso annuale di Ciucci è stato di oltre 700.000 euro annui pagati, a quanto consta, da Fintecna, dietro rimborso da parte della società Stretto di Messina, con una manovra contabile di innalzamento degli emolumenti di Ciucci in Fintecna, costruita al fine da far apparire il compenso di Ciucci, una fittizia partita di giro». La società è passata da 36 dipendenti nel 2002 a 102 nel 2006. I deputati continuano: «Le 17 assunzioni, risultanti nel 2006, sono del tutto ingiustificate, in un’ottica aziendale, provocando sperpero di denaro pubblico, a prescindere da ogni considerazione - anche se di particolare gravità - sull’incidenza di tali assunzioni sul corretto svolgimento delle elezioni nazionali del 2006; risulta inoltre che Ciucci, nominato presidente dell’Anas, ha assunto 16 dipendenti dello Stretto di Messina spa oltre al suo vice presidente Bucci, mentre altri 2 dipendenti dello Stretto di Messina sono stati distaccati presso l’Anas su richiesta di Ciucci; sette di queste nuove assunzioni sono state collocate in posizione apicale con appesantimento della struttura di vertice». Così quando Di Pietro ha proposto di portare dentro l’Anas (di Ciucci) la società del ponte, in più d’uno ha strabuzzato gli occhi.

Tre domande al ministro Di Pietro di Aldo Ferrara, Università di Siena

Ieri il Senato boccia l’ipotesi del Governo di chiudere una volta per tutte lo spreco infinito di democristiana memoria dello Stretto di Messina. Voti determinanti quelli dell’Idv. Per anni la Spa presieduta dal senatore Nino Calarco, proprietario della Gazzetta del Sud, ha ingurgitato soldi in consulenze. Ora alcune questioni si intrecciano. La società ora diretta da Pietro Ciucci ha spese di propaganda e pubblicità che sono passate da 110.000 euro nel 2002 a 1.480.000 euro nel 2004 e inoltre particolarmente rilevante è stato l’aumento della voce «emolumenti e gettoni di presenza amministratori», 526.000 euro nel 2002 con un picco di 1.616.000 euro nel 2006. Prima domanda: ma Di Pietro non è firmatario con Fini di una legge contro i costi della politica? Ancora: il Ministro Di Pietro ha nelle file del suo gruppo un deputato, Pedica Stefano, già «assistente» di Casini, Mastella, Folloni, Lunari; geologo, funzionario in aspettativa della Società di Calcestruzzi Scac, che progetta, costruisce ed installa viadotti autostrada- li. Tal signore è nel ristretto gruppo dei dipietristi che decidono. Seconda domanda: visto che la Società resta in piedi e non viene abolita, proprio con il voto determinante dell’IDV, non è che Di Pietro vuol rimettere in ballo il Ponte? Senza invocare il patente conflitto d’interessi, ma il buon senso politico dov’è finito?

ROMA - Nell’Unione nessuno vuole il Ponte di Messina eppure continua ad essere motivo di litigio nella maggioranza. A rievocare il fantasma del progetto accantonato è l’emendamento al decreto collegato alla mette in liquidazione la Società Stretto di Messina spa. Per il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro la scelta della liquidazione presentata dai Verdi e già approvata in commissione al Senato è una mossa «Da talebani, a quelli non piacevano i Budda e li hanno buttati giù. Quell’emendamento rischia di mandare in fumo 500 milioni di euro».

Il calcolo del ministro somma i 150 milioni già spesi per il progetto preliminare e la realizzazione di tre gare d’appalto e i 300 milioni di penali da pagare alle società aggiudicatrici. «I vincitori avranno brindato a champagne, senza muovere un muratore né una cazzuola di cemento intascano un guadagno pulito del 10% senza pagarci neanche le tasse», ha ironizzato Di Pietro sull’inusuale alleanza creatasi tra costruttori e ambientalisti.

La proposta del ministro invece punta a riutilizzare i fondi destinati al Ponte per opere in Calabria e Sicilia: la SS Jonica, le metropolitane di Palermo, Catania, Messina, l’autostrada agrigentina. L’idea riscuote consensi anche nella sinistra radicale, ma non per la parte che prevede il mantenimento in vita della Stretto spa e un progetto definitivo del ponte al costo di circa 60 milioni. Di Pietro vorrebbe bloccare poi tutto al momento dell’approvazione obbligatoria del Cipe perché una bocciatura a quel punto non comporterebbe penali.

Però seguendo questa via il progetto-ponte non verrebbe interrotto e il governo che si trovasse a decidere tra qualche anno potrebbe dare al Cipe indicazioni diverse. Un rischio che nell’Unione vogliono correre in pochi, visto che il no all’opera era uno dei punti qualificanti del programma di governo. Lo conferma anche la posizione di Alessandro Bianchi, ministro dei Trasporti: «Condivido pienamente l’emendamento - ha dichiarato - accantonato finalmente il progetto dell’inutile ponte sullo Stretto, la società non ha più ragione di essere». Bianchi non vede neanche il rischio di uno spreco di risorse: «Si tratta di timori infondati. Finora gli unici impegni si sono limitati alla progettazione preliminare. Ci siamo fermati in tempo». Anche più duro il capogruppo alla Camera dei Verdi Angelo Bonelli: «Il 10% di penale non esiste perché non c’è il progetto definitivo del ponte sullo Stretto, mancano l’approvazione Cipe e la verifica di ottemperanza. Inoltre sul ponte vi è una procedura d’infrazione da parte dell’Ue. Di Pietro ancora una volta si pone contro il suo governo, esca dall’ambiguità e la smetta di attuare le politiche infrastrutturali della Cdl». Ecco che anche l’accordo sul rifiuto al megaprogetto da 6 miliardi di euro diventa invece l’occasione di accuse reciproche con Di Pietro che critica chi «nella sua maggioranza, per puro furore antagonistico blocca le infrastrutture».

(l.i.)

A questo punto saranno abbandonati al loro destino anche i pesci e gli uccelli. Chi scruterà più d´ora in poi le picchiate e le planate dei rapaci notturni sullo Stretto? E chi sarà mai più disposto a seguire, come hanno fatto illustri biologi con tanta e ben remunerata passione, i «flussi migratori dei cetacei» fra Scilla e Cariddi? Signore e signori è tutto finito, la grande fabbrica dei sogni sta chiudendo. Trentacinque anni e sette mesi di desideri e di smanie sono destinati ad affogare in un baule pieno di planimetrie, disegni, mappe, tavole, progetti, grafici.

Sono 126 i chili di carte. Lì dentro c´è tutta la storia del Ponte. Era stata annunciata come la più colossale opera del secolo, avevano promesso 40 mila posti di lavoro, qualcuno garantiva perfino che ci saremmo passati sopra nel 2012 o giù di lì. Per fortuna, c´è ancora il vecchio caro ferry boat che solca le acque fra la Sicilia e la Calabria.

Di sicuro ci sarà rimasto male qualche ornitologo svizzero, che non avrà più laute consulenze pagate dai contribuenti italiani per le sue sofisticatissime radar investigazioni nel cielo di Reggio. E malissimo ci saranno rimasti soprattutto tanti imprenditori del Sud e del Nord, uomini d´affari di Catania, mafiosi agrigentini e palermitani, proprietari di cave e di terre, di impianti di calcestruzzo e macchine per il movimento terra. Puntavano tutto su quella striscia di ferro e cemento che li avrebbe fatti diventare ricchi o ancora più ricchi. E invece, invece la Sicilia rimane ancora per un po´ un´isola.

Il Ponte ha già fatto i suoi primi orfani. Sono dodici ragazzi, sei siciliani e sei calabresi. Erano stati ingaggiati qualche mese fa per fare la guardia a quei due Infopoint - uno a Messina, l´altro a Villa San Giovanni - che la "Società dello Stretto" aveva aperto a fine primavera per promuovere «la meravigliosa idea di unire finalmente l´Italia». Il 29 settembre scorso i dodici vigilantes sono stati congedati. Tra non molto chiuderanno anche gli Infopoint. Fra Messina e Reggio resteranno solo le tracce di quell´avventura mai cominciata. Alla Camera di Commercio. Al catasto. Nelle segrete stanze di alcuni consigli di amministrazione. Negli archivi di polizia.

Si erano preparati tutti. Le imprese che dovevano fare il Ponte e quelle altre che se la giocavano per accaparrarsi i sub appalti. Già una mezza dozzina di anni fa alcuni boss di Palermo e di Agrigento avevano spostato le loro attività sullo Stretto, intrecciato alleanze con imprese locali, trasferito camion e ruspe in massa. Dopo qualche mese erano cominciate anche le grandi manovre sulle aree, quelle dove sarebbero dovuti sorgere i piloni.

Rampolli di facoltose famiglie della borghesia messinese, boss della ‘ndrangheta, professori universitari, finanzieri sospetti, tutti insieme in un intrico di società e di sigle per mettere le mani sui terreni. Sono stati tutti «schedati» e inghiottiti da una Banca Dati. Dal 2002 al 2005 sono state monitorate 3827 imprese in Sicilia e 2526 in Calabria, fatte visure su altre 3750 società, controllati 2279 personaggi del movimento terra e 146 delle cave, 9 fogli di mappe catastali passati ai raggi x e 7 mila particelle esaminate. Una montagna di informazioni che da Messina e da Reggio sono state trasmesse, anno dopo anno, alla procura nazionale antimafia.

Ma la vicenda del Ponte era iniziata prima, molto prima che i boss di Palermo o quegli altri della Locride e della Piana di Gioia Tauro cominciassero ad allungare il collo verso lo Stretto. Era iniziata ufficialmente nella primavera del 1971, data di nascita di quella "Stretto di Messina spa" che ha sognato e fatto sognare mezza Italia. Sono loro gli orfanini più orfani del Ponte. In tre decenni e mezzo sono riusciti a spendere 150 milioni di euro. E solo di carte. I conti del 2005 raccontano di 10 milioni e 767 mila euro usciti dalle loro casse, un milione e 237 mila in più dell´anno precedente. Gran parte per «prestazioni professionali di terzi», per pubblicità, per viaggi e trasferte, 78 mila euro solo per fotocopie e 48 mila solo per riproduzioni di foto e filmati.

Gli orfani in carne ed ossa della "Stretto di Messina spa" sono in tutto 85, tredici dirigenti e settantadue impiegati. Hanno elargito quattrini anche per commissionare nel 2005 un´«indagine psico-socio-antropologica sulla percezione del Ponte presso le popolazioni residenti nell´area interessata alla costruzione». Una volta sponsorizzati dai vecchi ras democristiani, coccolati dai nuovi padroni della Sicilia, la "Stretto di Messina spa" negli ultimi mesi si è ritrovata al fianco tutta la destra. Il governatore della Sicilia Totò Cuffaro per primo. E poi quel Raffaele Lombardo del Movimento per l´Autonomia, che un mese fa ha trascinato a Roma 5 mila siciliani che volevano il Ponte. Li ha anche portati a Messina, proprio sullo banchine dello Stretto. A protestare contro il governo. A minacciare rivolte. A gridare: «Noi lo facciamo lo stesso, noi lo facciamo da soli». È partita così l´operazione Ponte-fai-da-te. E sono sempre gli orfani irriducibili che l´hanno architettata. È di appena qualche giorno fa l´ultima «invenzione» del governatore. Ha creato l´ennesimo «ufficio speciale» alla Regione Siciliana. È l´ufficio per il Ponte. Ha come obiettivo ricercare fondi per finanziarlo.

In parte Cuffaro vorrebbe prenderli da quelli europei del programma 2007/2013, e poi cerca partner. L´ufficio per il Ponte avrà 5 dipendenti e tre o quattro consulenti «di altissimo livello». E sarà guidato da Salvatore «Tuccio» D´Urso. È un fedelissimo di Totò, che di lui dice: «Tuccio è la persona giusta per questo incarico: è uomo di inventiva e di lotta». Burocrate della Regione, alle ultime elezioni siciliane era candidato nell´Udc, il partito di Cuffaro. Trombato, l´hanno trasformato in una testa di ariete fra Scilla e Cariddi. E´ l´ultima disperata mossa per quel sogno che non deve finire mai.

La provincia di Catania decide di stanziare un milione, distogliendo la somma da altre utilizzazioni, per acquisire quote di una futura società costituita per la costruzione del Ponte sullo Stretto. Quasi in un ideale dialogo, il sindaco di Venezia, Cacciari, lamenta che il Ponte di Messina sottrae risorse preziose al programma d'interventi pubblici nel Nordest, dal Mose al passante di Mestre. Detto con brutalità, ci troviamo di fronte a due tentativi ben studiati di conquistare spazio nella comunicazione. Con obiettivi opposti. Da un lato c'è l'affermazione di un improbabile sicilianismo «fai da te» in grado di eccitare velleitari conati autonomisti, facendo dimenticare le emergenze quotidiane di una regione come la Sicilia, che giorno per giorno vede accrescere i suoi divari rispetto ai parametri europei. E dall’altro lato il vellicamento di una mai sopita passione "per la «questione settentrionale», alibi fortunato per tutti coloro che esitano nell'affrontare la simmetrica (ma le cose stanno davvero così?) questione meridionale.

Possiamo provare per qualche mese in Sicilia a dimenticare il Ponte e a concentrarsi su criticità più immediate? Non sarà facile. Il Ponte sullo Stretto è infatti al quarto ciclo di attenzione dal dopoguerra a oggi. Alla prima fase che vide il fiorire di fantasie progettuali ne seguì una seconda di attesa, nella quale l'ipotesi Ponte, che allora contava su un numero notevole di estimatori, bloccava di fatto scelte fondamentali per lo sviluppo dei trasporti in Sicilia. C'è stata poi, relativamente breve, ma intensa, la stagione del progetto, inaugurata da una precisa volontà politica sostanzialmente bipartisan, verdi e sinistra radicale a parte, che non trovava però, salvo nobili e disinteressate eccezioni, alcuna eco ideologica né sul piano regionale né su quello locale. Stagione esauritasi quando Prodi si presentò alle elezioni (e vinse) con un programma che teneva conto dei risultati di un ampio dibattito che attestavano una carenza di consenso nei riguardi dell'opera e precise istanze, invece per infrastrutture di maggior urgenza. Val la pena sottolineare che nel corso di quel dibattito, elevatosi di tono alla vigilia delle regionali in Calabria e delle amministrative per Messina, si contarono sulle dita di una mano le voci del centrodestra dissonanti con un corale rifiuto espresso dalla cosiddetta società civile e dai partiti di centrosinistra.

Ed eccoci al quarto ciclo: il Ponte come bandiera di un movimento che ripesca modelli di colpevolizzazione nei confronti dello Stato e pretese riparazioniste a fronte di ripetuti, torti e vessazioni. Con lo stesso ragionamento ci si potrebbe lamentare dell'assenza di una normale velocità nella rete ferroviaria, della mancata chiusura dell'anello autostradale, dell'inesistenza di un sistema aeroportuale non limitato a due poli e dell'insufficienza dei porti isolani. Invece è sul Ponte che appare più facile suscitare orgoglio e desiderio di vendetta. Ad Agrigento una popolazione si solleva al pensiero che la possibile costruzione di un aeroporto distrugga paesaggio e tradizioni. La stessa popolazione probabilmente voterebbe compatta per il sì in un referendum pro o contro il Ponte, indifferente al fatto che in questo caso vengano messi a rischio altri paesaggi e tradizioni. Il famoso complesso del Nimby (not in my back-yard).

Assistiamo dunque a un fiorire di iniziative che non producono alcunché sul piano concreto ma tengono accesa la passione. Perché solo un milione, verrebbe da chiedere all'amministrazione provinciale di Catania, da destinare al Ponte? Stanziate un miliardo. Trovate, e non sarà difficile un'entrata virtuale per non compromettere equilibri di bilancio e il gioco è fatto: si ritorna alla fase del ciclo del «ponte in cartolina», una struttura cioè fatta di parole che però si sovrappone per chiasso mediatico, annullandole, ad altre problematicità addirittura emergenziali.

Getta benzina sul fuoco l'incauta e scorretta dichiarazione di Cacciari, ignaro (ma come è possibile?) che la finanziaria 2007, salvo sorprese, ha di fatto — piaccia o meno, sia giusto o sbagliato — cancellato il Ponte. Anche lui evidentemente ha bisogno di evocare modelli riparazionisti. E menomale che il famoso federalismo fiscale, al momento, è solo tema di convegni sussieguosi e soporiferi.

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