Gli ha detto «non se ne parla» il ministro dell'Ambiente, glielo ha ribadito il ministro dei Beni Culturali, glielo hanno ripetuto il sindaco di Roma, l'Unesco, Italia Nostra, la gente del posto, l'Autorità di bacino e migliaia di intellettuali di tutto il mondo. Niente da fare: il Commissario ai rifiuti vuol fare la discarica proprio lì, a due passi da Villa Adriana. All'estero non ci vogliono credere, che un paese che si vanta di essere una delle culle della cultura possa solo ipotizzare di costruire la nuova pattumiera della capitale, in seguito all'inevitabile chiusura dello storico immondezzaio di Malagrotta (dopo mille rinvii e l'ammasso di 36 milioni di tonnellate di pattume) a 70o metri dall'area vincolata della maestosa residenza dell'imperatore Adriano. «Ma siete sicuri che non è una bufala?», hanno chiesto increduli tanti professori universitari e archeologi e storici dell'arte e intellettuali vari a Bernard Frischer, direttore del Virtual World Heritage Laboratory, tra i promotori di una raccolta di firme planetaria contro l'idea scellerata: «E impensabile che la Villa e il territorio circostante debbano subire il degrado che ovviamente deriverebbe dalla discarica in progetto». Ieri sera i firmatari (appoggiati da una mozione votata dalla Société Francaise d'Archéologie Classique) erano già quasi cinquemila. Da Lisa Ackerman, vicepresidente esecutiva del World Monuments Fund, ad Alain Bresson dell'Università di Chicago, dall'archeologo Tonio Holscher di Heidelberg all'architetto Richard Meier, da Salvatore Settis a vari docenti di Oxford e Berkeley, Harvard e Cambridge. Per non dire delle personalità di spicco del Louvre, del Prado, del Getty Museum di Malibù, dell'Hermitage di San Pietroburgo, del Kunsthistorisches Museum di Vienna... Una sollevazione. Che da una parte ci consola per l'amore che riconosciamo nel mondo verso i nostri tesori, dall'altra ci fa arrossire di vergogna. E ci ricorda quella tremenda battuta che girava tra gli intellettuali stranieri dopo l'infelice insistenza di chi come il Cavaliere sbandierava che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco». Diceva quella battuta: «L'Italia ha la metà dei tesori d'arte mondiali. L'altra metà è in salvo». Umiliante. Eppure va detto che questa volta, con l'eccezione della presidente della Regione Lazio Renata Polverini, un po' tutte le autorità locali e nazionali hanno usato parole nette. «Qui la discarica non si può e non si deve fare», ha tuonato l'altro ieri Gianni Alemanno. Due ore più tardi, sul suo blog si appellava «al commissario e a tutte le autorità competenti» spiegando che lì «1'Acea raccoglie acque importanti, da qui passa l'acquedotto dell'Acqua Marcia, ci sono fonti di captazione non solo per l'acqua a uso agricolo, ma anche per quella potabile. E qui c'è un sito tutelato dall'Unesco, Villa Adriana, che deve essere rispettato». Non c'è solo la residenza imperiale famosa nel mondo per il Ninfeo e il Teatro Marittimo, i Portici e le Grandi Terme e per le «Memorie di Adriano» di Marguerite Yourcenair. Ci sono intorno ampi spazi dove ancora si può vedere quanto belli fossero quei dintorni di Roma che abbagliarono i grandi visitatori del passato e antichi manieri medievali come quello che domina l'ex cava destinata a diventare una discarica e liquidato dagli esperti prefettizi, con una definizione furbetta tesa a non impensierire i custodi delle belle arti, come un «manufatto edilizio denominato Castello di Corcolle». Macché, a stretto giro di posta il prefetto Giuseppe Pecoraro, rispondeva al sindaco a brutto muso: «Nella vita di un funzionario pubblico a volte bisogna fare scelte obbligate anche se dolorose. Da parte mia non c'è naturalmente alcuna intenzione di ledere alcun territorio, ma il mio obiettivo è superare l'emergenza, e per farlo bisogna fare delle scelte. E l'obiettivo primario che mi guida è l'interesse pubblico». Avanti tutta: la discarica la vuole proprio a Corcolle. E a questo punto lo scontro è durissimo. In una lettera del io maggio a Mario Monti, a costo di andare in conflitto con la collega Anna Maria Cancellieri, i ministri dell'Ambiente Corrado Clini e dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi, sono infatti irremovibili. E non solo manifestano l'irritazione per la *** scelta del prefetto di incaponirsi su Corcolle «in aperto e pubblico contrasto con i nostri ministeri». Ma ripetono che «Corcolle insiste su un'area vulnerabile del sistema acquifere o regionale caratterizzata da una presenza significativa di pozzi d'uso prevalentemente agricolo, igienico e il domestico, oltre che dalle sorgenti Acquoria e Pantano Borghese, con una portata complessiva di i.ioo litri al secondo, captate da Acea per la rete idropotabile di Roma. La discarica metterebbe a rischio un'importante quota di approvvigionamento idrico della capitale». Di più: «La barriera geologica naturale (...) necessaria alla localizzazione di un eventuale discarica, è estremamente ridotta e caratterizzata da una permeabilità non conforme ai requisiti di legge con rischi di contaminazione ambientale del sistema acquifere o regionale». Il prefetto vuole andare avanti «in deroga ai vincoli stabiliti»? Inaccettabile, per i due ministri: «Non è possibile derogare da tali vincoli, come dimostrano le numerose procedure d'infrazione a carico dell'Italia». Non bastasse, «è altamente probabile» che se andasse avanti «l'iniziativa verrebbe bloccata», presumibilmente dalla magistratura, «e di conseguenza il sistema di gestione dei rifiuti di Roma entrerebbe davvero in emergenza». E allora che senso ha insistere? Quanto a villa Adriana, la lettera ricorda che il ministero dei Beni culturali ha ritenuto «che sia assolutamente improprio consentire un intervento lesivo di un patrimonio culturale e paesaggistico di valenza universale, annoverato tra i siti Unesco e come tale oggetto di un accordo internazionale che obbliga lo Stato alla tutela e alla conservazione». Cos'altro serve ancora, con lo spettro che l'Unesco possa davvero revocare alla residenza imperiale lo status di «patrimonio dell'umanità», per abbandonare il progetto?
Questo governo Berlusconi sostenuto dai cosiddetti “responsabili” (ma di che?) continua a commettere atti irresponsabili nei confronti del paesaggio: urbano, extra-urbano, agrario, marittimo che sia. Pesa ancora la totale latitanza dell’ex ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, “il fantasma del Collegio Romano”, il quale ha lasciato marcire, fra le tante cose, la co-pianificazione Stato-Regioni imposta dal Codice per il Paesaggio. Dopo che aveva ceduto a tagli, indebolimenti, ridimensionamenti e commissariamenti straordinari. Ora, sempre in nome del “rilancio dell’economia” – per il quale la sola ricetta berlusconiana sembra essere il sempiterno binomio Cemento&Asfalto – il Decreto legge n.70 del 13 maggio prevede almeno due pozioni avvelenate per il nostro già deperito patrimonio. La prima riguarda l’edilizia del Novecento di proprietà pubblica (ma anche religiosa e no-profit) evidentemente per dare un robusto aperitivo “federalista” agli Enti locali ai quali, soprattutto nell’ultima fase del fascismo e in quella della ricostruzioni postbellica è andata una cospicua eredità immobiliare. L’altra concerne le spiagge demaniali soggette a concessione per le quali si è ridotto il periodo inizialmente previsto dagli scandalosi 90 anni a 20 anni (che comunque non sono poco) introducendo però il diritto di superficie e quindi la possibilità di nuove edificazioni.
Dalla legge Nasi del 1902 alla legge Rosadi del 1909, alla legge Bottai del ’39 (che inglobò in gran parte le norme giolittiane), fino all’ultima versione del Codice per il Paesaggio (prima Urbani, poi Buttiglione, infine Rutelli-Settis) si è sempre prevista una tutela specifica per gli edifici di pregio architettonico con almeno 50 anni di vita non ancora vincolati. Improvvisamente questa linea normativa è stata cancellata dal solito Tremonti il quale, con decreto legge n.70, ha allungato i termini a 70 anni. In tal modo viene esposta a gravi pericoli di manomissione, trasformazione o vendita una parte fondamentale dell’architettura italiana fra guerra e dopoguerra. Le “firme” di pregio che rischiano seriamente sono quelle di Franco Albini, Giovanni Astengo, Giancarlo De Carlo, Ignazio Gardella, Studio BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rosers), Adalberto Libera, Pier Luigi Nervi, Ludovico Quaroni, Giuseppe Samonà e di tanti altri ancora.
Si tratta spesso di interi quartieri come il QT8 di Milano, il Quartiere INA di Cesate (Milano), la Falchera di Torino, l’INA-Casa del Tiburtino a Roma, le Torri INA di viale Etiopia sempre a Roma, il Borgo La Martella (Unnra Casa) di Matera, ecc. E ci sono in ballo le grandi opere predisposte per le Olimpiadi di Roma 1960 con due capolavori di Nervi come il Palazzetto dello Sport e lo Stadio Flaminio (inaugurato nel ’59), lo stesso Palazzone all’EUR (Nervi e Piacentini), o come l’interessante Villaggio Olimpico di Libera, Luccichenti, Cafiero e Monaco.
In un appello rivolto al ministro Giancarlo Galan dall’Associazione fra i tecnici del Ministero, dalla “Bianchi Bandinelli” e dal Comitato per la Bellezza, si chiede che il nuovo titolare del Collegio Romano dia concretamente corso, in sede parlamentare, all’impegno preso davanti al Consiglio Superiore dei Beni Culturali di “fare il possibile” per eliminare le trappole del Decreto legge n.70. Anzitutto, riportando ai 50 anni il periodo dal quale far scattare la salvaguardia. Poi eliminando la norma in base alla quale i detentori di beni immobili vincolati vengono sottratti all’obbligo di notificare alle Soprintendenze il trasferimento ad altri di quegli stessi beni al fine di consentire agli uffici dello Stato di averne una mappa aggiornata. Infine cancellando il solito silenzio/assenso (una vera fissazione dei governi Berlusconi) rispolverato dal decreto qualora in 90 giorni gli uffici di tutela non rispondano alla richiesta di autorizzazione per progetti che ricadano in zone con vincolo paesaggistico. E’ vero che tale disastrosa innovazione entrerà in funzione quando saranno stati approvati i piani paesaggistici e il parere delle Soprintendenze da vincolanti diverranno obbligatori, e però la regola del silenzio/assenso va respinta, oggi, a priori.
C’è un altro “pilastro” del confuso e avvelenato Decreto Tremonti che occorre modificare a fondo: quella sugli arenili demaniali a privati. Il governo aveva “sparato” l’assurda durata di 90 anni. L’intervento del Capo dello Stato l’ha ridotta a 20 anni e però è rimasto quel diritto di superficie – in luogo del diritto di concessione - che promette soltanto altro cemento sui nostri già tanto compromessi litorali. Si pensi che in Adriatico, su 1.240 Km di spiagge, le dune sopravvissute, a uno o più cordoni, rappresentano appena il 9 % del litorale, pur ricomprendendovi il delta del Po e il Conero, che a Ostia il 90 % delle sponde risulta, legalmente o abusivamente, cementificato e sbarrato e che fra Palermo e Punta Raisi non c’è da anni un solo accesso al mare…Cosa si vuole di più e di peggio?
“Mappa di un paese in rovina. L'Italia è crollata». Questo è l'articolo che Antonio Cederna ha scritto sulle pagine della rivista Il Mondo. Ieri? No. Ben 36 anni fa! L'articolo, infatti, pubblicato nel 1975 all'indomani della costituzione del ministero dei Beni Culturali e Ambientali voluto da Giovanni Spadolini, sottolinea l'importanza di tale istituzione, vista la gravità dello stato in cui versava il patrimonio culturale e naturale del Paese. Come ieri, anche oggi, ritorna ad essere grave l'abbandono dei monumenti e dei siti archeologici. Immersi nel paesaggio, come nelle città e nelle periferie, questi, sempre più spesso, periscono fino a scomparire lasciando alle generazioni che seguiranno non "testimonianze avente valore di civiltà", ma soltanto pietre e polvere: macerie da raccogliere. L’Italia così continua a perdere pezzi della sua storia. All'ombra del Vesuvio, dopo il crollo della Schola Armatorarum nel sito archeologico di Pompei, anche il "Miglio d'Oro", un quadro spettacolare di arte e natura lungo la linea di golfo che va da San Giovanni a Torre del Greco, ha perso un'altra testimonianza storica: Villa Lauro-Lancellotti a Portici. Voluta dal principe Scipione Lancellotti nel 1776 e costruita dall'architetto Pompeo Schiantarelli, la dimora settecentesca costituiva una testimonianza unica per gli affreschi dello splendido salone cinese, danneggiato proprio dal recente crollo. Tra le 122 ville vesuviane a perire, per il grave stato di incuria e abbandono, è anche la villa d'Elboeuf, una splendida terrazza sul mare. Prima in ordine cronologico, fu voluta dal duca d'Elboeuf su disegno di Ferdinando Sanfelice, nel 1711, di cui elemento caratteristico è la doppia scala ellittica con balaustra in marmo e piperno di accesso ai due portali della facciata principale. Tuttavia altrettanti episodi di incuria si registrano anche nel cuore antico della città di Napoli, dichiarato dall'Unesco, nel 1995, Patrimonio mondiale dell'umanità. Dalla Guglia dell'Immacolata dove, a novembre, sono cadute parti della decorazione marmorea, alla chiesa di Sant'Agostino alla Zecca, dove sono crollati pezzi di piperno dall'ultimo ordine del campanile; dal Cimitero delle Fontanelle dalle cui alte pareti sono precipitati piccoli pezzi di tufo, alla chiesa di San Paolo Maggiore dove alcune decorazioni in stucco hanno ceduto all'azione del tempo. E nel Belpaese - dove l'attenzione alla tutela delle antichità ha preceduto la formazione dello Stato unitario - il Gran Tour continua, dal Nord lungo tutto lo stivale fino sue isole, nell'Italia dei disastri. Anche la Serenissima perde pezzi. Un cornicione da Palazzo Ducale, un gradino dalle fondamenta davanti a Ca' Farsetti, sede del Comune di Venezia, un masegno da Riva Sette Martiri, e, infine, una colonnina dal ponte di Rialto. Negli ultimi anni per lo storico ponte, che resiste dalla fine del '500 alle intemperie, alle vibrazioni delle imbarcazioni e al calpestio dei turisti, erano già stati lanciati allarmi per delle crepe nell'arco di volta e per il distacco di altre colonnine dalla balaustra. La sua manutenzione e, ancor più, il suo restauro sono vittime delle fitte maglie della burocrazia e della cronica carenza di fondi. Da Venezia ad Agrigento, l'Italia è un paese che "crolla". Solo pochi giorni fa, nella città siciliana, si è verificato un altro grave cedimento. In pieno centro storico un palazzo in stile barocco è completamente collassato e le macerie, di quel che fu il Palazzo Lo Jacono, ancora giacciono sul ciglio della strada. Anche nella città di Roma le testimonianze storiche cedono, esauste, alle pressioni del tempo e all'incuria dell'uomo. E’ del 30 marzo 2010 la notizia di un altro crollo nella Domus Aurea, preziosissima testimonianza di epoca neroniana. La parte coinvolta dal crollo è di circa 60 metri quadrati e ha interessato una delle gallerie traianee. La maestosa dimora, scoperta per caso alla fine del XV secolo, ricca di decorazioni a "grottesche", non mancò di ispirare gli autori del fermento artistico romano, da Perugino a Raffaello, fino a Michelangelo. Artisti celebratissimi già dai contemporanei, come si evince dalle parole di Giorgio Vasari, storiografo e pittore, il cui prezioso archivio, pervenuto fino a noi e conservato nella sua casa natale ad Arezzo, rischia oggi la vendita e la dispersione. Tra ruderi e rovine, tra la 'fuga' dai confini nazionali di importanti testimonianze e l'alterazione degli equilibri naturali, l'Italia perde la sua identità storica, patrimonio di civiltà. Sono noti a tutti gli effetti devastanti di un evento naturale quale il terremoto che ha colpito l'Abruzzo il 6 aprile 2009. Un evento naturale non è contrastabile, ma di certo i suoi effetti vanno a potenziare le linee di azione di una tutela carente come fin qui si è cercato di descrivere. La città de LAquila, particolarmente colpita da quell'evento tellurico, si è spogliata dei suoi abitanti e sta perdendo il suo patrimonio di arte e natura. Ha perso il complesso contesto di strade ed edifici, l'articolazione organica di case, piazze, giardini, «che di ogni nucleo antico di città costituisce il tono, il tessuto necessario, l'elemento connettivo, in una parola 1' ambiente vitale» - affermava Cederna nel 1991. Ora l'Italia ha un centro storico in meno e un pesante vuoto culturale in più. Tuttavia, «la lotta per la qualità della vita - scriveva Spadolini nel 1975 - è altrettanto importante della lotta per la cultura per la sopravvivenza delle testimonianze del passato. Non c'è antitesi, in prospettiva, fra paesaggio e biosfera. E non c'è neanche antitesi fra crisi dell'ambiente e crisi degli archivi di Stato. Un paese moderno si misura sulla lotta contro gli inquinamenti non meno che sulla dignitosa conservazione di una storia, che è pure parte essenziale della propria identità di nazione». Eppure, come disse Antonio Cederna nel suo articolo del 1975, «forse è ancora possibile evitare il crollo totale. Se tutti, Parlamento, governo, Regioni e Paese lo vorremo».
Non abbiamo il petrolio, noi. Non abbiamo il gas, non abbiamo l'oro, non abbiamo i diamanti, non abbiamo le terre rare, non abbiamo le sconfinate distese di campi di grano del Canada o i pascoli della pampa argentina. Abbiamo una sola, grande, persino immeritata ricchezza: la bellezza dei nostri paesaggi, la bellezza dei nostri siti archeologici, la bellezza dei nostri borghi medievali, la bellezza delle nostre residenze patrizie, la bellezza dei nostri musei, la bellezza delle nostre città d'arte.
E ce ne vantiamo. Ce ne vantiamo sempre. Fino a fare addirittura la parte dei «ganassa» («Abbiamo il 40% dei capolavori planetari!», «No, il 50%!», «No, il 60%!») giocando a chi la spara più grossa. Primato che, per quanto ne sappiamo, spetta all'unica «rossa» che piace al Cavaliere, la ministra del Turismo Michela Vittoria Brambilla. Che nel portale in cinese con il logo «Ministro del Turismo» lancia un messaggio al popolo dell'Impero di mezzo e sostiene non solo che «le grandi marche di moda sono italiane» e «tutti i tifosi del mondo seguono il campionato di serie A italiano» ma anche che l'Italia «possiede il 70% del patrimonio culturale mondiale». Bum! E il Machu Picchu, i templi di Angkor, le piramidi, Santa Sofia e il Topkapi a Istanbul, il Prado, San Pietroburgo, la Torre di Londra, la cittadella di Atene, i castelli della Loira, Granada, la città proibita di Pechino, il Louvre, la thailandese Sukothai, il Taj Mahal, il Cremlino, l'esercito di terracotta di Xi'an, Petra, Sana'a e tutto il resto del pianeta? Si spartiscono gli avanzi.
Un'intervista di Marcello di Falco all'allora ministro del Turismo Egidio Ariosto sul Giornale ci ricorda che nel maggio 1979 l'Italia era «il secondo Paese del mondo per attrezzatura ricettiva, il primo per presenze estere, il primo per incassi turistici, il primo per saldo valutario». Tre decenni più tardi siamo scivolati al quinto posto. E la classifica per la «competitività» turistica, che tiene conto di tante cose che richiamano, scoraggiano o irritano i visitatori (non aiutano ad esempio le notizie su «1 spaghetto aragosta: 366 euro» al ristorante La Scogliera alla Maddalena) ci vede addirittura al ventottesimo posto.
Certo, è verissimo che abbiamo la fortuna di avere ereditato dai nostri nonni più siti Unesco di tutti. Ne abbiamo 45 contro 42 della Spagna, 40 della Cina, 35 della Francia, 33 della Germania, 28 del Regno Unito, 21 degli Stati Uniti. Ma questa è un'aggravante, che inchioda i nostri governanti, del passato e del presente, alle loro responsabilità. Al loro fallimento. Spiega infatti un dossier del dicembre 2010 di Pwc (Pricewaterhouse Coopers, la più grossa società di analisi del mondo per volume d'affari) che lo sfruttamento turistico dei nostri siti Unesco è nettamente inferiore a quello degli altri. Fatta 100 l'Italia, la Cina sta a 270, la Francia a 190, la Germania a 184, il Regno Unito a 180, il Brasile e la Spagna a 130. Umiliante.
E suicida. Non abbiamo molte altre carte da giocare. Ce lo dicono i dati del Fondo monetario internazionale e il confronto con le nuove grandi potenze. Dal 1994 a oggi, in quella che per noi è stata la Seconda Repubblica, mentre il nostro Pil cresceva di 1,9 volte in valuta corrente, inflazione compresa, quello brasiliano si moltiplicava per 3,6 volte, quello indiano per 4,9 volte, quello cinese addirittura di 11,5 volte (...).
Alla fine di gennaio del 2011 Giampaolo Visetti scriveva sulla Repubblica che «sarà il turista cinese ad alimentare la crescita dei viaggi a lungo raggio ed entro il 2015 diventerà il padrone assoluto dei pacchetti organizzati e dello shopping di lusso in Europa. Il rapporto annuale dell'Accademia cinese del turismo prevede che nell'anno in corso trascorreranno le ferie all'estero 57 milioni di cinesi (...) e il Piano turistico nazionale calcola che entro il 2015 si recheranno all'estero tra i 100 e i 130 milioni di persone, arrivando a spendere oltre 110 miliardi di euro» (...).
Peccato che non ci capiscano. L'Italia, agli occhi di Pechino, rappresenta un incomprensibile caso a sé. Dieci anni fa era la meta preferita dei pionieri dei viaggi in Europa. I cinesi amano il mito dello «stile di vita», il clima mediterraneo, la passata potenza imperiale e culturale, la moda e il lusso, la natura, la varietà gastronomica che esalta la qualità dei vini. «Eravate il punto di partenza ideale» dice Zhu Shanzhong, vicecapo dell'Ufficio nazionale del turismo cinese «per un tour europeo. Poi ci avete un pochino trascurati». Al punto che «la promozione turistica dell'Italia in Cina è inferiore a quella dei Paesi Bassi». Una follia.
Ma per capire la fondatezza dell'accusa basta farsi un giro sul portale turistico aperto dal governo italiano in cinese, www.yidalinihao.com. Costato un occhio della testa e messo su con una sciatteria suicida che grida vendetta. Per cominciare, le quattro grandi foto di copertina che riassumono l'Italia mostrano una Ferrari, una moto Ducati, un pezzo di parmigiano e un prosciutto di Parma. In mezzo: Bologna. Con tanto di freccette sulla mappa che ricordano la sua centralità rispetto a Roma, Milano, Venezia e Firenze. Oddio: hanno sbagliato capitale? No, come ha scoperto il Fatto Quotidiano, è solo un copia-incolla dal sito cinese della Regione Emilia-Romagna aimiliyaluomaniehuanyingni.com (...).
Ma ancora più stupefacenti sono i video che illustrano le nostre venti regioni. Dove non solo non c'è un testo in cinese (forse costava troppo: i milioni di euro erano finiti...) ma ogni filmato è accompagnato da un sottofondo musicale. Clicchiamo il Veneto? Ecco il ponte di Rialto, le gondole, il Canal Grande, le maschere, i vetrai di Murano... E la musica? Sarà di Antonio Vivaldi o Baldassarre Galuppi, Tomaso Albinoni o Benedetto Marcello, Pier Francesco Cavalli o Giuseppe Tartini? Sono talmente tanti i grandi compositori veneziani del passato... Macché: la Carmen del francese Georges Bizet rivista dal russo Alfred Schnittke! La musica dell'Umbria? Del polacco Fryderyk Chopin. Quella della Campania? Del norvegese Edvard Grieg. Quella del Lazio? Dell'austriaco Wolfgang Amadeus Mozart. Quella dell'Abruzzo? Dell'inglese Edward Elgar. E via così: tutti ma proprio tutti i video che dovrebbero far conoscere l'Italia ai cinesi, fatta eccezione per quello della Basilicata dove la colonna sonora è del toscano Luigi Boccherini, sono accompagnati dalle note di musicisti stranieri. Amatissimi, ma stranieri (...).
Il guaio è che da molto tempo immaginiamo che tutto ci sia dovuto. Che gli stranieri, per mangiar bene, bere bene, dormire bene, fare dei bei bagni e vedere delle belle città, non abbiano altra scelta che venire qui, da noi. Che cortesemente acconsentiamo a intascare i loro soldi, quanti più è possibile, concedendo loro qualche spizzico del dolce vivere italiano. Peggio: siamo convinti che questi nostri tesori siano lì, in cassaforte. Destinati a risplendere per l'eternità senza avere alcun bisogno di protezione. Di cura. Di amore. Non è così (...).
Spiega uno studio dell'Associazione europea cementieri che l'Austria nel 2004 ha prodotto 4 milioni di tonnellate di cemento, il Benelux 11, la Gran Bretagna 12, la Francia 21 e mezzo, la Germania 33 e mezzo, la Scandinavia meno di 36 e noi 46,05, battuti di un soffio solo dalla Spagna. Solo che la Spagna ha 90,6 abitanti per chilometro quadrato, noi 199,3: più del doppio. Insomma, di territorio ne abbiamo già consumato troppo (...).
Pochi mesi prima di morire, rispondendo a un lettore che gli chiedeva aiuto per salvare la riviera ligure, Indro Montanelli maledì sul Corriere questo nostro Paese che tanto aveva amato. E scrisse che le ruspe sono sempre in agguato per «dare sfogo all'unica vera vocazione di questo nostro popolo di cialtroni che non vedono di là dal proprio naso: l'autodistruzione» (...).
Diamo qualche flash sullo spreco. Le gallerie della Tate Britain hanno «fatturato» nell'ultimo anno fiscale 76,2 milioni di euro, poco meno degli 82 milioni entrati nelle casse con i biglietti di tutti i musei e i siti archeologici statali italiani messi insieme. Il merchandising ha reso nel 2009 al Metropolitan Museum quasi 43 milioni di euro, ben oltre gli incassi analoghi di tutti i musei e i siti archeologici della penisola, fermi a 39,7. Ristorante, parcheggio e auditorium dello stesso museo newyorkese hanno prodotto ricavi per 19,7 milioni di euro, tre in più di tutte le entrate di Pompei, il nostro gioiello archeologico. Dove i «servizi aggiuntivi» sono stati pari a 46 centesimi per visitatore: un ottavo che agli Uffizi, un quindicesimo che alla Tate, un ventisettesimo che al Metropolitan, un quarantesimo che al MoMa, il Museum of Modern Art. Un disastro. Per non dire di come custodiamo le nostre ricchezze (...).
Dice l'Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine di Vienna che quello delle opere d'arte trafugate è il terzo business mondiale del crimine dopo i traffici di droga e di armi. Eppure tra i 69.000 detenuti nelle carceri italiane all'inizio del 2011 neanche uno era in cella per avere scavato una tomba etrusca, rubato un quadro o trattato la vendita di un vaso antico a un ricettatore straniero. Se sei ricercato per «tentato furto di una mucca», come capitò all'albanese Florian Placu, puoi restare sei mesi a San Vittore. Se cerchi di vendere all'estero la statua di Caligola non vai in carcere. Se poi trovi certi giudici, puoi perfino tenerti la merce.
È successo ad Angelo Silvestri, un sub laziale denunciato per essersi «impossessato di beni culturali appartenenti allo Stato». Aveva trovato, guardandosi bene dall'avvertire la soprintendenza, 28 pezzi tra i quali varie anfore antiche e un set di preziosissimi strumenti chirurgici romani con tanto di astuccio, perfettamente integri. Il pubblico ministero chiese una condanna ridicola: sei mesi e 2500 euro di multa. «Esagerato!», pensò il giudice di Latina Luigi Carta. E il 3 maggio 2004 assolse l'imputato perché «di anfore, piatti di terracotta, crateri e vasi, manufatti di vario genere, sono pieni i nostri mari» (...).
C'è poi da stupirsi se i musei stranieri, davanti alla nostra richiesta che venga restituito questo o quel pezzo ricettato, che magari loro con amore custodiscono e con amore offrono in visione a milioni di visitatori, fanno resistenza pensando che quel pezzo finirà anonimamente nel mucchio delle tante ricchezze abbandonate in qualche museo di periferia?
«Revisionisti!» . L’accusa cala come una mannaia sulla storia della gloriosa Italia Nostra, fondata (tra gli altri) da Giorgio Bassani, Elena Croce, Umberto Zanotti Bianco, Desideria Pasolini dall’Onda in un mattino romano del 1951, a un passo da piazza di Spagna. La denuncia parte da Vezio de Lucia, urbanista, autore di un centinaio di saggi sulla storia e la gestione del territorio italiano, rimosso nel 1990 dal ministro dei Lavori pubblici dc Giovanni Prandini dall’incarico di direttore generale dell’Urbanistica per la sua allergia a ogni compromesso con i privati. E, fino alle dimissioni di pochi giorni fa, consigliere nazionale di Italia Nostra. Giorni fa Goffredo Fofi, sull’Unità, ha parlato di crisi strutturale e ideologica dell’associazione.
Tutto comincia dall’ormai famoso libro Electa su Antonio Cederna (ispiratore delle storiche campagne dell’associazione) voluto dal Consiglio lombardo presieduto da Luigi Santambrogio, e ritirato dopo le dure critiche della famiglia Cederna e in seguito all’appello di prestigiosi intellettuali (Alberto Asor Rosa, Pier Luigi Cervellati, Giulia Maria Crespi, Vittorio Emiliani) che constatavano un «tradimento del pensiero» cederniano. Dice De Lucia, che ha chiesto senza successo le dimissioni di Santambrogio: «Attenzione. Quel libro non può essere interpretato come un semplice incidente di percorso, ma rappresenta un segnale di tendenza. C’è una forte corrente revisionistica rispetto alle posizioni storiche che giustificano l’esistenza stessa di Italia Nostra: ovvero il fondare la cultura del recupero, proprio grazie a Cederna, sul concetto di centro storico come "monumento complessivo"e agendo su di esso come un tutt’uno, il vedere l’urbanistica come appartenente alla sfera del potere pubblico e quindi non della mano privata» .
E dove sarebbe la crisi? «Crisi e decadenza... È in quello che l’ex sindaco Pietro Bucalossi chiamava il "rito ambrosiano". Cioè il contrattare, il negoziare con i privati che rappresenta il male dell’urbanistica milanese. Ho constatato che la maggioranza del Consiglio è su questa linea al punto da manifestare disponibilità a rivedere posizioni consolidate e acquisite. Io ne ho tratto le inevitabili conseguenze. E ho salutato» . Clima tesissimo. Anche nei simboli. Desideria Pasolini dall’Onda è l’ultima fondatrice ancora in vita da quel lontano 1951 ed è stata anche presidente del sodalizio. In molti si aspettavano una sua acclamazione a presidente onorario. Invece niente. L’acclamazione è arrivata invece dal Comitato per la bellezza di Vittorio Emiliani, ex di Italia Nostra da dieci anni, che così commenta: «Un nostro omaggio ammirato a una rara capacità di combattere. La mancata acclamazione a Italia Nostra? Ahimè, un triste segno dei tempi».
Chi non si dimette ma rimane in consiglio su posizioni critiche («La battaglia va condotta dall’interno» ) è Maria Pia Guermandi, archeologa, docente all’Istituto Beni culturali della Regione Emilia Romagna: «C’è un silenzio assordante in area milanese... Mi riferisco al Piano di governo del territorio, ai milioni di metri cubi che minacciano quel territorio, a ciò che avverrà fino all’Expo 2015. Mi sembra, purtroppo, profondamente cambiato anche l’atteggiamento sul parcheggio milanese a Sant’Ambrogio. Per anni e anni le presidenze nazionali lo avevano avversato molto duramente, adesso l’aria mi sembra sensibilmente cambiata» . Revisionismo, Guermandi? «Italia Nostra gestisce da anni il meraviglioso Bosco in città a Milano: convenzione col Comune da cui trae congrui proventi. Ora le convenzioni, per decisione della giunta Moratti, possono essere ridiscusse. Quindi l’associazione subisce un ricatto sotto traccia. Di qui il silenzio: meglio farebbe l’associazione a disimpegnarsi, a ritrovare piena libertà d’azione» .
E come reagiscono i vertici? La parola ad Alessandra Mottola Molfino, già direttore centrale della cultura al Comune di Milano, artefice della rinascita del Museo Poldi Pezzoli, presidente di Italia Nostra dal settembre 2009: «Ma quale revisionismo... Parlano le nostre battaglie, i nostri successi, le nostre campagne come quella sui "paesaggi sensibili", le cento cause che abbiamo in Italia per le devastazioni del paesaggio e che gli avvocati a noi vicini ci seguono gratuitamente. Parlano le minacce che io stessa ho ricevuto dal sindaco di Savona dopo le battaglie sulle coste...» .
Il caso di Milano, presidente? Quel «silenzio assordante» e quel «contrattare» ? «Risponderemo nei fatti oggi stesso, mercoledì 2 febbraio, alle 18.30 a Milano allo Spazio Krizia in via Manin 21. Abbiamo aderito all’appello di Libertà e Giustizia per ridiscutere il Piano di governo del territorio: 35 milioni di metri cubi in arrivo!» . L’appello è stato firmato anche da Gae Aulenti, Umberto Eco, Rosellina Archinto, Giulia Maria Crespi, Ilaria Borletti Buitoni. In quanto al merito, presidente? «Il Pgt è stato contestato e smontato pezzo per pezzo dalle osservazioni di Marco Parini, presidente della nostra sezione di Milano. Ci batteremo, eccome se ci batteremo, contro questo insensato aumento di metri cubi» .
Ma la convenzione per il Bosco in città non vi lega le mani? «È una delle eccellenze in campo nazionale, un autentico modello, abbiamo quest’affidamento da trent’anni e non abbiamo mai risparmiato critiche a nessuna amministrazione. E continueremo così» . Mottola Molfino tace per un momento: «Forse qualcuno ci vorrebbe più schierati da una parte... Forse hanno dato fastidio le campagne contro la giunta Vendola in Puglia per il massacro del Salento a colpi di campi eolici e fotovoltaici, poi ci hanno dato ragione... Ma noi a Italia Nostra abbiamo una lunga tradizione di polemiche interne. Siamo democratici. Le critiche, anche intestine, non ci spaventano...» .
Postilla
«Siamo democratici. Le critiche, anche intestine, non ci spaventano». Sono lieto di questa dichiarazione della presidente pro-tempore di Italia nostra, ben diversa della lettera personale che mi aveva inviato rimproverandomi di dar conto su eddyburg alle critiche degli eredi e di un vasto gruppo di amici di Antonio Cederna. La discussione che si è aperta nel gruppo dirigente di Italia riguarda la maggiore o minore coerenza con le proprie radici ideali che una prestigiosa istituzione culturale deve rispettare, e le modalità che è tenuta a seguire se quella coerenza vuole dismettere. E’ positivo che il dibattito si sia aperto, che sia uscito dalle stanze dell’associazione, e sono orgoglioso che i due vicedirettori di questo sito ne siano tra i protagonisti. Ma non è una discussione che possa riguardare solo l’associazione. Lo testimonia con grande efficacia Goffredo Fofi nell’articolo su l’Unità. Perciò su eddyburg continueremo a seguirne e documentarne lo sviluppo, come abbiamo fatto fin dall’inizio. (e)
Goffredo Fofi su l'Unità ha denunciato -parlando della crisi della storica associazione ambientalista- il rischio per tutti noi di abituarci all'idea della bruttezza e dell'imbecillità. L'associazione è in crisi come si sa da tempo; i in più d'un caso se ne sono occupate anche le cronache suscitando sorpresa e amarezza in chi conosce il ruolo importante da essa giocato - come Fofi ricorda -, ad esempio, sulla legge 394 sulle aree naturali, la difesa delle coste, il Parco del Delta del Po, quello dell'Appia antica a Roma e in tante altre battaglie. Crisi che amareggia ancor più perché mai come in questo momento le politiche ambientali e non solo nel nostro paese appaiono decisive se vogliamo uscire da una crisi in cui danni ambientali ed economici appaiono strettamente intrecciati. Un intreccio che richiede da parte delle istituzioni un governo del territorio in cui sia superata ogni separazione. Una novità questa a cui non hanno saputo far fronte adeguatamente neppure forze politiche come i verdi che dell'ambiente avevano pur fatto la loro bandiera.
E che presenta innegabili e inedite novità anche per l'associazionismo ambientalista che non sempre se l'è cavata e se la cava bene nel rapporto con il sistema istituzionale. Sistema che a sua volta -specie in questo momento- mostra grandissime difficoltà e pesanti colpe nell'avviare finalmente un politica non più all'insegna della bruttezza e dell'imbecillità. Chi ha visto la puntata di Presa Diretta di Iacona dedicata alla bella politica e a Vassallo il sindaco di Pollica assassinato sarà rimasto probabilmente sorpreso del fatto che lui al pari del sindaco di Isola Capo Rizzuto non abbiano trovato sempre e non trovino sempre neppure nella propria parte politica il sostegno che ci sarebbe dovuti aspettare.
E non colpisce meno il fatto che in quei territori (ma la cosa non riguarda solo il Cilento o il sud) molti comuni abbiano strumenti di governo del territorio fermi agli anni sessanta-settanta. Ed è ancora più sorprendente che di questa situazione per la quale il titolo V della Costituzione dal 2001 prevedeva una vera riforma, nessuno o quasi parla né in parlamento né fuori malgrado le chiacchiere sul federalismo.
Eppure quando parliamo - tanto per fare due esempi non a caso - di bacini idrografici e di parchi parliamo si strumenti e soggetti istituzionali preposti alla gestione di aspetti decisivi della pianificazione del territorio che poi però non trovi neppure citati in un documento recente di Italia Nostra in cui si denunciano le non poche malefatte ambientali. Ecco, istituzioni e associazionismo ambientalista se non riusciranno - ognuno facendo la sua parte - a sintonizzarsi adeguatamente a questa novità difficilmente riusciranno ad evitare altre Pompei.
Uno dei compiti più urgenti di cui i pochi che si preoccupano della possibile, necessaria, indispensabile rinascita di una sinistra decente – una sinistra il cui sfacelo è in questi giorni di primarie del tutto evidente, né i nuovi dirigenti sembrano rendersene adeguatamente conto anche perché tanti di loro a questo sfacelo hanno abbondantemente contribuito e non sembra abbiano nessuna intenzione, da Torino a Napoli, di tirarsi da parte – sarebbe quello di ridar dignità a chi si occupa della cosa pubblica non solo da politico e da amministratore (ceti e professioni di cui non ci si fida più) ma da cittadino, nell’antico significato che dava alla parola citoyen la Rivoluzione francese. Da cittadino che insieme ad altri cittadini costituisce gruppi, fonda cooperative, dà vita a iniziative di protesta e di proposta, e afferma o nega a seconda del caso.
La dizione “società civile” è molto bella, ma si giustifica oggi soltanto se chi se ne fa carico impara ad annoverare tra le forme del suo intervento quello della “disobbedienza civile”. Sono convinto che l’eccessiva remissività della società civile nei confronti della politica, e in sostanza la delega ai politici delle proprie battaglie, sia una delle maggiori cause, se non la maggiore, del declino del nostro paese, e che essa sia stata favorita dai politici, che hanno continuato a sottomettere corrompere castrare per ragioni di mera rivalità tutto ciò che si muove al di fuori del loro controllo. E penso soprattutto alla tradizione politica del Pci e dei suoi eredi. Non è il caso però di dimenticare le responsabilità che le organizzazioni della società civile hanno avuto nel loro stesso declino, a volte per timidezza, più spesso per opportunismo.
Come sempre succede – e proprio per questo ogni nuova organizzazione o associazione dovrebbe tenerlo nel debito conto – alla fase “eroica” iniziale subentra nella storia di ogni iniziativa importante la fase del consolidamento e della burocratizzazione. Del compromesso. Tra le associazioni di società civile di più lunga storia, si è parlato spesso in questi giorni di Italia nostra, che venne fondata per “proteggere i beni culturali e ambientali” del nostro paese nel lontano 1955 da alcuni italiani di valore tra i quali Umberto Zanotti Bianco (un grande personaggio nella storia del volontariato e non solo, dirigente per tanti anni della Associazione per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia oggi un po’ fiacca), Trompeo, Bassani, Elena Croce eccetera, e che ha avuto in Antonio Cederna la sua colonna e, credo, il più attivo e migliore dei suoi rappresentanti. Si devono all’associazione Italia nostra, con sedi in molte città italiane, tanti risultati importanti, per esempio la legge 394 sulle aree naturali, la difesa delle coste, il parco del Delta del Po, quello dell’Appia antica a Roma eccetera, tante battaglie talora vinte e talora perse e più spesso vinte (o perse) a metà o per più della metà...
Ma pian piano, e poi velocemente con la morte di Cederna, anche Italia nostra ha finito per perdere la sua fisionomia e la sua autonomia, come ha dimostrato di recente uno scandalo milanese (la pubblicazione con il nome di Cederna di testi manipolati da una dirigenza, diciamo così, filo-palazzinara, le dimissioni di un probo e acuto urbanista come Vezio De Lucia e di tanti altri, le esplicite divisioni interne che sembrano preludere a qualche scissione e alla nascita di nuove organizzazioni).
In passato, Italia nostra è stata accusata a torto da certa sinistra di essere troppo borghese e un tantino snob, e in questo c’era qualcosa di vero, ma quella sinistra, tutta proiettata sulle tematiche dello sviluppo, aveva anche il torto di una grande insensibilità “ecologica”, di considerare con molta sufficienza le lotte per la difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico. Che si sono invece rivelate centrali, fondamentali. Chiedersi se Italia nostra supererà la crisi che sta attraversando, è chiedersi se sarà in grado l’Italia di superare la crisi che sta attraversando, ma questo dipende anche dai singoli, da ciascuno di noi. In un saggio recente e importante, Salvatore Settis ricostruisce e analizza il disastro ambientale legandolo strettamente al degrado civile (Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi), e si chiede come si sia potuto arrivare a tanto, e come si dovrebbe cercare di rimediare alla luce dei dettami della Costituzione.
Dipende da noi, egli dice, da ciascun cittadino. Si spera che all’interno di Italia nostra vincano i “nostri” e non i politici, e tantomeno i distruttori dell’ambiente e della bellezza stessa del paese, con tutti i loro complici; si spera che Italia nostra possa diventare un punto di riferimento attivo per gli indignati e gli esasperati, ma insistendo sull’attivo, sulla concretezza delle buone proposte, e anche delle risposte al malaffare alla corruzione alla distruzione; si spera che possa riorganizzarsi, e organizzare risposte adeguate alla vastità e profondità del disastro ambientale che questi ultimi trent’anni hanno enormemente accresciuto, facendo berlusconianamente del Bel Paese un paese isterico e imbecille, e sempre più brutto.
Il buon Dio regalò a Gioia Tauro certi fondali profondi come abissi di Poseidone. Un bel giorno, pensò, quei fondali, unici in Italia a poter accogliere le immense navi porta-container del terzo millennio, renderanno finalmente la Calabria ricca e fiorente. Il cuore del traffico marittimo nel Mediterraneo. Poi vide che gli uomini non se li meritavano. E li accecò.
In alto, la banchina maggiore del porto di Gioia Tauro. A sinistra, la lapide che ricorda il ferimento di Garibaldi a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 29 agosto del 1862. A destra, l’albero nella foresta di Gambarie dove fu adagiato il generale ferito.
Sapete quanti Teu, i container che dominano il 96% (petroli esclusi) del traffico mondiale di merci, arrivano ogni settimana nel porto calabrese? 53.846. E potrebbero essere molti di più. Una miniera d’oro, sarebbero. Oro! Se non fossero subito smistati su altre navi più piccole per essere avviati verso altri porti. Sapete quanti treni partono da Gioia carichi di Teu? Uno la settimana. Uno. Cose da pazzi.
Il grosso del guadagno, infatti, spiega una relazione del ministero dei Trasporti del giugno 2008, è nel trattamento finale. Quando il container è «sdoganato, stoccato, manipolato e distribuito, supportato adeguatamente da una rete infrastrutturale efficiente. Il fatturato passa da 300 euro a 2.300 euro, l’utile da 20 euro passa a 200, il beneficio dello Stato da 110 euro a 1.000 e ogni mille unità movimentate invece di generare cinque unità lavorative ne generano 42». E in quelle tre parole, la «rete infrastrutturale efficiente», c’è la maledizione di Gioia Tauro.
Direte: come è possibile che dopo anni e anni di pensosi «bla bla» sulla necessità di privilegiare la rotaia alla gomma venga allestito un solo treno la settimana (per Bari) contro 53.846 Teu giunti nel porto calabrese? Un treno che, se sta nella media dei treni merci meridionali, ha 12 vagoni e porta 36 container, cioè uno ogni 1.495 sbarcati? E il bello è che quel treno non è manco delle Ferrovie dello Stato. Le quali, dopo avere alzato le tariffe (in modo spropositato rispetto al servizio, accusano i trasportatori) si sono ritrovate con una manciata di clienti e hanno abolito in Calabria tutti ma proprio tutti i treni merci. Una scelta suggerita da un ulteriore intoppo: sui binari verso Nord, non bastassero gli altri problemi, ci sono a Vallo della Lucania un paio di gallerie troppo piccole e qualche curva troppo stretta: i nuovi container non ci passano. Basterebbe allargare i tunnel e rettificare le curve, ma i soldi? E il tempo? Racconta Guglielmo Epifani: «Il gestore privato del porto mi ha detto: se continua così ce ne andiamo. La concorrenza di porti come quello del Cairo non riusciremo a batterla mai…». Quanto ai container caricati sui camion, auguri. Neanche il tempo di percorrere la corta bretellina costruita in tre o quattro millenni fino all’autostrada e vanno a infognarsi nel pantano della Salerno-Reggio Calabria.
Risultato: dopo essere miracolosamente salito grazie a quei fondali naturali (a Genova, per capirci, i nuovi colossi del mare non possono attraccare) fino al 23° posto nel mondo, Gioia Tauro perde colpi su colpi. Nel 2005, spiega l’ufficio studi del porto di Amburgo, era il sesto porto europeo. Oggi è l’ottavo. Era il secondo del Mediterraneo, adesso è il quarto. E la società concessionaria Mct, che occupa un numero enorme di persone (1.100 fissi più 200 «terzisti») ha visto nel 2009 un tracollo del fatturato del 26%. Da incubo il confronto con il cairota Port Said: cinque anni fa Gioia movimentava 1.539.915 container in più, oggi 670 mila in meno. Quanto alle classifiche mondiali, stendiamo un velo. Basti dire che sei anni fa il porto cinese di Xianem stava 400 mila container indietro e adesso sta quasi due milioni più avanti. Per non dire del «contorno». Come la periodica scoperta di carichi fuorilegge. C’è un piazzale pieno zeppo di 400 container che contengono merci contraffatte di ogni tipo. Uno, qualche mese fa, aveva in pancia sei tonnellate di esplosivo.
Eppure una cinquantina di chilometri più sotto, a Reggio Calabria, è raro avvertire la consapevolezza dell’occasione storica sprecata. E’ bello da togliere il fiato, «il più bel chilometro d’Italia», come lo chiamò Gabriele D’Annunzio. Di là dallo Stretto scintilla la costa siciliana: così vicina che nelle giornate limpide sembra di toccarla. Palme e magnolie dell’orto botanico che sfila lungo la strada quasi ti vengono addosso, con umori tropicali che si mischiano al profumo, prepotente, del mare. «Un paradisooo!», strillano i reggini entusiasti. Peccato per quello che c’è dietro. Cioè una delle aree urbane più violentate d’Italia, dove gli avvertimenti ai magistrati antimafia arrivano con i bazooka appoggiati fuori dalla loro porta. Benvenuti a Reggio Calabria, dove finisce la strada che non finisce mai. Quel proseguimento dell’Autosole che coi suoi viadotti entra dall’alto in città, scivolando nel caos edilizio per scendere in picchiata verso il «più bel chilometro d’Italia». L’incompiuta per antomasia.
«Un monumento all’impotenza della politica», la definì un giorno Fausto Bertinotti. Il rapporto «Sos impresa» del 2007 di Confesercenti andò oltre. «C’è chi l’ha definita il corpo di reato più lungo d’Italia». Dietro ogni curva c’è una cosca che si avventa, è camorra nel primo tratto ed è ’ndrangheta giù nelle «Calabrie». Un percorso che disegna la spartizione del potere; le betoniere e gli escavatori segnalano le «famiglie» dominanti sul territorio. Così la cartina stradale diventa un organigramma mafioso. È stato un supertestimone, Piero Speranza, un piemontese che ha riciclato in Toscana i soldi dei trafficanti calabresi, a raccontare per la prima volta come i «mammasantissima» si siano impossessati della A3. Ci fu un summit in una villa di campagna a Torremezzo di Falconara, in provincia di Cosenza. E i boss si misero subito quasi d’accordo. Era l’agosto di sei anni fa. Da quel momento ogni fornitura di calcestruzzo e ogni movimento di terra li ha assicurati la ’ndrangheta. In principio ci fu qualche regolamento di conti. Poi, tanti erano i soldi che hanno fatto scoppiare la pace.
Costruirono quei 443 chilometri in 11 anni, dal 1963 al 1974, con un costo equivalente a 5,8 milioni di euro attuali al chilometro. Senza prevedere un pedaggio perché solcava l’area più depressa del Sud. Leandra D’Antone, docente di storia contemporanea alla Sapienza è convinta che sia proprio quello il peccato originale: «Chi non paga il pedaggio non può pretendere la manutenzione necessaria a un’autostrada. Ma nemmeno la sicurezza».
E non solo per quanto riguarda la mattanza, davvero pazzesca, causata dagli incidenti stradali. E’ successo di tutto su quella strada maladetta. Di tutto. Turisti ammazzati a pistolettate. Donne strangolate nei distributori di benzina. Scheletri nei tombini di scolo delle stazioni di servizio. Agguati alle Alfette dei carabinieri. Camionisti assassinati al volante dei Tir. Neonate abbandonate in una piazzola di sosta. Rapine finite nel sangue a furgoni portavalori. Imboscate della ’ndrangheta. Di tutto. Si pensi all’episodio più conosciuto, lo spaventoso assalto all’auto della famiglia Green, turisti americani innamorati dell’Italia, concluso con l’uccisione del piccolo Nicholas.
Ecco, per capire come mai 23 anni dopo l’avvio dell’adeguamento deciso da Craxi nel 1987 non sono ancora finiti i lavori (campa cavallo!), nonostante ne fossero bastati 11 per la realizzazione, e come mai questa sistemazione costerà 22,6 milioni al chilometro, cioè quattro volte la cifra investita per la costruzione, con sommo gaudio delle cosche. Non si può che partire da qui: dal pedaggio che non c’è.
Tutto cominciò con una legge del 1961. Voluta dall’allora leader socialista Giacomo Mancini. E centrata sulla convinzione, come scrisse Giovanni Russo, che quella strada rappresentava un secolo dopo «il compimento dell’Unità d’Italia». E’ terra di aspre contraddizioni, la Calabria. E c’è davvero un senso se proprio qui, nella foresta di Gambarie, nel comune di Santa Eufemia d’Aspromonte, alla fine di agosto del 1862, avvenne il primo scontro armato tra patrioti italiani. Di qua l’Eroe dei Due mondi che voleva andarsi a prendere Roma. Di là la colonna del Regio Esercito sabaudo che non voleva grane coi francesi protettori del Papa Re. Come finì lo ricordano un motivetto canticchiato da un secolo e mezzo («Garibaldi fu ferito / fu ferito ad una gamba…»), uno stivale col buco della pallottola conservato dal 1970 al Museo Centrale del Risorgimento e un cippo voluto nel 1988 (con tanto di strafalcione sulle date) da Giovanni Spadolini. Volete andarci? Il posto è struggente, la strada micidiale. Un milione di tornanti. Ma se arrivate dall’autostrada vi sembreranno leggeri. La Salerno-Reggio, con i suoi cantieri e le sue deviazioni e i suoi ingorghi e i suoi tamponamenti è peggio. Molto peggio.
Ma torniamo alla costruzione. I lavori durarono lo spazio di tre cicli elettorali: 1963, 1968 e 1972. Inutile dire che uno svincolo non si negò a nessuno. Democristiani, socialisti, comunisti... Tutti furono accontentati. È così la A3 ha un’uscita ogni 8,86 chilometri. Con il risultato che dopo, anche se avessero voluto, sarebbe stato impossibile, soltanto per il costo dei caselli, introdurre il pedaggio.
Per piegare il tracciato alle esigenze dei vari politici locali, si tuffò il nastro d’asfalto in mezzo alle montagne. Un’assurdità. Che fece allungare la strada di 40 chilometri e schizzare i costi all’insù. E fu spiegata, nella relazione del geologo Giuseppe Rogliano, scomodando Annibale: «Attraverso la valle del Savuto, infatti, Annibale, uno dei più grandi strateghi e soprattutto progettista di strade e valichi militari, raggiunse Cosenza, capitale dei Bruzi, e la sottomise, e poi, attraverso la valle del Crati, raggiunse prima la regione delle Sibariti, le cui vestigia opulente...».
Già una decina d’anni dopo il taglio del nastro inaugurale venivano fuori tutte le magagne. Da allora, i costi sono lievitati come un soufflé: da 983 milioni di euro di oggi nel 1987 a 4 miliardi nel 1997, a 6,9 nel 2004, a 9 nel 2008, a 9 miliardi 698 milioni nel 2010. E giù promesse su promesse. «La Salerno-Reggio? Pronta nel 2003», giura nel ’98 il sottosegretario diessino Antonio Bargone. «Sistemata in cinque anni», puntualizza nel 2000 il ministro sinistrorso Nerio Nesi. «Finiremo nel 2004-2005», conferma l’anno dopo il berlusconiano Pietro Lunardi. «Nel 2008», rettifica l’Anas rispondendo alle accuse («di questo passo finiranno nel 2040») della Cgil. «Sì, nel 2008», si adegua Lunardi. «Ce la faremo per il 2009», assicura Berlusconi nel 2006. A febbraio 2009 Altero Matteoli profetizza: «Per fine 2011 o inizio 2012». Finché il 29 settembre 2010, in parlamento, il Cavaliere decreta: «Sarà completata nel 2013». Risate in aula. In quelle ore, Matteoli dichiara alle agenzie: «Sarà pronta per il 90% entro il 2014». Auguri.
Il fatto è che, oltre alle «normali» lentezze italiane, in questa opera c’è una variabile non secondaria. Si chiama ’ndrangheta. Fa venire i brividi la lettura della richiesta di arresto emanata nel 2006 dalla direzione antimafia di Reggio a carico di 52 persone affiliate alle cosche locali infiltrate negli appalti. In quel documento c’è la fredda descrizione delle regole fissate dalle «consorterie calabresi per accaparrarsi i lavori di ammodernamento dell’autostrada». A cominciare dall’imposizione di una «tassa ambientale»: così è stata battezzata la tangente da pagare alle ’ndrine, fissata nella misura del 3% dell’importo del capitolato. E poi «l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, la fornitura di materiali qualitativamente non corrispondenti al capitolato, l’imposizione di ditte amiche, l’ostracismo di quelle non gradite...». Senza contare l’obbligo per le imprese di assumere i mafiosi.
Per chi non si adeguava c’era la bomba al cantiere, la caterpillar incendiata, le minacce con la pistola. Clamoroso lo sfogo pubblico del presidente di Impregilo Massimo Ponzellini, il quale ha rivelato che negli ultimi mesi i cantieri hanno subito 181 (centottantuno) attentati. Bisogna avere fegato, per gestire un cantiere lì. Come bisogna averne per fare il magistrato alla procura di Reggio. Quale sia la situazione «ambientale», del resto, lo fa capire uno dei magistrati impegnati nelle inchieste sugli appalti dell’autostrada, rivelando la preoccupazione che le gallerie del vecchio tracciato, una volta dismesse, siano chiuse, «e chiuse bene», per evitare che i buchi nella montagna possano diventare depositi di armi, esplosivo e quant’altro.
Ma che la gente di qui sia rassegnata non si può proprio dire. Lo dimostrano le iniziative spontanee che proliferano, come Quello che non ho: una «rete della legalità» promossa dall’ex segretario della Cgil Francesco Alì. In centinaia stanno preparando una petizione al governo, sintetizzabile in tre parole: «Qui manca tutto». Il reddito medio non arriva a 13 mila euro, contro i 25 mila di Milano. Nella classifica Unioncamere del prodotto interno lordo procapite la provincia reggina è al novantaseiesimo posto: 16.215 euro nel 2008, metà di Bergamo o Brescia. La disoccupazione «ufficiale» è al 12%, ma quella reale è ben altra cosa. Un terzo dei giovani è senza reddito. Il tasso di «occupazione», che misura il numero delle persone di età compresa fra 15 e 64 anni che hanno un lavoro, si ferma al 42,9%: la media nazionale è del 58,7%. E meno male che c’è la pubblica amministrazione, che assorbe il 20% degli occupati. Senza contare la sanità, altro grande affare per quel torbido impasto fra criminalità e politica.
Il sindaco reggino Giuseppe Raffa, che ha sostituito Giuseppe Scopelliti eletto Governatore dopo aver travolto Agazio Loiero, è nei guai. Soffocato da 270 milioni di debiti, 236 decreti ingiuntivi e 473 pignoramenti, il Comune rischia il crac. Quanto abbiano pesato le spesucce del predecessore, che arrivò a noleggiare una ventina di «teledivi» della scuderia di Lele Mora perché una sera passeggiassero amabilmente in città («ma lei è Nina Moric! Possiamo fare una foto insieme?»), non si sa. Certo è che ci sono da pagare 10 milioni di bollette Enel scadute. La Acquereggine (depurazione delle acque) avanza 12 milioni. E altri 80 sono vantati dalla Regione per l’acqua potabile. Il tutto mentre l’opposizione sta per lanciare un bel siluro, il caso di una dirigente esterna voluta da Scopelliti al vertice della ragioneria comunale e auto-destinataria di compensi astronomici: 567.990 euro soltanto nei primi dieci mesi del 2010. Di più: un rapporto della Corte dei conti mette il dito nella piaga delle società partecipate dal Comune come l’Atam, l’azienda di trasporto comunale che nel 2008 ha incassato appena 18,5 milioni ma ne ha spesi 12,5 soltanto per pagare lo stipendio ai 349 dipendenti.
Una situazione che rende oggettivamente complicata per il centrodestra la prospettiva della prossima scadenza elettorale del 2011, quando a Reggio si voterà per il Comune e per la Provincia. La confusione è totale in entrambi gli schieramenti. Il Partito democratico è commissariato: affidato alle cure dell’ex sindacalista della Uil Adriano Musi. Mentre qualcuno ipotizza il ritorno, per il centrodestra, dell’ex senatore Pietro Fuda.
Sono lontani i tempi della «primavera» di Reggio, così la chiamavano i fan del sindaco Italo Falcomatà, che restituì ai reggini «il più bel chilometro d’Italia», coprendo la ferrovia che separava il centro urbano dal suo mare. L’uomo che nel 1993 fece rialzare la testa a una città ancora avvilita dallo strappo del 1970, quando il capoluogo di Regione venne assegnato a Catanzaro innescando una sanguinosa rivolta. Quarant’anni dopo i segni di quella insurrezione sono ancora ben visibili. Il primo è il Consiglio regionale, dove nel 2005, al tempo della maggioranza di centrosinistra, si arrivò a mettere per iscritto: «I membri del consiglio e del governo regionale nonché i dipendenti rifiuteranno ogni tipo di rapporto, contatto o condizionamento della mafia». Articolo uno del «Codice calabrese del buon governo». La Calabria è l’unica Regione italiana con due capoluoghi «politici». La Giunta è a Catanzaro. Il Consiglio, cioè il parlamento, è rimasto invece a Reggio Calabria. Un risarcimento. E che risarcimento: il Consiglio costa 77,5 milioni l’anno, solo per le spese correnti, e occupa circa 350 persone.
«Lo stretto necessario», giurano. «Lo stretto necessario». Tanto più che oggi, con il museo archeologico nazionale in ristrutturazione, devono ospitare i massimi tesori: i Bronzi di Riace. Scampati al tentativo del Cavaliere e dei suoi fedeli di portarli ora al G8 della Maddalena, ora a Roma per dare il via a un tour mondiale. «Provvisoriamente», hanno spiegato. Ma del «provvisorio» all’italiana, da queste parti, non è che si fidano. Così, mentre il museo veniva chiuso per ristrutturazione, i bronzi bisognosi di cure sono stati trasferiti nei locali del Consiglio regionale, dov’è stato allestito un sofisticato laboratorio separato dal pubblico da una parete di vetro. Lì dentro quei tesori, che i turisti possono comunque ammirare, sono al sicuro. Perché su una cosa a Reggio son tutti d’accordo: una volta usciti dalla città, c’è il rischio che i Bronzi non rientrino più. E Reggio perderebbe qualcosa di prezioso quanto lo status di capoluogo. Tanto più che «quelli di Roma» avrebbero una scusa buona per sfilare quei capolavori: laggiù in fondo in fondo alla Calabria sono un po’ sprecati. Accusa infida. Nel luglio del 2009 il Quotidiano ha rivelato che il Museo dov’erano custoditi ha staccato in un anno 130.696 biglietti. Quasi 24 mila in meno rispetto ai 154.227 dello zoo di Pistoia.
Un programma di 100 pagine con dati, informazioni e progetti, stilati in vista di due grandi eventi: il 150° anniversario dell'Unità d'Italia nel 2011 e l'Expo del 2015 di Milano. Cento pagine che il sottosegretario al Turismo, Michela Vittoria Brambilla, anticipa a Panorama, in vista del 20 giugno, quando si terrà la conferenza annuale di Riva del Garda: primo incontro ufficiale del governo con la categoria, gli operatori del settore e le regioni.
Può fare qualche esempio di cantiere già approvato?
“Il nuovo Palazzo del cinema di Venezia e la riqualificazione delle aree limitrofe: il futuro della mostra e dell'economia del Lido è legato alla realizzazione di questo complesso che favorirà l'occupazione e lo sviluppo durante tutto il corso dell'anno.”
Come sarà il nuovo spazio?
“Una grande sala da 2.400 posti e l'area del mercato dei film, composta da 15 sale di proiezione polivalenti e da aree commerciali per un totale di 7 mila mq.”
Altri progetti?
“La costruzione del nuovo auditorium a Firenze. Nascerà lungo la linea che separa la Firenze verde da quella di pietra, giocherà infatti un delicato ruolo tra le diverse parti della città. Ci sarà una cavea all'aperto, giardini interni e spazi coperti, anche un ponte pedonale che a sud-ovest supera il fosso Macinante.”
Questo per le città d'arte. Quali altri centri sono interessati?
”Il museo dell'arte contemporanea a Cagliari, che mira anche alla riqualificazione del fronte mare della città, e l'ampliamento dell'aeroporto internazionale di Perugia S. Egidio. L'Umbria infatti, pur avendo una posizione geografica molto favorevole, non ha mai avuto collegamenti viari, ferroviari e aerei importanti, sebbene ospiti da diversi anni manifestazioni di risonanza come UmbriaJazz, Eurochocolate e il Festival dei due mondi. E ancora: la nascita di un polo, un grande parco urbano territoriale, con aree boschive pregiate, tra il parco della Reggia di Caserta e quello nell'area dell'ex Macrico con edifici dedicati al turismo e al tempo libero.”
Qual è la prima cosa che ha fatto quando è entrata nei suoi uffici?
“Una riunione con i dipendenti per dire che la parola d'ordine è operatività. A ogni euro speso deve corrispondere un turista in più. Basta con gli sprechi.”
Piglio manageriale. La reazione?
“Ottima: non vedevano l'ora di rimettersi al lavoro. Ho intenzione di operare una sintesi fra tutti i contributi dei vari enti, dando vita a un'unica politica nazionale di promozione e sostegno del turismo. Credo sia questa una delle mancanze degli ultimi anni.”
Qualcuno l'ha ribattezzata strategia acchiappaturisti. È così?
“Senza essere paradossali diciamo che ce n'è bisogno. I dati parlano chiaro: dal 1991 al 2006 c'è stata una crescita di presenze nel nostro Paese del 36,8 per cento. Non è un numero rassicurante: basti pensare che in Spagna sono aumentate del 63, in Francia del 44,8, nel Regno Unito del 66,5, in Turchia dei 323 e in Cina del 346 per cento. I dati ci dicono di un settore che cresce ma non abbastanza, o perlomeno non quanto sta crescendo in altri paesi del Mediterraneo.”
Altri dati di confronto?
“Il World travel & tourism council (Wttc) ci dice che siamo al 173° posto nella
graduatoria mondiale delle previsioni di crescita. Se l’Italia sale dell’ 1,4 per cento, la Spagna, nostra diretta concorrente, si sviluppa del 2,8: il doppio.”
Perché questa differenza?
“Intanto occorre ricordare che il 60 per cento del turismo nel nostro Paese è fatto da nostri connazionali. Inoltre un dato significativo è che i due terzi del turismo non va più giù di Roma. Il che vuol dire che Nord e Sud hanno necessità totalmente differenti. Venezia viene visitata ogni anno da circa lo stesso numero di turisti di tutto il Sud. Inoltre c’è un problema di qualità dei servizi offerti e di formazione professionale che varia a seconda delle diverse aree del Paese.”
Ci saranno anche altre carenze...
“Le stiamo ancora analizzando. A intuito possiamo dire che l'Italia ha bellezze artistiche e paesaggistiche ma manca di infrastrutture. Nell'ultimo anno abbiamo scoperto che sono stati cancellati 7 mila treni locali. Dovremo identificare le zone di maggior crisi e quelle di maggior competitività, con uno sguardo complessivo.”
Male i treni, ma anche le autostrade non stanno tanto bene.
“Dagli anni Settanta a oggi nei paesi europei la rete autostradale è cresciuta del 230 per cento, in Italia solo del 67. La rete dell'alta velocità copre nel nostro Paese soltanto 590 chilomentri, circa un terzo rispetto alla rete francese, che arriva a 1.540 chilometri.”
E per quanto riguarda i porti?
“I paesi con il maggior numero di ormeggi sono i Paesi Bassi (220 mila) e la Gran Bretagna (175 mila), seguono la Francia e la Spagna.”
Perché le grandi catene alberghiere sono controllate dagli stranieri?
“Ci dovremo lavorare: nemmeno nei primi 50 gruppi europei figura oggi una catena italiana. La jolly hotel infatti è stata acquistata nel 2007 da un gruppo spagnolo.”
Ha un obiettivo per il suo mandato?
“Aumentare i flussi turistici in modo da portare a casa almeno 3-4 punti di pil. Tempo massimo: 5 anni.”
Managerialità, operatività, concorrenza e - immancabile – competitività. Eccolo il programma della fulvocrinita sottosegretaria: tale è la foga dell'azione che vi traspare, da provocare un senso di stanchezza alla sola lettura. Qualcuno deve aver suggerito alla wonderwoman della Brianza che buttarla sul numero fa molto executive e, se non altro, aiuta a seppellire sotto un diluvio di cifre pescate un po' a casaccio da qualche documento qua e là l'eventuale ignoranza della materia su cui si discetta. E quando persino l'intervistatore pur amichevolissimo tenta di porre un argine a tale cumulo di banalità (avreste mai sospettato, ad esempio, che il Nord abbia necessità totalmente differenti dal Sud?) la nostra ermeneuta da agenzia viaggi si affida all'intuito (sic!), che le suggerisce la consueta lezione: porti, aereoporti, autostrade e in generale infrastrutture e costruzioni di ogni genere e foggia; persino l'unico esempio evocato di progetto di parco urbano, oltre a qualche accessorio esemplare botanico, sarà fruttuosamente destinato ad ospitare non meglio precisati edifici per il tempo libero e il turismo. Nella panoplia dell'armamentario sviluppista nulla ci viene risparmiato e così non possono mancare i centri commerciali a indispensabile coronamento del Palazzo del Cinema e la consueta equazione ad usum plebis: più costruzioni=più lavoro.
La Napoleonessa delle EPT venuta a risvegliare i letargici dipendenti dal loro torpore (“non vedevano l'ora di rimettersi al lavoro”, sic!) pare divorata dall'ansia da guinness: sembra che l'obiettivo prioritario per il nostro paese (da raggiungere, guarda caso, in un lasso di tempo che coincide perfettamente con quello della legislatura) sia quello di scalare le classifiche del settore, risalire le posizioni, sconfiggere gli avversari e, goal!, guadagnarsi la Coppa Campioni del turismo.
E in questa tragicomica manifestazione di sindrome da horror vacui cementizio neanche il più vago accenno ad un impiego di risorse destinato a ciò che di tutto questo movimentismo vacanziero dovrebbe essere lo scopo principale e cioè la fruizione del nostro patrimonio paesaggistico e culturale: l'anelito al primato della nostrana combattente sul fronte dell'ufficio prenotazioni è talmente scevro da ogni preoccupazione di carattere latamente culturale, da svelare senza reticenze e senza dubbi come, in questa visione, il nostro paesaggio e il nostro patrimonio culturale nel loro insieme siano al più sentiti come un utile gadget, da sfruttare e spremere finchè serve per “portare a casa” - quella della libertà, s'intende - qualche punto percentuale di fatturato in più. E in questo ribaltamento assoluto di mezzi e fini che rimescola in un unico melting pot da film di Cronenberg Eurochocolate assieme al Festival dei due mondi, le uniche pulsioni ideologiche paiono rifarsi ad un nazionalismo da figurina Panini, condito in salsa similbocconiana e veterolittoria.
Ma forse le ascendenze sono da recuperare un po' più vicino nel tempo e nel genere: a rileggere l'assertivo slogan “voglio un turista per ogni euro speso”, davvero la memoria corre alle esortazioni prescrittive della Wanna Marchi nazionale che, nell'impeto della televendita e con esilarante sprezzo dell'evidenza, vista la non esile figura, ci ingiungeva: “Vi voglio tutti magri!” (m.p.g.)
Tormentone tutto italiano: perché i Verdi in Paesi europei sviluppati spuntano consensi di massa e in Italia, Paese minacciato come pochi, stagnano all’1 %? Personalmente penso: a) i Verdi italiani sono nati lasciando da parte (con qualche iniziale eccezione, Fulco Pratesi) i loro "padri": lo stesso Antonio Cederna non è stato mai eletto dai Verdi, altri sono stati lasciati a casa loro, Insolera, Amendola, Fazio, ecc. ; b) i Verdi sono stati via via egemonizzati da componenti extra-parlamentari di sinistra (Dp soprattutto) divenendo così un partitino militante della sinistra nel quale, se si era ambientalisti, bisognava essere contro l’intervento nel Kosovo, anti-capitalisti, ecc., mai trasversali; c) la decisione di trasformare il movimento in partito (lo dissi subito all’amico Luigi Manconi) era sbagliata in radice, bisognava rimanere movimentisti, presenti in tutte le formazioni democratiche, decidendo volta a volta liste "verdi". Il partito – previsione scontata – l’avrebbe conquistato il primo che avesse fatto collezione di tessere. Incaglio che vedo riaffiorare in vista del congresso del Pd e che mi ricorda i nefasti del Psi dove la sinistra di Lombardi-Giolitti prevaleva nelle assemblee politiche e nel voto di opinione (allora c’erano le 4 preferenze), ma veniva poi sotterrata dai voti clientelar/famigliari ai congressi, dove c’erano in ballo posti & poltrone.
Il Belpaese ha dunque enormi problemi sul piano della conservazione attiva del patrimonio storico-artistico-paesaggistico, aggravati da un centrodestra che massacra il bilancio dei beni culturali, e quindi la tutela stessa, minaccia i parchi, non investe nel risanamento idrogeologico, nella prevenzione sismica, ecc.. Ma, a fronte di una vera tragedia epocale, abbiamo associazioni indebolite (Carlo Ripa di Meana presidente romano di Italia Nostra ha elogiato il piano casa Berlusconi…), Verdi ridotti ai minimi dal loro "suicidio" con Pecoraro Scanio, un ambientalismo vago o insufficiente nel centrosinistra.
Comincio dall’Italia dei Valori: non si è ancora data un vero programma generale e su questi temi dice poco o nulla (nonostante Pancho Pardi e altri). Antonio Di Pietro, del resto, ministro delle Infrastrutture tutt’altro che vicino all’ambientalismo, ha tenuto in vita la Società per il Ponte sullo Stretto, prontamente rivitalizzata da Berlusconi. L’Ulivo prodiano si era dato, a fatica, un programma impegnativo in materia. Fra gli ex Ds tuttavia c’erano stagionate insensibilità. Del resto – l’ha fatto notare Alberto Asor Rosa ad un convegno sul paesaggio – il marxismo stesso è stato sviluppista e industrialista, mentre i difensori della natura e del patrimonio storico (Zanotti Bianco, Bassani, Cederna, Detti, Rossi-Doria, Desideria Pasolini, ecc.) vengono dal pensiero liberale o liberalsocialista. Per molti anni, tuttavia, le elaborazioni della sinistra in materia di centri storici e di paesaggio (Cederna, Cervellati, Achilli, l’INU di Detti, Insolera, Gambi, ecc.) hanno positivamente influenzato le amministrazioni Pci-Psi e la sinistra dc. Ricorda Fulco Pratesi, fondatore del Wwf Italia: "Allora noi trovavamo quasi sempre una sponda positiva nelle giunte di sinistra o di centrosinistra. Oggi spesso ce le troviamo contro". Dato di fatto incontestabile. Lo confermano casi clamorosi: a Monticchiello, a Casole d’Elsa o a Urbino oggi di nuovo minacciata da "grandi lavori" e da centri commerciali vicino o dentro le mura stesse. I tempi del primo PRG di De Carlo voluto da un sindaco pci, il falegname Egidio Mascioli, sembrano preistoria.
Nel Partito Democratico circola un "ambientalismo del fare" che poco affascina, poco incide e poco aggrega rispetto al "fare" berlusconiano. Sembra, a volte, che si "insegua" il modello della deregolazione, delle grandi opere cementizie, di passanti ferroviari sotterranei (vedi Firenze) quando ci sono già stazioni di superficie, di centri commerciali giganteschi a tutto spiano (a Roma, in pochi anni, da 2 a 28, in contrasto stridente col "piano del ferro" Tocci-Rutelli).
Non contrapponendo al modello berlusconiano, sfrenatamente consumistico (anche sul piano dell’enorme consumo di terra e di paesaggio), un modello alternativo, perché mai consensi elettorali di massa dovrebbero piovere sul Pd? I voti di centro vanno alla Lega o all’Udc, quelli di sinistra si frantumano, o affogano nell’astensione. Adesso "va molto" l’"invidia della Lega" che "fa come il vecchio Pci, sta fra la gente, organizza le feste", ecc. D’accordo, fra la gente bisogna starci, ma con un proprio programma, non con quello della Lega (dura difesa dall’immigrazione, sicurezza con le ronde, individualismo da padroncini, localismo, rifritture del solito qualunquismo).
Nel Pd Giovanna Melandri, responsabile per la cultura, mi sembra avere incisivamente corretto la linea sbagliata della "produttività" dei beni culturali e ambientali, della loro "messa a frutto" abbracciata anni fa da Federculture, da Ermete Realacci e da non pochi ds. Cavalcata, ora, di gran carriera, da Berlusconi, dai fantasmatici Bondi e Prestigiacomo e dall’incombente Mario Resca superdirettore alla valorizzazione. La giusta correzione di Giovanna Melandri va tradotta in strategia per una cultura rigorosa, attiva, moderna della tutela (anche a fini turistici, o suicidi!). In Maremma Nicola Caracciolo, pur presidente toscano di Italia Nostra, ha teorizzato che le aziende agricole si risanano dando loro modo di costruire. Un controsenso. Anche agricolo. Ma, guarda caso, nel Piano casa berlusconiano (per ora bloccato alla Conferenza Stato-Regioni), era previsto un 10 per cento, comunque, di "premio" nelle zone agricole. La Regione Toscana ha varato per prima la legge regionale di un Piano casa nazionale che…ancora non c’è. Non è confusione delle lingue, questa?
[…] Le considerazioni svolte fin qui mettono in evidenza che gli aspetti territoriali hanno grande rilievo in Italia, per motivi storici, geografici, economici e sociali. Le analisi sviluppate quest’anno hanno consentito, da un lato, di cogliere meglio l’articolazione a scala locale dei problemi legati alla performance delle imprese e alle caratteristiche del mercato del lavoro all’inizio della fase recessiva; dall’altro, hanno permesso di fare il punto sulle aree di forza e di debolezza di un "modello" produttivo e sociale profondamente radicato localmente. In questa chiave di lettura, il territorio non rappresenta una dimensione astratta, uno spazio geografico, ma fa riferimento a un insieme di elementi concreti (anche se non sempre tangibili), a un "sistema" di risorse localizzate: attività produttive, ma anche competenze, tradizioni, know-how, elementi culturali e "valori" che definiscono le identità locali, regole e pratiche che compongono un modello di governance.
Per questo motivo, al fine di mettere in luce eventuali ulteriori vincoli allo sviluppo, il Rapporto annuale affronta, sempre in termini statistici, il tema dell’impatto della relazione tra crescita economica e assetto urbanistico. Storicamente, e ormai da parecchi decenni, la crescita della cosiddetta "Terza Italia" si è associata a un esteso consumo di suolo, legato non solo alla nascita e alla crescita di localizzazioni produttive al di fuori delle aree metropolitane, ma anche alla trasformazione della struttura sociale dei territori investiti da quei processi di sviluppo. In molti luoghi sembra essersi instaurato un circolo vizioso: da una parte, si mettono in luce i "costi" che il modello di sviluppo locale prevalente da almeno trent’anni, e largamente spontaneo, ha comportato in termini di consumo delle risorse territoriali; dall’altra, si pone la questione se la riproduzione del medesimo modello sia ancora sostenibile oppure, in larghe porzioni del Paese, non incontri un limite alla sua evoluzione e al suo progresso proprio nello sfruttamento incontrollato del capitale territoriale. L’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi decenni un’accelerazione senza precedenti che si è prodotta in assenza di pianificazione urbanistica sovra- comunale in importanti aree del Paese (Mezzogiorno, Veneto e Lazio tra tutte).
Nel periodo 1995-2006 i Comuni italiani hanno rilasciato in media permessi di costruire per 3,1 miliardi di m3, il 40 per cento dei quali per edilizia residenziale (22,3 m3 all’anno per abitante) e il rimanente per le attività produttive. Limitatamente alla componente residenziale, la domanda di nuova edificazione non è più sostenuta tanto dalla crescita demografica, quanto dalla moltiplicazione dei nuclei familiari, da attribuirsi alle trasformazioni strutturali in atto nella società italiana.
La dinamica delle superfici edificate è caratterizzata da espansioni continue: nel 2001 le aree urbanizzate (cioè località abitate individuate in occasione dei censi- menti) includevano il 6,4 per cento del territorio nazionale, con un incremento del 15 per cento rispetto al 1991. Nello stesso periodo la popolazione è cresciuta soltanto dello 0,4 per cento.
Le procedure di revisione delle aree urbanizzate in vista dei prossimi censimenti consentono di aggiornare il quadro per alcune regioni, e di confermare che i processi di edificazione sono proseguiti a ritmi sostenuti: in Puglia, Marche e Basilicata gli incrementi di superfici urbanizzate spaziano tra il 12 e il 15 per cento, e in Molise si raggiunge il 18. In Veneto, che già nel 1991 condivideva con la Lombardia il primato di regione "più costruita" d’Italia, le superfici edificate crescono ancora del 5,4 per cento, approssimando situazioni di saturazione territoriale. Con Lazio e Puglia, il Veneto è anche la regione dove in assoluto si è costruito di più (oltre 100 km2 di nuove superfici edificate).
In definitiva, l’analisi consente di individuare aree e configurazioni a forte e consolidata caratterizzazione: da un lato, i sistemi locali metropolitani e quelli di hinterland, con forme consistenti di consumo intensivo del suolo; dall’altro le aree del triangolo veneto-lombardo-romagnolo, dove più evidente si manifesta il fenomeno dello sviluppo urbano a bassa densità nei terreni ai bordi delle città, con forme evidenti di consumo estensivo (urban sprawl).
A queste si aggiunge l’individuazione ulteriore di situazioni critiche per densità di popolazione nelle aree extraurbane e la pressione della domanda di nuova edificazione: in gran parte della pianura padanoveneta, nella fascia litoranea marchigiano-abruzzese e nelle vaste aree d’influenza di Roma e Napoli il modello insediativo ad alto consumo di suolo tende a riprodursi saturando complessivamente i residui spazi disponibili; in Puglia, nella pianura friulana, nella bassa lombarda e nel Campidano – tutte aree a bassa e media densità di popolazione extraurbana – la domanda di nuova edificazione segnala un cambio di paradigma, che rischia di mettere in crisi la stessa immagine storica dei territori.
La retroazione positiva fra modello prevalente di sviluppo locale e crescita del consumo di suolo appare dunque in prospettiva doppiamente critica, sia per la sostenibilità territoriale dell’incremento dell’urbanizzazione nel lungo periodo, sia per i limiti che la commistione degli usi e la congestione degli spazi impongono all’evoluzione delle imprese e delle economie locali verso dimensioni e strutture organizzative più solide. Le specificità e le caratteristiche storiche dei luoghi, dunque, non pongono soltanto problemi di tutela e conservazione, ma sono elementi del "capitale territoriale", determinanti per rilanciare lo sviluppo senza stravolgere le vocazioni locali. Un esempio, parziale ma rappresentativo, di queste tematiche è costituito dai beni culturali, e in particolare dai musei e dagli altri luoghi di antichità e arte, cui il Rapporto dedica un approfondimento specifico.
A fianco delle 400 strutture museali statali (in grado di esercitare una capacità attrattiva quantificabile in oltre 34 milioni di visitatori annui e di produrre un volume finanziario, solo di incassi, pari a 106 milioni di euro) esiste un ampio ed eterogeneo patrimonio culturale "non statale" distribuito in modo capillare sul territorio: 4.340 istituti a carattere museale, nel 42 per cento dei casi associati in forme di circuiti territoriali o tematici, che nel 2006 hanno ospitato più di 62 milioni di visitatori. La geografia culturale descritta da queste realtà rappresenta una domanda che non si concentra nelle aree di maggiore notorietà e attrazione di massa, ma è interessata a realtà minori, disseminate sul territorio, e che quindi è potenzialmente un elemento di sviluppo, non soltanto turistico.
http://www.istat.it/dati/catalogo/20090526_00/sintesi.pdf
La brochure è curatissima, stampata su carta patinata e impreziosita da decine di foto. Di rappresentanza anche lo stand espositivo per le informazioni agli operatori di mercato e l’organizzazione dei meeting con i potenziali investitori stranieri. Un lavoro da piazzisti in doppio petto sulla croisette di Cannes, teatro il “Mipim 2009”. Ossia il principale forum mondiale della proprietà: 2.687 aziende espositrici da 89 paesi e 7.625 fra investitori ed utenti finali. Quattro giorni (dal 10 al 13 marzo scorso) per consentire, recita il sito internet, «ai delegati di avere una prospettiva unica sul mercato mondiale». Niente di strano per una azienda che opera nel settore degli immobili, qualcosa di più curioso invece se sulla brochure e nello stand fanno bella mostra di sè gli stemmi dell’Esercito, della Marina Militare, dello Stato Maggiore della Difesa, dell’Aeronautica e dei Carabinieri.
Ma che ci facevano le forze armate ad una fiera internazionale dell’immobiliare? La risposta è nei due articoli di un disegno di legge fermo in commissione difesa del Senato e nella pagina 3 della suddetta brochure informativa, accanto al testo tradotto in inglese: «il patrimonio immobiliare del Ministero della Difesa comprende una vastissima tipologia di siti ed infrastrutture, sparsi su tutto il territorio nazionale, quali depositi, caserme, forti e arsenali, molti dei quali risalgono al periodo del secondo conflitto mondiale e, spesso, anche ad epoche precedenti». Molti di questi siti, spiega il ministero, «non risultano essere più in linea con le attuali esigenze» e pertanto aprono la strada ad «un processo di significativa riduzione». Che tradotto significa, citiamo ancora dall’elegante pubblicazione, che molte di queste strutture «potranno essere cedute» e dalla loro «eventuale vendita o locazione sarà possibile ricavare risorse finanziarie aggiuntive, da destinare alle esigenze di ammodernamento e miglior funzionamento della Difesa». Del resto la cura Tremonti, e lo stesso ministero è stato costretto ad ammetterlo nella propria nota illustrativa alla Finanziaria, ha ridotto gli stanziamenti per le forze armate di 838 milioni di euro nel solo 2009.
Servono soldi freschi, insomma, e l’idea del governo è quella di «vendere al miglior offerente», citazione testuale dalla solita brochure, pezzi del patrimonio architettonico italiano che il ministero della Difesa non ritiene più utili o adatti alle esigenze delle forze armate. Per farlo il governo ha escogitato l’ennesima trovata di una storia già nota sotto al titolo “Finanza Creativa”. E falliti i piani A e B (due emendamenti: uno al collegato “disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese nonché in materia di energia”, l’altro al decreto legge sui prezzi con l’obiettivo di mutarne il titolo sostituendo la dicitura “pesca professionale” con “attività funzionali alle forze armate”) l’esecutivo ha deciso di prendere di petto la questione presentando un proprio disegno di legge. Il numero 1373 che, se all’articolo 1 punta alla «tutela dei segni distintivi delle Forze Armate», con l’articolo 2 istituisce la “Difesa Servizi Spa”: una società privata a capitale pubblico, il ministero della Difesa ne è l’unico azionista, che «ha ad oggetto la prestazione di servizi e lo svolgimento di attività strumentali e di supporto tecnico-Amministrativo in favore dell’amministrazione della difesa per lo svolgimento di compiti istituzionali di quest’ultima anche espletando, per il comparto sicurezza e difesa, le funzioni di centrale di committenza» (art.2 comma 3). Ma la “Difesa Servizi Spa”, ed è proprio questo il punto, «può altresì assumere partecipazioni, detenere immobili ed esercitare ogni attività strumentale, connessa o accessoria ai suoi compiti istituzionali».
I primi effetti di questa formulazione così vaga, li ha spiegati proprio il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto nell’ottobre scorso quando spiegò che «il Governo intende velocizzare i processi di dismissione degli immobili di pertinenza del ministero della Difesa». Ed è stato proprio lo stesso Crosetto a volare a Cannes per presentare ai potenziali investitori le meraviglie che il governo italiano intende immettere sul mercato per venderle o quantomeno affittarle «al miglior offerente». Una lista che ha fatto strabuzzare gli occhi a molti investitori stranieri. Perché degli immobili messi in vetrina (divisi per uso residenziale, industriale o turistico alberghiero) fanno parte veri e propri gioielli del patrimonio italiano. Dall’Arsenale di Venezia (l’arzanà de’ Viniziani, lo definì Dante nel XXI canto dell’Inferno) a quello di Taranto; dall’Isola di Sant’Andrea di Venezia a quella di Palmaria. E poi il Castello Aragonese di Brindisi, i Depositi di Punta Cugno ad Augusta, gli stabilimenti del Genio di Pavia e il comprensorio di San Gallo di Firenze. Per non dimenticare poi le caserme sparse fra Milano, Torino e Bologna. «Le operazioni immobiliari che il Ministero della Difesa si appresta ad avviare - si legge infatti nella brochure - riguarderanno installazioni di più rilevante valore commerciale, quelle cioè che sono in grado di offrire un ventaglio di maggiori possibilità di riconversione ad uso civile e di nuova costruzione, singoli edifici di particolare pregio architettonico o grandi strutture». E sono soltanto i primi pezzi pregiati da vendere al miglior offerente: altri ne seguiranno quando alla Difesa Servizi Spa saranno affidati gli altri siti di un patrimonio immobiliare il cui valore, secondo stime, si aggira intorno ai 4 miliardi di euro.
Questo prevede il disegno di legge n. 1373 che, fra le altre cose fa della Difesa Servizi Spa un grande “contractor” che si occuperà di tutti gli appalti del settore sottraendoli di fatto a qualsiasi controllo. Ma questa è un’altra storia, che fra l’altro puzza di immondizia ed è pericolosa quanto l’uranio delle centrali nucleari. La racconteremo più avanti.
(1-continua)
Da palazzo Brasini all’isola di Palmaria.
L’arsenale di Venezia rappresenta una parte molto estesa della città insulare e fu il cuore dell’industria navale veneziana a partire dal XII secolo. Ospita una delle sedi espositive della Biennale.
L’Isola di Sant’Andrea di Venezia è una piccolissima isola conosciuta per il Forte di Sant’Andrea, costruito nel XVI secolo.
L’Isola Palmaria si trova all’estremità occidentale del Golfo de La Spezia ed è grande 6 km quadrati. È stata inserita fra i Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco.
Il Castello Aragonese di Brindisi fu costruito nel 1491 sull’isola antistante il porto da Ferdinando I d’Aragona a difesa della città.
Le strutture dei depositi di Punta Cugno, ad Augusta, sono di proprietà della Marina Militare e rientrano nel primo elenco dei siti che il ministero della Difesa intende dismettere.
L’Arsenale Militare Marittimo di Taranto è della Marina Militare. I lavori per la realizzazione della struttura iniziarono nel settembre del 1883. Occupa un’area di oltre 90 ettari ed ha un fronte a mare di circa 3 km, da cui si sviluppano 4,5 km di banchine.
Anche Palazzo Brasini, a Taranto, rientra nella lista degli immobili che la Difesa ha presentato a Cannes agli investitori interessati all’acquisto.
Il comprensorio San Gallo, a Firenze, è di proprietà dell’Esercito. È uno dei siti individuati dalla Difesa per la dismissione e inseriti nella lista degli immobili turistico alberghieri.
La Caserma Cavalli di Firenze, ex Granaio dell’Abbondanza, fu costruito nel 1695 dall’architetto Giovan Battista Foggini per volontà del Granduca Cosimo III de’ Medici.
La Caserma Tagliamento di Bologna fa parte del primo “lotto” di immobili che la Difesa intende dismettere. La sua riqualificazione, secondo i progetti, sarebbe ad uso residenziale.
L’Arsenale di Pavia di via Riviera, meglio conosciuto come gli Stabilimenti del Genio di Pavia, finiranno presto sul mercato immobiliare. Appartiene all’Esercito e il nuovo uso a cui sarebbe destinato è quello residenziale.
La Caserma La Marmora di Torino, in via Asti 22, venne costruita tra il 1887 e il 1888. Durante la seconda guerra mondiale fu anche prigione per i sospetti partigiani.
La Caserma Mardichi di Torino, di proprietà dell’esercito, sarà messa in vendita dalla Difesa. La nuova destinazione ipotizzata è quella turistico alberghiera.
Anche la caserma Montebello di Milano, secondo i piani del ministero della Difesa, dovrebbe essere venduta per un nuovo utilizzo turistico alberghiero.
La Caserma Cadorna di Legnano, in passato, ha ospitato anche il 2° Reggimento Bersaglieri. In futuro, secondo i piani della Difesa, potrebbe diventare una struttura turistica alberghiera.
Tuvixeddu, la più grande necropoli punica del Mediterraneo, è salva. Il direttore del Servizio beni culturali dell’assessorato alla pubblica istruzione della Regione Sardegna ha firmato un provvedimento di sospensione dei lavori in corso nel colle di Tuvixeddu, dove la Coimpresa, una cordata di imprenditori guidata dal costruttore Gualtiero Cualbu, aveva cominciato ad edificare un intero quartiere (quasi trecentomila metri cubi). «Sono inibiti - si legge nel testo del provvedimento - tutti i lavori, riferibili ad opere pubbliche o opere a carattere privato comunque capaci di recare pregiudizio al paesaggio nella zona del colle di Tuvixeddu ».
Il provvedimento si rifà al Codice Urbani, che consente alle Regioni di vincolare aree di particolare interesse paesaggistico o storico culturale, e ha efficacia solo per un periodo di novanta giorni. Novanta giorni che saranno impiegati, da Renato Soru e dalla sua giunta, in un confronto con il comune di Cagliari, retto da un’amministrazione di centrodestra, e con Cualbu, con l’obiettivo di convincere sindaco e costruttore a rinunciare al progetto in cui amministratori e impresa si sono impegnati con un accordo siglato nel settembre del 2000.
Non sarà un confronto facile. Cualbu, infatti, ha annunciato che non bloccherà i lavori nell’area archeologica fino a quando i suoi legali non avranno vagliato il contenuto dell’ordinanza emessa dagli uffici della Regione. «Le ruspe si fermeranno - ha detto Cualbu - soltanto se nell’ordinanza sono citati articoli di leggi che sopravanzano l’accordo di programma che abbiamo siglato con il comune, un vero e proprio contratto, che ha valenza civilistica». Se la Coimpresa non sospenderà i lavori nell’area della necropoli punica neanche quando, probabilmente domani, sarà notificata l’ordinanza emessadalla Regione, la Guardia forestale dovrà mettere i sigilli ai cantieri. A Cualbu, per ilmomento, Soru ha risposto: «Noi facciamo le regole, alle quali ci si può attenere oppure disubbidire». «Il sistema delle imprese - ha aggiunto il presidente della giunta regionale - è un pezzo della società al servizio della società. La società, nei suoi valori più alti, non è al servizio dell’impresa. Ci sono valori che vanno al di là dei metri cubi».
Il provvedimento che ferma le ruspe fa riferimento in particolare al Piano paesaggistico regionale, la legge salvacoste voluta da Soru. Il Piano individua alcuni sistemi storico-culturali da tutelare. Tra questi c’è Tuvixeddu. «I lavori in corso - si legge nel documento firmato dal direttore del Servizio beni culturali della Regione - sia per l’incidenza sulla morfologia del sito sia per la loro collocazione a ridosso della necropoli e della vasta area storica e monumentale del colle di Tuvixeddu, sono capaci di pregiudicare il bene paesaggistico tutelato dal Piano paesaggistico regionale, limitando la possibilità della Regione di intervenire con le misure di recupero e di riqualificazione indicate dal Piano paesaggistico».
Domani s’insedierà una commissione regionale, prevista dal Codice Urbani, che dovrà individuare, oltre Tuvixeddu, tutte le altre aree da vincolare. Sarà composta dagli archeologi Raimondo Zucca e Maria Antonietta Mongiu, dal naturalista Ignazio Camarda, dall’architetto Sandro Roggio e dal direttore generale dell’assessorato alla pubblica istruzione. L’istituzione della commissione segna un’ulteriore conferma della strategia di tutela dell’ambiente e dei beni storico-culturali perseguita sin dall’inizio da Soru con particolare determinazione. A sostegno di Soru e della sua maggioranza si è schierata Italia Nostra. «Dopo Monticchiello e Mantova - afferma Italia Nostra - il cemento è arrivato a minacciare anche Tuvixeddu in Sardegna, una delle più importanti necropoli Puniche del Mediterraneo. Per fortuna il presidente della Regione, Renato Soru, ha stoppato i lavori. Vediamo con soddisfazione che sta nascendo una leva di amministratori locali sensibili ai problemi della conservazione dei beni culturali e al rispetto del paesaggio: dal sindaco di Mantova, che ha bloccato una devastante villettopoli, a Soru che è intervenuto più volte adifesa della sua Sardegna, prima salvaguardandone le coste, poi battendosi contro l’invasione delle torri eoliche e ora evitando la colata di cemento su Tuvixeddu». Poi Italia Nostra tira le orecchie a Francesco Rutelli: «Sul caso Tuvixeddu ci si sarebbe aspettati un intervento ben più deciso da parte del ministro dei Beni culturali, sollecitato a intervenire nei mesi scorsi dallo stesso Soru». Con le ruspe già in azione, Rutelli si è limitato ad invitare gli uffici regionali del ministero a studiare il problema per avanzare eventuali proposte.
Il Coordinamento del Gargano per il risanamento e la prevenzione delle aree boschive incendiate, che comprende associazioni ambientaliste, circoli politici, cittadini, ritiene necessario un chiarimento a beneficio dell'opinione pubblica. Il catasto delle aree boschive incendiate, come strumento tecnico, esiste fin dall'entrata in vigore della legge 353/2000 che lo prevede. Il problema è che non è stato adottato dalla maggioranza dei comuni italiani. Precisamente, i Coordinamenti territoriali ambientali (organismi del Corpo forestale dello stato che operano nei parchi) ogni anno effettuano la perimetrazione delle aree incendiate tramite uno strumento (il Gps) collegato al satellite, cui danno un profilo informatico facilmente sovrapponibile alla mappa catastale usando dei software (ad es. autocad) normalmente in possesso delle pubbliche amministrazioni comunali.
In Puglia, il Coordinamento del Corpo forestale di Bari produce ogni anno, dal 2000, il Cd delle perimetrazioni e lo offre con comunicazione scritta ai comuni, che risultano non avere fatto la banale operazione informatica di accatastamento, che è senza costi, senza complessità né lunghi tempi e di cui tra l'altro avrebbero dovuto, per legge, prendere l'iniziativa loro stessi, con l'ausilio della forestale. E' quanto dichiarato dal dottor Mastrorilli del Corpo forestale di Bari, che detiene le suddette comunicazioni scritte protocollate e dai C. t. a. consultati (anche di altre regioni). L'omissione è talmente grave che ci sembra importante anche informare e tenere desta l'attenzione dell'opinione pubblica. Grave perché non prevenire con il catasto, in particolare attività edilizie, ha per conseguenza situazioni difficilmente e pericolosamente reversibili perché di fatto si richiedono denunce di cittadini in zone con criminalità, oltre a incrementare aspettative illecite foriere di nuovi incendi. Il Gargano anche negli anni precedenti è stato devastato da incendi, ma la maggior parte dei comuni non ha provveduto al catasto delle aree colpite.
Pertanto invitiamo le Procure di Lucera e di Foggia nonché le altre Procure italiane a indagare su eventuali reati, in particolare l'omissione di atti d'ufficio (la legge 353/2000 obbliga i comuni all'accatastamento entro 90 giorni dall'approvazione del piano regionale antincendio che in Puglia è stato emanato nel 2004).
L'attenzione delle Procure dovrebbe anche concentrarsi sulle mancate ordinanze sindacali di abbattimento dei manufatti edilizi abusivi quando appaia evidente la dolosa omissione: le iniziative dei privati comportano rischi e per questo non sono molto frequenti.
Infine, si rileva che la l. 353 sanziona amministrativamente il pascolo in aree incendiate per cinque anni. Invece nel Gargano risulta che aziende di allevamento anche con centinaia di capi di bestiame lo pratichi senza eccessivi problemi, venendo meno il deterrente a eventuali interessi incendiari: sarebbe facile averne indizio dall'amministrazione preposta rapportando numero dei capi (dato Asl) e terre da pascolo ufficialmente possedute.
Menuccia Fontana, pres. Italia Nostra sez. Gargano; Franco Salcuni, resp. Legambiente Gargano; Carlo Fierro), resp. Wwf Foggia; Enzo Cripezzi, resp. Lipu; Prc; Se; Giuseppe Comparelli, segr. Circolo di Vico del Gargano; Donatella Frisullo, coordinatrice
«Incendi estivi, trivelle in Val di Noto, abusivismo sulla Costiera amalfitana o in Val d'Orcia, emergenza spazzatura a Napoli. La misura è colma. L'Unesco ha messo in mora l'Italia. Se non facciamo nulla sul fronte della difesa dell'ambiente e del territorio, nel 2008 dovremo cominciare a digerire la prima esclusione di un sito dalla lista del patrimonio dell'umanità Perderemo la leadership mondiale che abbiamo oggi, perché non sappiamo difenderla. La Spagna, che è seconda, è pronta a sorpassarci». È profondamente amareggiato Giovanni Puglisi, 62 anni, rettore dell'Università Iulm di Milano e presidente della Commissione nazionale Unesco per l'Italia. E a sentire le sue parole si ha la netta impressione che il livello di fiducia dell'Unesco verso l'Italia (che ha 41 siti patrimonio dell'umanità contro i 40 della Spagna) sia in caduta. Proprio ieri il Governo ha scelto Napoli come candidata a ospitare nel 2013 il Forum Unesco delle culture.
Presidente, quale sito italiano va verso l'espulsione dal patrimonio mondiale dell'umanità?
Si tratta delle Isole Eolie, che sono state introdotte nella Lista nel 2000. Da allora in avanti le prescrizioni dell'Unesco, gli accordi che accompagnano il riconoscimento, non sono state rispettati. In pratica, la cava di pomice di Lipari non è stata chiusa, mentre è in via di realizzazione un maxiporto turistico non contemplato dagli accordi. Le Eolie a giugno 2008 vanno fuori dalla lista dei siti Unesco. A meno di ardui recuperi in extremis, ma non ne vedo.
Una brutta bocciatura per il nostro Paese.
Troppi i segnali inquietanti. Basti pensare che il 2007 è stato il primo anno in cui l'Italia non ha ottenuto alcun nuovo ingresso di siti nella lista mondiale. È stata una situazione difficile, penosa. La potrei definire una sberla.
Cosa è successo?
L'Italia è stata invitata ritirare la candidatura delle Dolomiti, mentre quella della Valnerina non è stata più presentata in extremis.
Sulle Dolomiti uno scivolone imperdonabile.
Quando gli esperti dell'Unesco hanno esaminato la candidatura delle Dolomiti e si sono recati in loco hanno trovato una situazione troppo confusa sul piano gestionale.
E la Valnerina?
La Cascata delle Marmore è splendida. Ma ci è stato fatto capire che l'Italia avrebbe dovuto scegliere, prima di formalizzare la candidatura, tra la prosecuzione della produzione di energia elettrica e la difesa del territorio.
Napoli rischia?
Sicuramente sì, ho scritto tante volte a Bassolino e alla Iervolino. Nessuno si rende conto che il centro di Napoli oggi umiliato dall'emergenza rifiuti, appartiene all'intera umanità. Ho segnalato il degrado anche alla Presidenza della Repubblica. Il paradosso è in Costiera amalfitana: ci sono più richieste di condoni degli stessi abitanti.
E le trivelle in Val di Noto?
Il governatore Cuffaro ha i poteri per intervenire subito e bloccare tutto per sempre. Meglio un atto preciso e rapido, ora, che imbarcarsi nel varo di una legge regionale, che porterebbe via del tempo. La Sicilia deve decidere. Una revoca immediata della concessione a effettuare trivellazioni petrolifere, cui la recente sentenza del Tar lascia aperta la porta, è un atto indispensabile per dare un segnale forte e chiaro anche su altre questioni importanti ancora aperte nell'isola.
Quali?
Mi riferisco in particolare all'area di Porto Empedocle, limitrofa alla Valle dei Templi, l'area archeologica di Agrigento inserita nel patrimonio dell'umanità nel 1997. La realizzazione di un impianto di rigassificazione a Porto Empedocle crea problemi gravissimi.
Le spiagge sono la sezione terminale dei depositi sedimentari con cui, nel corso di milioni e milioni di anni, fiumi grandi o piccoli hanno costruito le pianure riempiendo insenature o bracci di mare con i materiali che ghiacciai, piogge e vento avevano staccato dai rilievi creati dai sommovimenti della crosta terrestre. Le spiagge sabbiose, sotto forma di dune, si sono formate in genere là dove la corrente dei fiumi si incontrava con la forza contraria del moto ondoso e delle maree: cioè a una certa distanza dall’ultima linea costiera consolidata, chiudendo così al proprio interno bracci di mare, cioè lagune, che per milioni di anni sono state il laboratorio più prolifico dell’evoluzione delle specie viventi. Molte di queste lagune hanno poi subito un interramento naturale per i successivi apporti dei fiumi che le attraversavano. Altre sono state "bonificate", soprattutto a partire dall’inizio del secolo scorso, per venir trasformate in campi di patate. Alcune, come quella di Venezia, sono state invece gelosamente preservate con imponenti opere idrauliche, per conservarne le funzioni difensive che avevano fatto la fortuna della città nel corso dei secoli. Per migliaia di anni la spiaggia era rimasta un’area che andava dalla battigia alle dune che la vegetazione spontanea cominciava a colonizzare; oppure alle barriere antivento che proteggevano i campi dalla salsedine; o, ancora, ai villaggi dei pescatori, costruiti appena fuori portata delle mareggiate. Le spiagge servivano quasi esclusivamente per tirare su e giù dal mare le imbarcazioni usate per pescare, trasportare merci o fare la guerra; fino all’inizio del secolo scorso, infatti, il bagno in mare era un’attività da tutti rifuggita .
Ma prima ancora che le spiagge cominciassero ad affollarsi di ombrelloni, cabine e corpi progressivamente meno coperti, in molti paesi del mondo, e soprattutto in Italia, i loro confini erano stati ridisegnati: verso l’interno, dal tracciato della strada ferrata che introduceva una separazione netta tra l’arenile e la parte dell’entroterra abitata o coltivata. Poi, durante la seconda guerra mondiale, da una muraglia quasi ininterrotta di fortini e barriere antisbarco, successivamente trasformate in "passeggiate a mare" per l’impossibilità di demolirle. infine, dal proliferare dei "bagni", dove i filari di cabine di legno dal tetto aguzzo venivano progressivamente sostituiti con imponenti edifici in cemento armato dotati di bar, veranda, dancing, ristorante, campi sportivi, parcheggi e piscine, oppure con sequenze ininterrotte di alberghi e condomìni che affondano direttamente sull’arenile i piloni "fronte mare".
Ma anche al confine con il mare i connotati delle spiagge stavano cambiando: moli e porticcioli per l’attracco delle barche su cui il popolo degli ombrelloni ha progressivamente trasferito la sede delle sue "vacanze balneari"; poi pennelli di rocce di riporto che attraversano a distanze regolari la linea di incontro tra spiaggia e mare, nel tentativo di trattenere la sabbia che le correnti, deviate dal porticciolo di turno non trasportano più. Poi, ancora, barriere artificiali di rocce o blocchi di calcestruzzo che fronteggiano per chilometri e chilometri la linea costiera per impedire alle mareggiate di mangiarsi quel che resta di un arenile sempre più striminzito; e che ricreano così, davanti alla spiaggia, un "effetto laguna": non più vivaio dell’evoluzione naturale, ma pozzanghera per far sguazzare i bambini in un’acqua torbida e inquinata dagli scarichi di carburante che la corrente non riesce più a trascinare al largo. Il fatto è che, a partire dai primi decenni del secolo scorso, pietre e mattoni sono stati progressivamente sostituiti, come materiali da costruzione, dal cemento armato; e sabbia e ghiaia necessarie a impastare il calcestruzzo hanno preso il posto dell’argilla e della selce. Le riserve di sabbia accumulate nel corso di milioni di anni lungo il corso dei fiumi sono state prese d’assalto e le dighe costruite per irrigare i campi e produrre elettricità hanno trattenuto gran parte della sabbia che i fiumi ancora riuscivano a trasportare. Il litorale non riceveva più l’apporto di sedimenti necessario a ricostruire i profili dei suoi arenili e le spiagge sprofondavano, mentre la subsidenza provocata dai pozzi offshore di metano e petrolio o dagli emungimenti di acque dolci dalle falde litoranee facevano il resto. In futuro, un innalzamento del livello dei mari di 40-80 centimetri, inevitabile se si riuscirà a contenere la concentrazione di CO2 a 500 ppm (parti per milione), sarà sufficiente a far scomparire, insieme agli atolli e a intere regioni e città costiere, tutto quanto siamo abituati a considerare come "spiaggia". Un innalzamento di 4-8 metri, quale potrebbe verificarsi se tutti i ghiacci dei poli si scioglieranno, certamente valorizzerà le villette che si trovano a quest’altezza sul livello del mare, aprendo a sbafo un accesso diretto al mare che oggi si paga profumatamente (come recita la pubblicità di un villaggio turistico marchigiano costruito a mezza costa). Ma ciò avverrà in un quadro di sconvolgimenti climatici che renderà comunque precaria la villeggiatura in simili resort.
Ma non sono solo erosione e speculazione edilizia a trasformare la "geologia" delle spiagge. Queste subiscono, da terra e dal mare, un altro assalto altrettanto importante. I milioni di turisti che ogni anno si precipitano sugli arenili trascinano con sé montagne di merci che poi abbandonano sul posto sotto forma di rifiuti. Dove c’è un "bagno" che difende la spiaggia dagli ospiti non paganti, questi rifiuti vengono bene o male raccolti in cestini e cassonetti, o rastrellati e portati via quando i bagnanti se ne vanno e si chiudono gli ombrelloni. Ma nelle cosiddette spiagge libere nessuno si prende cura della pulizia e il bagnante tipo è portato a identificare la libertà di accesso con la libertà di sporcare. Le spiagge si ricoprono così di milioni di bottiglie di cocacola, di sacchetti di plastica, di cartocci di popcorn, di bucce di banane, di secchielli e formine abbandonate, di salvagente sfondati. Le fogne che scaricano in mare senza il filtro di un depuratore fanno il resto, mentre dal lato mare, accanto ai bidoni della spazzatura rovesciati in acqua con disinvoltura da milioni di imbarcazioni turistiche, o dalle navi che transitano al largo, prosegue silenzioso lo "spiaggiamento", sotto forma di grumi di catrame che si appiccicano ai piedi e al sedere per non staccarsene più, di tonnellate di catrame che le petroliere scaricano lungo le loro rotte per pulirsi i serbatoi. Petrolio e plastica dominano incontrastati la superficie del mare, i suoi fondali, le sue spiagge e le mareggiate si incaricano di rimescolare tutto questo materiale e di scaricarlo regolarmente a riva. I materiali accatastati sulle spiagge della Tailandia dopo lo tsunami, o per le strade di New Orleans dopo l’uragano Caterina danno un’idea degli effetti di questo rimescolamento.
Quello che una volta era l’aspetto di una spiaggia dopo una mareggiata, ricoperta per tutta la lunghezza della battigia da cumuli di alghe e di ramaglie, inframmezzate da conchiglie grandi e piccole, stelle di mare, lische di pesce e ossi di seppia, è ora una distesa luccicante di plastiche incatramate, di bombole del gas arrugginite, di pneumatici scoppiati, di spezzoni di spadare spiaggiate. Così, in attesa dello sconvolgimento purificatore dell’effetto serra, la trasformazione delle spiagge in letamai continua.
Ci stiamo abituando a guardare il territorio dall’alto con le sequenze veloci di Google Earth, per cui il punto di vista può essere in ogni luogo mentre il paesaggio - l’iperpaesaggio - si trasforma sotto i nostri occhi. E rischia di sfuggirci il senso di quell’altra percezione, ben più sedimentata, della prospettiva centrale verso una scena ordinata, degli atlanti in scala, delle fotografie e del cinema. E anche delle vicende umane che ogni luogo racconta. Per ritrovare le coordinate spazio- temporali del paesaggio italiano è servita la mostra «L’Italia: paesaggio e territorio» nel complesso del Vittoriano a Roma. Una esposizione sobria fuori dal giro delle mostre-business; della quale è ora disponibile il catalogo che propone in maniera quasi integrale il suo contenuto (pubblicato da Gangemi editore). Circa 200 opere tra dipinti e disegni, incisioni e cartografie, cartoline ecc. Oltre a un ricco apparato di testi che spiegano con precisione gli obiettivi della ricerca (di grande interesse i saggi di Giuseppe Galasso e Guido Melis).
La mostra è una conferma: il paesaggio è una delle fonti essenziali per conoscere la storia d’Italia. D’altra parte, seguendo la traccia proposta dai curatori - coordinati da Sabino Cassese - si vede che la storia ha contribuito in maniera determinante a modificare i quadri della regioni e delle città italiane. Per capire cosa è successo, grosso modo in cinque secoli, sono indispensabili i documenti preziosi distribuiti in tanti archivi e musei nazionali (non solo le opere dei vedutisti da Canaletto a Massimo D’Azeglio a Mario Mafai, ma pure le certificazioni del valore del suolo (cabrei, catasti), le mappe dei reticoli idrografici, stradali, ferroviari, degli itinerari militari, dei confini amministrativi, le carte della morfologia e della geologia. A questa visione del paesaggio «com’era/com’è» si sono intrecciate le visioni ideali che qualcosa hanno conferito ai paesaggi che vediamo: dalla trattatistica del XVI secolo alla progettazione di città ideali dai ritmi geometrici, come quelle immaginate e realizzate dagli architetti razionalisti del XX secolo.
L’esposizione racconta il percorso lento delle mutazioni e delle improvvise accelerazioni. Quella che avviene con l’unità d’Italia quando città e territori subiscono radicali trasformazioni nel segno delle mutate esigenze (nelle città capitali, Torino, Firenze e Roma, che accolgono le imponenti attrezzature dell’amministrazione; e poi nelle regioni ricche che attraggono investimenti con grandi arterie stradali che segnano in lungo e in largo le campagne. Ma non manca il paesaggio più periferico e del Mezzogiorno, con le differenti dinamiche, con le suggestioni del mare e del sole, dei monumenti meno noti. In mostra anche la Sardegna (con due dipinti di Giuseppe Biasi: uno splendido di proprietà della Regione).
C’è l’Italia Bel Paese, di cui non si coglie mai appieno il valore: capita di vivere in Italia e di accorgersi di colpo, magari vedendo le immagini di questa mostra, che è una delle mete più ambite da viaggiatori, poi da turisti e vacanzieri di tutti i tempi; e ogni tanto viene il sospetto di vivere in un posto non comune che attribuiamo a circostanze particolarmente felici, a quell’aria da cartolina o da cinema che in fondo trovi ovunque. Come se per viverci servisse il permesso del regista, molto abile nel farti trovare in atmosfere sorprendenti, anche se di questi posti hai fatto esperienza quotidiana.
Il paesaggio e lo Stato: la questione è sempre sottintesa. Lo Stato si è dotato di norme che ne controllano le trasformazioni. La prima legge italiana è quella del 1939, che mette ordine nella materia, secondo lo schema proprietà privata dei beni-vincolo sul loro uso. Il paesaggio è divenuto con il tempo bene paesaggistico, di cui si occupano le Regioni, con i numerosi problemi: la relazione tra paesaggio e territorio, tra usi produttivi- degradanti e limiti alle trasformazioni, tra i poteri di chi ha compiti di tutela. L’esposizione e il catalogo arrivano in un momento che vede un rinnovato interesse per il tema; anche in seguito alla approvazione del Codice Urbani che ha rilanciato la pianificazione del paesaggio suscitando i primi risultati (il Piano della Sardegna), e per l’allarme lanciato per i tanti luoghi in pericolo (la Toscana nei paesaggi protetti dall’Unesco), con la solita enfasi per gli ecomostri. Tutto serve. Ma perché una gloriosa eredità non vada in malora non bastano le denunce mosse da impressioni frammentarie e soggettive.
Quando la nave si avvicina, intorno alle 6.10 del mattino, Stromboli è un'ombra nera in mezzo a un mare di pece. Giusto la luce intermittente del faro che gira sullo scoglio di Strombolicchio e il fuoco del vulcano che saluta i nuovi arrivi. All'attracco, è già giorno. E all'alba di mezza estate Stromboli ha già il suo piccolo traffico di isola, di gente che approda e che salpa, navi guardate partire e ci vediamo l'estate prossima.
Un centinaio di abitanti (ma all'anagrafe se ne contano 600) nei lunghi inverni di solitudine e mareggiate, Stromboli accoglie ogni estate, secondo le stime ufficiali, circa 4000 turisti, e risuona del ronzio delle motoape con il loro carico di passeggeri pigri.
L'isola silenziosa e schiva segnalata nelle cronache mondane come enclave vacanziera della sinistra e buen ritiro del presidente della Repubblica, si affolla di gitanti scaricati a riva dai barconi turistici: giusto il tempo di arrampicarsi sudando fino a piazza principale e di mettersi in fila davanti alla balaustra in cerca della vista migliore su Strombolicchio. Peccato solo, pensa qualcuno, per il terrazzo di quel bar che sporge verso il mare, e che guasta l'inquadratura perfetta.
Il bar si chiama «Ingrid», come la Bergman. Ma quando lei, nel 1949, venne sull'isola con Rossellini a girare Stromboli, terra di Dio, il bar non c'era ancora e il terrazzo neppure. A costruirlo, nel 1989, ci ha pensato Mario Cincotta, imprenditore e politico strombolano, consigliere di Forza Italia al Comune di Lipari.
Su di lui, in giro, ognuno ha qualcosa da dire, ma nessuno vuol dire niente. C'è chi dice che la sua fortuna se la sia costruita usucapendo le case dei compaesani partiti per l'Australia, chi assicura che abbia collezionato un buon numero di denunce per aggressione, e chi semplicemente lascia intendere che sull'isola è meglio non esporsi troppo. Per incontrarlo, basta passare da «Ingrid» e da «Ingrid», prima o poi, ci passano tutti. Cincotta è lì che chiacchiera con i clienti, quando non tiene d'occhio i conti delle sue case, passa al suo supermercato per controllare le consegne o fa un salto al suo nuovo residence per assicurarsi che i lavori procedano. Finisce tardi la sera e ricomincia presto al mattino: dorme poco e fa grandi progetti per l'isola.
Quest'anno ha presentato al comune di Lipari la richiesta di concessione edilizia per costruire una discoteca-lido nella zona di Scari, alla sinistra del porto, nella vecchia cava di lapillo che scava il fianco della montagna sopra alla spiaggia chiamata Petrazze.
Lo Scari-pub
Tre terrazzi sfalsati, per una superficie di circa 850 mq, collegati con rampe alla spiaggia, dove si prevedono attrezzature balneari, un pontile galleggiante per l'attracco delle barche e un bar, per un totale, secondo le stime di Cincotta, di circa 2000 mq.
L'idea, sulla carta, sembra geniale: le barche attraccano , i passeggeri si stendono sui lettini del lido. Il pomeriggio un aperitivo al bar, e la sera tutti in discoteca.
La sua concessione - preceduta dall'autorizzazione della soprintendenza dei beni paesistici e architettonici di Messina, ottenuta per lavori di «recupero ambientale» dell'ex cava - Cincotta l'ha avuta il 25 gennaio 2006, ma la prima pietra di quello che sull'isola già chiamano lo Scari-pub, è stata posta solo ora. A qualcuno, l'idea di costruire una discoteca sul fianco della montagna e di invitare le barche a scaricare rifiuti a pochi metri dalla riva non è piaciuta per niente.
La cava di lapillo, che confina con una riserva naturale, nell'originario progetto del piano territoriale paesistico delle isole Eolie era dichiarata zona Ma1 (fascia compresa tra gli ambiti di tutela vulcanologia e zone abitate) ma, grazie all'intervento di Legambiente e dell'associazione ProStromboli, che dal 1994 si dedica alla tutela del patrimonio storico-naturalistico dell'isola, nel decreto di approvazione del piano paesistico del 23 febbraio 2001 si è ottenuto che la zona fosse fatta rientrare nel più intenso regime di tutela To1 (tutela orientata), che non consente attività «residenziali, turistiche, infrastrutture sportive attive, spettacolari».
Per bloccare lo Scari-pub, Legambiente e ProStromboli hanno fatto ricorso al Tar di Catania che, nel luglio scorso, ha sospeso i lavori in attesa di chiarire l'effettiva destinazione dell'area. Una battaglia di confine - tra due diversi gradi di tutela - in cui Cincotta ha avuto la meglio: nonostante il Tar abbia riconosciuto che la zona interessata dalla concessione edilizia fosse quella della cava , ha dato il via libera al progetto, perché l'area, stando ai documenti della soprintendenza, è fuori dalla zona di maggiore protezione.
«Il Tar - dice Salvatore Granata, perito di parte e presidente di Legambiente Sicilia - ha deciso di pregiudicare un bene naturale e culturale riconosciuto dal piano paesistico. Ma per noi la questione non è chiusa, faremo appello ».
Il caso Stromboli, tra l'altro, non è che un tassello del complesso mosaico della gestione del territorio nelle Eolie: le isole rischiano infatti di essere cancellate dalla lista dei siti Patrimonio dell'umanità tenuta dall'Unesco se, come ha più volte richiesto l'organismo delle Nazioni unite, non saranno risolti punti critici come l'eccessiva pressione turistica e la mancanza di strumenti di pianificazione del territorio.
«Presenteremo all'Unesco un rapporto sulla gestione dell'arcipelago. - dice Granata - Comportamenti "predatori" come quelli di Cincotta espongono le Eolie al rischio dell' estromissione dalla Heritage List».
Al posto dello Scari-pub, gli ambientalisti vorrebbero un museo vulcanologico all'aperto, per leggere, negli gli strati di lava depositati dal vulcano , tutta la storia dello Stromboli: «ma - spiegano Giuseppina Moleta e Aimèe Carmoz, presidentessa e segretaria della ProStromboli - la pubblica amministrazione non ha mai dato seguito alle nostre richieste. Avrebbe dovuto espropriare terre ai privati, e espropriare significa perdere voti».
Anima delle battaglie civili di Stromboli - dalla prima, per dare una scuola ai bambini dell'isola (che ancora aspettano), fino a quella contro il bar Ingrid, costruito, secondo gli ambientalisti, rialzando abusivamente un rudere - la francese Aimèe continua: «Cincotta ha presentato il suo progetto come bonifica di una zona degradata. In realtà, la cava è ambita dagli speculatori perché unico sito accessibile dell'isola ancora intatto. Inoltre, la spiaggia delle Petrazze è stata la sola a non essere colpita dall'onda anomala causata dall'eruzione del 2002: è la più sicura, privatizzarla sarebbe un errore».
Tutti perdono qualcosa
Seduto ai tavolini del suo bar, invece, Mario Cincotta è sicuro di essere nel giusto. Srotola planimetrie e squaderna documenti, ma il suo asso nella manica è un foglietto scritto di suo pugno che si intitola: «Tutti perdono qualcosa». Sopra, c'è un elenco di nomi, e, accanto a ogni nome, l'indicazione di ciò che ciascuno perderebbe se lui realizzasse il suo lido: suolo pubblico occupato abusivamente, guadagni realizzati attraverso progetti alternativi, sonni tranquilli disturbati dai lontani echi della musica.
«Tra quelli che si oppongono al mio progetto - spiega Cincotta - c'è gente che ha occupato la strada comunale per costruirsi terrazzi e giardini e ostruendo l'accesso alla mia proprietà. Ma io prima glieli farò abbattere, e poi li citerò per danni. E se non hanno i soldi, gli farò pignorare la casa».
E parlando di case, l'imprenditore si appassiona: «Le loro ville le hanno comprate con la speranza dei miei compaesani, pagandole con un biglietto per l'Australia. Da bambino ho visto tante famiglie emigrare, e oggi, se posso dare un lavoro a qualcuno, ne sono fiero. A me i comunisti non sono mai piaciuti, ma qui il vero comunista sono io».
Comunista e ambientalista, se, come sostiene, nello Scari-pub «non ci sarà un centimetro cubo di cemento»: «Solo muretti a secco, strutture mobili, pavimenti in pietra lavica. Ho ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie: mi piace fare le cose in regola».
Ma chissà che qualcuno non sia rimasto influenzato dal suo irresistibile carisma politico: «Cincotta - dice Pino La Greca, consigliere comunale Ds a Lipari - è il consigliere di Forza Italia più votato a Lipari, amico personale del sindaco: magari qualcuno ha chiuso un occhio, o ha firmato senza leggere».
Oppure, senza leggere tra le righe, se è vero, come sostiene Salvatore Granata, che l'imprenditore ambientalista si è spianato la strada per avere le mani più libere. «Nel finanziamento ottenuto da Cincotta si parla di 409.000 euro per le opere murarie, e nel progetto si legge che "il terreno verrà sistemato con muretti a secco e, dove la dimensione non lo consente, in conglomerato cementizio". Quando il genio civile gli farà presente che un muro di sostegno su una scarpata non può reggere a secco, lui sarà libero di cementificare ».
La discarica
Ma quello di Cincotta non è l'unico progetto sulla contrada Petrazze.
La zona che confina con la cava è infatti vincolata dal piano regolatore delle isole Eolie (non ancora approvato) a diventare un'area di stoccaggio dei rifiuti. Toccherebbe alla spazzatura, in pratica dare il benvenuto ai turisti che a poca distanza approdano sull'isola.
Il sindaco di Lipari, il forzista Mariano Bruno, è però sicuro che sia la scelta giusta: «C'è stato un referendum in cui il 99,9% della cittadinanza ha scelto la zona per la trasferenza dei rifiuti» .
L'idea dei clienti dello Scari-pub che bevono mojito a pochi metri dalla spazzatura, invece, non va proprio giù a Cincotta: «La discarica il sindaco se la può scordare. Qui la politica non c'entra, piuttosto di fargliela fare lo denuncio e lo mando in galera».
Eppure, in molti scommettono che i due troveranno un accordo, sempre che non l'abbiano già trovato. «L'unico motivo per cui quella zona è stata individuata come area di stoccaggio - dice Pino La Greca - è perché questo implica la costruzione di una strada per il trasporto dei rifiuti. La soprintendenza ai beni ambientali non autorizzerà mai la discarica, ma, nel frattempo, la strada sarà stata fatta e Cincotta la userà per la sua discoteca. Quanto al referendum, non si può definire tale un voto per acclamazione ottenuto da una claque».
Salvatore Granata è dello stesso parere: «L'obiettivo è di urbanizzare l'intera area, costruendo anche un parcheggio di 200x200 metri per i camion dei rifiuti. Parcheggio e discarica di fronte al porto e alla spiaggia sono una follia, ma il sospetto è che, grazie ai poteri straordinari per l'emergenza vulcano, il sindaco faccia fare subito la strada. La scusa è quella della discarica, ma l'obiettivo reale è fornire un accesso al pub». Dietro alle dichiarazioni di guerra di Cincotta, dunque, si celerebbero «insospettabili» convergenze: «Le Eolie - dice Granata - sono in mano a delle bande. Quello tra Cincotta e Bruno è un gioco delle parti: in realtà, quando ci sono interessi seri in campo l'accordo si trova e come».
Sarà forse, come dice qualcuno, che a Stromboli «la discoteca puzza, come la discarica». Sarà che, da sempre, all'ombra del vulcano si confrontano modi diversi di vivere e intendere l'isola.
E di immaginarne il futuro.
Per alcuni, come le 250 persone che hanno firmato la petizione promossa dalla ProStromboli per il ritiro della concessione a Cincotta, l'unico futuro possibile sta nel preservare l'isola e le sue bellezze. Per altri, come il sindaco Mariano Bruno, il futuro si scrive con l'inaugurazione della nuova scuola, la cui prima pietra, dopo 50 anni di attesa, sarà posta, guarda caso, a ridosso delle elezioni. Per Mario Cincotta, invece, il futuro si insegue correndo dietro al turismo di massa e «puntando sui giovani, perché altrimenti l'isola diventa un ospizio».
Ma, con la grazia dei suoi 77 anni, anche ad Aimèe Carmoz - che a Stromboli vive dal '71 - piace guardare avanti: «Un tempo qui non c'era niente, solo canne e mare. Oggi l'isola è cambiata, ma si può ancora salvare, conservando quel poco che resta».
Si conclude oggi il breve viaggio di Vittorio Emiliani nella bellezza e, purtroppo, nella bruttezza del Belpaese: cioè nell'assalto quotidiano all'integrità del paesaggio e alla storia delle nostre città. Assalto di speculatori, da sempre, nonostante le campagne a difesa di questa «bellezza» da parte di intellettuali, giornalisti, urbanisti e architetti. E da parte di amministrazioni locali coraggiose che, però, negli ultimi anni sembrano cedere alla tentazione del «nuovo» sotto forma di ulteriori costruzioni. Dopo la precedente puntata ( l'Unità del 26 novembre) che ha ripercorso alcune di quelle gloriose battaglie, oggi Emiliani fornisce una serie di dati impressionanti proprio sulla cementificazione del nostro paesaggio e delle nostre città. Vittorio Emiliani è anche autore di una serie in quattro puntate, su questi temi, dal titolo Bella Italia che patria mi sei, in onda sul canale satellitare Raisat Premium.
Stavo seguendo in tv la cronaca di una tappa del Giro d'Italia ripresa dall'elicottero e mi sorpresi a osservare: «Ma guarda che paesaggio ordinato, ben tenuto, senza robaccia di mezzo. Non sembra nemmeno Italia». Difatti non la era: quel giorno il Giro era sconfinato in Austria. Provate a scendere in aereo su Venezia, vi colpirà come un pugno allo stomaco l'assenza di campagna fra Mestre, Treviso, Padova, con una commistione terribile fra quartieri e capannoni, villette e fabbriche. È quello che gli anglosassoni chiamano urban sprawl, il disordine urbano, e di cui stanno discutendo intensamente, loro, i tedeschi, i francesi. Noi quasi per niente.
A parte il recente bel libro di Edoardo Salzano e altri intitolato NO Sprawl (Alinea). Se provaste a sorvolare in aereo il distretto industriale della Ruhr, vedreste un paesaggio molto più ordinato, molto più razionale, con molto più verde di quello veneto. Del resto, gli investimenti nell'edilizia residenziale sono saliti in Italia da 58 miliardi di euro (1999) a oltre 71 miliardi (2005) con un incremento del 23 per cento. Per i permessi di costruzione risultano in testa il Veneto e l'Emilia-Romagna. Per l'intera Italia tali permessi riguardano quasi 881.000 stanze in un solo anno. Con una popolazione, di contro, in crescita lentissima (3 per cento in più nell'ultimo quindicennio) e soltanto per effetto dell'immigrazione. La quale però non trova case a costi sopportabili.
Da noi gli alloggi in affitto sono pochi (19 per cento del totale contro il 55 della Germania) e l'edilizia sociale è stata lasciata precipitare al 4 per cento contro il 20 per cento circa di Francia, Regno Unito e Svezia e il 35 dell'Olanda. Una vergogna. Dunque, quella in costruzione è tutta edilizia per il mercato. La sua corsa continua, inarrestabile: nel primo semestre del 2006, il comparto è arrivato all'indice 128,9 fatto 100 quello del 2000. Nella produzione di cemento siamo in vetta all'Europa assieme alla Spagna, ben davanti a Francia e Germania. E si vede: basta girare l'Italia o attingere alle cronache locali. Mille cantieri aperti a Vigevano dove si aspettano. . .i milanesi in fuga dal caro-città. Poco meno a Vogherà per le stesse ragioni (o illusioni). A Bertinoro, piccolo Comune medioevale della Romagna, balcone sulla pianura, ben 700 cantieri aperti. In Toscana lotti dai 400 alloggi per volta in su (seconde case, per lo più) a Donoratico, a Bagnaia, a Fiesole, a Bagno a Ripoli, ecc. Con un dato nazionale nuovo: dalla costa la speculazione edilizia delle seconde e terze case è ormai risalita all'interno e si sta mangiando la collina.
Anche in Umbria e Toscana. A fronte di una popolazione, ripeto, quasi ferma. E con un patrimonio edilizio gigantesco: dai 36,3 milioni di stanze del 1951 siamo passati ad oltre 130 milioni (+ 247 per cento), più tutte quelle abusive da sanare, albi milioni. Ricordo l'assessore regionale umbro all'Urbanistica, il comunista Ezio Ottaviani, il quale, a metà anni 70, mi esponeva questa linea: «Noi qui cerchiamo di non dare licenze per nuove costruzioni fino a che non siano state restaurate le case e i casali antichi o vecchi che abbiamo sul territorio».
Sembrano passati anni-luce. Invece era una linea nazionale della sinistra da poco al governo delle Regioni. Le quali davano soldi per restauri e recuperi. Tutto dimenticato, tutto sepolto? A volte pare di sì. Eppure - sono dati di una indagine Censis-Ance - esistono in Italia 4.745.270 abitazioni (il 18 per cento del totale) che risalgono a prima del 1919. Di questo stock abitativo antico o vecchio, il 27 per cento risulta non utilizzato, vuoto, inoccupato. Certo, da restaurare, da dotare di servizi, e però spesso inserito in borghi, paesi e cittadine dove acqua, luce, gas, scuole, ecc. ci sono già. Nel quadro della stessa inchiesta gli aspiranti risanatori non mancano, tutt'altro. Solo che è più facile e più sbrigativo, in ogni senso, orientarsi sull'alloggio nuovo in una delle tante lottizzazioni proposte, magari in pieno Patrimonio Mondiale dell'Umanità come il sito di Monticchiello (cito la propaganda della immobiliare che vi sta costruendo e che si fa bella del diploma Unesco che quei lotti cementizi, decisamente brutti, non onorano di certo).
E qui sale il grido di protesta degli amministratori locali: «Ma voi volete trasformare il paesaggio in un museo, metterlo sotto vetro». Non è vero. Ciò che si vuole è intanto il restauro e il recupero del patrimonio antico, o vecchio, esistente e non occupato. Che non è affatto poco pure in Toscana (20 per cento), o in Umbria (26,7), ma che tocca punte incredibili nel Sud: 44 abitazioni storiche su 100 vuote in Abruzzo, 40 in Sicilia, 38 in Calabria. Regioni, queste due ultime, investite da un abusivismo spaventoso che difatti assedia quei bellissimi, desertificati centri storici e sconcia tutta la costa. Autentici monumenti alla sprovvedutezza, perché, come è già accaduto nel Centro Italia (ma pure nelle Langhe), gli stranieri colti e avveduti, o i residenti delle nostre glandi città, si sono accaparrati il meglio di quei borghi svuotati. È successo e succede per esempio in Maremma. A Capalbio, dove le gru dei cantieri sono tante, ovunque, ed ora si sta pure sbancando, in basso, una collina per farvi installare una nuova cantina. O a Montemerano dove, anni fa, il Comune ha costruito dei casermoni fuori le mura, col risultato di svuotare quel centro storico collinare, per la gioia degli stranieri o dei romani.
Ciò significa che in Italia non si deve più costruire? Certamente no. Vuol dire però che, crescendo molto poco la popolazione e quel poco soltanto in forza dell'immigrazione, bisogna puntare assai di più di quanto non si faccia sul recupero (a partire dalle periferie e semideserte metropolitane) del già esistente, migliorandolo, riqualificandolo. Vuol dire che bisogna tornare a quote di edilizia sociale per i più poveri che siano vicine ai livelli europei del 20-25 per cento. Vuol dire che, nelle città universitarie, non si possono trasformare i quartieri storici in costosi «pollai» per studenti fuori sede (a 500 euro per letto), tutto in nero, distruggendo il tessuto sociale, e non perseguire mai una seria politica di collegi e di residenze universitarie, alla maniera di Pavia o di Pisa (casi isolati). Vuol dire che la nuova edilizia va, con queste e altre misure, dosata, raffreddandone l'elevata temperatura speculativa. Che penalizza poi soprattutto i giovani, single o in coppia.
Bisogna, insomma, tornare a pianificare, seriamente. Il grido di allarme che si è levato per Monticchiello facendone un caso nazionale voleva sollevare questi problemi: se persino nella tanto lodata Toscana sta succedendo di tutto, bisogna rivedere alcune politiche.
Per esempio quella della Regione Toscana la quale si ostina, con argomentazioni di sapore fra il democratistico e il populista, a sub-delegare i Comuni nella tutela del paesaggio (che è di tutta la Nazione, come dice la Costituzione). Possono opporsi validamente gli enti locali alla «febbre» cementizia in atto se da essa ricavano entrate preziose per chiudere i loro bilanci impoveriti dai tagli governativi? Non sarà un «ecomostro» la lottizzazione di Monticchiello e però è tanto brutta e «aliena» da far pensare che gli abitanti di Pienza e di Monticchiello abbiano perduto quel senso del paesaggio che Emilio Sereni, grande studioso di paesaggio agrario, comunista (qualcuno lo legge a sinistra? lo conosce ancora?), attribuiva a contadini e a mezzadri toscani. Si poteva, si doveva edificare (se non c'era dell'antico da recuperare) decisamente meglio, con una qualità architettonica più elevata. Certo, nel Sud va peggio. Ma va peggio pure sulla collina veneta, la collina di Parise, di Piovene, di Zanzotto, massacrata da Villettopoli e Fabbricopoli.
E così continuiamo a mangiarci - ecco l'altro problema di fondo - centinaia di migliaia di ettari di buona terra e di bei paesaggi mirabilmente intessuti dall'uomo nei secoli. Dal 1951 ad oggi ci siamo divorati oltre un terzo della superficie italiana libera da asfalto e cemento: più di 11 milioni di ettari. In Germania hanno varato un piano per il risparmio del suolo che entro il 2020 consentirà incisive economie. Nel Regno Unito il rapporto chiesto da Tony Blair ad un famoso architetto Richard Rogers concentra all'80 per cento le nuove costruzioni nell'ambito di quartieri già esistenti e di aree industriali dismesse. Da noi la Regione Toscana ha approvato una legge per il risparmio di suolo. Il programma dell'Unione prevedeva misure nazionali analoghe.
Ma, intanto, una edilizia di pura speculazione galoppa per ogni dove, senza una strategia di governo del territorio e del paesaggio affidato, quest'ultimo, alle fragili mani di Comuni che tanto spesso sono stati inerti nei confronti del cemento (legale e abusivo) e alle indebolite strutture delle Soprintendenze ministeriali. Non è un delitto storico buttar via così il Bel Paese? «Vieni nel paese dove fioriscono i limoni» (W.Goethe) sarà presto sostituito da «non venite nel paese dove fioriscono gli abusi e gli ecomostri»? Un bel guadagno. La grande agenzia Future Brand ci mette ancora al 1° posto per arte e storia, ma dopo il 10° per la natura e dopo il 15° per le spiagge. Vogliamo precipitare ancora? Siamo sulla buona strada.
Un viaggio nella bellezza dei centri storici e dei paesaggi italiani, avendo ben presenti però i guasti della bruttezza, della sciatteria, dell’incultura. Vittorio Emiliani, giornalista e scrittore, specialista di beni culturali e ambientali, ha curato questo viaggio per una serie tv dal titolo Bella Italia che patria mi sei (ricavato da una cantata di sapore risorgimentale di Gaetano Donizzetti). Il programma andrà in onda sul canale satellitare Raisat Premium.
La prima puntata (oggi, ore 16.30) è dedicata a «Città e borghi»: un tesoro minacciato; la seconda è tutta sui «paesaggi italiani»; mentre la terza e la quarta sono rispettivamente dedicate al «paesaggio agrario» e ai grandi monumenti e siti, dedicati a «santi e guerrieri» che diedero luogo a una vera e propria economia di rappresentanza.
Non è soltanto un viaggio «nostalgico» alla ricerca della bellezza che fu e che pure - tra mille attentati - resiste, ma un richiamo ad una presenza fattuale della cultura della tutela e del recupero nell’agire politico. «Presenza perduta», come ci ricorda lo stesso Emiliani in questo primo articolo di una breve serie su questi temi.
I nostri centri storici, o almeno quella parte rilevante di essi salvatasi dagli orrendi «sventramenti» umbertini, mussoliniani e pure post-bellici, si possono oggi dire conservati, per noi e per i posteri. A meno di un impazzimento del Paese, che porti ad un ritorno di fiamma di quanti - e non mancano di certo, fra architetti e costruttori - vorrebbero costruire cose e case nuove dentro le città murate col pretesto che non bisogna fare delle città «un museo» (come se poi il «luogo sacro alle Muse», cioè il museo, fosse un sepolcreto). Al contrario, di recente, accanto alle città antiche si sono inserite nelle salvaguardie dei piani regolatori generali (dove ancora si fanno, a Milano, per esempio, non più) le stesse città del primo Novecento. A Roma, la cosiddetta «città di Nathan», cioè Mazzini-Delle Vittorie, San Saba, ecc. ha avuto lo stesso trattamento normativo di quella ricompresa entro le Mura Aureliane. E un grande architetto come Renzo Piano ha affermato che bisogna pensare soprattutto al restauro. Al recupero e al restauro. «Italia da salvare», fu il fortunato e polemico slogan lanciato da Italia Nostra nel suo periodo più felice - quello con Giorgio Bassani presidente e Bernardo Rossi Doria segretario generale - e che faceva seguito alle indignate campagne di stampa condotte da Leonardo Borgese prima e da Antonio Cederna poi. Quest’ultimo sulle colonne del Mondo di Mario Pannunzio e, più tardi, del Corriere della Sera di Giulia Maria Crespi. La sinistra, all’epoca, assunse come proprie queste bandiere, per i centri storici e per il paesaggio. Erano di area socialista o comunista (ma pure della sinistra dc) gli architetti e gli urbanisti e quindi i politici che sostenevano queste battaglie insieme alla rivendicazione di una più moderna legge urbanistica che aggiornasse quella, pur eccellente, del 1942 (alla quale aveva lavorato il giovane Luigi Piccinato). Alla direzione generale per l’urbanistica del Ministero dei Lavori Pubblici, attorno all’incorruttibile Michele Martuscelli, socialista, si stava creando un valido gruppo di tecnici (Pontuale, Basile, De Lucia e altri). Fu Giacomo Mancini, ministro nel 1965, a vincolare a parco pubblico i primi 2.500 ettari dell’Appia Antica, mentre a Bologna la giunta Dozza, assessore Armando Sarti, vincolava a verde l’intera collina sotto San Luca, San Michele in Bosco e l’Osservanza. Per Urbino venne ottenuta una prima legge speciale grazie alla campagna «Urbino crolla» lanciata da Paolo Volponi, altro uomo di sinistra (non a caso impegnato in esperienze di avanguardia alla Olivetti di Ivrea) e la giunta Pci-Psi, guidata da un ex falegname comunista, Egidio Mascioli, incaricò Giancarlo De Carlo di redigere, con una vasta partecipazione democratica, il PRG di quel mirabile centro storico. C’era insomma un grande fervore, a sinistra, attorno a queste tematiche della conservazione e della tutela, anche se a scriverne erano (o eravamo), anche allora, in pochissimi.
Da questo dibattito su passato e presente delle città italiane, svoltosi anche all’interno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, creato e per anni presieduto da Adriano Olivetti, e che avrebbe avuto quale guida uno specialista del livello del fiorentino Edoardo Detti, in origine azionista, poi socialista, assessore della giunta La Pira, da questo dibattito, dicevo, doveva prendere le mosse a Bologna - divenuta, con Guido Fanti sindaco, autentico laboratorio politico-amministrativo - il progetto altamente innovativo per il recupero, il restauro e il riuso delle case popolari antiche del centro col fine dichiarato di mantenervi i residenti. Eravamo alla fine degli anni ’60. L’assessore che lavorava a tale progetto coi tecnici comunali, fra i quali c’era Felicia Bottino, poi assessore regionale, era Pier Luigi Cervellati, architetto poco più che trentenne, all’epoca indipendente di sinistra. La sua tesi di fondo: il centro storico costituiva «una ossatura portante del territorio», il punto di partenza della crisi urbana in atto con l’espulsione dei ceti più poveri e la trasformazione speculativa degli antichi quartieri in residenze di lusso, pied-à-terre, uffici, studi, atelier, ecc. Partendo dal rinnovo urbano dei medesimi e dal mantenimento delle residenze popolari, il processo doveva «successivamente investire anche la estrema periferia (…) per attuare una alleanza politica di forze popolari in grado di rivendicare la espansione qualitativa (socialmente e culturalmente) della città». Contemporaneamente il deputato lombardiano Michele Achilli, con un vasto gruppo milanese (Redaelli, Cutrera, Guiducci, Dragone), sviluppava l’azione politica che avrebbe portato prima alla legge-ponte per l’urbanistica e poi alla legge sulla casa n. 865. Politiche fondate sulla preminenza dell’affitto rispetto alla proprietà individuale della casa e su di un forte investimento pubblico nell’edilizia economica e popolare ridotta al 4 per cento (dov’è ora riprecipitata, ultima in Europa, in assenza, anche nel centrosinistra, di una organica politica a favore di essa) rispetto al 25 per cento dei Paesi Ue più avanzati. L’Olanda supera il 30 per cento.
Quello di Cervellati a Bologna fu, difatti, un Peep, cioè un Piano per l’edilizia economica e popolare. Presentato nel 1972, sindaco Renato Zangheri, e adottato l’anno dopo (la vicenda l’ha raccontata Vezio De Lucia nel sempre attuale Se questa è una città, Editori Riuniti, seconda edizione Donzelli, 2006 n.di eddyburg). Con Armando Sarti, assessore al bilancio, che ebbe la brillante idea di far acquistare alcuni ruderi da restaurare, con l’amministrativista Antonio Predieri che teorizzò l’applicabilità delle leggi per l’edilizia economica ai quartieri antichi, con Franco Briatico (uno di Italia Nostra) il quale, da liquidatore della Gescal, finanziò questo di Bologna come, in futuro, altri progetti di recupero in diverse città. Ci furono formidabili opposizioni, di ogni tipo, anche nel Pci. Dove c’era chi combatteva questa linea sostenendo che le tipologie ricavate da Cervellati e dai suoi tecnici a Bologna erano soltanto «paccottiglia» e non invece - come poterono dimostrare - strutture-modello rispuntate, guarda caso, nelle costruzioni del Villaggio Olimpico di Monaco di Baviera. Altre città seguirono l’esempio di Bologna, al Nord (Ferrara, Modena, Vicenza, ecc.) e al Sud (Taranto). Qualcosa fece pure Roma (San Paolo alla Regola, Tordinona). Recuperi molto significativi che servirono a confermare come i centri storici potevano venire rivitalizzati e vissuti, e non ridotti a bei gusci vuoti. Si dimostrò, fra l’altro, cifre alla mano, che un metro quadro di edificio storico recuperato costava la stessa cifra e anche meno dell’edificio nuovo (che però si mangiava altro suolo prezioso ed esigeva nuovi servizi, onerosissimi).
A Bologna si recuperarono centinaia di alloggi, si crearono studentati, ma, ad un certo punto, commercianti e affittacamere indurirono la loro resistenza. Quando poi si passò, nel 1977, ad un piano per «il rinnovo di Bologna», cioè al recupero su vasta scala del patrimonio soltanto «vecchio» degli Istituti Case Popolari in periferia, cominciò l’insabbiamento, per l’offensiva sempre più decisa di immobiliaristi e costruttori. Che lucravano (e lucrano) profitti facilissimi su di una espansione edilizia ininterrotta, scaricando gli oneri di urbanizzazione in gran parte sui Comuni.
In quello stesso torno di tempo veniva trasferita alle Regioni sia l’urbanistica, sia (sbagliando clamorosamente) la tutela del paesaggio. Per la quale ultima si verificò tuttavia la più totale immobilità delle Regioni stesse. Al punto che nel 1985 il Parlamento si vide costretto a varare (quasi alla unanimità) una legge di sostanziale supplenza, la legge Galasso, n. 431, con cui si prescriveva agli enti regionali di redigere entro un anno dettagliati piani paesistici al fine di salvaguardare quel paesaggio che Giulio Carlo Argan, in un memorabile intervento al Senato, aveva definito «il palinsesto, il grande libro nel quale si leggono millenni della nostra storia». Poche furono le Regioni che provvidero tempestivamente alla bisogna (Emilia-Romagna, Marche, Liguria), altre seguirono, altre furono surrogate dal centro, cioè dalle Soprintendenze, per esempio, la disastrata Campania, sotto il coordinamento dell’indimenticabile Antonio Iannello. Altre ancora, come la devastata Sicilia, nulla fecero, né hanno mai fatto. Dunque, nel ventennio ’60-’80, le sinistre si posero spesso alla guida di un movimento culturale e politico che puntava alla tutela attiva delle città tradizionali e del paesaggio (si ricordi l’azione di Luigi Petroselli per il parco dei Fori pensato da Cederna), ad una strategia di quantità/qualità per l’edilizia più economica (si pensi a certe esperienze della ricostruzione napoletana). Grazie ad esse, il nostro Paese - che pure era flagellato, specie a Roma e nel Sud - da un abusivismo terribile, dai costi sociali spaventosi, risultava all’avanguardia in Europa. Dov’è finito quel fervore culturale, dov’è finita quella elaborazione generosa e avanzata, se oggi vi sono governatori, presidenti e sindaci di centrosinistra, i quali sparano a zero contro i vincoli paesistici delle Soprintendenze (una volta, vedi Bologna, li mettevano loro), invocano mani più libere per «non fare delle città e del paesaggio» altrettanti «musei»? Non si accorgono di usare espressioni che anni fa erano dei costruttori? Quale mutazione genetica è avvenuta a sinistra?
(1-continua)
Imballano e trasportano. Montano e smontano, tu scegli e loro ricreano in giardino. È l'Ikea del paesaggio, il grande magazzino illegale della casa in campagna. Comprare un trullo made in Puglia, originalissimo, garantito pietra per pietra, è facilissimo. Costoso, ma facile. Quarantamila euro tutto compreso, trasporto e montaggio: le chianche e le chiancherelle - il pavimento e i piccoli mattoncini che ricoprono i tetti delle caratteristiche case in pietra della campagna pugliese - vengono attentamente scomposte, imballate, caricate nei camion. E poi rimontate nelle campagne toscane, nelle ville della Brianza. "C'è un trullo anche in Giappone", giurano i contadini che da queste parti tutti i giorni fanno i conti della razzia: a Martina, a Noci, a Conversano.
Il fenomeno del trullo da asporto è il nuovo grande business pugliese sul quale la procura di Bari sta indagando da qualche mese. A smontare e rimontare è gente del posto, 'mastri trulli': soltanto in pochi custodiscono il segreto dell'igloo di pietra. Per i lavori di fatica si fanno aiutare da manovalanza straniera, albanesi soprattutto. Ma il sospetto è che tra i ladri di territorio si nasconda anche la criminalità organizzata: "Sicuramente alle spalle c'è un'organizzazione che gestisce gli affari. Probabilmente non è pugliese. Sono loro che prendono le ordinazioni, chiudono gli affari e poi ordinano a gente locale di smontare e impacchettare tutto", spiega Francesco Greco, comandante della Polizia provinciale. Al momento sul tavolo della procura di Bari ci sono due inchieste. La prima, coordinata dal sostituto procuratore Renato Nitti, nasce a marzo quando nelle campagne di Conversano (venti chilometri da Bari) gli agenti scoprono pedane in legno nascoste in un anfratto. Si avvicinano e ci trovano un trullo. Era stato smontato con grandissima arte, ciascuna pietra marchiata, i pezzi posizionati in modo da non poterli confondere. Il tutto impacchettato con una rete metallica, per agevolare il trasporto. Due ore dopo sul posto arrivano due albanesi, pronti a caricare camion. Li arrestano in flagrante, la magistratura si muove. L'obiettivo è arrivare ai vertici dell'organizzazione. L'indagine sembrerebbe a un buon punto, tanto che la Polizia provinciale nell'ultima informativa abbozza anche un prezzario: "Le chianche nuove di cava hanno un valore tra i 20 e i 30 euro al metro quadrato. Quelle asportate illegalmente vanno dagli 80 ai 100. Una stima simile si può fare per le chiancarelle. Per un intero trullo il corrispettivo economico nel mercato nero è di ventimila euro, a cui ne andrebbero aggiunti altrettanti per il montaggio in altra località".
Non solo trulli. Il commercio del paesaggio ha in catalogo anche muretti a secco, scalini, capitelli ornamentali. Addirittura i Menhir. Nelle campagne di Terlizzi, due settimane fa, qualcuno aveva già smosso da terra una delle quattro sculture neolitiche della zona. Doveva soltanto passare a riprenderla, pronta per la spedizione. Sono arrivati prima i carabinieri.
La seconda inchiesta della Procura di Bari sui ladri di territorio riguarda invece le pietre (meravigliose) utilizzate per realizzare i muretti a secco e nasce da un esposto di Legambiente: "Esistono", spiega Francesco Tarantini, presidente regionale dell'associazione, "dei veri e propri depositi di stoccaggio provvisorio delle pietre murgiane. Per essere trasportate senza problemi nei documenti di viaggio risultano essere 'balle di pietre per il contenimento di frane'". Sulla vicenda indaga il sostituto procuratore, Roberto Rossi. Probabilmente però l'organizzazione è unica.
Ma come si fa a comprare un trullo o ad avere un muretto a secco originale nel giardino della propria villa? Se si scende in Puglia per turismo, basta girare per le masserie della Valle d'Itria, fare una buona offerta a un contadino, se si è fortunati nel giro di 24 ore si chiude un affare. Questa strada (almeno per quanto riguarda i trulli) è però poco praticata. "Più semplice", spiegano da Legambiente, "rivolgersi ad alcune aziende del Nord, che si occupano di architettura da giardino. Offrono il pacchetto chiavi in mano".
Illustre Signor Presidente,
torniamo a rivolgerci a lei perché siamo molto preoccupati della spirale legislativa con cui si sta rapidamente smantellando quel complesso sistema di salvaguardie che sono state elaborate in oltre mezzo secolo di studi, d’impegno e militanza ambientalista a tutela del nostro patrimonio culturale, artistico e ambientale. Siamo ben consapevoli che lo sviluppo è necessario e positivo, e che viviamo in una economia di mercato, ma al tempo stesso riteniamo anche che non è vero sviluppo quello solo quantitativo di produzione e di consumi. La nostra Costituzione, all’articolo 9 tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione e oggi noi vediamo questi inestimabili beni collettivi fatti oggetto di mercato attraverso leggi che riteniamo profondamente sbagliate. In particolare siamo preoccupati degli esiti infausti della legge delega sull’ambiente passata in Senato il 14 ottobre scorso. Riteniamo che si tratti di un provvedimento che sancisce una illimitata sanatoria degli abusi paesaggistici anche in aree vincolate. Inoltre, giudichiamo scorretta e pericolosa la scelta di esautorare il Parlamento dalla discussione e approvazione legislativa su materie centrali per il Paese come la gestione dei rifiuti, la tutela dell’aria e delle acque, la lotta alla desertificazione, la gestione delle aree protette e la valutazione d’impatto ambientale.
Vogliamo anche dire con chiarezza che il nostro giudizio, come quello di molte altre associazioni ambientaliste, non è legato a scelte di schieramento o di maggioranza di governo. Riteniamo che, al di là delle maggioranze e dei governi che mutano, non può dirsi civile un paese che rinunzi a salvaguardare gli antichi e sacri paesaggi dove sono incastonati i nostri centri storici e i monumenti naturali, testimonianza di una continuità culturale unica al mondo.
E’ per questo che ci rivolgiamo rispettosamente e con fiducia a Lei, come garante della legalità costituzionale e custode del l’identità nazionale, per chiederle di non firmare la legge delega per l’ambiente nel caso dovesse passare anche alla Camera.
Qui trovate il modulo per firmare via e-mail
ITALIA NOSTRA
PRONTE 10 MEGA TORRI EOLICHE
DA 110 METRI
Altro che sindrome Nimby (not in my backyard-non nel mio giardino). La guerra all’eolico ormai diffusa in tutta Italia con decine di comitati locali è, al contrario, una battaglia in difesa degli interessi nazionali.
L’arrivo dei padroni del vento con la multinazionale spagnola Gamesa in Maremma, è il sintomo più grave di un attacco generalizzato al patrimonio paesaggistico italiano. A Scansano(Gr), così come a Campobasso, si progettano centrali eoliche che vanno a turbare monumenti di valore nazionale, il cui valore è in larga parte determinato dall’essere ancora immersi nel contesto ambientale originario nel quale sono nati.
In Molise, 16 torri eoliche di 126 metri minacciano gli scavi archeologici dell’antica città di Saepinum, posta a cavallo del tratturo più famoso d’Italia (Pescasseroli - Candela), con effetti disastrosi pur essendo a sei chilometri e mezzo di distanza. E se ne è accorta anche la Regione Molise che su questo caso ha decretato una moratoria dell’eolico.
A Scansano, invece, la distanza tra il Castello di Montepò e i più grandi apparati industriali mai costruiti dall’uomo, sarebbe di soli due chilometri e mezzo.
Non a caso, in questo comprensorio, il PTC (Piano Territoriale di Cordinamento) della Regione Toscana, prescrive che gli stessi interventi “legati all’attività agrituristica e alla valorizzazione della produzione vinicola saranno realizzati secondo criteri di rigorosa compatibilità con l’integrità del contesto ambientale[...]”.
“Se perfino in Maremma, fino ad oggi luogo esemplare di gestione del paesaggio italiano”, ha dichiarato Oreste Rutigliano, Coordinatore del Comitato Nazionale del Paesaggio “dovesse passare questa aberrazione, vuol dire realmente che siamo di fronte ad una emergenza nazionale. La Regione Toscana, bloccando questo insediamento ci riconfermi che vuole essere ancora un punto di riferimento di buon agire culturale”.
LEGAMBIENTE CONTRO ITALIA NOSTRA
SI' A EOLICO SCANSANO (AGI)
Legambiente si costituira' "ad adiuvandum" della Provincia di Siena - nonche' del comune di Scansano, della Regione Toscana e della Sopraintendenza di Siena - in difesa del parco eolico di Scansano, per ottenere che sia respinto il ricorso presentato da Italia Nostra che, se accolto, bloccherebbe la realizzazione dell'impianto. Come spiegano in una dichiarazione il presidente nazionale di Legambiente Roberto Della Seta e Fausto Ferruzza, segretario di Legambiente Toscana, questa scelta ha un obiettivo pratico e un significato simbolico: "Le dieci pale eoliche di Scansano - sottolineano i dirigenti di Legambiente - sorgeranno dove ci sono gia' i tralicci, di analoga altezza, di un grande elettrodotto, dunque il loro impatto paesaggistico sara' molto limitato. D'altra parte, esse consentiranno di approvvigionare con energia pulita quasi 50 mila persone, per un significativo risparmio di emissioni inquinanti". Per tutto questo, aggiunge Legambiente, battersi contro un intervento cosi' vuol dire negare le ragioni stesse dell'ambientalismo: "Dire no all'eolico, come alle metropolitane o agli impianti di compostaggio dei rifiuti - affermano Della Seta e Ferruzza -, e' ostacolare una vera riconversione ecologica dell'energia, dei trasporti, in generale dell'economia e della societa'. Nel caso di Scansano, dire no al parco eolico significa ostacolare 'la Maremma che vogliamo': senza nuova autostrada, con un'Aurelia finalmente sicura, ma anche con un modello di produzione e consumo di energia meno legato ai combustibili fossili e di piu' alle fonti pulite".
Chi non conosce il territorio pensa che se una soluzione tecnica buona lo è indifferentemente dappertutto. I pannelli solari sono buoni? Allora installiamoli anche sul Colosseo, e magari sotto i portici di San Pietro. Le torri eoliche sono buone? E allora fottiamocene del paesaggio, magari anche dove il vento è poco.
Che dire poi dell’affermazione “le dieci paleeoliche sorgeranno dove ci sono già i tralicci”? Ricordo che Chicco Testa, quando non era più presidente di Legambiente ma lo era dell’ENEL si propose di eliminare i tralicci dove disturbavano il paesaggio…
Nota: Qui su Eddyburg, per metodologie non arbitrarie di decisione riguardo al territorio e nuove tecnologie energetiche, anche due contributi recenti nei casi dell'Australia e del Regno Unito ; su Mall/Piani, anche alcune linee guida alla progettazione sostenibile (non solo per l'eolico) della East of England Regional Assembly (f.b.)
Metti il suolo... Uno non se lo pone mai il problema di sapere che suolo è quello che sta calpestando. Eppure da noi esistono entisuoli, inceptisuoli, vertisuoli, mollisuoli, alfisuoli, Ultisuoli, aridosuoli, spodosuoli, oxisuoli, histosuoli, andisuoli... A guardarsela così quest´Italia appena riapparsa sulle pagine del nuovo Atlante dei tipi geografici dell´Istituto Geografico Militare, evoca prima il sogno borgesiano della mappa uno a uno. Subito dopo, però, è l´Oscar Wilde del Ritratto di Dorian Gray che ti viene in mente...
Il Vesuvio? Lo sanno tutti che è vivo, pieno di fuoco e, se vuole, sa farsi assassino: eppure una cintura recente di case, ormai, lo strangola da presso.
Chiasso e Como? Erano due paesoni, in mezzo c´erano solo i campi. Oggi, a vederli, sono un´unica distesa di case e villette, spalmata tra Italia e Svizzera.
Le coste? Qualche porto, sì, qualche borghetto a mare, le grandi città portuali, ma tutto il resto era natura, l´Italia. Oggi - e lo si vede - di litorale intatto ce ne rimane pochino assai...
E il mare? Cos´è quel rosa pazzo che colora le onde? Mucillagini, che però al satellite e alle sue tecnologie di termoluminescenza non lui: oggi, però, c´è. Lago di Lavarone si chiama. Lo ha creato la frana precipitata nell´invaso del Vajont.
Riappare così l´Italia, ma tutta nuova, come l´abbiamo fatta noi, nell´ultimo mezzo secolo: è quella del III millennio.
Italia, istruzioni per l´uso si chiama, quest´Atlante (Igm, 100 euro). A firmarlo, è - per la terza volta, da quando l´Italia è unita - l´Istituto Geografico Militare. La prima volta - era il 1922 - l´Atlante IGM uscì a firma di Olinto Marinelli. Una seconda volta, nel 1948 venne affidato a tre scienziati: Roberto Almagià, Aldo Sestini e Livio Trevisan. Ora - coordinato dal direttore della Scuola Superiore di Scienze Geografiche, Salvatore Arca, patrocinato dalla Presidenza della Repubblica e finanziato dalla Cassa di Risparmio di Firenze ricompare l´Atlante per raccontarci come, dove e quanto l´Italia è cambiata dal 1948 a oggi. Le sue 680 pagine patinate, formato A3, con oltre 2000 illustrazioni, tra mappe, grafici, tabelle, carte d´epoca ma anche satellitari, multispettrali, tridimensionali, termoluminescenti, tutte spiegate da 116 professori di 39 università italiane e da 16 specialisti, ne fanno un kolossal di informazioni aggiornatissime.
E´ stato presentato a Palazzo Vecchio, e ora sta arrivando nelle librerie per geologi, geografi, sociologi, escursionisti... «E anche amministratori pubblici, spero» dice Arca «Ormai è indispensabile che chi decide sul territorio, prima lo conosca davvero. Vi si vede tutto. Quasi un check up: non è un atlante geografico come lo s´intende comunemente ma piuttosto è una raffica di zoomate tematiche sulle caratteristiche peculiari della superficie terrestre: monti, pianure, fiumi, paludi. E, su quest´organismo vivo, mobile che è l´Italia, le opere fatte dall´uomo aggiungendo meraviglie, togliendole, talvolta massacrando. Ecco, noi geografi, tutte queste particolarità, le chiamiamo "tipi geografici"».
Il Viaggio nel Belpaese è esperienza emozionante. Nello spazio, ma anche nel tempo. Passato remoto, 1922: nel Marinelli 1 si vede un´Italia selvatica, ancora contadina: mezza romana, mezza medievale; le città sono dentro le loro mura, i campi sono ancora campi... Passato prossimo, 1948: è un´Italia devastata dalla guerra e plasmata dalle bonifiche, ma comunque è ancora l´Italia di sempre, si vedono ancora le centuriazioni romane... Presente, 2004, oggi: molte zone, troppe, non sembrano più le stesse...
Case, doppie case, triple case: eccola qua quella crosta di cemento e asfalto che angosciava Cederna e che ora ci cambia il clima, ci dirotta i venti. Eccoli - grazie ai «tipi geografici», immortalati in pagina - i mille nuovi errori commessi dall´uomo dell´ultimo mezzo secolo in nome di un progresso spesso scortato da ignoranze e condoni suicidi.
L´uso ritmato di sguardi satellitari e di zoomate ravvicinatissime, paradossalmente rende quest´Atlante assai simile alle primissime carte geografiche. Dice Luciano Lago dell´Università di Trieste: «Le antiche mappe erano già carte antropologiche e culturali, perché vi si trovavano segnati animali, mostri, usi e costumi. È stato solamente quando la geografia comincia a diventare scientifica che gli Atlanti divennero muti. Arrivati, oggi, alla massima perfezione dell´Atlante, c´è un interessante ritorno all´antico».