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Il farfallone amoroso gode del suo giorno dell’orgoglio e si riabilita - sempre che ne avesse bisogno - vestendosi e rivestendosi come Leopoldo Fregoli. Occhi lucidi e respiro lungo: tutti felici.

La concorrenza, si sa, non c’è: motivi tecnici. Ballarò spostato a domani, Matrix alla prossima settimana, sono questioni di palinsesto e, dicono da Mediaset, di difficoltà organizzative; la Champions, dove Pippo Inzaghi collabora alla restituzione della grandeur, è confinata in pay e tutto il mondo televisivo - disinteressato agli ultimi giorni di Adolf Hitler su RaiTre - può assistere al trionfo del presidente del fare.

Fregoli, dicevamo: il presidente giardiniere illustra le qualità terapeutiche del fieno steso sul manto erboso; il presidente ingegnere dettaglia sulle costruzioni antisismiche, le doppie piastre, gli «assorbitori di potenza»; puntando gli indici, il presidente architetto deraglia nella plastificazione poiché il quartiere Bazzano, ricostruito a cinque chilometri dall’Aquila, è stato edificato di modo che le case sembrino di epoche diverse, e non «artefatte», e di conseguenza artefatte sono; il presidente designer guida la visita dentro alle case di legno che saranno consegnate con gli armadi - «anche con gli attacca-abiti» - e apre i frigoriferi delucidando sui requisti dell’ultimo modello; il presidente anglofono dice: «People first»; il presidente pater familias ha una pacca per tutti.

E mille e mille presidenti, il presidente anticomunista, il presidente imprenditore che nega le correzioni delle sue reti per favorire gli ascolti del gran ritorno di Porta a Porta, il presidente San Sebastiano trafitto dai dardi della tv pubblica. E infine (per modo di dire) il presidente Tafazzi che non guarda più la tele. Ma in fondo è la serata squillante del governo del fare - non della ciàcola, non della lascivia - in un’elencazione di record che avrebbe mandato in tilt anche un Rino Tommasi, e il terrore sale quando il premier sfodera l’elenco delle opere compiute.

Record, record e record: due mesi per l’asilo Giulia Carnevali (dal nome della giovane progettista morta nel terremoto, e il padre in studio, dignitosissimo, invita a guardare avanti), record; quattro mesi per le casette, record; entro settembre tutti fuori dalle tende, record; i giapponesi, gli americani e gli australiani ci invidiano le tecniche e i tempi, record; Nancy Pelosi che dice a Berlusconi: «Un’impresa del genere per noi negli Stati Uniti sarebbe stata impossibile», record; ho governato più di Alcide De Gasperi, record; ho governato meglio di De Gasperi, record.

E poi la gente, il people, e gli operai, i men at work, che dalla cima delle gru chiamano il presidente a braccia levate: «Silvio! Silvio!». L’uomo vecchio e stanco e barbuto che entra nella casa appena ricevuta e non resiste a un singulto di commozione. La donna col bimbo in braccio che sull’uscio dell’asilo sente la vita che ricomincia. I terremotati in piazza che si guardano attorno e dicono: è un miracolo, un miracolo. Faremo di più, faremo meglio, dice Berlusconi: abbiamo un know how che riproporremo per costruire le carceri, le centodieci città dove le giovani coppie troveranno l’abitazione che non trovano oggi, basta infilare tre turni di otto ore al giorno per ridurre i tempi di due terzi.

Sull’altra parte della barricata resta un povero Stefano Pedica, coordinatore laziale dell’Idv di Antonio Di Pietro, che fa picchetto all’ingresso della sede Rai di via Teulada, ma tanto Berlusconi entra lo stesso. E dentro il sindaco dell’Aquila, Stefano Cialente, cerca soltanto di attutire lo scoppio dei mortaretti. Qualche giornalista propone dei distinguo travolti dall’energica e fluviale parlantina del presidente del Consiglio. Piero Sansonetti si prende la briga di dirne due o tre. Bruno Vespa abbozza un paio di bisticci rapidamente sedati. E’ l’occasione buona per regolare i conti, da presidente pompiere, e per il resto rimangono negli occhi le casette di legno che casette non sono, dice Berlusconi, semmai ville dove a tutti noi piacerebbe abitare. Anche a lui, sembra, al farfallone amoroso che si autodichiara dittatore, scherzando, il narcisetto, ora che non più andrà notte e giorno d’intorno girando delle belle turbando il riposo.

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Stupito, irritato, amareggiato. Il Capo dello Stato ha tutto il diritto di esprimere la propria delusione sulla "rottura annunciata" fra la Rai e Sky che priverà l´azienda pubblica di un ricavo di oltre cinquanta milioni di euro all´anno, in seguito al trasferimento dei canali Raisat su una nuova piattaforma satellitare. E in particolare, ha ragione Giorgio Napolitano a lamentarsi delle modalità con cui è maturato il fallimento della trattativa: una decisione per così dire unilaterale che la direzione generale ha praticamente imposto - come un diktat - a tutto il Consiglio di amministrazione.

In quanto custode e garante della Costituzione, il presidente della Repubblica non può evidentemente disinteressarsi di quel servizio pubblico su cui s´imperniano nel nostro Paese principi fondamentali come il pluralismo e la libertà d´informazione, sanciti solennemente dall´articolo 21. Anzi, con tutto il rispetto che si deve alla sua figura e alla sua persona, è lecito pensare che un intervento più tempestivo sarebbe valso forse a impedire o magari a prevenire un tale esito.

Danno emergente e lucro cessante, avevamo avvertito su questo giornale nelle settimane scorse, mentre già si preparava la rottura. Danno emergente: perché il prossimo bilancio della Rai s´impoverirà di questa cospicua entrata finanziaria e staremo a vedere che cosa avrà da eccepire in proposito la Corte dei Conti. Lucro cessante: perché, oltre a perdere l´audience e quindi la pubblicità raccolta attraverso la pay-tv, ora l´azienda di viale Mazzini dovrà sostenere "pro quota" l´onere della nuova piattaforma di Tivùsat. E tutto ciò, in buona sostanza, per fare un favore o un regalo a Mediaset nella sfida della concorrenza con Sky, come ha riconosciuto – tardivamente – perfino il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Sergio Zavoli.

Si dà il caso, così, che l´ex segretario generale della presidenza del Consiglio, appena trasferito alla direzione della televisione pubblica, non trovi di meglio che confezionare subito un pacco-dono per l´azienda televisiva privata che fa capo allo stesso presidente del Consiglio. Un voto di scambio o una partita di giro, si potrebbe anche dire. Naturalmente, a spese del cittadino contribuente, telespettatore e abbonato alla Rai. Come già a suo carico era stata la multa di oltre 14 milioni di euro inflitta dall´Autorità sulle comunicazioni a viale Mazzini per la nomina dell´ex direttore generale, Alfredo Meocci, insediato alla guida dell´azienda dal centrodestra nonostante la palese incompatibilità con il precedente mandato di commissario nella medesima Authority.

Con buona pace del presidente Garimberti e dei consiglieri di minoranza, siamo dunque alla definitiva subordinazione della Rai agli interessi e alle convenienze di Mediaset. Un´azienda di Stato, la più grande azienda culturale del Paese, che via via si trasforma in una filiale, una succursale, una dépendance del Biscione. Già omologata al ribasso sul modello della tv commerciale, quella della volgarità e della violenza, delle veline e dei reality fasulli, adesso la tv pubblica si allea e si associa con il suo principale concorrente sotto il cielo tecnologico della tv satellitare.

Sarà verosimilmente proprio di fronte a questo scempio che il centrosinistra, risvegliandosi da un lungo e ingiustificabile letargo, s´è deciso finalmente a riproporre con forza la questione irrisolta del conflitto d´interessi: prima, con una dichiarazione di guerra del segretario reggente del Pd, Dario Franceschini, il quale ha annunciato bellicosamente che su questa materia (e speriamo anche su altre) il suo partito non resterà più fermo e silente; poi, addirittura, con una proposta di legge presentata da Walter Veltroni e sottoscritta da tutte le opposizioni, sostenuta dal contributo di un esperto costituzionalista come l´ex presidente della Rai, Roberto Zaccaria. Meglio tardi che mai, dobbiamo ripetere. Ma che cosa avevano fatto nel frattempo Veltroni e Franceschini per risolvere l´anomalia di un presidente del Consiglio che controlla direttamente tre reti televisive private e indirettamente anche le tre reti pubbliche? E pensare che c´è ancora qualche illustre professore che esorta il Pd a emanciparsi dall´influenza di "alcuni giornali" (quanti e quali?), mentre una maggioranza di governo condiziona impunemente giornali, telegiornali e giornali radio.

Nel regno del conflitto d´interessi, la rottura fra la Rai e Sky diventa la prova regina di un´occupazione "manu militari" di tutto il sistema dell´informazione. Un attentato al pluralismo, alla libertà d´opinione. E anche questa, purtroppo, si rischia di apprezzarla solo quando la si perde.

Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.

Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?

Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine". Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).

E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.

Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?

Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.

Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.

Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto.

Questa fotografia è stata ripresa a Berlino qualche giorno fa. Il testo del manifesto è il seguente

Fate attenzione! Chi vota Merkel vota Berlusconi.

Nel parlamento europeo la CDU della Merkel ed il partito populista di destra “Popolo delle libertà” di Berlusconi appartengono ad un’unica formazione, il Partito Popolare Europeo. Solo per pro-memoria: Berlusconi è il boss delle costruzioni e dei media che ancora una volta governa l’Italia calpestandone i diritti democratici”.

É un modo per gli italiani di contribuire alla campagna elettorale europea, tramite la Gioventù socialista tedesca.

A destra la fotografia del manifesto in corso di affissione

C’è un rapporto inversamente proporzionale fra la popolarità di Silvio Berlusconi e la libertà d’informazione nel nostro Paese. E non dev’essere una coincidenza del tutto occasionale.

Mentre il premier-tycoon rivendica pubblicamente - ultimi sondaggi alla mano - di aver raggiunto (per ora) il 75,1 per cento dei consensi e di aver superato così anche il presidente americano "bello e abbronzato", Barack Obama, proprio dagli Stati Uniti arriva la notizia che l’Italia viene declassata per la prima volta da Paese "libero" (free) a "parzialmente libero" (partly free). Siamo l’unico caso nell’Europa occidentale, preceduti di una sola posizione dalla Grecia che però mantiene la valutazione "free". Né può confortare la constatazione di ritrovarci allineati, in questa assai poco edificante classifica, alla Turchia.

A dirlo, non sono però i soliti giornali di sinistra che riescono a ingannare nell’intimità familiare perfino la signora Veronica Lario in Berlusconi. Per ironia del destino, il giudizio sul governo del Popolo della libertà reca l’imprimatur di "Freedom House", la Casa della Libertà, l’organizzazione autonoma americana che esamina dal 1980, cioè da prima della fatidica "discesa in campo", lo stato dell’informazione in 195 Paesi di tutto il mondo. Si tratta, dunque, di una retrocessione su scala planetaria che relega l’Italia al settantatreesimo posto, dopo Benin e Israele.

Qual è esattamente la motivazione? Ecco il testo dell’inappellabile sentenza: "Nonostante l’Europa occidentale goda a tutt’oggi della più ampia libertà di stampa, l’Italia è stata retrocessa nella categoria dei Paesi parzialmente liberi, dal momento che la libertà di parola è stata limitata da nuove leggi, dai tribunali, dalle crescenti intimidazioni subite dai giornalisti da parte della criminalità organizzata e dei gruppi di estrema destra, e a causa dell’eccessiva concentrazione della proprietà dei media". Sono più o meno gli stessi argomenti che fanno scandalo quando li pronuncia Sabina Guzzanti dal palcoscenico, nel suo provocatorio spettacolo di satira e denuncia politica intitolato "Vilipendio".

A conferma poi del fatto che questa non è una mania nostrana né tantomeno un’ossessione, il verdetto di "Freedom House" cita esplicitamente la "concentrazione della proprietà dei media" e quindi la mai abbastanza vituperata legge Gasparri con cui il precedente governo Berlusconi introdusse norme che - secondo l’organizzazione autonoma americana - favoriscono l’azienda televisiva del medesimo Berlusconi. La conclusione, già ampiamente nota ai lettori di questo giornale, è che il nostro presidente del Consiglio possiede Mediaset e, attraverso il governo, controlla anche la Rai.

Per completezza dell’informazione, dobbiamo aggiungere che su un universo di 195 Paesi solo 70 sono classificati "free", pari a poco più di un terzo; 61 sono "parzialmente liberi", come noi; e 64 "non liberi". La situazione è particolarmente peggiorata, oltre che in Italia, nell’Est asiatico, a cominciare dalla Cambogia. Mentre nell’Europa occidentale, a giudizio di "Freedom House", i Paesi più liberi risultano - nell’ordine - l’Islanda al primo posto, poi al secondo la Finlandia e la Norvegia, seguiti da Danimarca e Svezia.

In attesa ora che la crescente popolarità di Berlusconi conquisti anche il residuo 24,9 per cento dei consensi, converrà magari programmare un viaggio verso Nord, ai confini della realtà, per verificare in loco le condizioni effettive della libertà di stampa. Chi vuole, eventualmente, può staccare il biglietto di ritorno anche dopo.

In Rutulia sta diventando un lusso dire le cose come stanno, chiamandole col loro nome: ad esempio, che Leviathan, alias Caimano, abbia circuiti mentali, stile, gusti, look, spiriti animali del gangster; molti lo pensano ma la frase non risuona, così cruda, nei luoghi della parola politica, sebbene sia obbligo morale dirlo quando de re publica agitur, la res publica su cui mette le mani. Stavolta il corrispondente dello «Stylus» racconta discorsi sans gêne colti in privato. S’è fatto consacrare immune, nota uno dei causeurs: qualunque delitto commetta, non è perseguibile; e aveva accumulato enorme fortuna con affari oscuri, campagne piratesche, frode, falso, corruzione. Buttava sul tavolo 20 miliardi d’euro: una briciola rispetto ai profitti lucrabili da chi comandi spesa pubblica, politica monetaria, leva fiscale, azione penale, macchina legislativa; «credete che dica il rosario nel Palazzo o progetti le sue esequie come Carlo V a Yuste?». S’è talmente infiltrato nell’economia rutula da manovrarla come bottega sua, solo che voglia. Può lucrare su tutto, tale essendo l’unica operazione in cui riesca, da maestro. Qui salta fuori uno splendido disegno satirico, dove veste l’abito talare: stola al collo, sorride aprendo mascelle d’alligatore; il berretto d’arciprete è una poltrona. Sarebbe il colmo dell’antinatura, continua l’analista, se a settantatré anni diventasse servitore asceta del bene pubblico, avendo sotto mano un paese da spolpare impunemente. «Guardatelo, che enorme fagocito, compra i colonnelli d’un partito e lo ingoia». Poi l’entretien passa al versante psichico: egomania, loquela enuretica, ipertrofia d’un Io priapesco, autocompianto, deliri; inveisce contro i giudici, chiamandoli malati mentali (meno i corrotti beninteso), o li paragona ai poliziotti assassini della Uno Bianca e invoca verdetti plebiscitari; prende pose da re taumaturgo e consolator afflictorum; nei consessi planetari gode la fama del sinistro buffone. C’è chi perde l’olfatto o l’udito: lui non ha mai posseduto l’organo che discerne vero e falso, né sa cosa significhi decenza; e se acquisisse tali facoltà, perdendo l’impeto mistificatorio, sarebbe la fine dell’impero. Dati i precedenti non stupiscono i gesti criminofili: garantisce l’impunità dei colletti bianchi, purché stiano dalla sua (vedi come assolve i falsari in bilancio o difende gl’impresari edili che frodavano su cemento e ferro in terra sismica); ma chiede poteri abnormi a tutela dell’ordine e appena abbia rimosso le ultime resistenze, lo imporrà pro domo sua, l’ordine che regna a Varsavia, cominciando da pensiero e parola.

Il punto interessante è come gente sveglia nel calcolo degl’interessi abbia potuto assuefarsi allo stato servile in cui la tiene costui. «Codice genetico», risponde l’interlocutore bibliofilo, aprendo un raro incunabolo: Tractato di Frate Hieronimo da Ferrara [...] circa el reggimento et governo della città di Firenze, senza note tipografiche ma l’ha stampato Bartolomeo de’ Libri, 1498; e spiega come sia nato, libello politico in una congiuntura cruciale. L’autore, in rotta con la Corte romana e sotto scomunica, scrive a richiesta dell’ultimo governo bimestrale amico: gli restano poche settimane; è un fondamentalista collerico; formidabile atleta del pulpito, ha commesso degli errori e li aggrava barando; perderà ogni credito ma intellettualmente e in levatura etica soverchia gli avversari. Le venti carte (41 facciate) contengono tre opuscoli. Il capitolo II del secondo è un ritratto del tiranno, sotto vari aspetti attuale.

Il nome indica l’«uomo di mala vita [...] che per forza sopra tutti vuole regnare», gonfio dentro, quindi invidioso. «Gran fantasie, tristizie, timori [...] lo rodono»: ha bisogno d’un divertissement (concetto chiave delle Pensées pascaliane, edite 172 anni dopo); infatti, «rare volte o forse mai» vediamo «tiranno che non sia lussurioso»; e siccome i divertimenti costano, «inordinatamente appetisc[e] la roba, onde ogni tiranno è avaro e ladro», da cui segue che «abbia virtualmente tutti li peccati del mondo». Iracondo, vendicativo, sospettoso, «molto vigilante»: versa in uno stato «che è difficile, anzi impossibile» mantenere indefinitamente, «ed essendo il fine cattivo», lo sono anche i mezzi; atti casualmente buoni conservano «quel perverso stato». In politica segue tre massime: «prima, che li sudditi non intendano cosa alcuna»; seconda, li vuole discordi, «et etiam» i ministri, consiglieri, familiari, così «favorisce una delle parti, la quale tiene l’altra bassa e [lo] fa forte»; terza, non tollera «uomini eccellenti». Gli viene comodo un popolo dalle teste spente, perciò fornisce «spettacoli e feste». «Onora gli adulatori» e «ha in odio chi dice la verità»: coltiva «le amicizie de’ signori e gran maestri forestieri, perché li cittadini reputa suoi avversari e di loro ha sempre paura». Allunga le mani negli affari giudiziari. Col denaro pubblico edifica palazzi e templi, dove appende le sue insegne. Tiene a corte «cantori e cantatrici». S’alleva degli adepti pescando in basso. Espropria campi e case promettendo «il giusto prezzo e poi non ne paga la metà»: lesina la mercede alla servitù; paga i satelliti «con roba d’altri». Formandosi delle solidarietà, «esalta li cattivi uomini» che altrimenti «sariano puniti». Non c’è nomina in cui non metta becco, «insino alli cuochi del palazzo e famigli de’ magistrati». «Tutte le buone leggi» corrompe «con astuzia» e ne «fa continuamente a suo proposito». Ha spie e suggeritori dovunque sia esercitato qualche potere. «E chi sparla di lui, bisogna che si asconda perché lo perseguita [...] insino nelle estreme parti del mondo». Dà «udienza breve e risposte ambigue»: «vuol essere inteso a cenni»; spesso «schernisce gli uomini dabbene». «Vale più un minimo suo polizzino» o la parola d’uno staffiere «che ogni iustizia». Infine, dissemina «ruffiani e ruffiane». «Insomma, sotto il tiranno» non esiste «cosa stabile», dipendono tutte dalla sua volontà. Qui i conversanti discutevano: fin dove l’attuale padrone rutulo sia riconoscibile nel ritratto dipinto da fra’ Girolamo; e quanta impronta servile resti nell’eredità etnica.

Fai ricorso al Tar? Se perdi paghi milioni di euro di «risarcimento danno».

È il destino che potrebbe toccare alle associazioni ambientaliste se passasse la proposta di legge del Pdl, primo firmatario l'onorevole Michele Scandroglio, presentata alla Camera lo scorso 10 marzo. I parlamentari del Popolo della Libertà, pur ammettendo che «le istanze ecologiste hanno contribuito alla crescita di una diffusa attenzione al territorio di riferimento», vedono in questi ultimi anni inaccettabili proteste contro «scelte infrastrutturali sviluppate da soggetti pubblici e privati, tali resistenze sono conosciute con l'acronimo Nimby». E attaccano gli «strumentali» appelli alla magistratura per «fermare i lavori». Insomma, le opere volute dal governo devono andare avanti. A qualsiasi costo. Senza considerare il volere dei cittadini, l'impatto ambientale e le ricadute sulla salute della popolazione.

Per questo la proposta di legge propone la modifica all'articolo 18 della legge numero 349 (quella che regola i diritti delle associazioni riconosciute dal ministero dell'Ambiente) con due commi. Il 5 bis recita: «Qualora il ricorso al Tar sia respinto, ai soggetti soccombenti che hanno agito o resistito in giudizio con malafede o con colpa grave si applicano le disposizioni dell'articolo 96 del codice di procedura civile». Ovvero risarcimento del danno materiale e morale, le spese della sentenza e l'apertura di nuovo procedimento davanti ad un giudice per capire l'entità della "lite temeraria" (in poche parole un'altra sanzione). Poco più blando il 5ter che prevede solo un «risarcimento del danno oltre alle spese del giudizio, qualora il ricorso sia respinto perché manifestamente infondato». La costruzione in Italia di rigassificatori, inceneritori, discariche, alta velocità, discariche e mega-ponti deve avvenire il più presto possibile. «In nome della modernità», per il Pdl.

Intanto gli ambientalisti insorgono vedendo nella proposta di legge presentata un «attentato alla democrazia», una «scelta autoritaria» e «terrorismo per imbavagliare il dissenso». Centinaia sono i ricorsi presentati, molti dei quali vinti: l'ultimo qualche mese fa sull'alta velocità sul tratto Bologna-Firenze, con la condanna dei vertici della Caveat. Altri però vengono persi, come quello di Legambiente che si era appellata al Tar per l'alluvione di Sarno del '98 accusando l'amministrazione di «cattiva gestione». «In quel caso quanti soldi avremmo dovuto tirar fuori?» si domanda un membro della segreteria, Nunzio Cirino, che vede nel governo «tratti dispotici» e auspica «una ferma opposizione parlamentare».

Opposizione nella quale non crede Ciro Pesacane del Forum Ambientalista, che ricorda come già in passato «Berlusconi abbia provato ad imporre le sue infrastrutture con l'invio di militari e la nomina di super-commissari: scelte antidemocratiche che calpestano le volontà popolari». Decisioni "muscolari" per affrontare l'egoistica sindrome Nimby, secondo l'esecutivo. Non la pensa così Cinzia Bottene dei no-Dal Molin. «È un pretesto - accusa - la nostra lotta parla di partecipazione e difesa dei beni comuni ed è in connessione con molte altre realtà nazionali. Nessuna difesa del nostro orticello». Tra l'altro a Vicenza stanno aspettando la sentenza del Tar per un ricorso presentato da Legambiente, Unione consumatori e singoli rappresentanti del comitato. Stessa musica per il ponte sullo Stretto di Messina con Italia Nostra, Wwf e sempre Legambiente che hanno fatto appello per «rivedere» la procedura d'impatto ambientale dell'opera. «La proposta di legge presentata - spiega Daniele Ialacqua dei no-Ponte - è incostituzionale perché discrimina determinati soggetti». Al momento è così: solo le associazioni ambientaliste riconosciute «nazionalmente o almeno in 5 regioni» rientrano nel progetto del Pdl alla Camera ma presumibilmente sarà esteso, in futuro, anche alla decina di comitati territoriali esistenti. A quel punto i ricorsi coinvolti sarebbero migliaia. Per Vanessa Ranieri, presidentessa del Wwf Lazio, il governo «in maniera illegittima toglie uno strumento fondamentale in questi anni per gli ambientalisti».

E di questo è consapevole la maggioranza che va diritto come un treno, forse ad alta velocità, verso le maxi-infrastrutture, imbavagliando qualsiasi opposizione. Comunque le associazioni e i comitati pensano di organizzare «un'azione comune» contro la proposta di legge, nel caso dovesse passare, e di «non farsi intimidire: andremo avanti coi ricorsi».

Tutto rinviato alla settimana prossima. Le Regioni non ci stanno e rifiutano di subire una decretazione d’urgenza che le spogli della sovranità, di recente conquistata, in materia di edilizia. Il primo testo, messo a punto, come le leggi ad personam, dall’avvocato Ghedini è rinviato al mittente. Berlusconi, comunque, ha ripetuto ieri sera che la metà delle abitazioni degli italiani saranno interessate. Che dire? Sembra che, come un soufflé mal riuscito, il piano-casa un giorno si gonfi e l’indomani si sgonfi. Vedremo alla fine cosa ne uscirà: una frittata rimediata con gli avanzi, una maionese impazzita, una torta pasqualina ad alto indice di gradimento? Eppure non è mai stato uno scherzo ma un’idea che ha suscitato, secondo i punti di vista, desolanti angosce paesaggistiche e sfrenate velleità edificatorie.

Ho avuto personalmente il senso di quanto stava accadendo quando un amico architetto mi ha riferito che aveva cominciato a ricevere, dopo il primo annuncio, due o tre richieste al giorno da clienti vecchi e nuovi, interessati a conoscere quali passi intraprendere per moltiplicare spazi abitativi, chiudere verande, soprelevare attici. Anche il felice proprietario di un ultimo piano a piazza Navona si era fatto vivo per sapere come modificare il tetto e costruirvi una terrazza con relativo roof-garden.

Ora sembra che simili attese andranno deluse e che la libertà di ampliamento si spalmerà su 10 milioni di case singole o bifamiliari. Anche se i centri storici saranno risparmiati si tratterà pur sempre di un bombardamento diffuso su gran parte del territorio nazionale, di una esplosione atomica a frammentazione per quanto riguarda l’impatto paesaggistico. Non è detto che questo susciterà proteste di massa.

Piuttosto va analizzata la natura accattivante di una vera e propria provocazione che, proclamando la possibilità di annullare alcuni principi base dell’ordinamento pubblico, si presta a raccogliere un potenziale di consenso di proporzioni difficilmente uguagliabili. Solo affermando la libera noncuranza per ogni regola si poteva, infatti, far lievitare una sicura rispondenza di amorosi sensi tra il leader e il "suo" popolo. Le remore che ha poi incontrato, le obiezioni dei presidenti di Regione, del presidente della Repubblica, di Bossi, anche se costretto a fare buon viso, debbono essergli apparsi qualcosa di vecchio, di conservatore, al limite di incomprensibile. Dalla sua aveva percepito la potenzialità di un arco di consensi che va dai milioni di proprietari di case ai costruttori piccoli e grandi, dai muratori rumeni e italiani, alla ricerca di restauri e ampliamenti di appartamenti agli immobiliaristi liberi di abbattere edifici vetusti e di costruirne di nuovi, dai tanti addetti dell’indotto ai risparmiatori che anelano ad investire nel mattone, dopo il naufragio delle Borse.

Agli effetti della bacchetta magica, foriera di cotanti plausi, vanno aggiunte due prospettive avvincenti: l’avvio di un volano di ripresa economica, sia pure parziale ma, comunque, da non disprezzare con l’aria che tira, e la riprova che, cancellando i pubblici controlli, è possibile rendere veloci le procedure. Se ne derivano danni non resterà che infischiarsene.

Così come se ne sono sempre infischiati sindaci e amministratori regionali disinvolti, palazzinari rapaci, edificatori abusivi, non certo frenati sotto la Prima che la Seconda Repubblica dal timore dello scempio paesaggistico. Agivano, peraltro. contro la legge ma quasi certi di potersi comprare l’immunità e la libertà di devastazione. Spesso in nome del progresso economico contrapposto al conservatorismo delle «anime belle», degli esteti benestanti, degli intellettuali insensibili alle esigenze dello sviluppo. Poi il fatto compiuto avrebbe disarmato il magistrato.

Ma ora il teorema berlusconiano rovescia i termini stessi di questa vecchia dialettica e fornisce la prova scientifica della peculiarità unica dell’avvento di questo singolarissimo personaggio al governo del nostro Paese.

Il tempo trascorso dalla sua discesa in campo si avvicina ormai al ventennio e permette di adombrare il delinearsi di un’epoca storica, a somiglianza di quelle del passato, l’epoca post risorgimentale, l’epoca giolittiana, quella fascista, e, poi, la democristiana e consociativa. Cosa distingue, a mio avviso, l’epoca di Berlusconi da tutte le altre? Il fatto che in tutte le precedenti, fossero ispirate all’assolutismo, al liberalismo, al nazionalismo, al cattolicesimo, al riformismo democratico, in tutte queste epoche, l’operato dei governi esprimeva un livello di mediazione, culturale ancor prima che politica, tendente a raggiungere un equilibrio tra interesse collettivo e quello dei singoli. In definitiva un’idea di una Nazione, ordinata da regole, pur diversamente ispirate od anche esprimenti una egemonia delle classi dominanti, che, tuttavia, aspirava a presentarsi come portatrice di del bene comune.

Così si alternavano i valori - dal nazionalismo imperial rurale del fascismo al solidarismo interclassista con garanzia atlantica del cattolicesimo democratico - ma non veniva meno l’ambizione ad esprimere, attraverso l’arte della politica, le aspirazioni della collettività nazionale.

Al contrario solo con Berlusconi trionfa l’antipolitica come pratica ed ideologia di governo al servizio degli interessi dei singoli e degli aggregati che gravitano attorno all’individuo (famiglia, gruppo di appartenenza, coagulo localistico). Quel che fino a ieri costituiva reato è oggi atto meritorio. Scompare anche il senso di colpa dello speculatore.

Da questo punto di vista la legge edilizia potrebbe segnare un trionfo della filosofia berlusconiana che coniuga l’identità fra l’arte del governare e l’ideologia della piccola impresa padana: se l’impresa è mia è giusto che governi io, che scelga il prodotto di successo, che detti le regole a me più congeniali. Se qualcuno vuole sostituirmi faccia pure, lanci un’Opa, s’impadronisca del pacchetto azionario di maggioranza. Nel frattempo non rompa i c....; non rivendichi equilibri di potere all’interno della "sua" impresa, non caldeggi prodotti alternativi. Il Cavaliere è convinto che tale sia il liberalismo.

Cosa importa, quindi, se si dissolve una eredità culturale che vedeva nella tutela del paesaggio urbano e rurale un valore inalienabile per il presente e per il futuro, se viene cancellata ogni ambizione urbanistica a un disegno di città in cui modernità e tradizione convivessero secondo regole etiche ed estetiche, fossero ispirate da Giuseppe Bottai o da Giovanni Spadolini, da Piacentini o da Piano?

Conta assai di più ciò a cui aspira ogni cittadino come singolo individuo e Berlusconi sa bene di interpretare milioni di singoli cittadini, guidati dal buon senso dell’interesse immediato e non da una ricerca inutile, lenta, dispersiva del bene comune.

Lo ribadirà la settimana prossima ai governatori. Bando alle ciance. Si metta mano al piccone e si dia il via alla colata di cemento. E, visto che si celebra quest’anno il centenario del Futurismo, potrebbe proporre, non più come provocazione ma come manifesto politico, quel proclama marinettiano contro Venezia e il chiaro di luna che vaticinava tra l’altro: «Il tuo Canal Grande allargato e scavato, diventerà fatalmente un gran porto mercantile. Treni e tramvai lanciati per le grandi vie costruite sui canali finalmente colmati vi porteranno cataste di mercanzie, tra una folla sagace, ricca e affaccendata d’industriali e commercianti... Non urlate contro la pretesa bruttezza delle locomotive dei tramvai degli automobili e delle biciclette in cui noi troviamo le prime linee della grande estetica futurista».

Non so perché solo Radio Radicale e Marco Pannella abbiano continuato a denunciare un colpo di mano di Berlusconi che, in apparenza, sembra più piccolo e marginale dei fatti distruttivi di questi giorni. Mi riferisco alle elezioni regionali in Sardegna. Ecco come l’inviato di Radio Radicale riassume, la mattina del 13 febbraio, ultimo giorno utile della campagna elettorale nell’isola, i dati di esposizione mediatica di questa ultima settimana: un’ora e 29 minuti dedicata a ciò che ha da dire Berlusconi e (in parte minima) il suo candidato Cappellacci. Un minuto e 59 secondi per Soru e per il Pd. La denuncia diventa più grave se la colleghiamo con un periodo d’intensa esposizione mediatica del presidente del Consiglio, circondato da quella dei suoi uomini, disposti a tutto quando si tratta di rendere impossibile il confronto democratico.

Se potessimo, dopo aver vissuto questi giorni di caos politico, rivedere la drammatica sequenza appena attraversata con l’espediente cinematografico di allargare l’inquadratura, ci accorgeremmo che, nell’ampio e rapido piano-sequenza che si è appena concluso, il dominio assoluto conquistato da Berlusconi nel quasi silenzio di tutti, in questa campagna elettorale, compare e ricompare come in un flash stroboscopico, accanto alla battaglia, solo apparentemente "ideale" e di "valori", della tormentata sequenza Englaro.

Non vorrei dare l’impressione di svilire la persuasione di chi si è sinceramente schierato dalla "parte della vita", definizione gravemente impropria però in buona fede per molti. Un atteggiamento di disprezzo di questo genere lo lasciamo a personaggi che, d’ora in poi, resteranno legati a ciò che hanno detto in Senato su "Eluana Englaro morta ammazzata" e sulle "mancate firme" assassine, personaggi come Quagliariello e Gasparri.

Resta il fatto che una prova elettorale essenziale per l’ultimo sigillo di Berlusconi al suo potere ormai solo formalmente democratico, una prova elettorale che, d’altra parte, potrebbe segnare il ritorno di iniziativa del Partito democratico, tale prova si è svolta tra due gravi e preordinati ostacoli.

Uno è stato il gioco abile di impedire l’agibilità della Commissione di Vigilanza cui spetta di dettare le regole mediatiche di un confronto elettorale. Il gioco ha richiesto errori di giudizio e di intervento di molte parti in causa ed è, senza dubbio, un gioco vinto da Berlusconi.

Buio alla Putin sulla campagna elettorale dell’avversario di Berlusconi, anche se quel buio è stato garantito dalla volenterosa collaborazione delle libere fonti di informazione della Rai.

Un altro ostacolo è stata la visibilità che Berlusconi si è assicurato con il suo efficace blitz intorno a un cadavere. La stessa persona che - sullo schermo piccolo - stava sfidando in modo insultante e incontrastato un avversario politico locale (avendo notato, nel suo gioco ben coordinato, l’importanza simbolica di vincere o perdere in Sardegna), quella stessa persona, Capo del governo e leader del partito dominante, ha prontamente interrotto in modo deliberatamente spettacolare l’apparente intesa e armonia con il Quirinale.

Ha interrotto, con altrettanta spettacolarità, ogni finto rispetto per la Costituzione e, nello stesso tempo, si è fatto notare come il candidato unico dei "valori cristiani". Come nei concitati eventi religiosi dell’antico Mezzogiorno italiano, alcuni uomini di Berlusconi sono entrati nella flagellante confusione della mischia accusando Napolitano e Beppino Englaro di essere i "boia" di una giovane donna in coma da diciassette anni.

Come nelle processioni, sono sembrati in preda a raptus emotivo ma in realtà avevano provato e riprovato la scena, misurando tutta la portata intimidatoria e distruttiva di ciò che stavano gridando.

A questo punto è intervenuto il ministro della Giustizia Alfano che ha messo il suo autorevole sigillo alla vicenda. Ha detto, in ora di massimo ascolto televisivo, "Eluana Englaro è morta di sentenza". Il gesto, apparentemente privo di responsabilità e di decoro da parte di un ministro della Giustizia, è stato invece attentamente calcolato come culmine di un controllo mediatico preordinato per dominare un’elezione, occupare in modo dirompente la scena, provocare uno scontro di Istituzioni e segnare un percorso senza ritorno: o guerra distruttiva o resa senza condizioni.

L’arma del delitto è il dominio mediatico finalmente incontrastato. Ammettiamolo: i Radicali, che non hanno mai distolto l’attenzione da questo punto, l’avevano detto.

Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità… La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti.
Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme”.
Norberto Bobbio

Primi firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Gae Aulenti, Umberto Eco, Claudio Magris, Guido Rossi, Sandra Bonsanti, Giunio Luzzatto, Simona Peverelli, Elisabetta Rubini, Salvatore Veca.

L’APPELLO

Rompiamo il silenzio. Mai come ora è giustificato l’allarme. Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti. Quando i legami sociali sono messi a rischio, non stupiscono le idee secessioniste, le pulsioni razziste e xenofobe, la volgarità, l’arroganza e la violenza nei rapporti tra gli individui e i gruppi. Preoccupa soprattutto l’accettazione passiva che penetra nella cultura. Una nuova incipiente legittimità è all’opera per avvilire quella costituzionale. Non sono difetti o deviazioni occasionali, ma segni premonitori su cui si cerca di stendere un velo di silenzio, un velo che forse un giorno sarà sollevato e mostrerà che cosa nasconde, ma sarà troppo tardi.

Non vedere è non voler vedere. Non conosciamo gli esiti, ma avvertiamo che la democrazia è in bilico.

Pochi Paesi al mondo affrontano l’attuale crisi economica e sociale in un decadimento etico e istituzionale così esteso e avanzato, con regole deboli e contestate, punti di riferimento comuni cancellati e gruppi dirigenti inadeguati. La democrazia non si è mai giovata di crisi come quella attuale. Questa può sì essere occasione di riflessione e rinnovamento, ma può anche essere facilmente il terreno di coltura della demagogia, ciò da cui il nostro Paese, particolarmente, non è immune.

La demagogia è il rovesciamento del rapporto democratico tra governanti e governati. La sua massima è: il potere scende dall’alto e il consenso si fa salire dal basso. ll primo suo segnale è la caduta di rappresentatività del Parlamento. Regole elettorali artificiose, pensate più nell’interesse dei partiti che dei cittadini, l’assenza di strumenti di scelta delle candidature (elezioni primarie) e dei candidati (preferenze) capovolgono la rappresentanza. L’investitura da parte di monarchie o oligarchie di partito si mette al posto dell’elezione. La selezione della classe politica diventa una cooptazione chiusa. L’esautoramento del Parlamento da parte del governo, dove siedono monarchi e oligarchi di partito, è una conseguenza, di cui i decreti-legge e le questioni di fiducia a ripetizione sono a loro volta conseguenza.

La separazione dei poteri è fondamento di ogni regime che teme il dispotismo, ma la demagogia le è nemica, perché per essa il potere deve scorrere senza limiti dall’alto al basso. Così, l’autonomia della funzione giudiziaria è minacciata; così il presidenzialismo all’italiana, cioè senza contrappesi e controlli, è oggetto di desiderio.

Ci sono però altre separazioni, anche più importanti, che sono travolte: tra politica, economia, cultura, e informazione; tra pubblico e privato; tra Stato e Chiesa. L’intreccio tra questi fattori della vita collettiva, da cui nascono collusioni e concentrazioni di potere, spesso invisibili e sempre inconfessabili, è la vera, grande anomalia del nostro Paese. Economia, politica, informazione, cultura, religione si alimentano reciprocamente: crescono, si compromettono e si corrompono l’una con l’altra. I grandi temi delle incompatibilità, dei conflitti d’interesse, dell’etica pubblica, della laicità riguardano queste separazioni di potere e sono tanto meno presenti nell’agenda politica quanto più se ne parla a vanvera.

Soprattutto, il risultato che ci sta dinnanzi spaventoso è un regime chiuso di oligarchie rapaci, che succhia dall’alto, impone disuguaglianza, vuole avere a che fare con clienti-consumatori ignari o imboniti, respinge chi, per difendere la propria dignità, non vuole asservirsi, mortifica le energie fresche e allontana i migliori. È materia di giustizia, ma anche di declino del nostro Paese, tutto intero.

Guardiamo la realtà, per quanto preoccupante sia. Rivendichiamo i nostri diritti di cittadini. Consideriamo ogni giorno un punto d’inizio, invece che un punto d’arrivo. Cioè: sconfiggiamo la rassegnazione e cerchiamo di dare esiti allo sdegno.

Che cosa possiamo fare dunque noi, soci e amici di Libertà e Giustizia? Possiamo far crescere le nostre forze per unirle alle intelligenze, alle culture e alle energie di coloro che rendono vivo il nostro Paese e, per amor di sé e dei propri figli, non si rassegnano al suo declino. Con questi obiettivi primari.

Innanzitutto, contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo. Nelle condizioni politiche attuali del nostro Paese, esse sarebbero non strumenti di efficienza della democrazia ma espressione e consolidamento di oligarchie demagogiche.

Difendere la legalità contro il lassismo e la corruzione, chiedendo ai partiti che aspirano a rappresentarci di non tollerare al proprio interno faccendieri e corrotti, ancorché portatori di voti. Non usare le candidature nelle elezioni come risorse improprie per risolvere problemi interni, per ripescare personaggi, per pagare conti, per cedere a ricatti. Promuovere, anche così, l’obbligatorio ricambio della classe dirigente.

Non lasciar morire il tema delle incompatibilità e dei conflitti d’interesse, un tema cruciale, che non si può ridurre ad argomento della polemica politica contingente, un tema che destra e sinistra hanno lasciato cadere. Riaffermare la linea di confine, cioè la laicità senza aggettivi, nel rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica, indipendenti e sovrani “ciascuno nel proprio ordine”, non appartenendo la legislazione civile, se non negli stati teocratici, all’ordine della Chiesa.

Promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali.

Sono obiettivi ambiziosi ma non irrealistici se la voce collettiva di Libertà e Giustizia potrà pesare e farsi ascoltare. Per questo chiediamo la tua adesione.

Firmate sul sito Libertà e Giustizia

Per la prima volta nella vita di questa Repubblica libera, democratica e garantita dalla Costituzione il potere esecutivo, per iniziativa del presidente del Consiglio, ha deciso di abolire una sentenza legittima, definitiva, non modificabile della giurisdizione italiana al suo più alto livello.

Il Capo dello Stato ha fatto sapere al governo che l’atto sarebbe stato incostituzionale, e ciò per ragioni obiettive, palesi, verificabili nella nostra Costituzione e tipiche di ogni ordinamento democratico. Il governo ha deciso di ignorare l’obiezione. Il presidente della Repubblica, in nome della Costituzione di cui è garante, non ha firmato il decreto del governo. Ciò determina una situazione senza precedenti nella vita giuridica e politica italiana.

Il governo Berlusconi ha deciso di aggravarla annunciando che, in luogo del decreto, presenterà una legge, chiedendo al Parlamento di votarla subito. La legge, anche se approvata, avrà la stessa natura anti-costituzionale del decreto. Tutto ciò su una materia immensamente delicata come la condizione di Eluana Englaro , con una violenta invasione di campo nel dolore di una famiglia e nei diritti civili delle persone coinvolte.

Sentiamo perciò il dovere di essere accanto al presidente della Repubblica, custode e garante della Costituzione. Chiediamo agli italiani di unirsi intorno al Capo dello Stato e alla Costituzione in questo grave momento nella vita della Repubblica.

Firma sul sito dell’Unità

Il caso Englaro appassiona molto la gente poiché pone a ciascuno di noi i problemi della vita e della morte in un modo nuovo, connesso all´evolversi delle tecnologie.

Interpella la libertà di scelta di ogni persona e i modi di renderla esplicita ed esecutiva. Coinvolge i comportamenti privati e le strutture pubbliche in una società sempre più multiculturale. Quindi impone una normativa per quanto riguarda il futuro che garantisca la certezza di quella scelta e ne rispetti l´attuazione.

Ma il caso Englaro è stato derubricato l´altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza. Non ci poteva essere operazione più spregiudicata e più lucidamente perseguita.

Condotta in pubblico davanti alle televisioni in una conferenza stampa del premier circondato dai suoi ministri sotto gli occhi di milioni di spettatori.

Non stiamo ricostruendo una verità nascosta, un retroscena nebuloso, una opinabile interpretazione. Il capo del governo è stato chiarissimo e le sue parole non lasciano adito a dubbi. Ha detto che «al di là dell´obbligo morale di salvare una vita» egli sente «il dovere di governare con la stessa incisività e rapidità che è assicurata ai governanti degli altri paesi». Gli strumenti necessari per realizzare quest´obiettivo indispensabile sono «la decretazione d´urgenza e il voto di fiducia»; ma poiché l´attuale Costituzione semina di ostacoli l´uso sistematico di tali strumenti, lui «chiederà al popolo di cambiare la Costituzione».

La crisi economica rende ancor più indispensabile questo cambiamento che dovrà avvenire quanto prima.

Non ci poteva essere una spiegazione più chiara di questa. Del resto non è la prima volta che Berlusconi manifesta la sua concezione della politica e indica le prossime tappe del suo personale percorso; finora si trattava però di ipotesi vagheggiate ma consegnate ad un futuro senza precise scadenze. Il caso Englaro gli ha offerto l´occasione che cercava.

Un´occasione perfetta per una politica che poggia sul populismo, sul carisma, sull´appello alle pulsioni elementari e all´emotività plebiscitaria.

Qui c´è la difesa di una vita, la commozione, il pianto delle suore, l´anatema dei vescovi e dei cardinali, i disabili portati in processione, le grida delle madri. Da una parte. E dall´altra i «volontari della morte», i medici disumani che staccano il sondino, gli atei che applaudono, i giudici che si trincerano dietro gli articoli del codice e il presidente della Repubblica che rifiuta la propria firma per difendere quel pezzo di carta che si chiama Costituzione.

Quale migliore occasione di questa per dare la spallata all´odiato Stato di diritto e alla divisione dei poteri così inutilmente ingombrante? Non ha esitato davanti a nulla e non ha lesinato le parole il primo attore di questa messa in scena. Ha detto che Eluana era ancora talmente vitale che avrebbe potuto financo partorire se fosse stata inseminata. Ha detto che la famiglia potrebbe restituirla alle suore di Lecco se non vuole sottoporsi alle spese necessarie per tenerla in vita.

Ha detto che i suoi sentimenti di padre venivano prima degli articoli della Costituzione. E infine la frase più oscena: se Napolitano avesse rifiutato la firma al decreto Eluana sarebbe morta.

Eluana scelta dunque come grimaldello per scardinare le garanzie democratiche e radunare in una sola mano il potere esecutivo e quello legislativo mentre con l´altra si mette la museruola alla magistratura inquirente e a quella giudicante.

Questo è lo spettacolo andato in scena venerdì. Uno spettacolo che è soltanto il principio e che ci riporta ad antichi fantasmi che speravamo di non incontrare mai più sulla nostra strada.

* * *

Ci sono altri due obiettivi che l´uso spregiudicato del caso Englaro ha consentito a Berlusconi di realizzare.

Il primo consiste nella saldatura politica con la gerarchia vaticana; il secondo è d´aver relegato in secondo piano, almeno per qualche giorno, la crisi economica che si aggrava ogni giorno di più e alla quale il governo non è in grado di opporre alcuna valida strategia di contrasto. Dopo tanto parlare di provvedimenti efficaci, il governo ha mobilitato 2 miliardi da aggiungere ai 5 di qualche settimana fa. In tutto mezzo punto di Pil, una cifra ridicola di fronte ad una recessione che sta falciando le imprese, l´occupazione, il reddito, mentre aumentano la pressione fiscale, il deficit e il debito pubblico. Di fronte ad un´economia sempre più ansimante, oscurare mediaticamente per qualche giorno l´attenzione del pubblico depistandola verso quanto accade dietro il portone della clinica «La Quiete» dà un po´ di respiro ad un governo che naviga a vista.

Quando crisi ingovernabili si verificano, i governi cercano di scaricare le tensioni sociali su nemici immaginari. In questo caso ce ne sono due: la Costituzione da abbattere, gli immigrati da colpire «con cattiveria».

Il Vaticano si oppone a quella «cattiveria» ma ciò che realmente gli sta a cuore è mantenere ed estendere il suo controllo sui temi della vita e della morte riaffermando la superiorità della legge naturale e divina sulle leggi dello Stato con tutto ciò che ne consegue. Le parole della gerarchia, che non ha lesinato i complimenti al governo ed ha platealmente manifestato delusione e disapprovazione nei confronti del capo dello Stato ricordano più i rapporti di protettorato che quelli tra due entità sovrane e indipendenti nelle proprie sfere di competenza. Anche su questo terreno è in atto una controriforma che ci porterà lontani dall´Occidente multiculturale e democratico.

* * *

Nel suo articolo di ieri, che condivido fin nelle virgole, Ezio Mauro ravvisa tonalità bonapartiste nella visione politica del berlusconismo. Ha ragione, quelle somiglianze ci sono per quanto riguarda la pulsione dittatoriale, con le debite differenze tra i personaggi e il loro spessore storico.

Ci sono altre somiglianze più nostrane che saltano agli occhi. Mi viene in mente il discorso alla Camera di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, cui seguirono a breve distanza lo scioglimento dei partiti, l´instaurazione del partito unico, la sua identificazione con il governo e con lo Stato, il controllo diretto sulla stampa. Quel discorso segnò la fine della democrazia parlamentare, già molto deperita, la fine del liberalismo, la fine dello Stato di diritto e della separazione dei poteri costituzionali.

Nei primi due anni dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva conservato una democrazia allo stato larvale. Nel novembre del ´22, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, aveva esordito con la frase entrata poi nella storia parlamentare: «Avrei potuto fare di quest´aula sorda e grigia un bivacco di manipoli».

Passarono due anni e non ci fu neppure bisogno del bivacco di manipoli: la Camera fu abolita e ritornò vent´anni dopo sulle rovine del fascismo e della guerra.

In quel passaggio del 3 gennaio ´25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.

Alcuni (pochi) resistettero con intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.

Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.

Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel «rinsavimento» sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione. Sui problemi della sicurezza e della giustizia la divaricazione tra la maggioranza e le opposizioni è ormai incolmabile. Sulla riforma della Costituzione il territorio è stato bruciato l´altro ieri.

E tutto è sciaguratamente avvenuto sul «corpo ideologico» di Eluana Englaro. Non ci poteva essere uno scempio più atroce.

È stato già detto che la crisi di Lampedusa e gli stupri di Roma sono il segno del fallimento delle politiche del governo. Credo che siano qualcosa di più e di peggio: la prova di un deficit - culturale, prima che politico - nel governo di fenomeni complessi e moderni, come l’immigrazione e la sicurezza.

Sono temi (immigrazione e sicurezza) che, frullati insieme, banalizzati con messaggi ripetuti all’infinito, eccitati con emotività in una campagna elettorale, possono anche annullare ogni pensiero e razionalità. Alla prova del governo, quelle criticità impongono però intelligenza delle cose e delle soluzioni, capacità di costruire condizioni di consenso internazionale e domestico. Concrete e realistiche politiche pubbliche e non pessima pubblicità di un giorno.

Immigrazione e sicurezza, si sa, dovevano essere i cavalli di battaglia del governo. Berlusconi, all’esordio del suo governo, ha presto voluto far sapere di voler «dare risposte all’insicurezza dei cittadini»; di voler «decidere» presto e subito con una rosa di provvedimenti con forza di legge che hanno separato, nei primi cento giorni, lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l’ordine giuridico dalla vita. Si è creato un «vuoto del diritto» che ha sospeso le norme e trasformato il diritto in un dispositivo di governo manipolabile secondo necessità. Da questa cultura dello «stato d’eccezione» è nata una militarizzazione delle città che declina le ragioni dello Stato con l’esibizione, la forza, le armi. E’ da un immaginato e truccato «stato d’emergenza» perenne che è stato partorito il «diritto penal-amministrativo della diseguaglianza» scritto per fronteggiare le ondate migratorie (immigrazione clandestina come reato, impronte ai rom). Le conseguenze di queste scelte le abbiamo sotto gli occhi. Con i numeri: l’ottanta per cento in più di sbarchi.

La realtà della vita, la violenza degli stupratori o la disperazione dei migranti, hanno dimostrato l’inefficacia dell’azione del governo. Berlusconi non se ne cura, come si vede. E’ ancora in campagna elettorale. Questa volta in Sardegna (presto per Europee e amministrative). Minimizza la crisi di Lampedusa e le sue ragioni. Per cancellare gli stupri di Roma, rilancia la militarizzazione delle città moltiplicando per dieci i soldati che vedremo agli angoli delle piazze, nei centri storici delle nostre città (solo lì, li vedi).

La manovra pubblicitaria, buona per i tiggì della sera, non riuscirà a nascondere anche nel breve periodo gli errori culturali, e quindi politici, dell’esecutivo. Lo si osserva ormai anche nelle file della destra quando si confrontano i passi di Berlusconi con le iniziative di Brown, Zapatero, Merkel e Sarkozy. Anche ai settori più liberali della destra appare «incomprensibile la scelta di delegare totalmente alla Lega la gestione governativa dell’immigrazione esercitata solo e unicamente sul fronte dei clandestini e dell’ordine pubblico e totalmente latitante sul fenomeno riformista del modello di integrazione degli immigrati» (Carlo Panella). E’ una politica che mette in rotta di collisione il governo con tutti e, per dirla con le parole dell’Osservatore romano, «accentua tendenze di chiusura autarchica e di arroccamento sociale». Il governo oggi può vantare conflitti con il mondo cattolico e anche con il Vaticano, con l’Europa, con l’Onu, con le organizzazioni umanitarie e la prassi giuridica dei diritti fondamentali dell’uomo (più volte la commissione e il parlamento europei sono intervenuti contro le tracce xenofobe dei provvedimenti di palazzo Chigi). La scelta del governi trascura – con una mossa che sta tra l’arroganza e il pressapochismo – come lo strumento penale (detenzione, carcere, espulsione) può essere soltanto un tassello (spesso non il più rilevante) di una politica migratoria che deve accordare intese sovranazionali, urgenze umanitarie, equilibrio tra flussi migratori e mercato del lavoro, tenuta dell’ordine pubblico, rapporti internazionali con gli Stati di origine. A questo intrigato nodo di questioni, il governo invece sa rispondere (e, a quanto pare, intende ancora rispondere) con la spada, con discipline che producono soltanto irregolarità e la convinzione, tra gli immigrati dell’Africa subsahariana, come sono le migliaia di prigionieri a Lampedusa, che «emigrare legalmente sia impossibile e che l’unica via sia quella irregolare, cui seguirà una sanatoria».

C’è un segno dilettantesco e irresponsabile nell’azione di governo. E’ dilettantesco non comprendere come l’illusione penalistica, gli spot televisivi, lo sfoggio di soldati e di armi, il recinto dei nuovi campi di concentramento chiamati centri di identificazione, oscurino un’Italia multiculturale che è già realtà concreta nelle città, nelle scuole, in fabbrica, nell’economia, nelle famiglie dove gli immigrati, se si contano anche gli irregolari, sono ormai quattro milioni. E’ irresponsabile nascondere al Paese che l’immigrazione è e sarà un fenomeno strutturale. Per tre o quattro motivi che il Berlusconi tace al Paese rinunciando a governarne gli esiti. Si nasce poco. Si vive più a lungo (e il lavoro straniero sostituisce un welfare debole e avaro). La nostra industria è assai poco tecnologica e ha bisogno di braccia che non ci sono. Il mondo, al di là del mare, è così povero e disperato che non saranno né i paracadutisti della Folgore né il codice penale a trattenerlo sull’altra sponda. Sono problemi che impongono una cultura di governo che Berlusconi non mostra di avere. Il mago delle lanterne magiche pensa sempre che una buona pubblicità trasmessa in prime time possa risolvere qualsiasi problema. Se non dovesse essere sufficiente questa routine, si può sempre evocare, a proposito di intercettazioni, «il più grande scandalo dello storia della Repubblica» e correggere l’agenda dell’attenzione pubblica. Ma fino a quando il gioco potrà seppellire la realtà e l’incompetenza?

A proposito di sicurazza: per gli avvenimnenti recenti a Roma vedi l'articolo di Paolo Berdini, per la sicurezza nelle città vedi l'intervento "Paura in città" di Edoardo Salzano

12 dicembre 2008
L’Italia del leviatano

L’ammalato grave era l’Impero ottomano, poi s’ammala l’absburgico, d’un morbo letale: affondano tutt’e due; da anni versa in allarmante climaterio la Rutulia, paese piccolo, ormai quasi trascurabile (quarantesimo nella graduatoria dello sviluppo economico planetario, dopo Estonia e Thailandia), ma trascina resti d’antiche glorie. «Stylus» (rivista chic, sognata da Edgar Allan Poe) vuol sapere cosa succede, ed ecco le notizie. Cominciamo dal 26 gennaio 1978. L’ambiente soffre d’una tabe organica: la pianta uomo ne produce d’assai dotati; altrove riuscirebbero benissimo; qui soccombono perché ab immemorabili ordiscono la tela consorterie parassitarie, donde micidiali selezioni negative (remote anamnesi chiamano in causa la mancata riforma religiosa e un cinico ateismo clericocratico). Organi vitali risultano guasti: sotto maschera santimoniosa una società segreta criminal-massonica infesta servizi segreti, ministeri, banche, editoria; e quel giovedì riceve un ancora poco noto impresario edile la cui fortuna presenta aspetti bui. I dignitari l’accolgono col solito rituale, spada e guanti bianchi. Chiamiamolo Leviathan, nome d’un coccodrillo. Nel dialogo del Creatore con Giobbe è una meraviglia del creato: veste squame invulnerabili, starnuta fuoco, spaventa gli angeli; impersona una potenza infraumana. Ai caimani, formidabili nell’anima sensitiva, manca l’intellettiva: non ne hanno bisogno, tanto perfetta è la macchina biofisica coordinata alle pulsioni, né patiscono conflitti interni; il loro cervello ignora i valori (vero, buono, bello), nel cui faticoso studio l’animale fornito d’intelletto spende tanto tempo con profitto esiguo o addirittura in perdita.

Questo neofita d’una compagnia losca stava sommerso ed erompe nel mercato delle televisioni commerciali affossando i concorrenti. L’irresistibile ascesa ricorda le mosse con cui l’alligatore avvista, punta, azzanna le prede. Ha tre gole, come il lupo d’una favola, e stomaco senza fondo: parla, ride, canta, stordendo chi l’ascolta; nel suo lessico, «vero», «buono», «bello» significano «roba da inghiottire». Questo meccanismo biologico gli assicura atouts determinanti nelle partite rutule, fuori delle quali i colpi gli riescono male: Satanasso teme l’acqua santa; lui sparisce dove vigano regole applicate sul serio. Indenne da freni morali, percepisce solo bisogni e li soddisfa nella massima misura, al minimo costo: non rispetta nessuno; imbroglia i diavoli; prende Domineddio sotto gamba; se il caso lo richiede, delinque impunito, truccando i giudizi. Definiamolo Napoleone dei lucri mediante furberia, frode, plagio.

Monopolista delle televisioni commerciali, in quasi trent’anni abbassa inesorabilmente i livelli intellettuali e del gusto allevando masse in stato d’ipnosi: confondono reale e virtuale; gli credono qualunque cosa dica; perso l’uso del pensiero, chi l’avesse, ripetono formule elementari somministrate dall’organo d’una manutenzione collettiva dei cervelli; parole-esca scatenano corti circuiti emotivi, ad esempio, la paura degl’inesistenti «comunisti». Sia chiaro: in stregoneria moderna è un capolavoro; e se lo combina nel modo più naturale, sfogando puri riflessi, mentre l’animale pensante, sensibile all’aculeo morale, dubita, esita, soffre, fatica, lungo vie tortuose quanto brevi sono le sue. È una forza essere monco d’alcune costose qualità umane. Tipico animal impoliticum: il politico capisce l’avversario, commisura gl’interessi, coglie i lati delle questioni, scova punti d’intesa, presupponendo che le regole vincolino e violarle sia atto indegno; Leviathan ascolta e vede solo l’enorme Ego. Esce dall’utero d’un regime corrotto: caduto il quale, ne prende il posto, avendo larga riserva elettorale nel pubblico televisivo; schiera uomini dell’azienda, tutti uguali; raccoglie dei superstiti e i soliti cercatori d’ingaggio; viene anche qualche sciabola libera, male accolta perché lì dentro vale uno slogan della guerra civile spagnola («Abajo la Inteligencia», grida José Millan Astray y Terreros, generale necrofilo, in faccia al malinconico umanista Miguel de Unamuno).

Forte dell’ordigno con cui entra nelle teste, vince, perde due anni dopo, rivince, governa male, perde ancora d’una minima misura, infine rioccupa i luoghi del potere, risoluto a goderselo almeno diciannove anni (ne ha settantadue); e subito si proclama immune dalla giurisdizione penale, qualunque sia l’ipotetico delitto, passato o futuro. Nel mondo evoluto la Rutulia è l’unico paese dove potesse accadere. Leviathan regola l’anima ai sudditi con le lanterne magiche che gli portano soldi a palate: vanta un patrimonio illo tempore stimato in ventimila milioni d’euro; ed è impossibile che questa lunga coda non s’insinui nelle decisioni governative. Stravaganze da Nave dei Folli: i Rutuli gliele concedono; nei sei anni dei loro governi gli attuali oppositori stavano col cappello in mano davanti all’Impero. Era prevedibile che Leviathan governasse male: non è il suo mestiere; l’arte dell’arricchirsi in frode alle norme istupidendo armenti umani ha poco da spartire con la scienza laboriosamente praticata da Cavour, Giolitti, De Gasperi. I mangiatori del papavero via etere pensavano che, così abile nel coltivare i suoi interessi, beneficasse tutti: nossignori, diventa ancora più ricco provvedendo a se stesso; il resto va secondo le lune. Ne sopravviene una nerissima nella notte della recessione planetaria. Qui appare inetto in forme sbalorditive. Dapprima nega il pericolo: mandino al diavolo i beccamorti predicanti sventura; le cose vanno bene; «siete ricchi, giovani, belli» (nel suo vangelo i vecchi hanno diritto a chiome finte e dentiere scintillanti, ma sinora i soli beneficiari del favore governativo sono scuole confessionali e gl’insegnanti di religione nella scuola statale). Quando la res publica corre pericolo, gli statisti chiedono sforzi collettivi. Agl’Inglesi rimasti soli contro Hitler, Winston Churchill prospetta lacrime, sudore, sangue. Leviathan lancia un appello edonistico ai consumi: siamo sotto le feste; l’importante è spendere; «dipende da voi rimettere in moto la macchina». Almeno avesse detto: «chi può spenda»; l’enciclica mobilita anche i poveri e gli ormai quasi tali, sono tanti. Viene in mente Maria Antonietta, stupita che i popolani tumultuino: «non hanno pane, Maestà»; «mangino brioches». Non è temerario supporre che s’arricchisca anche sulla recessione.

Occhiate dal parterre studiano il corpo del re, in cerca d’indizi: commette frequenti gaffes; parla, disdice, nega quel che milioni d’occhi hanno visto e orecchie udito; bofonchia contumelie («imbecilli», «miserabili», «imparino il mestiere», «vadano a casa»). Affiorano fondi sinistri. Ad esempio, va in provincia: i devoti se lo bevono; raccoglie suppliche; corre seminando quelli del sèguito; e quando un paralitico in carrozzella chiede aiuto, risponde beffardo; non gli basta avere una bella moglie? Suona come l’aneddoto d’un nero vangelo apocrifo. Lo scenario clinico appare molto interessante. Nella prossima lettera a «Stylus» esporrò qualche ipotesi prognostica.

20 dicembre 2008

La metamorfosi monarchica dell’Italia

Nella prima lettera raccontavo come sia emerso Leviathan, impresario dei piccoli schermi, ora regnante sui Rutuli: regno sui generis, perché le monarchie superstiti adempiono funzioni rituali vuote d’ogni potere effettivo; lui li vuole tutti, insofferente d’ogni pluralità ed equilibrio; tollera appena una commedia parlamentare, finché ve lo costringa l’attuale carta. Liberti sans gêne gliene scrivono una su misura. Ecco tre segni della metamorfosi monarchica ancien régime: s’è proclamato penalmente immune; l’officina leguleia studia i meccanismi d’una giustizia controllata dal governo, qual era sotto Re Sole; e postulandosi intoccabile, definisce vilipendio ogni rilievo critico; presto rischierà la galera chi canta fuori del coro, poi verrà il turno dei pensieri, perché i delitti vanno spenti in embrione (l’unico delitto da punire, contro la santa Persona; gli altri sono veniali, molto perdonabili, se uno lo merita, essendo il regime largamente criminofilo sotto insegna garantista). L’unico precedente europeo novecentesco è il Terzo Reich d’Adolf Hitler: vengono dal niente tutt’e due, fulminei nel puntare l’obiettivo; a modo loro sono dei geni nei rispettivi campi, con un punto molto debole; operano come fossero onnipotenti. Entrambi dispongono d’arnesi forti: l’ex caporale austriaco, già abulico pittore d’acquarelli, ha sotto mano un apparato bellico senza eguali, industria, tecnologie, masse obbedienti; tra i più ricchi del pianeta, Re Lanterna comanda gli ordigni televisivi (cosa combinerebbe quel diabolico dottor Ioseph Goebbels); armi cospicue ma essendo il mondo uno scacchiere molto complesso, prima o poi soccombe chi vuol dominarlo iniquamente in spregio ai dati obiettivi. La prospettiva egomaniaca è pensiero paranoide, poco raccomandabile. Ad esempio: gli Usa eleggono il presidente; l’incauto monarca rutulo, pedina irrisoria della politica mondiale, stava dalla parte opposta; dovendo dire qualcosa del vincitore, scherza sul colore della pelle, trivialmente; insulta chi rileva la gaffe; infine, offre dei consigli al nuovo eletto volando alto, aquila nel cielo politico.

Sua Maestà ha una corte. Qualche conoscitore lamenta che vi manchi l’equivalente del Titus (o secondo Tacito, Gaius) Petronius, detto Arbiter perché regola il gusto nel milieu neroniano: quale intenditore d’«eruditus luxus», insegna cosa sia «amoenum et molle» ossia l’arte del divertirsi secondo date forme, finché l’odioso Gaio Ofonio Tigellino, praefectus Praetorio, se ne disfa mediante false prove d’un suo feeling nella congiura pisoniana, e lui previene l’ira imperiale svenandosi, esteta anche in exitu; anziché dissertare sull’immortalità dell’anima, recita o forse canta «levia carmina et faciles versus», canzoni leggere e versi frivoli, avendo spedito al tiranno una lettera testamentaria enumerante le turpitudini della corte, nomi inclusi; e lascia uno straordinario romanzo, Satyricon, del quale abbiamo pochi frammenti. Nella reggia rutula manca l’arbiter elegantiarum né il sire lo sopporterebbe: parole, mimica, gesti sanno d’incoercibile volgarità; ai suoi cultori piace così; una persona fine, come le chiamavano una volta, non sarebbe lì; s’allevava gli elettori somministrando fescennini, lazzi, farsa (chi guardi bene sotto la maschera ilare vede il caimano). I favori regali piovono dal cielo imprevedibilmente, pura grazia: dipende tutto da lui; una tale diventa ministro perché il giardiniere ne ha parlato bene; ed è inutile dire quanto stridano i denti nelle risse tra cortigiani. Peccato che tra costoro non vi siano memorialisti paragonabili al duca Saint-Simon. In compenso fiorisce una subletteratura sui fasti del sovrano, con alto spaccio nei luoghi della villeggiatura d’una sinistra chic.

Salito alla cancelleria nel gennaio 1933, Hitler occupa tutti gli spazi del potere in forma più o meno legale, adeguando a sé le strutture preesistenti (Gleichhaltung). Lo fa anche Leviathan ma sopravvivono pensieri dissidenti. Me ne sono accorto l’altra sera guardando un talk-show d’argomento provocatorio: la fiera delle vanità nella Rutulia quasi monarchica; il corpo del re presentato al pubblico; come lo glorificano i preti del nuovo culto; dubbi tentativi d’un ringiovanimento alchimistico; cosa dicono parterre, palchi, loggione; la corsa al carro del fieno, ecc. Uno degl’interlocutori partiva da lontano. Vista in superficie, la vanità non sembra vizio pericoloso: un plutocrate fonda premi letterari, pagando sotto banco, per farseli assegnare; Benito Mussolini scia a torso nudo, va a cavallo, guida l’aereo, batte il passo romano; esistono anche vanità tristi e faticose, vedi l’agonista della penitenza e chi vuol essere l’uomo o la donna più infelici del mondo. Pose fatue ma sotto pulsa l’Ego, abominevole perché si mette al centro dell’universo (Pascal); ed è vorace; il lattante prosciugherebbe il seno (Melania Klein). L’armatura dell’Ego sta nel non vedere le sue miserie (La Rochefoucauld). Marziale racconta d’un Gauro, il cui nome significa vanesio, borioso, gonfio. Ma questo difetto percettivo, costituente difesa organica, è schermo debole: vuol essere ammirato (desiderio d’un desiderio) e «il se voit misérable»; qui scoppia «la plus criminelle passion» che sia immaginabile, un odio mortale della verità insopportabile (ancora Pascal). Siamo entrati nel girone dell’invidia: sentimento rabbioso verso chi possiede quel che l’invidioso non ha (M. Klein); se potesse, annienterebbe possessore e cosa posseduta. Furiose dispute trinitarie, il Terrore 1794, le purghe sovietiche da Trockij a Bucharin: è casistica clinica d’una malattia; gli antagonisti sostengono dei partiti, ossia pretese verità, ma quel che dicono maschera impulsi viscerali; invertite le insegne, sarebbero altrettanto feroci. Ora, l’Io ipertrofico genera un’industria e mercato del falso: i talenti sono l’ultima ruota del carro, falsificabili a man salva; intese consortili operano selezioni perverse, orientate al peggio, con terribili costi sociali.

Discorsi simili offendono l’establishment. Scatta puntuale l’esorcismo nel giornale d’un fratello del re, noto alle cronache penali come imprenditore dei rifiuti e relative discariche. Il columnist turpiloquo deplora i «dieci minuti dieci» dedicati a Pascal e La Rochefoucauld; lagne simili richiedono un avviso sovrimpresso alle immagini: «guardare solo su prescrizione medica perché può indurre sonnolenza». Tale essendo l’esprit de finesse cortigiano, la Rutulia scenderà ancora dal quarantesimo posto nella graduatoria dello sviluppo economico: il malaffare in colletto bianco arricchisce dei pirati e sfama i loro clienti (Marziale li evoca arrancanti dal primo mattino in cerca della sportula) ma frode, corruzione, plagio depauperano l’ambiente; gli effetti, già evidenti, saranno enormi tra una o due generazioni; l’autentica fortuna economica richiede testa, midolla, nervi ossia serietà, odiata dai ciarlatani rutuli.

Parole, gesti, mimica berlusconiani sono materiale clinico. Vedi come reagisce nella Ville Lumière, dove autorità e popolo commemorano il 219° anniversario della Bastiglia espugnata.

Quando gli comunicano l’arresto d’O. D. T., già sindacalista Psi, ora Pd, e alcune persone più o meno limpide al vertice della Regione Abruzzo, sotto l’accusa d’una gestione corrotta della sanità, la cui spesa tocca livelli stellari, sembra ignaro del caso (lo suppongo tale, mentre qualche interessato, stando alle notizie, se l’aspettava), inveisce contro l’ennesimo «teorema». Nome curioso. Nell’Italia rieducata da Mediaset parola e pensiero sono drasticamente ridotti: circola un italiano «basic», vocaboli combinati in sintagmi che l’utente trova prêts-à-dire, senza fatica mentale; glieli forniscono speaker, giornali, politicanti; «teorema» viene da questo fondo, come «gogna mediatica», «assalto allo Stato democratico», «cittadino crocifisso». Quanto più parlano e scrivono, tanto meno dicono: fissa lui la misura del pensabile, pochissimo; e non essendo Erasmo da Rotterdam o Tommaso Moro (glieli avevano nominati dei ghost writers), subisce i limiti che impone, ma l’osservatore attento nota l’emissione verbale coatta; tipico sintomo. Il paziente pensa, dice, fa qualcosa costrettovi ab intra (nel lessico freudiano «Zwang» o l’inglese «compulsion»). Lo sfondo è una paura angosciosa. Freud la studia in due casi famosi, «Il piccolo Hans» e «L’uomo dei topi». Cosa spaventa Sua Maestà? Un’entità astratta, senza viso: in greco, nómos basiléus, la legge, regola sovrana: gl’infesta le notti; la combatte da quarant’anni; l’ha manomessa in mille modi; dallo scempio è nato un impero. L’ormai vecchio nomòfobo vuol chiudere i conti seppellendola. Tale il senso della furia verbale: poiché a Pescara le toghe perseguitano chi merita riguardi, su due piedi annuncia una «riforma radicale della magistratura»; vuol scindere le carriere?; non basta, scaverà a fondo.

Chi avesse dei dubbi, legga l’editoriale milanese. L’autore è un garantista sui generis: due anni fa ventilava l’uso virtuoso della tortura nella prassi antiterroristica; materia da servizi segreti; lavorino tranquilli, senza occhi indiscreti; la legalità penale costa troppo negli stati d’assedio; de facto siamo in guerra, e simili sublimi pensieri. Vestito da Salvation Army, suona il trombone berlusconiano. Non bastava incriminarli a piede libero? E se l’eccellente uscisse «pulito»? Domande profonde. Rispondiamogli. La pena implica un giudizio: che N debba o no essere punito, consta alla fine; se avessimo l’intellectus angelicus o sguardo intuitivo sincrono, le procedure sarebbero puro passatempo; lo specchio giudiziario riflette l’accaduto, fallibilmente visto che non siamo angeli; B. ad esempio, quando non s’aboliva le norme incriminanti o perdeva tempo finché i reati fossero estinti, ha lucrato dei proscioglimenti sulla base d’un dubbio sofistico, poco plausibile. Ma supponendo che vada bene al reo, chi castiga il persecutore? (dipendesse da lui, scudiscio somministrato in pubblico, e come vitupera i manomissori della privacy, salvo ammettere la tortura). Spieghiamogli come stanno le cose: quel pubblico ministero ha delle prove e le sottopone al giudice chiedendo una misura cautelare detentiva; regole codificate impongono stretti requisiti; «gravi indizi» nonché periculum in mora, rigorosamente diagnosticato (che N sottragga o inquini le prove o fugga o commetta delitti d’un dato nome); i provvedimenti coercitivi sono riesaminabili dal tribunale della libertà; da lì in cassazione; l’ingiustamente detenuto ottiene un risarcimento. Insomma, dica ogni male del sistema italiano ma non che l’imputato abbia poche risorse difensive: tra qualche giorno molte cose saranno chiare; intanto stia quieto.

Piuttosto noterei: mette paura l’idea d’un rifiorente malaffare consortile; Deo adiuvante, le procure non dormono né guardano strabiche vedendo solo i misfatti d’una parte. Ma costoro fanno scuola alla sinistra: vuole un futuro governativo?; smetta d’essere «pesce in barile»; difenda l’arrestato eminente; è ora «d’una svolta decisa», solenne e pubblica. La «democrazia liberale» richiede due riforme: abolire la cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale; e (punto sottinteso ma fondamentale) procure inquadrate nel potere esecutivo. Bellissimo programma. Muore l’illusione che siamo uguali davanti alla legge: punire o no diventa materia d’una scelta, come nell’autonomia privata; avendo dei crediti, chiedo il pagamento o lascio perdere, affare mio. Lo chiamavamo diritto penale: nel lessico dei dottori, «criminalia», e adesso ordigno adoperabile sui malvisti dal governo; è l’arma che impugna contro chi vuole, se gli torna comodo. I meno ignoranti sanno attraverso quale laborioso sviluppo i quattro codici dell’età unitaria elaborino un controllo dell’inazione: era problema capitale; i meccanismi attuali lo risolvono nel modo meno imperfetto.

Caduto l’obbligo d’agire, regnano prassi legalmente amorfe: l’uomo del ministro colpisce o no, secondo direttive derogabili da ordini ad personam; e perde ogni senso l’altro carattere della domanda penale, l’essere irretrattabile; quando l’attore ministeriale desista, la causa finisce. Adesso vediamo cosa sia la «democrazia liberale» declamata dai pedagoghi: nel caso pescarese il pubblico ministero in sintonia con chi comanda ammonirebbe l’autore della denuncia, «stanco d’essere munto»; se non vuole rogne, porti via quel materiale (fotografie, colloqui registrati, tabulati Telepass, numeri delle banconote ecc.). Che la Regione abbia un debito spaventoso da spesa sanitaria, è questione minore: siamo un Paese ingegnoso; basta scaricarla sulla bestia da soma; non immaginate quanto peso porti. Ha mille forme il fisco occulto. Nella Repubblica del malaffare fisiologico, quindi indisturbato, l’indebitamento significa vita: i portaborse diventano finanzieri; l’animale totem è un pidocchio gigante.

L’happening berlusconiano 14 luglio e le glosse milanesi dicono a che punto siamo nella regressione: fondata da una Destra austera, l’Italia bene o male era paese europeo; presto lo sarà solo geograficamente. Se n’è impadronito un plutocrate ignorante: sotto maschera ilare ha disegni brutali, visibili anche dai fisionomisti meno acuti; governa, dispone delle Camere, comanda la giustizia penale attraverso mani ministeriali. Erano tre i poteri, separati: se li è presi; li confonde semplificando l’ordinamento alla misura minima; Napoleone costruiva dei codici; lui detesta l’astratto; decide, ordina, deroga, paga, promuove, affossa, castiga, grazia. I chierici gli cantano salmi in ginocchio. Valuterei in questa chiave il pericolo dello scudo immunitario al quale Palazzo Madama ribadirà l’ultimo chiodo.

Abusi edilizi a Villa Certosa? Ma neanche per sogno. Irregolare il porto blindato dove accogliere le imbarcazioni dei capi di governo ospiti abituali della principesca abitazione di Silvio Berlusconi? Tutto secondo le norme, così come il bunker sotterraneo che collega il porto alla dimora o i falsi nuraghi costruiti nel parco dove verdeggiano essenze rare raccolte ai quattro angoli del pianeta. Giuseppe Spinelli, l'amministratore delegato dell'Idra immobiliare, la società proprietaria di Villa Certosa, è stato assolto dal giudice del tribunale di Olbia da ben tredici capi imputazione per abusi edilizi e violazioni ambientali. Il giudice Vincenzo Cristiano ha accolto le richieste del pubblico ministero Elisa Calligaris a conclusione di una vicenda giudiziaria cominciata quattro anni fa. Il magistrato ha stabilito il non luogo a procedere nei confronti di Spinelli sia per le violazioni in materia ambientale, in quanto c'erano i nullaosta paesaggistici, sia per i lavori realizzati per i quali erano stati pagati i condoni edilizi. Ieri mattina in aula a Olbia era presente l'avvocato di Berlusconi, Nicola Ghedini, che ha difeso Spinelli. Il processo era cominciato davanti al giudice del il 6 maggio scorso. Ghedini aveva consegnato al giudice i documenti relativi ad ogni intervento eseguito all'interno del parco e le copie delle sanatorie, dei condoni e delle concessioni.

Tutto regolare, insomma, perché tutto coperto da condono. E non perché abusi non siano stati effettivamente compiuti. Anche per questo suonano stonate le dichiarazioni che il presidente del consiglio ha rilasciato ieri pomeriggio a Parigi, dov'era per il gran ballo di gala per il 14 luglio. «Conoscete - ha detto ai giornalisti - l'attuale situazione dell'accusa in Italia. Molto spesso i teoremi accusatori sono quelli che poi alla fine non vengono confermati». Come al solito, Berlusconi semplifica a suo uso e consumo. Più precisamente, le violazioni ambientali non sussistono perché ci sono stati funzionari che hanno concesso i nullaosta; le irregolarità edilizie, invece, sono state commesse e poi sanate dai condoni. «Il premier Berlusconi - chiede infatti il senatore del Pd Roberto Della Seta in un'interrogazione al ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo - ha usufruito del condono edilizio concesso dal suo precedente governo per la sua villa in Sardegna? Risponde al vero, che nella villa del premier sarebbero stati commessi tredici abusi edilizi successivamente azzerati grazie al condono edilizio concesso dal governo Berlusconi nella legislatura 2001-2006? Risponde al vero che il costo dell'utilizzo del condono ammonta a diverse decine di migliaia di euro, segno che non si è trattato di operazioni edilizie di poco conto?»

(co.co)

Che succede dentro il ministero dei Beni Culturali? Al mattino il licenziamento di Salvatore Settis dalla presidenza del Consiglio Superiore appariva fuori discussione. Il comunicato del sottosegretario Francesco Giro era chiarissimo: «Considero irrimediabilmente lacerato il rapporto fiduciario, ci auguriamo che il professore ne tragga al più presto le dovute conseguenze». In serata l´intervento rasserenante di Bondi, che annuncia «un colloquio di chiarimento» con Settis, nel «grande rispetto per lo studioso» e nella «speranza di continuare la collaborazione». E la veemente sortita di Giro? Su questo, silenzio. I collaboratori del ministro parlano di "un´iniziativa personale" del sottosegretario, certamente non condivisa dal titolare del Collegio Romano. Il quale già sabato aveva replicato a Settis con accenti che non preludevano a una liquidazione. Solo una diversità di vedute tra l´ottimista Bondi e il suo vice furioso, o minacce di guerra di alcuni ambienti del ministero contro il direttore della Normale?

Negli ultimi anni Salvatore Settis è stato protagonista nel nostro paese d´una agguerrita battaglia contro la svendita del patrimonio culturale. Italia Spa è il titolo d´un suo celebre saggio contro l´assalto dei nuovi barbari. L´ultimo articolo di questa campagna è uscito sul Sole 24 ore venerdì scorso, ed è questo l´intervento che ha suscitato l´indignazione di Giro. Conti alla mano, Settis registrava uno stridente contrasto tra le lodevoli intenzioni di Bondi - nella direzione della tutela del paesaggio e del potenziamento delle Soprintendenze - e la politica economica del governo, che di fatto sottrae al ministero dei Beni culturali oltre un miliardo di euro. «Un colpo mortale», scrive Settis. Tagli di tale entità preluderebbero a una definitiva abolizione del ministero, oppure alla sua riduzione a "uno stato larvale", con grande beneficio per le regioni che ne erediterebbero la tutela del paesaggio. Si tratterebbe insomma d´una devolution strisciante e l´obiettivo sarebbe probabilmente il decentramento suggerito da Lombardia e Veneto. Fin qui Settis.

«Apocalittico e irrituale nella forma pubblica», replica Sandro Bondi sul Sole di sabato. "Eccessivo" perché nulla può far temere una liquidazione del ministero e «irrituale perché Settis è stato da me appena confermato presidente del consiglio superiore per i beni culturali». In altre parole, se il professore aveva qualcosa da dire, la sede per dirla poteva essere proprio il ministero. Un intervento in sostanza interlocutorio, che faticosamente tenta di smontare gli argomenti di Settis. Niente che però faccia pensare a una rottura.

Ieri mattina l´esternazione del sottosegretario Giro, che annuncia con toni gravi il licenziamento. «La critica dura e sferzante è legittima», premette il viceministro, ma quando «viene esibita con disinvoltura sui giornali da chi ha responsabilità istituzionali» diventa strumentale e pericolosa. Il rapporto è lacerato, «ci auguriamo che il professore ne tragga al più presto le dovute conseguenze». Ci auguriamo, scrive il viceministro. Plurale maiestatis o che altro? Ma no, intervengono in serata i collaboratori di Bondi. Il ministro è ottimista, molto ottimista. Domani alle 11 il chiarimento con Settis. Solo una nuvoletta, passerà presto, rassicurano dal ministero. Chissà se Giro ne è stato informato.=252) refR=refR.substring(0,252)+"...";//-->

Il rapporto fra il Ministero dei Beni culturali e il professor Salvatore Settis, presidente del Consiglio Superiore per i beni culturali, si è "irrimediabilmente lacerato" dopo che Settis, in un'intervista al Sole 24 Ore di venerdì scorso, ha parlato "del 'suo' ministero come di una struttura 'in liquidazione' o 'allo stato larvale' e ne attribuisce le attuali difficoltà al governo Berlusconi e ai suoi recenti provvedimenti economici". Così in una nota il sottosegretario ai Beni e alle Attività culturali Francesco Giro.

"La lettura attenta e priva di alcun pregiudizio politico dell'articolo del professor Settis mi induce ad esprimere la mia piena solidarietà al ministro Sandro Bondi e all'intera amministrazione del suo dicastero", scrive Giro, "il professore è stato appena confermato nel suo prestigioso incarico all'interno del Ministero e meglio avrebbe fatto a proporre e sviluppare le sue critiche nell'ambito delle prerogative che gli sono state affidate e riconosciute nel momento in cui il ministro Bondi gli ha confermato la propria fiducia alla guida del Consiglio superiore".

Per Giro "la critica anche dura e sferzante è assolutamente legittima e benvenuta, ma quando viene esibita sui giornali da chi possiede precise responsabilità istituzionali con disinvoltura e gusto per la polemica, allora questa stessa critica diventa strumentale perchè si tinge di intenzioni e di propositi che non aiutano a porre e a risolvere i problemi che sono tanti e che sono gravi, come dimostra il recente commissariamento dell'area archeologica di Pompei".

"A questo punto considero irrimediabilmente lacerato il rapporto fiduciario, che pure era stato ribadito, fra il Ministero dei beni culturali e il prof. Settis il quale ha rinunciato a confrontarsi con l'istituzione e ad esercitare le prerogative che gli venivano riconosciute: con rammarico ne prendiamo atto e - conclude il sottosegretario - ci auguriamo che ne tragga al più presto le dovute conseguenze".

Postilla

Chi aveva dei dubbi sui gravissimi rischi per la democrazia determinati dal governo Berlusconi e dai suoi sostenitori è servito. Un autorevole esponente della cultura, cui era stato attribuito e confermato – proprio per la sua autorevolezza – il ruolo di presidente di un organo consultivo dello Stato (dello Stato, non della maggioranza relativa che oggi lo governa) è minacciato per aver criticato, in modo pacato e argomentato come ciascuno può verificare leggendo il suo articolo, la politica economica del governo perché questa ha ulteriormente impoverito la capacità dell’amministrazione dei beni culturali di adempiere ai suoi compiti.

Una ragione di più per partecipare alla protesta contro le leggi canaglia che si svolgerà domani a Roma. Una ragione di più per chiamare alla mobilitazione tutti i democratici, quale che sia il voto che hanno espresso alle elezioni politiche. Una ragione di più per ricordare a tutti che in momenti simili a nessuno à concessa la distrazione, la disattenzione, l’indifferenza.

Ecco la lettera che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha inviato al presidente del Senato Renato Schifani. Il testo è stato diffuso da Palazzo Chigi.

«Caro Presidente, come Le è noto stamane i relatori senatori Berselli e Vizzini, hanno presentato al cosiddetto 'decreto sicurezzà un emendamento volto a stabilire criteri di priorità per la trattazione dei processi più urgenti e che destano particolare allarme sociale. In tale emendamento si statuisce la assoluta necessità di offrire priorità di trattazione da parte dell'Autorità Giudiziaria ai reati più recenti, anche in relazione alle modifiche operate in tema di giudizio direttissimo e di giudizio immediato.

Questa sospensione di un anno consentirà alla magistratura di occuparsi dei reati più urgenti e nel frattempo al governo e al Parlamento di porre in essere le riforme strutturali necessarie per imprimere una effettiva accelerazione dei processi penali, pur nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali.

I miei legali mi hanno informato che tale previsione normativa sarebbe applicabile ad uno fra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica. Ho quindi preso visione della situazione processuale ed ho potuto constatare che si tratta dell'ennesimo stupefacente tentativo di un sostituto procuratore milanese di utilizzare la giustizia a fini mediatici e politici, in ciò supportato da un Tribunale anch'esso politicizzato e supinamente adagiato sulla tesi accusatoria.

Proprio oggi, infatti, mi è stato reso noto, e ciò sarà oggetto di una mia immediata dichiarazione di ricusazione, che la presidente di tale collegio ha ripetutamente e pubblicamente assunto posizioni di netto e violento contrasto con il governo che ho avuto l'onore di guidare dal 2001 al 2006, accusandomi espressamente e per iscritto di aver determinato atti legislativi a me favorevoli, che fra l'altro oggi si troverebbe a poter disapplicare.

Quindi, ancora una volta, secondo l'opposizione l'emendamento presentato dai due relatori, che è un provvedimento di legge a favore di tutta la collettività e che consentirà di offrire ai cittadini una risposta forte per i reati più gravi e più recenti, non dovrebbe essere approvato solo perchè si applicherebbe anche ad un processo nel quale sono ingiustamente e incredibilmente coinvolto. Questa è davvero una situazione che non ha eguali nel mondo occidentale.

Sono quindi assolutamente convinto, dopo essere stato aggredito con infiniti processi e migliaia di udienze che mi hanno gravato di enormi costi umani ed economici, che sia indispensabile introdurre anche nel nostro Paese quella norma di civiltà giuridica e di equilibrato assetto dei poteri che tutela le alte cariche dello Stato e degli organi costituzionali, sospendendo i processi e la relativa prescrizione, per la loro durata in carica. Questa norma è già stata riconosciuta come condivisibile in termini di principio anche dalla nostra Corte Costituzionale. La informo quindi che proporrò al Consiglio dei ministri di esprimere parere favorevole sull'emendamento in oggetto e di presentare un disegno di legge per evitare che si possa continuare ad utilizzare la giustizia contro chi è impegnato ai più alti livelli istituzionali nel servizio dello Stato.

Cordialmente, Silvio Berlusconi».

Postilla

Per chi non lo sapesse, il firmatario della lettera di cui sopra è il Presidente del Consiglio dei ministri e capo del governo italiano, è stato eletto dalla maggioranza degli elettori e ha giurato fedeltà alla Repubblica e alla sua Costituzione nelle mani del Presidente della Repubblica

Se si dovesse ridurre ad un nucleo essenziale la filosofia politica del governo Berlusconi, potremmo trovare una sintesi accettabile nella formula « dismissione dei beni pubblici». Precisando però subito dopo che tale espressione, che a prima vista sembrerebbe collocare il governo nel quadro del liberismo internazionale, va intesa ed interpretata con una serie di connotazioni molto particolari e molto italiane.

Infatti, più che ad una liberalizzazione selvaggia ci troviamo di fronte ad un più generale processo di riduzione di tutti i controlli pubblici, alla progressiva, ma continua erosione dell'autorità di ogni soggetto capace di rappresentare gli interessi collettivi e quindi di dettare le regole comuni a tutti. L'erosione dei beni pubblici non è solo una dimensione economico-patrimoniale: essa significa il declino della classe dirigente di un paese, la perdita della sua capacità d'immaginazione politica e di pensare una nozione d'interesse generale e di lungo periodo. Un'idea d'interesse generale vuol dire progettare il futuro, spingere la politica verso una dimensione in cui essa non è semplice riflesso e mediazione degli interessi, ma qualcosa di più, costruzione delle condizioni del progresso dell'intera collettività. Un'idea d'interesse generale del paese vuol dire per esempio non svenderne l'autonomia della politica estera, evitare vassallaggi che si rischia di pagare a caro prezzo.

Quando la politica non è più lo strumento attraverso il quale si dirige un paese in base ad un'idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole ed accentuandole, un paese va incontro al suo declino. Il governo Berlusconi, in modo talvolta furbo e talvolta arrogante, non solo rispecchia tutte le debolezze del paese, ma pensa di usarle a proprio favore, offrendo a drammatici problemi strutturali risposte e rimedi parziali e di breve periodo. Da un certo punto di vista la coalizione che lo rappresenta, pur eterogenea e qualitativamente non di alto profilo, rappresenta in qualche modo il paese. Ma questo rispecchiare il paese (cercheremo di portare qualche esempio) è un rappresentarlo in modo perverso e coincide con la rinuncia a qualsiasi capacità di migliorarlo, con una sorta di resa di fronte ai vizi nazionali e l'abbandono di qualsiasi capacità progettuale.

L'effetto di questo tipo di «governo» è quindi tale da spingere il paese verso un declino forte e drammatico, specialmente se si pensa che, a livello internazionale, il vuoto lasciato da tali debolezze viene riempito dall'iniziativa altrui. 1 momenti migliori dell'era democristiana sono stati quelli in cui quel partito riuscì ad esprimere un'idea d'interesse generale, anche entrando in urto con i settori più chiusi ed arretrati delle classi dirigenti. Ovviamente anche allora questa progettualità spesso finiva per esaurirsi, trasformandosi nella semplice mediazione degli interessi. Ma oggi siamo di fronte ad un dato nuovo, perché si tratta di ben di più che di debolezza dell'azione politica rispetto agli interessi particolari: siamo di fronte ad un'inversione della gerarchia tra essi. Al posto di una politica alta, capace di indicare una strada, gli interessi parziali hanno preso il sopravvento, facendo della dimensione pubblica un luogo che ospita e tutela la loro parzialità.

Il conflitto d'interessi di cui è portatore il presidente del Consiglio non è quindi un incidente, ma una gigantesca metafora della politica del suo governo. Non dallo Stato al mercato, ma dallo Stato al privato, e soprattutto ad un privato ben poco competitivo, molto protetto e spesso clientelare. […]

Tenetevi al passo con le nuove tecnologie. Installate subito sul vostro computer Amico Silvio 1.0, il nuovo programma che cambierà il vostro modo di pensare. Bastano pochi clic e Amico Silvio 1.0 si istalla al posto dei vecchi programmi, cose obsolete come Anticomunista 2006, o Conflitto d'Interessi 2.0.

Caratteristiche tecniche. Amico Silvio 1.0 gira su qualunque computer. Offre immagini spettacolari, come Silvio accudito dalle giovani badanti in Sardegna. Contiene materiali edificanti come Silvio applaudito al congresso del Pd, o Silvio contrito per aver cacciato Biagi. Nella speciale directory Silvio Assolto potrete archiviare tutti i processi, le assoluzioni e le prescrizioni.

Prestazioni. Veloce e duttile, Amico Silvio 1.0 è un programma che risolve problemi operativi apparentemente impossibili. Per esempio, fare una legge sul conflitto di interessi e nel frattempo chiedergli di comprare un po' di Telecom sembrerebbe una contraddizione secca e irrisolvibile. Ma Amico Silvio 1.0 scardina il problema con eleganza, un sorriso, una pacca sulla spalla.

Compatibilità. Amico Silvio 1.0 si interfaccia perfettamente e senza problemi con tutti i programmi. Gli va bene quello del Partito Democratico, gli piace l'ipotesi di una federazione con Fini, è predisposto per dialogare via mail persino con Casini. Soprattutto, per la prima volta, Amico Silvio 1.0 si sente riconosciuto dagli altri programmi che cominciano a pensare a lui come un software affidabile.

Manuale Utente. Un consiglio. Tenete installato Amico Silvio 1.0. sul vostro computer finché non si parla seriamente della legge Gentiloni. Per allora uscirà il nuovo programma Silvio Si Incazza Di Nuovo 1.0, oppure reinstallate il vecchio Conflitto di Interessi 2.0. Per ora, però, usate questo Amico Silvio 1.0. Un programma di enorme successo. Molti ci stanno già cascando. Gli stessi che per ben tredici anni non hanno mai usato l'antivirus.

Naturalmente come si dice in questi casi, bisogna attendere le motivazioni della sentenza.Ma già dal dispositivo della II sezione della Corte d’appello di Milano nel processo Sme-Ariosto qualcosa si può arguire. DunqueSilvio Berlusconi «non ha commesso il fatto». O, meglio,non ci sono prove sufficienti che lo abbia commesso. Questo vuol dire infatti il comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale. Il fatto però c’è, tant’è che gli altri imputati - gli avvocati Previti e Pacifico, e il giudice Squillante - furono condannati in primo e secondo grado per corruzione (semplice per i due legali, giudiziaria per l’ex magistrato), salvo poi salvarsi in corner grazie alla sentenza della Cassazione che l’anno scorso, smentendo se stessa, decise di spedire il processo a Perugia perché ricominciasse da capo. Anzi, non ricominciasse affatto perché, mentre le carte viaggiavano dal Palazzaccio verso Perugia, è scattata la prescrizione. Qual è dunque il fatto? Il bonifico bancario di 434.404 dollari (500 milioni di lire tondi tondi) che il 5 marzo 1991 partì dal conto svizzero Ferrido della All Iberian (cassaforte estera di casa Fininvest, alimentata dalla Silvio Berlusconi Finanziaria) e in pochi minuti transitò sul conto svizzero Mercier di Previti e di lì al conto svizzero Rowena di Squillante. Un bonifico molto imbarazzante per Berlusconi, che di Squillante era amico (si telefonavano per gli auguri di Capodanno, Squillante lo inquisì e lo interrogò e poi lo prosciolse nel 1985 in un processo per antenne abusive, poi il Cavaliere tentò di nominarlo ministro della Giustizia e gli offrì pure un collegio sicuro al Senato). Tant’è che l’allora premier tentò di sbarazzarsi delle prove giunte per rogatoria dalla Svizzera (legge sulle rogatorie, 2001), poi del giudice Brambilla che lo stava giudicando in primo grado (trasferito nel gennaio 2002 dall’apposito ministro Castelli), poi direttamente del processo (lodo Maccanico-Schifani del 2003 sull’impunità per le alte cariche dello Stato). Fu tutto vano. Ottenuto lo stralcio che separava il suo processo da quello a carico dei coimputati, Berlusconi fu poi processato da un altro collegio e ritenuto colpevole per quel fatto. Ma si salvò per la prescrizione, grazie alla generosa concessione (per la settima volta) delle attenuanti generiche. Contro quel grazioso omaggio, la Procura ricorse in appello affinché, spogliato delle attenuanti, il Cavaliere fosse condannato. A quel punto l’imputato, tramite il suo onorevole avvocato Pecorella, varò una legge che aboliva i processi d’appello dopo i proscioglimenti di primo grado: per esempio, il suo. La legge fu bocciata da Ciampi in quanto incostituzionale. Lui allora prorogò la legislatura per farla riapprovare tale e quale. Poi la Consulta la cancellò in quanto incostituzionale, e l’appello ripartì. Ieri s’è concluso con questa bella sentenza.

Insomma la condotta berlusconiana non somigliava proprio a quella di un imputato innocente. «Mai visto un innocente darsi tanto da fare per farla franca», commentò efficacemente Daniele Luttazzi. Tant’è che ieri, alla notizia dell’assoluzione (per quanto dubitativa e ancora soggetta a un possibile annullamento in Cassazione), il più sorpreso era proprio lui, il Cavaliere. Era innocente o quasi, ma non lo sapeva. O forse non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi.

In attesa delle motivazioni, che si annunciano avvincenti, la questione è molto semplice. Cesare Previti è stato definitivamente condannato a 6 anni per aver corrotto un giudice, Vittorio Metta, in cambio della sentenza Imi-Sir del 1990 (tra l’altro, la sentenza che lo dichiara pure interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, è del 4 maggio 2006, ma a un anno di distanza l’onorevole pregiudicato interdetto è ancora deputato a spese nostre). Due mesi fa la Corte d’appello di Milano l’ha condannato a un altro anno e 8 mesi per aver corrotto lo stesso giudice Metta in cambio della sentenza che, due mesi dopo di quella Imi-Sir, toglieva la Mondadori a De Benedetti per regalarla a Berlusconi (che, processato come mandante di quella mazzetta, è uscito da quel processo grazie alle attenuanti generiche e alla conseguente prescrizione). Restava da definire il ruolo di Berlusconi in quel versamento estero su estero a Squillante, risalente a un mese dopo la sentenza Mondadori: marzo 1991. Tre tangenti giudiziarie in 5 mesi, tra la fine del 1990 e l’inizio del ’91. Se Previti, com’è irrevocabilmente accertato, pagò Metta per conto della famiglia Rovelli per vincere la causa (altrimenti persa) dell’Imi-Sir; se Previti pagò Metta per conto di Berlusconi per vincere la causa (altrimenti persa) del lodo Mondadori; ecco, se è vero tutto questo, per conto di chi Previti pagava Squillante? E perché Squillante, nel 1988, al termine della causa Sme vinta da Berlusconi e Barilla e persa da De Benedetti, ricevette 100 milioni estero su estero tramite Previti e Pacifico da Barilla, cioè dal socio di Berlusconi che non conosceva né Pacifico, né Previti, né Squillante? Questi erano i termini della questione che ieri i giudici dovevano risolvere. Hanno stabilito che, per i 100 milioni di Barilla a Squillante, «il fatto non sussiste»: sarà stato un omaggio a un giudice che stava particolarmente simpatico al re della pasta (che però non lo conosceva). Quanto ai 500 milioni della Fininvest a Squillante, Previti avrà fatto tutto da solo. Pur non essendo coinvolto personalmente in alcun processo (all’epoca, almeno), pagava il capo dell’ufficio Istruzione di Roma con soldi di Berlusconi, ma all’insaputa di Berlusconi, che non gli ha mai chiesto conto dei suoi quattrini (ma adesso lo farà, oh se lo farà: andrà da Previti, presso la comunità di recupero per tossicodipendenti dove sta scontando la pena, lo prenderà per il bavero e lo strapazzerà a dovere, per avergli causato tanti guai con la giustizia). O almeno non c’è la prova, nemmeno logica, che Berlusconi lo sapesse. Squillante, quando gli telefonava per gli auguri di Capodanno o negoziava il suo seggio al Senato, non gli parlò mai di quei generosi bonifici in Svizzera. Che so, per ringraziarlo. Invece niente, nemmeno una parola gentile. Che ingrato.

Nel mega-super-maxi-giga-emendamento alla Finanziaria su cui il governo ha messo la fiducia, tra un aiutino al calcio femminile, la celebrazione di Colombo e l'autofatturazione del tartufo, c'è un comma apparentemente imperscrutabile come un'incisione runica o il Disco di Festo. E dietro il quale, sorpresa, gli intenditori avrebbero scovato un ritocco che pare proprio ad personam: il via libera ai servizi segreti per i lavori edilizi alla Certosa, la villa sarda di Silvio Berlusconi. Cosa c'entra con la Finanziaria? Niente. Ma l'inserimento di cose «eccentriche» nella legge-base delle pubbliche casse non è una novità.

Spiegò un giorno l'allora ministro del Tesoro Giuliano Amato che «l'enfasi mitica che accompagna ha una spiegazione precisa: è l'unica legge ad approvazione certa da parte delle Camere. L'ultimo treno per Yuma. Dove chi non sale rischia di restare definitivamente a terra. Di qui le mille spinte per infilarci di tutto». Dai soldi per il lago di Pergusa («il lago di Proserpina!») alla sagra del Polpo, dal carnevale di Putignano alla mozzarella doc, «formaggio fresco a pasta filata prodotto con latte bufalino». Lobby ricche e lobby straccione.

Ruotavano personaggi mitici, intorno alle Finanziarie. Come Wilmo Ferrari, detto per l'irruenza «Wilmo la clava». O i protagonisti di memorabili nottate quale quella della scazzottata tra i diccì e il socialista Tommaso Mancia che, passato un comma imposto dallo scudocrociato per le terme in liquidazione, sbottò: «Allora deve passare anche l'aumento dei fondi al Club alpino italiano». «Cos'è, un ricatto?». «No, ma se passa il vostro emendamento deve passare pure il nostro». «Che ti frega, il Cai è socialista?». «No, ma è giusto così». «Sono socialiste le Alpi?». «Guarda che vivo al mare». Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Come non è nuova, alla faccia delle promesse prima del centrosinistra e poi del centrodestra di rendere più semplice il linguaggio, la scelta di continuare piuttosto ricordando l'antico monito lasciato nel Settecento da Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». Detto fatto, tra le 58.538 parole per un totale di 591 commi che compongono il megaemendamento fatto votare l'altro ieri dal governo, prendere o lasciare, si può leggere al punto 245 questo capolavoro a metà tra il sanscrito e il cifrario di Vernam: «All'articolo 24, comma 6, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni, dopo le parole: "comma 1-bis" sono aggiunte le seguenti: "e degli organismi di cui agli articoli 3, 4 e 6 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, che sono disciplinati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, emanato su proposta del Comitato di cui all'articolo 2 della citata legge n. 801 del 1977, previa intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze"». In pratica, spiegano gli specialisti, si tratta di un «ritocco», proposto inizialmente con l'emendamento 35.158 da due senatori azzurri, Aldo Scarabosio e Mario Francesco Ferrara, alla «Merloni». La legge voluta nel 1994 dall'allora premier Carlo Azeglio Ciampi e dal ministro dei Lavori pubblici Francesco Merloni per rendere trasparenti gli appalti pubblici, che avevano visto l'esplodere di scandali indimenticabili. Quale quello del costruttore Edoardo Longarini, che secondo la Corte dei conti era arrivato ad applicare per gli scavi sovrapprezzi del 156% (fondazione sotto i 2 metri), 258% (sbancamento) e addirittura 477 (fondazione da 0 a2 metri) per cento.

Diceva, dunque, la «Merloni» che per i lavori pubblici sono obbligatorie le gare europee, aperte e trasparenti, salvo rare e precise eccezioni. Dice la leggina fatta passare nel megaemendamento che, a quelle rare e precise eccezioni, vanno aggiunte quelle che toccano gli «organismi di cui agli articoli 3, 4 e 6 della legge 24 ottobre 1977, n. 801», vale a dire il Cesis, il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza, il Sismi, cioè il Servizio informazioni sicurezza militare, e il Sisde, cioè il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica. I quali, per quel che se ne sa, avevano già manifestato qualche insofferenza per la «Merloni» e hanno avuto a che fare negli ultimi tempi con vari lavori di edilizia pubblica (caserme, postazioni, infrastrutture varie...) ma uno solo nella proprietà privata di un cittadino, sia pure speciale: Villa Certosa a Portorotondo.

Dove oltre alle cinque piscine della talassoterapia (costruite abusivamente, descritte, fotografate e pubblicate in un libro prima della firma delle licenze), al lifting di una cabina elettrica diventata un finto nuraghe con vetrate trasparenti sul mare che «con un semplice scatto d'interruttore si polarizzano per garantire la massima privacy» e all'anfiteatro che miracolosamente ottenne il via libera della Regione allora forzista addirittura 56 giorni prima che fosse presentata la domanda (wow!), è stato appunto scavato nella tutelatissima roccia il celeberrimo imbarcadero stile 007. Imbarcadero sul quale la magistratura di Tempio Pausania ha aperto un'inchiesta. Subito arginata, prima ancora di una contestatissima aggiustatina al decreto delega sull'ambiente e del comma di cui parliamo che potrebbe chiudere la faccenda, da due decreti varati ai primi di maggio da Pietro Lunardi e Beppe Pisanu, coi quali si dichiaravano tutti i lavori (non si è mai capito se era compreso, ad esempio, il «capanno di cantiere riattato a bungalow per gli ospiti» di cui scrive l'architetto) assolutamente top secret. Al punto che perfino i decreti, in mano agli avvocati del Cavaliere, vennero solo mostrati al Pm. Guardare e non toccare. Una scelta che destò perplessità. E qualche risatina: la mappa segretissima del posto, con tutti i dettagli comprese le altimetrie, era infatti pubblicata a pagina 232 del libro che della Certosa descrive le meraviglie. Top secret all'italiana.

Una storia italiana

Una legge regionale per un solo comune (forse due), un canale di 7 km, una modifica del Piano di assetto idrogeologico: solo per favorire un’operazione immobiliare di Paolo Berlusconi, fratello del più noto Silvio, già Presidente del consiglio della Repubblica italiana.

I giornali di questi giorni parlano della legge che la Regione Lombardia sta approvando:una legge che, riducendo da 5 a 3 anni la durata della norme di salvaguardia sugli strumenti urbanistici adottati, consente di realizzare una grossa operazione immobiliare (Monza Due) su terreni di Paolo Berlusconi. È una prassi italiana, che il Parlamento nazionale ha dismesso da quando è stato rinnovato ma che nella Regione Lombardia ancora vige: la prassi delle leggi

ad personam.

Leggendo la cronaca de la Repubblica, e poi la lettera dell’assessore all’urbanistica di Monza Alfredo Vigano, e poi l’appello ai consiglieri regionali delle associazioni ambientaliste, ci siamo ricordati un servizio bellissimo di Report, l’ottima trasmissione di Rai Tre diretta da Milena Gabanelli. Raccontava come un canale di 7 km a spese della collettività (progettato ma non realizzato) e una modifica del Piano di assetto idrogeologico avessero reso edificabile un’area di proprietà del fratello dell’allora Premier.

È difficile trattenere il sentimento di disgusto e d’indignazione, di rabbia. Aiuta a farlo ricordare le parole del poeta Paul Éluard, “il nous faut drainer la colère”, dobbiamo incanalare la collera (nella poesia Les sept poèmes d'amour en guerre): tradurla in denuncia, protesta, azione e proposta culturale e politica. Intanto, documentare: è ciò che facciamo, e continueremo a fare.

Per ora, inseriamo qui sotto l'articolo più recente, che inquadra la vicenda. Poi alleghiamo in formato .pdf una lettera dell'assessore Viganò e l'appello delle associazioni ambientaliste, e infine lo stralcio dal servizio di Report (qui il link al testo integrale).

La Repubblica, 23 maggio 2006

Urbanistica, Pronta la legge a favore di Paolo Berlusconi

di Andrea Montanari

La Regione impone la modifica della legge urbanistica per favorire a Monza il progetto edilizio di Paolo Berlusconi alla Cascinazza, l’opposizione insorge e fa saltare il consiglio regionale, che rinvia la seduta alla prossima settimana. Protesta il sindaco di Monza Michele Faglia, che ieri ha scritto al governatore Roberto Formigoni. «Se non bloccherà tutto - spiega - dimostrerà di essere succube non solo di Paolo Berlusconi, ma di tutti gli interessi che vogliono mettere le mani su un’area protetta. Non sarò mai il sindaco del sacco edilizio di Monza. Se i monzesi non sono d’accordo l’anno prossimo si scelgano un altro sindaco».

Il presidente della commissione Territorio di Forza Italia Marcello Raimondi si difende: «È solo una modifica tecnica, non c’è nessun interesse in gioco». Ma i Ds in Regione insistono. «Per l’ennesima curiosa coincidenza - denuncia il consigliere regionale della Quercia monzese Pippo Civati - un provvedimento apparentemente tecnico apre la strada alla costruzione di quasi 400mila metri cubi in un’area ora considerata sicura dalle esondazioni del Lambro solo perché è stata ipotizzata la realizzazione di un canale scolmatore che costerà 170 milioni di euro».

La vicenda è al centro di un’annosa polemica. La società Istedin di Paolo Berlusconi, fratello dell’ex presidente del Consiglio, ha presentato anni fa un piano di lottizzazione su un’area di 388mila metri cubi. Il progetto di legge presentato ora della maggioranza chiede di ridurre da cinque a tre gli anni entro i quali non si può costruire, in contrasto con un piano regolatore già adottato. Tecnicamente questo periodo, oggi di cinque anni, si definisce salvaguardia. Se passasse, la modifica di fatto annullerebbe gli effetti della variante al piano regolatore approvata nel 2002 dalla giunta monzese, allora di centrodestra, che riduceva a soli 200mila metri cubi l’area edificabile. Mentre a Monza rimarrebbe in vigore solo il vecchio piano regolatore del 1971, che non prevede limiti. In questo modo, la Istedin di Paolo Berlusconi non avrebbe più ostacoli e potrebbe lottizzare tutti i 388mila metri cubi del terreno della Cascinazza ora destinato al verde. E con lei altre società in altre aree, per un totale di un milione di metri cubi. Il provvedimento, che ha ottenuto l’avvallo anche dall’assessore regionale al Territorio leghista Davide Boni, dopo lo stop di ieri slitterà alla prossima settimana. Per questo, l’Unione, che ha già presentato oltre ottocento emendamenti, sottolinea che al momento «il pericolo è solo rinviato».

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