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Con il Codice per i beni culturali approvato ieri dal Consiglio dei ministri, di corsa, alcuni giorni prima della scadenza della delega, il governo si avvia a completare la marcia contro le leggi di tutela con cui si è cercato di salvaguardare da abusi, vendite, scempi il patrimonio storico-artistico e paesistico dall’epoca prefascista. Leggi Rosadi e Croce riprese e sostanzialmente confermate da Giuseppe Bottai nel 1939 (le famose leggi n. 1089 e 1497).

Leggi poi potenziate per la parte paesistica da quella che fu chiamata, giustamente, «la rivoluzione Galasso», con la legge n. 431. Quest’ultima imponeva alle Regioni - pena la loro sostituzione con le Soprintendenze (come è avvenuto in Campania) - la redazione e l’approvazione di piani paesistici dettagliati. Ai quali si doveva poi attenere tutta la pianificazione comunale e provinciale. Assieme alla Galasso, votata in pratica all’unanimità nel 1985, va messa, nella stessa ottica, la legge sulle aree protette, la n. 194 del 1991 che, assieme a quella per la pianificazione idrogeologica con le Autorità di Bacino (n.183/1989), completava un apparato riformatore tanto faticato quanto importante.

Tutto intaccato, indebolito o diroccato: con le leggi-obiettivo del ministro Lunardi, con la legge sul condono (il terzo in meno di vent’anni), con la normativa sul silenzio/assenso (in poche settimane) per la vendita dei beni culturali e ambientali, col decreto-legge Matteoli sulla valutazione di impatto ambientale, con le norme sull’ambiente in discussione al Senato (quelle del famigerato emendamento 32 che ora il Polo annuncia di ritirare, ma il provvedimento rimane negativo, al ribasso) e con questo Codice tanto voluto da Urbani, appena quattro anni dopo il Testo Unico onnicomprensivo sui beni culturali, il paesaggio del Bel Paese subisce una scarica di colpi mortali. Quel paesaggio che Giulio Carlo Argan, nel memorabile discorso tenuto al Senato a sostegno della legge Galasso, definì il «palinsesto in cui sono scritti millenni di storia». E pensare che ieri mattina un esponente della maggioranza si diceva stupito per le critiche vantando che questo Codice avrebbe definito «bene culturale» il paesaggio. Con la controriforma del ministero, il monumento funebre sarà completo, purtroppo. Eppure «Italia Nostra» aveva preso le distanze con un recentissimo numero monografico del suo Bollettino dal Codice urbaniano e dalle sue norme. E il Wwf aveva portato in audizione un dossier di critiche e proposte sulla parte di gran lunga più debole: quella paesistica.

Per la quale il Wwf parla ora di «eliminazione» delle norme.

Questo Codice porta all’allentamento generale delle salvaguardie esistenti e, per il paesaggio, alla demolizione della legge Galasso. Pensate che alle Regioni si prescrive di redigere i piani senza fissare alcuna data e senza prevedere sostituzioni in caso di inadempienza. Si fanno cadere i vincoli ope legis su vaste parti del territorio (il 47 per cento, secondo dati dell’Ambiente) e si muta in un semplice «parere», da dare in soli 30 giorni, il potere di annullamento sin qui esercitabile entro 60 giorni dalle Soprintendenze sulle autorizzazioni comunali e regionali, e via di questo allegro passo. Verso che cosa? Verso le moltiplicazioni di cemento e asfalto, verso il «nuovo sacco» del Bel Paese.

Le Associazioni culturali che si battono per la tutela avevano chiesto di tener conto del dibattito che vi fu alla Conferenza Nazionale per il Paesaggio e di venire coinvolte dal Ministero. C’è stato un fugacissimo incontro e nulla più. Altro che meditata riscrittura delle norme! Così l’Italia viene riportata indietro. A prima di Bottai, prima di Croce e Rosadi, cioè prima di Giolitti, e anche di Pio VII. Del resto il berlusconiano «ciascuno è padrone a casa sua», caro ai padroncini, cozzava frontalmente con la Costituzione (art. 9). La quale come il tricolore, sta finendo là dove voleva il ministro Bossi.

È di poche settimane fa l´ennesimo attentato al paesaggio italiano, perpetrato con una buona dose di cinismo da alcuni parlamentari della maggioranza che hanno fatto approvare alla Camera un emendamento alla legge sull´ambiente nel quale, in barba alla Costituzione e alle leggi, si statuisce una totale depenalizzazione di qualsiasi reato contro il paesaggio. Il colpevole silenzio del ministro dell´Ambiente dice chi è uno degli attori cruciali del dramma; l´altro, e opposto, è il vibrante appello lanciato dal Fai e pubblicato a pagamento dai giornali con oltre cento firme che non riflettono questa o quella parte politica, ma il diritto dei cittadini a difendere natura e storia del patrimonio paesaggistico italiano. Un appello che, non a caso, si rifà all´art. 9 della Costituzione e a un´energica e lucida dichiarazione del presidente Ciampi, che invita gli italiani a «difendere questo straordinario patrimonio dall´aggressione degli egoismi, dalla speculazione, dall´abbandono». Ma perché una parte politica non teme di promuovere una tanto flagrante violazione delle norme, a costo di suscitare un´ondata di sdegno in tutta la società civile? Insomma, cui prodest?

Uno dei molti meriti del bel libro di Francesco Erbani (L´Italia maltrattata, Laterza, pagg. 200, euro 14), scritto prima di quest´ultima selvaggia aggressione al paesaggio e al diritto, è di offrire amplissimo materiale di riflessione per rispondere a questa domanda. Prendiamo l´immagine di copertina, le orride torri del villaggio Coppola (Caserta), costruite in spregio a ogni norma negli anni Settanta: esse sono state abbattute la scorsa estate, ma se quell´emendamento fosse passato in tempo sarebbero state condonate. Ecco dunque cui prodest, in questa e in altre situazioni: i Coppola, la camorra, i più forsennati distruttori del paesaggio in nome di una speculazione senza vergogna e senza limiti.

La città degli abusi: il Villaggio Coppola è una delle otto "storie" che Francesco Erbani, con scrupolosi reportages costruiti attraverso l´accurata ispezione dei luoghi e le interviste ai protagonisti, offre in questa desolante galleria degli orrori. Vi incontriamo la "nuova" Laviano (valle del Sele), ricostruita con enormi sperperi e pessima qualità urbanistica dopo il terremoto del 1980 ad opera di un perverso intreccio di interessi che ha distrutto in tutta l´area l´assetto storico del paesaggio, squarciando valli e montagne; ma anche le tristi villettopoli del Nordest, che invano tentano di nobilitarsi come "megalopoli padana", di fatto seppellendo la splendida campagna veneta sotto una valanga di cemento e distruggendo gli antichi modelli insediativi in favore di un modello di città "orizzontale" già ampiamente fallito altrove. Erbani analizza anche il tramonto di Bologna come città-modello, sotto il peso di un inquinamento ambientale crescente e di una incontrollata deregulation che cementifica nuove aree dichiarando di "riqualificarle"; racconta il fallimento del parco agricolo di Ciaculli (Palermo), che avrebbe dovuto ricreare uno straordinario paesaggio agrario, di fatto subito invaso da grappoli di case abusive. Altri capitoli sono dedicati all´inesorabile trasformazione di Venezia in "parco a tema" destinato non agli abitanti ma ai turisti, con il conseguente frazionamento di appartamenti e palazzi che sfigura (grazie a norme urbanistiche colpevolmente permissive) una tradizione architettonica fra le più nobili della terra; agli squallidi grattacieli per poveri che deturpano la Valle dei Templi di Agrigento, in uno sviluppo magmatico in cui è diventato difficile persino distinguere ciò che è abusivo da ciò che non lo è.

Il protagonista di queste vicende, che Erbani ripercorre con pari scrupolo documentario e impegno civile, è il cemento, che brutalmente cancella la storia e il paesaggio (presto davanti a un quadro, che so, di Cima da Conegliano crederemo di guardare scene da un altro pianeta). Ma il cemento ha complici e mandanti, e non solo la rete invincibile dei microinteressi, degli egoismi e delle furberie dei singoli; sono anche i condoni edilizi che invitano all´abusivismo e alla violazione delle norme; è il decrescere della coscienza civile e culturale, che per basse ragioni elettoralistiche induce amministrazioni di ogni segno politico ad accattivarsi le simpatie dei peggiori con norme furbescamente permissive; è l´indebolirsi delle strutture pubbliche di tutela, per crescenti carenze di personale e per uno spostamento (davvero inesorabile?) verso forme di controllo locali minate alla radice dalla caccia al voto di ogni singolo abusivo. Come questo sia stato possibile, lo racconta Erbani nella prima parte del libro, un´agile e intelligente storia della questione, anch´essa nutrita di esempi (per fortuna qualcuno anche positivo, come l´«addizione verde» di Ferrara, modello di lungimiranza urbanistica e amministrativa), e di un´imparziale distribuzione delle responsabilità, che ahinoi spettano a politici di ogni quartiere.

Questo processo apparentemente inarrestabile sta velocemente corrodendo non solo il nostro paesaggio e le nostre città, non solo il futuro dei nostri figli, ma la nostra memoria storica e culturale, la stessa nostra capacità di vedere e prevedere, di coalizzarci per prevenire e impedire lo scempio. Non è una degradazione cominciata ieri, e lo mostra bene un dimenticato e profetico racconto di Dino Buzzati (pubblicato sul Corriere della Sera del 5 giugno 1954), Una villa sull´Appia. Un´attrice di successo si reca sull´Appia antica col proprio produttore e un giovane archeologo, che cerca di illustrarle la bellezza del luogo. Con qualche successo, visto che l´attrice decide su due piedi di costruirsi una villa proprio lì, in mezzo ai ruderi romani, per quanto l´archeologo cerchi di spiegarle che non è possibile, «Ci sono le leggi, signorina». Ma il produttore (che è anche avvocato) la sa più lunga: «Se tu ci tieni, cara... io forse posso trovare il modo di...». E infatti sorge presto la sontuosa villa, l´attrice sguazza nella piscina, ospiti e feste impazzano. Ma per poco. Penseranno gli spiriti degli antichi romani a sfrattare l´attrice invadendo di notte la villa, mettendole addosso una sottile inquietudine, facendole sentire con la loro presenza la violenza del tempo, il soffio della morte. «Fuggi dunque, finché sei in tempo. Dà ordine di demolire tutto, non lasciare pietra su pietra, fa riempire di sassi la piscina, che tornino le erbacce, le lucertole, il silenzio, la gloria dell´antica solitudine. Credi che sia tutto uno scherzo? E allora perché non dormi più, immobile davanti allo specchio? Uno scherzo non è».

Dove non valgono le regole, sembra dire Buzzati, si ridestino le ombre degli avi nostri, balzino su dagli avelli, pensino loro a difendere la quiete delle proprie tombe, i sassi e le lucertole. Questa sconsolata conclusione può andar bene per un racconto. Nelle tensioni e nelle battaglie del presente (quelle che tanti cittadini combattono in Campania come nel Veneto, e il libro di Erbani lo mostra) dovrebbe valere un altro principio, il richiamo alle norme, la coalizione delle buone volontà. Ma quando proprio le leggi (condoni e depenalizzazioni) incoraggiano a violare le norme, la crescita della coscienza civile intorno a questi problemi diventa, è vero, più ardua, ma anche più necessaria. Per non chiudere gli occhi, per non farsi illusioni, per saper combattere contro l´indifferenza e il cinismo, la storia e le storie raccontate da Erbani, tanto documentate e ahimé tanto esemplari, sono alimento efficace.

Il «silenzio-assenso» è diventato Codice: l’articolo di legge che prevede che un bene di valore storico, artistico, culturale, possa essere venduto se in un certo termine di giorni (centoventi complessivi, dall’istruzione della pratica) la Sovrintendenza non appone su esso un vincolo motivato, quella norma che Tremonti aveva infilato all’articolo 27 del decretone allegato alla Finanziaria, e che era stata giudicata l’ennesimo, raccapricciante, «colpo di genio» di un ministro che pensa solo a fare cassa, ora è il principio che informa la tutela del nostro patrimonio artistico. Il Consiglio dei Ministri, venerdì, ha aggiunto il «silenzio-assenso» al corpus del nuovo Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici. La notizia è stata data ieri sera al Tg3 da Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa, autore prima di un allarmato pamphlet, diventato successivamente consigliere del ministro Urbani.

Il codice-Ufo

Perché affidarsi a una fonte, dunque, non ufficiale benché assolutamente autorevole? Perché, come scrivevamo ieri, il nuovo Codice è ancora per larghi aspetti un Ufo: il testo definitivo sarà reso pubblico solo dopo la firma del Presidente della Repubblica. Ma l’iter anomalo (in diciotto mesi la bozza non è stata mai sottoposta al Consiglio dei beni culturali, né a sindacati e associazioni di tutela, mentre un testo «definitivo» arrivò in dicembre alle Camere senza essere stato ancora discusso dalla Conferenza Stato-Regioni), e le infinite bozze diverse che intanto hanno circolato in modo ufficioso, rendevano plausibile che anche all’ultimo - lì in Consiglio dei ministri - si verificasse un colpo di scena. Dunque, ha vinto Tremonti. Dal ministero dell’Economia potrà arrivare la richiesta di vendere questo o quello, elenchi interi di pezzi del nostro patrimonio collettivo, e le già stremate Sovrintendenze dovranno «farcela» a produrre un parere articolato entro i centoventi giorni dall’inizio della pratica. Se non ce la faranno, il bene sarà in vendita.

Questo, in concreto. Mentre in principio è legge, anzi è scritto nei Dieci Comandamenti, che il tesoro del Bel Paese è un tesoro da Paperoni, è oro, sono soldi. Ma c’è stato un vero duello tra Tremonti e Urbani? Il Codice nasce dalla delega a legiferare che il Parlamento diede al governo a luglio 2002. Delega, in principio, assai più ristretta: si chiedeva di armonizzare il Testo unico per i Beni Culturali con la riforma federalista del Titolo V della Costituzione. Col passare dei mesi, la delega s’è ingrassata e ha preso piede la voglia di riscrivere da capo le norme in campo di tutela e valorizzazione dei beni culturali, storici, artistici e paesaggistici: insomma, la legge delega è diventata un «Codice». Il ministro dei Beni Culturali formalmente in carica, Giuliano Urbani, ne ha parlato più volte, intanto, come della sua «arma segreta» contro i disastri che intanto nel suo giardino, con Patrimonio s.p.a., con i condoni, con l’articolo 27 del decretone, andava combinando l’«altro» ministro, quello vero, Tremonti.

Il Codice è arrivato in dicembre alle Camere per un voto che, trattandosi di una legge-delega, era solo consultivo. In commissione, a Palazzo Madama, non solo la minoranza, ma anche la maggioranza, esprime forti critiche su quell’articolo 27 che Tremonti ha varato nel frattempo. Alla Camera la relazione di minoranza chiede l’abrogazione secca della norma Tremonti. Il relatore di maggioranza, Orsini (Forza Ialia) sceglie questa formulazione: «Per quanto riguarda la questione della verifica dell’interesse culturale dei beni soggetti a tutela, intende sottolineare ... che il testo del codice in esame appare sicuramente preferibile rispetto a quello dell’articolo 27 del decreto legge n. 269 del 2003». Così com’è, il Codice insomma, a parere della stessa maggioranza, è meno disastroso della norma Tremonti.

Disarmante, questo ministro

Il seguito, però, c’era da aspettarselo. Il 13 gennaio lì in Commissione infatti parla il ministro Urbani che, disarmante, ricorda che «le norme sul silenzio-assenso sono state introdotte per ragioni di carattere prevalentemente finanziario», che quindi, visto che Tremonti gli ha scippato i beni che sono la ragione sociale del suo ministero, «è in corso un confronto con il ministero dell’Economia» per vedere se l’abrogazione sia fattibile. Ma, aggiunge: «La stessa norma sul silenzio-assenso può svolgere, paradossalmente, un ruolo di rafforzamento dei livelli di tutela, costituendo uno stimolo per l’implementazione delle procedure di catalogazione e censimento dei beni culturali pubblici che costituisce una precondizione essenziale per garantirne la tutela». L’eloquio è petrolinesco, la sostanza è chiara: il ministro per i Beni culturali è pronto a farsi scrivere anche un pezzo cardine del «suo» Codice dal collega dell’Economia.

È ancora in parte un mistero il Codice Urbani che dovrebbe regolare la tutela del patrimonio artistico e paesaggistico italiano. Ma è un mistero che inquieta tutte le associazioni di salvaguardia, che stamattina alle 11, nella Sala Gialla del Senato, esporranno il loro punto di vista. È molto probabile che nelle ultime ore il testo licenziato dal Consiglio dei ministri del 16 gennaio stia ancora subendo dei ritocchi, prima di giungere alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

L´incertezza finale è la conclusione più naturale di un travaglio che accompagna questo testo dalla sua gestazione. Non si sa con sicurezza se sia stata o meno introdotta la norma, voluta dal ministro dell´Economia Giulio Tremonti, che prevede che entro 120 giorni una Soprintendenza dia parere favorevole o contrario alla vendita di un bene pubblico. Scaduti i 120 giorni il parere è acquisito come favorevole: è la norma - secondo gli ambientalisti, una tagliola - del silenzio-assenso. Ieri è circolata l´ipotesi che nel Codice compaia un riferimento alla legge Finanziaria (che quel silenzio-assenso già prevede) e che quindi questa norma potrebbe avere la durata solo di un anno, la durata della Finanziaria, dopodiché si tornerebbe al regime precedente, più rigoroso. Ma è solo un´ipotesi.

Il pericolo più imminente, secondo Italia Nostra, il Wwf, Legambiente, il Comitato per la Bellezza, l´Associazione Bianchi Bandinelli e l´Assotecnici, i gruppi che organizzano l´incontro di stamattina, resta quello corso dal paesaggio, finora tutelato dalla legge Galasso. È questo testo, a loro avviso, la prima vittima del Codice. La legge fu varata nel 1985, lo stesso anno del primo condono, del quale, in qualche modo, ha limitato i danni. Secondo Francesco Canestrini, consigliere nazionale di Italia Nostra, la legge Galasso ha prodotto due effetti fondamentali: ha imposto che le Regioni varassero i piani paesistici, fissando una scadenza e, nel caso in cui questa non fosse rispettata, stabilendo che lo Stato centrale, cioè le Soprintendenze, subentrassero a redigere i piani (è accaduto spessissimo: in Campania, per esempio); la legge Galasso ha poi vincolato automaticamente alcune categorie di beni: i greti dei fiumi e dei torrenti, le cime di colline e montagne, la linea di costa e altre zone ancora. Spiega Canestrini: «Il Codice Urbani prevede, stando alla bozza in circolazione, che una Regione può compilare il suo piano paesistico, ma senza scadenze. Inoltre, una volta redatto, il piano può anche far decadere quei vincoli imposti, come si dice, ope legis. È il completo stravolgimento della legge Galasso».

Ma c´è un altro punto preoccupante. Le Soprintendenze non avranno più il potere di annullare le autorizzazioni rilasciate da Regioni o Comuni nelle aree vincolate. Secondo Gaetano Benedetto, vicepresidente del Wwf, accadrà che il proprietario di un edificio o di un´area vincolata sottopone alla Regione o al Comune il progetto di una serie di opere da eseguire. Entro quaranta giorni la Regione o il Comune trasmettono l´autorizzazione alla Soprintendenza, che a sua volta ha trenta giorni per esprimere un parere. Finora il parere della Soprintendenza era vincolante, ma nell´ultima bozza del Codice questa condizione non c´è più, per cui è l´ente locale che in definitiva rilascia l´autorizzazione. «Non è più previsto il controllo di legittimità del Ministero e delle Soprintendenze», aggiunge Canestrini, «e l´unico mezzo per impugnare le autorizzazioni rilasciate è il ricorso al Tar».

«Finirà che i pareri delle Soprintendenze non verranno neanche rilasciati», spiega Canestrini, che lavora come architetto alla Soprintendenza di Caserta e Benevento. «Noi siamo sei architetti in tutto e dobbiamo controllare il territorio di due province. Non ce la facciamo a smaltire il lavoro che grava sulle nostre spalle. Se dovesse entrare in vigore il principio del silenzio-assenso, sarebbe una disfatta. Noi abbiamo competenza su Capua, Aversa, per esempio, dove il patrimonio è disseminato e spesso senza nessuna catalogazione. Arrivano richieste di vendita di beni demaniali che non contengono alcuna descrizione, solo i numeri delle particelle catastali. Dobbiamo ogni volta fare sopralluoghi su sopralluoghi, compiere indagini complesse, accertamenti sulla qualità storico-artistica del monumento, oppure sulle valenze paesaggistiche. E 120 giorni sono un termine improponibile nelle condizioni di organico in cui versiamo».

SI SA chi studia la svalutazione delle monete, le sue cause e i suoi rimedi. Ma chi studierà la svalutazione delle istituzioni? Sociologi o politologi, storici o giuristi? O tutti insieme? Certo, l’Italia di questi anni è un eccellente laboratorio d’indagine per chi voglia cimentarsi col tema; specialmente per chi voglia studiare come possano essere le istituzioni a svalutare se stesse, e utilizzando meccanismi istituzionali.

Un bel caso sono gli attacchi all’art. 9 della Costituzione: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". Il presidente Ciampi ha sottolineato, nel suo discorso del 13 novembre alla National Gallery di Washington, quanto sia importante leggere queste parole fra i principi fondamentali della Repubblica; e parlando il 5 maggio ai benemeriti della cultura aveva detto che «Forse l’articolo più originale della nostra Costituzione repubblicana è proprio quell’articolo 9 che, infatti, trova poche analogie nelle costituzioni di tutto il mondo. La Costituzione - continua Ciampi - ha espresso come principio giuridico quel che è scolpito nella coscienza d’ogni italiano. La stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile. Anche la tutela, dunque, dev’essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile da tutti». Parole sorvegliatissime, che alludono alla sentenza della Corte Costituzionale (269/1995), che lega strettamente fra loro i due commi dell’articolo 9, e di conseguenza la tutela alla ricerca e alla fruizione. Perciò l’art. 9 è la bandiera delle battaglie di questi anni contro gli assalti al patrimonio culturale e al paesaggio, fino al recentissimo appello contro la scellerata proposta di totale depenalizzazione dei reati contro il paesaggio; perciò stanno sorgendo delle "Associazioni Articolo 9" (la prima a Napoli).

Di questi, alcuni aggiungono all’art. 9 "i diritti delle specie animali" (nr. 705, 2949), altri l’ecosistema del pianeta (nr. 3591), la flora e la fauna (nr. 3809), lo sviluppo sostenibile, la biodiversità e l’acqua (nr. 4181), la non brevettabilità della vita (nr. 4423).

La proposta più "leggera" (nr. 4307) aggiunge al paesaggio l’ambiente naturale; per un’altra proposta (nr.3666), il secondo comma dell’art. 9 dovrebbe così suonare: "Tutela il paesaggio, la dignità degli animali e il patrimonio storico e artistico della nazione". Ora, nessuno dubita che si debbano tutelare l’acqua o gli animali: il punto è se sia l’art. 9 della Costituzione il luogo giusto per dirlo. L’interpretazione sancita dalla Corte e dal capo dello Stato mostra ad abundantiam quanto sapientemente calibrato, e dunque delicato, sia l’impianto dell’art. 9, quanto importante sia il nesso fra i due commi per legare strettamente tutela, ricerca, fruizione. Ogni parola in più rischia d’alterare il senso dell’insieme. Il termine "tutela", che se riferito al patrimonio culturale e al paesaggio ha un significato ben preciso, in quanto rinvia alle apposite strutture dello Stato (le Soprintendenze), si diluisce e si sfigura se usato vagamente per una vasta serie di cose, le più varie. La densità davvero ammirevole dell’art. 9, la sua portata istituzionale ne risulterebbero diluite e svilite; molto più facile sarebbe attaccarne la granitica coerenza dopo averla aggredita insediando al suo interno oggetti estranei all’impianto originale. Anziché restare il baluardo di una concezione forte e severa della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, l’art. 9 si trasformerebbe in un catalogo di pii desideri, di aspirazioni delle anime belle, di principi generali che non richiedono (come invece la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico) la costante azione di precise e dedicate strutture dello Stato. Insomma, l’art. 9 verrebbe svuotato e svalutato di colpo.

Ma queste proposte di riforma costituzionale, chiediamocelo, saranno forse il frutto di una benintenzionata ingenuità, e non di volontà svalutativa? Certo, nessuno può leggere nel cuore dei circa sessanta deputati che hanno firmato le varie proposte, ma qualche sospetto c’è. Svalutare e svuotare l’articolo 9, infatti, servirebbe prima di tutto a spostare ulteriormente verso le regioni l’asse della gestione del patrimonio culturale. Il nuovo titolo V della Costituzione ha introdotto una disfunzionale distinzione fra tutela e valorizzazione che è l’esatto contrario della best practice universalmente diffusa (tutela, fruizione, valorizzazione sono un continuum che non si può segmentare senza paralizzare l’intera macchina amministrativa e culturale). Quella distinzione (che non ha cittadinanza in alcun sistema giuridico fuori d’Italia) non nasce dal puro cielo del diritto, ma fu inventata per produrre meccanismi devolutivi, assegnando (art. 117) la tutela allo Stato, la valorizzazione alle regioni; inoltre, l’art. 118 prospetta confusamente forme di coordinamento Stato-regioni sulla tutela, e dunque il confine fra le competenze è tutt’altro che chiaro. Proprio per questo, l’art. 9 (che in quanto principio fondamentale della Carta è sovraordinato agli artt. 117 e 118) è fondamento e baluardo dell’azione di tutela dello Stato, della stessa esistenza delle sue strutture a ciò preposte, ministero e soprintendenze. Una volta che la dignità degli animali s’insediasse nel cuore dell’art. 9 come in alcune delle proposte ricordate sopra, si potrebbe argomentare che per "tutela" vi s’intende non la quotidiana azione di strutture dedicate della pubblica amministrazione, bensì una protezione generica e volontaristica.

Diluire l’art. 9 converrebbe anche a chi, come Tremonti, persegue il disegno di vendere parti significative del nostro patrimonio culturale. Anche in questo caso, contro lo spirito e la lettera dell’art. 9, che secondo un’altra sentenza della Corte Costituzionale (151/186), sancisce "la primarietà del valore estetico-culturale", che non può essere "subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici", anzi dev’essere "capace d’influire profondamente sull’ordine economico-sociale". Sentenza richiamata da Ciampi nel suo discorso del 5 maggio, per ribadire che "la doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e fruizione". Condoni, depenalizzazioni, alienazioni facili, cessioni di musei o monumenti a imprese private, insomma, sono contro la Costituzione, e lo saranno fino a quando la lettura dell’art. 9 sarà chiara e univoca, e fino a quando esso continuerà a essere (come nell’intenzione dei padri fondatori della Repubblica) non una generica dichiarazione di principio, ma la proiezione e la consacrazione, al massimo livello giuridico, di un dato di fatto, l’esistenza di strutture statali dedicate e di norme di tutela, quelle che i Costituenti leggevano nelle giustamente celebrate leggi Bottai del 1939. La primarietà dei valori culturali, dice la Costituzione, non è negoziabile: perciò spiace che Tremonti sia riuscito a imporre in Consiglio dei ministri l’aggiunta al nuovo codice dei beni culturali (e sia pure in via temporanea) del pessimo principio del silenzio-assenso, che non c’era in nessuna delle sue bozze precedenti, e contro il quale si sono chiaramente pronunciate le commissioni cultura del Senato e della Camera in sede di discussione del "codice Urbani". Questo colpo di mano, un marchiano errore tecnico e politico, ha una sola ratio: la primarietà dei valori economici su quelli culturali, e cioè il contrario di quanto dice la Costituzione.

La posta in gioco è altissima, perché i valori difesi dall’art. 9 sono quelli della nostra stessa identità culturale. Vale perciò la pena di constatare mestamente che, mentre s’intensifica l’assalto al patrimonio culturale da parte di chi lo vorrebbe vendere o privatizzare, i fautori d’un ruolo forte delle istituzioni pubbliche disperdono le loro energie in un disperante "fuoco amico" fra Stato e Regioni (alcune delle proposte di modifica dell’art. 9 vengono dalla sinistra). Nessuno nega che le regioni debbano avere un ruolo capitale (tanto per cominciare, nel gestire il patrimonio proprio e degli enti locali); ma perché dev’essere lo Stato il nemico da battere? Fra pochi giorni verrà pubblicata la redazione finale del nuovo codice dei beni culturali: anziché tirare da una parte o dall’altra una coperta troppo corta, chi ha a cuore la sorte del Paese dovrebbe promuovere una riflessione istituzionale sui compiti urgenti da affrontare, prima che le nostre campagne spariscano sotto il cemento, che i nostri musei chiudano e le nostre città vengano avvilite dal dilagare di mansarde. Ma questa riflessione dovrà avere un punto di partenza e uno solo, già indicato dal magistero del capo dello Stato e della Corte Costituzionale: l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica.

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