ROMA- Tutti gli alberi, anche quelli secolari che si trovano entro sei metri dalle strade extraurbane, sono fuorilegge. È, questo, l'innovativo principio giuridico di sicurezza stradale stabilito dalla Cassazione nella sentenza di condanna per omicidio colposo al capo cantoniere dell'Anas di Foligno, Bruno Bruni. Secondo la Corte suprema, l'uomo avrebbe dovuto provvedere a mettere in sicurezza ("predisponendo un idoneo guardrail nel tratto di strada dove si trovava la pianta"), la statale "centrale umbra" orlata da una fila di alberi secolari, bellissimi da vedere, ma pericolosissimi per gli automobilisti. Se l'avesse fatto, Michela Crucianelli non si sarebbe schiantata a bordo della sua vettura contro uno di quei platani-killer. E non sarebbe morta.
L'articolo 26 del regolamento che dà attuazione al codice della strada entrato in vigore il primo gennaio del 1993 aveva vietato la presenza di alberi entro una distanza minima di sei metri. Pareva, però, che quella norma non fosse retroattiva, ovvero che non fosse riferita agli alberi preesistenti, ma solo a quelli piantati da quel momento in poi. Ci sono voluti 17 anni affinché la Cassazione dirimesse questo equivoco, decidendo una volta per tutte che il divieto vale per tutto il patrimonio arboreo che orla le strade extraurbane, sia quello precedente il '93, sia quello successivo.
La sentenza che ha condannato a un anno e sei mesi il cantoniere dell'Anas di Foligno costituisce ora unpunto di riferimento sia per tutti i tribunali e le procure d'Italia. Sia per gli enti proprietari delle statali extraurbani, in particolare l'Anas e le Province che d'ora in avanti dovranno stanziare ingenti investimenti per mettere in sicurezza le strade alberate. L'avvocato civilista Sandra Gracis è la prima ad essersi ispirata alla sentenza della Suprema corte per riaprire una vecchia causa. "Tutti i parenti di automobilisti morti avvenuti nell'ultimo decennio contro un albero - spiega il legale - possono ora fare una causa civile per ottenere un indennizzo". "Ho subito citato l'Anas - aggiunge l'avvocato Gracis - per la morte di Tommaso Rossi, schiantatosi l'11 giugno del 1996 (allora aveva 28 anni) contro un platano della statale "Pontebbana" fra Treviso e Conegliano. Una strada del Trevigiano sulla quale sono morti contro gli alberi decine di automobilisti". In tutta Italia ci sono migliaia di chilometri di strade extraurbane che hanno sul ciglio alberi killer. L'Aci, da alcuni anni, ha deciso di non proseguire più nel censimento degli incidenti stradali contro gli alberi. Ma le vittime restano ogni anno centinaia.
L'ultima, una ragazza di 17 anni, Claudia Martignago, schiantatasi contro una pianta sabato notte sulla statale che porta a Maser, in provincia di Treviso. "Non è giusto - commenta Gian Marco Sardi, della Società Italiana di Psicologia della Sicurezza Viaria - dare la colpa agli alberi. L'incidente è sempre la risultate dell'interazione di tre fattori: uomo, veicolo ed ambiente. Per aumentare realmente il livello di sicurezza e diminuire il numero di incidenti, morti e feriti è necessario intervenire al massimo e in modo concertato su tutti e tre i fattori. Quindi anche con la messa in sicurezza di guardrail, alberi, ma anche pali della luce, non percepiti come pericolosi, ma strutturalmente più rischiosi di altre situazioni".
Ci si mette anche il Codice della Strada, e in qualche modo c’era da aspettarselo, da un prodotto DOC certificato della cultura auto-centrica del ‘900. Però fa un certo effetto tornare di peso, e col peso soverchiante della Legge, a certe discussioni che avevo orecchiato nei primi anni ’60, quando qualche bel tomo discettava mi pare dei filari di Bolgheri come di fosche muraglie che ci impedivano di guardare al futuro.
Visto che nel caso specifico si parla di territorio non ancora devastato dalla piaga dello sprawl , che qualche architetto speranzoso di incarichi continua a declinare con vezzeggiativo di città diffusa, vediamo cosa potrebbe succedere adeguandosi davvero alla sentenza della Cassazione sul patrimonio arboreo delle strade extraurbane. Atto primo, e trattenete il fiato amanti del paesaggio italiano: via tutti gli alberi che non stanno alla distanza prescritta, ma proprio tutti tutti tutti (chiunque qui può avere un terrificante flash proustiano di scorci, migliaia di scorci, massacrati).
L’alternativa, se in qualche caso esiste, è pure peggio, ovvero per tutelare l’albero o l’alberatura si fa la variante stradale, e si può immaginare la classica sensibilità media dei progettisti e cantieri al rapporto col paesaggio. Ma siamo solo all’antipasto, e le prime avvisaglie del futuro chi le vuole vedere le ha già viste in abbondanza in certe realizzazioni rurali o suburbane recenti, dove seguendo i crismi della Corte Suprema (chissà perché anche qui si usa il termine all’americana) si va ovunque “predisponendo un idoneo guardrail”. Questo idoneo guardrail, un po’ come il suo analogo margine cementizio New Jersey , concepito a suo tempo per un uso sporadico, sfruttato troppo e male diventa una vera piaga per il territorio e il paesaggio, oltre che in fondo anche per la decantata sicurezza.
Solo per fare un esempio (appunto molto evidente là dove si sono realizzate queste belle pensate) la segregazione auto-centrica della strada extraurbana rende i tracciati simili a una caricatura autostradale, e pure senza altri relativi pregi, come l’ampiezza delle fasce di rispetto o gli interventi di landscape . Il che non solo apre la via alle più volte minacciate privatizzazioni e applicazioni di pedaggi, ma sostiene una precisa forma insediativa a sprawl auto-centrico, con corsie, svincoli, accessi controllati, lottizzazioni monofunzionali a cul-de-sac che instaurano in grande stile con l’arteria principale un rapporto assai simile a quello che oggi hanno con l’autostrada le fasce di servizi dedicati, o con le superstrade i centri commerciali e parchi a uffici.
Ed è solo un esempio, ce ne sarebbero altri.
È questo che si vuole, per il territorio italiano? Oppure qualcuno ha qualcosa da dire alla nostrana Corte Suprema, o a quei mona che hanno votato magari senza accorgersene un Codice della Strada simile? (f.b.)
Bentornati in un’ “area protetta” solo sulla carta della Sicilia. Una superstrada di 22 chilometri stritolerà il bosco della Ficuzza e cancellerà una preziosa area archeologica. Padrino e sponsor: Renato Schifani, presidente del Senato e cittadino onorario di Corleone. Il bosco della Ficuzza rischia ora l’estinzione.
Uno degli angoli più suggestivi e incontaminati della Sicilia è minacciato da una strada a scorrimento veloce che lo soffocherà con milioni di metri cubi di asfalto, iniezioni di cemento armato ed inquinamento a cielo aperto. L’Anas vuole l’arteria a scorrimento rapido a tutti i costi; addirittura la pretende il presidente del Senato. Renato Schifani rivela una raggiante confidenza: «Si tratta di un’opera essenziale. Gli ambientalisti hanno perso. E poi non contano niente, tanto la superstrada si farà». Per il cartello degli oppositori, contadini, ecologisti, cittadini è solo «uno scempio inutile e costoso». Un «disastro annunciato» perché l’opera pubblica, si srotola per più di 22 chilometri e prevede 11 viadotti, 12 cavalcavia, 2 ponti, 2 gallerie, svincoli a rotonda.
A conti fatti: oltre un milione di metri cubi di sbancamenti. Ventidue e passa chilometri, spezzettatati furbescamente in 5 lotti che passano per ampi tratti all’interno del bosco, dal 1991 Riserva naturale, interessando anche una Zps e ben due aree Sic.
«Inutile» perché secondo lo studio del Forum “Salviamo Ficuzza”, realizzato con il contributo di docenti universitari dell’ateneo palermitano ed esperti in materia si risparmierebbero solo 8 minuti. «Uno spreco di denaro pubblico» perché solo cinque anni fa l’operazione costava 98 milioni di euro: 12 milioni per ogni minuto risparmiato. La spesa attualmente è lievitata a 300 milioni, ma non si arresta, lievita sempre più. Il bosco della Ficuzza è uno dei più suggestivi dell’isola, sicuramente il più vasto della Sicilia occidentale, dove è presente l’80 per cento delle specie animali, tra uccelli e fauna selvatica. Un polmone verde che non è solo natura ma anche storia e cultura.
Carla Quartarone, ordinario di Urbanistica all’università di Palermo è perentoria: «I siti archeologici sulla Montagna Grande, la reggia di Ficuzza, le chiese, i conventi, le masserie, gli insediamenti rurali sono tutti beni culturali che derivano il loro maggior valore dall’essere immersi discretamente in un ambiente dove prevalgono ancora i segni della natura e quelli antropici aderiscono a questa. Questa superstrada superflua e inopportuna spazzerà via tutto». Secondo l’architetto «il progetto di “ammodernamento” della strada statale 118, è in contraddizione con il Piano regolatore generale del Comune, non soltanto perché tale modifica non è prevista in termini di occupazione di suolo e destinazione d’uso, ma soprattutto perché contraddice la valorizzazione del patrimonio culturale e storico e la salvaguardia del paesaggio agricolo e boschivo, assunti come risorse sulle quali fondare un possibile sviluppo sociale e produttivo del territorio corleonese».
Veti incrociati sono piovuti anche da Soprintendenza e Forestale, che hanno bocciato quattro dei cinque lotti in cui è suddiviso il progetto per incompatibilità ambientali e archeologico-paesistiche. In virtù di tali impedimenti l’Anas ha chiesto e ottenuto (con una serie di prescrizioni), il nulla-osta solo per il terzo lotto, cioè quello esterno alle due aree protette. I lavori sono stati consegnati il 16 luglio 2008 all’associazione temporanea d’imprese Tecnis spa Cogip srl Si.ge.nco spa, di Tremestieri Etneo, in provincia di Catania, per l ìimporto contrattuale di 18.788.207,00 di euro. L’ultimazione era prevista per il 7 novembre 2009. Nel luglio scorso è stato inaugurato il terzo lotto in pompa magna. «Uno spettacolo davvero indecente: ministro, presidente del senato, presidente della provincia, vertici Anas e sindaci tutti insieme appassionatamente per inaugurare meno di sei chilometri di strada. A fronte di un tracciato CorleoneMarineo di circa 30 chilometri, a cui dev’essere aggiunto per completezza il tratto Marineo-Bolognetta, di cui non si parla più riferisce Dino Paternostro su un blog locale Matteoli non sapeva cosa stesse inaugurando. Ha parlato di strada, ma si trattava di un piccolo lotto. Lo stesso vale per il presidente Avanti.
E gli altri quattro lotti? L’Anas (ce l’ha riferito il direttore regionale Ugo Dibbennardo) ancora deve completare i progetti esecutivi. E poi provare ad acquisire i prescritti pareri della Soprintendenza al territorio e ambiente e dell’azienda foreste demaniali. Il sindaco di Marineo, Franco Ribaldo chiede di convocare una conferenza di servizio, per mettere attorno allo stesso tavolo gli enti interessati ad esprimere i pareri sui progetti ancora in corso, per accelerare le procedure». Non nasconde l’entusiasmo Antonino Iannazzo (Pdl) sindaco di Corleone: «Esprimiamo grande soddisfazione Per ora si comincerà a costruire partendo dal centro». E gioisce l’assessore regionale all’ambiente, Giuseppe Sorbello, all’idea di spazzare via pini secolari in ottimo stato vegetativo.
Quest’opera pubblica non è altro che la riesumazione di un discutibile progetto della Democrazia cristiana risalente agli anni ’70, quelli di Lima e del sacco di Palermo: l’ “adeguamento” della statale 118 da Marineo a Corleone. L’Anas rilancia addirittura con un altro progetto nella stessa area: il by pass di Marineo, 7,7 chilometri di viadotti e gallerie che solcano pregevoli aree archeologiche, per un costo di 160 milioni di euro. Per sottrarre l’entroterra palermitano dal temibile «isolamento» l’area che statistiche ufficiali alla mano presenta la maggiore densità stradale dell’isola di cui parlano i fautori, un’alternativa ecosostenibile esiste: una bretella di collegamento tra il Corleonese e la veloce Palermo-Sciacca nel tratto tra Corleone e Roccamena. Solo 15 chilometri di tracciato con un impatto ambientale quasi nullo. Tempo di percorrenza 42 minuti, 8 in meno rispetto al tempo necessario utile a percorrere la superstrada ideata dall’Anas.
Uno stupro ambientale vale pure un Renato al Senato.
"LA STAMPA": CENSURA ISTITUZIONALE
Ecco il retroscena. Tranquilli: è tutto a posto, tutto legalizzato, si fa per dire. L’inchiesta era stata concordata con il caporedattore Guido Tiberga e con il direttore Giulio Anselmi. Non vedrà mai la luce e i due colleghi non forniranno in merito alcuna delucidazione.
Un passo indietro. Apro un’inchiesta su questo scempio annunciato. Volo a Palermo e chiamo il responsabile dell’Anas. Poi il sindaco di Corleone e altri soggetti coinvolti. La notizia di un cronista ficcanaso giunge al presidente del Senato pro tempore. Renato Schifani mi fa telefonare dal suo segretario particolare e mi invita a palazzo Giustiniani in Roma per partecipare alla festa del ventaglio; un discorso di fine anno con annessa abbuffata a spese degli ignari contribuenti (presenti molti parlamentari del cosiddetto centro sinistra). Ci vado. Dopo i convenevoli di rito Schifani in persona appare sorpreso per questo mio specifico interessamento. Espongo i nudi fatti e lui mi consiglia di prendermi una vacanza. Rammento a Schifani che negli anni ‘90 era socio della “Sicula Brokers”con Nino Mandalà e Benny D'Agostino, entrambi condannati in via definitiva per associazione mafiosa. Per la cronaca: Renato Schifani è stato consulente del sindaco di Villabate (in provincia di Palermo) la cui giunta comunale è stata sciolta ben due volte per collusione con la mafia.
Singolare coincidenza: proprio per mafia Schifani Renato è attualmente indagato dalla Procura della Repubblica di Palermo. Insomma, tutto a posto.
Epilogo: Schifani nel febbraio del 2009 compie una visita lampo alla redazione di Torino del quotidiano di casa Fiat. Risultato finale: Anselmi passa a presiedere l’Ansa, mentre la collaborazione professionale dello scrivente viene inesorabilmente troncata, senza nemmeno uno straccio di spiegazione. L’attuale direttore Mario Calabresi finge di cadere dalle nuvole.
Casablanca. Storie dalle città di frontiera
Prima uno, poi un altro, poi un altro ancora. Da Morgano a Valdobbiadene, da Godega di Sant'Urbano a Conegliano e quindi nel capoluogo, a Treviso. Altri, si dice, verranno. Sono contadini, proprietari di terreni che i Comuni vogliono rendere edificabili per farci villette e capannoni industriali. Ma loro si oppongono e insistono perché restino agricoli. Ci perdono tanto: il cambio di destinazione può valere dalle cinque alle dieci volte il prezzo di partenza. Non è come una decina d'anni fa, quando questo lembo di Veneto fu seminato di cemento e un'edificabilità faceva crescere anche di cento volte il prezzo agricolo. Ma è pur sempre la rinuncia a un bel gruzzolo.
Eppure non demordono. La famiglia Favaro di Morgano e la famiglia Caldato di Treviso coltivano la terra che coltivavano i nonni e chiedono di continuare o anche solo di tosare il quadrato verde che sta davanti a casa, di curare gli scolmatoi, di pulire le rogge e di non vederlo diventare lo svincolo di un distretto industriale. Nel frattempo il Comune gli impone di pagare l'Ici come se avessero già costruito. Ma dalla loro parte sono schierati il Fai e Italia Nostra e li assiste Francesco Vallerani, geografo dell'Università di Venezia.
I Favaro e i Caldato sono mosche bianche in questa provincia. Stando ai calcoli di Tiziano Tempesta dell'Università di Padova, nei piani regolatori dei 95 comuni del trevigiano sono conteggiate 1077 aree produttive, dieci per comune, la gran parte inferiori a 5 ettari e disseminate a caso nel territorio. Molti, però, sono i capannoni sfitti (il 20 per cento in tutto il Veneto) e molte le aree già lottizzate sulle quali non si costruisce. Una, grande 15 mila metri quadri, è quasi al confine della proprietà dei Favaro. E lungo la provinciale che porta dai Caldato c'è un filare di stabilimenti vuoti. Ma nonostante questo, le concessioni di edificabilità fioccano quasi per inerzia. Chiunque può se le accaparra. Non tutti, perché il trevigiano è il territorio con il più alto numero di comitati in difesa del paesaggio, benedetti da Andrea Zanzotto che vigila dalla sua casa di Pieve di Soligo.
I Favaro hanno 4 ettari di terreno a Morgano. Coltivano mais. Ma la loro specialità è un vivaio di piante autoctone - aceri, querce, olmi, platani - allevate in un piccolo bosco che ripropone un brandello di paesaggio veneto. Chi le compra le lascia crescere lì e poi le porta via con l'intera zolla dopo tre o quattro anni. L'amministrazione comunale ha deciso che Morgano deve ingrandirsi con un'area industriale di 90 mila metri quadri in una zona paludosa, circondata da corsi d'acqua e che, sovrastata di cemento, rischia di finire sotto, come durante l'alluvione di due mesi fa. Siamo nel Parco del fiume Sile, in un sito protetto dalla Comunità europea. In questi 90 mila metri quadri ci sono i 40 mila dei Favaro. "A noi bastano i soldi che guadagniamo facendo gli agricoltori. Qui il cemento si mangia la terra, ma non porta più ricchezza", dice uno dei fratelli Favaro, "se avessimo l'edificabilità e vendessimo non ci darebbero soldi, ma un appartamentino in una villetta a schiera". Ora la decisione rimbalza fra Comune e Regione. Ma se l'edificabilità fosse imposta, i Favaro andranno in tribunale.
Più piccolo - 18 mila metri quadri - il terreno dei Caldato, alle porte di Treviso. Ma molto antica la storia che Pietro, con il fratello Roberto e la sorella Enrichetta, ha ricostruito fin dal Seicento e che attesta la loro proprietà dai primi dell'Ottocento. Ci sono una vigna, un orto e tanto prato. Ma il Comune di Treviso vorrebbe farne area industriale, squarciando il terreno con una strada che sfocia in una rotonda. E ai Caldato chiede di pagare l'Ici dal 2003, quando fu approvata la variante al piano regolatore: quasi 60 mila euro. "Della ricchezza che altri inseguono non sappiamo che farcene", dice Pietro. Ora con il Comune è in corso una trattativa. È intervenuto il sindaco. "Rischiamo di perdere la nostra terra e la nostra libertà. Ma ancora preserviamo il nostro modo di pensare e di vivere. I soldi? Non possiamo portarceli dietro quando saremo morti".
(fortunatamente i contadini veneti non sono i soli)
Raddoppiano i "no" per gli interventi in aree vincolate. A un anno dall'entrata in vigore del nuovo procedimento di autorizzazione, introdotto a inizio 2010 con le modifiche al codice dei beni culturali, la difesa del paesaggio si fa più stringente. E’ quanto emerge dal monitoraggio su dodici soprintendenze (un terzo del totale) che hanno risposto alle domande che il Sole 24 Ore ha inviato a tutte le 33 sedi presenti sul territorio nazionale. Dati che consentono di fare un bilancio, seppure parziale, dei primi dodici mesi con il nuovo regime. E che trovano riscontro nelle dichiarazioni di altri cinque soprintendenti (Venezia, Napoli, Milano, Brescia e Sardegna) non in grado di fornire numeri precisi, ma concordi nel registrare l'impennata dei pareri negativi. Più difficile, invece, valutare la portata dell'autorizzazione semplificata, partita lo scorso settembre e che riguarda lo snellimento delle procedure per 39 interventi "minori".
Sul versante dell'autorizzazione ordinaria, il ministero registra un recepimento graduale, senza particolari scossoni. «In un anno - spiega Paolo Carpentieri, capo dell'ufficio legislativo dei Beni culturali - non sono arrivate dalle soprintendenze significative richieste di pareri. Non siamo, in altre parole, stati sommersi dalle domande e dai dubbi, fenomeno che. invece si verifica quando l'applicazione di una novità si rivela complicata». Il dato da rilevare è, dunque,. soprattutto quelle delle "bocciature", passate - se si confrontano gli annullamenti di legittimità espressi nel 2009 con i pareri negativi vincolanti del 2010 - da 432 a 876. La crescita più rilevante si è registrata a Firenze, Pistoia e Prato, dove lo stop è arrivato per 223 volte contro le 42 dell'anno precedente (anche se nel 2009 le richieste esaminate. sono state inferiori). Fa eccezione il Piemonte, dove il numero di bocciature nelle due sedi regionali è ridotto, in quanto si è scelto - precisano dagli uffici - di operare soprattutto per «correggere gli interventi». A confermare il restringimento delle maglie sulla tutela del paesaggio sono anche i soprintendenti che, in mancanza di rilevazioni dettagliate, non hanno dubbi sull'aumento dei pareri negativi. Gli stop, ad esempio, sarebbero addirittura lievitati di dieci volte in Sardegna. «I vecchi annullamenti colpivano il 2% delle richieste. Ora i pareri contrari sono il 20-25%», afferma Gabriele Tola, alla guida dei due uffici sardi. A Sassari-Nuoro, in particolare, la situazione è stata critica soprattutto sul fronte dei tempi per le risposte (passati da 45 a 60 giorni): «Sono solo due gli architetti a occuparsene e così si finisce per andare oltre i termini per la metà delle 7mila pratiche che riceviamo ogni anno».
Alla soprintendenza di Venezia e Laguna il territorio da controllare è di certo meno esteso, ma è quasi tutto sotto vincolo. Qui, spiega Renata Codello, a capo della sede lagunare, «i "no" erano già intorno al 7%; con le nuove procedure schizzano al 15-17 per cento». A Venezia, per far fronte alla stretta sui tempi si è fatto leva sull'informatizzazione, con un software in grado di "allertare" i funzionari sulle pratiche in scadenza. «Con il nuovo regime l'attività è aumentata a dismisura», afferma Alberto Artioli, soprintendente di Milano e di altre otto province lombarde, che ammette: «Ci siamo salvati solo grazie all'entrata in servizio da aprile di cinque nuovi architetti». A Parma, invece, rimarcano come per i progetti a scarso impatto paesaggistico si lascino spesso trascorrere i termini perché il parere comporta un impegno non trascurabile. Secondo Andrea Alberti, soprintendente di Brescia, Cremona e Mantova, il nuovo procedimento ha permesso con più facilità di «fornire indicazioni prescrittive».
Altro discorso va fatto per l'autorizzazione semplificata, a regime dallo scorso 10 settembre. I primi tre mesi hanno fatto registrare un tiepido ricorso alla nuova procedura (il 2,8% dei fascicoli delle soprintendenze monitorate hanno chiesto la procedura accelerata). C'è, però, da aggiungere che il tempo trascorso non consente una valutazione approfondita del nuovo regime. I primi giudizi, tuttavia, non sono particolarmente positivi. Per le soprintendenze piemontesi lo snellimento non è così evidente per quanto riguarda la documentazione da produrre, mentre a Firenze si punta il dito sui tempi troppo stretti. Sulla stessa linea Stefano Gizzi, soprintendente di Napoli: «È proibitivo rispettare il termine ridotto a 25 giorni». L'opera di semplificazione, comunque, dovrebbe conoscere un secondo capitolo. La commissione insediata presso il ministero dei Beni culturali e che ha prodotto il primo decreto di snellimento, ha continuato a lavorare con l'obiettivo di semplificare altri aspetti della procedura ordinaria. In particolare, si tratta di chiarire alcuni passaggi, ridurre i termini al di sotto dei 100 giorni non solo per i casi di lieve entità e tagliare anche i documenti da presentare per ottenere il nullaosta. I1 testo della commissione è stato sottoposto alle regioni, che a inizio dicembre hanno prodotto un loro elaborato, che ora dovrà essere discusso con i Beni culturali. Situazione politica permettendo.
LA NUOVA PROCEDURA.
L'autorizzazione paesaggistica ha debuttato il 1 gennaio 2010, rendendo operative le modifiche al codice dei beni culturali (Dlgs. 42/2004, articolo 146). La procedura prevede che l’autorizzazione per gli interventi in aree vincolate venga rilasciata entro 105. giorni (più 15 giorni nel caso in cui si ricorra alla conferenza dei servizi). La soprintendenza dive dare il parere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti (contro i 60 previsti dal vecchio procedimento). Il parere, che fino al 2009 veniva dato sul progetto già approvato dall'ente delegato (di solito i comuni) e poteva fare leva solo su un potere di annullamento per vizi di, legittimità degli atti, è ora diventato di merito, preventivo e vincolante.
NULLAOSTA SEMPLIFICATO
L'autorizzazione paesaggistica semplificata (Dpr 139/2010) è entrata in vigore il 10 settembre 2010: L'obiettivo è snellire e accelerare le procedure per il rilascio dei nullaosta nel caso di 39 interventi ritenuti di lieve entità. L'autorizzazione deve, infatti, essere rilasciata entro 60 giorni invece dei 105 previsti dal procedimento ordinario. Tra le opere minori figurano, tra l'altro, piccoli ampliamenti, demolizioni e ricostruzioni a parità di volume e sagoma e 1'installazione di pannelli solari, termici e fotovoltaici. Il parere della soprintendenza, da rilasciare entro 25 giorni, è vincolante ma non obbligatorio.
In questi giorni il Comitato per la Bellezza ha deciso unanimemente di attribuire a Desideria Pasolini dall'Onda, componente del Comitato stesso, la presidenza onoraria. Una attribuzione che avviene in spirito di amicizia ricoscendo all'indomita Desideria di condurre una battaglia, più che cinquantennale e senza sosta, per la tutela del paesaggio, con particolare attenzione a quello agrario (che considera quasi una sua "fissazione"), e del patrimonio storico-artistico delle Nazione. Seguendo alla lettera il dettato dell'articolo 9 della Costituzione. Desideria Pasolini, allieva di Pietro Toesca e di Cesare Brandi, studiosa di letteratura inglese, traduttrice di Robert Louis Stevenson e di Virginia Woolf, è stata fra i fondatori, nel 1955, con Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Giorgio Bassani, Pietro Paolo Tormpeo e altri, dell'associazione Italia Nostra. Della quale è stata consigliere nazionale e quindi presidente per un lungo periodo conducendo alcune fondamentali campagne di denuncia, di studio e di proposta. In anni più recenti è entrata a far parte del Comitato per la Bellezza che si onora della sua sempre attiva e stimolante presenza.
Tre paradossi, secondo Salvatore Settis, gravano sul paesaggio italiano e sul suo futuro. L´Italia è il paese con un tasso di crescita demografica bassissimo (quel poco che c´è è dovuto prevalentemente agli immigrati), eppure è da noi che il cemento consuma più suolo in Europa. Solo in Italia la protezione del paesaggio è scritta nella Costituzione ed è in Italia che vigono le migliori leggi di tutela: eppure il nostro è il paese più infettato dall´abusivismo edilizio e da quel sistema di deroga costante che autorizza legalmente di costruire in modo selvaggio. Ultimo paradosso: vantiamo una letteratura sterminata sul paesaggio (giuridica, amministrativa, storica, filosofica…), eppure nella scuola italiana non c´è verso di sentir pronunciare quella parola.
Storico dell´arte, archeologo, direttore prima del Getty Research Institute di Los Angeles, poi, fino a quest´anno, della Normale di Pisa, titolare della Cátedra del Prado, Settis sta per mandare in libreria Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l´ambiente contro il degrado civile (Einaudi, pagg. 326, euro 19). Il libro fa capire quale profilo ormai affianchi quello del Settis studioso e docente: l´essere diventato fra i più affidabili riferimenti di quel vasto schieramento che in Italia fronteggia aggressioni e insensatezze a danno del paesaggio. E questo saggio raccoglie riflessioni culturali e civili, cifre, scenari economici, storie e una ricca documentazione di fonti legislative e amministrative che consentono a chi si batte per evitare un sopruso di avere uno strumento in più.
Settis, gli italiani non crescono, ma le case sì. Perché?
«Al fondo anche delle più sfacciate operazioni speculative io ci leggo una cultura arcaica, la memoria di una povertà ancestrale: persino nelle zone più ricche del paese quel che conta è la rendita fondiaria che blocca capitali e non produce ricchezza».
Il culto del mattone?
«L´idea che il modo migliore per investire un capitale sia di tradurlo in immobile. Che poi questo venga utilizzato o venduto è secondario. È un carattere che accompagna la nostra economia da decenni, comprensibile, forse, in un cittadino comune, meno in Giulio Tremonti».
Che però non è il ministro addetto al cemento.
«È lui ad aver varato nel 2001 la norma che detassa il reddito d´impresa se si investe in capannoni industriali: si spiega così, e con qualche trucco aggiuntivo, perché le province di Treviso, Padova, Vicenza e Venezia – ma anche altre in tutta Italia – siano disseminate di stabilimenti vuoti che sfigurano il paesaggio pedemontano veneto già massacrato quando la crescita economica di quelle aree era impetuosa e quando incalzava il cosiddetto sprawl urbano, la dispersione abitativa».
Ecco il paradosso: mattone senza crescita.
«Un altro potente fattore di devastazione è stata l´abrogazione di quella parte della legge Bucalossi del 1977 che imponeva a chi costruiva di contribuire ai costi che il Comune avrebbe sopportato per gli allacci di luce, gas, acqua, per le strade, le fogne. Dal 2001, ultimi giorni del governo Amato, quei soldi che il privato paga finiscono nel bilancio del Comune che li usa come crede».
E qual è stata la conseguenza?
«Che i Comuni, strozzati dal calo dei finanziamenti statali e poi dall´abolizione dell´Ici, sono stati spinti a fare cassa concedendo quante più licenze edilizie possibili. Hanno venduto suolo senza altra logica che quella di tenere in piedi i bilanci. E sono incentivati a continuare. Poi ci si mettono i condoni, il cosiddetto "piano casa"…».
Lei raccoglie tantissimi dati sul consumo di suolo.
«Le informazioni non mancano. Talvolta sono parziali. L´Istat ha accertato che dal 1995 al 2006 sono stati rilasciati permessi per 3,1 miliardi di metri cubi. E con questi dati l´urbanista Paolo Berdini ha calcolato che si è costruito su 750 mila ettari di suolo, una superficie grande quanto l´Umbria. Ma a queste cifre vanno aggiunti i numeri dell´abusivismo».
Sotto questa marea di case, strade e stabilimenti annega parte consistente del paesaggio italiano. Che cosa replica a chi sostiene che non si possa guardare al paesaggio come a un bene immutabile, dato una volta per sempre?
«Che è verissimo. Il paesaggio cambia continuamente. Gli alberi di un bosco crescono e poi vengono potati. Tutte le leggi, da quella di Benedetto Croce degli anni Venti del Novecento al Codice varato nel 2004 considerano il paesaggio come un prodotto storico, culturale, cui cooperano natura e uomo».
Però?
«Però bisogna fare attenzione a quanto di capzioso può nascondere chi si scaglia contro una presunta ibernazione del paesaggio. Le modifiche che si possono apportare devono essere controllate e devono rispondere a una logica che i paesaggi contengono dentro di sé e che va interpretata. Il paesaggio non va protetto perché estetizzato, ma perché è portatore di valori civili, garante della vita associata. È il filo che lega esperienze sociali, delle classi ricche e colte e delle persone umili, a cominciare dai contadini».
Quando è saltato questo codice condiviso?
«Dagli anni Cinquanta in poi. Il fenomeno ha assunto aspetti antropologici ed è poi diventato impetuoso negli ultimi decenni. Almeno all´inizio è prevalsa la combinazione di diversi fattori: la crescita demografica e del reddito, la voglia di rinascita dopo la guerra, il calo delle professionalità e dei controlli pubblici, nuove tecnologie edilizie e l´irrompere sulla scena macroeconomica del settore immobiliare».
E venendo ad anni a noi più prossimi?
«È saltato l´equilibrio città-campagna. La campagna è invasa dalla città, ma non è diventata città e non è più campagna. Si è posto il mercato al di sopra di ogni altro valore e lo spazio sociale, che era carico di senso, è stato travolto dal meccanismo consumistico di una violenta rottamazione, è diventato esso stesso una merce, vale non perché possiamo viverlo, ma solo in quanto può essere occupato, prezzato, cannibalizzato».
"Sa indignarsi solo chi è capace di speranza", lei scrive citando Seneca. Qualcosa sta cambiando?
«Il degrado di cui parliamo è parte di un degrado che investe le regole del vivere comune. E l´opposizione cresce. Ovunque sorgono comitati di cittadini, che scavalcano la mediazione dei partiti, attivano forme di rappresentanza nuove, acquistano competenze, manifestano, vanno al Tar e vincono. Si muovono con passione e abilità politica. Il paesaggio rappresenta una cartina di tornasole, un test per intendere come il cittadino vive se stesso in rapporto all´ambiente e alla comunità che lo circondano».
BOLOGNA - Patate e broccoletti sì, ma non solo. L´agricoltore del futuro è multitasking: agisce su vari piani. Certo, ha abbandonato la chimica pesante, quella che ha inquinato le falde idriche e minato la fertilità dei terreni, per dedicarsi alle coltivazioni biologiche e biodinamiche, ai prodotti con il marchio di garanzia territoriale, ai gioielli della tradizione che danno una mano all´export. Ma non basta perché, nel loro complesso, i campi continuano a perdere braccia, denaro e consenso tra i giovani: negli ultimi dieci anni un´azienda agricola su quattro ha chiuso e il Pil è sceso di un punto.
E allora, per invertire la rotta e difendere, assieme ai campi, il paesaggio, l´agricoltura si reinventa tornando alle origini, cioè alla gestione del territorio. A lanciare la proposta al convegno «Sos agricoltura» - organizzato dal Fai (Fondo ambiente italiano), dal Wwf e dall´Associazione per l´agricoltura biodinamica che si riunisce in questi giorni ad Arezzo - è stato Andrea Segré, preside della facoltà di Agraria dell´università di Bologna. «Il futuro dell´agricoltura sta nella terziarizzazione per la produzione di beni e servizi pubblici», spiega Segré. «Faccio un esempio. La mia facoltà ha un´azienda agricola che già oggi raccoglie gli scarti della potatura in città incrementando il suo fatturato. Perché non allargare questo genere di interventi? Gli agricoltori hanno trattori, idrovore, mezzi pesanti in grado di svolgere molti servizi a vantaggio della comunità in cui vivono: dal controllo della rete idrica alla rimozione della neve. Meglio spendere qualcosa in prevenzione dando un reddito aggiuntivo che difende il presidio delle campagne invece di far salire il conto della Protezione civile».
Tra il 1951 e il 2009 abbiamo speso 50 miliardi in danni causati dal dissesto idrogeologico e la cifra continua a crescere anche perché la politica europea del riposo forzato dei campi, il set aside, ha dato risultati parziali: si è smesso di produrre frutta per il macero ma si sono abbandonati in 10 anni un milione e 800 mila ettari. Con il risultato che il governo idrogeologico di queste aree, che ormai avevano perso l´equilibrio naturale, è saltato. Recuperare la ricchezza del paesaggio tradizionale, il fascino della diversità dei campi significa dunque difendere la sicurezza di tutti. Ma chi paga il conto?
Si potrebbe, come suggerisce Segré, creare un´anagrafe che incroci domanda e offerta, necessità di interventi e disponibilità di mezzi: in questo modo si metterebbe in campo una mano d´opera qualificata evitando che scompaia e rispondendo a un bisogno prioritario. Già oggi le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l´ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall´uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.
«Non possiamo certo sostituire i pannelli fotovoltaici ai filari di nebbiolo sulle Langhe o di sangiovese sulle crete senesi, ma le fonti rinnovabili non sono un nemico», osserva Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fai. «Per difendere il paesaggio l´agricoltura ha bisogno di sostegno economico. Finora è stato alimentato un meccanismo perverso che ha premiato fiscalmente i Comuni quando concedono le licenze edilizie invece che quando difendono la qualità dell´ambiente. Si tratta di raddrizzare la rotta utilizzando anche il peso del turismo e l´integrazione delle energie rinnovabili ben inserite nel contesto: basta darsi regole chiare e trasparenti».
A come agricoltura. E anche come aria, alimentazione, ambiente. Sono le quattro "A" che regolano la vita dell’umanità dalla notte dei tempi, in quella catena della sopravvivenza che ha garantito fin qui la prosecuzione della specie. Ma la campagna italiana, minacciata innanzitutto dal cemento e dall’asfalto, rischia di deperire irrimediabilmente, coinvolgendo anche la conservazione del paesaggio su cui si fonda la nostra identità nazionale. I danni prodotti dall’ultima ondata di maltempo, dal Veneto alla Campania, rappresentano perciò - al di là della loro dimensione economica e sociale - un avvertimento della natura contro la devastazione provocata dalla mano dell’uomo.
L’agricoltura italiana sta attraversando la crisi peggiore dal dopoguerra. Dal 2000 al 2009, la sua quota di Pil (Prodotto interno lordo) è scesa dal 2,5 al 1,6%. Le nostre campagne si stanno progressivamente spopolando, mentre le piccole aziende agricole lasciano spazio alla coltivazione intensiva: negli ultimi dieci anni, sono già diminuite del 26% e quelle con allevamenti di bestiame si sono ridotte addirittura alla metà. Altro che "dipendenza energetica" dall’estero: di questo passo l’Italia rischia di perdere anche l’indipendenza alimentare, di non avere più frutta e verdura proprie né carne di produzione locale da consumare. Hanno senz’altro ragione quindi gli agricoltori a sentirsi traditi da una politica che non li aiuta e da una burocrazia inutilmente complessa e onerosa, nonché da un mercato che non rispetta i costi reali del lavoro.
Ma il peggio è che l’abbandono dell’agricoltura sta distruggendo di conseguenza il paesaggio, l’ambiente e la biodiversità, con la prospettiva di inevitabili ripercussioni sul turismo e su tutto l’indotto: dall’industria alberghiera alla ristorazione, dall’eno-gastronomia all’artigianato. Nel frattempo, il degrado ambientale e il dissesto idrogeologico non fanno che aggravare i danni del maltempo, scaricandoli fatalmente sulle casse dello Stato e degli enti locali: negli ultimi sessant’anni, dal ‘51 al 2009, le alluvioni, le frane e i crolli sono costati complessivamente 50 miliardi di euro, con un bilancio ancor più grave in termini di vite umane che registra purtroppo 3.660 vittime. E anche questa è una conseguenza del cambiamento climatico prodotto dall’effetto serra, cioè dall’inquinamento e dal riscaldamento del pianeta, con il fenomeno tipicamente tropicale delle piogge concentrate in poche ore o in pochi giorni che si alternano a periodi di siccità.
C’è dunque un fondo di saggezza nel proverbio popolare che dice: «Piove, governo ladro». E non sta tanto, come si può ricavare da una lettura superficiale, nell’ovvio qualunquismo di un’imprecazione del genere. Quanto piuttosto nella consapevolezza che perfino un evento meteorologico come la pioggia, quando diventa una calamità naturale e provoca alluvioni, frane, crolli, vittime e danni, interpella fatalmente le responsabilità di chi governa o non governa il territorio. Di chi appunto "ruba" il suolo, consumandolo con la cementificazione selvaggia, l’urbanizzazione irregolare, il disboscamento, l’abusivismo e con quella malattia endemica della società moderna che si può chiamare "capannonite", cioè l’estensione indiscriminata dei capannoni che invadono e ricoprono la campagna.
Non è allarmistico né esagerato concludere, dunque, che lo stato dell’agricoltura italiana segnala ormai un’emergenza nazionale, da cui dipende non solo il futuro di un settore fondamentale per l’intera economia italiana, ma la stessa identità sociale e culturale del Paese. Nel passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale e poi post-industriale, rischiamo di cadere nel vuoto dell’inciviltà perdendo il senso dell’orientamento e la direzione di un autentico progresso.
Regioni in ordine sparso sulla pianificazione: nessuna ha chiuso l'iter con il ministero
Il dossier curato da Italia Nostra denuncia il ritardo delle Regioni e il «far west» delle regole locali
La copianificazione segna il passo. La definizione insieme al ministero dei Beni culturali degli strumenti paesaggistici nelle diverse Regioni italiane va al rallentatore: nessuna amministrazione ha chiuso il cerchio sull'adeguamento del piano, mentre in diversi casi l'iter deve ancora compiere il primo passo. Le norme di tutela per le aree vincolate sul territorio nazionale, dunque, formano ancora un mosaico: dalla Calabria, che ha firmato l'intesa col Mibac ma è tuttora sprovvista di una disciplina di tutela, alla Sardegna, dove lo scorso giugno è partita la revisione del Ppr approvato meno di quattro anni fa. E questo il quadro tracciato da Italia Nostra, l'associazione ambientalista che ha appena presentato il primo rapporto nazionale sulla pianificazione paesaggistica.
«L'obiettivo iniziale era di fornire un quadro aggiornato della copianificazione — ha detto Maria Pia Guermandi, autrice del rapporto insieme a Vezio De Lucia —. Un'attività che avrebbe dovuto essere, a oltre due anni e mezzo dall'approvazione definitiva del codice dei beni culturali, a un avanzato grado di elaborazione. Ci siamo invece resi conto che si trova in uno stato di scandalosa impasse». Le Regioni, osserva l'associazione, «non hanno un piano paesaggistico adeguato sebbene il codice prevedesse che entro il 31 dicembre 2009 tutte si dotassero di un piano che mettesse ordine nel far west della legislazione sul territorio». Il codice Urbani prevede, in particolare, che la pianificazione in aree vincolate sia competenza regionale, ma è riconosciuta al ministero la partecipazione obbligatoria alla scrittura di quelle parti del piano che riguardano beni vincolati con atti amministrativi ad hoc o in base all'appartenenza alle categorie geografiche-territoriali tutelate «ope legis» (che coprono circa il 47% del territorio italiano).
Ed è proprio allo scopo di avviare la pianificazione congiunta, che può essere estesa anche all'intero territorio regionale, che Regioni e ministero possono stipulare intese per definire le modalità di elaborazione dei piani. Alla prova dei fatti, però, le amministrazioni, si presentano in ordine sparso. Con Regioni che non sono neanche partite, come Liguria. Basilicata e Molise, e altre, come il Veneto, dove è appena iniziata, si legge nel rapporto, «una mera ricognizione tecnico-giuridica-cartografica dei vincoli». La mappa stessa delle normative vigenti in materia di paesaggio è molto frammentata. In Lombardia, ad esempio, è stato recentemente predisposto uno schema di piano paesaggistico all'interno del Ptr (approvato a inizio 2010) realizzato unilateralmente dalla Regione e senza «dialogo» col Mibac. Diversa la situazione in Toscana, dove è forte la centralità dei Comuni anche per le decisioni sulle aree vincolate ed è stato attribuito valore paesistico al piano di indirizzo territoriale (pubblicato nel 2007). Caso a parte quello della Sardegna: dopo una lunga fase di assenza di strumenti di tutela paesaggistica, la cosiddetta legge «salvacoste» del 2004 è divenuta il primo tassello del piano paesaggistico regionale, approvato circa due anni dopo. La nuova Giunta (in carica dal 2009), tuttavia, ne ha già iniziato la revisione.
Dal fiume carsico delle cricche romane emerge l'ultima inchiesta sulla pubblica amministrazione. Questa volta riguarda la Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici della capitale. La prima denuncia, ad opera di un alto funzionario interno a Palazzo San Michele, è arrivata sulla scrivania del sostituto procuratore Sergio Colaiocco lo scorso aprile. Quindi, altre quattro lettere hanno confermato una tesi pesante: gli uffici a tutela della bellezza della capitale non tutelano quasi nulla, usano poco l'istituto del vincolo, lo fanno con timore nei confronti dei costruttori potenti. È il caso del piano di edilizia intensiva di Tor Pagnotta che ha visto distruggere lungo la Laurentina uno sviluppo unico di architettura rurale. In alcuni casi, gli uffici della Soprintendenza si sarebbero resi complici di falsi amministrativi. Il denunciante, uno dei trenta coordinatori romani, nei cinque anni di esperienza nella capitale ha avuto un centinaio di pratiche sotto mano. Ottanta, ricorda, gli sono state sottratte e i suoi ponderosi lavori "a tutela" sono diventati inefficaci. «C'è un asservimento della Soprintendenza ad interessi privatistici», ha messo in calce l'architetto chiamando in causa gli ultimi cinque sovrintendenti romani, in particolare Luciano Marchetti e Federica Galloni. Tra i casi di autorizzazioni facili: la piscina "mondiale" Gav di Trigoria, l'edificio Telecom di via Abruzzi 25, lavori al rettorato della Sapienza, al teatro di Villa Torlonia, il palazzo trasformato in albergo dai russi dietro Villa Aurora.
Italia Nostra ha presentato ieri un interessante rapporto curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, dal titolo "Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica" che dà conto della sostanziale inadempienza di tutti gli organi dello Stato in materia.
Il quadro è desolante: le esperienze migliori sono quella sarda, che la giunta di centro destra sta smantellando; i 15 piani paesistici, ormai di 15 anni fa, redatti in Campania e approvati nel 1996 dall'allora Ministro Paolucci scavalcando la regione.
Le regioni del tradizionale buon governo urbanistico: Toscana, Emilia Romagna, Umbria, sembrano regredire in una visione meramente urbanistico - edilizia della pianificazione. La Toscana in qualche modo ha perseverato (come non ricordare la vicenda della delibera 296 a seguito del Decreto Galassopo legge 412 del 1985); le altre rischiano concretamente di tornare indietro: l' Emilia Romagna abbandonando il piano territoriale redatto con Felicia Bottino assessore, l'Umbria rinunciando al "cuore verde d'Italia".
Il Lazio ha una buona proposta di piano. Ma il cambio di maggioranza di governo sembra preludere al peggio, magari sfruttando le 18000 osservazioni presentate.
Bolzano è ancorata al presupposto che l'applicazione della tutela naturale e paesaggistica abbia la precedenza di fronte agli utilizzatori del territorio e questo fin'ora ha consentito buoni risultati che pero appaiono anche fortemente radicati in una cultura di tradizionale attaccamento alla terra, all'agricoltura.
Il Ministero non ha dettato le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio con finalità di indirizzo della pianificazione, non c'è ufficio ministeriale che deve occuparsene, non c'è copianificazione con le regioni come previsto dal codice dei beni culturali, d'altra parte le soprintendenze sono state stremate.
Sorge il dubbio se esistano le regioni, o meglio se queste siano state ridotte alla funzione di produzione di indirizzi senza sostanziale cogenza e funzionalità, per responsabilità politica, ma non solo.
Le province sono state ridotte a ruoli marginali, tanto che si ha l'impressione che i piani territoriali di coordinamento siano al meglio strumenti di valenza ricognitoria senza capacità alcuna di influire sulle sorti del territorio quando la pianificazione di area vasta appare irrinunciabile.
I comuni comunque fanno, però nei casi migliori le amministrazioni formano il consenso anche sull'urbanistica e l'edilizia, seppure contemperando vari interessi, nei peggiore scambiano i mattoni con voti e potere.
Non c'è dubbio: "Paesaggio: la tutela negata", come sintetizzano Vezio de Lucia e Maria Pia Guermandi. Ciò detto e dato il merito ad Italia Nostra di aver mostrato una situazione che potremmo definire disastrosa, bisogna cercare di ragionare per cercare di porre rimedio.
E' indubbio che si debbano superare errate e negative applicazioni del titolo V della Costituzione in merito alla concezione della sussidiarietà, del pluralismo istituzionale paritario, che per esempio hanno trovato esasperata e negativa applicazione in Toscana.
Altrettanto sembra evidente che si debba richiedere la formazione di una rinnovata classe dirigente ministeriale in sede centrale ed in sede decentrata dove la tutela è ridotta a limitare il danno imponendo soluzioni edilizio - architettoniche che scimmiottano sempre peggio l'edilizia storica, ma pur sempre nuove costruzioni propongono; una classe dirigente capace di elaborare piani paesaggistici ed urbanistici (nel senso che introiettano il piano paesaggistico come presupposto, invariante strutturale del territorio) unitamente alle regioni.
Ma non possiamo neanche tacere delle evidenti lacune delle scuole di architettura ed urbanistica (quest'ultime sempre meno e sempre meno affollate, mentre imperano le archistar); la grave latitanza di istituti culturali, come l'INU, che della tutela del paesaggio e del territorio, della difesa ed affermazione della pianificazione quale unico strumento di governo del territorio hanno fatto, almeno fino alle soglie degli anni 90 del secolo scorso, il connotato apprezzato a tutti i livelli, anche nello scontro talvolta radicale tra vedute diverse, uno strumento di motivazione di nuove leve tecniche e professionali.
Insomma, se non vogliamo assumere il rapporto di Italia Nostra come occasione di flagellazione, ma quale impulso positivo per una nuova stagione, dobbiamo cercare di dare un contributo ad una svolta con la speranza che qualche forza politica raccolga l'esito del rapporto e le esigenze che da esso scaturiscono, assumendole come fondative del proprio programma per rifondare anche l'organizzazione legislativa, per redistribuire le competenze, per superare assurdi convincimenti circa l'equipollenza assoluta in termini di competenze e poteri tra il piccolo comune di 300 anime e una città di 300.000 abitanti; con l'auspicio che si torni a discutere, condividere, fare quanto è possibile; non già a comunicare decisioni assunte nella logica del fare ad ogni costo.
Nella tutela del paesaggio non c'è niente di rivoluzionario. C'è la condizione per il successo di ogni intrapresa umana, perché solo la qualità del paesaggio (inteso in senso olistico), può garantire la vivibilità, l'appetibilità di fruizione del territorio, esagerando anche i mattoni che si vanno mettendo insieme, magari e soprattutto, ristrutturando l'esistente. Lo si vuole capire?
IL PAESAGGIO: LA TUTELA NEGATA
“[...] si è costruito per lo più l’inutile e il superfluo, seconde e terze case invece della prima per chi ne aveva bisogno. [...] Perché la degradazione di città e territorio non diventi irreversibile è dunque necessaria, in quest’u/ltimo decennio del secolo, un’autentica rifondazione della pianificazione.”
Antonio Cederna, 1990
A vent’anni di distanza, il monito di Cederna è più che mai attuale e il tempo è ormai ridottissimo. Lo strumento è quello: una pianificazione territoriale mirata innanzi tutto a salvare quel paesaggio italiano, miracoloso risultato di secoli di armonica interazione fra uomo e natura.
Con questo Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica, Italia Nostra vuole presentare, seppure in estrema sintesi, un’analisi critica dell’attuale situazione della pianificazione in materia di paesaggio, regione per regione. L’obiettivo iniziale era di fornire un quadro aggiornato e ragionato della copianificazione paesaggistica che avrebbe dovuto essere, ad oltre due anni e mezzo dalla definitiva approvazione del Codice, a un avanzato grado di elaborazione su gran parte del territorio italiano. Ci siamo invece resi conto che si trova in uno stato di scandalosa impasse.
Apparentemente arbitro della partita, il ministero, sfibrato da anni di riduzione delle risorse finanziarie, di riorganizzazioni spesso fra loro contraddittorie e comunque incoerenti rispetto ai compiti prescritti dal Codice, da ultima la cancellazione di una direzione generale autonoma del paesaggio, sembra aver ridotto il proprio intervento a un mero ruolo di segreteria amministrativa, mentre gli organi periferici procedono in ordine sparso e con grandi difficoltà determinate non solo dalla scarsità delle risorse a disposizione, quanto soprattutto da un’inadeguatezza, eccezioni personali a parte, delle competenze di pianificazione.
Il rapporto è frutto, nel suo insieme, dello sforzo collettivo di Italia Nostra, che attraverso i suoi Consigli regionali e oltre duecento sezioni ha consentito un’indagine estesa praticamente all’intero territorio nazionale. Pur con i limiti derivati, fra l’altro, dalla difficoltà di reperimento di informazioni affidabili, e con una disomogeneità che rispecchia, d’altronde, quella territoriale, il presente rapporto, il primo di questo genere in Italia, fornisce un quadro drammaticamente chiaro della situazione italiana.
A partire da questo primo risultato Italia Nostra intende costituire un Osservatorio indipendente e permanente sul paesaggio che assicuri un monitoraggio duraturo della pianificazione paesaggistica e che estenda, nelle prossime tappe, la propria analisi a tutti i fattori che agiscono sul nostro paesaggio.
A cominciare dal federalismo demaniale e dal perverso intreccio di una congerie di provvedimenti normativi di varia natura (piano casa, semplificazioni dell’autorizzazione paesaggistica e nuove regole per le conferenze dei servizi) che rischiano di innescare un micidiale meccanismo di accelerazione alle trasformazioni sul territorio difficilmente governabile dall’attuale sistema delle tutele.
Come le recentissime linee guida per l’autorizzazione alla costruzione di impianti alimentati da fonti rinnovabili (Dm 10/9/2010), pur emanate in concerto con il ministero Beni culturali, che presentano veri e propri profili di illegittimità laddove tendono ad annullare la preminenza della tutela del paesaggio rispetto a ogni altro interesse pubblico sancita dall’art. 9 della Costituzione.
1. Com’è noto, i piani paesaggistici previsti dal Codice del paesaggio devono essere elaborati “congiuntamente tra Ministero e regioni” (art. 135, c. 1). Questa è una delle differenze sostanziali con i piani paesistici ovvero paesistico-territoriali della legge 431 del 1985 (cosiddetta Galasso) che erano di esclusiva competenza regionale.
L’elaborazione congiunta Stato regioni è evidentemente un rilevante passo avanti, dal nostro punto di vista, rispetto al trionfante e indistinto regionalismo dei giorni nostri, tanto più apprezzabile in quanto opera, in gran parte, di una maggioranza politica che fa del federalismo un suo tratto distintivo. D’altra parte, la partecipazione dello Stato alla formazione dei piani paesaggistici era una condizione indispensabile per realizzare la previsione di cui all’art. 131, c. 2, del Codice e cioè la tutela del paesaggio “relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”: parole che riprendono quelle scritte da Benedetto Croce in occasione della legge 778 del 1922, da lui voluta (“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo”).
Che la partecipazione dello Stato non debba essere solo nominale, e comunque subordinata alle diverse iniziative regionali, ma debba essere invece unitariamente concepita è puntualizzato dall’art. 145, c.1 del Codice: “La individuazione, da parte del Ministero, delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, costituisce compito di rilievo nazionale, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali”.
L’art. 145 assume quindi un’importanza capitale, e va apprezzato il ritorno al lessico, da ascrivere a Massimo Severo Giannini, del noto e colpevolmente disatteso art. 81 del Dpr 616 del 1977, che prevedeva la funzione centrale di indirizzo e coordinamento in materia di urbanistica.
Ma quest’aspetto davvero innovativo del Codice, è totalmente disatteso. Delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione” non c’è traccia. Non è stata possibile neanche l’individuazione dell’ufficio ministeriale che dovrebbe occuparsene.
E non basta. Dall’indagine condotta da Italia Nostra [cfr. il seguente punto3.] in nessuna regione risulta effettivamente operante l’elaborazione congiunta con lo Stato dei piani paesaggistici e il ministero non ha neppure provveduto a definire criteri uniformi per la redazione degli accordi di pianificazione.
Particolarmente critica appare poi la fase dei monitoraggi. Mentre le regioni stanno provvedendo in ordine sparso e senza riscontri certificati ad alcune delle verifiche previste dal Codice (art. 159: le regioni provvedono a verificare la sussistenza, nei soggetti delegati all'esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica stabiliti dall'articolo 146, comma 6, apportando le eventuali necessarie modificazioni all'assetto della funzione delegata), il ministero non ha ancora attivato l’osservatorio nazionale sul paesaggio, da tempo costituito, pur se con compiti alquanto vaghi e neppure ha mai fornito criteri omogenei per la costituzione degli osservatori regionali che, per quanto risulta dalle documentazioni disponibili, appaiono del tutto privi di quelle caratteristiche di terzietà basilari per garantirne efficacia ed indipendenza di giudizio.
2. Prima di dar conto delle situazioni regionali quali emergono dai documenti di Italia Nostra, va sottolineata un’altra importante novità del Codice relativa alla possibilità di individuare direttamente ulteriori beni paesaggistici (art. 134, c. 1 lett. c) oltre a quelli derivanti da provvedimenti amministrativi (art.136) e a quelli stabiliti per legge (art. 142). Tre piani paesaggistici, Sardegna, Marche e Lazio si sono avvalsi, seppure con forme differenti, di tale possibilità.
Cadono in tal modo molte riserve sulla effettiva portata della tutela da parte del piano paesaggistico – considerato erroneamente settoriale e circoscritto – che trova in questo modo la possibilità di estendere ai territori con prerogative di conservazione del paesaggio la propria diretta azione di salvaguardia e tutela.
3. La sintesi che proponiamo, fondata in massima parte sulle relazioni dei referenti urbanistici di Italia Nostra, riguarda di fatto l’intero territorio nazionale, comprendendo, quindi, anche le regioni escluse, in virtù del loro statuto di autonomia, dall’obbligo di adeguamento della pianificazione ai sensi del Codice (Valle d’Aosta, Province di Trento e Bolzano, Sicilia).
La regione Piemonte fu tra le prime a dotarsi di una legge urbanistica regionale (la famosa legge Astengo, 56/1977) lungimirante in materia di tutela del territorio ma successivamente tradita e snaturata. Non si è mai dotata invece di piani paesistici (ma solo di alcuni cosiddetti piani settoriali). Nel 2005 si è messo mano al piano paesaggistico adottato in giunta nel dicembre 2009, oggetto di puntuali osservazioni e critiche formulate dal consiglio interregionale di Italia Nostra. La prevista attuazione del piano paesaggistico tramite i piani territoriali di coordinamento provinciali (scarasamente cogenti); la mancata subordinazione del piano territoriale regionale al piano paesaggistico; l’assenza di norme immediatamente prescrittive a far data dall’adozione del piano medesimo (art. 143, c. 9 del Codice) se non per i “corridoi” delle grandi infrastrutture e per i vincoli ope legis; la mancata indicazione dei laghi e delle fasce contermini fra i beni da tutelare: questi sono solo alcuni dei difetti e degli errori denunciati da Italia Nostra. Si chiedeva pertanto un’accurata revisione del piano, individuando una specifica criticità nelle problematiche di gestione. Con il cambiamento del quadro politico regionale, l’iter del Ppr langue. Ad oggi non è stata ancora costituita la commissione regionale per il paesaggio,mentre operano quelle locali che garantiscono ai comuni l’esercizio della subdelega.
La regione Liguria si era dotata in tempi assai brevi (adozione nel 1986) di un piano territoriale di coordinamento paesistico, esteso a tutto il territorio, ai sensi della legge Galasso. Ai fini della tutela del paesaggio, l’efficacia di tale strumento, caratterizzato peraltro da margini interpretativi assai ampi, è stata fortemente attenuata, negli anni, dalla deroga ai comuni in materia di definizione dei vincoli, dall’uso generalizzato di varianti di programma e conferenze di servizi. Tali pratiche distorte di pianificazione hanno agevolato quegli effetti di “rapallizzazione” per cui il territorio ligure è tristemente noto. Nel luglio 2009 è stata adottata una variante del piano territoriale di coordinamento relativa a 82 comuni quale primo adeguamento al Codice che però non appare dotata di quell’efficacia in grado di operare un’inversione di tendenza rispetto alla crescente pressione edilizia in atto.
Non ancora avviata è l’attività di copianificazione con il ministero.
La Val d’Aosta, esclusa dal proprio statuto di autonomia amministrativa dall’adeguamento della propria pianificazione ai sensi del Codice, è dotata di un Piano territoriale paesistico approvato nel 1998, non orientato specificamente alla valenza paesaggistica, tant’è vero che i beni culturali e ambientali sono solo una delle nove “orientations sectorielles”. Il Ptp ha un carattere prevalentemente descrittivo; generalizzata è la delega ai comuni per quanto riguarda le attività di tutela del paesaggio. Preoccupanti segnali derivano dalle recenti iniziative in materia di progetti territoriali (v. VdA Nature Métro) che, utilizzando finanziamenti europei, paiono coniugare gli ormai abusati riferimenti alla valorizzazione e alla green economy principalmente in termini di infrastrutture, impianti di energia rinnovabile e
“sviluppo di dinamiche di crescita economica”.
In Lombardia non esiste un piano paesaggistico. È stato recentemente predisposto uno schema di piano paesaggistico, all’interno del Piano territoriale regionale, approvato nel gennaio 2010, in contrasto con il Codice nello spirito, nel metodo e nei contenuti. Il documento, unilateralmente predisposto dalla regione, si limita a una descrizione del territorio senza regole né norme e non è sottoscritto dal direttore regionale dei Beni culturali, anche se sono sempre più forti le pressioni regionali in tal senso.
Pur esclusa grazie all’autonomia speciale dalla copianificazione ai sensi del Codice (Corte costituzionale sentenza 2009/226), la Provincia di Trento è dotata di un piano urbanistico provinciale fin dal 1967 che, soprattutto in anni passati, si è rivelato efficace nella tutela del paesaggio. Attualmente, però (l’ultima revisione risale al 2008) tale strumento non appare adeguato a contrastare i fenomeni di dispersione urbana e l’espansione selvaggia delle infrastrutture in zona montana.
Allo stesso modo esclusa dalle procedure pianificatorie stabilite dal Codice, la Provincia di Bolzano esercita le attività di tutela del paesaggio elaborando, sulla base della legge provinciale 16/1970, le Linee guida natura e paesaggio Alto Adige, alle quali si devono conformare i piani paesaggistici veri e propri, redatti su base comunale, che contengono il “piano dei vincoli paesaggistici”, considerato dalla stessa Amministrazione provinciale, un "prodotto di successo" in quanto “nessuna regione all'interno o all'estero può annoverare tra le sue conquiste un sistema di zone protette esteso alla quasi totalità della sua superficie”.
In linea con questo risultato appare d’altro canto la strategia generale di pianificazione, imperniata sul presupposto che “l'applicazione della tutela naturale e paesaggistica abbia la precedenza di fronte agli utilizzatori del territorio”.
La regione Friuli Venezia Giulia risulta a tutt’oggi priva di piano paesaggistico. Nella vigente, recente legge regionale 22/2009 con cui si avviano le procedure per l’elaborazione del piano di governo del territorio, è del tutto assente ogni normativa specifica sulla pianificazione paesaggistica, demandata alla futura copianificazione ai sensi del Codice. La cosiddetta Carta dei valori, una sorta di elaborato introduttivo al piano, appare un documento dalle finalità poco chiare e improntate ad un lessico a dir poco ambiguo: a tal punto che il termine paesaggio non viene praticamente mai utilizzato.
Il Veneto dispone di un piano territoriale regionale di coordinamento, adottato nel 1986 e approvato nel 1991, al quale era stata data efficacia ai fini della legge Galasso, in particolare mediante alcuni “piani d’area” successivamente approvati: tra questi, il piano d’area della Laguna di Venezia, dotato di adeguate prescrizioni di tutela. A norma del Codice la regione avrebbe dovuto procedere all’adeguamento di tali strumenti alle nuove prescrizioni legislative. Invece la regione ha adottato, nel 2009, un Ptrc del tutto inefficace, riservandosi di procedere solo successivamente alla formazione di un vero e proprio piano paesaggistico, secondo il percorso prescritto dal Codice.
Il Ptrc ha confermato i pesanti, e spesso inutili, interventi di infrastrutture soprattutto stradali e le numerose new cities giustificate solo da interessi immobiliaristici, e presenta un’assoluta mancanza di cogenza delle esortazioni di difesa del territorio rurale; ha inoltre sancito l’esplicito (e illegittimo) “superamento” delle poche prescrizioni di tutela contenute nei previgenti strumenti di pianificazione: la tutela diviene “possibile” e non cogente, ed è comunque lasciata alla buona volontà di questo o quel comune, disomogenea e a pelle di leopardo.
Il Ptrc è stato oggetto di una fortissima contestazione organizzata da una rete che ha raccolto oltre un centinaio di associazioni e comitati, fra i quali le diverse strutture di Italia Nostra Veneto: la rete ha presentato 14 mila osservazioni, col risultato di bloccare l’iter del piano.
Non risulta che l’attuale giunta regionale stia procedendo con le attività di copianificazione ai sensi del Codice se non in senso di una mera ricognizione tecnico-giuridico-cartografica dei vincoli.
L’Emilia Romagna si dotò a suo tempo, nel 1993, del piano paesistico da molti ritenuto il più efficace e rigoroso. Prescrizioni direttamente operative a tutela dei crinali e del sistema collinare, della costa, dei corsi d’acqua, delle zone d’interesse storico e paesaggistico ambientale, unite a precisi indirizzi e direttive per i piani sotto-ordinati e per le altre amministrazioni: tutto ciò ha sicuramente portato a risultati importanti preservando il paesaggio e orientando positivamente l’azione degli enti locali e la formazione degli strumenti urbanistici. Ma i principi ispiratori del piano paesistico del 1993 sono stati a mano a mano dimenticati. Nella recente legge regionale per il paesaggio (n.23/2009) è evidente la rinuncia a dettare norme cogenti e il futuro piano paesaggistico è configurato come mera sommatoria dei piani di coordinamento provinciali e dei piani strutturali comunali senza quegli approfondimenti (per esempio in materia di controllo degli interventi di trasformazione delle aree già urbanizzate) che Italia Nostra si aspettava.
La Toscana è sempre stata una regione congenitamente contraria a qualsivoglia autonomia della pianificazione del paesaggio rispetto a quella urbanistica. Il protagonismo dei comuni è assoluto. Fin dal 1979 furono subdelegate ai comuni le funzioni delegate nel 1977 dallo Stato alle regioni. In coerenza con questa impostazione non sono mai stati redatti i piani paesistici della legge Galasso né i piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali. La centralità comunale è stata rafforzata dalla legge urbanistica del 1995, quella che prevede l’articolazione del piano regolatore in due componenti: piano strutturale e regolamento urbanistico. Ancora più marcata è l’autosufficienza comunale stabilita dalla successiva legge regionale urbanistica del 2005 che si rifà a un’esasperata concezione di quel “pluralismo istituzionale paritario” che sarebbe il portato delle infelici modifiche al titolo V della Costituzione del 2001, e a un’altrettanto esasperata concezione della sussidiarietà. Con sentenza del 2006, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge toscana del 2005 per contrasto con il Codice del paesaggio. Ma la regione non demorde e attribuisce valore di piano paesaggistico al Pit – piano di indirizzo territoriale – un piano che non assume mai efficacia immediatamente precettiva e che, secondo Italia Nostra, risponde a una prevalente concezione del territorio come “motore dello sviluppo” cui è subordinata la tutela. Ma in Toscana, come si sa, anche a seguito di un vivace dibattito sviluppato a partire dal 2006 dalle organizzazioni ambientaliste sulle carenze regionali in materia di controllo dei valori paesaggistici, è stato operato un radicale rinnovamento della giunta regionale che ha avviato una positiva revisione della tradizionale politica urbanistica.
La regione Marche nel 1989 si era tempestivamente dotata di un piano paesistico ambientale “semplice ma al contempo intelligente ed immediatamente efficace”. A partire dal 2001 è iniziata però una irreversibile inversione di rotta a opera di una politica ammaliata dalla deregulation e dalle pratiche derogatorie che hanno progressivamente indebolito a livello di gestione l’efficacia del piano del 1989. Recentemente la giunta regionale ha messo mano all’adeguamento del piano paesistico al Codice del paesaggio con un documento che preoccupa Italia Nostra. Di fondamentale importanza, secondo la nostra associazione, è il recupero, da parte della regione, di forti e importanti funzioni di coordinamento e controllo, da esercitare insieme alle soprintendenze, “unico deterrente valido per controllare e gestire in modo adeguato i particolarismi e i campanilismi pubblici e privati sempre presenti o latenti, nonché indicare nella provincia l’ambito ottimale per individuare e sancire le invarianti paesistico-ambientali in alcun modo derogabili a livello degli adeguamenti comunali”.
Particolarmente preoccupante la situazione dell’Umbria dove la regione pare intenzionata a rinnegare 40 anni di tutela. Nel documento d’avvio del nuovo piano urbanistico territoriale si legge che “l’idea guida assunta alla base del Disegno strategico territoriale reinterpreta un’immagine consolidata, quella di «Umbria verde» o di «Umbria cuore verde d’Italia»”. Si propone “il superamento” di quell’immagine, “stante il suo valore evocativo più che descrittivo”, per sostituirla con “Umbria territorio-snodo”, cioè soprattutto asfalto e cemento. Ma “in Umbria batte ancora forte un cuore verde” assicura Italia Nostra.
Il piano territoriale paesistico regionale della regione Lazio, adottato e tuttora in corso di formazione, costituisce forse il primo organico tentativo di applicazione delle innovazioni introdotte dal Codice dunque va seguito con attenzione soprattutto per verificare l'esito delle controdeduzioni alle 18 mila osservazioni, pervenute a seguito della pubblicazione, che potrebbero stravolgerne l'impostazione.
Il piano presenta luci e ombre. Fra le prime si segnalano: la corretta applicazione dell'articolo 134 lettera c) in particolare vengono individuati quali nuovi beni paesaggistici tutti i centri storici dei comuni del Lazio e ampie zone della campagna romana e delle aree agricole delle bonifiche oltre ad altri beni identitari quali casali agricoli e beni storici ed archeologici; inoltre il dettaglio dell’impianto conoscitivo (base cartografica 1:10.000); infine che alla sua formazione ha partecipato il Ministero con tutte le soprintendenze. Le ombre riguardano la modifica dei vigenti piani territoriali paesistici (discendenti dalla legge Galasso) attraverso l'accoglimento, da parte del consiglio regionale, di numerose osservazioni comunali che, come prescrive la legge regionale, sono preliminari all'adozione, peraltro senza adeguate forme di pubblicità, una particolare indulgenza è stata rivolta al comune di Roma ed al suo nuovo Prg; inoltre non appare del tutto evidente con quali criteri è stata operata la traslazione delle tutele dai vigenti piani paesistici al nuovo piano territoriale paesaggistico adottato.
In Abruzzo, fin dall’inizio, il piano paesistico – approvato nel 1990, articolato in 11 ambiti (in effetti 11 piani paesistici) – è stato caratterizzato “dalla soccombenza della tutela del paesaggio ai differenti interessi economici”. In particolare, il piano vigente ha escluso dagli ambiti della propria competenza tutte le aree agricole della collina adriatica. Risulta così privo di ogni forma di tutela proprio il territorio più prossimo alla conurbazione costiera interessata dai più rilevanti processi di crescita edilizia. Le pressioni insediative in questi delicati contesti si sono trasformate in significative tendenze al consumo del suolo e alla compromissione di delicati paesaggi agrari. Nel 2006 è stata affidata all’esterno la formazione del nuovo piano paesaggistico che, con ritardi sensibili rispetto ai tempi previsti, è giunta alla presentazione delle analisi dalla cui lettura emergono gravi carenze nei contenuti e preoccupanti negligenze nell’impostazione, soprattutto per quanto riguarda lo spazio rurale. Il deficit di partecipazione finora registrato dovrà comunque essere colmato, è la legge che lo impone, con l’avvio della Vas.
Resta da dire, dell’assenza di qualsivoglia politica di tutela paesaggistica nel territorio dell’Abruzzo colpito dal terremoto dell’aprile 2009. Il Comitatus aquilanus e il Circolo per la valorizzazione delle terre pubbliche hanno denunciato che il commissariato per la ricostruzione propone illegittimamente come riferimento-base di tutela, “non il piano regionale paesistico vigente, ma il controverso nuovo piano paesaggistico in elaborazione” (a cura di Ecosfera-Inu)”, e soprattutto la sua “devastante e liberatoria Carta dell’armatura urbana”.
Il Molise si dotò, nel 1989, di un piano territoriale in adeguamento alla legge Galasso a carattere quasi esclusivamente descrittivo e quindi privo di quelle caratteristiche di prescrittività indispensabili per una adeguata tutela paesaggistica. Da allora, nulla si è mosso su questo versante e la regione non ha mai iniziato, neppure formalmente, l’iter per l’adeguamento della propria legislazione al Codice.
La Campania, regione più di ogni altra devastata dall’abusivismo e dal malgoverno, non si è mai dotata di un piano paesistico, a eccezione del piano urbanistico territoriale della Costiera amalfitana e della Penisola sorrentina approvato con legge regionale nel 1987 (in effetti, il Put deriva da un piano territoriale di coordinamento che Italia Nostra aveva “imposto”, per così dire, al ministero dei Lavori pubblici prima dell’istituzione delle regioni). In Campania sono invece vigenti ben 14 piani paesistici formati dai funzionari delle soprintendenze (coordinati da Antonio Iannello) approvati nel 1996 con decreto del ministro Paolucci in sostituzione della regione. Nel 2005 la regione ha approvato con legge un piano territoriale regionale, ma assente è l’iniziativa in materia di tutela.
La regione Basilicata non è ancora dotata di un piano paesaggistico esteso all’intero territorio regionale, attualmente in fase di redazione ai sensi del Dgr 366/2008. Tale strumento dovrebbe ovviamente rispondere alle prescrizioni del Codice, ma la fase di copianificazione con il ministero non si è ancora avviata, neppure a livello formale.
La Puglia dispone di un piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio (Putt/p) del 2000 che non ha posto un argine al malgoverno del territorio, al sovradimensionamento dei piani, al dilagare dell’abusivismo. Nel 2010 è stata adottata la proposta di nuovo piano paesaggistico. Italia Nostra, che ha attivamente seguito l’iter di formazione e ha contributo alla procedura Vas, si ritiene però insoddisfatta dei risultati raggiunti. Teme che “la democrazia partecipata” di cui sono permeate le norme possa non essere efficace nel contrastare progetti di manomissione del territorio ed ha presentato apposite osservazioni.
La regione Calabria non dispone di piani paesistici. A gennaio 2010 la precedente Giunta era riuscita ad approvare il quadro territoriale regionale con valenza paesaggistica (Q.T.R./p.) con il quale la Calabria si sarebbe dotata, per la prima volta, di uno strumento di regolazione del territorio esteso a tutta la regione; nel dicembre 2009 era altresì iniziato, almeno formalmente, l’iter di copianificazione. Ma il Q.T.R./p., pur di efficacia limitata, non è mai stato approvato dal consiglio regionale e non è quindi vigente. Attualmente ogni attività pianificatoria pare bloccata, mentre continua inarrestabile, fra abusivismo e dissesto idrogeologico, lo sfacelo del territorio.
Neanche la regione Sicilia dispone di piani paesistici ai sensi della legge Galasso e risulta comunque esclusa dall’obbligo della copianificazione ai sensi del Codice. Nel 1999 è stato approvato un documento di “Linee guida” per formare 17 piani paesistici affidati alle 9 soprintendenze regionali. I piani paesistici sono attualmente in formazione (alcuni adottati). Significativo appare quanto accaduto in queste ultime settimane per quanto riguarda l’ultimo di questi piani, quello relativo alla provincia di Ragusa: dopo averne boicottato l’iter di formazione, gli enti locali e le associazioni di categoria, una volta adottato dalla regione nell’agosto 2010, si sono violentemente scagliate contro il piano considerato come una vera e propria minaccia allo “sviluppo” del territorio. Addirittura le associazioni sindacali, per una volta unite nell’impresa, in un incredibile documento hanno definito le prescrizioni del piano “aggressioni in puro stile terroristico contro il progresso economico” ordite da parte di “una dittatura intellettuale”, rappresentata in particolare dalla locale soprintendenza ai beni culturali e ambientali.
La regione Sardegna rappresenta un caso affatto particolare in quanto, pur dotata di un recentissimo piano adeguato ai sensi del Codice, ne ha già iniziato la revisione. Dopo una lunga fase di sostanziale assenza di strumenti di una qualche efficacia ai fini della tutela paesaggistica – i 14 piani paesaggistici emanati in adeguamento alla legge Galasso all’inizio degli anni Novanta sono poi stati annullati, tutti tranne uno, poiché ritenuti addirittura in contrasto con l’esigenza di tutela del paesaggio – con la giunta Soru, 2004-2008, la regione ha conosciuto una decisiva inversione di tendenza. Nel 2004, la così detta legge “salvacoste”, legge regionale 8/2004, diviene il primo tassello del piano paesaggistico regionale approvato in via definitiva nel settembre 2006. Fra gli elementi di innovazione del PPR sardo, la suddivisione in due successivi livelli normativi: il primo relativo alla tutela dei beni paesaggistici veri e propri (fra i quali è inserita la fascia costiera nella sua interezza), l’altro che detta le prescrizioni sugli ambiti di paesaggio individuati. Così pure rilevante appare l’inserimento dei centri e dei nuclei storici fra beni paesaggistici tutelati. Ma soprattutto, in perfetto allineamento con il contemporaneo Codice dei beni culturali e del paesaggio, l’elaborazione del piano paesaggistico regionale sardo si è conformata, per espresso volere degli organi regionali, ad una copianificazione con gli organi del ministero, anche se, per evidenti motivi, non ha potuto tenere conto degli ultimi emendamenti del Codice stesso introdotti nel 2008. Lo stesso ministero ne ha comunque riconosciuto di fatto l’adeguamento ai criteri stabiliti dal Codice stesso.
L’iter di applicazione del piano si è scontrato da subito con la fortissima opposizione da parte, fra gli altri, degli enti locali. Purtroppo, la nuova giunta Cappellacci ha fatto della revisione del Ppr uno dei punti qualificanti della sua azione di governo. Tale revisione, iniziata a partire dal giugno 2010 sotto la stravagante denominazione di “Sardegna Nuove Idee”, affida la propria strategia alle parole d’ordine di “concertazione” e “compartecipazione” che lasciano prefigurare un cedimento generalizzato alle pressioni edificatorie degli enti locali.
4. Come abbiamo visto il quadro generale della pianificazione presenta gravissimi elementi di criticità. In generale, i piani paesaggistici elaborati dalle regioni possiedono solo raramente elementi prescrittivi e una definizione chiara di procedure e regole atte a regolamentare l’uso del territorio e a delimitare senza ambiguità le aree tutelate e i diversi livelli di tutela. Anche quelle che, soprattutto in adeguamento alla legge Galasso, avevano elaborato piani adeguati ad una efficace tutela paesaggistica (Emilia Romagna, Marche, Umbria) ne hanno progressivamente indebolito l’impianto. Un contraccolpo fortemente negativo alla pianificazione è rappresentato poi dagli avvicendamenti dovuti all’ultima tornata elettorale a seguito dei quali alcune regioni che, faticosamente, avevano completato l’iter di formazione (e in un caso di approvazione) di un piano paesaggistico, rischiano di tornare al punto di partenza affrontando revisioni radicali degli strumenti elaborati (Sardegna, Lazio), mentre in altri casi (Calabria, Friuli), l’iter di copianificazione appena avviato è ora di nuovo confinato in una indeterminatezza priva di prospettive temporali ragionevoli.
In generale, la disciplina del paesaggio rimane invischiata nel sistema della pianificazione territoriale ordinaria dove comanda sempre il livello comunale, al quale è riconosciuta, un’autonomia ampia, quando non amplissima, mentre a livello regionale generalizzata è la rinuncia a operazioni di strategia territoriale su area vasta. A questa situazione di grave debolezza del sistema della tutela su base regionale, il ministero pare incapace di opporre alcuna strategia di rilancio delle operazioni di copianificazione.
Come detto, non solo le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ai fini della tutela del paesaggio previste nell’art. 145, sono restate finora una pura dichiarazione d’intenti, ma tale compito, seppur mai esplicitamente rinnegato, nell’attuale situazione di collasso organizzativo e di irrilevanza politica del ministero Beni culturali appare a dir poco velleitario.
Ma a mancare, a livello centrale, è anche l’elaborazione di un quadro univoco di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, solo, potrebbe consentire una reale omogeneità di obiettivi e di risultati, mentre ugualmente relegata alla dimensione della ipotesi futuribile sembra l’organizzazione sul territorio di un sistema costante di monitoraggio e di verifica del raggiungimento di tali risultati.
Ma soprattutto ci appare pericolosa l’ultima deriva “interpretativa” che l’amministrazione, a livello centrale e periferico, sta propugnando negli ultimi tempi, ormai sempre più esplicitamente anche in documenti ufficiali. Tale orientamento tende in sostanza ad oscurare il carattere di prevalenza e preminenza della tutela del paesaggio rispetto ad ogni altro interesse pubblico, pur eretto limpidamente a valore primario dalla disciplina costituzionale, per sostituirlo con un ben più accomodante ‘contemperamento’ fra la salvaguardia di tali valori e la esigenze della libera attività imprenditoriale anche laddove quest’ultima comporta pesanti interventi di trasformazione del territorio (v. da ultimo le sopra ricordate Linee guida per l’autorizzazione alla costruzione di impianti alimentati da fonti rinnovabili).
5. Eppure, anche se la situazione appare per certi versi drammatica, la vicenda della copianificazione paesaggistica non può essere abbandonata nel novero delle battaglie perdute. Troppo importante è la sua rilevanza: la pianificazione del paesaggio è la madre di tutte le battaglie per le sorti del territorio e del patrimonio culturale italiano.
Per queste ragioni Italia Nostra intende non solo limitarsi a una denuncia degli inadempimenti, ma sollecitare innanzi tutto il Ministero perchè si faccia promotore di un decisivo rilancio delle attività di copianificazione
A partire dalla redazione delle “linee fondamentali” dell’art. 145, per le quali Italia Nostra intende formulare proposte di merito che saranno oggetto di un apposito successivo approfondimento con il contributo delle indispensabili competenze. Un primo riferimento che evidenziamo riguarda i due elementi costitutivi basilari del paesaggio italiano, sui quali incombono gravissimi rischi di manomissione:
i centri storici
lo spazio rurale e naturale.
Riguardo ai centri storici riteniamo di dover riproporre, tra l’altro, il vincolo ope legis che da tempo Italia Nostra sollecita.
Il tema dello spazio rurale che comprende, appunto, quei territori sui quali appare più urgente la tutela in quanto teatro di alterazioni e modificazioni profonde e spesso irreversibili, riporta invece alla questione ormai ineludibile dello stop al consumo del suolo.
Per quanto riguarda le procedure di copianificazione, Italia Nostra richiede che il ministero stabilisca, a livello centrale, attraverso una definizione puntuale del contenuto degli accordi di pianificazione, le regole e i criteri affinchè i piani possiedano le prescrizioni e le cogenze necessarie a tutelare l’identità dei paesaggi propri delle singole regioni (standard cartografici, georeferenziazione aggiornata dei vincoli, strumenti di monitoraggio indipendenti, ecc.) verificando la congruenza delle attività di copianificazione svolte e in svolgimento a tali parametri e ricostituendo l’Osservatorio nazionale del paesaggio in modo che divenga un presidio di indirizzo e controllo realmente operativo e culturalmente aggiornato.
A Stato e regioni Italia Nostra evidenzia poi come, per interpretare compiutamente lo spirito del Codice, l’attività di pianificazione deve tendere a una espansione piuttosto che a una contrazione dei beni paesaggistici: anche laddove i valori originari siano stati alterati o compromessi deve essere privilegiata la riqualificazione. Conformando comunque gli obiettivi a quella preminenza dei valori di tutela del paesaggio stabiliti dalla nostra Costituzione.
Con il ricordo di Antonio Cederna nello sfondo, Italia Nostra ha presentato il Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica, un’analisi esauriente e critica dello stato della pianificazione in materia di paesaggio, regione per regione. Si sentiva questa necessità di avere notizie, e si deve rendere merito agli autori di questo lavoro. Questi hanno agito nella convinzione che la pianificazione del paesaggio sia “la madre di tutte le battaglie per le sorti del territorio e del patrimonio culturale italiano”. Così come pensava, appunto, Antonio Cederna. L’obiettivo è quello di capire la risposta del Paese alle disposizioni del Codice dei Beni culturali a quasi tre anni dalla sua approvazione. E dopo quasi un secolo dalle parole di Benedetto Croce in occasione della pubblicazione della legge del 1922, da lui voluta (“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo”).
Italia Nostra non ha dubbi: un esito deludente e preoccupante. Il processo di trasformazione del territorio procede con determinazione (e non mancano le violazioni di legge), ma la strumentazione per la difesa del paesaggio italiano - risorsa patrimoniale di lunga durata – non è ancora adeguata ai bisogni e alla legge, né ci sono buoni segnali, come se si fosse deciso di rimanere disarmati contro chi è pronto ad approfittare di questo vuoto. Il rapporto della associazione (esteso alla fase che precede il Codice) è stato curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi. E’ basato sulle relazioni dei referenti nelle diverse regioni e riguarda l’intero territorio nazionale, e include anche le regioni che per il loro statuto sono esenti dall’obbligo di adeguamento della pianificazione ai sensi del Codice (Valle d’Aosta, Province di Trento e Bolzano, Sicilia).
Il rapporto si legge con apprensione: si scopre che anche le regioni più organizzate, quelle con lunga esperienza nelle attività di pianificazione, hanno sottovalutato la sfida. La richiesta che viene delle leggi statali di fare un salto di qualità nella tutela del paesaggio è stata in molti casi risolta in modo burocratico. Si capisce che si è spesso deciso di procedere in modo parziale, o utilizzando espedienti, lasciando margini di ambiguità molto ampi nella strumentazione. Così il giudizio sulla attività di molte regioni è molto duro e preoccupato. Specie nel caso di aree “difficili” come la Campania, “regione più di ogni altra devastata dall’abusivismo e dal malgoverno, che non si è mai dotata di un piano paesistico, ad eccezione del piano urbanistico territoriale della Costiera amalfitana e della Penisola sorrentina, approvato con legge regionale nel 1987”.
L’appello che Italia Nostra rivolge a Stato e regioni è di non perdere altro tempo prezioso e di valutare con cura i rischi che in alcuni contesti sono molto elevati. Si suggerisce, per interpretare pienamente lo spirito del Codice, che l’attività di pianificazione tenda ad una espansione piuttosto che a una furbesca contrazione dei beni paesaggistici. “Anche laddove i valori originari siano stati alterati o compromessi - si sottolinea - deve essere privilegiata la riqualificazione. Conformando comunque gli obiettivi alla preminenza dei valori di tutela del paesaggio stabiliti dalla nostra Costituzione”.
L’iniziativa, è bene ricordarlo, si tiene nei giorni in cui si celebra il decennale della Convenzione europea del paesaggio, documento che richiama con forza tutte le istituzioni a guardare con cura al valore dei luoghi, presupposto indispensabile per stare al passo con le
attese delle nuove generazioni che sul paesaggio fondano un pezzo del loro futuro.
IN SARDEGNA - Regione ad alto rischio
«In Sardegna - si legge nel rapporto di Italia nostra - nel 2004 la così detta legge “salvacoste” diviene il primo tassello del piano paesaggistico regionale approvato in via definitiva nel settembre 2006. Fra gli elementi di innovazione del ppr sardo, la suddivisione in due successivi livelli normativi: il primo relativo alla tutela dei beni paesaggistici veri e propri, l’altro che detta le prescrizioni sugli ambiti di paesaggio individuati». «Così pure rilevante appare - prosegue il rapporto - l’inserimento dei centri e dei nuclei storici fra beni paesaggistici tutelati. Ma soprattutto, in perfetto allineamento con il contemporaneo Codice dei beni culturali e del paesaggio, l’elaborazione del piano paesaggistico regionale sardo si è conformata, per espresso volere degli organi regionali, ad una copianificazione con gli organi del ministero».
«L’iter di applicazione del piano si è scontrato da subito – rileva ancora Italia nostra - con la fortissima opposizione da parte, fra gli altri, degli enti locali. Purtroppo, la nuova giunta Cappellacci ha fatto della revisione del Ppr uno dei punti qualificanti della sua azione di governo. Tale revisione, iniziata a partire dal giugno 2010 sotto la stravagante denominazione di “Sardegna Nuove Idee”, affida la propria strategia alle parole d’ordine di “concertazione” e “compartecipazione” che lasciano prefigurare un cedimento generalizzato alle pressioni edificatorie degli enti locali».
Il dossier presentato da Italia Nostra racconta di un Paese che non si cura del paesaggio E al codice che prescrive la co-pianificazione Stato-Regioni mancano le linee guida
Addio turismo. Una politica miope che suicida l'industria del turismo
Il caso Sicilia. Contro il piano del parco degli Iblei anche i sindacati
Sta sempre peggio il paesaggio italiano. Con alcune eccezioni, dovute all'impegno di singoli governatori - come in Toscana - a favore dell'ambiente. Eppure esiste un Codice che le Regioni dovrebbero applicare.
Il paesaggio italiano, malgrado le mille colate di cemento e asfalto, resta fra i più ammirati del mondo. Però sta sempre peggio. Il Ministero per i Beni Culturali ha cancellato la direzione generale per il paesaggio e sembra aver rinunciato alla co-pianificazione paesaggistica con le Regioni prevista dal Codice Urbani-Rutelli. Né si muovono granché le Regioni, tranne qualche lodevole eccezione (la Toscana con la nuova giunta). E' il succo amaro del rapporto presentato ieri a Italia Nostra dai consiglieri nazionali Vezio De Lucia, urbanista fra i più impegnati, e Maria Pia Guermandi dell'IBC Emilia-Romagna. Di qui il proposito di costituire un Osservatorio nazionale sul paesaggio e di battersi con più forza, visto che il MiBAC latita da quando Bondi ne è il titolare-fantasma.
DA CROCE IN POI.
La prima legge sul paesaggio risale a Benedetto Croce ed è del '22, ribadita da Bottai del '39. Nel '77 la delega alle Regioni rimaste inerti. La legge Galasso dell'85 le spinge a pianificare. Poche lo fanno (in primo luogo Emilia-Romagna, Marche, Liguria). Altre tardano. alcune non muovono paglia. Come sta avvenendo ora col Codice che prescrive la co-pianificazione Stato-Regioni. Al Ministero non c'è traccia né delle linee di piano, né "dell'ufficio ministeriale che dovrebbe occuparsene" ed è in atto una diaspora di direttori generali, centrali e regionali, e di soprintendenti. Si susseguono però le aggressioni al paesaggio più insensate, dalle trivellazioni nel Parco degli Iblei al Motodromo di Fermo (ben 120 ha). In assenza, ovunque, di pianificate tutele, viene "suicidato" lo stesso redditizio turismo culturale e naturalistico. Fra le Regioni solo una, la Sardegna, con la Giunta Soru, aveva invertito la rotta: decreto salva-coste e piano paesaggistico regionale conforme ai criteri del Codice. Col centrodestra si va alla revisione e al "cedimento generalizzato alle pressioni edificatorie" dei Comuni. Che in tutta Italia dominano la scena. Indebitati fino agli occhi, possono usare anche per la spesa corrente, grazie al Testo Unico sull'edilizia (Bassanini), gli oneri di urbanizzazione. Ovvio che antepongano l'edilizia al paesaggio. Un disastro nazionale. Dice il Rapporto De Lucia-Guermandi. Il Piemonte non ha ancora costituito la commissione regionale per il paesaggio,. La Liguria ha adottato una variante aggiornata per 82 Comuni. La Val d'Aosta ha un piano del '98 e sub-delega i Comuni. In Lombardia "non esiste un piano paesaggistico", ma uno territoriale totalmente "in contrasto col Codice". Trento e Bolzano, anni fa all'avanguardia, ora lo sono meno. Il Friuli-Venezia Giulia non ha piani, solo una Carta dei valori. Nel Veneto il piano territoriale è del 2009 "del tutto inefficace" in un paesaggio già massacrato dal cemento. Emilia-Romagna, Marche e Umbria, un tempo avanzate, regrediscono in modo allarmante. La Toscana invece tenta un percorso inverso, virtuoso".
A MACCHIA DI LEOPARDO.
Nel Lazio il centrodestra minaccia di cancellare i progressi compiuti. In Abruzzo, zero piani, pure dopo il terremoto. In Molise nulla si muove dall'89. In Campania, dopo i piani del '96, nessuna "iniziativa in materia di tutela". Come in Basilicata. La Puglia ha adottato la proposta di piano di "Italia Nostra" con più di un'ombra. Niente di niente nella devastata Calabria. In Sicilia, piani paesaggistici "in formazione", ma contro il primo, quello degli Iblei (Ragusa), insorgono in tanti, sindacati in testa, accusandolo di "aggressioni in puro stile terroristico contro il progresso economico". Che dire ancora? Che siamo, povera Italia, ad una barbarie mai vista.
QUI una sintesi del Rapporto
Centoventi ettari di fertile campagna e di bel paesaggio nel mezzo del quadrilatero Fermo-Sant’Elpidio a Mare-Porto Sant’Elpidio-Porto San Giorgio, stanno per essere sommersi da una coltre di cemento e asfalto nella forma di un faraonico motodromo del quale la maggior parte degli abitanti della zona, francamente, non sente il bisogno. Il Comitato per la Bellezza si unisce alla denuncia contro questa iniziativa che porta ad altro inutile consumo di suolo e di paesaggio e che colpisce una zona di alto valore paesaggistico, storico e naturalistico. Il motodromo in questione, dovrebbe infatti sorgere alle porte di Fermo, in località San Marco, a trecento metri dall’Abbazia di San Marco alle Paludi, a poca distanza da una storica torre medievale, ai margini del Parco fluviale Alexander Langer.
In questo ambiente incontaminato, attualmente destinato ad agricoltura estensiva, la società Agrisea, sostenuta dal sindaco di Fermo, intende realizzare il megaimpianto sportivo che, nelle più rosee prospettive, quando sarà in piena attività, darà lavoro al massimo a quaranta addetti. Quanti posti di lavoro – anche a voler ragionare soltanto in questi termini economicistici – può invece produrre un paesaggio ben conservato sotto forma di turismo culturale, di agriturismo, di residenze qualificate in antichi borghi e casali, di agricoltura specializzata, di “immagine” internazionale? Certamente molti ma molti di più. E senza dissipare un solo ettaro di suoli liberi e di paesaggio.
Qui, invece, 120 ettari rischiano di venire ‘consumati’, asfaltati e cementificati, per creare 40 ipotetici posti di lavoro (30.000 metri quadrati a testa), in una regione che in termini di impianti dedicati al motociclismo risulta già piuttosto fornita, senza contare la relativa vicinanza con quelli di Montorio al Vomano, nel Teramano, di Magione nel Perugino e di Misano Adriatico, fra Riccione e Cattolica, nel Riminese, per non parlare poi del Mugello e Vallelunga abitualmente frequentati dai centauri marchigiani.
La preoccupazione delle associazioni ambientaliste fermane e marchigiane è dunque più che fondata e condivisibile: il pericolo che la colata di cemento si abbatta su una zona di particolare pregio è incombente. Il richiamo alla mobilitazione per la difesa del suolo e del paesaggio è un dovere civico che ogni cittadino dovrebbe ascoltare e sostenere: soltanto nel decennio 1995-2006 in Italia sono spariti sotto un coltre di cemento e asfalto terreni agricoli o boschivi liberi pari alla superficie dell’intera Umbria. Si può soltanto immaginare con raccapriccio quale enorme porzione di Bel Paese abbia fatto la stessa fine dal 1946 al 1995. Con l’aggravante che il più recente “boom” edilizio, durato dal 2000 al 2007, non ha neppure scalfito l’emergenza-casa per le giovani coppie, per gli immigrati, per i ceti più deboli, concentrandosi per lo più su condominii a caro prezzo e su seconde e terze case. Facciamo pertanto appello alla sensibilità e all’intelligenza politica di quanti alla Regione Marche, in Provincia e in Comune sono politicamente preposti alla pianificazione urbanistica e paesaggistica e alla promozione turistica affinché questo nuovo grave scempio venga risparmiato al paesaggio fermano e marchigiano la cui particolare bellezza è ormai nota a livello internazionale. Uno straordinario valore “in sé” che va tutelato e quindi attentamente preservato.
Il Comitato per la Bellezza
Sottoscrivono:
Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza
Desideria Pasolini dall’Onda, fondatrice di “Italia Nostra”, presidente onorario Comitato per la Bellezza
Giulia Maria Mozzoni Crespi, fondatrice e presidente onorario del FAI
Marisa Dalai, presidente Ass. Ranuccio Bianchi Bandinelli
Alberto Asor Rosa, presidente Rete Comitati Difesa Territorio
Fulco Pratesi, fondatore e presidente onorario Wwf Italia
Danilo Mainardi, etologo, presidente onorario LIPU-Birdlife Italia
Stefano Leoni, presidente nazionale Wwf Italia
Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale Legambiente
Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale Italia Nostra
Gabriele Tarsetti, Comitato promotore contro Motodromo, LIPU
Stefano Papetti, presidente FAI Marche
Luigi Manconi sociologo e scrittore
Vezio De Lucia, urbanista
Gianfranco Amendola, magistrato
Paolo Berdini, urbanista
Edoardo Salzano, urbanista, sito eddyburg.it
Maria Pia Guermandi, archeologa, sito eddyburg.it
Giuliano Cannata, Pianificazione fluviale, Università Siena
Andrea Emiliani, storico dell’arte, già Sopr. Bologna e Romagna
Tullio Pericoli, pittore di paesaggi
Mario Dondero, fotografo
Gaia Pallottino, ambientalista
Irene Berlingò, archeologa, responsabile Assotecnici
Nicola Spinosa, storico dell’arte, già Sopr. Napoli
Bruno Toscano, storico dell’arte
Virginio Bettini, ecologista, IUAV Venezia
Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la Decrescita Felice
Marco Dondero, italianista, Università di Macerata
Pier Luigi Cervellati, urbanista
Antonio Pinelli, storico dell’arte, Università di Firenze
Renato Nicolini, architetto, Università Reggio Calabria
Gianni Mattioli, Movimento Ecologista, Fisica Teorica, La Sapienza Roma
Libero Rossi, Cgil, componente Consiglio Sup. Beni Culturali
Gabriele Simongini, Accademia Belle Arti di Roma
Giuseppe Basile, presidente Ass. Cesare Brandi
Pietro Giovanni Guzzo, archeologo, già Sopr. Pompei
Paolo Baldeschi, paesaggista, Università di Firenze
Magda Mercatali, attrice di prosa
Mauro Gallegati, Macroeconomia, Università Politecnica, Ancona
Nino Criscenti, giornalista tv, autore di “Paesaggi rubati” (RAI3)
Annarita Bartolomei, operatrice culturale
Licia Colò, conduttrice “Alle falde del Kilimangiaro”, Rai3
Fernando Ferrigno, giornalista, esperto Beni Culturali
Marta Bruscia, filologa, Università di Urbino
Sauro Turroni, urbanista, Costituente Ecologista
Massimo Marcaccio, Presidente Parco Nazionale dei Sibillini
Olimpia Gobbi, Osservatorio Nazionale per la Qualità del Paesaggio
Donatella Fagioli, restauratrice
Pino Coscetta, già caporedattore Regioni del “Messaggero”
Ginevra Sanfelice di Monteforte, operatrice culturale
Costanza Pera, architetto
Gianandrea Piccioli, dirigente editoriale
Violante Pallavicino, ambientalista
Valentino Podestà, urbanista, Rete Comitati Difesa Territorio
Corinna Vicenzi, Comitato Terre di Maremma
I paesaggi sono sensibili, chi li abita no. E' la conclusione della campagna di Italia Nostra per monitorare le coste minacciate da quattro patologie: «infrastrutture invasive, costruzioni sui litorali, erosione delle spiagge, abusivismo». Le regioni in cima al «libro nero» sono Sardegna, Liguria e Campania. In tre mesi di lavoro, i volontari di Italia Nostra hanno raccolto sul campo migliaia di casi, selezionando infine un'amara classifica delle dieci coste sulle quali incombono le minacce più gravi. A partire dal golfo di Teulada, Sud Ovest della Sardegna, dove sta sorgendo un mega-albergo di 700 ettari, sfuggito alla valutazione di impatto ambientale, in una zona già definita «ad alta vulnerabilità» nel piano paesaggistico. Secondo posto tra le «palme nere» per la costa ligure intorno a Savona.
Motivazione: «Cinque megaprogetti di cemento comprometteranno l'intero fronte del mare». Nell'ordine: il porto della Margonara («15 mila metri quadri di costruzioni in un tratto con scogli e flora marina di grande valore»), un capannone sulla darsena fluviale, il palasport e il centro congressi intorno alla rocca del Priamar, diversi edifici residenziali al posto dei cantieri navali sulla spiaggia di ponente, una piattaforma per container nella rada di Vado. Non mancano gli evergreen: l'abusivismo sulla costiera amalfitana, l'aggressione delle pinete a Castiglione della Pescaia, le grandi opere sulla Maremma tosco-laziale (anche qui, ormai è una moda nazionale, spuntano porti turistici a distanza di pochi chilometri), il degrado delle coste adriatiche, da Lignano Sabbiadoro a Brindisi. Salutati i turisti, le coste italiane vengono dimenticate.
Per questo Italia Nostra ha deciso di organizzare una settimana di eventi (dal 19 al 24 ottobre) in cinquanta località marine, perché finita l'estate non cali il silenzio sulle emergenze dei «paesaggi sensibili». Spiega Alessandra Mottola Molfino, presidente di Italia Nostra: «Oltre alla distruzione della bellezza naturale, si compromettono l'ecosistema e la salute dei cittadini. Siamo stufi di essere dipinti come quelli che si battono solo per questioni estetiche». Per salvaguardare le coste, Italia Nostra propone di istituire un'autorità indipendente sul modello del Conservatoire du littoral francese, ente statale dotato di 50 milioni di euro l'anno per acquisire pezzi di coste e «metterli in sicurezza». Oggi la Conservatoria dispone di 135 mila ettari di coste (superficie grande quanto la provincia di Novara) che affida in gestione a enti locali e privati, con norme molto severe. Il sistema dà lavoro a mille addetti e raggiunge decine di milioni di visitatori ogni anno. Secondo la presidente di Italia Nostra, «anche in Italia servirebbe un'autorità indipendente, al riparo dagli appetiti della politica e dagli interessi dei privati».
Sono molti gli articoli della Costituzione il cui rispetto è stato pagato con la vita. Non si contano i cittadini italiani che in questi sessant’anni sono stati uccisi per aver preso sul serio l’articolo 1 (per aver cioè difeso il lavoro come fondamento del nostro sistema democratico), l’articolo 3 (per aver dunque lottato per l'uguaglianza di fronte alla legge) o l’articolo 41 (per essersi opposti all’asservimento criminale dell’iniziativa economica privata). La sconvolgente esecuzione del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, sembra aggiungere a questo tremendo canone anche l’articolo 9, quello per cui la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Troppo spesso dimentichiamo che la salvaguardia della natura e dell’arte (in Italia saldate dalla storia in un unico, indivisibile ambiente culturale) non è affidata alla sensibilità delle anime belle, degli esteti o degli ambientalisti. L’articolo 9 ci ricorda che essa è invece uno dei principi fondamentali su cui si fonda la nostra convivenza civile. In un discorso pronunciato al Quirinale l’11 dicembre 2003, il Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi disse: «Difendere questo straordinario patrimonio dall’aggressione degli egoismi, dalla speculazione e dall’abbandono significa custodire la nostra identità nazionale, che si fonda sulla bellezza di un paesaggio indissolubilmente legato all’opera dell'uomo». Il libro che Salvatore Settis ha dedicato ai beni culturali e ambientali tra istituzioni e profitto si intitola Battaglie senza eroi. Ora sembra che Angelo Vassallo sia il primo eroe di questa battaglia. Ed è davvero una notizia terribile.
Nel suo Breve trattato del paesaggio (1997), recentemente tradotto da Sellerio, Alain Roger fa una riflessione interessante: nel 1912 tre grandi intellettuali europei osservarono, indipendentemente, che il paesaggio non è natura ma storia, perciò lo vediamo attraverso il filtro della letteratura e dell'arte. Questo più o meno scrissero in Francia Charles Lalo, in Germania Georg Simmel, in Italia Benedetto Croce. Tanta sintonia si spiega per il comune riferirsi a un topos classico, quello secondo cui «la natura s'ingegna a imitare l'arte», come scrisse Ovidio; ma riflette lo spirito del tempo di quel principio di secolo, quando i movimenti per la conservazione del paesaggio si affermavano in tutta Europa. Per Croce, questa preoccupazione non fu solo teorica, ma si tradusse in un'energica azione politica: a lui infatti si deve la prima legge generale italiana per la tutela del paesaggio. È una storia che comincia da lontano, dall'Unità d'Italia. Cominciarono allora subito ardue battaglie per proteggere il patrimonio artistico e archeologico.
Gli Stati preunitari avevano in merito le leggi più antiche e avanzate del mondo: papi, repubbliche e sovrani, specialmente dal Settecento, sulla scia del diritto romano anteposero nettamente il bene comune (utilitas publica) agli interessi della proprietà privata, limitandone i diritti. L'unificazione del paese fu per mercanti e collezionisti l'occasione di approfittare del vuoto legislativo per vendere numerosissime opere d'arte (fu allora che avvenne la massima emigrazione di quadri, statue, manoscritti, disegni verso i musei stranieri). Restavano in vigore le leggi pontificie a Roma, quelle borboniche a Napoli, e così via; ma si stentò a lanciare una normativa nazionale. Il primo disegno di legge, voluto da Cavour e affidato a Terenzio Mamiani, naufragò subito; così, in rapida successione, le proposte di ministri della Destra (come Cesare Correnti e Ruggero Bonghi) e della Sinistra (come Michele Coppino, Francesco De Sanctis, Pasquale Villari, Ferdinando Martini). Si arrivò infine alla timida legge del 1902, che proteggeva ben poco, eppure fu bollata in Senato come feroce' perché intaccava i privilegi della proprietà privata, «diritto divino perché emanante dalla volontà di Dio».
Presto si constatò alla prova dei fatti la debolezza della legge del 1902, e si avviò il percorso verso una normativa più efficiente, che dopo un faticoso percorso sarebbe diventata la legge n. 364 del 1909. In quelle accese discussioni esplose il contrasto fra la Camera (interamente elettiva) e il Senato, dove per nomina regia o per censo sedevano molti membri dell'alta aristocrazia, interessati a mettere sul mercato le proprie collezioni. Non tutti, però. Senatore era anche il principe Tommaso Corsini, membro della stessa famiglia del card. Neri Corsini, ispiratore nel 1737 del «patto di famiglia» Medici-Lorena che assicurò per sempre a Firenze le collezioni granducali, e del papa Clemente XII, che volle nel 1734 severe norme di tutela e la fondazione dei Musei Capitolini, prima raccolta pubblica d'Europa. Nel 1898, per reagire agli sventramenti del centro storico di Firenze che ne sfigurarono il volto a partire da quando fu capitale del Regno, Corsini aveva fondato l'«Associazione per la difesa di Firenze antica», che divenne il centro di un vasto movimento di opinione. Dopo la raccolta di migliaia di firme, in un'affollata assemblea a Firenze fu votata per acclamazione una petizione al Senato: a proporla fu Benedetto Croce, poco più che quarantenne e non ancora senatore, ma già autorevolissimo. Quella legge aveva tre padri: due ravennati, il ministro Luigi Rava e il direttore generale Corrado Ricci (artefici nel 1905 di una legge per la tutela della pineta di Ravenna) e un deputato toscano, Giovanni Rosadi.
Nel disegno di legge, essi avevano aggiunto alla tutela del patrimonio anche quella di «giardini, foreste, paesaggi, acque» di prevalente interesse pubblico. Approvata dalla Camera, questa norma venne bocciata dal Senato, e il comma 3 che la conteneva fu soppresso, pur invitando il governo a presentare un disegno di legge sulle «proprietà fondiarie che importano una ragione di pubblico interesse a causa della loro singolare bellezza». In questo testo, il termine paesaggio è evitato, e la dizione proprietà fondiarie indica di dove venissero le resistenze a includere il paesaggio fra i beni da tutelare. Ma Rosadi non rinunciò alla battaglia, e già il 4 maggio 1910 presentò una nuova proposta di legge. La relazione si apriva con una domanda: «E possibile che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia, e pi in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?». Fu possibile. Eppure era accaduto allora qualcosa che nell'Italia di oggi non si riesce nemmeno a immaginare, la formazione di un Comitato nazionale per la difesa del Paesaggio, che raccolse non solo dieci associazioni protezionistiche, ma anche sei Ministeri, le Ferrovie dello Stato ed altre istituzioni pubbliche.
La legge Rosadi continuò a trascinarsi invano fra Camera e Senato, ma l'impulso decisivo fu dato da Nitti, quando nel suo primo governo istituì (1919) un sottosegretariato alle Antichità e Belle arti, preannuncio del ministero dei Beni culturali creato quasi sessant'anni dopo. Sottosegretario fu il veneziano Pompeo Molmenti, sostituito pochi mesi dopo proprio da Rosadi, che tenne l'ufficio anche nei successivi governi Giolitti e Bonomi. Molmenti aveva nominato una commissione presieduta da Rosadi per redigere la nuova legge, che fu pronta in pochi mesi, riprendendo quella insabbiata dieci anni prima. Dopo la caduta del governo Nitti, il disegno di legge fu ereditato dal quinto governo Giolitti, dove ministro della Pubblica istruzione era Croce. Egli rilanciò immediatamente il progetto, presentandolo al Senato con una vigorosa relazione introduttiva, e riuscì a farlo approvare 31 gennaio 1921. Sciolta la Camera, si tennero il 15 maggio 1921 elezioni anticipate: ma prima che giurasse il nuovo governo e il nuovo ministro, Croce ripresentò la legge tal quale (15 giugno). Rosadi restava sottosegretario, e fu anche grazie a lui che la legge continuò il suo cammino coi ministri ravennati, Corbino (governo Bonomi) e Anile (governo Facta).
Finalmente approvata l'11 maggio 1922, la legge (n. 778) fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 21 giugno, quattro mesi prima della marcia su Roma. Occorre una legge che «ponga, finalmente, un argine alle ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note e pi amate del nostro suolo», scrive Croce nella sua relazione, poiché «difendere e mettere in valore le maggiori bellezze d'Italia, naturali e artistiche» risponde ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia». Croce cita i movimenti per il paesaggio in Francia, Germania, Svizzera, Austria e Inghilterra, richiama Ruskin («il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria»), e argomenta che è necessario notificare i paesaggi di importante interesse , sottoponendoli a speciali limitazioni del diritto di proprietà, in nome di «ciò che è in cima ai pensieri di tutti, economia nazionale e conservazione del privilegio di bellezza che vanta l'Italia». Le limitazioni alla proprietà privata sono indispensabili come «una servitù per pubblica utilità», poiché sarebbe egualmente inammissibile «deturpare un monumento o oltraggiare una bella scena paesistica, destinati entrambi al godimento di tutti».
La legge Croce fu poi alla base della legge Bottai sul paesaggio (1939), che ancora è il nerbo del codice dei Beni culturali e del paesaggio, raro esempio di legge bipartisan condotta in porto da ministri (Urbani, Buttiglione, Rutelli) di due governi Berlusconi e di un governo Prodi; eppure è fra le leggi più disattese d'Italia, martoriata da deroghe, sanatorie, condoni, piani casa e quant'altro. Rileggiamo allora le parole di Croce, ma guardiamoci intorno: le «ingiustificate devastazioni» del nostro suolo si intensificano ogni giorno, il primato del pubblico bene che fu il cuore della storia d'Italia viene oggi impunemente calpestato in nome di un mercatismo straccione. Chiediamoci dunque: siamo capaci, noi oggi, di combattere le battaglie che un secolo fa seppero vincere Ricci e Rava, Rosadi e Benedetto Croce? Sapremmo coalizzarci in un rinnovato Comitato nazionale per la difesa del paesaggio?
«Appare "incomprensibile" ciò che non si conosce ed è consigliabile informarsi prima di parlare». L’assessore regionale all’assetto del territorio, Angela Barbanente, risponde così alla senatrice Poli Bortone, che aveva definito «incomprensibile il ritardo della Regione Puglia nella redazione del piano paesaggistico, mettendo in crisi i Comuni».
Per l’assessore, le colpe ricadono sul governo. «Sa la senatrice - si chiede la Barbanente - che il Ministero per i beni e le attività culturali sta bloccando i piani paesaggistici regionali rinviando sine die gli accordi con le Regioni previsti dal Codice del paesaggio? Sa quante Regioni sono dotate di un piano adeguato al Codice? Nessuna. E sa che la Regione Puglia, dopo aver elaborato con grande impegno e passione un piano paesaggistico di riconosciuta qualità ha trasmesso ad ottobre lo schema adottato dalla Giunta allo stesso ministero, senza ricevere sinora alcun cenno di riscontro?».
«Mi sembra evidente - conclude l’assessore - che la senatrice debba rivolgere al governo che mostra un atteggiamento palesemente contraddittorio, fra annunci di semplificazioni e arroccamento a norme complicate e farraginose». Intanto è stato pubblicato il bando da 10 milioni di euro della Regione per contributi a privati che intendano procedere al recupero di alloggi da destinare all’affitto o a prima abitazione per famiglie incapaci di accedere al libero mercato.
La terra promessa della modernizzazione è diventata terra bruciata dalla desertificazione ambientale, sociale, spirituale (Alberto Magnaghi)
Il paesaggio è morto? Ma quale paesaggio? E’ morto o moribondo il paesaggio che era espressione di un modello o sistema economico pre-industriale che, per quanto sopravviva ancora qua e là nel mondo e anche nelle pieghe del territorio di un paese come il nostro (che si definisce la quinta o sesta potenza industriale), è stato “superato” o, per meglio dire, annullato nella sua capacità di autoalimentarsi, non solo dall’industrializzazione ma anche dal dominio sempre più invasivo, anche a livello locale, del capitale finanziario globale.
Se il paesaggio è morto, quale capacità di progettare e costruire paesaggi ci rimane, oggi, al di là della conservazione e restauro dei paesaggi ereditati? La risposta prevalente è stata in passato quella di recintare spazi naturali e umani con l’istituzione dei parchi nazionali, regionali e anche urbani, nella convinzione che il paesaggio, come la natura, potessero vivere solo come spazi eccezionali, di piacere e contemplativi, disgiunti da qualsiasi finalità produttiva. Tutto il resto non doveva essere considerato paesaggio, ma apparteneva al regno del funzionale e dell’utile.
In altri termini, abbiamo certamente democratizzato le recinzioni e i parchi e giardini del regime aristocratico, ma siamo rimasti dentro lo stesso modello territoriale. Nelle rivoluzioni che hanno prodotto la caduta del regime aristocratico c’era qualcosa di più: la liberazione di tutti gli spazi recintati, la libertà celebrata da Rousseau di percorrere e godere liberamente del bel paesaggio, del giardino della natura e di continuare a produrlo limitando la città e la tecnologia. La trasformazione del paesaggio da “giocattolo” aristocratico a pratica popolare, democratica, e per questa via anche il superamento della separazione fra l’utile e il bello, la produzione e la contemplazione, che oggi viene ulteriormente sancita dalla Convenzione europea del paesaggio, data da questo momento storico.
La Convenzione, il suo più profondo significato politico, ci invita oggi a un diverso rapporto con la storia, con le ragioni di un passato non del tutto tramontato. Il modello economico “superato” dalla storia, di cui il paesaggio extraurbano che oggi cerchiamo di tutelare nei suoi spazi residui era la manifestazione visibile, si può definire di tipo pre-capitalistico per il fatto di mantenersi e vivere in una dimensione culturale prevalentemente locale, artigianale e familiare (l’azienda contadina e familiare vi aveva infatti una centralità che in buona parte è stata smantellata dalla nuova scala dell’agroindustria e del mercato).
Questo mondo pre-capitalistico, fatto di luoghi e paesaggi, confligge fortemente con la globalizzazione in atto, la sua conservazione è una delle poste in gioco della battaglia fra locale e globale. La teoria di Marx – che è alla base di qualsiasi teoria della globalizzazione – ci aiuta anche oggi a capire le manifestazioni di questa battaglia. In particolare, ci aiuta la teoria della crisi economica data da Rosa Luxemburg un secolo fa e di recente richiamata da Zygmunt Bauman anche per spiegare l’ultima crisi. Che cosa diceva la Luxemburg, che non a caso amava molto la geografia e il paesaggio (come mostra le sue lettere dal carcere)? Diceva che il capitalismo per continuare nella sua corsa alla accumulazione ha bisogno che esistano ambienti o spazi pre-capitalistici, ma che la sua è una corsa verso l’abisso, in quanto penetrando in tali ambienti li trasforma in capitalistici e quindi elimina progressivamente le basi economiche della sua espansione o accumulazione.
Ma, oltre a questo aspetto – che come ci mostra Bauman fa in qualche modo della difesa del paesaggio un’articolazione della lotta contro un capitalismo parassitario che della speculazione finanziaria e della rendita edilizia fa la sua principale strategia di sopravvivenza – ce n’è un altro che va richiamato: l’attualità della cultura artigianale. Ce lo ha di recente dimostrato Richard Sennet in una monumentale ricerca dedicata all’ Uomo artigiano (Feltrinelli, Milano, 2008).
Che cosa ci viene mostrando questa ricerca? Qualcosa di cui in molti proviamo sempre più nostalgia: la maestria dell’artigiano. Metafora di quel “materialismo culturale” oggi necessario per trovare alternative al mondo dominato da Pandora o dalla tecnica scatenata: “Il mito di Pandora è diventato oggi un simbolo secolarizzato di autodistruzione. Per far fronte a questa crisi fisica ci corre l’obbligo di modificare sia gli oggetti che produciamo sia l’uso che ne facciamo. Dovremo imparare modi diversi di costruire gli edifici e di organizzare i trasporti, dovremo imparare rituali che ci abituino al risparmio. Dovremo diventare bravi artigiani dell’ambiente” (p. 21). Anche e soprattutto rispetto e a questa arte che “oggi ci è estranea”. Sennet, con una serie di esempi e indagini davvero convincenti, ci dimostra come “la grande sfida alla quale la società moderna si trova di fronte, sia come continuare a pensare da artigiani facendo un uso corretto della tecnologia” (p. 50). L’esempio è in questo caso rappresentato dalla matita di Renzo Piano e dalla sua maestria artigianale che usa ancora la mano per disegnare e progettare e solo in subordine usa il computer. Secondo Sennet è questa “sinergia mente-mano-desiderio-ragione che ha fatto grande il mondo occidentale e forse può oggi restituirgli saggezza”.
Non dobbiamo mai dimenticare che è questo modello economico locale, artigianale e familiare che ha prodotto la qualità architettonica sia del paesaggio urbano (per i centri storici), sia di un paesaggio rurale che oggi ci pare insuperato, non solo per bellezza, armonia e diversità culturale (oltre che per biodiversità), ma anche per equilibrio nell’uso del suolo e delle risorse ambientali. Si potrebbe definire come un paesaggio che, essendo più ancorato al valore d’uso e alla qualità e perfezione tecnica che al valore di scambio e alla serialità e globalità della produzione moderna, era fatto per durare nelle sue forme insediative e territoriali e dunque era naturalmente sostenibile. Sostenibile senza bisogno di dichiararlo o pretendere una certificazione ambientale, perché questa durevolezza e sostenibilità era interna al sistema economico che produceva il paesaggio.
Per capirci con qualche esempio geografico: si trattava di un paesaggio che anche là dove esistevano le pressioni maggiori del capitalismo e del mercato internazionale, come è stata la Liguria anche prima dell’ultima rivoluzione industriale, si manteneva in quanto il sistema economico e la sua cultura continuava ad avere dentro di sé un senso molto forte dei limiti invalicabili, di natura sia geografica sia temporale, oltre i quali o sotto i quali non si poteva andare se non si voleva mettere in atto processi di degrado più o meno irreversibili.
Faccio un esempio: il paesaggio della nostra regione si fondava su un rapporto equilibrato e armonico fra costa e entroterra, fra risorse ed economie del mare e risorse ed economie della campagna e della montagna, che è venuto meno solo nelle trasformazioni più accelerate del XX secolo. Ancora nell’Ottocento, ci sono state grandi riuscite marittime, per esempio a Camogli (i cui armatori avevano una flotta non inferiore ai genovesi), che tuttavia, come era accaduto in passato, non hanno stravolto l’equilibrio e le forme del paesaggio che le generazioni precedenti avevano costruito. Nessuno allora ha pensato che il futuro economico di Camogli dovesse realizzarsi a detrimento del suo territorio e paesaggio, per esempio con la creazione delle infrastrutture necessarie per mantenere questo tipo di sviluppo nell’età della crescente globalizzazione e competizione internazionale. Si sono rialzate di qualche piano le case della “palazzata” lungo mare, si sono costruiti, come altrove, nuovi servizi e limitate espansioni del tessuto edilizio, ma nessuno ha mai pensato che la grande tradizione ed economia marittima di Camogli dovessero tradursi in macro-infrastrutture portuali o stradali che per essere fuori scala avrebbero sconvolto un paesaggio che non era idoneo a questo tipo di sviluppo né sul piano commerciale né su quello del turismo nautico. E neppure è accaduto che i capitali locali ricavati da una florida economia marittima si riversassero in grandi speculazioni edilizie e turistiche. Quello di Camogli mi pare un bell’esempio di capitalismo marittimo che ha saputo autolimitarsi fino al punto da scomparire a vantaggio di altri porti di armamento che avevano maggiori possibilità geografiche di espansione.
Anche nel prossimo golfo della Spezia, la costruzione dell’Arsenale, per quanto abbia occupato paesaggi costieri suburbani e destinati essenzialmente a orti o a spazi incolti, non ha prodotto l’annullamento del Golfo e dei suoi paesaggi più amati dai viaggiatori dell’Ottocento, come hanno fatto, e ancora minacciano di fare, l’espansione della città, del suo porto commerciale e di un turismo, nautico e non, sempre più aggressivo e che oggi minaccia anche le Isole. Gli operatori economici e quanti stanno nella stanza dei bottoni sono incapaci di riconoscere l’incompatibilità geografica di certi sviluppi: porto commerciale, grandi navi portacontainer, turismo, maricoltura ecc., tutti destinati a convivere negli stessi spazi assai ridotti.
In generale, oggi – a differenza di quanto avvenuto a Camogli o nel Golfo al tempo della costruzione dell’Arsenale (dove a prevalere è stata la logica dell’intervento a fini di utilità pubblica) – accade che se in loco sono assenti i capitali privati ai fini degli interventi speculativi si convogliano quelli esterni, che, per la loro stessa formazione, non sono interessati alla sostenibilità della economia locale ma solo alla redditività di un impiego che per sua natura è indifferente ai luoghi in cui si realizza.
Per caratterizzare le differenze fra questi due diversi modelli economici potremmo prendere a prestito alcune categorie di Levi-Strauss – per nulla invecchiate – e parlare di “culture o società fredde” in grado di controllare le loro economie per mantenere i paesaggi nei quali riconoscono la loro identità, e culture o società “calde” che riconoscendosi in altri valori, eminentemente economici e settoriali (non identitari), sono disposte a sacrificare i loro paesaggi in nome del cambiamento, del “progresso”, della modernizzazione, della globalizzazione ecc. ecc.
La centralità del paesaggio, oggi, consiste nel metterci di fronte al grande tema di che cosa voglia dire progresso, modernità, civiltà, oltre che nel riportarci alla centralità del rapporto locale/globale.
Se noi oggi verifichiamo la verità del paradosso di Giuseppe Verdi, rievocato di recente da Marc Fumaroli su “La Repubblica”: «Torniamo all’antico, sarà un progresso», vuol dire che sono state poste le condizioni di un capovolgimento di valori. L’idea nuova è appunto questa: che guardare al passato e tornare all’antico (non semplicemente restaurandolo ma rinnovandolo) possa essere il vero progresso che dobbiamo inseguire. Ovvero che il vero progresso sta nella negazione dell’idea ottocentesca di progresso che le grandi tragedie del Novecento hanno smantellato sul piano filosofico ma non su quello economico.
Anche qui, se vogliamo essere concreti e propositivi dobbiamo partire dall’oggi, dalla pesante crisi globale che ha coinvolto un capitalismo finanziario e parassitario che vede sempre più ridursi i suoi margini di manovra e di crescita (per crescere ha infatti bisogno come sosteneva Rosa Luxembourg di colonizzare quelle “terre vergini” e settori “precapitalistici” che si vanno continuamente riducendo nel momento in cui vengono “modernizzati”). Non teorizziamo a livello globale. Teniamoci al locale. Prendiamo l’Italia. In molti dicono che “se l'Italia uscisse dalla crisi, crescendo come prima della recessione, ci vorrebbero 15 anni solo per tornare ai livelli di benessere precedenti la crisi. E' una prospettiva tutt'altro che allettante. Eppure il dibattito pubblico tratta di tutto tranne che di scelte strategiche in grado di far ripartire il paese a tassi più sostenuti” (Economisti di La voce.info).
Anche a prescindere dal fatto che la scelta di tornare a crescere a tassi più sostenuti potrebbe anche non essere strategica (se è vero che ci dovremmo porre limiti alla crescita), viene da pensare che, se è vero che “fare ripartire il paese per riprendere il corso precedente significa sprecare una grande opportunità”, si dovrebbe guardare a ricette differenti e più radicali come potrebbero essere quelle di indirizzate l’economia, oltre che sull’ambiente e le energie rinnovabili, sulla stabilità del territorio e la tutela del paesaggio.
Nel Rapporto 2009 I paesaggi italiani fra trasformazione e nostalgia, che ho curato per la Società Geografica Italiana, mi sono per l’appunto domandato se alla luce della crisi “non sarebbe il caso di ripensare il modello di sviluppo” soprattutto in regioni ad alto tasso di disindustrializzazione, visti anche gli effetti positivi in termini di coesione territoriale e sociale di modelli economici regionali fondati sull’attrattività residenziale e sulla domanda delle famiglie”. Ovvero, perché non approfittare della crisi economica globale per rispondere a questa domanda sociale e fare del territorio e dei paesaggi finora disertati dagli investimenti e dal mercato, non meno che dalla politica, le basi di un grande cantiere di manutenzione ambientale e di mantenimento e gestione-valorizzazione di patrimoni insediativi e rurali che, in quanto costituenti paesaggi antropizzati da qualche millennio, non stanno in piedi da soli? Un grande cantiere che, oltre a rispondere alle enormi esigenze di prevenzione del dissesto idro-geologico, potrebbe cominciare a soddisfare una forte domanda residenziale che, in Liguria, dalla costa sovraffollata tende a spostarsi nella più rurale collina e montagna litoranea, e soprattutto a tradurre nei fatti un modello locale di sviluppo che armonicamente e con saggezza artigianale o contadina tiene insieme le molteplici offerte e domande che oggi collegano in maniera virtuosa la città e la campagna attraverso il turismo rurale, la nuova agricoltura contadina e l’artigianato rurale volti a produzioni di nicchia e di qualità.
Solo in contesti sociali e territoriali alimentati tanto da nuove ragioni scientifiche e culturali centrate sul bene comune paesaggio (e ambiente), quanto da orizzonti prospettici più ampi di quelli della tradizionale pianificazione, possono oggi maturare progetti che non siano di corto respiro, come è il recente piano-casa che va nella direzione esattamente opposta a quella ora indicata per un evidente deficit culturale e di progettualità innovativa.
In effetti i nuovi orizzonti economici e culturali, entro i quali dobbiamo oggi inserire la nostra progettualità, hanno molto a che fare con l’idea di modernità declinata non solo nel senso della postmodernità ma anche in quello della premodernità.
Qualche anno fa, un antropologo - Federico Scarpelli - ha pubblicato una ricerca intitolata La memoria del territorio. Patrimonio culturale e nostalgia a Pienza, partendo da questa domanda: «Come mai ed in che senso nel cuore di uno dei paesaggi più famosi del mondo, quello di Pienza e della Val d'Orcia, covano nostalgie per quando non si era moderni? Nell'epoca in cui il patrimonio culturale appare sempre di più un terreno di confronto, scelta, ridefinizione, la "nostalgia" diventa qualcosa di simile ad una macchina per pensare il passato, il presente, il futuro del proprio territorio».
L’evviva al paesaggio sembra dunque declinarsi con la nostalgia, sentimento che in genere segnala una trasformazione troppo rapida e tutto sommato sconvolgente, portatrice di una perdita che suscita tristezza, malinconia. In realtà il rapporto del paesaggio con la memoria storica e con la nostalgia è più complesso di quanto appaia a prima vista ed è comunque essenziale per ripensare non solo il passato ma anche il presente e perfino il futuro del nostro territorio.
Ci aiuta a capirne la portata, un aforisma del vecchio Goethe, che segnala un’importante differenza rispetto al nostro tempo: “Non c’è passato che sia lecito richiamare con nostalgia, c’è solo un mondo eternamente nuovo, che si forma con l’ampliamento degli elementi del passato e la vera nostalgia deve essere sempre produttiva per creare un mondo migliore”. Goethe viveva nel momento storico in cui l’antico regime era crollato e attraverso rivoluzioni e guerre l’ampliamento o meglio la fecondazione degli elementi più validi del passato facevano nascere un mondo nuovo. Possiamo oggi dire lo stesso? Malgrado lo spreco e la conseguente insignificanza del termine “epocale”, oggi non possiamo ripetere quanto Goethe ebbe a dire di fronte all’esercito napoleonico: “è nata la novella storia”.
Che cosa ci manca? Ci manca l’ampliamento, la fertilizzazione delle eredità del passato che una discontinuità ancor più profonda ha reso, almeno per l’aspetto che ci interessa, più difficile. Per questo la nostra nostalgia deve essere più profonda e più produttiva, deve ricreare archi col passato non solo sul piano culturale e della civiltà ma anche sul piano della produzione di nuovi paesaggi.
In buona sostanza prima della più massiccia fase dell’industrializzazione europea si erano certamente manifestate trasformazioni anche profonde, ma non grandi rotture nel paesaggio urbano e rurale. Appare evidente se appena guardiamo alle aree più avanzate con gli occhi delle trasformazioni che abbiamo sotto gli occhi: la città non si era ancora dispersa, annullata nella campagna e le campagne non erano ancora state annullate dall’agroindustria e dall’urbanizzazione e infrastrutturazione selvaggia che caratterizza il nostro tempo. La continuità col passato e il graduale adeguamento alle nuove esigenze (igiene, bonifiche ecc.) consentiva una lettura stratificata dei paesaggi e interventi non traumatici.
In conclusione, il paesaggio, soprattutto nella versione della Convenzione europea, oggi può offrirci un’altra grande opportunità: riguadagnare il senso di una qualità diffusa che oggi non siamo più capaci di garantire, come avveniva in passato, quando nessuno avrebbe ammesso che la conservazione o il vincolo delle aree più pregiate o della aree protette in senso letterale potesse andare di pari passo con il degrado del resto del territorio o che, per fare tutt’altro esempio, l’alta velocità implicasse l’abbandono del resto della rete: esempi di una tendenza alla gerarchizzazione degli spazi e dei flussi che non è meno deleteria di quella che si accentua sul piano sociale ed economico.
Se ne avessi il tempo potrei concludere la mia relazione leggendovi qualche passo delle lettere dal carcere di Rosa Luxemburg. Ma il tempo non c’è. Vi invito a farlo, alla luce di un’ipotesi di lavoro che può aggiungere un po’ di sale al percorso che oggi riusciamo a vedere più chiaramente anche grazie al sacrificio di Rosa. L’ipotesi è questa: chissà se Rosa, sopravvissuta alla sanguinosa rivolta spartachista, non avrebbe potuto guidarci, proprio grazie alla sua sensibilità per l’ambiente e il paesaggio, alle soglie di una considerazione diversa della lotta sociale: quella che oggi ci porta a sostituire la coscienza di luogo alla coscienza di classe senza timore per questo di perdere di vista l’obiettivo di una giustizia spaziale e sociale.
Cesare Bermani non passa in tv. Ma negli Stati Uniti le università lo conoscono bene. Hanno letto e studiato sui suoi libri migliaia di studenti anche negli atenei italiani; si sono formati in una scienza a cavallo tra la storia, l’antropologia, la musica e la parola, quella sintetizzata nella o nelle storie orali, spesso cantate. Inoltre, è stato ed è tutt’ora, assicura – un “cattivo maestro”, ha creduto nella rivolta. Ci crederà ancora assieme a tanti altri compagni, ma intanto, a settantre anni mentre non smette di scrivere libri, è alla testa di un comitato il cui unico obiettivo è difendere il lago d’Orta e i suoi dintorni dalla speculazione. Dalle finestre di casa sua il lago si vede bene ed è un incanto fin qui, nonostante tutto, sostanzialmente risparmiato dalla speculazione che altrove ha fatto vittime illustri. «Quel tempo è finito – dice – conviene muoversi alla svelta, ciò che resta dell’Italia è in pericolo e le cause sono sotto gli occhi di tutti e soprattutto stanno nella cronaca politica».
Qualcuno ha sepolto la cultura della conservazione del patrimonio ambientale? «Prima non avevamo cura, ora siamo pronti a svendere per un pugno di soldi. Sì, è una questione culturale con radici antiche ma dobbiamo fare i conti con la condizione oggettiva delle casse dei comuni. Hanno l’acqua alla gola, si ficcano le mani in tasca e quel che trovano sono pezzi di un ambiente spesso meraviglioso, si guardano attorno e comprendono che quei panorami hanno un valore, quindi ecco la tentazione di svendere, cedere alla richiesta speculativa quasi sempre agganciata alla macchina turistica. Solo che si danno la zappa sui piedi...»
| foto di f. bottini |
Vuoi dire che sei in grado di dare consigli agli investitori? «Mettila così: se si cede a questa pulsione senza cervello si brucia una risorsa di lungo respiro in favore di un incasso molto veloce e neppure scontato: un albergo di qui, un altro di là e il gioco è fatto, quello che è stato per millenni un paradiso capace di attrarre attenzione con il suo fascino perderà la sua attrattiva, una volta cementato. In questo movimento di cose corre il filo della allegoria della vanità. Allora, conserviamo il valore, ci aiuterà, anche economicamente».
Magnifico: parli di conservazione dopo aver detto e scritto di rivolta... «Sembra così, ma non è vero. Il nemico è sempre il potere, è lui che pretende di manipolare a suo piacimento il territorio per alimentare i suoi processi di autoconferma. Distruggere fa parte dei suoi modi d’essere, anzi la morte, anche dell’ambiente, rientra nel suo planning».
Va bene, ti riconosco. È la stessa barricata sulla quale lottavi tanti anni fa quando scrivevi, con Coggiola, i testi del rivoluzionario «Io ci ragiono e canto» per Fo. Ma forse oggi la realtà è meno ospitale per questi mondi di idee bellissime...«Ancora una volta, mi basta, ci basterebbe la Costituzione. L’articolo nove della Carta fa esplicito riferimento a questi casi quando afferma: “la Repubblica tutela il paesaggio storico e artistico della Nazione”. Ma chi darà ai Comuni la forza morale di rispettare questo mandato mentre mancheranno perfino i soldi per i servizi sociali? Facciamo quello che possiamo, così con la nostra associazione “Ernesto Ragazzoni” in difesa del lago d’Orta. Il 27 agosto inauguriamo una mostra sui mostri, gli ecomostri che già ci sono, 26 pannelli esposti in centro a Orta, foto e didascalie. Devo dire che non siamo inutili: siamo riusciti a spuntarla più di qualche volta. È bene che la gente lo sappia: se si muove, per la speculazione è tanto più dura, difendiamo il territorio».
Già sentita: non è la Lega che sta facendo di questo slogan la sua piattaforma politica? «La Lega... siamo su mondi diversi. Quando i figli del Carroccio neppure sapevano di esistere, io e altri con me, sostenevamo l’importanza decisiva dei dialetti. Ci rifiutavamo anche di intenderli come tali, erano e sono vere lingue. Ma pensare di inserirli come materia di studio nelle scuole significa non aver capito niente di niente. Dialetto è libertà, è strada, è casa, militarizzarlo in una scuola è come voler mettere le mutande a uno che da millenni se la cava benissimo senza. Una idiozia. Poi, all’università, e in certi modi, si può parlarne...»
Zaia, il governatore del Veneto, sostiene che la Lega promuove la complessità anche del linguaggio... «Beato chi ci crede, ma ci crede nessuno: vanno forte proprio perché garantiscono formule semplificatrici, riduzioniste. La complessità sta nella loro inconfessata volontà di potenza, non nel breviario che adottano per conquistare potere. Ma ogni tanto, capita che si schierino dalla parte giusta, difendendo l’ambiente e le sue caratteristiche. Capita. Strano ma vero, benché la nostra associazione sia davvero non partitica, non c’è neppure un leghista adesso che mi ci fai pensare».
CESARE BERMANI
Lo storico che ha ascoltato la ricchezza delle fonti oraliStudioso delle fonti orali, è tra i fondatori dell’etnomusicologia italiana. Nato a Novara, è stato segretario della Fgci fine anni 50. Dal 62 partecipa alle ricerche di Gianni Bosio e Roberto Leydi insieme a Luciano Berio. Ha lavorato anche a testi teatrali come «Ci ragiono e canto», regia di Dario Fo. Nel 65 ha cofondato l’Istituto De Martino, il più importante archivio italiano di testimonianze sonore del mondo operaio e popolare.
Le modifiche introdotte nella manovra dividono enti e sovrintendenze sull'efficacia della riforma.
Sono entrate in vigore il 3 agosto, insieme alle altre norme della manovra 2011-2012, le modifiche alla legge 241/1990 con la riforma (l'ennesima) della conferenza di servizi. L'obiettivo è evitare che l'assenza di qualche amministrazione (compresi i soprintendenti, esclusa la Via) o un parere incompleto delle Pa di tutela possa impedire la chiusura dell'iter. Molti i consensi a questa riforma dai soggetti responsabili di Regioni e provveditorati alle Opere pubbliche. I soprintendenti però sottolineano: paradossalmente i nostri poteri potrebbero rafforzarsi. E il ministero delle lnfrastrutture frena: sarà difficile scavalcare i Beni culturali. La stessa storia della 241 è d'altra parte lastricata di riforme mancate. Sul fascicolo «Commenti e Norme» il testo della manovra 2011-12 con le note agli articoli interessanti per l'edilizia, il tabellone di sintesi e i commenti.
La conferenza di servizi sembra a volte assomigliare a Scilla, il mostro mitologico a più teste che blocca insieme a Cariddi il passaggio alle navi di Ulisse. Appena si taglia una testa, si rimuove un ostacolo che frena la chiusura dell'iter, ne spunta un altro.
POTERI DI VETO, LA STORIA.
Prendiamo l'esempio del potere di veto delle singole amministrazioni. La conferenza di servizi nacque nel 1990 con il principio dell'unanimità. Nel 2000 si cambia, consentendo di chiudere la conferenza anche «a maggioranza». Per : 1) il Consiglio di Stato aveva già chiarito nel 1997 che alle opere di interesse statale si deve applicare il Dpr 383/1994, che continua a stabilire il principio dell'unanimità; 2) non si sa come calcolare i voti (numero di enti? numero di abitanti?), e dunque la norma resta inattuata. Nel 2005 ci si riprova, stabilendo che la conferenza sì chiude sulla base delle «posizioni prevalenti». Tuttavia: 1) continua a essere non chiarito il metodo di calcolo delle posizioni prevalenti ; 2) la giurisprudenza va sostenendo che la conferenza non può superare il dissenso di un Comune sulla localizzazione urbanistica di un'opera; 3) restano escluse le opere di competenza statale. Nel 2009, infine, modificando il Dpr 383/1994, si estende la norma sulla chiusura a posizioni prevalenti anche alle opere di interesse statale. Ma che succede? Si rafforza di fatto il potere delle Regioni, che finiscono quasi sempre per spalleggiare i Comuni.
NOVITÀ 2009. UN BILANCIO
A spiegare il paradosso è uno dei principali responsabili di conferenze di servizi al ministero delle Infrastrutture, che non vuole essere citato: «La chiusura a posizione prevalente racconta l'abbiamo applicata subito, dopo la legge 28 gennaio 2009, n. 2. Mentre prima le conclusioni le tiravamo noi, ora la decisione va presa insieme alle Regioni, il cui ruolo si rafforza». L'intesa della Regione resta indispensabile infatti, scavalcabile solo con rinvio al Consiglio dei ministri. «Sono capitati spiega casi di dissenso, e li abbiamo superati con il concerto della Regione. Il potere di veto in teoria è sparito, ma in pratica le Regioni tendono a coprire le rivendicazioni dei Comuni». Poi resta il nodo della competenza dei Comuni nella localizzazione urbanistica di un'opera. «Non possiamo scavalcarla» ci dice ad esempio Silvano Vernizzi, direttore Infrastrutture della Regione Veneto, sub-commissario per la terza corsia A4 Mestre-Trieste. Che aggiunge: «Non abbiamo mai chiuso una conferenza a parere prevalente. Se serve una variante il Comune dissenziente non la fa, e poi non si può procedere. Se l'opera non è in legge obiettivo i Comuni di fatto continuano ad avere potere di veto. Molte nostre opere stradali sono bloccate per questo». «La localizzazione urbanistica spiegano però al Ministero per noi è scavalcabile. Sempre però d'intesa con la Regione». E così si rientra nel circolo Vizioso. Chi continua a credere, invece, nella riforma del 2009 è Autostrade per l'Italia: «E stata una novità per noi importantissima spiega Gennarino Tozzi, direttore Nuove opere che ha tolto il potere di veto agli enti locali e fa anche da deterrente nel moderare le loro richieste». «Nell'ultimo anno tuttavia racconta non ci sono capitati casi di dissenso».
L'ULTIMA RIFORMA
Le novità, contenute nella manovra (scheda qui sopra, testo e commenti su «Commenti e Norme») hanno soprattutto l'obiettivo di consentire di chiudere la conferenza anche se qualche ente è assente, o esprime pareri interlocutori. Sono in molti a sottolineare l'importanza della novità. «Sono innovazioni che aspettavamo da tempo» dice ad esempio Donato Carlea, provveditore alle Opere pubbliche Campania-Molise: «E molto frequente che ci siano assenze o pareri confusi in conferenza di servizi. Da parte di chi? Soprintendenze e assessorati regionali. Ora non avranno più alibi». D'accordo Mario Rossetti, direttore Infrastrutture Regione Lombardia: «Sì, capita di frequente che ci siano assenze, soprattutto da parte degli organismi statali di tutela. La norma dovrebbe superare queste inerzie». Sulla stessa linea Silvano Vernizzi: «Obbligheranno le soprintendenze a esprimersi, o altrimenti si potrà andare avanti. Capita di frequente che non si presentino». Ma i soprintendenti si difendono con il coltello fra i denti: «Siamo sommersi di conferenze di servizi racconta il sovrintendente ai Beni architettonici e paesistici della Lombardia, Alberto Artioli i Comuni la convocano anche per sistemare una roggia! Siamo sommersi di pratiche poi dalla norma in vigore dal gennaio, che ci obbliga a dare pareri vincolanti su tutte le pratiche paesistiche (anziché delegarle ai Comuni come in precedenza, ndr). Ma per ora reggiamo l'urto».
Ancora più agguerrito un sovrintendente donna di un'area a elevato valore architettonico paesistico (che non vuole essere citata): «Se qualcuno pensava che con quella norma avremmo allentato i controlli, beh è avvenuto il contrario: ora controlliamo tutto direttamente!». «C'è un abuso di conferenza di servizi, e spesso chi la convoca non rispetta i tempi di legge (15 giorni dalla convocazione), o manda tardi la documentazione, o la manda incompleta e illeggibile. Vorrà dire che anziché chiedere il rinvio per rispettare la legge manderemo il parere negativo per mancanza di documentazione. Anziché semplificarsi, le cose rischiano di complicarsi». «Tuttavia aggiunge la norma potrebbe anche essere positiva. Può essere vero che qualche mio collega non si esprime per non assumersi la responsabilità. Ora invece sarà costretto a farlo, e dunque il nostro controllo sarà più forte». Scettico sull impatto della norma anche il nostro dirigente al ministero delle Infrastrutture: «o i miei dubbi che si possa chiudere la conferenza senza il parere delle soprintendenze. C'è una tutela costituzionale, il rischio ricorsi sarebbe enorme».
Una manovra correttiva, quella approvata definitivamente con il voto di fiducia dalla Camera dei deputati, iniqua anche dal punto di vista ambientale, che tenta di rendere impotenti le amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente e del paesaggio e fornisce una serie di strumenti alle cricche e ai furbetti che vogliono depredare il territorio e contribuire ad imbruttire ancora di più il nostro Bel Paese: lo sostiene il WWF che aveva chiesto a Camera e Senato di cambiare le disposizioni più discutibili.
Sono almeno 6 i grimaldelli per i ladri di territorio segnalati dal WWF: i tagli ai parchi; l’accatastamento delle case fantasma, che rischia di aprire la porta al terzo condono edilizio; le conferenze di servizi con il silenzio-assenso mascherato anche per la pronuncia delle autorità ambientali; la messa all’angolo dei soprintendenti sulle autorizzazioni paesaggistiche; la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) e le Zone a burocrazia zero nel Mezzogiorno assediato dalle mafie che, azzerando i controlli, rischiano di amplificare i meccanismi, già esistenti, di anarchia territoriale.
Messi insieme fanno sì che con l’effetto-Manovra l’Italia diventi un Paese non solo meno ricco dal punto di vista economico-finanziario ma anche dal punto di vista ambientale.
Nello specifico, gli atti "contro natura" contenuti nel decreto legge 78/2010 prevedono:
Tagli ai parchi
Ammonta a circa 54 milioni di euro il finanziamento destinato prima della manovra ai 23 parchi nazionali e alle 13 riserve naturali dello Stato. Con il dimezzamento dei finanziamenti per gli enti vigilati dallo Stato gli enti parco non potranno presidiare più il territorio tutelato e garantire l’integrità a difesa della biodiversità dagli attentati degli speculatori e dei bracconieri. Il WWF Italia chiede nel primo provvedimento utile di reintegrare il finanziamento previsto per il 2010, come auspicato e richiesto dallo stesso Ministro Prestigiacomo.
Case fantasma
Sono 2.868.000, secondo l’ultimo censimento dell’Agenzia del Territorio le unità immobiliari non accatastate, e solo meno del 10% sarebbero in regola dal punto di vista urbanistico, ma il Governo non spiega cosa succederà a coloro che a fine anno, avendo compiuto un abuso sostanziale in violazione delle nome urbanistiche, accederanno, autodenunciandosi, alla sanatoria fiscale. Il meccanismo innescato dal Governo rischia di costringere l’autorità pubblica a concedere l’ennesimo condono edilizio annunciato. Il WWF chiede di chiarire che gli abusi non sono tollerati e che questi vengano abbattuti.
La museruola alla tutela
Se le amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente, della pubblica incolumità e della salute non rendono il proprio parere esplicito nei tempi ristretti delle conferenze dei servizi, tale silenzio sarà interpretato come tacito consenso ed i Soprintendenti, già impotenti da anni per i tagli del personale, dovranno fornire l’autorizzazione paesistica a comando. Per il WWF erano più che sufficienti le norme di semplificazione vigenti (legge n. 241/1990), a fronte delle necessità ineludibile di controllo e vigilanza sul territorio per tutelare adeguatamente i diritti alla salute e all’ambiente garantiti dalla Costituzione.
Mano libera sul territorio
Il passaggio dalla DIA - Dichiarazione di Inizio Attività, alla SCIA – Segnalazione Certificata di Inizio Attività consente al cittadino, eliminando anche il filtro della validazione di un professionista, di procedere in totale autonomia eludendo qualsiasi autorizzazione pubblica e, quindi, ogni controllo preventivo. Diventa quindi illusorio, visto lo stato dei controlli in Italia, verificare ex-post cosa sia realmente avvenuto (anche se sulla carta si escludono le aree vincolate). Ciò è valido anche per le Zone a burocrazia zero situate, tra l’altro, in un’area a rischio come il Mezzogiorno. Per questo il WWF ha sostenuto e sostiene che era più che sufficiente la DIA.
Oggi verrà presentato a Roma, alla stampa estera, il progetto Nuovo Paesaggio Italiano, ideato dal direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis e da Oliviero Toscani. Due paladini della difesa del paesaggio e anche critici molto aspri delle brutture e degli scempi compiuti negli ultimi anni anche in Toscana. Alla vigilia dell’evento romano, Settis ha spiegato al «Tirreno» il significato dell’iniziativa, ha accusato «una certa parte» della sinistra di aver venduto l’anima al cemento, ma nel contempo ha giudicato molto positivamente la svolta impressa dal presidente Enrico Rossi e dall’assessore Anna Marson.
Professor Settis, quale è il significato del progetto Nuovo Paesaggio italiano?
«La nostra iniziativa si propone di reagire ad un silenzio assordante sulla tutela del paesaggio italiano. Il nostro Bel Paese è purtroppo sempre di più devastato da brutture e devastazioni. Dalle Alpi alla Sicilia. Dobbiamo risvegliare le coscienze perché si ribellino al degrado. Bisogna impedire che da bello il nostro Paese diventi brutto».
Non c’è il rischio che la vostra iniziativa, partendo dalla Toscana, punti i riflettori su una regione che si è sempre battuta contro i condoni e che è sicuramente meno degradata di altri regioni italiane?
«Sia io, calabrese, che l’amico Oliviero Toscani, milanese, abbiamo scelto di vivere in Toscana perché questa è la regione più bella d’Italia. E’ vero che il paesaggio è più rovinato in altre regioni che in Toscana. E che il disastro ambientale appare più evidente in regioni come la Calabria, dove io sono nato, e il Veneto. Tuttavia negli ultimi dieci anni la situazione è cambiata, e in peggio, anche in Toscana. E proprio perché è una regione bella i guasti si vedono meglio e indignano di più».
Quali sono in Toscana i punti più critici del degrado, le zone più brutte e rovinate?
«La zona costiera e altre località di grande valore paesaggistico come Monticchiello. Che è diventato l’emblema di un degrado davvero profondo e preoccupante. La Val d’Orcia giustamente è stato riconosciuta come una zona di alto pregio ambientale dall’Unesco. Si è arrivati a costruire e vendere a Monticchiello villette a schiera con il bollino dell’Unesco. Davvero un’azione riprovevole, un vero e proprio mercimonio del paesaggio. E anche un capovolgimento della cultura toscana, che è sempre stata molto attenta alla tutela del paesaggio».
Lei è stato molto critico anche con San Vincenzo.
«Sì, lì come in altre zone della Val di Cornia, penso a Campiglia e a Venturina, si sono fatti troppi insediamenti di seconde case. E pensare che da anni la Val di Cornia è il migliore esempio in Italia di una felice gestione tra Comuni, Stato e Regione dei parchi archeologici. Anche per questo ci vorrebbe più attenzione urbanistica. Che senso ha continuare a costruire quando ci sono case invendute?».
Che cosa non condivide della politica urbanistica portata avanti dalla Regione Toscana e dai Comuni nell’ultimo decennio?
«La mia riflessione, lo premetto, è generale, non riguarda solo la nostra regione. L’articolo 9 della Costituzione dice che spetta allo Stato la tutela del paesaggio, ma lo Stato nel corso degli anni ha ceduto i propri poteri alle Regioni, le quali, a loro volta, li hanno affidati ai Comuni. Questo processo ha oggettivamente indebolito la tutela del paesaggio».
Colpa dei Comuni e voglia di centralismo statale?
«Non si tratta di questo. Anch’io un tempo ho coltivato l’illusione che il governo più vicino è ai cittadini e meglio è. Spesso purtroppo la vicinanza non rende il governo migliore. Per almeno tre motivi».
Il primo?
«Intanto perché un piccolo Comune non ha le competenze per tutelare il paesaggio. E inoltre più ci si avvicina ai cittadini e più forte è il rischio del voto di scambio elettorale in danno della tutela paesaggistica e urbanistica».
Terzo motivo?
«Con la legge Bucalossi si è concessa ai Comuni la possibilità di introitare gli oneri di urbanizzazione. Questi però dovevano essere destinati a costruire strade e i servizi inerenti i nuovi insediamenti abitativi. Ma poi, agli inizi degli anni Novanta, si è permesso ai Comuni di utilizzare questa fonte di entrate per qualsiasi scopo. Se con l’ultima manovra il governo Berlusconi taglia 15 miliardi alle Regioni, alle Province e ai Comuni è evidente che questi poi utilizzano in maniera indiscriminata il rubinetto degli oneri di urbanizzazione. Più si costruisce e più soldi arrivano nelle casse dei Comuni».
Come giudica il nuovo corso che il presidente Rossi e l’assessore Marson hanno impresso all’urbanistica della Toscana?
«In questo settore è la più bella notizia degli ultimi dieci anni. Finalmente abbiamo un presidente e un assessore di una Regione importante come la Toscana che dice: basta con il consumo del suolo, cerchiamo di consumare di meno e meglio. E di riqualificare ciò che c’è ed è degradato. Davvero una grande promessa. Dalla Toscana può partire la riscossa per il paesaggio italiano».
Il segretario regionale del Pd Andrea Manciulli ha detto, in un’intervista al «Tirreno»: le critiche dei professori e dei comitati puntano sulla conservazione dell’esistente mentre non guardano al futuro, non osano, non si sintonizzano con la contemporaneità. Cosa risponde?
«Che personalmente non ho mai pensato che la conservazione del paesaggio significhi metterlo nel freezer. Il paesaggio per sua natura si trasforma. Proprio quello toscano è la dimostrazione di quanto vi abbia inciso la mano e la cultura degli uomini nel corso dei secoli. Quindi sono d’accordo sull’esigenza di collegare la conservazione alla contemporaneità. Ma quello che noi denunciamo è altra cosa: è la mercificazione del paesaggio».
Lei sa che l’economia in Toscana reclama un ammodernamento delle infrastrutture. Come conciliare questa esigenza con la tutela del paesaggio?
«Guai a contrapporre le due esigenze. Se ad esempio per costruire l’Alta velocità si devono seccare i torrenti del Mugello, io non ci sto. Il problema è uno solo: per tenere insieme ambiente e nuove infrastrutture bisogna usare alte tecnologie e spendere di più. Ma i maggiori costi sono un investimento se si guarda al futuro del nostro Paese perché lo rendono moderno senza rovinare il suo vero tesoro rappresentato dal paesaggio».
Alcuni sindaci del Pd si sono ribellati alla Marson. Altri hanno chiesto le dimissioni del presidente del Parco dell’arcipelago toscano. Perché tanta irritazione?
«Perché una parte di quella che una volta era la sinistra, e oggi non lo è più, si è asservita al cemento e ai cementificatori».
Perché anche in Toscana si è costruito molto e molti ritengono anche male, almeno in certe zone? Perché da noi i grandi architetti non hanno poi tanta fortuna?
«La ragione è molto semplice: si è data la priorità al guadagno, al fare presto e male anziché bene e più lentamente. Se la Toscana è la regione più bella, nonostante tutto, è perché qui si è ragionato nel corso dei secoli seguendo valori come la bellezza, la lentezza, l’idea che il paesaggio è anche l’anima di un popolo. La nostra sfida è aiutare chi ci governa a recuperare questi valori perduti».