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L’appello a Romano Prodi pubblicato qui accanto ha raccolto, in pochi giorni, trecento firme, fra le quali quelle di Giulia Maria Crespi, Desideria Pasolini dall'Onda, Arturo Osio, Giuseppe Chiarante, soci fondatori, rispettivamente, del FAI, di Italia Nostra, del Wwf Italia, dell’associazione Bianchi Bandinelli. Hanno firmato anche alcuni ex ministri – Giovanna Melandri, Paolo Baratta, Willer Bordon, Edo Ronchi – illustri storici dell’arte, archeologi, sovrintendenti, urbanisti, studiosi e docenti universitari. Promotore dell’iniziativa è il giornalista e scrittore Vittorio Emiliani, già direttore del Messaggero e consigliere d’amministrazione della Rai, da sempre impegnato nella tutela del patrimonio artistico e ambientale del nostro paese, in prima linea contro i disastri del governo Berlusconi. L’11 novembre, Emiliani ha organizzato una giornata nazionale di protesta con la parola d’ordine: “Cultura, Beni Culturali e Ambiente, un’Italia da rifare”. L’obiettivo è il medesimo che persegue l’appello a Prodi: far capire agli italiani che nell’ultimo quadriennio è stata scardinata l’idea stessa della prevalenza dell’interesse pubblico, sostituita da una pioggia di condoni e di sanatorie, di mance e di premi a favore di chi, invece, persegue esclusivamente i propri interessi a danno del Paese e della sua storia.

L’altra idea scardinata dall’attuale governo e dai suoi lacché è quella della inalienabilità dei beni culturali e ambientali di proprietà pubblica. Un principio in vigore da secoli, fin dalle leggi medicee e pontificie; salvo eccezioni stabilite dagli organi di tutela. Il governo di centro destra ha operato invece un vero e proprio ribaltamento, tutti i beni culturali e ambientali pubblici diventano vendibili, salvo eccezioni. E’ la logica della Patrimonio Spa e simili, desinate a finanziare opere pubbliche devastanti, a fare cassa con pezzi di patrimonio pubblico.

Mi interessa qui soprattutto riprendere e sviluppare il riferimento dell’appello al progetto di legge sul governo del territorio in discussione al Senato. Per due ragioni: perché il territorio è il contenitore di ogni altro bene culturale e perciò il suo buon governo è determinante per la conservazione dell’intero patrimonio pubblico; e perché il disegno di legge è stato già approvato dalla Camera alla fine del giugno scorso ed è urgente mobilitarci per impedirne l’approvazione definitiva. Sapendo che il testo ha goduto del sostanziale consenso di importanti settori del centro sinistra (ben 32 deputati dell’opposizione hanno votato a favore), dell’Istituto nazionale di urbanistica (ormai collaterale al centro destra) e del fragoroso silenzio della stampa (salvo Liberazione e poche altre pregiate eccezioni). Il disegno di legge prende il nome dal suo principale artefice, Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia, negli anni passati assessore del comune di Milano, ispiratore dell’urbanistica contrattata “di rito ambrosiano”. A Milano le regole urbanistiche sono una lontana memoria. Progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti a uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate.

Con il disegno di legge Lupi, l’impostazione milanese viene estesa a tutta l’Italia. Mi fermo solo su tre funesti contenuti. La norma più grave è quella che cancella il principio stesso del governo pubblico del territorio, sostituendo gli atti cosiddetti “autoritativi”, vale a dire quelli propri del potere pubblico, con “atti negoziali”, assunti d’accordo con la proprietà immobiliare. La legge in discussione al Senato cancella poi gli standard urbanistici, che sono le quantità minime di spazi destinate a verde e a servizi garantite a tutti i cittadini, un vero e proprio diritto alla vivibilità, conquistato nell’ormai lontano 1968. E’ la stessa filosofia della devolution, i diritti possono non essere uguali per tutti. Se quasi ovunque nel Mezzogiorno adeguate disponibilità di verde pubblico e servizi sono ancora un miraggio, si provveda allora a ridurre gli obblighi di legge rispetto al centro nord. Il terzo insensato contenuto della proposta riguardal’indiscriminata incentivazione del consumo del suolo. Invece di imporre la preservazione di quanto resta di territorio non urbanizzato, come stanno facendo Francia, Germania, Inghilterra, e come richiede l’Unione europea, se ne legittima la dissipazione. Se avesse operato in passato una norma del genere, l’Appia Antica sarebbe come Casalpalocco, le colline di Bologna e di Firenze sarebbero come Posillipo, non ci sarebbe il parco delle Mura di Ferrara, non sarebbe stata salvata la costa della Maremma livornese, e così di seguito.

Pochissimi gli osservatori che hanno posto in relazione il disegno di legge Lupi con le spericolate avventure dei cosiddetti immobiliaristi che spadroneggiano nella finanza italiana, con la copertura delle autorità monetarie e politiche, e hanno contribuito a fare della rendita il motore dell’economia nazionale. La questione della rendita è strettamente legata all’urbanistica. Negli anni Sessanta e Settanta, l’impegno della cultura di sinistra per la riforma urbanistica era tutt’uno con il più generale impegno per contrastare, contenere e ridurre i privilegi della rendita immobiliare e finanziaria. Il patto fra i produttori, l’alleanza fra salario e profitto contro la rendita, furono efficacissime parole d’ordine e direzioni di marcia che nessuno ricorda. Fra i pochi soggetti che hanno messo in evidenza il primato, nell’Italia di oggi, della rendita sul profitto e sul salario, e della speculazione sull’impresa e sul lavoro, mi limito a ricordare il sito Eddyburg (di cui raccomando la quotidiana frequentazione).

Accanto alla rovinosa politica urbanistica del centro destra, l’appello ricorda le norme devastanti della legge delega sull’ambiente, l’umiliazione di tanta parte della dirigenza pubblica a causa del ricorso brutale allo spoil sytem, il paesaggio agrario ferito a morte, il disordine urbano, la crisi dei trasporti: ragioni tutte che impongono di “rifare l’Italia”, chiedendo a Romani Prodi di impegnarsi in tal senso. Concludo, riprendendo le conclusioni di Vittorio Emiliani alla giornata di protesta dell’11 novembre. In materia di beni culturali, le tesi esposte da Prodi in vista delle primarie non bastano, e la latitanza (o peggio) del centro sinistra nella vicenda della legge Lupi è molto preoccupante. Ci vuol altro: si tratta davvero di rifare, di ricostruire l’Italia migliore, che è stata ferita, macchiata, manomessa e violentata. Nel corpo e nelle leggi. Un compito di per sé immane, da realizzare anzitutto nelle coscienze, sperando che troppe di esse non siano state contagiate e corrotte. Un compito al quale le forze della cultura debbono dedicarsi con forza, ben al di là dei tagli alla Finanziaria, incalzando la politica e i politici sul piano strutturale, reclamando con forza di concorrere a un progetto Italia, a una sorta di New Deal della cultura e dell’arte da porre alla base della ripresa del nostro Paese, bello e infelice.

ROMA - Un attacco frontale contro l´energia dolce del vento. Una critica durissima ai magistrati, accusati di voler imporre per legge l´«osceno oltraggio» delle pale eoliche. Un´arringa a difesa delle ragioni del paesaggio contrapposte alle ragioni dell´ambiente. E´ questo il biglietto da visita con cui Carlo Ripa di Meana, ex commissario europeo all´Ambiente, ex ministro dell´Ambiente, si è presentato nella veste di presidente di Italia Nostra.

Nella conferenza stampa di debutto, Ripa di Meana ha glissato sul ribaltone che a fine giugno ha portato alle dimissioni in blocco della presidente di Italia Nostra Desideria Pasolini dall´Onda, del segretario Gaia Pallottino e di otto membri del consiglio direttivo tra cui nomi di spicco come Gianfranco Amendola, Vezio De Lucia e Arturo Osio. Ripa di Meana ha invitato la vecchia guardia a tornare al suo posto indicando un programma in tre punti: modifica del codice Urbani per bloccare la vendita di beni culturali pubblici; battaglia contro il Mose, le dighe mobili a Venezia; recupero di monumenti minori trascurati.

Ma inevitabilmente l´attenzione si è concentrata sul maggior elemento di novità legato all´elezione del nuovo presidente di Italia Nostra. Abbandonata la scena politica (dopo il periodo craxiano era stato portavoce dei Verdi), Carlo Ripa di Meana aveva dedicato tutte le sue energie alla guerra contro l´eolico fondando un´associazione ad hoc, il Comitato per il paesaggio. Ora questa bandiera viene issata sulla sede della più antica associazione ambientalista italiana.

Anche la precedente gestione di Italia Nostra era stata critica nei confronti dell´eolico, arrivando a uno scontro aperto con la Legambiente, più attenta allo sviluppo delle rinnovabili. Ma il protocollo d´intesa firmato dai produttori dell´eolico e dal Wwf a garanzia di un basso impatto ambientale e paesaggistico degli impianti aveva aperto le porte a un ampio accordo per una realizzazione corretta delle centrali a vento.

Ora il quadro cambia. Ripa di Meana ha optato per lo scontro diretto con il Consiglio di Stato colpevole di aver affermato «senza mezzi termini che, dato che l´Italia deve conformarsi al protocollo di Kyoto, i vincoli paesaggistici cedono di fronte ai programmi d´installazione di torri eoliche». Secondo Ripa di Meana, queste sentenze sono frutto di «clamorosi salti logici» e costituiscono un precedente di una «gravità enorme»: «Se non si interviene con una norma ad hoc, è assai facile che nel nostro paese ci si troverà di fronte a un´opzione eolica imposta per sentenza dai giudici, non dalla volontà popolare». Il che «a memoria d´uomo, rappresenterà il più grave vulnus che mai sia stato inferto alla tutela costituzionale del paesaggio voluta a chiare lettere dall´articolo 9 della Costituzione».

Resta da vedere se quest´impostazione che fa dell´eolico il nemico pubblico numero uno troverà un consenso maggioritario all´interno dell´associazione chiamata tra pochi mesi a un congresso per eleggere il nuovo presidente. Il dissenso espresso nei giorni scorsi da trenta sezioni tra le più attive lascia pensare che la battaglia sarà vivace.

La Camera dei Deputati si appresta a votare la riforma del governo del territorio, nel testo approvato dalla VIII commissione parlamentare. Il testo, in gran parte dovuto al presidente della commissione on. Lupi, sopprime il principio stesso del governo pubblico del territorio, che rappresenta una della principali conquiste del pensiero liberale e accomuna tutti i paesi sviluppati, e cancella i risultati di importanti conquiste per la civiltà e la vivibilità della condizione urbana e la tutela del territorio ottenute nell’ultimo mezzo secolo dalle forze sociali e politiche e dalla cultura italiana.

Nella legge si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. La relazione di accompagnamento della legge specifica che i soggetti interessati non si identificano – come sarebbe auspicabile - con la pluralità dei cittadini che hanno diritto ad avere una ambiente urbano vivibile e salubre, ma si identificano invece con la ristretta cerchia degli operatori economici. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. I luoghi della vita comune, le città e il territorio vengono affidati alle convenienze del mercato.

Nella legge si sopprime l’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle esigenze di verde, servizi collettivi (scuole, sanità, sport, cultura, ricreazione) e spazi di vita comuni per i cittadini, ottenuto decenni fa grazie a un impegno massiccio delle associazioni culturali, delle organizzazioni sindacali, del movimento associativo e di quello femminile, delle forze politiche attente alle esigenze della società. Gli “standard urbanistici” sono infatti sostituiti dalla raccomandazione di “garantire comunque un livello minimo” di attrezzature e servizi, “anche con il concorso di soggetti privati”. L’obbligo del rispetto quantitativo degli standard urbanistici è già rispettato nei comuni dove la corretta pianificazione urbanistica è un risultato consolidato, ma è un traguardo ancora molto lontano in numerosissime città italiane.

Nella legge si esclude la tutela del paesaggio e dei beni culturali dagli impegni della pianificazione ordinaria delle città e del territorio. Contraddicendo una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria, contraddicendo gli indirizzi culturali e legislativi che dalle leggi del 1939 e del 1942 avevano condotto alla “legge Galasso” e alle successive leggi regionali, paesaggio e trasformazioni territoriali sono divisi: affidati a leggi diverse, a uomini diversi, a strumenti diversi. Non c’è dubbio a chi spetterà la parola in caso di contrasti: non certo a chi rappresenta i musei e il bel Paese, ma a chi investe, occupa, trasforma, agli “energumeni del cemento armato”, pubblico e privato.

Ci siamo limitati a sottolineare alcuni aspetti più negativi della legge, che ci sembrano sufficienti per esprimere un giudizio preoccupato e severo: preoccupato per gli effetti, severo nei confronti non solo di chi l’ha proposta, ma anche di chi non l’ha contrastata.

E’ grave il silenzio della stampa.

E’ grave l’atteggiamento minimalista dei gruppi parlamentari dell’opposizione che, nel migliore dei casi, si sono limitati a un’azione di piccoli emendamenti e di espressione di parziale dissenso a una linea radicalmente eversiva.

E’ grave il silenzio dei partiti politici, che si presentano di nuovo alle elezioni senza aver espresso con chiarezza il loro orientamento (anzi, le loro decisioni) su un argomento così rilevante per il futuro del paese, per le condizioni di vita dei suoi abitanti, per la sorte stessa della democrazia.

Roma, 28 gennaio 2005

Tutte le adesioni raccolte

Nel patrimonio, in sé straordinario, del nostro Paese un grande capitale era sino a ieri costituito dal “palinsesto” che legava il paesaggio, per lo più agrario, e i centri storici, grandi, medi, piccoli e minimi. Ben 22.000, secondo una indagine Istat. Di essi almeno un migliaio di straordinaria bellezza. Tanti di origine etrusca, magnogreca o romana. Purtroppo questo capitale lo abbiamo in parte dissipato nel Novecento e continuiamo ad impoverirlo. Nonostante che la popolazione italiana cresca ormai pochissimo. Nonostante che lo stock di abitazioni sia enormemente aumentato (oltre 120 milioni di vani), sia pure nel modo più squilibrato. Nonostante che gli alloggi vuoti o precariamente utilizzati siano centinaia e centinaia di migliaia (e non si tratta soltanto di seconde o terze case). Assistiamo così ad una duplice dissipazione. Da una parte, constatiamo di continuo che le città edificate fino agli anni 20-30 del Novecento sono sempre meno abitate in modo stabile, con numerosi vuoti o con utilizzazioni saltuarie, magari molto redditizie come le camere o i letti dati in affitto a studenti universitari fuori sede. Dall’altra, tocchiamo con mano una crescita continua di nuovi quartieri, di centri commerciali, di multisala, di vere e proprie “cattedrali dell’iperconsumo”, che condannano gli italiani a spostarsi di continuo in automobile e che agiscono pesantemente sulle stesse città vecchie che così perdono di continuo negozi (alimentari anzitutto), sale cinematografiche, e altro. Da un lato, quartieri storici o soltanto vecchi di un’ottantina d’anni, provvisti di tutti i servizi primari e secondari, costati somme considerevolissime ai nostri padri, nonni, o avi, risultano sempre meno utilizzati. Dall’altro i Comuni devono svenarsi per portare gli stessi servizi, primari e secondari, ai nuovi insediamenti, residenziali e terziari. In tal modo – nonostante la sostanziale assenza di crescita demografica – consumiamo incessantemente sempre nuovi terreni sino a ieri a coltura, oppure a bosco, a pascolo, comunque non edificati né infrastrutturati.

Questi gli argomenti di fondo di cui ci occuperemo stamane. I casi che per la mia parte voglio proporvi fanno parte di una “campionatura”, lo ammetto, non rigorosamente scientifica. Nel senso che vi porterò una serie di esempi, fra loro piuttosto simili, costituiti da città italiane di diversa grandezza, del Nord, del Centro e del Sud, dove a fatica – per lo più con l’aiuto di amici, di colleghi giornalisti, di bravi cronisti – sono riuscito a raccogliere dati statistici utili sui centri storici e sulla evoluzione in essi della popolazione.

Consentitemi di partire da un caso-limite di spopolamento, quello di Urbino, la città alla quale ho dedicato il mio ultimo libro “L’enigma di Urbino. La città scomparsa” uscito da Aragno. In quella splendida e conservata capitale del Rinascimento il calo dei residenti entro le mura è uno dei più drammatici, pari all'86 per cento rispetto al 1951, con la punta incredibile del 95 per cento nel pieno del Poggio (uno dei due colli su cui è adagiata la città), cioè nel quartiere del Duomo. Dei 350 residenti del dopoguerra, da me ricontati, assieme ad altri testimoni diretti, si è precipitati a 16 abitanti appena. Il quartiere è occupato da Istituti e istituzioni universitarie (e per i grandi palazzi era pressoché inevitabile) e da "pollai" per studenti creati dagli affittacamere. Le ultime notizie sono queste : alcuni contenitori urbinati sarebbero stati di recente acquistati da investitori della Riviera romagnola in cerca di investimenti di “rapina” ad alto reddito. Nelle notti d’inverno, il giovedì per l’esattezza, la città ducale è stata a lungo prescelta quale meta di scorribande in base al richiamo di gruppo (o di branco) : Urbino, la Riccione d’inverno. Tutto il Comune collinare e montano di Urbino perde popolazione, ma in proporzioni decisamente inferiori : 8.000 abitanti in meno rispetto ai 23.000 del dopoguerra, cioè – 34 per cento contro l’86 per cento in meno della città murata. Nonostante questo calo complessivo, la periferia urbinate, per contro, si è molto estesa. Anche lì, dunque, Villettopoli avanza. Con un “consumo” di terreni agricoli e boschivi, con una usura del paesaggio che sta diventando impressionante. Purtroppo una legge-quadro sui centri storici non c’è, essendo rimasto allo stato di proposta il disegno di legge presentato dall’allora ministro Veltroni ai tempi del governo Prodi. Nulla di organico è stato realizzato, nel frattempo, dalle Regioni : né per i centri storici né per una gestione finalmente attenta dei consumi di suoli agricoli o comunque non edificati (pur avendo le Regioni delega assai ampia nelle materie dell’urbanistica, dell’ambiente e dell’agricoltura). Un quadro normativo così vuoto da risultare francamente desolante.

Passando alla analisi nazionale promessa, mi corre l’obbligo di rimarcare fin dall’inizio che da un ventennio circa è in atto un declino complessivo di tante nostre città, anche di quelle sempre in testa nelle classifiche del “buon vivere”. Quasi tutti i capoluoghi di provincia, quasi tutte le città di un certo peso perdono abitanti. Perché la natalità è drasticamente caduta. Perché continuano le espulsioni dovute ai meccanismi speculativi di un mercato sovente “in nero”, senza regole (la questione-casa è tornata ad essere una emergenza), meccanismi ora accelerati dai grandi processi di cartolarizzazione, anche di case di proprietà comunale. Perché le giovani coppie sono forzate dal caro-alloggi ad emigrare verso Comuni della “cintura” metropolitana e anche oltre. Fenomeni di spopolamento che nei centri storici risultano tuttavia decisamente più marcati, assumendovi talora le dimensioni di una vera, inarrestabile emorragia.

Con alcune relative eccezioni. Nel centro storico di Genova, antica residenza di marittimi e di portuali oltre che di famiglie patrizie, lo spopolamento è stato di certo molto forte in passato, in parallelo peraltro col rattrappimento demografico dell’intero Comune (sceso da oltre 800 mila a poco più di 600 mila residenti dagli anni ’50 alla fine del secolo scorso), ma nel ventennio 1981-2000 quel calo è rallentato : le tre Circoscrizioni storiche, Pré, Maddalena e Molo, hanno perduto complessivamente 4.245 residenti su 27.461 (- 15,45%). Ne ha perduti soprattutto il quartiere del Molo (- 2.715, cioè - 21,7 %). Spopolamento più limitato quindi, specie nel quartiere, tradizionalmente popolare, di Pré (-10,06 %). Dopo tanti anni di progetti si sono di recente innescati processi di recupero e di riuso, pianificati dal Comune, che poggiano sul Porto Vecchio divenuto sede di Facoltà universitarie, dell'Acquario, di ristoranti, ecc. Un pezzo di città. Si può quindi notare come il complesso dei tre rioni storici registri, nell’ultimo decennio, pesino un lieve incremento delle residenze, mentre, parallelamente, continua in modo marcato il calo di popolazione del Comune e della stessa Provincia.

Poco sopra Genova, ancora in Lombardia, c’è Voghera, una città media dell’Italia media, che ha subito essa pure una vistosa diminuzione di residenze nel centro storico ( - 34,19 per cento nell’ultimo ventennio contro un calo demografico dell’11 per cento nell’intero Comune). Questo centro del Nord, di reddito medioalto, con un elevato tenore di vita, gravitante sull’area di Milano, ha conquistato un primato negativo :per parecchi mesi non ha avuto in città un solo cinematografo regolarmente aperto, vale a dire a portata di piede, di bicicletta, o di bus, e non, forzatamente, di auto. Tutti resi anti-economici dalla multisala inaugurata nel vicino Comune di Montebello della Battaglia, accanto ad uno dei primi ipermercati. Oggi è stata recuperata per una programmazione non quotidiana una sala di proprietà della locale Società Operaia di Mutuo Soccorso. L’unica disponibile per chi non ha o non vuole usare l’automobile anche per andare al cinema, e non si rassegna alla sola televisione. Un caso evidente di come centri commerciali, multisala e strutture consimili determinino dall’esterno la vita stessa dei vecchi centri abitati, spostando flussi di traffico e abitudini, nei consumi e nell’uso del tempo libero, concorrendo a togliere vita sociale alle città tradizionali.

Processi analoghi a quelli verificati a Urbino, anche se, mediamente, con patologie meno gravi, sono riscontrabili in tutte le città universitarie. Prendiamo il caso di Perugia che ha due poli universitari : quello per studenti italiani e l’altro per studenti stranieri. Una elevata quota di iscritti fuori sede che ha trasformato buona parte della città, in specie quella antica, in una sorta di dormitorio per studenti, in una costellazione di letti in affitto. A Perugia il crollo demografico del centro storico si è verificato in modo netto fra 1971 e 1981 con oltre 5.000 residenti in meno, proprio mentre il Comune cresceva ancora, complessivamente, e la stessa Zona urbana manteneva i propri abitanti. Nella città murata il calo è proseguito, a goccia.

Altri centri, divenuti di recente sedi universitarie, hanno cominciato a fissare un "tetto" massimo agli iscritti : per esempio, Cesena dove il numero chiuso per le facoltà distaccate dall’Ateneo bolognese è stato posto a 5.000 iscritti. Nella città romagnola, anni fa, venne restaurato e recuperato in pieno centro storico il quartiere popolare della Valdoca che, con grande piacere, ho visto mesi fa, a tarda sera, con tante finestre illuminate. Qui si ha ben presente che il piano Fanti-Cervellati attuato nel capoluogo emiliano, a partire dal 1970, per il recupero e il riuso in affitto di numerosi edifici minori (e quindi abitati da ceti poveri) venne insabbiato proprio dalla lobby potente degli affittacamere e dei bottegai. Vicino a Cesena, sul mare, “tiene” abbastanza, per esempio, il borgo marittimo di Cesenatico, ancora fittamente abitato da famiglie di marinai, quindi con una sua forte identità sociale e culturale che gli ha consentito di resistere, in parte, alla “colonizzazione” turistica stagionale.

Sempre in Romagna, Forlì rappresenta una delle rare eccezioni alla regola, quasi costante, del continuo, anche se oggi più ridotto, svuotamento dei quartieri storici. Qui l’emorragia demografica si è avuta nel ventennio 1971-1991. Poi i residenti nella città antica si sono stabilizzati poco sopra quota 10.000 per salire di nuovo verso quota 11.000 nell’anno passato. Anche in questa città le facoltà distaccate da Bologna si sono radicate bene, soprattutto in centro, con circa 10.000 iscritti, provocando tuttavia problemi non lievi di rincaro di affitti e di alloggi.

Ma questo stabilizzarsi della popolazione forlivese in zona storica rappresenta davvero una eccezione. Succede infatti tutto il contrario a Viterbo, città dove l’insediamento universitario è ancora recente, autonomo e consolidato. Qui i residenti degli antichi quartieri, dopo aver “tenuto” per anni, sono letteralmente crollati nel decennio 1990-2000 : da 19.000 a 10.000. Oggi, ufficiosamente, si parla addirittura (cifra non verificata) di appena 7.000 abitatori. Una rotta. E il degrado avanza, con pub, bar, locali rumorosi. Soltanto di recente l’amministrazione comunale ha deciso peraltro di limitare, per esempio, il traffico veicolare entro le mura ponendo un primo argine al degrado. Ma vi sono strade, vicoli e piazzette in cui i residenti si contano sulle dita di una mano o poco più.

Viterbo ha nella sua provincia, un piccolo ma efficace modello al quale ispirarsi : si tratta del Comune di Bassano in Teverina (VT) dove l’allora sindaco Ugo Sposetti, senatore Ds, oggi tesoriere di quel partito, prese ad esempio, molti anni dopo, il piano Cervallati e lo attuò nel suo centro storico medioevale, quasi integralmente abbandonato dopo un terremoto : investì infatti nel risanamento di 31 alloggi i fondi ricevuti per l’edilizia economica e popolare, mentre altri 45 appartamenti furono poi recuperati dall’iniziativa privata. Altri stanziamenti pubblici sono stati impegnati nel consolidamento e nel risanamento del borgo medioevale che consta in tutto di circa 300 alloggi e che è tornato a vivere senza diventare una Disneyland per ricchi. Gli alloggi pubblici sono stati assegnati in affitto secondo rigorosi criteri sociali. Mi risulta che, con un piano meno ampio, un’esperienza analoga stia promuovendo il vicino Comune di Ischia di Castro (VT).

A Roma dedicherà la propria relazione, subito dopo la mia, Paolo Berdini. Posso soltanto anticipare che essa confermerà il dato di uno spopolamento mediamente molto elevato, che risale ad anni lontani e che tuttavia non sembra volersi mai arrestare, ponendo questioni assai spinose.

Nel Sud lo spopolamento è risultato in alcuni centri pressoché totale, fino ad una rioccupazione "storica", dopo molti secoli e nel modo più precario, da parte di immigrati arabi, maghrebini. E’ accaduto anche a Palermo, nella Kalsa. Sulle Madonie centri storici tradizionali come Gangi si stanno letteralmente svuotando.

A Lecce, città universitaria da decenni, il periodo di massimo svuotamento dei rioni storici è stato quello fra il 1971 e il 1981, con quasi 13.000 residenti in meno (- 64 per cento). Il deperimento sta proseguendo e tuttavia è consistito soltanto in un migliaio di residenti in meno negli anni 80 e di una settantina appena nel decennio successivo.

A Taranto la situazione è assai più compromessa. Anche perché il piano di restauro della antica “isola dei pescatori”, elaborato con intelligenza e competenza da Franco Blandino alla fine degli anni ’80 (sul modello Bologna), aveva dato risultati ammirevoli. Purtroppo mancava in loco una cultura specifica ; era venuto meno il legame affettivo fra gli antichi abitanti e il loro antico centro di residenza. Difatti il ripopolamento di quella zona abbandonata da molti anni era subito risultato problematico, a partire da una equa riassegnazione degli.alloggi recuperati. Certo nessuno poteva attendersi il vero e proprio crollo di popolazione, la fuga di massa registrata invece nell’ultimo periodo (- 78,33 per cento nel trentennio 1971-2001, nonostante il piano di risanamento e la reimmissione di abitanti nelle case splendidamente risanate).

I centri storici, i rioni antichi diventano per lo più o pied-à-terre per ceti abbienti, magari per stranieri colti e intelligenti (si pensi alla Toscana, ma anche all’Umbria e, in parte, alle Marche), ma, ancor più, sedi di uffici, di banche, di assicurazioni, di studi professionali, vivendo, anche di traffico veicolare, durante il giorno e “morendo” letteralmente quando scende la sera. Salvo trasformarsi, di notte, in un rumoroso “divertimentificio” che irrita e, alla fine, scaccia i pochi residenti superstiti rimasti legati a quelle vecchie pietre e che la mattina dopo deve lavorare, o comunque vivere ad orari normali. Un conflitto che si verifica dovunque, specie nelle città universitarie. In Italia ma anche in giro per l’Europa. E insieme agli abitanti se ne vanno i negozi di alimentari, gli artigiani di servizio, le scuole e altri servizi essenziali. Al loro posto subentrano pizze a taglio, negozietti di souvenirs, negozi di “stracciaroli” spesso effimeri, bar e pub che nascono e muoiono in modo sospetto, sovente luogo di spaccio.

A Firenze – secondo una inchiesta condotta da Francesco Erbani per “Repubblica” e comparsa il 20 novembre 2004 – nell’ultimo decennio le residenze, già molto diradate, sono diminuite, in centro, di un altro 12 per cento. Nel capoluogo toscano, divenuto capitale, con Venezia, del turismo di massa, denuncia il prof. Manlio Marchetta, professore di Urbanistica all’Università, la quota di centro storico destinata ad abitazione stabile era ancora pari al 30 per cento nel 1987, mentre ora è precipitata al 10-15 per cento. “Per il centro storico”, denuncia lo stesso docente, “non esiste un piano specifico, nonostante lo prescriva una legge regionale”.

Il grido di allarme che abbiamo voluto lanciare raccontando in sintesi alcune vicende esemplari, dalla desertificata Urbino alla non meno spopolata Taranto, riguarda ormai tutta Italia. Il vero enigma è come mai un popolo evoluto dissipi contemporaneamente due patrimoni straordinari : i suoi centri storici, le sua città antiche (anche le meglio conservate) e la campagna circostante, l’ambiente, il paesaggio. Tanto che fra città e campagna spesso non c’è più alcuna interruzione : il continuum cemento+asfalto risulta terribile. L’ultima volta che sono sceso in aereo su Venezia, sono rimasto scioccato vedendo come fra Mestre, Treviso e Padova non ci sia più campagna, come fra centri abitati, fabbriche, centri commerciali e altri centri abitati, altre fabbriche, altri centri commerciali non ci sia più la benché minima interruzione. Il continuum di asfalto e cemento è impressionante. Credevamo che il fenomeno fosse soprattutto meridionale e invece dobbiamo renderci conto del fatto che esso costituisce ormai un’autentica emergenza nazionale. In una Italia che sull’Appennino è da anni un deserto, per centinaia e centinaia di chilometri, e che in pianura o sulle coste è ormai soltanto cemento & asfalto. Del resto, nel solo ventennio 1961-81 hanno cambiato destinazione più aree agricole di quanto non sia avvenuto nei duemila anni precedenti. In generale, la superficie agricola e forestale è scesa, nell’intero Paese, dai 30 milioni di ettari del 1950 a meno di 20 milioni di ettari nel 2001, diminuendo di oltre un terzo.

Secondo il Wwf, ogni anno dai 50.000 ai 100.000 ettari vengono sottratti al patrimonio agricolo e boschivo per essere ricoperti di cemento e di asfalto. Nell’arco di un ventennio (nella migliore delle ipotesi) continuiamo a perdere dunque tanta buona terra, agricola e forestale, per una superficie pari a quella della Puglia. Tutto ciò mentre la popolazione italiana rimane, nel complesso, quasi ferma, o aumenta di poco. Le città perdono residenti che si spargono nei piccoli centri o nelle campagne. La diffusione di mega-centri commerciali e di multisala cinematografiche nelle periferie urbane accelera il processo di svuotamento delle città provocando in esse, soprattutto nei quartieri centrali, la chiusura a catena di esercizi commerciali e di sale cinematografiche. I Comuni sono spiazzati, o si lasciano spiazzare, da questi sviluppi che hanno, in parte, rinunciato a controllare, dovendo pertanto inseguire Villettopoli, Fabbricopoli, Commerciopoli, Filmopoli e naturalmente costruire altre arterie stradali e potenziare quelle esistenti poiché la grande massa degli spostamenti avviene esclusivamente in automobile. Non a caso la densità auto/abitanti è giunta (record europeo) nelle aree metropolitane a 1 vettura ogni 1,50 residenti, bambini inclusi. Sono fenomeni che vanno per conto proprio, in modo dirompente, svuotando la pianificazione urbanistica (del resto sforacchiata da continue varianti) e invadendo una campagna sino a ieri verdeggiante, distruggendo velocemente e per sempre uno stock sensazionale di beni primari (terra coltivata, boschi, pascoli, acque di falda e di superficie, ecc.) o comunque deteriorandolo in profondità. Tutto ciò in un Paese che è prevalentemente di collina e di montagna e che sempre più appare per una parte semideserto o deserto e per l’altra congestionato, superaffollato. Fino a ieri pensavamo che questa stridente contraddizione riguardasse da una parte le zone collinari e montane e dall’altra le aree di pianura e le coste. Oggi, invece, ci rendiamo conto che la contrapposizione fra aree svuotate e aree congestionate riguarda anche, da una parte i centri storici o le città soltanto vecchie e dall’altra le zone metropolitane di nuova edificazione. Con meccanismi assolutamente folli che bisognerà pure ingegnarsi di fermare e di razionalizzare, prima che finiscano per divorare, letteralmente, il Paese e il suo patrimonio (che è anche sociale, che è anche economico) di bellezza paesaggistica, storico-artistica, naturalistica. In altri Paesi, negli stessi vastissimi Stati Uniti, in genere nel mondo anglosassone, è da tempo aperto il dibattito sull’“urban sprawl”, sulle città “disordinate” (o, più letteralmente, “stravaccate”). In Italia, Paese di spazi ben più ridotti, con un reticolo di centri abitati prezioso che risale agli Etruschi, ai Greci e ai Romani (ben 2.684 Comuni hanno questa origine, mentre altri 4.164 risultano fondati fra l’800 dopo Cristo e il 1300), in Italia, dicevo, lo stesso dibattito appare molto più flebile e arretrato. E invece, proprio nel Bel Paese o in quanto resta di esso, non possiamo e non dobbiamo assolutamente rassegnarci a tanta rovina, frutto della più incolta speculazione, di una finta modernità, in realtà tutta affaristica, ma, qualche volta, frutto anche di pura imbecillità, comunque di una visione dissipatrice di quel patrimonio di tutti rappresentato dall’ambiente e dalla storia.

Un vivo ringraziamento va agli amici che mi hanno validamente aiutato nella raccolta dei dati e della documentazione sui centri storici in giro per l’Italia. In particolare ringrazio Bruno Gabrielli per Genova, Enrico Marelli per Voghera, Marina Foschi per Forlì, Giordano Conti per Cesena, Marta Zani per Cesenatico, Marcella Calzolai per Perugia, Arnaldo Sassi per Viterbo, Ugo Sposetti per Bassano in Teverina, Arturo Guastella per Lecce e Taranto, Teresa Cannarozzo per Gangi e altri Comuni delle Madonìe.

Allo stesso convegno, la relazione di Paolo Berdini su Roma

Quelli che viviamo sono i peggiori anni per la cultura e per i suoi beni. Il governo Berlusconi, stavolta per mano del fresco ministro della Funzione pubblica, Mario Baccini, si accinge a stabilire, per regolamento, che, per fare lavori impegnativi anche in un edificio vincolato, basterà la dichiarazione d’inizio attività. Se la Soprintendenza competente non risponderà in tempo, per ragioni anche gravi (perché in quel momento i suoi sparuti funzionari sono in altre faccende immersi), scatterà il silenzio/assenso. Meccanismo che stravolge i criteri stessi della tutela: un vincolo architettonico, storico-artistico o paesistico non viene apposto per sfizio bensì per ragioni che esprimono un interesse generale; per apporlo ci son voluti magari anni e in poco tempo i suoi effetti vengono nullificati.

Diventano “carta straccia”, come ha ben detto su «Repubblica» Salvatore Settis, uno specialista che, da qualche tempo, sta denunciando la politica distruttiva di questo governo e dei suoi ministri, dopo essere stato fra gli esperti e i presentatori del Codice Urbani. Già, e il ministro Urbani? Ha detto subito che la norma Baccini non può venire applicata ai Beni culturali. E a cos’altro, di grazia? La dichiarazione d’inizio attività per gli immobili non soggetti a vincolo è, purtroppo, in vigore da anni. La indignata presidente di «Italia Nostra», Desideria Pasolini dall’Onda ha osservato: «Non ci rassicura la reazione di Urbani: aveva detto di no anche al condono paesaggistico contenuto nella legge-delega sull’ambiente, ma nessuno lo ha ascoltato». In effetti, Urbani è fatto così: protesta, ma poi si adegua.

Con la norma Baccini, siamo di fronte ad una nuova “semplificazione” perfettamente coerente col proposito berlusconiano di consentire a tutti i padroni e padroncini di qualcosa di poter dire: «Ognuno è padrone a casa sua». Per anteporre gli interessi privati all’interesse generale, lui “semplifica” non passando dal Parlamento, “semplifica” eliminando ogni volta che può il potere tecnico-scientifico dei Soprintendenti, diventato, col Codice Urbani, preventivo e soltanto consultivo. Berlusconi ha dato il buon esempio ponendo, per decreto, il segreto di Stato su tutti gli edifici di sua proprietà, su quelli della numerosa famiglia (allargata) e dei collaboratori “non indicati”. Così, a partire dal tombone di famiglia ad Arcore, tutto è al riparo da occhi indiscreti, anche da quelli di un Soprintendente. Misure inaudite.

Questa la logica alla quale s’intona, nell’interesse dei singoli proprietari privati, il regolamento Baccini. Su di esso è intervenuto ieri il direttore generale dei Beni culturali del Lazio, Luciano Marchetti, sostenendo che «la norma in sé non sarebbe un problema» (bravo, anzi bravissimo) e che «la difficoltà nasce dal fatto» che, non essendo stato sostituito il personale tecnico, «gli uffici perdono efficienza e quindi si configura un rischio per il patrimonio culturale». Per la verità, anche prima del mancato turn-over gli uffici delle Soprintendenze competenti erano affollati di pratiche da sbrigare e poveri di personale (architetti, ingegneri, ecc.). In Sardegna, alla fine degli anni ‘90, ogni funzionario doveva sbrigare oltre 1.000 pratiche; in Liguria, 1.871. E così via. Figuriamoci ora con le mancate sostituzioni.

D’altronde, questo governo - per far quadrare la più traballante delle Finanziarie - ha calato la scure sul già esangue Ministero per i Beni e le Attività culturali tagliando del 46 per cento le spese di funzionamento, del 26 quelle di investimento (un altro 10 per cento è saltato in sede di Finanziaria), della metà il fondo derivante dal lotto del mercoledì, e togliendo infine una bella fetta al Fondo Unico per lo Spettacolo. Col risultato di mettere ancor più nei guai musica, balletto, teatro, cinema, e di assestare colpi durissimi alla qualità e alla quantità delle attività culturali. Colpi tanto più pesanti nel momento in cui le imprese investono meno nelle sponsorizzazioni o riservano i loro denari ai “grandi eventi”. Soldi ne ha soltanto la società Arcus, finanziata - una sorta di incesto - col 3 per cento delle Grandi Opere (per le quali non c’è più Valutazione d’Impatto Ambientale, altra “semplificazione”). Ma le scelte dell’Arcus eludono i criteri tecnici essendo fuori dall’ambito ministeriale.

La cultura e i suoi beni sono dunque meno finanziati e meno tutelati. I condoni, ai quali il ministro Urbani sempre s’inchina, hanno concorso ad imbarbarire ancor più le coscienze in un Paese già fortemente vocato all'illegalità. Quello ambientale è fallito quasi ovunque (il governo si è dunque screditato per pochi euro), tranne che nella già devastata Sicilia dove le domande di sanatoria risultano 6.500. Questa è la regola, tutta cementizia, dell’«ognuno è padrone a casa sua». Anche sulle coste più belle, dentro la Valle dei Templi o vicino ai colonnati dorici di Selinunte. Chi protesta, appartiene alla “sinistra barricadera” (così Oscar Giannino sul «Riformista» di ieri) e naturalmente vuol male all’Italia.

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