Dice bene il regista Moretti: non è cambiato nulla, il paese è sempre sotto l´ala nera di una ondata reazionaria, nemica della democrazia e della giustizia, pronta all´attacco dello Stato e delle istituzioni, pronta soprattutto a considerare i galantuomini come nemici, gli onesti come colpevoli. Alla notizia che Francesco Saverio Borrelli era stato nominato capo dell´ufficio indagini della Federazione del calcio, l´Italia berlusconiana compatta è scesa in campo per accusarlo, in mancanza di delitti compiuti, delle peggiori intenzioni quali giustizialismo sovversivo, interdizione e ricatto verso l´Italia sportiva onesta che sarebbe quella dei notabili ladri e mafiosi del calcio.
Incredibile? Incredibile no ma salutare per capire che la partita non è ancora chiusa, che il recupero della democrazia è ancora da cominciare. Il modo di ragionare o sragionare è sempre lo stesso di Mani pulite e della gestione governativa di Berlusconi: l´esercizio della giustizia, ordinaria come sportiva, è una congiura politica con cui gli "assassini" comunisti e i loro utili idioti cercano di instaurare la loro dittatura.
Non importa che le indagini giudiziarie su Bettino Craxi e sui corrotti della prima Repubblica siano giunte a processi regolari, ritenuti tali dall´Alta corte di giustizia europea, non importa che la refurtiva dei loro furti sia stata recuperata nei caveaux delle banche svizzere o lussemburghesi, bisogna continuare a dire a gridare che Mani pulite fu una operazione premeditata per eliminare, per spezzare il fronte moderato italiano che sino allora aveva governato saggiamente l´Italia e impedito che cadesse nelle mani sanguinanti di una dittatura rossa. I ladri, i mafiosi, i corrotti e corruttori? Specchietti per le allodole, falsi scopi, inganni per il popolo bue, dietro i quali si muoveva implacabile l´armata dei rossi e dei loro stolti alleati. La nomina di Borrelli a dirigere le indagini sul grande scandalo del calcio è la cartina di tornasole, il reagente chimico, la prova della verità, la caduta delle menzogne, il re nudo del popolo berlusconiano che "non molla", che non tollera ritorni alla giustizia, che concepisce la democrazia solo come alleanza delle cosche più forti e più ricche. Eccoli lì tutti schierati come ai bei tempi in cui si gridava allo scandalo di Mani pulite, all´inaudito oltraggio che veniva compiuto perseguendo personaggi altolocati, politici e banchieri, finanzieri e poliziotti presi con le mani nella marmellata o come il povero Chiesa mentre facevano scomparire le banconote nel water del Pio Albergo Trivulzio.
Ecco dietro Berlusconi («Si sono scelti l´arbitro di fiducia») in prima fila Fabrizio Cicchitto, che non ci crederete ma apparteneva alla sinistra lombardiana, era per la politica etica per la epurazione dei ladri e ora alza il suo lamento se con la nomina di Borrelli «si ritorna al giustizialismo che ci ha deliziato negli anni Novanta», cioè se si ritorna ad essere per Lombardi e non per Craxi. E´ contro anche Maurizio Gasparri il missino che legiferava sulla televisione con l´approvazione di Silvio. Ha detto: «Io sono della Roma, se fossi del Milan sarei preoccupato». Capito? Per lui Borrelli un magistrato che per una vita ha onorato la magistratura sarebbe uno scelto da Guido Rossi per far carte false contro la squadra di Berlusconi. Che di cadaveri nell´armadio deve averne non pochi se grida che i «comunisti si sono impadroniti del calcio». Ci sono nella nostra politica dei nani che colgono ogni occasione per alzare il capino e far vedere che esistono. Uno è Marco Taradash esponente dei non meglio conosciuti Riformatori liberali. Lui è del disinteressato parere che le nomine di Guido Rossi a commissario straordinario della Federazione del calcio e della Melandri a ministro dello Sport abbiano uno scopo preciso «mettere le mani sul calcio e tentare di orientare politicamente le emozioni che la passione calcistica suscita. La nomina di Borrelli amplia la natura dello scontro. Non c´è ingenuità in questo ma voglia di rivincita politica con regole truccate e l´arbitro compare». Ha ragione Moretti: il berlusconismo che "non molla" è ancora fra di noi, nei giornali nelle televisioni nei due rami del Parlamento. Con le tecniche di sempre: l´arroganza, la certezza di essere detentori del potere, la diffamazione degli avversari.
Che cosa vuol dire il missino La Russa quando afferma che Borrelli è «persona preparata ma con un bagaglio di polemiche non marginali il quale può prefigurare una sorta di occupazione dello sport». Semmai diciamo noi potrebbe prefigurare una disoccupazione, un chiarimento visto che il Milan ha piazzato come presidente della Lega il suo amministratore Galliani, di Berlusconi fidato secondo.
«In Italia torna l´uso politico della Giustizia» afferma Gianfranco Rotondi segretario di una Democrazia Cristiana che francamente pensavamo defunta, super berlusconiano. E non poteva mancare la Santanché che attribuisce a Borrelli il motto «retrocedere, retrocedere, retrocedere» per dire che è stato chiamato a quel posto per punire la squadra di Berlusconi... Poteva mancare Stefania Craxi? «Mi auguro che non compia gli stessi errori che ha compiuto quando commissariava il mondo della politica». Quali errori? Quelli di scoprire i conti segreti del socialismo craxiano in Svizzera o i miliardi affidati a un barista di Portofino perché li portasse in Costarica? Non è cambiato nulla in Italia. Contro Borrelli quelli di sempre, con Borrelli quelli che stavano al suo fianco come Gerardo D´Ambrosio: «Sarà sicuramente all´altezza dell´incarico che gli è stato assegnato come ha fatto in passato. In analoghe circostanze si comportò benissimo». Già ma è proprio per questo che non è gradito a lor signori.
Con che faccia il presidente del Consiglio avrebbe potuto inaugurare oggi in pompa magna l’Alta Velocità tra Roma e Napoli, dopo il grave incidente ferroviario di Roccasecca, proprio sulla direttrice Sud? Così, l’evento a lungo annunciato, cui avrebbero dovuto partecipare anche i ministri Pietro Lunardi e Giulio Tremonti, in una sorta di inaugurazione della campagna elettorale all’insegna del motto berlusconiano «Io sto cambiando l’Italia», è stato annullato all’ultimo momento.
Perché sembra che purtroppo l’Italia non cambi mai, persa tra sogni di Grandi Opere, di tecnologie, di piramidi infrastrutturali, di velocità supersoniche, di miliardi di euro mostrati sulla carta in diretta televisiva e, nella realtà, di carrozze ferroviarie piene di zecche, se non di scorpioni, che si accartocciano facendo morti e feriti oltre un semaforo rosso.
Se oggi fosse riuscito a tagliare il nastro della prima «opera di regime» giunta, secondo lui, a compimento, se a Roccasecca non si fosse accartocciato quel treno di viaggiatori a Bassa Velocità, Silvio Berlusconi non si sarebbe fermato a Eboli, ma un po’ più a nord, ad Afragola.
E’ lì, nella cittadina campana che ridente non si può dire, nonostante abbia dato i natali ad afragolesi illustri come Domenico De Stelleopardis, superiore provinciale dei Domenicani nel Regno delle Due Sicilie, e a Luigi Ciaramella, il podestà fascista più longevo d’Italia, che c’è il «nodo finale». E’ lì che il sogno dell’Alta Velocità diventa, more solito, Alta Lentezza, che sarebbe persino tollerabile se non facesse morti e feriti.
Da Afragola a Napoli si va piano piano. La Ferrari Colosseo-Vesuvio su rotaie, che in campagna elettorale avrebbe dovuto essere un cavallo di battaglia, la prova del motto «sto cambiando l’Italia», il motto che lunedì sera il Berlusconi furioso non è riuscito a dimostrare a «Porta a Porta», nonostante i «foglietti» contenenti su carta le Grandi Opere e gli «aiutini» del bravo presentatore, rimane il sogno o lo spot che di volta in volta s’infrange su vecchie tradotte sventrate, su inchieste ordinate dai ministri che non si concludono mai. Errore umano o guasto meccanico? Ad Afragola, il «nodo finale» è la stazione «a ponte», disegnata dall’architetto Zaha Hadid. Semplicemente, non c’è. Se tutto va bene sarà pronta tra il 2008 e il 2010, ma tra imprevisti, aggiornamento-costi e camorra, è piuttosto difficile. Ergo, la Ferrari su rotaia immatricolata dal ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, notoriamente più veloce di parola che di pensiero, s’imballa e diventa una Fiat 500 prima serie, quelle con gli sportelli che si aprivano controvento, a Gricignano, 19,6 chilometri a nord di Napoli. Luca Montezemolo, poveretto, non può fare sempre lo scettico blu e così ha avallato, nel viaggio di prova di qualche giorno fa, la felice immagine del ministro detto il «Talpa», per la passione quasi erotica che nutre per le gallerie, della Ferrari da 300 chilometri all’ora. Ma, ahimè, non c’è solo il «nodo finale» di Afragola, c’è anche un «nodo iniziale».
Montezemolo abita ai Parioli e per provare l’ebbrezza della Ferrari su rotaia dovrà spingere l’acceleratore tra i pendolari della «Fr2», la ferrovia normale che collega Roma a Tivoli, perché la stazione «a ponte» di Roma Tiburtina, disegnata dall’architetto Paolo Desideri, non c’è.
Stamane, se tutto fosse andato bene e se a Roccasecca quel treno normalissimo non si fosse schiantato, Berlusconi avrebbe impiegato un’ora e 27 minuti per andare da Roma a Napoli, una ventina di minuti in meno di quanto ci hanno sempre messo i pendolari dai primi del Novecento in poi.
«Se tutto fosse andato bene». Perché un gruppo di senatori del Centrosinistra guidati da Luigi Zanda, sicuramente non berlusconiani, ma preparati e tutt’altro che menagrami, era assai preoccupato per l’incolumità del cinquantadue per cento del governo in carica (cinquanta Berlusconi, il resto i due ministri) e per i prossimi normali viaggiatori, causa «la drastica riduzione del pre-esercizio», decisa per consentire al premier di inaugurare prima delle elezioni almeno una delle Grandi Opere così assertivamente e incautamente promesse.
Il pre-esercizio è, in sostanza, il periodo di prova e di collaudo della nuova ferrovia, ridotto da sei mesi a un solo mese, per non andare oltre le elezioni, previste per il 9 aprile prossimo, in modo da fare dell’Alta Velocità Roma-Napoli l’epitome dell’”Italia che (Berlusconi) cambia”. La prova su rotaia che mentono quegli istituti scientifici che calcolano nello 0,03 per cento (fonte Cresme) la realizzazione effettivamente ultimata delle opere degne dei faraoni promesse da Berlusconi cinque anni fa in diretta televisiva.
I sistemi di sicurezza, mai sperimentati prima, funzioneranno a 300 all’ora, se non funzionano neanche quelli tradizionali a pochi chilometri all’ora, come fa sospettare l’incidente di Roccasecca? Si vedranno i semafori rossi? E che succederà tra il chilometro 178 e 192, tra Pastorano, Capua e Santa Maria La Fossa, dove sono segnalati cedimenti? Per non dire delle barriere antirumore, che sembra siano un po’ instabili. Sicuri che non precipiteranno sulla Ferrari da 300 all’ora? Dio ci scampi, la tecnologia è indiscutibile, se ben sperimentata può probabilmente evitare incidenti come quello di ieri.
Ma i trenta e più senatori che prima dell’incidente di Roccasecca ponevano un problema di sicurezza dell’Alta Velocità, denunciando la fretta di un’inaugurazione prematura ed elettoralistica, guastando la festa infrastrutturale di Berlusconi, pongono anche qualche altro interrogativo di buonsenso. Quanto è costata, per dire, l’Alta Velocità Roma-Napoli fino al «nodo finale» di Afragola, mentre le Ferrovie sono sull’orlo del fallimento, non riescono a fare manutenzione e a garantire la sicurezza neanche sulle linee-lumaca? Quanto sono lievitati i costi dal 1991 ad oggi? Qual è stato il reale costo per metro?
Di più o di meno rispetto ad analoghe opere in Francia, Spagna e Germania? Vale la pena di guadagnare venti piccoli minuti tra Roma e Napoli, quando a Roccasecca ci si schianta nei pressi di una stazione? I conti sono fermi a dieci anni fa, quando l’ex giudice Ferdinando Imposimato, in una relazione alla Commissione Antimafia, quantificò in diecimila miliardi di lire la torta della camorra, entrata nel business con i subappalti sulla Roma-Napoli. Una torta così suddivisa: sei decimi ai partiti, tutti tranne Rifondazione comunista e la Lega, quattro decimi a camorristi, affaristi e faccendieri vari.
L’album di famiglia, tutto intero, di Tangentopoli. Ma erano briciole. La nuova contabilità è ignota, non c’è aggiornamento attuariale, ci sono lire non euro.
Quel che conta oggi è il taglio dei nastri, quello 0,01 di Grandi Opere (quasi) completate dal governo Berlusconi, mentre tutta l’Italia viaggia a un solo binario e talvolta rischia la vita in un vagone accartocciato.
Milano. In consiglio la nuova legge urbanistica
MILANO - Protesta l’opposizione in Consiglio regionale dopo che ieri è stato approvato un articolo della legge sul governo del territorio che il centrosinistra definisce «pro Berlusconi». L’articolo infatti impedisce ai Comuni che hanno un piano regolatore varato prima del 1975 di approvare nuove varianti e li obbliga invece a redigere un nuovo «piano del governo del territorio» (quello che nella nuova legge sostituirà i Prg). In Lombardia sono solo due i Comuni con un piano regolatore così vecchio: Campione d’Italia e Monza. E proprio da Monza arrivano le proteste. Il Comune sta infatti votando una variante per impedire che si possa costruire in una serie di aree esterne, che nel vecchio piano erano edificabili. Tra le altre, quella della Cascinazza di proprietà della famiglia Berlusconi dove potrebbe essere realizzato un piano di lottizzazione da 388 mila metri cubi.
«In questo modo - commenta il consigliere Ds Marco Cipriano - non potrà andare in consiglio comunale il provvedimento, predisposto dalla giunta, che dichiarava inedificabile la vasta area di proprietà di Paolo Berlusconi. Questo è un ennesimo provvedimento ad personam». Sull’area a sud di Monza, è in corso un contenzioso giudiziario cominciato nel lontano 1964 fra l’amministrazione comunale e l’Istituto per l’edilizia industrializzata, immobiliare della famiglia Berlusconi. La società aveva concluso una convenzione per la costruzione di un quartiere residenziale, ma non è mai riuscita a portare a termine il progetto. Preoccupati, il sindaco di Monza, Michele Faglia, e il suo vice, Roberto Scanagatti.
«Questa legge sembra un provvedimento punitivo nei nostri confronti - dice il diessino Scanagatti -, mirato a farci pagare responsabilità di chi ci ha preceduto. Non vogliamo nemmeno pensare che sia stata voluta per favorire l’immobiliare di Berlusconi e la lottizzazione sull’area della Cascinazza». «Se un Comune non si è dotato di un piano regolatore negli ultimi trent’anni - risponde l'assessore regionale all’Urbanistica Alessandro Moneta - vuol dire che qualcosa non va e la colpa non è certo di una legge della Regione che gli chiede di prepararlo
IL NUOVO governo ha superato lo scoglio della fiducia al Senato oltre le previsioni e anzi «meglio del ‘96», come ha detto Romano Prodi. È il segno che può durare a lungo, salvo istinti suicidi della maggioranza. E questo ha fatto saltare i fragili nervi del berlusconismo sconfitto. A pochi giorni dalla proposta di eleggere Carlo Azeglio Ciampi e Giulio Andreotti alle prime due cariche dello Stato, il centrodestra ha scoperto nelle due ex bandiere e negli altri cinque senatori a vita una cricca di nemici del popolo da mettere alla gogna in Parlamento con fischi e insulti e da processare in televisione.
La violenza dei toni e degli slogan è la solita applicata in passato ad altri nemici del popolo, «comunisti», magistrati.
Ma vedere stavolta il manganello mediatico abbattersi sulle teste candide di ottuagenari e in qualche caso quasi centenari padri della patria fa un’impressione particolarmente penosa. I fischi a Carlo Azeglio Ciampi sono un atto osceno in luogo pubblico.
Così come la derisione e le offese rivolti a Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, Rita Levi Montalcini, Sergio Pininfarina, Emilio Colombo, accolti tutti al grido di «venduti, venduti», «necrofori» e altri peggiori. Il filmato dell’impresa tardo dannunziana, ma soprattutto tarda di cervello, ha già fatto il giro del mondo civile, dove nessuno si sogna di organizzare pestaggi verbali nei confronti di ex presidenti e premi Nobel. Anche dall’opposizione, Silvio Berlusconi continua a esaltare l’immagine e il prestigio dell’Italia all’estero, come direbbe il Tg1.
L’imboscata ai senatori a vita è insensata, indegna e ignorante. Insensata perché il voto dei sette senatori a vita, alla fine, non è stato neppure decisivo. Se non si fossero presentati in aula, come invocato dai berluscones, il governo avrebbe ottenuto ugualmente la fiducia. È stata indegna per i motivi già citati e anche perché un Parlamento dove continuano a circolare inquisiti, condannati e pregiudicati, tutto può permettersi ma non di sollevare una «questione morale» intorno alla figura di Carlo Azeglio Ciampi.
È ignorante perché ignora alla lettera la storia anche recentissima. I senatori a vita, per lunga consuetudine, hanno quasi sempre votato per la maggioranza, al di là delle preferenze politiche individuali. È accaduto nel 1994, quando il governo Berlusconi passò la fiducia al Senato per un solo voto e in quel caso sì furono decisive le scelte di tre senatori a vita: Gianni Agnelli, Francesco Cossiga e Giovanni Leone. D’altra parte, a voler fare politica, il centrodestra dovrebbe interrogarsi sulla ragione che ha spinto quattro ex democristiani (Andreotti, Colombo, Cossiga e Scalfaro) e un ex liberale (Pininfarina) a votare «il governo più spostato a sinistra nella storia d’Italia», come l’ha definito l’Economist.
Ma qui non si fa politica, si va in scena. Pretendere di opporre argomenti razionali all’istinto eversivo del berlusconismo sconfitto è un po’ come voler spiegare al lupo di Esopo che l’agnello, stando in basso, non può inquinargli l’acqua. Bisogna piuttosto chiedersi quando finirà il delirio paranoide dell’opposizione, cominciato la notte stessa del 10 aprile, e proseguito con la ricerca di un nemico al giorno, dagli scrutatori dei seggi fino alla Spectre dei senatori a vita, pur di non ammettere la sconfitta.
Il fatto che il berlusconismo continui a dominare la televisione e quindi l’informazione in generale, ha creato dalle elezioni a oggi una falsa percezione della situazione politica. Tutto il dibattito mediatico è impostato sulla fragilità del centrosinistra, sulle sue contraddizioni, sulle difficoltà a governare la variegata coalizione da parte di Prodi. Poi i giorni passano, l’emergenza si stempera, la maggioranza riesce in tempi rapidi e senza difficoltà a eleggere i presidenti delle Camera e il presidente della Repubblica, Prodi forma il governo e ottiene una larga fiducia. La squadra di governo non sarà il massimo dello sforzo creativo, ma proprio per questo ha le caratteristiche per durare. Quale interesse avrebbero i partiti del centrosinistra a far cadere questo capolavoro di lottizzazione? Da chi potrebbero ottenere più posti e visibilità? Eppure, contro l’evidenza, si seguita a discutere soltanto dei problemi della maggioranza. La gazzarra di ieri ha almeno il merito di segnalare, per la par condicio, le disperate difficoltà in cui si dibatte l’opposizione.
Costretta a inseguire le folli recriminazioni del suo capo che ha settant’anni e non può aspettare il prossimo turno, quindi si gioca il tutto per tutto ogni giorno, senza un progetto, senza futuro, sfoderando una trovata da «serata futurista» dopo l’altra. Può andar bene per la claque leghista, sempre contenta di menare le mani. Ma per quanto Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini possono accettare di suicidarsi politicamente piuttosto che comunicare a Napoleone l’avvenuta Waterloo?
Rovesciando i luoghi comuni di un’informazione ancora controllata dal vecchio potere, s’intravede un altro rischio democratico. Non la fragilità del governo Prodi ma la fragilità anche nervosa dell’opposizione di Berlusconi, troppo isterica per essere a lungo sostenibile. Una sconfitta alle amministrative o al referendum sulla devolution, la fatale perdita di posizioni nei media, a cominciare dalla Rai destinata a una ri-lottizzazione da sinistra, possono far esplodere dopo dodici anni la costruzione berlusconiana della destra.
Si può obiettare, con ragione, che sono gli stessi discorsi che si facevano nel ‘96 dopo la prima vittoria del centrosinistra. Berlusconi fu molto abile nello sventare il pericolo, assai concreto, di vedersi sostituire alla guida del centrodestra. Ma non vi sarebbe riuscito senza l’aiuto, più o meno consapevole, di una sponda nell’Ulivo. Stavolta all’orizzonte non si vedono Bicamerali o patti delle crostate, almeno non pare, ed è (forse) un eccesso di ottimismo da parte dei berluscones pensare che il centrosinistra possa inciampare sempre sulla stessa pietra.
Il miracolo italiano è un paese di ogm
Negli ultimi decenni Silvio Berlusconi è riuscito a modificare l'Italia e i suoi abitanti. Sarà difficile, ma non impossibile, riparare i guasti arrecati dalle sue leggi. Più arduo sarà affrontare i danni prodotti nella mentalità degli italiani, ai quali l'ex premier e il suo alter ego, Giulio Tremonti, hanno spacciato per anni egoismo sociale con una politica concentrata sugli interessi personali. Una pesante eredità che non ha lasciato indenne nemmeno il centrosinistra
Di fronte a palazzo Chigi, mentre i ministri si riunivano per l'ultimo saluto, ieri c'era solo gente pronta al fischio. A pochi metri di distanza, di fronte alla camera, i fischiatori e i plaudenti erano equalmente ripartiti. La perla della giornata, però, il cavaliere dimissionario non la riservata ne ai fans né ai nemici. Se l'è spesa con i compagni della lunga avventura di governo: «Saremo rimpianti».
Qualcuno è d'accordo con lui, e non sono mica quattro gatti: una metà tonda del paese. L'altra metà la vede in modo opposto: quello che ci lascia è il peggiore tra i governi esistiti, anzi, tra quelli possibili. In un paese sino a poco tempo fa abituato alle sfumature, ai nasi turati e al «meno peggio», una simile lacerazione è di per sé un fatto nuovo. Basta da solo a rivelare quanto a fondo l'industriale prestato alla politica abbia inciso nel costume politico del paese e nella mentalità degli elettori, quelli che lo adorano e quelli che lo detestano.
Onore al merito, o al demerito: Silvio Berlusconi ha cambiato l'Italia più volte, e in molti modi. Lo ha fatto negli anni '80, quando ancora l'idea di lanciarsi in politica lo avrebbe fatto sorridere, costruendo con le sue televisioni un pubblico di spettatori pronti a trasformarsi in elettori letteralmente da un momento all'altro. Lo ha fatto di nuovo nel '94, cavalcando da virtuoso le contraddittorie tendenze della crisi che aveva posto fine alla prima repubblica. E poi ancora, negli anni dell'opposizione, la «traversata del deserto» come lui stesso ama definirla, quando rivelò e allo stesso tempo rese irreversibile l'avvenuto superamento dei gloriosi partiti di massa con il suo partito virtuale, capace di passare come se nulla fosse da poche migliaia di tesserati e centinaia di migliaia di iscritti, grazie alla trovata di una crociera, nel 2000, per poi riprecipitare quanto a iscrizioni, mantenendosi però sempre in testa alle classifiche quanto a voti sonanti.
Ma ancor più che con il video o con il partito azzurro, il cavalier Berlusconi ha cambiato il suo paese, o più precisamente gli abitanti dello stesso, col concreto operare del suo governo, a colpi di leggi e leggine. Sono stati interventi pesanti, dalla riforma della Costituzione, il fiore all'occhiello, a quella della scuola, dall'istituzionalizzazione del precariato alla ristrutturazione dell'etere, per tacere delle innumerevoli leggi ad personam. Tornare indietro sarà meno facile di quanto non sia apparso in campagna elettorale. Non a caso si moltiplicano le voci autorevoli che «consigliano» a Prodi di non buttare il bambino con l'acqua sporca, gli accorati appelli che lo invitano a tenersi stretto quel che di buono c'è nelle riforme della destra.
Ma per quanto difficile, smontare l'edificio costruito dal cavaliere e dei suoi ministri non è impossibile. Molto più arduo rischia di rivelarsi il compito di ovviare ai danni introdotti giorno dopo giorno nella mentalità degli italiani. Col governo, proprio come vent'anni prima con le televisioni, la più ambiziosa e per molti versi riuscita operazione del signore d'Arcore è stata quella di modificare il suo pubblico votante.
In tutti i provvedimenti che per anni l'ex premier ha squadernato in innumerevoli conferenze stampa, nelle riforme più fragorose come nell'ultima leggina, campeggia un profondo e micidiale elemento di coerenza. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, condono dopo condono, Silvio Berlusconi e il suo unico, vero altr ego, Giulio Tremonti, hanno legittimato, esaltato, beatificato i peggiori istinti dei loro governati. Hanno reso l'egoismo sociale motivo di vanto e il concentrarsi esclusivamente sul tornaconto personale prassi consacrata. Hanno introdotto nei fatti una concezione della politica deprivata di ogni elemento tranne il vantaggio a breve e sostituito il resto con una propaganda volutamente rozza.
Il cemento che tiene saldamente unite misure come il ritorno della selezione di classe nella scuola, una divisione del paese misurata sul reddito, la cancellazione dei diritti nel lavoro e i triviali provvedimenti studiati a misura di premier è stato sfacciatamente riassunto dallo stesso Berlusconi: «Pochi saranno tanto coglioni da andare contro i propri interessi». E' da questa eredità, che non lascia affatto indenne neppure il centrosinistra, che sarà davvero difficile liberarsi.
Marco Revelli: «Ecco cosa resta del berlusconismo»
Intervista di Roberta Carlini
Berlusconi non ha prodotto una nuova antropologia, l'ha sdoganata Nel profondo metà paese rimane quello dei Caimani. Anche se ora si respira meglio
«Oggi è giusto festeggiare perché il Berlusconi politico se ne va. Ma il problema è capire cosa ci resta come zavorra del paese: non solo e non tanto nella politica, quanto nel carattere nazionale del quale Berlusconi è stato specchio, maschera e grande sdoganatore». Nell'ultimo giorno del governo Berlusconi, parliamo con Marco Revelli, storico e sociologo, di quel resta e di quello che è cambiato nell'Italia del Caimano. In un arco di tempo che Revelli divide in due periodi: quello dello sdoganamento della ricchezza come valore, e quello della paura di perderla.
Quando dici che Berlusconi è un pezzo del carattere della nazione e non solo una parentesi politica, tracci un parallelo con i giudizi storici sul fascismo?
Sì, penso alla definizione di Gobetti sul fascismo come autobiografia e antropologia di una buona metà della nazione, come una delle forme che le tare storiche del carattere degli italiani hanno assunto. Partiamo dal momento dell'ascesa del berlusconismo, il '94; ripensiamo allo choc che tutti abbiamo provato quando questo partito istantaneo, appena quotato alla borsa della politica, si è rivelato subito maggioritario. Lì si vede chiaramente che Berlusconi non ha prodotto una nuova antropologia, l'ha sdoganata. Ha prestato la sua faccia a una parte dell'Italia che si credeva impresentabile e l'ha legittimata.
Non stai parlando di Fini e dell'ex-Msi, credo.
No. Il primo messaggio di Berlusconi fu molto semplice: ricco è bello, la ricchezza è un valore senza se e senza ma. E' la misura del proprio valore. Non c'è da vergognarsene, comunque sia stata guadagnata. Altre erano state le culture politiche della prima repubblica - almeno quelle pubbliche, al di là dei vizi privati. D'un colpo, quest'Italia barbara vede i suoi istinti animali esaltati come pubbliche virtù. Ricordo di aver letto con sorpresa un articolo sul Corriere nel quale Angelo Panebianco diceva che il merito di Berlusconi è nell'aver legittimato il capitalismo in Italia, al contrario della prima repubblica: mi colpì, perché il capitalismo, quello della grande fabbrica e dell'impresa pubblica, la prima repubblica l'aveva costituita. In realtà quel che Berlusconi legittimava era la ricchezza, non il capitalismo. Era uno specchio, lo specchio del grande ricco nel quale anche il piccolo ricco può trovare la giustificazione del proprio privilegio. E chi ricco non è, può aspirarvi, come i tanti che vanno sulle banchine di Porto Cervo per guardare i ricchi passare.
Quanto dura quel sogno?
Finisce quando si infrange sulle mancate promesse del turbo-capitalismo, quando si scopre che l'«arricchitevi» non funziona per tutti. Ma sulla crisi di quel sogno si inserisce il secondo Berlusconi, quello della «mors tua vita mea». Il messaggio cambia, diventa il «si salvi chi può», ossia: i tuoi frammenti di ricchezza li puoi salvare se non badi ai mezzi con cui li difendi.
Questo avviene quando nell'economia arriva la fase recessiva?
Certo, una fase in cui aumenta l'incertezza per tutti, e con essa la paura di una parte d'Italia non più sicura della propria ricchezza, che teme di tornare indietro, di tornare sotto la linea del galleggiamento ma non si rassegna a fare uno sforzo collettivo per uscirne. Anzi, il messaggio che Berlusconi interpreta e lancia allo stesso tempo è: individualmente ciascuno ce la può fare, in una lotta crudele per la sopravvivenza. La popolarità del discorso sulle tasse sta in questa logica di sopravvivenza individuale. Sulla scena politica, il «si salvi chi può» porta a qualsiasi mezzo, anche alla guerra ai propri alleati. Sulla scena sociale, mostra una lotta tra atomi predatori che non tollerano più nessun «noi»: qualsiasi processo collettivo viene vissuto come limite alla libertà personale.
In tutte e due le fasi, pensi che l'operazione di Berlusconi sia stata solo quella di «metterci la faccia»? Ha solo assecondato una tendenza?
Dai luoghi del potere, ne è diventato anche un formidabile acceleratore. Come dicevo prima, ha sdoganato un'Italia che prima non si presentava. Ne è diventato banditore e le ha fatto conquistare pezzi di insediamento sociale che prima non le appartenevano: c'è stata un'Italia povera conquistata da questo discorso.
La conquista, iniziata nel Nord, lì è stata mantenuta, come mostra il voto. Come spieghi l'arroccamento del Nord sul berlusconismo?
Perché lì il processo di individualizzazione è andato più avanti, con le trasformazioni della produzione tipiche della modernità, dove convivono residui del fordismo con capitalismi personali e delocalizzazioni. Dove gli «istinti animali» del capitalismo sono entrati nella realtà delle relazioni interpersonali.
Come agirà su questo scenario il cambiamento politico? In altre parole, con la caduta di Berlusconi entra in crisi anche la metà del paese che in lui si rispecchia?
Ormai il cambiamento è avvenuto, e nel profondo. E' una mutazione antropologica e non politica. Il cambio di gestione rende più respirabile l'aria nello spazio pubblico, ma l'autobiografia prosegue, perché la crisi della dimensione del «noi» non riguarda solo i Caimani, ma anche la buona società del centrosinistra e un pezzo del suo ceto politico che ha la tentazione di usare gli stessi codici, fare appello alle stesse pulsioni. Quel che è successo è il sintomo di una società completamente malata: e l'Italia non è nuova a queste malattie, in passato purtroppo le cure e gli anticorpi li ha trovati solo nelle catastrofi. Se vogliamo pensare e sperare in una via d'uscita meno tragica, a una nuova ricostruzione etica, non resta che un lavoro nei territori con un'alternativa di pratica e stile di vita. Uscire dal Grande fratello, per ritrovare un po' di realtà. E sobrietà.
Le metafore sono formule condensate: devo definire x e dico y, perché tra i due esiste una similitudine; lo scenario evocato dal segno metaforico illumina aspetti importanti della cosa da dire. Ad esempio «caimano», a proposito del quasi dominus d´Italia, il cui sorriso zannuto riempie le icone elettorali: è bestia eminente il coccodrillo, infatti Yaweh lo indica al povero Giobbe come capolavoro del creato; ha squame invulnerabili; sputa fuoco; quando solleva la testa dall´acqua, gli angeli piangono. Leviathan configura una potenza infraumana.
Analoghe misure esibisce B.: attraverso l´ipnosi televisiva comanda masse stupefatte; forte dei quarantamila miliardi moltiplicati nei cinque anni al governo, compra tutto quanto sia in vendita, dalle case editrici ai favori giudiziari; s´ingigantisce ripetendo due o tre mosse elementari (agguato, scatto delle mascelle, digestione); la sua forza sta nel non pensare; il pensiero semina dubbi; lui punta diritto alla preda e l´inghiotte. I suoi quadri mentali ignorano l´Altro: siamo bestiame umano; perciò irrompe a testa bassa contro le categorie politiche, morali, estetiche, nella cui sintassi gli animali inciviliti prevengono o regolano i conflitti. Le regole sono prodotti culturali: vuoi chiamare in giudizio Leviathan?; prova, se vi riesci. Così Iddio deride Giobbe.
Davanti agli spettacoli tristi chi ha buoni sentimenti abbassa gli occhi e affretta il passo, notavo una volta, allibito dallo show nell´udienza Sme 17 giugno 2003: l´imputato negatore della giurisdizione tiene banco in barba all´art. 494 c. p. p. dove le «dichiarazioni spontanee» (al riparo da scomodi contraddittori) sono ammesse purché non affoghino il dibattimento: il presidente ammonisce chi esorbita; e se costui persiste, «gli toglie la parola». Furente e vaniloquo, straparla un´intera mattina. L´identico riflesso scatta nel convegno confindustriale vicentino: viene quando gli fa comodo; colloca strategicamente i claqueurs; rifiuta ogni domanda, canta i mirabilia governativi come se l´uditorio non avesse organi percettivi né memoria, inveisce, miete applausi a comando, scatena fischi sui dissidenti, se ne va battendo i piedi. I caimani non sono animali da torneo dialettico. Se l´atto scenico fosse valutato in pura chiave estetica, leggo sgomento, meriterebbe trenta e lode: mettono freddo nella schiena battute simili; a tal punto Leviathan dissesta i sistemi nervosi.
Ho visto il film: quanto giusta fosse la metafora, lo dicono scene dal vero interpolate nella commovente fiaba chapliniana, al parlamento europeo e nell´aula milanese; le altre due incarnazioni lo ingentiliscono iniettandogli barlumi d´umanità, specie l´ultima, d´un B. eversore perdente. Gli artisti dello spegnitoio farfugliano ironie dando a intendere che ormai sia innocuo: non vedete che ha perso gli spiriti animali? Nossignori, è terribilmente pericoloso.
Titolo originale: New Labour must recognise that Berlusconi is the devil – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Non dobbiamo sorprenderci se il New Labour è rimasto invischiato in uno scandalo che riguarda Silvio Berlusconi. C’è qualcosa di perfettamente prevedibile in questo. Tony Blair è stato felicissimo di abbracciare Berlusconi, insieme all’ex primo ministro spagnolo José Maria Aznar, come alleato all’epoca della rottura fra Europa e Stati Uniti nei mesi precedenti all’invasione angloamericana dell’Iraq. Ha visto in Berlusconi un valido alleato nel perseguimento della sua politica estera pro-Bush. In realtà, è stato notevolmente più vicino a Berlusconi che ad esponenti di centro-sinistra come l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Questo senso di affinità ha assunto anche una dimensione personale e familiare, con i coniugi Blair che accettavano l’ospitalità di Berlusconi passando le vacanze insieme al leader italiano nella sua casa estiva.
Blair chiaramente sente di avere un rapporto politico e personale con Berlusconi. E questo ha fissato la linea per il New Labour: Berlusconi è considerato un uomo con cui avere a che fare. Ciò è profondamente inopportuno. Come può, il New Labour, vedere Berlusconi in una luce simile? Come può ignorare e non riflettere sull’influenza maligna che egli ha avuto sulla democrazia italiana? E cosa ci dicono, il silenzio su questi argomenti e il caldo abbraccio al leader italiano, sullo stesso New Labour?
Berlusconi è il più pericoloso fenomeno politico d’Europa. Rappresenta la più seria minaccia lla democrazie dell’Europa occidentale dal 1945. Si potrebbe sostenere che è l’estrema destra rappresentata da figure evidentemente razziste e xenofobe come Jean-Marie Le Pen o Jörg Haider, a porre un pericolo più serio, ma si tratta di personaggi che restano relativamente ai margini della scena politica europea. Non Berlusconi. Durante i suoi due mandati come primo ministro c’è stata una grave erosione della qualità della democrazia italiana, e del tono della vita pubblica.
La democrazia si basa sulla separazione fra il potere politico, quello economico, culturale e giudiziario. La proprietà di Berlusconi dei principali canali televisivi – e il controllo delle reti statali Rai, durante la sua presidenza – insieme alla sua propensione a utilizzare questo potere mediatico per le proprie crude ambizioni politiche, ha minato la democrazia. Inoltre, ha modificato le leggi a proprio piacimento – usando la maggioranza parlamentare – per proteggere interessi personali e salvarsi dai processi.
Il collegamento fra Berlusconi e il fascismo italiano non è difficile da decifrare. C’è sempre stata una prevedibile tendenza ad aspettarsi che il fascismo si ripresentasse nelle vecchie forme; ma questo non è mai stato il pericolo principale. Ciò che dobbiamo temere è il riapparire del fascismo in nuove forme, che riflettono le mutate condizioni globali economiche e culturali dell’epoca, attingendo al tempo stesso dalle tradizioni nazionali. Berlusconi è esattamente una figura di questo tipo. Tratta la democrazia con sufficienza: ad ogni passo tenta di indebolirla, distorcerla, abusarne. Non ha rispetto per i fondamenti indipendenti dell’autorità: accusando i giudici di essere burattini dell’opposizione e descrivendoli come “comunisti”.
Con l’assalto indiscriminato a chiunque si frapponga al suo potere e arricchimento personale, ha avvelenato la vita pubblica italiana. È un discendente diretto di Mussolini. L’incapacità del New Labour di riconoscere questo - peggio, di essergli amici, di considerarlo come alleato, di accettare la sua ricca ospitalità – non possono essere liquidate come distrazioni. Chiamano in causa la visione del mondo e il giudizio politico: del New Labour come del primo ministro.
Tessa Jowell non è politicamente innocente. É membro di spicco del governo. Ha salito gradino per gradino la scala del New Labour per molti anni. È da lungo tempo una sostenitrice di Blair, e gode di un particolare rapporto di fiducia col primo ministro. Ha fiduciosamente condiviso i suoi punti di vista riguardo a Berlusconi come figura politicamente amica con cui il New Labour, e le sue famiglie di punta, potevano avere rapporti di affari. Può aver saputo o meno, dei minimi particolari degli affair finanziari di suo marito, ma sicuramente sapeva che aveva agito per Berlusconi, l’aveva aiutato ad evadere le tasse, l’aveva assistito nei suoi tentativi di resistere alla magistratura. E, senza dubbio, la Jowell non ha visto niente di sbagliato in tutto questo. In fondo, Berlusconi aveva la benedizione del primo ministro: era per così dire “dalla nostra parte”.
Ma Berlusconi è un uomo pericoloso per chi ci rimane invischiato. Agisce negli angoli oscuri della vita politica italiana. Il suo partito, Forza Italia, ha operato instancabilmente per assicurarsi l’eredità dei voti mafiosi dal cadavere della Democrazia Cristiana. I suoi tentacoli finanziari hanno violentato e sfigurato la politica italiana. Considera la legge cosa malleabile, trattabile, corruttibile. Chi va a cena col diavolo deve aspettarsi delle conseguenze. Il problema è che Blair e il New Labour non hanno mai riconosciuto che Berlusconi è il diavolo. Lo vedono invece come un amico e alleato. Non hanno mai riconosciuto, o almeno non ci hanno fatto sufficientemente caso, la minaccia velenosa che pone alla democrazia italiana ed europea.
Questo per due ragioni. Primo, è considerato anima gemella globale di Bush e Blair. Secondo, alcuni dei valori che rappresenta - denaro, celebrità e potere – sono quelli che lo stesso Blair desidera e ammira. Il New Labour condivide alcune caratteristiche con Berlusconi, in particolare una indiscriminata adorazione degli affari e del far soldi, una fede nel potere dei media, un disprezzo per la sinistra. Stiamo assistendo a un lento degrado della democrazia europea, di cui Berlusconi è la più estrema e perniciosa espressione, ma di cui il New Labour, in forma molto più attenuata, è in parte sia causa che conseguenza.
Col processo legale italiano che lentamente si dipana, senza dubbio verranno alla luce nuove rivelazioni. Qualunque cosa David Mills abbia o non abbia fatto, non può essere considerato responsabilità della Jowell, di Blair o del New Labour. Ma il fato che il partito sia stato pronto ad abbracciare un’influenza politica tanto insidiosa senza dubbio ha contribuito a convincere Mills che Berlusconi era un cliente accettabile, e la Jowell che non c’era niente di improprio negli affari di suo marito con un uomo del genere, e nel giocarci un ruolo tanto interno. Per questo, il primo ministro deve prendersi la responsabilità principale. Come nel caso dell’Iraq, Blair è responsabile di un errore politico monumentale. Quello che è in gioco, non è niente di meno che la salute democratica di uno dei più grandi paesi d’Europa, e di conseguenza la salute dell’Europa intera.
L'esilio di Umberto Eco non piace né a Massimo D'Alema né a Piero Fassino. I due esponenti ds non hanno gradito la provocazione lanciata dallo scrittore qualche giorno fa, dal palco di un convegno organizzato a Milano dall'associazione «Libertà è Giustizia»: «Se dovesse vincere Silvio Berlusconi e tornassimo in un regime come quello degli ultimi cinque anni, io sarei pronto ad andarmene in esilio».
Col suo grido di dolore, d'altronde, Eco è l'ultimo di una schiera di intellettuali e politici che, già prima di lui, hanno minacciato l'esilio per motivi diversi: Tabucchi, Forattini, Consolo, Pannella, Battiato, Sgarbi... Ma al presidente e al segretario ds stavolta la frase pronunciata da Umberto Eco ha dato fastidio. D'Alema, giovedì sera, in un convegno a Torino ha bacchettato indirettamente lo scrittore: «Non mi piace chi dice che se vince Berlusconi se ne va in esilio perché c'è un regime.
Credo che si debba stare tutti qui a combattere. A parte che non tutti si possono permettere un esilio...». E ieri Fassino, intervenendo a Radio Anche Noi (trasmissione in onda sulle emittenti del gruppo Area) è tornato sul tema: «Quale che sia l'esito delle elezioni, nessuno deve pensare che andrà in esilio, né chi voterà per il centrosinistra né chi voterà per il centrodestra. L'Italia è un grande Paese, capace proprio per la sensibilità democratica dei suoi cittadini di vivere democraticamente quale che sia l'esito delle elezioni». Ma perché D'Alema e Fassino bocciano la minaccia d'esilio di Eco? «Perché i nostri politici sono a prova di bomba — commenta ironico Alberto Asor Rosa —. Sarebbero in grado di mantenere la calma anche se il Paese dovesse cadere nelle mani di un popolo di extraterrestri particolarmente feroce, che stupri bambini e donne... Loro sono corazzati contro ogni evenienza, l'indignazione morale non li sfiora più. Se uno dice che il regime berlusconiano non è democratico, si incavolano perché le ritengono affermazioni avventate. Sono spaventati dalla loro ombra, hanno paura di apparire troppo diversi da Berlusconi». In esilio, però, lo storico non ci andrebbe: «Non ho casa fuori. Credo che quello di Eco sia un ragionamento estremo che non tutti gli italiani sarebbero in grado di fare... Preferisco Borrelli: resistere, resistere, resistere».
Non capisce la reazione di D'Alema e Fassino neppure la scrittrice Lidia Ravera, vicina alla sinistra radicale: «Non si può dare dell'intollerante a una persona che si lamenta di questo centrodestra. Non si può pensare che i cittadini non soffrano. Forse nel gioco astratto della politica si sanguina meno, ma noi invece sanguiniamo. Abbiamo sofferto.
Quello che dice Eco è una mozione di fiducia verso il centrosinistra, e francamente non capisco la reazione di Fassino e D'Alema: dovrebbero sentire la responsabilità di non deludere chi li ha votati e li rivoterà. E per quanto mi riguarda capisco Eco, ma sono contraria all'esilio: anche se vince Berlusconi, conto di continuare a essere fastidiosa. Sono una ragazza combattiva».
Difende invece la posizione assunta dai due leader il deputato ds Peppino Caldarola: «Che significano queste dichiarazioni stizzite di esilio? Capisco lo stato d'animo, ma non comprendo l'andar via. E poi, forse, ragiono da antico militante politico: se si perde si resta. Tanto più se si è dirigenti di partito. Difficile immaginarsi un politico che in caso di sconfitta lasci il Paese. Fassino e D'Alema potevano rispondere solo così: hanno delle responsabilità politiche, loro».
A sorpresa, anche il regista Marco Bellocchio, candidato con la Rosa nel Pugno, sostiene le tesi dei due esponenti ds: «Penso anch'io che quella di Eco sia un'esagerazione. La puoi fare se sei un multimiliardario… Però io dove vado? Lui ha casa a New York, a Parigi, ma gli italiani medi dove scappano? E poi così si attribuisce a Berlusconi un'onnipotenza che non dovrebbe avere. Condivido dunque l'incazzatura dei due leader della Quercia: bisognerebbe resistere. Non ha alcun senso mollare».
Il filosofo Gianni Vattimo, invece, è sulla stessa linea di Umberto Eco. Anzi, annuncia a sorpresa: «Non più tardi del 20 gennaio scorso, trovandomi a Madrid per una laurea ad honorem, ho dichiarato a El País che chiederò la cittadinanza spagnola, viste le condizioni dell'Italia. Non lo chiamerei esilio, ma certo l'atmosfera che si minaccia di respirare qui da noi sarà ancora peggio. Anche se non vince Berlusconi: si scatenerà il partito democratico, a cui bisognerebbe aggiungere fin d'ora l'aggettivo "cristiano". Per quanto riguarda poi Fassino e D'Alema, la verità è che i leader ds sono diventati superconservatori: hanno sempre ostacolato l'idea di regime legata a Berlusconi. Mi ricordo ancora quando alcuni di noi andavamo in giro per il mondo a denunciarlo e loro a ribattere che dicevamo sciocchezze, demonizzandoci».
E con Umberto Eco si schiera anche la presidente di «Libertà è Giustizia», Sandra Bonsanti: «La sua era una battuta, legata al giudizio negativo di questi cinque anni. Capisco, ma non condivido, Fassino e D'Alema: loro fanno un discorso più politico, hanno delle responsabilità. Ma la paura di un altro "regime Berlusconi" c'è, e Umberto si rivolgeva soprattutto ai delusi che potrebbero non votare. Tutto qui».
Neanch’io parlerei di esilio. Ma certo, se vincesse di nuovo Berlusconi, bisognerebbe constatare:
- che il Belpaese verrebbe ulteriormente distrutto, il disagio sociale crescerebbe, il costo della vita aumenterebbe, tutela della salute e formazione peggiorerebbero,
- che le teste e le coscienze degli italiani verrebbero ulteriormente imbarbariti da media sempre più mercificanti;
- che oltre la metà dei nostri concittadini sono soddisfatti o rassegnati da ciò che Berlusconi rappresenta ed esprime.
Credo che la tentazione di andare a vivere altrove sarebbe comune a molti, anche se non tutti potrebbero cederle.
Se invece vincesse Prodi bisognerebbe non solo rimanere, ma combattere: si aprirebbe infatti (speriamo!) una fase molto dura, e finalmente civile, di lotta contro il berlusconismo, la cui scomparsa certo non seguirebbe automaticamente alla sconfitta del personaggio da cui il vigente “pensiero unico” prende il nome.
La procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per Silvio Berlusconi per aver indotto (con 600mila dollari) l'avvocato Mills, marito di un ministro di Blair, a testimoniare il falso in due processi milanesi. Il ministro della salute Francesco Storace si è dimesso ieri (ci sono già parecchi arresti) per aver organizzato spionaggio e sabotaggio elettorale ai danni di Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini in rapporto alle ultime elezioni regionali. Questi i fatti, noti e stranoti. Gli strilli degli illustri imputati sono egualmente noti e scontati. Proviamo ad avanzare qualche considerazione sempliciotta. Silvio Berlusconi non è schizofrenico, è una persona capace che si è fatta negli affari e poi (pare per salvarsi) è entrato in politica continuando a comportarsi come negli affari, con tutti i maneggi che negli affari servono. Quindi nessuna sorpresa o scandalo, l'uomo è fatto così, è sempre lo stesso ma essendo entrato pesantemente in politica, i magistrati stanno più attenti.
Analogo, anche se diverso il caso Storace: viene dallo squadrismo e non ha perso la passione per le operazioni speciali, come organizzare spionaggio d'assalto anche ai danni della nipotina del Duce. Che poi i due, Alessandra e Francesco si trovino nello stesso schieramento elettorale dice qualcosa su entrambi. Va aggiunto che quasi certamente Storace è stato indotto alle dimissioni da Fini e Berlusconi, preoccupati di tenersi un ministro cosiffatto a poche settimane dal voto.
Terza considerazione: il fronte della Casa delle libertà raccoglie quel che ha seminato, ma non ha più la forza di zittire chi dice che il re è nudo e piuttosto brutto. Capita così anche ai grandi banditi: fino a quando hanno successo sono bravi, coraggiosi e innovativi, appena gli va male sono coperti di insulti. Il cane morde chi è vestito di stracci recita un proverbio siciliano.
Insomma, perché non ricordiamo lo scenario delle elezioni politiche del 2001 quando D'Amato era presidente di una Confindustria appassionatamente berlusconiana? Se ora ha cambiato non è per ragioni ideali, ma materiali: la politica economica di Berlusconi non li ha fatti guadagnare quanto desiderato, e così anche parte di sindacati. Allora c'era una benevola attenzione di Cisl e Uil, oggi non più.
E ancora, Berlusconi con il suo slogan «arricchitevi come ho fatto io» riuscì a catturare anche l'attenzione e la benevolenza dei tassisti. Oggi nei taxi la musica è diversa. Se quelli che lo avevano sostenuto non lo fanno più una ragione c'è e Berlusconi dovrebbe rendersene conto, come - anche questo è sintomatico - se ne rendono conto i suoi alleati ex fascisti ed ex democristiani, per i quali, non a caso, Paolo Mieli ha avuto un occhio di riguardo.
Per ultimo c'è una quarta considerazione che si compendia nel detto latino «motus in fine velocior»: ogni movimento nel suo concludersi diventa più veloce. Un grave in caduta acquista il massimo di velocità quando sta per sbattere per terra. Il caso Mills, il caso Storace e certo altri ne verranno dicono che la velocità di caduta di Berlusconi sta raggiungendo il massimo.
Dal nuovo libro di Marc Lazar, L’Italie à la dérive. Le moment Berlusconi , in uscita il 23 marzo in Francia nelle edizioni Perrin, anticipiamo parte d’un capitolo.
Il «periodo Berlusconi» conferma le attuali metamorfosi che la democrazia italiana vive all’epoca della globalizzazione, della crisi degli Stati-nazione e delle difficoltà dell’integrazione europea. I mezzi di comunicazione rendono le relazioni tra i leader e le opinioni pubbliche più immediate e tempestive. La capacità di sedurre e la semplificazione dei discorsi avvantaggiano i leader più abili a comunicare, e di conseguenza costoro conoscono ascese folgoranti, ma vanno incontro altresì alla possibilità di subire rapidi tracolli perché sono sovraesposti. La propensione a ricorrere a modalità dirette di espressione in politica può favorire, per esempio, il successo di Silvio Berlusconi presso alcuni elettori, e al contempo presso altre categorie l’inizio di mobilitazioni contrarie a lui, di movimenti che esigono un maggiore controllo dei poteri e che vogliono prendere attivamente parte alla vita pubblica.
Il potere giudiziario afferma sempre più spesso la propria indipendenza in rapporto al potere politico, e questo fenomeno è sfociato in molteplici conflitti tra le due istituzioni, infiammatisi ancor più con Berlusconi. Il controllo della costituzionalità si accentua, e questo provoca una sorta di «giuridizzazione» dei rapporti politici e sociali. Infine, Europa significa dover rinunciare a qualche particella di sovranità in ambito monetario, economico, giurisdizionale, e persino in ambito politico e sociale, rinunce oggi percepite molto meno bene dagli italiani rispetto al passato perché non si concretizzano automaticamente in un miglioramento tangibile nella quotidianità e perché le scelte italiane non sempre sono state ben giustificate davanti all’opinione pubblica dai governi di Berlusconi. Nello stesso modo di quanto avviene presso altri membri dell’Unione Europea, il quadro tradizionale dello Stato nazione si spacca, senza che ne nasca automaticamente uno Stato europeo: questa fase di transizione alimenta l’incertezza, le esitazioni, i dubbi e le critiche, in Italia come altrove.
L’analisi di questi sviluppi richiede ovviamente di tener conto delle nuance: i partiti politici non sono scomparsi del tutto e costituiscono apparati sempre più importanti. I mezzi di informazione e di comunicazione non sono poi così influenti come assicurano coloro che si sentono delusi da Silvio Berlusconi. I giudici sono sicuramente più influenti, ma gli uomini politici mantengono il controllo della situazione. I movimenti nati dal basso, dalla società, si moltiplicano e ormai hanno un loro peso sulle decisioni pubbliche, ma incontrano enormi difficoltà a istituzionalizzarsi. L’Europa continua a lasciare un ampio margine di manovra in numerosi settori di cruciale importanza per l’Italia come per qualsiasi altro Stato-membro.
Volendo ricorrere ad un’altra definizione, la democrazia italiana come le altre democrazie europee occidentali, vive un’incerta mutazione. Essa non corrisponde più esattamente ai criteri della democrazia rappresentativa, ma non è ancora diventata la democrazia dell’opinione pubblica. Da questo punto di vista uno dei paradossi del periodo Berlusconi che colpiscono maggiormente ha appunto a che vedere col fatto che, per reazione a quest’ultimo, ha effettivamente visto la luce in Italia con un bel distacco rispetto ai vicini europei una nuova forma di rapporto con la politica: lo comprovano l’importanza delle associazioni, la vitalità dei movimenti dei cittadini, ma altresì il tentativo dei partiti, per lo meno quelli del centro-sinistra, di gettare nuovi ponti verso alcune componenti della società civile.
Il periodo Berlusconi è altresì emblematico dell’incerta fase nella quale è precipitata la società italiana. Essa da un lato è travagliata da un movimento di individualizzazione che fa saltare in aria le ultime coesioni delle classi sociali e incrinare ancora di più i fondamenti di un senso civico storicamente debole; dall’altro essa è in ugual modo resa fragile dalle forze di disgregazione che valorizzano, con la Lega Nord, gli interessi della parte settentrionale del Paese a discapito del Sud, o con questo o quell’altro gruppo di interesse, le rivendicazioni di uno strato sociale preciso, a detrimento del bene comune.
Eppure, per un altro verso ancora, questa stessa società italiana è continuamente alla ricerca di solidarietà. Le solidarietà di vecchia data rimangono vive grazie alla "sociabilità primaria" della famiglia o a quella più istituzionale dei sindacati, potenti ma in via di invecchiamento e comunque sempre più confinati nel settore pubblico. Nuove solidarietà si vanno affermando con l’invenzione di forme inedite di aggregazione e di coesione, che si realizzano per alcuni dei suoi componenti intorno alle imprese, nell’ambito locale o regionale, o che si formano nei «centri sociali» che costituiscono una sorta di società parallela e alternativa, o che ancora si manifestano nell’ambito della grande panoplia di movimenti civili di lotta alla mafia, di denuncia della «dittatura» di Berlusconi, di resistenza all’arrivo nelle valli alpine della Tav che collegherà Lione e Torino, di opposizione alla costruzione di un ponte nello Stretto di Messina e così via. È molto significativo il fatto che gli italiani accettano sempre più apertamente l’economia di mercato, e al contempo esprimono un forte attaccamento all’esistenza di uno Stato sociale modernizzato, attaccamento che trascende la spaccatura destra-sinistra. Pertanto, l’italiano è individualista, ma non è mai solo.
Il periodo Berlusconi riflette dunque molto bene la deriva dell’Italia, nel senso che sia il suo presente sia il suo avvenire sono pieni di indecisione e del tutto imprevedibili.
Codesta incertezza è quanto mai aggravata dal cumulo di cattivi indici economici e demografici, e dall’ampliarsi delle disparità sociali che affliggono la costellazione largamente maggioritaria delle classi medie. La forte diffidenza dei cittadini nei confronti della maggior parte delle loro istituzioni e dei loro dirigenti politici alimenta anch’essa il dubbio e lo scetticismo che si respirano.
Tutto ciò significa forse che l’Italia è inesorabilmente condannata a mettere il piede in fallo e addirittura a cadere?
La storia dimostra che ogni volta che questo Paese si è ritrovato in ginocchio, a terra, poi ha saputo rialzarsi in modo spettacolare. Così è avvenuto - volendo limitarsi alla sola seconda metà del ventesimo secolo - all’indomani della seconda guerra mondiale, o negli anni Sessanta-Settanta, all’epoca dell’ondata di contestazione cui fece seguito l’offensiva del terrorismo rosso e nero. Le sue capacità di riprendersi completamente sono dovute al senso di responsabilità di cui danno prova - checché se ne dica - numerosi tra coloro che prendono le decisioni e alla vitalità della sua stessa società, abituata a non fare completamente a meno dello Stato e dei politici, ma a trovare insieme ad essi accomodamenti, soluzioni e appoggi utili a mettere a punto una forma di controllo. Andrà dunque a finire così, in questo inizio di nuovo millennio? A suo favore, l’Italia dispone di considerevoli riserve di intelligenza, di talento e di inventiva nella società transalpina come in una parte della cerchia dei suoi dirigenti, malgrado l’esecrazione di cui sono oggetto questi ultimi.
In realtà, la salvezza non arriverà soltanto dalla società civile, come sostiene una vulgata molto diffusa in Italia e all’estero. La capacità di sapersi trarre d’impaccio, il dinamismo, l’ingegnosità non basteranno per raccogliere le sfide economiche, scientifiche e tecnologiche della nostra epoca e farvi fronte. Occorreranno altresì - e molto più che in passato - la volontà politica e insieme ad essa politiche pubbliche efficaci, in grado di garantire una convivenza.
Questo presuppone che le élite italiane sappiano dare nuove fondamenta alla propria legittimità e che la crisi della rappresentanza politica si risolva. Queste sono due delle sfide che periodicamente segnano e orientano la traiettoria di questo paese. Il Sisifo dei tempi moderni è senza alcun dubbio italiano.
(Traduzione di Anna Bissanti)
Chi governa, si sa, non ama le critiche. C'è qualcuno però che per metterle a tacere pensa che sia lecito negare ogni addebito e in sostanza mentire: il ministro della Giustizia Castelli appartiene a questa non eletta schiera. Era poco più di due mesi fa, infatti, il 29 dicembre dell'anno scorso, quando, in risposta a un mio editoriale critico delle condizioni delle carceri italiane, egli scriveva a questo giornale una piccatissima lettera di risposta (lunga almeno il doppio, secondo un tipico costume nazionale), nella quale, oltre a sostenere il carattere malizioso e del tutto infondato delle critiche suddette, frutto naturalmente della più colpevole disinformazione, assicurava che sotto la sua guida l'amministrazione carceraria non aveva fatto che migliorare. «Smettiamola - concludeva l'indignato Castelli - di accreditare i nostri penitenziari come un inferno, smettiamola di eccitare irresponsabilmente l'animo dei detenuti». Peccato che a dispetto di tanto nobili intenzioni sia proprio il ritratto di un inferno quello che invece emerge dai dati resi noti in un convegno organizzato l'altro giorno proprio dal Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero cui sovrintende l'onorevole Castelli. Nelle carceri italiane sono ospitati oltre 15 mila detenuti in soprannumero (un sovraffollamento mai registrato nell'ultimo decennio), il 27 per cento di essi è tossicodipendente, il 20 per cento è affetto da patologie del sistema nervoso e da disturbi mentali; dal canto suo oltre il 20 per cento delle duemila e 800 detenute soffre di patologie tipicamente femminili come tumore dell'utero, della mammella, ecc. A fronte di questi dati c'è quello stupefacente della diminuzione della spesa sanitaria per ogni cittadino detenuto, passata da poco più di 1.800 euro di dieci anni fa agli attuali 1.607 (cifra che è sì un po’ superiore a quella destinata a ogni cittadino libero, ma che quindici anni fa lo era nella misura di più del doppio).
Ma non è solo questione di condizioni sanitarie o di sovraffollamento. Per esempio è drasticamente diminuito rispetto all'anno passato il numero dei detenuti iscritti a corsi professionali; di mille unità circa è diminuito il numero di quelli che hanno la possibilità di lavorare, mentre oltre il 63 per cento della popolazione carceraria italiana è tuttora costretta, all'inizio del XXI secolo, a lavarsi con l'acqua gelida. Come stupirsi se continua a contarsi ancora a decine il numero dei suicidi nelle prigioni della penisola?
Naturalmente questa situazione era la medesima anche due mesi fa, quando il ministro Castelli, che pure non poteva non esserne a conoscenza, scriveva al che nel suo dicastero, per carità, tutto andava per il meglio o quasi. Non solo, ma arrivava a dipingersi come la povera vittima della solita stampa superficiale e calunniatrice. Proprio in questo tentativo di nascondere la gravità di grandi questioni nazionali (nessuno è così sciocco da credere che il disastro delle carceri italiane sia cominciato con il governo Berlusconi), proprio in questa costante tendenza ad abbellire la realtà con le chiacchiere prendendosela con chi non sta al gioco, proprio qui, forse, sta la maggiore manifestazione del dilettantismo della classe politica e di governo che il centrodestra ha messo in campo. Dilettantismo di chi si ostina a pensare alla cosa pubblica come a una sorta di palcoscenico dove ciò che conta non è la serietà, magari anche sgradevole, dei comportamenti e dei provvedimenti, ma il «fare bella figura», e di chi, come l'onorevole Castelli, non si è ancora accorto, alla sua età, che le bugie hanno invariabilmente le gambe corte.
«Siamo a qualcosa di peggio». Lo dice Tina Anselmi l’indimenticata e coraggiosa presidente della Commissione P2, in un’intervista all’Espresso del 23 febbraio. L’intervistatrice Chiara Valentini ricorda all’Anselmi la durezza del suo esordio politico, ai tempi del «duello all’ultimo sangue tra Togliatti e De Gasperi». E prontamente l’ottuagenaria ma non domata signora risponde: «Adesso siamo a qualcosa di peggio. Oggi c’è chi rifiuta le modalità della democrazia». Dice: «Quando presiedevo la Commissione della P2 ho avuto pressioni, minacce, denunce, sette chili di tritolo davanti casa, era una vita impossibile, ma Papa Wojtyla, mi ha detto battendomi una mano sulla spalla: “Forza, forza”. Nell’elenco di Gelli c’era una buona parte di quelli che contavano, uno spaccato tremendo del Paese. Ma ben più grave è che molti uomini della P2 siano passati indenni da quegli anni. Basti ricordare l'attuale presidente Berlusconi, tessera P2 1816. E il suo aiutante, Fabrizio Cicchitto, tessera P2 2232».
Se in tempo di quote rosa si ammettesse che, oltre ai “padri”, ci sono anche le “madri della Patria”, quel titolo spetterebbe certo alla cattolica democratica Tina Anselmi. Per il coraggio che ha avuto, e per il coraggio che ha. Perché anche adesso il semplice menzionare un nome e una tessera P2 porta, come conseguenza immediata, di essere definiti «giornalisti criminali» e «testata omicida», con accuse di contiguità al terrorismo politico o al terrorismo islamico.
Eppure le due tessere P2 sopracitate corrispondono, nell’ordine, a colui che si proclama l’uomo nuovo destinato da Dio a cambiare il Paese (lo ha cambiato, purtroppo, e anche senza essere credenti c’è da dubitare che Dio sia coinvolto con lui, con Dell’Utri e con Previti in questo umiliante cambiamento). E al portavoce del premier che appariva ogni giorno nei telegiornali di Stato per redarguire la sinistra sulla scarsità di senso morale, al tempo in cui andavano quotidianamente in onda notizie false sulle scalate Ds alle banche.
I n quel tempo il buon avvocato Mills, destinatario di un anticipo di seicentomila dollari misteriosamente giuntogli dall’Italia, non aveva ancora parlato, non aveva ancora indicato il mittente della sua fortuna.
Se vi fermate un momento a riflettere, notate questo: tutti gli uomini del presidente (in particolare gli intimi) sono identificati o da una tessera P2 o da grandi somme di denaro, distribuite, assegnate o transitate per una ragione o per l’altra.
Per questo Tina Anselmi dice, dopo aver ricordato i suoi tempi terribili, «adesso siamo a qualcosa di peggio».
Ma mettetevi nei panni di un normale lettore o lettrice dell’intervista Valentini-Anselmi. Molti constateranno di non avere mai sentito, da quando esiste questo governo, un simile discorso alla radio o alla televisione italiana. Infatti la campana di vetro che isola l’Italia da ciò che realmente accade, attraverso il controllo ferreo delle notizie (Tg e talk show, le altre fonti dissuase o intimidite, se necessario, con pesanti denigrazioni o minacce) produce la percezione di una realtà alterata in cui chi si ostina a dire le cose così come sono, appare un persecutore e anche un testardo.
Infatti la realtà offerta dai Tg è completamente diversa. Al punto che il presidente del Parlamento Europeo Josep Borrell che vede gli eventi senza il filtro malato della Tv italiana, si è accorto subito delle dichiarazioni para-naziste di Romagnoli (uno dei nuovi alleati fascisti di Berlusconi, secondo i patti siglati a Palazzo Grazioli, sede privata del Governo) e del suo disprezzo della Shoah, ha subito dichiarato la sua incredula indignazione.
Molti italiani sarebbero stati colti di sorpresa da quella dichiarazione, se il presidente Ciampi, lo stesso giorno, di sua iniziativa, non si fosse recato alla Sinagoga di Roma per dire: «Un uomo della mia generazione non dimenticherà mai il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma, non dimenticherà mai la Shoah».
Ora non crediate che Carlo Azeglio Ciampi si sia trovato a passare per caso sul Lungotevere, e abbia pensato di passare a fare una visita al suo amico livornese Elio Toaff.
Una ragione c’era, anche se manca nelle notizie italiane: arrivano i fascisti, e fanno campagna elettorale, per la prima volta nella storia democratica italiana, con un leader che viene dalla P2 e che va in giro spacciandosi per “liberale” (come scrivono benevolmente di lui sui muri di “Porta a Porta”).
Ci sono anche collaborazionisti (più o meno consapevoli) della destra che si fanno trovare a bruciare bandiere di Israele (un Paese la cui distruzione viene continuamente invocata) in coda al corteo di un partito che figura nella coalizione guidata da Romano Prodi.
Prodi ha messo subito per iscritto, in una lettera a Giorgio Gomel e al gruppo Martin Buber, la sua recisa e incondizionata condanna per quella umiliante e incivile iniziativa. Si può capire l’imbarazzo di Berlusconi. Berlusconi non potrebbe scrivere quella lettera. Ha preso ben altri impegni con certi fascisti che, ancora adesso, si collegano direttamente alla Repubblica di Salò, e dunque anche alle leggi razziali.
Ma qualche altro “liberale” della sua parte (o qualche cattolico fervente, come Casini) avrebbe potuto dedicare un minuto di attenzione alle squadre fasciste che si sono adunate a Palazzo Grazioli per fare il “saluto ad Arcore” e comunicare, almeno, un po’ di disaccordo. Invece continuano a parlare di Vladimir Luxuria, come se essere transessuale fosse un reato. Lo sarà, forse, se dovesse vincere, con i suoi fascisti a bordo, accanto a Casini e a Pera, la Casa delle Libertà.
C’è un film dvd di Enrico Deaglio che sarà distribuito con il settimanale «il Diario» il primo marzo, e poi nelle librerie Feltrinelli. Contiene un documento che è importante vedere. È l’intera sequenza della seduta del Parlamento Europeo che ascolta Berlusconi nel giorno infausto in cui si è insediato alla guida del semestre italiano.
Di quell’evento è restato un senso di profondo imbarazzo in Italia, perché a nessuno piace mostrare in pubblico di aver meritato un simile primo ministro. Ma il nostro imbarazzo era motivato da brevissimi flash di telegiornale così cautamente contenuti che il Tg 1, per esempio, aveva soppresso la voce dei protagonisti e l'aveva sostituita con la narrazione fuori campo, durata comunque pochi secondi.
Che cosa è realmente accaduto? Lo vedrete nel dvd che mostra l’intera vicenda. È accaduto che il capo del governo italiano ha dato del nazista («Kapò») al deputato tedesco Martin Schultz, capogruppo dei socialisti in quel parlamento. La ragione della scenata di Berlusconi è familiare agli italiani. Schultz si era permesso di fare delle critiche e di alludere al gigantesco conflitto di interessi di Berlusconi che, fuori dall’Italia, continua a provocare meraviglia, disagio e anche disprezzo a causa dell’evidente illegalità. Di fronte a quelle critiche - durate in tutto un paio di minuti e contenute nel più tradizionale linguaggio parlamentare - Berlusconi ha perso la testa ed è passato all’insulto violento, con parole volgari e gridate. L’evento è servito molto ai parlamentari europei. Hanno colto al volo l’incapacità di governare di Berlusconi, che infatti ha prodotto, nel semestre italiano, soltanto circostanze penose, negative o ridicole.
Ma hanno visto anche - dietro la finzione dell’eterno sorriso da venditore - una genuina cattiveria, una vera e non controllabile voglia di vendetta (che del resto questo giornale conosce bene, se pensate alle accuse costantemente sollevate contro chi non ha mai accettato di considerare Berlusconi un normale avversario e si è sentito costretto a insistere sul pericolo per la democrazia che il conflitto di interessi provoca con la sua infezione e la sua estraneità alla legalità).
Ma è necessario vedere il film di Deaglio perché nessuno di noi, in Italia, ha mai visto l’intera, umiliante sequenza, ha mai ascoltato i boati di indignazione dei parlamentari europei, ha mai visto la faccia esterrefatta di Prodi che ascolta, ha mai potuto sostare sui primi piani del presidente Cox, che appariva offeso e desolato, ha mai potuto ascoltare le sue parole. Vedendo il film apprenderete ciò che la Tv italiana ci ha negato, negando una pagina rilevante del giornalismo contemporaneo.
I parlamentari europei insorgono. Quando Parla Schultz lo applaudono in piedi per più di un minuto. Quando parla Berlusconi gridano e protestano, non per impedirgli di parlare, ma per le cose incredibili che ascoltano. Ascoltano sarcasmo, maleducazione, offesa e rifiuto di scusarsi. Invano il presidente Cox, che notoriamente non è di sinistra, ha offerto a Berlusconi una seconda occasione di prendere la parola. Il premier ha ripetuto e deliberatamente peggiorato le cose che aveva già detto. La reazione del Parlamento è stata di aperto rigetto. Niente di tutto ciò era stato visto in Italia, dove anche coloro che avevano giudicato severamente l’evento erano stati lasciati con l’impressione di un momento sbagliato o difficile in un incontro altrimenti normale. La verità è che si è trattato di un disastro di immagine gravissimo, irrimediabile. E solo un uomo prepotente e ricco è in condizione di bloccare l’informazione nel suo Paese, una informazione tanto importante su un fatto così clamoroso. Attraverso la pesante intimidazione, oppure l’amicizia conveniente, oppure la paura preventiva è stato reso possibile il quasi silenzio.
Ho ripensato a questa sequenza proibita quando all’improvviso, nel corso di una puntata di «Otto e mezzo» il senatore Debenedetti ha detto a Berlusconi, che era accanto a lui in trasmissione: «Lei ha spaccato l’Italia».
La frase semplice e inequivocabile ha provocato un effetto dirompente. Il presidente-padrone è abituato alle lodi di corte o alla prudenza di chi conosce il suo istinto vendicativo. E, purtroppo, al silenzio dei giornalisti. In quel caso lo ha bloccato lo stupore. E, solo dopo, il furore. Ma questo, almeno, in Italia si è visto anche se Berlusconi non è sembrato in vena di perdonare la sorpresa. Berlusconi sa che, a causa del conflitto di interessi, è in grado di interferire in qualunque campo o attività imprenditoriale. Parlo delle imprese che controllano i giornali. Questo fatto, che è fuorilegge, spaventa e zittisce molti fra coloro che dovrebbero raccontare, interrogare, sollevare obiezioni.
Nei libri di storia italiani si ricorderà che la potente macchina illegale messa in funzione da Berlusconi e dai suoi associati - scelti a uno a uno dal condannato in primo grado Marcello Dell’Utri anche per le prossime elezioni - non ha potuto funzionare sui magistrati. «Delira», hanno detto di lui venerdì senza esitare i Giudici dell’Associazione Nazionale Magistrati, quando Berlusconi è tornato a dichiararsi vittima di persecuzione delle toghe rosse.
Parlando a Perugia, alla folla fatta pervenire sul posto per le riprese televisive, Berlusconi aveva appena assicurato i suoi: «Non me ne andrò finché non sarò riuscito a cambiare la magistratura». Vuol dire: metterli a tacere. I suoi elettori che - avrete notato - lo applaudono in continuazione ma, perfino loro si fermano stupiti e in silenzio quando lui ha il coraggio di dire: «Ho mantenuto tutti i punti del mio contratto», sanno che quella di far tacere i Magistrati è l’unica promessa che Berlusconi, se rieletto, si impegnerà davvero a mantenere.
Ciò rende ancora più urgente il voto di tutti i cittadini democratici, in qualunque parte si riconoscano, per chiudere l’epoca della illegalità e per informare i parlamentari e governi europei che l’Italia è tornata, che il Paese è uscito da una tremenda condizione di rischio. Come dice Tina Anselmi, «peggio della P2».
Si discute molto, nel centrosinistra, se Romano Prodi debba o no concedere a Silvio Berlusconi un confronto in diretta tv. Il buonsenso fa propendere per il no, perché al candidato che è in testa nei sondaggi non conviene esporsi al rischio di dilapidare il vantaggio in una serata storta. Nel 2001 il Cavaliere si rifiutò, accortamente, di incontrare Francesco Rutelli; in Francia, nel 2002, Jacques Chirac negò a Jean Marie Le Pen qualsiasi dibattito, e lo stesso ha fatto l’anno scorso in Gran Bretagna Tony Blair con gli sfidanti conservatore e liberaldemocratico. Quale che sia il suo orientamento in materia, però, il Professore sarebbe davvero matto se accettasse un duello in tv alle condizioni finora fissate dalla Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. E non soltanto per l’ignobile decisione di lasciare a Berlusconi l’ultima parola, con una conferenza stampa tutta per lui subito prima del voto del 9 aprile. Ciò che è in linea di principio totalmente inaccettabile, infatti, è che le regole dell’eventuale faccia-a-faccia vengano stabilite da organismi nei quali uno dei due contendenti, cioè Berlusconi, ha la maggioranza. È assurdo che siano la Vigilanza o il consiglio d’amministrazione della Rai, entrambi controllati dalla Casa delle libertà, a dettare legge; o, peggio, Raiuno, il cui direttore Fabrizio Del Noce è un ex deputato di Forza Italia. Se un duello ha da esserci, il regolamento non può scaturire che da una trattativa diretta fra le due parti in causa. Esattamente come è avvenuto nel 2004 negli Stati Uniti, dove George W. Bush e John F. Kerry hanno concordato tutto fra di loro senza sottostare al diktat di alcuna autorità esterna. All’esperienza americana pensa Prodi, probabilmente, quando allude sornione alla necessità di «un po’ di regolette». L’accordo fra Bush e Kerry, raggiunto dopo mesi di discussioni, disciplinava i tre faccia-a-faccia fin nei minimi dettagli. Nessuno era in grado di giocare scherzi da prete all’altro. Tutto veniva specificato nero su bianco: le caratteristiche dei conduttori e gli obblighi dei registi, i temi di ciascun dibattito e i doveri del pubblico negli studi. In Italia, visti il dominio di Berlusconi sulle tv e la sua inclinazione alla prepotenza, il duello esigerebbe regole ancora più stringenti. Fra le garanzie all’americana, però, ce ne sono almeno due che Prodi dovrebbe considerare assolutamente irrinunciabili. Una è il limite massimo di due minuti per ogni intervento dei candidati, senza il quale il premier uscente, volutamente logorroico, requisirebbe per sé gran parte del tempo a disposizione. L’altra clausola di rigore è la facoltà di opporre a ogni dichiarazione dell’avversario una replica di 30 secondi: se Berlusconi dicesse che i comunisti mangiano i bambini, con la perentorietà demagogica che gli è propria, Prodi avrebbe almeno la possibilità di ribattere che è una fesseria. Quanto ai conduttori, è ovvio che essi debbano apparire imparziali: non possono essere notoriamente vicini a uno dei duellanti più che all’altro. Che senso ha, dunque, fare il nome di Bruno Vespa? Costui è un professionista capace; ma non c’è dubbio che per vari aspetti, a prescindere dalle sue opinioni politiche, sembri gravitare nell’orbita di Berlusconi. Che riscuota emolumenti dal gruppo Fininvest è un fatto, sia come collaboratore fisso di "Panorama" sia come autore della Mondadori che gli pubblica un libro all’anno. L’ultima volta che ha ospitato il Cavaliere a "Porta a porta", il 31 gennaio, gli ha messo di fronte due giornalisti amici, Augusto Minzolini che ha anche lui una rubrica sul settimanale di Segrate e Maria Latella che è la biografa super-autorizzata di Veronica Lario. Un caso? Si aggiunga che la moglie di Vespa, il gip Augusta Iannini, ha ottenuto dal governo Berlusconi l’importante poltrona di direttore degli Affari penali al ministero della Giustizia; e i suoi rapporti con l’entourage berlusconiano sono tali che anni fa non se la sentì, correttamente, di esaminare lei due richieste di arresto avanzate dalla Procura di Roma per Gianni Letta e Adriano Galliani. Come arbitro dell’ipotetica sfida Berlusconi-Prodi, insomma, Vespa si esporrebbe fatalmente a qualche sospetto di sudditanza psicologica verso uno dei due. Se il leader dell’Unione preferisse designazioni diverse, come dargli torto?
IL FATTO più rilevante della giornata di ieri è stato la lettera che il presidente Ciampi ha inviato al presidente della Commissione di vigilanza della Rai con la richiesta che la «par condicio» entri in vigore da subito in tutte le trasmissioni della televisione pubblica, garantendo il pluralismo e la parità delle parti politiche e impedendo che i teleschermi e le radio siano monopolizzate da un solo partito o addirittura da un solo personaggio.
L´iniziativa di Ciampi è stata approvata da tutti, con la sola differenza che il centrodestra ha escluso di esserne il destinatario e soprattutto che l´indiziato principale di quel messaggio fosse Silvio Berlusconi. Ormai è una tecnica collaudata da tempo: Ciampi parla, il Polo continua come se le parole del Presidente non lo riguardassero.
Quanto a Berlusconi, il suo lapidario commento è stato: «La par condicio è una legge iniqua e illiberale».
Così lo scontro istituzionale appena sopito sulla data di scioglimento delle Camere torna più che mai a riproporsi tra Ciampi custode delle regole democratiche e il picconatore che vuole distruggerle ed è già abbastanza avanti in questo perverso disegno.
La situazione deve infatti essere arrivata ad un livello di gravità molto preoccupante se il Capo dello Stato ha deciso di intervenire rivolgendosi ad uno specifico organo di vigilanza parlamentare. Si è trattato di un messaggio vero e proprio che il Quirinale ha facoltà di inviare in qualunque momento e su qualsiasi argomento al potere legislativo; dal punto di vista costituzionale la lettera di Ciampi è dunque assolutamente corretta. Ciò non toglie che si tratti d´uno strumento straordinario, proporzionato alla eccezionalità creata da un presidente del Consiglio che ormai da venti giorni occupa gli spazi radiofonici e televisivi come mai era accaduto non solo in Italia ma in nessun´altra parte del mondo.
Temo purtroppo che anche questo estremo appello cadrà nel vuoto. La maggioranza parlamentare, ovviamente presente in forze sia nella Commissione di vigilanza sia nel Consiglio d´amministrazione della Rai, tirerà per le lunghe con tutti i pretesti possibili.
Quanto ai singoli conduttori delle varie trasmissioni, continueranno a subire o addirittura a incoraggiare la presenza di Berlusconi nelle trasmissioni di loro pertinenza, contrapponendogli interlocutori attentamente selezionati, giornalisti intimiditi o se stessi in veste di unico contrappeso. Fino a quando la legge entrerà finalmente in vigore dopo altri quindici giorni da oggi di manipolazione massiccia del corpo elettorale.
* * *
In che cosa consiste l´invasione della radio e delle televisioni da parte di Berlusconi? C´è un contenuto, un programma, un´affermazione di valori, un´indicazione di strumenti per realizzare concreti obiettivi? O almeno la dimostrazione che buona parte degli impegni assunti con tanta enfasi cinque anni fa è stata adempiuta? Alcuni brandelli di queste cose spuntano di tanto in tanto come discontinui sprazzi dietro una spessa cortina, ma il vero e sostanziale contenuto di quella presenza è l´esibizione del corpo del Re. Quel corpo trasuda energia, ottimismo, capacità taumaturgiche, muscolatura mentale, umori, buona fortuna, sicurezza. E anche odio per il nemico e sopportazione paziente degli alleati, disprezzo per le regole, noncuranza per le opinioni altrui. Logorrea. Luoghi comuni. Barzellette grevi. Sessuologia da taverna.
Megalomania.
E due messaggi martellati senza risparmio: il pericolo del comunismo incombente, l´immoralità della sinistra.
Questo è il messaggio che il corpo del Re comunica dai televisori da lui saldamente occupati. Un messaggio, come ha scritto Gad Lerner in un articolo dell´altro ieri, pre-politico, anzi antipolitico. Non lo ha confermato lui stesso nel profluvio di parole con le quali sommerge ogni giorno ed ogni sera i malcapitati ascoltatori? «Io odio la politica e odio la televisione. Ma sono costretto a far politica e ad apparire in televisione perché debbo salvarvi dal comunismo». Gliel´ha detto la mamma che già dieci anni fa sognò il drago che minacciava di distruggere e ingoiare la Penisola e che solo un San Giorgio con la spada lucente avrebbe potuto sconfiggere. Quel San Giorgio era lui e non poteva essere altri che lui.
Così, recalcitrante, scese (scese) in politica. Trasse dal nulla un partito, sconfisse l´avversario. Ma l´avversario, come Satana, è risorto dalla polvere, è più potente che mai, controlla la magistratura, l´università, la scuola, le banche, le imprese, i sindacati, la burocrazia, le case editrici, i giornali e perfino la televisione. Più lo sconfiggi e più si ripresenta potente e minaccioso; perciò la sua fatica deve ogni volta ripetersi. Ma lui c´è. Lui non diserta. Lui vincerà ancora con a fianco la mamma, i figli di primo letto, i figli del secondo. La sposa nello sfondo, forse appena un po´ perplessa ma (per sua fortuna) silente.
Questo comunica il corpo del Re. Sembra una favola, di quelle che si ascoltano a bocca aperta come tutto ciò che sconfina dal reale nel fantastico.
Per alcuni è una favola bella a lieto fine. Per altri un inganno che può far perdurare il disastro che abbiamo ogni giorno dinanzi agli occhi. La conclusione è che si finisce col parlare soltanto di lui. Per inneggiarlo o vilipenderlo, non importa. Lui questo vuole: che il suo corpo sia al centro del dibattito e al massimo della visibilità.
Siamo ai confini della nevrosi. Prodi ha detto: tra poco venderà perfino i tappeti in televisione. Vedremo sicuramente anche questo, anzi l´abbiamo già visto: sono cinque anni che rifila agli italiani falsi tappeti persiani come fossero veri. Molti ci sono cascati e molti ci cascheranno ancora perché non sempre l´esperienza insegna e non sempre la memoria soccorre. Il potere poi, chi ce l´ha sa come farlo fruttare a proprio vantaggio. Lui e i suoi lo sanno.
Lo sapevano anche prima. Per questa ragione non era vero ciò che a un tempo la bella Iva Zanicchi consigliava dalle televisioni del «boss»: «Proviamolo, facciamolo governare e poi, se non funziona, lo rimanderemo a casa».
Non era vero nemmeno quello che diceva Montanelli: «Il solo vaccino contro la malattia berlusconiana è di iniettarsela. Poi saremo tutti definitivamente vaccinati». Non è così.
Quando te la sei iniettata rischi di renderla cronica quella malattia anziché vaccinarti contro di essa.
Non andrà così, ma potrebbe anche accadere.
***
Sempre ieri – altra notizia non da poco – l´anno giudiziario è stato aperto nei distretti di tutte le Corti d´appello italiane e il giudizio dei presidenti e dei procuratori generali è stato unanime: la giustizia non funziona come dovrebbe nel nostro Paese. È terribilmente lenta, i processi civili e penali si accumulano, i reati impuniti aumentano, la sicurezza pubblica non è affatto migliorata. Il governo, anziché tentare di migliorarla, ne ha scompaginato l´ordinamento con una raffica di leggi improvvisate, talvolta contraddittorie, spesso tendenti soltanto a sottrarre alla giurisdizione il corpo del Re.
Questo trattamento sussultorio, per di più affidato alle mani d´un ministro arrogante quanto incapace, ha ridotto la magistratura italiana allo stremo, lasciando i cittadini privi del più importante tra i servizi che lo Stato dovrebbe organizzare a loro vantaggio.
Se il corpo del Re rappresenta lo Stato, per quanto riguarda la giustizia esso è già imputridito da tempo. Non ci fosse un mucchio di altre ragioni, questa basta e avanza per rimuoverlo.
Mi prendo la licenza di riprodurre ancora una volta (lo feci già qualche anno fa ma i tempi mi sembra che lo richiedano) un sonetto del grande Gioachino Belli che fa al caso nostro. Eccone il testo.
C´era ´na vôrta un re, cche ddar palazzo
Mannò ffôra a li popoli st´editto:
Io so´ io, e vvoi nun zete un cazzo,
Sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto!
Io fo ddritto lo storto e storto er ddritto;
Pôzzo venneve a tutti a un tanto er mazzo;
Io, si vv´impicco nun ve fo strapazzo
Che la vita e la robba io ve l´affitto.
Chi abbita a ´sto monno senza er titolo
O dde papa o dde re o dd´imperatore,
Cuello nun pô avé mmai vosce in capitolo.
Co st´editto annò er bojja pe ccuriero
A interrogà la ggente in zur tenore
E arisposero tutti: è vvero! è vvero!
"Legalità", nome astratto, evoca dei modelli: li chiamiamo positivi quando vigono; e se una norma viga, lo dicono regole-matrice dei singoli ordinamenti; nell´Italia 2005 gli artt. 70-89 Cost. Ma non basta comandare, perché talvolta i comandi restano sulla carta o nell´aria: dopo l´attentato 20 luglio 1944, l´apparato coattivo nazista lavora inesorabilmente; Roland Freisler, psicopatico presidente del Volksgerichtshof, applica norme valide ed effettive; nove mesi dopo gli ordini del Führer non incidono più nei fatti, puro rumore vocale; regna uno stato caotico, risolto dalle armi; appena qualcuno trovi gente che ubbidisce, ecco l´ordinamento nuovo, finché dura. La teoria del diritto sta tutta lì. I cultori del diritto cosiddetto naturale elaborano falsi teoremi raccontando che siano valide solo le norme giuste: pia favola; la questione però esiste ed esplode ogniqualvolta l´atto conforme al prescritto risulti immorale o dannoso alla comunità; Roland Freisler era l´organo d´una giustizia infame. Insomma, non confondiamo sintassi del diritto, etica, politica.
Dopo i nomi e le idee, la storia. Nel collasso della prima Repubblica corrosa dal malcostume consortile, appare B., finto homo novus: affarista d´origini buie; s´è ingrossato nel privilegio concessogli dalla vecchia consorteria; accumula soldi col monopolio delle televisioni commerciali, istupidisce il pubblico, falsifica bilanci, evade il fisco, allunga le mani dappertutto; gl´italiani sapranno poi in qual modo vincesse le cause, comprando i giudici attraverso un´agenzia barattiera. In vista dei sessant´anni scende in campo perché teme la resa dei conti. Tale l´unico programma, sotto la falsa bandiera d´una rivolta contro i politicanti professionisti: qualificandosi campione dello spirito d´impresa, truffa gli elettori; è un enorme parassita, fabbricato dalla malavita politica, abilissimo nella frode, mago delle lobotomie televisive; spaccia menzogne come i bachi secernono bava.
Convertite le televisioni in partito, assolda mano d´opera più o meno intellettuale: s´imbarcano anche degl´illusi d´una svolta radicale; qualcuno se ne pente; emergono naufraghi del vecchio corso, sgherri impuniti, parolieri, commedianti, uomini del sì, domestici, faune da Satyricon. Scenario senza precedenti nella storia d´Italia: bene o male avevano un disegno politico gli avventurieri, da Crispi a Mussolini; costui no, difende l´impero personale senza scrupoli nella scelta delle armi. Naturalmente autocrate, paga e vuol essere servito: gli mancano i neuroni del sentimento etico; l´avversario va sgominato o corrotto; negli elettori vede bestiame umano dal cervello frollo.
Le due stagioni al governo, 1994, dicono che gusti e talenti abbia: vuol ministro degl´interni o guardasigilli l´avvocato che gli compra i giudici; cade; dopo sedici mesi d´un confuso interregno, sale l´altro polo. I quattro anni seguenti portano dati su cui riflettere, se non vogliamo funesti bis. Qualcuno s´è convinto che l´intruso sia ormai innocuo (conclusione assurda: aveva raccolto altrettanti voti), e intavolando negoziati bicamerali, lo riaccredita; forse voleva disporne nelle partite interne al centrosinistra, il cui buon governo cade, affondato dagli arrembanti; ne segue uno da dimenticare; l´ultimo inalbera insegne ormai obituarie. I dialoghi presupponevano intese sotto banco: che l´impero mediatico resti intatto al parassita; glielo garantiscono, perché le sue aziende sono «patrimonio italiano» (formula d´inaudito ridicolo); va in fumo la prima cosa da fare, una legge che impedisca conflitti d´interesse come quello dal quale umori instabili e calcoli furbeschi d´un Bertoldo padano hanno provvisoriamente salvato l´Italia affossando l´invasore.
L´Ulivo è padrone delle Camere: 157 seggi contro 116; 284 contro 246, ma in materie capitali legiferano in chiave già berlusconiana; sul tema giustizia la Bicamerale ricalca il «Piano d´una rinascita democratica» tramato da Licio Gelli, contemplante inter alia un pubblico ministero nella gabbia del potere esecutivo; risulterà meno vandalica la riforma berlusconiana. L´astuto partner stava al gioco: incassato ogni possibile profitto, dopo un anno e mezzo rovescia il tavolo; e l´aborto bicamerale infetta i 23 mesi seguenti; i frutti velenosi dell´albero avvelenato maturano nel tempo; eravamo afflitti da una procedura penale declamatoria, farraginosa, contorta; vari interventi disseminano uno pseudo-garantismo passibile d´usi micidiali; viene da lì la norma grazie alla quale l´ex ministro sotto accusa (d´avere corrotto dei giudici a profitto del cliente, futuro statista) moltiplica i rinvii dell´udienza preliminare adducendo impegni parlamentari; la Camera nega l´autorizzazione alla custodia cautelare; e solleva un conflitto davanti alla Corte, perché quel giudice s´era permesso d´obiettare che la giurisdizione penale non è poi l´ultima ruota del carro. La coalizione muore suicida.
Guai se dimenticassimo i lugubri anni del dialogo col caimano. Rioccupato Palazzo Chigi, l´arrembante provvede a sé stesso.
Era falsario nei bilanci e subito, attraverso onorevoli yes-men, riformula la legge: sarà prosciolto, non costituendo più reato i fatti de quibus, con tanti saluti alla trasparenza societaria, importantissima dove esista un capitalismo degno del nome; poi ritocca pro domo sua la materia delle rogatorie, perché carte bancarie estere inchiodano gl´imputati dei processi milanesi. Fallita la fuga da Milano attraverso varie chicanes, sfigura un articolo del codice sulla translatio iudicii motivata da anomalie ambientali; s´inventa un´immunità che la Consulta dichiara invalida; riforma l´ordinamento giudiziario avendo in mente un pubblico ministero comandato dal potere esecutivo. Siamo sul terreno della legalità perversa: patologia più grave delle consuete prassi delittuose; il fattore criminogeno s´è impadronito della leva normativa. Qui la politica forzaitaliota, condivisa da alleati e satelliti, svela disegni coerenti. Chiamiamoli criminofilia. Parola forte ma otto esempi dicono quanto sia puntuale.
Primo, il socio dominante falsifica impunemente i bilanci, l´abbiamo appena visto: tali furberie sono bagatella nell´art. 2621 c. c., comma 1, mentre nei paesi dell´autentico capitalismo costano lunghe galere ai falsari; e chi fermerebbe la frenesia d´impunità se godessimo del miracolo economico che i dulcamara annunciavano. Secondo: bisogna salvare i correi del padrone; le difese pretendono d´escludere dal processo carte bancarie elvetiche, perché mancano dei timbri; apprendisti in diritto affatturano un nuovo art. 729 c.p.p., sicuri d´avere codificato il cavillo avvocatesco; ma dal Tribunale alla Cassazione i giudici lo disinnescano. Gli autori del capolavoro s´infuriano: «eversione!», gridano, tanto ignoranti da non sapere che i testi vanno interpretati nel sistema normativo: avevano anche congegnato una chiusura ermetica, vietando la prova dei fatti in questione mediante «dichiarazioni da chiunque rese»; inammissibili i testimoni; e se l´imputato, colto da rimorso, confessasse, la confessione non varrebbe. Fantasie da fumatori d´oppio.
Terzo caso, l´arcinota proposta rinnegata dall´autore, tanto gliel´hanno deformata i colleghi, taglia i termini della prescrizione scatenando una devastante amnistia sommersa, affinché dopo nove anni esca prosciolto il correo del quasi padrone d´Italia, nel cui interesse comprava sentenze. Quarto, l´offensiva contro le intercettazioni, canale insostituibile nel lavoro investigativo su pericolosi filoni criminali: ferrei garantisti le mandano al diavolo; così gli adepti d´un vario malaffare converseranno sicuri, nemmeno fossero parlamentari, i cui assurdi privilegi significano impunità.
Quinto, diciannove onorevoli i cui nomi meritano d´essere scolpiti, propongono un bando delle notizie anonime, esteso alle prove acquisite su tale impulso, e qualificano «nulli a ogni effetto i relativi procedimenti penali». Supponiamo che l´inquirente scovi archivi, arsenali, santuari, cimiteri d´una Murder´s Corporation, nonché i testimoni: tutta farina del diavolo, tamquam non sit; l´inquisito è lui, che indaga; gl´incombe l´onere d´una prova negativa; provi che l´anonimo non l´abbia guidato in nessun passo dell´indagine. Sesto, una lobby studia come rivedere processi e confische subiti da mafiosi. Settimo, cervelli forzaitalioti s´inventano un pubblico ministero puro organo requirente, sulla base dei materiali raccolti dalla polizia, unica legittimata (e siccome l´organo poliziesco dipende dal potere esecutivo, sarà il governo a stabilire chi debba o no essere perseguito). Infine, un´idea sbalorditiva: negare al pubblico ministero l´appello contro i proscioglimenti; se vuole, ricorra in cassazione; e siccome la Corte non acquisisce prove, né rivaluta le acquisite come giudice del merito, diverso essendo lo spettro cognitivo, diventano irreparabili gravi errori sul fatto. Norma grossolanamente incostituzionale (art. 111 Cost. c. 2). Arie affini spirano nella deregulation lassistica del fallimento.
Forte dei suoi ventimila milioni d´euro, divus Berlusco inquina teste, leggi, apparati: scardina la giustizia; con lui salgono al potere volgarità, sopruso, menzogna (vedi il dissenso da Bush sulla guerra d´Iraq, perché la democrazia non s´esporta con le armi, asserito e negato in ventiquattr´ore); potendo, ridurrebbe la vita psichica dei sudditi a giaculatorie e fescennini. Il quinto foglio volante della Rosa Bianca nella Germania hitleriana 1943 denuncia un regno del male: Gestapo, Lager, patiboli, lo configurano in forme atroci, ma il fenomeno può assumerne d´allegre; mancava la versione comica; l´imbonitore dalle ganasce aperte nel finto sorriso può combinarsi l´en plein dov´era fallito l´orrendo Kniébolo, come lo chiama Ernst Jünger, sotto quella maschera da serial killer (alla fine voleva uccidere l´intero popolo tedesco, «non è degno d´un genio come me»). Abbiamo un Führer barzellettiere, canterino, ottimista: «siete ricchi, belli, giovani, felici», svela ridendo a poveri diavoli italiani arrancanti in bolletta; e guardandosi nello specchio, confida d´avere visto un santo.
Cinque anni di governo una grande opera l'hanno portata a termine: la costruzione del balcone mediatico che il presidente del Consiglio usa per parlare al popolo. Entra nelle nostre case a ogni ora del giorno e della notte per dettare l'agenda della politica. Se non ha niente da dire ai giudici fa lo stesso, le telecamere lo inseguiranno, i telegiornali gli faranno da grancassa, i talk show lo serviranno come un piatto di spaghetti fumanti, le opposizioni saranno costrette a inseguirlo sul suo terreno, i giornali a riempire le prime pagine, finché l'opinione pubblica sarà convinta che è importante farsi un'idea sulla comparsata tribunalizia del Cavaliere. La macchina virtuale costruita in tutta una vita e modellata negli ultimi cinque anni per dotarla di un motore turbo-elettorale, viene spinta al massimo. Berlusconi dilaga, gli alleati ridono a denti stretti del loro mister Fregoli che finisce la serata con una telefonata a Ballarò, dà il buongiorno a Unomattina, fa una pausa a Isoradio, prenota il massimo share al Tg1, prende appuntamento per una sosta di quattro ore a Rai2 e Canale5. E la prossima settimana si ricomincia. Una ricca riserva per i prossimi mesi di Blob.
Mentre il presidente della Repubblica, nel ricevere la commissione parlamentare di vigilanza, pronuncia davanti ai rappresentanti del Parlamento, il suo alto richiamo al pluralismo dell'informazione, il presidente del Consiglio vortica come una falena sotto la luce delle telecamere occupando ogni fessura del palinsesto. Un drammatico paradosso istituzional-politico-mediatico: tanto più le parole di Ciampi sottolineano l'impegno della sua presidenza sulla regola fondamentale della democrazia (la libertà di espressione e le pari opportunità dei soggetti politici), tanto più risalta la sordità di una classe di governo, prona al predominio berlusconiano e dunque sorda al richiamo del Quirinale.
Una politica che costruisce la sua casa nel recinto delle quattro mura di Porta a porta, una classe dirigente che crea il suo habitat nel piccolo schermo, ne resta prigioniera. Fuori della tv, nel mondo degli umani, dove i metalmeccanici testimoniano una piazza reale, i politici sono stranieri. Il loro mondo è l'altrove dello schermo, e quando il più furbo, il più ricco, il più illiberale di loro se ne impossessa, non sanno come uscire dalla prigione dorata che hanno costruito. Non è facile aprire una via di fuga, anche perché un'altra strada, un altro modo di essere non ha cittadinanza da molti anni. La sinistra è rimasta vittima della sindrome berlusconiana, assimilandone la linfa, vitale per il re della pubblicità, esiziale per i suoi antagonisti. Quando Fausto Bertinotti stringe la mano all'avversario, convinto di aver fatto una bella figura, è già fregato perché lui ha discusso, parlato, spiegato dentro una cornice che intitolava il match «Il liberale e il comunista», come se il duello fosse tra la Libertà e la Solidarietà, due buone sorelle. Senza sospettare che di Grande Sorella ce n'è una sola ed è figlia unica. Dove sono i giornalisti del servizio pubblico? E come reagiscono i vertici radiotelevisivi? A sentire il presidente della Rai, la par-condicio è sostanzialmente rispettata, come se l'informazione fosse solo una questione di minutaggio delle presenze di leader e partiti. Ma Petruccioli li vede i telegiornali? Sono le vetrine di un'azienda superlottizzata che offre i suoi frutti avvelenati. Così nessuno può scagliare la prima pietra per rompere lo schermo incantato, e chi ci ha provato è stato preso a pedate nel sedere, come ricordava, qualche sera fa, con soddisfazione, Giuliano Ferrara davanti al presidente del Consiglio. Forse ci salverà l'effetto-nausea. Solo Berlusconi può affondare Berlusconi.
Giustizia. Via libera definitivo del Senato alla legge sull'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento
L'Aula del Senato ha dato il via libera definitivo al disegno di legge sull'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento. Adesso il pubblico ministero non potra' ricorrere in appello contro una sentenza di assoluzione. A favore si e' espressa la Cdl, mentre l'opposizione ha votato contro il provvedimento.
"Oggi in Senato è stata scritta una delle pagine più inquietanti di questa XIV legislatura". Lo dichiara il vicepresidente dei senatori della Margherita, sen. Roberto Manzione. "Nel silenzio della maggioranza [nessuno dei senatori di Fi, An, Udc e Lega ha preso la parola sui circa 150 emendamenti votati], è passata una riforma truffa che altera la parità fra accusa e difesa, limita l'obbligatorietà dell'azione penale, indebolisce la funzione e la tutela delle parti civili e determina effetti devastanti sulla durata dei processi stravolgendo il ruolo e la funzione della Corte di Cassazione. Anche la rete dei Presidenti delle Supreme Corti dell'Unione Europea, con voto unanime, ha inutilmente lanciato un appello al Parlamento ed al Governo Italiano. Con l'articolo 9, infine, si prevede che la legge truffa produca immediatamente i suoi effetti rispetto ai processi in corso che toccano direttamente il Presidente del Consiglio ed i suoi soci. Ecco perché, intervenendo in aula, ho detto che 'quando il padrone ordina, i servi obbediscono, in silenzio'."
Di segno completamente opposto il parere di Isabella Bertolini, vicepresidente dei deputati di Forza Italia e relatrice alla Camera della legge sull'inappellabilita' delle sentenze: "L'approvazione al Senato della legge sull'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento in primo grado segna un nuovo passo avanti verso una giustizia piu' giusta".
Isabella Bertolini, sottolinea che si tratta di "una legge sacrosanta che tutela i diritti di tutti gli italiani, e garantisce ai cittadini gia' giudicati innocenti in primo grado,
A volte una domanda stupida ha una risposta rivelatrice. Recentemente il comico italiano Beppe Grillo ha messo un annuncio di un'intera pagina sull'International HeraldTribune per pubblicizzare una campagna che gli sta particolarmente a cuore. Poiché in Italia non c'è una norma che vieta a chi è stato condannato di far parte del parlamento, e poiché nella classe politica italiana i criminali non mancano, nel parlamento italiano ed europeo ci sono 23 deputati che, dopo aver infranto la legge, si occupano di fare le nuove leggi. Grillo vuole sapere se nel mondo esiste un altro paese in cui i criminali possono rappresentare i cittadini del proprio paese (sembra che un paese così in effetti esista, è l'Uzbekistan). Ma lo scandalo più grande, forse, è che persone come Grillo siano costrette a fare le loro campagne sulle pagine dei giornali stranieri.
Su Eddyburg il testo in inglese
Sul blog di Beppe Grillo altri particolari sull'argomento
I Paesi civili non sanno proprio cosa siano gli abusi edilizi. Casomai sarebbero considerati alla stregua di oltraggi alle regole di convivenza tra cittadini e condannati senza riserve dal sentimento comune. Nell’Italia di oggi queste violazioni sono utili per fare quadrare i conti, e dal governo incluse tra le pratiche emancipate e liberali: nel senso che ognuno a casa sua è libero di fare ciò che gli pare e piace. Come nelle caricature di Guzzanti figlio sugli slogan del Polo delle libertà.
Berlusconi non solo fa approvare provvedimenti per condonare queste violazioni in danno dei più pregiati paesaggi. Ma da l’ esempio, eludendo da tempo i controlli su ciò che succede attorno a casa sua, in Sardegna, mentre si avanza da mesi il sospetto che le opere, in un ambito soggetto a tutela paesistica, non siano state autorizzate.
Invece di mettere le carte in tavola, come avrebbe fatto qualsiasi statista preoccupato delle ricadute istituzionali (la stampa estera segue con ironica indignazione il caso) ha deciso quest’estate di rimediare apponendo in un paio di giorni il segreto di Stato. Costringendo il nuovo governo della Regione Autonoma a porre la questione delle prerogative in materia di tutela del territorio.
Confermando tra l’altro tutta intera l’impressione che poca o nessuna protezione potranno assicurare al presidente e ai suoi ospiti gli approdi coperti, le piscine, l’anfiteatro e tutti gli altri corredi insolenti, a fronte di attentati che come si sa violano ben altre protezioni ( si consideri che Blair è stato ospite ad agosto in una splendida tenuta in Toscana tutt’altro che munita ).
E mentre il segreto veniva opposto verso chiunque ( magistrati compresi, ci mancherebbe) provasse a indagare sul caso, le fotografie del complesso in Gallura facevano il giro del mondo via internet. (Così almeno si ha un’idea di come si possa esibire sguaiatamente la propria ricchezza, con tutti gli eccessi immaginabili che non trovano apprezzamento neppure in quelle riviste tipo “casamata” “dolcecasa” che dedicano i loro servizi a ben più sobrie e raffinate abitazioni).
Ma non si pensi che la faccenda sia stata sottovalutata dal premier che ancora una volta sa, da abile comunicatore, di essere in sintonia con quella parte del Paese sensibile ai suoi sfarzi autocelebrativi e insofferente verso le regole tutte e che trova gratificante il condono e rassicurante ogni caso altolocato di trasgressione.
Sono poche le leggi approvate in questi anni che non abbiano esplicitamente nel titolo o tra le righe di un comma una risposta ad esigenze private di Berlusconi e dei suoi amici. Tra i provvedimenti ad personam (anzi: prodomo sua) ci sarebbe ora la disposizione in legge finanziaria secondo cui i lavori per la sicurezza a cura di Sismi, Sisde Cesis potranno avvenire ricorrendo a imprese di fiducia, eludendo i procedimenti di gara previsti dalle disposizioni di legge sui lavori pubblici.
Siccome tra le strutture da proteggere c’è anche la proprietà del premier in Sardegna, il sospetto è che si voglia evitare che un trasparente procedimento di appalto, di opere connesse alla sicurezza (?), possa mettere in luce le difformità.
Se questa ipotesi avanzata da autorevoli cronisti fosse vera ci troveremmo di fronte a un altro caso di interessi in conflitto. Ben poca cosa, si dirà, rispetto alla norma salvaPreviti. Piuttosto un’altra conferma di come vanno le cose da quando le regole su cui si fonda la Repubblica sono tutte, proprio tutte adattabili volta per volta al bisogno di pochi. Il danno che potrà arrecare, appunto ai tanti luoghi della penisola, questo modo di pensare e di fare – ognuno per sé – è molto al di là della nostra immaginazione. La privazione del nesso tra governo del territorio e interesse pubblico è un obiettivo delle destre che si sta realizzando pezzo dopo pezzo: i paesaggi e i beni comuni sono già merci e la loro valorizzazione monetaria è l’obiettivo. Ma questo non è un tema che appassiona come dovrebbe la sinistra.
L’Unità
Passa la fiducia sulla delega ambientale. Via libera al condono della villa di Berlusconi
Dopo l’ennesima sfida a colpi di fiducia con il Parlamento, il governo incassa il via libera definitivo alla delega per il riordino della legislazione in materia ambientale. Il centrosinistra ha votato compatto contro: 278 i sì, 184 i no, tre gli astenuti.
Il testo approvato contiene, fra l'altro, un nuovo, indiscriminato, condono edilizio, consentendo di sanare gli abusi edilizi commessi fino al 30 settembre 2004 nelle aree di interesse ambientale. Le opere abusive, però, dovranno superare l'accertamento di compatibilità paesaggistica. I trasgressori dovranno pagare una sanzione che andrà dai tremila ai cinquantamila euro. La domanda di sanatoria dovrà essere presentata entro il 31 gennaio del 2005. L'opposizione ha puntato fino all'ultimo il dito contro quest'ultima norma, sostenendo che servirà anche a Silvio Berlusconi per sanare il teatro all'aperto costruito nella villa in Sardegna.
Il testo prevede inoltreuna depenalizzazione degli abusi edilizi più «lievi», cioè quelli che non abbiano determinato la creazione di nuove superfici o volumi come restauri, aperture di nuove porte e finestre, eccetera. Saranno le soprintendenze a decidere volta per volta se i lavori in questione sono compatibili con il vincolo paesaggistico e i trasgressori potranno sanare gli abusi pagando una multa, ma non saranno chiamati a rispondere in sede penale.
«La legge delega è il peggio del peggio delle politiche ambientali del governo», afferma Fabrizio Vigni, capogruppo Ds in commissione ambiente. Appello di Italia Nostra a Ciampi: «Non firmare». Adesioni sul sito di Italia Nostra.
ROMA - Con 316 voti a favore e 225 contrari la Camera ha concesso la fiducia al governo sulla legge delega in materia ambientale. Il provvedimento è stato poi approvato definitivamente con 278 sì, 184 no e tre astenuti con l'opposizione compatta contro.
Anche la seduta di oggi è stata caratterizzata infatti da polemiche e tensioni. I Verdi, durante i lavori a Montecitorio, hanno esposto dai loro banchi lo striscione con la scritta "abusivi" su uno sfondo disegnato a mattoncini e hanno distribuito manifesti con la faccia di Silvio Berlusconi e lo slogan "condona anche le bugie". La protesta è durata pochi attimi, il tempo necessario a far intervenire i commessi allertati dal presidente di turno Fabio Mussi.
L'opposizione critica il provvedimento sia nel metodo che nel merito. Da un lato si sottolinea come il ricorso congiunto alla fiducia e alla delega espropria di fatto il parlamento della possibilità di discutere apertamente in materia di politica ambientale. Dall'altro si fa notare come la delega renda possibile l'ennesimo condono edilizio, compreso quello per gli abusi commessi nelle aree protette, non ultimo quello che avrebbe reso possibile l'ammodernamento della villa del premier in Sardegna.
Altri punti contestati dal centrosinistra sono la mancata introduzione dei reati ambientali nel codice penale, una nuova classificazione dei rifiuti che - a detta sempre dei detrattori - aprirà le porte al "riciclaggio" di materiali pericolosi e, infine, la composizione della commissione di 24 saggi di nomina governativa chiamata a riscrivere da cima a fondo le norme ambientali.
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Obiezioni che la maggioranza rimanda seccamente al mittente: "Questa - ha precisato il parlamentare di Forza Italia Maurizio Lupi - è una legge importante che ha il pregio di procedere al riordino complessivo della materia ambientale".
Riserve, quelle dell'opposizione, condivise però dalle associazioni ambientaliste Amici della Terra, Fai, Greenpeace, Italia nostra e Wwf che hanno rivolto oggi un appello congiunto al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi affinché non firmi il testo della legge delega, rimandandola alle Camere.
ROMA - La legge delega sull'ambiente approvata dal parlamento prevede alcuni cambiamenti immediati e un più generale riordino di tutta la legislazione in materia.
Il compito di riscrivere e armonizzare le norme ambientali attraverso la redazione di testi unici spetterà a una commissione esterna al parlamento composta da 24 esperti di nomina governativa. La delega fissa in un anno, tre mesi e cinque giorni il limite di tempo per completare la riscrittura dei testi e completare l'iter legislativo.
Tra le novità subito in vigore, di rilievo quelle contenute nei commi 37, 38 e 39 dove si stabilisce la depenalizzazione degli abusi commessi in violazione dei vincoli paesaggistici "entro e non oltre il 30 settembre 2004".
I commi dal 25 al 31 si occupano invece di rifiuti, declassando a "non pericolosi" gli scarti di lavorazione ferrosi che potranno essere bruciati in cementifici o centrali elettriche senza tener conto dei limiti imposti sia dall'attuale normativa nazionale che dagli standard sanitari e ambientali fissati dall'Unione Europea.
Vengono inoltre rivisti in senso più permissivo i controlli sulla filiera dei rifiuti metallici pericolosi e su quelli di natura radioattiva.
Anche questa è andata. A colpi di fiducia, ma è andata. Adesso Villa Certosa è al sicuro, come le villette, i piccoli e i grandi abusi sulle coste, sulle rive di fiumi e laghi, in montagna, nei parchi. Ovunque. Là dove non aveva osato il condono è arrivato il maxiemendamento alla Delega Ambientale votato ieri al Senato con 158 voti favorevoli, due contrari e 1 astenuto. Il centro sinistra fuori dall’aula durante il voto, la parola "vergogna" più volte volata tra i banchi e sulle teste di un centro destra imbarazzato ma ubbidiente all’ordine di scuderia. Un altro brutto giorno per la Repubblica.
Il presidente Pera ha dovuto sospendere la seduta 3 volte ed espellere dall’aula i verdi Cortiana, Turroni, De Petris, Donato e Boco. Alcuni senatori, come Giuseppe Specchia, di An, invece, le hanno provate tutte per difendere l’indifendibile. Sostenendo che ci sono una marea di ecomostri che la sinistra non ha voluto demolire. Invece, adesso, arriva questo maxiemendamento e voilà Punta Perotti cade giù come fosse carta velina. Nessuno dice che a stabilire l’abbattimento è stato un tribunale, dopo la lunga battaglia per tenerlo su portata avanti dall’ex sindaco di centro destra Di Cagno Abbrescia. Nessuno della maggioranza osa dire, per esempio, che accanto alle pene più pesanti introdotte per gli abusi più gravi, c’è anche il comma 36 che permette un inedito clamoroso: se chi ha commesso un abuso, ripristina la situazione originale prima della sentenza di condanna il reato viene estinto. Questo vuole dire che se un pinco pallino qualunque si è costruito la villa sulla spiaggia se la può godere fino al giorno prima della sentenza del tribunale. Così il giorno dopo nessuno potrà condannarlo. Non era mai accaduto che un reato penale si estinguesse grazie ad un codice. Il ministro Urbani sarà ricordato anche per questo. Ed è chiaro sin d’ora che anche alla Camera andrà nello stesso modo. E chi se ne frega se l’Italia conserva il 60% dei Beni culturali mondiali.
Gasbarri del gruppo Ds-Ulivo ricorda come il senatore Emiddio Novi, Fi, "urlava che mai e poi mai si sarebbe dovuto fare quel Comma 32 dell’articolo 1 della legge delega". Infatti, prima fu eliminato, poi reinserito peggiorato. E Novi oggi è qui che vota come un soldatino. L’avvocato Cesare Previti ha fatto il suo lavoro. Poche ore di impegno ed ecco qua il primo condono nelle aree protette. Pera si chiede se ci sono i relatori in Aula, Turroni dei Verdi risponde: "Si vergognano". Mario Greco di Fi spiega che non ce la fa proprio a votare, lui magistrato per 30 anni un senso dello Stato ancora ce l’ha. Specchia invita il centro sinistra a dire le cose come stanno e ad avviare un’indagine conoscitiva su tutti i senatori perché è convinto che oltre a Villa Certosa sono tante le situazioni che verrebbero sanate. Fa allusioni. Gavino Angius, Ds, non ci sta al gioco delle illazioni e rilancia: "Facciamo una commissione parlamentare d’inchiesta". Intanto arriva la decisione: non ci sarà la diretta Tv sul voto. Dai banchi dei Verdi si sente un "Vergogna, state spogliando l’Italia". È solo l’annuncio di quanto accadrà di lì a poco. Novi prova a parlare, a voce bassa. I Ds urlano: "Ti vergogni a parlare più forte?".
Inizia la bagarre. I Verdi insorgono, il presidente li richiama. Novi parla di "presunto condono" e l’opposizione si accende. Appaiono gli striscioni: "State spogliando l’Italia". Poi alcuni senatori Verdi, Ds e Margherita, alzano i cartelli: "Villa Certosa ringrazia" "Villa Certosa la casa abusiva delle libertà". Pera sospende la seduta per 12 minuti. Al rientro i Verdi continuano, vengono espulsi e i lavori si fermano ancora. Durissimi gli interventi dell'opposizione in Aula. "Questo provvedimento è un nuovo attacco all’ambiente - dice Gavino Angius, capogruppo Ds -. È un provvedimento incostituzionale, perché la Costituzione tutela l’ambiente, mentre questa legge lo devasta. È il quarto provvedimento di condono in pochi anni. Con questo provvedimento ormai è stato condonato tutto quello che è stato costruito abusivamente in qualsiasi angolo d’Italia". Fausto Giovanelli, Ds, aggiunge: "La sanatoria avrà effetti penali, amministrativi, e di conseguenza anche civilistici dei lavori e delle trasformazioni di ogni genere compiuti in violazione delle norme di tutela paesistica previste dalla legge Bottai del ‘39, dalla cosiddetta legge Galasso, dalla legge sui parchi". Willer Bordon, capogruppo della Margherita ricorda: "L’attuale ministro dell’Ambiente ottenne il premio Attila nel ‘94, la prima volta che ricoprì questo incarico. Ho umana simpatia per Matteoli, ma in questo contesto perfino Attila avrebbe il diritto di iscriversi al Wwf o a Legambiente". Annota, Bordon, che un teatro greco non ha "volume, come una piscina". Quindi chiunque volesse... Tommaso Sodano di Rc:"Il governo fa l’ennesimo regalo alla cultura dell’illegalità e del cemento selvaggio su cui costruiscono le proprie fortune le mafie del nostro paese". Nota a margine: in Aula non c’erano né il ministro Matteoli, né il ministro Urbani.
L'ambiente sta diventando un barometro delle difficoltà crescenti del governo Berlusconi. Prima al Parlamento sono stati scippati i principali nodi del dibattito legislativo sul futuro della terra, dell'aria e del suolo affidando la responsabilità di legiferare in materia a 24 signori scelti dal ministro dell'Ambiente anziché dagli elettori italiani come prevede la Costituzione. Poi a questa legge delega - così si chiama il provvedimento che prosciuga il Parlamento delle sue competenze - già eccezionalmente corposa sono stati aggiunti altri pezzi fino a costruire un ibrido che non si può considerare parlamentare né extraparlamentare: un vero ogm della politica.
L'ultimo innesto su questo corpo elefantiaco è il pacchetto di norme che allarga i confini delle sanatorie edilizie estendendoli (sia pure con vari distinguo) alle aree vincolate dal punto di vista paesaggistico (il 46 per cento del territorio italiano, come ricorda il Wwf).
Dunque il governo sta portando avanti il suo programma sull'ambiente basato su una crescente conflittualità con l'Unione europea e su un quadro culturale che vede il paesaggio più come un peso che come una risorsa. Ma il costo pagato si è rivelato più alto del previsto: interi spezzoni della maggioranza si sono dissociati su alcuni punti e il presidente del Consiglio è stato costretto a ricorrere sempre più spesso al voto di fiducia. Non sembra che il disastro ambientale paghi in termini di consenso.l'Unità
Cemento di governo
di Vittorio Emilian
Risorge il condono edilizio anche nelle aree paesaggisticamente più belle e risorge con la prospettiva di essere eterno. Senza che si possa nemmeno tentare di correggere il confuso e incredibile testo governativo che lo prevede e che fino a ieri sera è circolato in forma non ufficiale. Oggi infatti, con ogni probabilità, verrà chiesta ai senatori la fiducia: per esso e per l’intero, criticatissimo, disegno di legge sulla delega ambientale.
Perché tanta fretta? Perché questa blindatura della maggioranza su una materia tanto delicata e controversa? Perché tutta la materia dei vincoli paesaggistici risulta da sempre altamente indigesta a questo centrodestra fautore (per la seconda volta in dieci anni) di un maxi-condono edilizio. Perché, secondo i senatori Fausto Giovannelli (Ds) e Sauro Turroni (Verdi), "è evidente che si vuole sanare Villa Certosa di Berlusconi", il villone sardo con anfiteatro cementizio ed ingresso sottomarino di cui tanto si è parlato l’estate scorsa e che è rimasto top secret.
Ma c’è molto di più. Con le norme previste in questo maxi-emendamento ai commi 36 e 37, confuso, ripeto, volutamente confuso forse per infilare nelle sue pieghe qualunque cosa, viene modificato lo stesso Codice Urbani per i Beni culturali, varato appena l’estate scorsa e vantato come grande conquista della cultura, anche di quella paesistica. Chiacchiere, naturalmente. Come quelle affidate oggi alle agenzie dal ministro Giuliano Urbani il quale in materia ha sempre rifiutato confronti con gli esperti e persino le domande dei giornalisti.
Il ministro dei Beni culturali sostiene infatti che, adesso, potranno venire abbattuti gli ecomostri come quello barese di Punta Perotti omettendo di dire che su questa demolizione c’è già l’assenso del Consiglio di Stato. Egli ammette peraltro che le norme presentate dal governo al Senato, col suo pieno assenso, consentono (per venire incontro alle richieste delle Regioni, butta lì) una sanatoria "limitata nel tempo" la quale però non lede il principio dell’autorizzazione preventiva riservata nel suo Codice alle Soprintendenze.
Ma la presente sanatoria di abusi in zone vincolate – lo fa notare Gaetano Benedetto del Wwf – era stata già cancellata dalla Camera ed è il governo adesso a resuscitarla, e questo avviene "con una monetizzazione dell’estinzione del reato paesaggistico". Una bella conquista di civiltà. Inoltre, il parere preventivo delle Soprintendenze tanto sottolineato da Urbani è soltanto consultivo per i nuovi progetti (lottizzazioni incluse) e non vincolante com’era invece, prima del Codice, la bocciatura da parte delle Soprintendenze medesime in corso d’opera qualora fossero state accertate irregolarità.
Da domani l’abusivo che abbia eseguito lavori di "manutenzione ordinaria", ma pure "straordinaria" (quali? di quale entità?) in zona paesisticamente vincolata potrà venire integralmente condonato se questi lavori li avrà compiuti entro il 30 settembre 2004 (data-limite facilmente aggirabile). V’è di peggio : le Soprintendenze – che divengono così, col poco personale che hanno per decine di migliaia di pratiche, una sorta di Agenzia del Condono – avranno soltanto 180 giorni di tempo per dare il loro parere di "compatibilità" da cui tutto dipende. E se non riusciranno a formulare quel parere? Scatterà, a favore dell’abusivo, il meccanismo del silenzio/assenso? Non si sa. Come non si sanno tante altre cose importanti. Ma intanto col maxi-emendamento si butta in discarica il lavoro della commissione Ambiente del Senato e si va al voto di fiducia. Comunque. Costi quel che costi.
Non basta. All’abusivo non vengono imposti termini per la presentazione della domanda. Dunque, il condono può diventare perpetuo e così pure la manomissione delle nostre aree più belle, quelle, per l’appunto, vincolate. In tal modo abbiamo: a) i vecchi condoni del 1984 e del 1994 che in certi Comuni sono tuttora da chiudere e il cui costo grava ovviamente sui cittadini rispettosi delle leggi; b) un condono recente (quello del creativo Tremonti) fortemente azzoppato dalla Corte costituzionale che ha riconosciuto alle Regioni la potestà di definire modalità, volumetrie e altro per l’applicazione del condono governativo; c) le Regioni che, per lo più in forma restrittiva rispetto al testo dell’esecutivo, stanno legiferando in materia (entro il 30 novembre). E con questo bel carico sulla schiena del Bel Paese, il governo Berlusconi aggiunge ora condono a condono, sanatoria a sanatoria, incoraggiando di fatto, guarda caso, una tendenza degli edificatori abusivi già ampiamente in atto, e cioè quella di insediarsi nelle zone di maggior pregio paesaggistico (a Roma, l’Appia antica o Veio). Così il Bel Paese è conciato per le feste.
"Ciascuno è padrone a casa sua". Mai slogan berlusconiano fu più gradito di questo all’Italia dell’urbanistica illegale e dei condoni tombali, all’Italia dei padroncini che si "arrangiano", dovunque e comunque. Mai slogan berlusconiano fu più rovinoso di questo per le coscienze in un Paese dalla bassa moralità pubblica e nel quale il patrimonio ambientale e paesaggistico di tutti viene considerato in realtà qualcosa di privato che si può impunemente inquinare, manomettere, imbruttire, violare. L’esempio lo dà un governo che sta facendo accattonaggio e che cerca, anche così, di tirar su un pugno di euro.
Non è inverosimile - nonostante gli sdegnati dinieghi del ministro Urbani - che la sanatoria estesa agli "illeciti nelle aree paesaggisticamente vincolate" reintrodotta nel maxi-emendamento alla "delega ambientale" abbia qualcosa a che fare coi lavori abusivi (l’uscita-a-mare da un bunker travestita da teatrino greco) fatti eseguire da Berlusconi nella sua Villa Certosa in Costa Smeralda: a riprova ulteriore del leccapiedismo che ha contagiato così largamente il suo staff di ministri. Non è andata più o meno sempre così? Per il conflitto d’interessi, le TV, i rientri di capitali dall’estero, i giudici, la giustizia?... E tuttavia non è questo il problema. E‚ che siamo a quanto sembra di fronte a un’altra puntata della pluridecennale telenovela dei parchi italiani. Dove lo scontro - attenzione - non è fra il bene e il male alla maniera delle guerre di Bush. C’è anche qualcosa di simile, certo, ma c’è soprattutto la guerra di logoramento fra chi ragiona abbastanza da preoccuparsi per il futuro del paese, dei figli, del territorio e chi invece non sa sollevare lo sguardo al di là dei quattrini sull’unghia, e non vuol sapere nient’altro. Perché - ripetiamolo ancora - di questo si tratta. E’ il futuro che ci stiamo giocando.
La "vertenza dei Parchi". Valga il vero. Per più di vent’anni (tra i ’60 e i ’70) Antonio Cederna è andato ripetendo ogni giorno la geremiade del metroquadrato-scarso-di-verde-a-persona nel nostro paese contro i 24 di Londra, i non-so-più-quanti di Stoccolma, i cento e passa di Amsterdam... E finalmente, dài e dài, ce l’ha fatta. Per merito del batti e ribatti suo e delle associazioni ambientali la linea dei Parchi è passata. Ha fatto breccia nell’opinione pubblica, è diventa legge, ha visto Regioni e Comuni fare a gara nei salvataggi di spazi verdi, è arrivata a coprire quel 10% di territorio nazionale che è la media europea. In controtendenza tra l’altro (o "a compensazione") rispetto all’andazzo dell’abusivismo edilizio che in quegli stessi anni andava deturpando così largamente il paese e alle relative sanatorie periodiche...
Una cosa da notare è che in questo processo di formazione della "rete delle Aree Protette" italiane per superare gli interessi locali contrari si è fatto abbondante ricorso a promesse di vantaggi che sarebbero derivati ai Comuni interessati dalla "valorizzazione turistica" legata alla presenza dei Parchi. Tanto che nella mentalità corrente di molte amministrazioni locali il Parco è diventato sinonimo di buoni-affari turistici: un luogo nei cui dintorni (o magari all’interno del quale) tirar su alberghi, complessi residenziali e quant’altro per attirare visitatori paganti con l‚esca della "natura incontaminata" attraverso operazioni di per sé stesse contaminanti.
Il fare-e-disfare. Come dire che - fatti i Parchi - s’è subito avviato il lavorìo per disfarli: coi ridimensionamenti, le erosioni di confini, le deroghe, le eccezioni, perfino le licenze di caccia... Fino alla sanatoria di oggi. La quale sfonda porte aperte da un lato (la promessa di demolizione del "mostro di Punta Perotti" di Bari già stabilita dal giudice) e dall’altro dà spazio a un’altra sfilza di abusi... Tanto da dare l’idea che questo fare-e-disfare sia una triste caratteristica della nostra natura, del nostro paese, che tanto vale rassegnarci... Ma qui mi sembra ci siano ancora due riflessioni da fare.
La prima è che bene o male, da Cederna in avanti, un "ciclo virtuoso" per le questioni ambientali in Italia c’è stato, che ha riportato vittorie (dal referendum antinucleare dell’87 alla legge 394 sui Parchi del ’91 all’abbattimento del "mostro di Fuenti" del ’98), che ne potrà riportare altre ancora, che sarebbe sbagliato rinunciare a combattere.
La seconda riguarda più in generale la condizione del paese: il rapporto tra le aree edificate in aumento continuo e le aree libere in continua diminuzione, gli spazi per l’agricoltura che si vanno restringendo ogni giorno. Non è più questione di fiori-e-uccellini: è che ci va mancando lo spazio per respirare e per vivere... A Mexico City (metropoli di 18 milioni e passa abitanti in continua e caotica ulteriore espansione) hanno deciso di erigere un muro lungo cento chilometri attorno all’abitato attuale - con divieto assoluto di costruire al di là - come unico modo per salvare il territorio circostante dal dilagare edilizio. Da noi non siamo a quel punto, ma non è che ne siamo poi troppo lontani Vediamo di darci una regolata.
... E a proposito della diatriba di centrosinistra sul dopo-Berlusconi - se conservare le leggi varate sotto il suo governo o levarle di mezzo - ho idea che questo maxi-emendamento alla delega per l’ambiente fornisca un altro buon argomento a favore della seconda tesi: una cosa in più da levarci dai piedi alla svelta.
Qui una visita a Villa Certosa, la villa abusiva del Premier
«ABBIAMO arrestato duecento terroristi internazionali e debellato le Brigate Rosse», si autoglorifica. Infuriato, molto infuriato dal successo dello sciopero generale, Silvio Berlusconi ha annunciato l´"operazione verità" su quanto il governo ha realizzato. Appena 24 ore dopo, ieri, si è messo al lavoro e l´"operazione verità" ha partorito il primo capitolo di quel che si annuncia, da qui al voto del 2006, il Grande Catalogo della Menzogna.
Come si sa, c´è anche una fenomenologia della menzogna. Abbiamo la dissimulazione (si nasconde il vero); l´alterazione (se ne modifica la natura); la deformazione (si ingrandisce o si rimpiccolisce); l´antegoria (si sostiene il contrario); e la fabulazione, quando invece di mascherare la verità, ce la inventiamo di sana pianta.
La fabulazione è il tipo di menzogna che preferisce il presidente del Consiglio. Inventa di sana pianta la realtà. Sul terrorismo, il fabulista di Palazzo Chigi ne ha sempre sparate – irresponsabilmente – di grosse. Più o meno un anno fa, confida di aver trascorso quarantotto ore d´inferno. Solo. Aspettando il peggio. «Ho passato una vigilia di Natale terribile per la notizia precisa e verificata di un attentato su Roma nel giorno di Natale. Un aereo dirottato sul Vaticano. Un attacco dal cielo. La minaccia del terrorismo è in questo momento altissima». La notizia non è né precisa né verificata. È palesemente un´invenzione che nessuno ha preso in considerazione, ma in quel momento torna buona per posare a statista che, solitario, indefesso, trepidante, vigila sul Paese e sulla cupola di San Pietro minacciata dall´Islam radicale, mentre tutti si divertono e mangiano spensieratamente il panettone. Naturalmente, se gli viene utile, può inventare anche una favola di segno opposto. Per esempio, che non bisogna esagerare con la preoccupazione dell´attentato terroristico.
Accade in luglio, dopo gli attentati all´underground e ai doubledecker di Londra. Il Parlamento chiede al governo di correggere la legislazione per dare maggiori margini di azione all´intelligence e alle polizie. Il governo non trova l´accordo. Il ministro dell´Interno è isolato come le sue proposte. La paralisi dell´Esecutivo è imbarazzante e pericolosa. Il fabulista di Palazzo Chigi ne inventa un´altra. Il disegno di legge non c´è ed è meglio così perché il terrorismo per l´Italia non è un problema perché la situazione è sotto controllo. Ora che deve vantare i successi del suo gabinetto (che poi inevitabilmente sono i suoi successi personali) inventa che «sono stati arrestati 200 terroristi e distrutte le Brigate Rosse mentre gli altri non avevano fatto niente». Per le Brigate Rosse, che hanno visto impegnato tutto il Paese, dalla magistratura al sindacato, dai partiti alle istituzioni, la menzogna ha le gambe cortissime e non farà (non dovrebbe fare) molta strada tra la legittima indignazione di chi quella battaglia ha affrontato e vinto, e nel ricordo di chi ci è morto. Ma la millanteria di aver arrestato 200 terroristi islamici c´è magari chi la può berla. Vediamo allora qualche numero. Se si guardano i processi, si scopre che ci sono soltanto due condanne per terrorismo contro un marocchino (Noureddine Drissi) e un tunisino (Mouldi Ben Kamel Hamraoui). Se non si vuole prendere in considerazione l´attività giudiziaria (troppo formale), ma soltanto la prevenzione, bisogna leggere l´ultima relazione sulla politica informativa e della sicurezza dei nostri servizi segreti. Qui si parla di 24 persone arrestate. Non terroristi, attenzione, ma soltanto «soggetti integralisti». E allora i duecento?
Si può mentire per molti motivi. Ci sono le menzogne di conservazione e di interesse; di vanità; di esagerazione; di abbellimento; quelle di fabulazione gratuita. Anche dal lato delle ragioni del mentire, Berlusconi interpreta la menzogna come nessuno. Il fabulista di Palazzo Chigi mente (e sempre mentirà da qui alle elezioni) non per un solo motivo, ma per tutti i motivi contemporaneamente. Con un egocentrismo e un´irresponsabilità, politica e istituzionale, inedite. Ci si augurava che potesse tener fuori dalla girandola del Catalogo almeno il terrorismo. Cacciare balle su quel terreno è immediatamente pericoloso. Espone il nostro Paese. Sovraespone gli italiani in patria. Mette in pericolo gli italiani all´estero e i soldati italiani in missione nel "teatro di guerra". Attrae l´attenzione "operativa" dell´Islam terroristico (oggi è un´attenzione soltanto "mediatica"). Alimenta la paura di tutti (e la paura inibisce l´azione, crea sfiducia, paralizza ogni passo verso il futuro). Condiziona il lavoro dell´intelligence. Complica le mosse delle polizie. Radicalizza il risentimento e la collera dell´Islam italiano. Divide l´opinione pubblica nazionale che, almeno dinanzi alla minaccia del terrore, è stata finora unita. Si rende conto il fabulista delle conseguenze delle sue parole, delle sue menzogne? Se ne rende conto purtroppo con grande lucidità, ma tira avanti per la sua strada con la sua etica dell´irresponsabilità: quel che davvero conta per Berlusconi è soltanto Berlusconi, e nessun altro. Speriamo di non dover pagare altri prezzi prima che il gioco, con la scheda elettorale, ritorni di nuovo e finalmente nelle nostre mani.
Via libera ai sopralluoghi dei magistrati a Villa Certosa. La Procura di Tempio ha confermato la notizia pubblicata oggi dal Giornale di Sardegna. Prima ancora che la Corte Costituzionale potesse esprimersi sulla fondatezza del ricorso al segreto di Stato per impedire l'accesso ai magistrati nella sua residenza estiva, il premier, a sorpresa, ha deciso di aprire le porte della Certosa. La comunicazione e' stata inviata da Palazzo Chigi via fax al palazzo di giustizia di Tempio Pausania, alla Consulta e al ministero dell'Interno. Laconico il commento del procuratore capo della Repubblica di Tempio, Valerio Cicalo', secondo il quale la decisione di Berlusconi e' stata presa "per evitare il pronunciamento della Consulta". Il ricorso alla Corte costituzionale era stato avanzato dalla magistratura gallurese che, dopo aver aperto un'inchiesta su presunti abusi commessi nella residenza del premier, si era vista negare l'accesso alla tenuta di Punta Lada. Il Governo oppose il segreto di Stato, motivandolo con la necessita' di individuare una sede alternativa di massima sicurezza per l'incolumita' del presidente del Consiglio. Nonostante le proteste dell'opposizione, il caso non approdo' in Parlamento, dopo che il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copaco) si divise equamente tra favorevoli e contrari al dibattito in aula.
Il Cavaliere e le ville segrete, il manifesto, 19 febbraio 2005
La villa del cactus, illustrata, Dagospia (on line)
La signora Ludmilla si è garbatamente scostata.
Ma queste erano solo apparenze ingannevoli. Come ingannevole deve essere l´impressione, condivisa da tutti gli osservatori, che le celebrazioni di Mosca non abbiano per nulla sciolto il nuovo gelo nelle relazioni russo-americane. L´incontro tra Bush e Putin, assicura Berlusconi, è andato benissimo: glielo hanno detto gli interessati. Del resto è stato il presidente del Consiglio italiano, come ha spiegato lui stesso ai giornalisti (italiani anche loro, per fortuna) ad aver «opportunamente preparato» i due leader. È stato sempre lui, assicura, ad aver ricucito lo strappo che proprio su Yalta sembrava essersi consumato, quando Bush, nel solenne discorso pronunciato a Riga, ha condannato la spartizione del mondo in sfere di influenza decisa a tavolino sessant´anni fa.
Quisquilie, assicura Berlusconi, «è stata una cosa occasionale, la risposta alla domanda di un giornalista, non ci sono diverse interpretazioni».
Così Bush, che in spregio a Yalta e a quella che era la vecchia sfera di influenza sovietica ha infilato la silenziosa tappa di Mosca nel "panino" di una visita in Lettonia e di una in Georgia, due paesi ai ferri corti con la Russia, è partito ieri per Tbilisi dove lo hanno accolto come un liberatore. E Putin, di cui Berlusconi ha garantito a Bush le credenziali democratiche perché «non è un comunista», è andato personalmente a decorare il generale Jaruzelski, quello che prese in potere nella Polonia sovietica per reprimere Solidarnosc. Poi, nel corso dell´incontro con il cancelliere Schroeder, ha promesso l´appoggio della Russia per un seggio tedesco al consiglio di sicurezza dell´Onu che l´Italia sta cercando di scongiurare con tutti i mezzi. Forse Berlusconi non lo aveva "preparato" bene. O forse il russo, pur essendo democratico, non è tanto sveglio è fatica a capire.
In quattro anni da presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi ci aveva abituato alla sua imbarazzante ma quasi sempre innocua megalomania nelle occasioni internazionali in cui rappresenta l´Italia. Un difetto superato solo dalla straordinaria capacità di travisare la realtà dei fatti. L´Europa ancora sogghigna per la sua disastrosa conduzione del semestre di presidenza Ue. Ma se finora il capo del governo aveva bordeggiato sull´abisso dal ridicolo, con le dichiarazioni rilasciate ieri a Mosca ha fatto, come si dice, un netto passo avanti sprofondando dalla commedia alla farsa.
Lo devono aver capito anche i sui «amici». L´atteggiamento di Bush, che gli dà ragione sulle credenziali democratiche di Putin e si dice pronto a "sostenere" il presidente russo come Berlusconi lo sollecitava a fare, segna il passaggio di quella linea sottile che separa la condiscendenza dalla compassione. Un altro lusso che l´America può permettersi e che l´Italia, per ora, deve limitarsi ad invidiarle.