loader
menu
© 2025 Eddyburg

"Una delle più colossali frodi poste in essere nella storia nazionale". Se soltanto si prende in considerazione come, con quali parole e intensità, i pubblici ministeri di Roma definiscono l'affaire che travolge oggi Fastweb e Telecom, si può comprendere a che punto siamo. Per provare a dirlo, occorre mettere in fila quel che accade. Gli arresti in flagranza di amministratori con la "bustarella" in tasca. Lo scandalo che ha svelato la corruzione e il malcostume nascosto dal potere d'eccezione concesso alla Protezione civile di Guido Bertolaso in nome del "fare" e del miracolismo mediatico. I fondi neri e il riciclaggio per migliaia di milioni di euro prodotti dal business illegale delle due società telefoniche. I brogli elettorali e, addirittura, l'ingresso in Parlamento di un uomo selezionato da un clan mafioso. La cronaca racconta, a chi vuole sentire, che corruzione e malaffare segnano come una malattia la nostra vita pubblica. È vero (e meno male), che non la definisce nella sua interezza, ma appunto è una patologia grave e diffusa che minaccia l'esistenza e lo sviluppo del Paese.

Dovremmo finalmente prenderne atto senza ipocrisia. La buona politica ne dovrebbe prendere atto. La buona società dovrebbe imporre l'urgenza di affrontarla. Si dovrebbe finalmente mettere in un canto la filastrocca, recitata dal presidente del Consiglio, ripetuta come una litania dai suoi corifei, rilanciata dai media dominati o docili. Quella fiaba interpreta e altera il degrado della vita italiana come artificio politico, come espediente narrativo per disturbare il manovratore. Come il metodo cinico per danneggiare gli interessi e la credibilità internazionale del Paese (anche questo è stato avventurosamente detto).

Per un decennio, si è voluto raccontare la corruzione italiana come una storia definitivamente chiusa con il crollo della Prima Repubblica. Per un lustro - e ancora con maggior pervasività e petulanza nello scorcio di questa ultima legislatura - le immagini venute fuori da un caleidoscopio di verità rovesciate hanno rappresentato la patologia italiana come l'invenzione di un pugno di magistrati ostinatamente tentati dal potere, come la trovata di una politica e di qualche querulo giornale a corto di argomenti, modernità, cultura e visione. Il coinvolgimento nel mondo illegale del gotha delle società telefoniche - giovani interpreti della contemporaneità, energie e intelligenze affacciate nello stretto sentiero che separa il non più dal non ancora - dimostra che dalla nostra malattia non siamo guariti nel 1994.

Anche la nuova generazione di uomini d'affari è stata afferrata dal gorgo che non si è voluto eliminare. Per quindici anni politica e giustizia si sono dati battaglia e, nel rumore dello scontro, sono andate smarrite le ragioni che hanno reso e rendono fragile la politica e robusto, invasivo l'intervento giudiziario. Si è voluto far credere che il problema riguardasse soltanto gli uomini in toga, la loro volontà di potenza. Per anni, e ancora poche settimane fa, è parso che l'assoluta priorità non fosse prosciugare i pozzi neri, distruggere la rete di connivenze e omertà, dare luce all'invisibilità e alla segretezza, sempre necessarie alle dinamiche e all'espansione del malaffare. Urgente - ci hanno detto - era assicurare una protezione immunitaria al ceto politico. È la mitologia e il disegno politico che una realtà degradata e fatti ostinatissimi hanno sciolto nell'arco di poche settimane mutando il segno del clima politico e forse il destino della legislatura.

Oggi all'ordine del giorno non c'è più il ripristino dell'immunità dei parlamentari. Oggi appare intollerabile che la corruzione sia considerata da un disegno di legge criminofilo (il processo breve, già approvato in un ramo del Parlamento) un reato non grave, una pratica così penalmente lieve e socialmente risibile da rendere accettabile che i tempi processuali per aggredirla siano contingentati. La concretezza della patologia italiana, la lunga catena di scandali che inchiodano il Paese davanti a uno specchio, dovrebbe renderci consapevoli di quel che in Occidente tutti sanno: la corruzione crea una quantità di criticità che distruggono le istituzioni, la vitalità della democrazia, i valori etici, la giustizia. Minaccia la stabilità e la sicurezza della società.

Discutere di corruzione - ne sono consapevoli a Milano come a L'Aquila, in Piemonte come in Calabria - vuol dire interrogare i modi della convivenza civile, della nostra organizzazione sociale, della legittimità delle istituzioni, della trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese. Vuol dire discutere di quelle regole che il mito ideologico berlusconiano ha ritenuto inutili o irrilevanti, soltanto legacci capaci di imbrigliare le energie vitali. Significa ricordare che la corruzione (lo si vede nello scandalo della Protezione civile) tende a occupare gli spazi di discrezionalità lasciati a singoli individui, politici, amministratori o comunque pubblici ufficiali e in modo particolare affiora dove maggiormente si concentrano il potere politico e potere economico. Vuol dire ripristinare, al di là dell'intervento della magistratura che arriva sempre dopo, il canone della responsabilità, sistemi di controllo efficienti e credibili, garanti che sappiano proteggere le regole e prevenire i comportamenti e i "sistemi" patologici, gli abusi, i conflitti di interesse, le distorsioni del mercato.

A questo punto, dunque, siamo oggi, e dobbiamo soltanto chiederci se saremo in grado di venirne fuori prima che un'altra Repubblica cada sotto il peso della sua debolezza. Con un salto all'indietro, siamo ritornati alla casella di partenza. Al 1994, quando morì l'illusione di un risanamento del Paese.

Un casinò da aprire sul dolore dell'Abruzzo. Una sala da gioco autorizzata da una postilla, infilata dentro uno dei decreti per la ricostruzione. Questo stavano progettando gli amici di Guido Bertolaso, 60 anni, capo della Protezione civile e uomo immagine del governo. È l'ultima trovata della banda della maglietta, come la t-shirt dal bordo tricolore che indossa il vicere delle emergenze. Diego Anemone, 39 anni, il costruttore tuttofare arrestato il 10 febbraio, voleva trasformare il Salaria sport village di Roma in una piccola Las Vegas. Poker e slot machine di ultima generazione. Quelle in cui infili i numeri della carta di credito o del bancomat e vai avanti a giocare fino a quando il conto è prosciugato. Erano sistemi vietati. Poi Silvio Berlusconi ha firmato il decreto, convertito il 24 giugno 2009 nella legge 77. E via, con la scusa di finanziare la rinascita a L'Aquila grazie a una tassa una tantum di 15 mila euro a macchinetta, ecco inventata una nuova fonte di guadagno.

C'è sempre un provvedimento d'urgenza, un'ordinanza pronta quando qualcuno della banda si fa prendere la mano dalle deroghe o dagli abusi. È davvero straordinario il sottosegretario Bertolaso, come i suoi poteri che la Procura di Firenze ha ora messo sotto inchiesta. Sembra che in Italia non ci siano più alternative al suo modo spaccone di gestire gli appalti, i cittadini, il codice civile e quello penale. Se ne sta lì in mezzo al sistema solare della Tangentopoli 2. Praticamente intoccabile. Protetto dall'affetto di Gianni Letta e Francesco Rutelli. Amato nel Pdl, nel Pd e in Vaticano. Cercato, riverito da questa drammatica corte di imprenditori, massoni, paramafiosi, progettisti e puttanieri che stanno spolpando le casse dello Stato. Come hanno fatto in Sardegna, a forza di prezzi gonfiati e ritocchi in corso d'opera: quanto sarebbero utili i soldi sprecati alla Maddalena, oggi che da Porto Torres a Cagliari aumentano i disoccupati e nessuno sa come riaccendere l'economia. Dalla scuola dei sottufficiali dei carabinieri a Firenze ai laboratori con i virus letali dell'Istituto Spallanzani a Roma, finiti in una interrogazione in Senato: "Sono state rispettate le norme antisismiche?", chiede pochi mesi fa Domenico Gramazio (Pdl). Perché se crolla, scappano i virus.

E lui, il Guido nazionale, può beatamente dire che va tutto bene, che non si è accorto di nulla. Può perfino permettersi, senza perdere il posto, di negare la partecipazione della Protezione civile a una esercitazione internazionale, finanziata dall'Unione Europea: l'unica organizzata in Calabria negli ultimi anni, in una delle regioni sismiche più pericolose al mondo. Quando la Commissione europea viene a sapere che i soccorritori di Bertolaso non ci saranno, annulla l'esercitazione. Una figura pazzesca per l'Italia. A tutt'oggi nessuno ha mai più valutato se le prefetture, i Comuni, gli ospedali calabresi siano in grado di gestire l'emergenza dopo una catastrofe. Niente male per l'uomo che pochi giorni fa è volato ad Haiti e dalla capitale rasa al suolo dal terremoto ha accusato di incapacità il governo degli Stati Uniti.

Il viaggio nel mondo infallibile di Guido Bertolaso, fresco di riconferma, può cominciare proprio da qui: via Miraglia 10, prefettura di Reggio Calabria. Nel 2008 si celebra l'anniversario del terremoto del 28 dicembre 1908: 80mila vittime a Messina e provincia, 15mila a Reggio. Da duecento anni la terra sullo Stretto trema dopo un secolo di silenzio sismico. Il dipartimento di Bertolaso dovrebbe per legge verificare la preparazione di Comuni, Regioni e prefetture, coordinare le esercitazioni, aiutare gli enti locali a predisporre i piani, correggere le lacune. Il 27 luglio 2007 il professor Mauro Dolce, direttore per la Protezione civile dell'Ufficio prevenzione e mitigazione del rischio sismico, spedisce in Calabria lo 'scenario di danno', nel caso si ripetesse oggi una catastrofe come quella del 1908. I dati vengono ricavati dal Sistema informativo per la gestione dell'emergenza, un archivio che tiene conto della qualità degli edifici. Il bilancio è terrificante: 325.247 persone coinvolte dai crolli, 335.699 senzatetto. Un altro calcolo, tenuto nei cassetti degli uffici di Bertolaso, prevede 112.312 morti.

L'anno successivo è il momento delle commemorazioni storiche. Ed è anche l'occasione per verificare il sistema dei soccorsi: viene messa in agenda l'esercitazione Ermes 2008. La Commissione europea sceglie il progetto di Reggio per collaudare su vasta scala l'integrazione internazionale tra i diversi corpi di protezione civile. Si fanno riunioni a Bruxelles, si firmano accordi. Il prefetto, Antonio Musolino, però deve insistere con Bertolaso. E lui il 6 agosto 2008 gli risponde con una lettera di ghiaccio: "Nel comunicarti che questo Dipartimento non prenderà parte alle successive attività organizzative ed operative, non mi resta che augurarti un proficuo avanzamento dei lavori... previsti dal progetto, che mi auguro possa avere la giusta rilevanza in ambito locale", scrive Bertolaso. Ambito locale? E la Commissione europea? Il capo dipartimento se la prende con il prefetto Musolino "per il quadro economico progettato dalla tua struttura, che non risulta modificabile". Questione di soldi. Il capo della Protezione civile nazionale vuole essere al centro dell'organizzazione.

Il 3 settembre Hervé Martin, capo unità della Commissione europea, prende atto che senza gli uomini di Bertolaso l'esercitazione non sarebbe più realistica: "La Commissione comprende la perdita di tempo risultata dalle negoziazioni senza successo con il dipartimento di Protezione civile...", scrive Martin. Bruxelles cancella la partecipazione dei Paesi della Ue. E pure i finanziamenti. La prova viene rinviata dall'estate a dicembre. Ma resta limitata alla catena di comando locale. Niente mobilitazione sul campo dei soccorritori italiani e stranieri. Niente coinvolgimento dei cittadini, delle scuole, degli ospedali. Nessun piano di emergenza condiviso.

Nel 2008 Bertolaso lascia scadere anche il protocollo di prevenzione tra il suo dipartimento e la Regione Abruzzo. E, mentre nei mesi successivi la terra trema, nessuno ricorda che uno studio ha inserito la prefettura a L'Aquila tra gli edifici a rischio sismico. Infatti il 6 aprile 2009 la prefettura crolla, paralizzando per ore la catena dei soccorsi. Sempre nel 2008 il commissario delegato per il G8, una delle tante cariche che Romano Prodi e Silvio Berlusconi affidano a Bertolaso, deve soprattutto predisporre i cantieri sull'isola della Maddalena. È la grande abbuffata di soldi pubblici che il 10 febbraio porta in cella con l'accusa di corruzione quattro uomini della 'banda della maglietta'.

Oltre all'amico Diego Anemone, gli altri sono: Angelo Balducci, 62 anni, nel 2008 coordinatore delle strutture di missione e poi presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Fabio De Santis, 47 anni, prima soggetto attuatore per il G8 e poi provveditore ai Lavori pubblici a Firenze, e Mauro Della Giovampaola, 44 anni, ingegnere cresciuto tra le imprese di Diego Anemone, diventato poi controllore degli appalti di Diego Anemone alla Maddalena e, forse proprio per l'efficacia dei suoi controlli, nel 2009 confermato alla presidenza del Consiglio e nominato responsabile delle opere per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Balducci e De Santis vengono nominati negli appalti della Protezione civile su proposta di Bertolaso. Quella di Mauro Della Giovampaola è invece una carriera tutta di corsa. Quando sull'isola della Maddalena 'L'espresso' gli chiede al telefono come possa conciliare il suo passato di socio della famiglia Anemone con il presente di controllore dei lavori e delle spese degli Anemone, l'ingegner Della Giovampaola si appella all'etica professionale. Poi chiama Angelo Balducci e lo aggiorna della telefonata. I carabinieri del Ros li registrano.

Nel dicembre 2008 'L'espresso' con uno stratagemma entra nei cantieri del G8 coperti dal segreto di Stato. È la prima inchiesta giornalistica sulla rete Bertolaso-Balducci-Anemone. A Roma piove da giorni. Il Tevere è in piena. La sera di venerdì 12 il capo della Protezione civile si fa intervistare dalle tv. Sullo sfondo le luci della capitale si riflettono nel gonfiore del fiume. Alcuni ponti sono chiusi da ore dopo che i barconi-ristorante si sono incastrati sotto le arcate. "La grande criticità", dice Bertolaso, "non è rappresentata dalla piena del Tevere, che passerà nel corso della notte in maniera controllata, ma da alcuni imbecilli che non hanno ancorato bene i barconi sul fiume".

Il capo della Protezione civile sa bene che il Tevere, come tutti i fiumi, ha bisogno di zone di espansione. Servono a rallentare le piene, a evitare che l'acqua allaghi le città. Una di queste aree di protezione è all'ingresso di Roma, quartiere Settebagni. Anzi era. Perché quello è il terreno vincolato a uso agricolo su cui Diego Anemone ha costruito i nuovi impianti del Salaria sport village, sfruttando le ordinanze proposte a Berlusconi dall'amico Bertolaso per i mondiali di nuoto 2009. La palazzina, la piscina olimpionica coperta e la sala del futuro casinò sono ora sotto sequestro. Ma nel dicembre 2008 i muratori lavorano ancora giorno e notte. Tranne nei giorni della piena: il cantiere finisce sott'acqua.

Bertolaso è socio del Salaria sport village. È lì quasi ogni settimana a farsi massaggiare la schiena. È perfino un pubblico ufficiale con obbligo di denuncia. Il suo amico Diego Anemone sta violando tutte le norme urbanistiche e paesaggistiche. Italia nostra e il circolo locale del Pd denunciano da mesi gli abusi. Il vicepresidente del quarto municipio di Roma, Riccardo Corbucci, 31 anni, tra i più impegnati e informati nella battaglia di quartiere, qualche mese dopo verrà addirittura pedinato e filmato da due persone in scooter. Un modo per provare a spaventarlo e fermare i ricorsi al Tar, che invece vanno avanti. Eppure l'attento Guido nazionale non vede nulla di irregolare tra gli affari dei suoi amici. Anzi il 30 giugno 2009, sei giorni dopo la conversione in legge del decreto per l'Abruzzo e per le nuove slot machine, Bertolaso propone e Berlusconi firma l'ordinanza 3787 della presidenza del Consiglio. Gli amici sono salvi: gli impianti privati vanno equiparati a quelli pubblici e gli abusi, se approvati dal Comune di Roma, diventano legali. Molte strutture, compresa quella di Anemone, restano sotto sequestro dopo le prime perquisizioni chieste mesi fa dalla Procura di Roma. Ma almeno le piscine possono essere usate per gli allenamenti durante i mondiali. Ci sono gli affitti e i compensi della federazione da incassare.

Passata la piena del Tevere di fine 2008, il 23 dicembre Bertolaso sale a Parma per una scossa di terremoto. Il 24 torna a Roma e incontra Balducci per decidere come rispondere all'inchiesta giornalistica de 'L'espresso' uscita il giorno prima. "Il dottor Guido Bertolaso", fa scrivere qualche ora dopo il capo all'ufficio stampa della Protezione civile, "ha ricevuto dall'ingegner Balducci una relazione che ribadisce la regolarità delle procedure seguite ed esclude qualsiasi legame familiare con imprese impegnate nella realizzazione delle opere". Bertolaso ovviamente non dice di avere concordato con Balducci una menzogna.

È quello che scoprono poco dopo i carabinieri del Ros quando sentono Balducci spiegare la soluzione a Diego Anemone e a Fabio De Santis: "Nel corso dell'incontro tra il Balducci e il Bertolaso è stato concordato di far predisporre al commercialista Gazzani" una falsa dichiarazione: dovrebbe scrivere una nota da cui risulti inattiva la Erreti film, la società che lega negli affari le mogli di Balducci e di Anemone. Stefano Gazzani, 48 anni, è il commercialista delle due famiglie. Forse proprio in cambio di questo favore Gazzani viene inserito nella commissione di collaudo delle opere alla Maddalena. Un commercialista messo a verificare lavori di ingegneria? La notizia circola da tempo nei cantieri.

Quando per verificarla 'L'espresso' chiede alla Protezione civile l'elenco dei collaudatori, c'è una sorpresa: il commercialista di Balducci non compare. La presenza di Gazzani nella commissione di collaudo emerge soltanto adesso dalle intercettazioni di Mauro Della Giovampaola. Anche i compensi per i collaudi sono un affare. E in quell'elenco, tra i tanti nomi, c'è un'altra storia da raccontare. Quella di Roberto Grappelli. È segretario generale dell'Autorità di bacino del Tevere quando il 31 marzo 2008 firma il parere positivo al progetto di Diego Anemone per l'ampliamento dello Sport Village sul terreno di espansione del fiume. Così, mentre Claudio Rinaldi, altro amico di Balducci e commissario delegato per i mondiali di nuoto, dà il via libera ai lavori nel Salaria sport village, Grappelli cambia vita: collaudatore per il G8 e presidente della metropolitana di Roma.

Il casinò è l'ultima frontiera della banda della maglietta. Sport, massaggi, ristorante, gioco. E tanti ospiti famosi. Come l'amico Guido Bertolaso. Qualche settimana fa la pratica finisce sul tavolo di un concessionario di Lottomatica. L'idea è di installare le Vlt, le macchine mangiasoldi collegate online. "È come connettersi a Internet, si può vincere fino a mezzo milione", spiega uno dei rappresentanti contattati da 'L'espresso': "Abbiamo fatto un sopralluogo con il dottor Travasi, un concessionario di Lottomatica. Il problema è che in uno spazio sotto sequestro non si può aprire un casinò. Nemmeno un minicasinò. La legge non lo consente". Questo no, almeno per ora.

Con tutto il rispetto dovuto - fino a prova contraria - a Guido Bertolaso e con tutto il dispetto generato dalla nuovissima concezione della legalità a percentuale di Silvio Berlusconi («se uno opera bene al 100 per cento e poi c'è l'uno per cento discutibile, quell'uno va messo da parte»), lo scandalo della Protezione civile non può essere liquidato con le promesse eroiche del super-commissario, prontoa «dare la vita» per convincere gli italiani che non li ha ingannati, e nemmeno con gli insulti rituali del premier ai magistrati: «Si vergognino, Bertolaso non si tocca».

Si tratta semplicemente di capire cosa sta succedendo nell'ombra gigantesca e secretata delle Grandi Opere e delle Grandi Emergenze, dove sembra affiorare - grazie all'annullamento di tutti i controlli e di ogni regola - un sistema di corruzione e di appalti pilotati compensato all'italiana con una girandola di favori personali ai funzionari statali: pagati ben volentieri e con larghezza di mezzi dalle imprese che ricevevano i lavori pubblici con scelte totalmente discrezionali, sottratte alla legge e a ogni sorveglianza. Tutto ciò impone un'operazione di trasparenza, davanti ai cittadini. Nell'interesse di Bertolaso, del governo e dei contribuenti, deve cadere il velo che occulta metodi e procedure della Protezione civile, coperti dallo stato permanente d'emergenza.

Un'emergenza che diventa eccezione, dicono i magistrati, e che ha generato un meccanismo di scambio perfetto, dove imprese private e funzionari pubblici maneggiano corruzione, appalti e favori, in una «gelatina» di Stato coperta dalla Grande Deroga berlusconiana.

I fatti, (raccolti nell'ordinanza da un gip che a Milano archiviò l'inchiesta sul Lodo Mondadori, salutato con entusiasmo da Berlusconi: «finalmente c'è un giudice a Berlino») sono semplici: tre pubblici ufficiali incaricati dalla Presidenza del Consiglio di gestire i cosiddetti Grandi Eventi dei mondiali di nuoto, del G8 alla Maddalena e dell'anniversario dell'Unità d'Italia, «hanno asservito» la loro funzione pubblica con risorse e poteri enormi «in modo totale e incondizionato» agli interessi di un imprenditore interessato. Almeno cinque grandi appalti sono stati pilotati e l'imprenditore ha ringraziato con 21 benefit regalati ai funzionari statali infedeli, ai loro amici e ai grand commis circostanti per rispondere ad ogni loro esigenza privata, dalle auto alle colf, alla ristrutturazione delle case, ai favori sessuali, ai viaggi, agli alberghi, alle assunzioni di figli e cognati. Una «gelatina», appunto, «di ordinaria corruzione», una ragnatela che ha portato a quattro arresti, tra cui il presidente del Consiglio Superiore per i Lavori Pubblici, per corruzione continuata e a quaranta indagati, compreso Guido Bertolaso: l'ordinanza sottolinea «i rapporti diretti» dell'imprenditore beneficato dagli appalti pilotati con il Super-commissario, gli incontri «di persona» in previsione dei quali l'impresario «si attiva alla ricerca di denaro contante, tanto che gli investitori ritengono fondato supporre che detti incontri siano stati finalizzati alla consegna di somme di denaro a Bertolaso».

C'è solo da sperare che gli indagati dimostrino che le accuse non sono vere, non ribellandosi alla giustizia come Berlusconi consiglia a Bertolaso, ma aiutandola a chiarire in fretta. Intanto, purtroppo, sono vere le risate da sciacalli degli imprenditori che pregustano con certezza gli appalti statali per la tragedia dell'Aquila, e poche ore dopo la scossa raccontano al telefono: «Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro il letto». Ma se questo è il quadro dell'inchiesta, qual è la cornice istituzionale che lo circonda? Si dovrebbe parlare di potere, più che di istituzioni, se si vuole capire.

La Protezione civile, che Berlusconi sta trasformando in Spa, è infatti uno straordinario esperimento politico di Stato d'eccezione, con un ramo operativo del governo libero da ogni controllo e sciolto dalla legge. Questo vale naturalmente per le grandi sciagure, le calamità nazionali, le vere emergenze per cui è nata la Protezione. Ma poi, il governo ha esteso lo stesso sistema ai Grandi Eventi, dai giochi del Mediterraneo all'anno giubilare paolino, ai viaggi del Papa in provincia, ai mondiali di nuoto, all'esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Cupertino, alla Vuitton Cup.

Nel solo 2009 le opere d'emergenza sono state 78, dal 2002 addirittura 500, con una spesa di 10 miliardi di euro.

Questa emergenza continua, che si estende ovunque, è sottratta per legge al controllo della Corte dei Conti e a quello dell'Autorità per i lavori pubblici, e la Protezione civile può agire in deroga ad ogni disposizione vigente. Libertà totale: dalle leggi sulla trasparenza, sui requisiti dei contratti, sulla concorrenza, sugli appalti, sulla pubblicazione dei bandi, sugli avvisi, sugli inviti, sulle verifiche archeologiche, sulle varianti, sui termini, sulla selezione delle offerte, sull'adeguamento prezzi, sulla progettazione. È un sistema che, portato fuori dai confini del pronto intervento d'emergenza per le sciagure nazionali, non ha alcun senso nell'equilibrio tra i poteri dell'amministrazione statale. Acquista però un senso politico e istituzionale fortissimo nel disegno di riordino gerarchico che Berlusconi persegue, e che chiama «riforma». Il Presidente del Consiglio ha dimostrato più volte di non accettare controlli e bilanciamenti tra i poteri, ritenendo se stesso, in pratica, una deroga vivente alla Costituzione repubblicana, in quanto investito di quel consenso popolare che lo scioglie da ogni regola e ogni consuetudine, sovraordinandolo rispetto al potere giudiziario e agli organi di garanzia.

Le stesse leggi ad p e r s o n a m c h e stanno bloccando il Parlamento per sottrarre il Premier al suo giudice, sono nello stesso tempo un gesto disperato di fuga e la fondazione di un nuovo ordine, dove la legge nonè più uguale per tutti, perché il potere supremo può salvarsi decretando per se stesso l'eccezione, e su questa eccezione fondare una nuova gerarchia istituzionale di fatto.

In questa visione che contiene la sfida suprema e necessitata del berlusconismo, Bertolaso e la Deroga permanente in cui vive e opera rappresentano un test istintivo e naturale, su vasta scala, impiantato su un meccanismo emergenziale fatto di emozioni, dolori e spettacolarità, perfetto per un'interpretazione politica carismatica e populista. Con la Protezione civile che diventa Spa,e sta per usufruire di una speciale immunità presente, futura e retroattiva, la Deroga va al governo:e il modello Bertolaso prefigura la dimensione finale del moderno populismo di destra, con la politica ridotta a pura ideologia interpretata dal leader magari insediato al Quirinale, la partecipazione popolare ridotta a vibrazione periodica di consenso, la forma di governo resettata sul puro tecnicismo elevato a massima potenza. Il governo come solutore di problemi (proprio mentre si rifugge dallo Stato), signore delle leggi in nome di un'emergenza permanente: che rende ogni intervento pubblico octroyée da uno Stato compassionevole e propagandistico, tra gli applausi dei cittadini divenuti spettatori di un discorso pubblico tramutato in format di Grandi Eventi.

Ecco perché l'inchiesta sulla Protezione Civile colpisce il cuore del berlusconismo. Il Cavaliere ha fretta, procede per immunità e scorciatoie, riduce la politica a prospettiva di pura forza che travolge anche ogni orizzonte di riforma costituzionale condivisa. La Grande Deroga è già un cambio materiale della Costituzione, in atto, mentre qualche autorevole esponente dell'opposizione chiede ancora ogni giorno in un'intervista quando si comincia con le riforme.

Ma oggi, la Grande Deroga produce con tutta evidenza la gelatina di Stato della corruzione. E dunque diventa esemplare, dimostrando a chi non vuol capire che l'esercizio del potere fuori dai principi costituzionali che lo costringono dentro forme e limiti sfocia facilmente nell'arbitrio, nella disuguaglianza e nell'esclusione, in quell'abuso che è la vera cifra complessiva di questa destra al governo. Non solo: pregiudica quella «modernizzazione» che vive solo nella propaganda del governo ma di cui il Paese ha bisogno, negando il mercato e la concorrenza, come denuncia apertamente la Confindustria contestando la totale discrezionalità degli appalti, senza trasparenza. Riproduce un'Italia del malaffare che premia la corte e i peggiori, rimpicciolendo le opportunità dell'intero sistema.

Per queste ragioni, il governo oggi dovrebbe vergognarsi di porre la fiducia blindando il decreto che vuole far nascere la Protezione civile Spa. E l'opposizione dovrebbe sentire l'importanza della sfida, la sua portata, ed esserne all'altezza. Dopo che l'inchiesta squaderna la realtà dei Grandi Eventi, della finta emergenza, il parlamento dovrebbe diventare il luogo della trasparenza, non della militarizzazione di una decisione politica che rivela i suoi buchi neri. Questo per rispetto dei cittadini e dello stesso Bertolaso, che deve spiegare se è colluso come pensano i magistrati o se è incauto nello scegliere i suoi collaboratori, e incapace di sorvegliarne l'operato: da questo e solo da questo si capirà se deve dimettersi o può restare al suo posto, chiedendo scusa e cambiando metodo. Noi non diremo mai «diteci che non è vero», come ripetono in molti davanti alla realtà dell'inchiesta: diteci quel che è vero, piuttosto. Diteci la verità.

I morti non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un'aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell'Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.

I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l'intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell'impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un'aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell'Interno dell'epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".

I legami tra Marcello Dell'Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.

Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell'impresa, ma soltanto "socio d'opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un'ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l'ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un'idea covata da Marcello Dell'Utri fin dal 1992.

È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E' uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull'inizio di una storia imprenditoriale e sull'incipit di un romanzo politico.

È la seconda ragione di disagio, l'assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un'evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l'uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell'interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.

I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un'istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un'aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d'abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all'aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.

“Chi protegge il mercato dalla protezione civile?” Gli architetti romani hanno girato questa domanda ad Antonio Catricalà, presidente dell’autorità Antitrust. Amedeo Schiattarella, presidente dell’Ordine degli architetti di Roma ha scritto infatti una lettera al garante per segnalare “un nuovo provvedimento legislativo profondamente lesivo della concorrenza nell'ambito del mercato della progettazione architettonica in Italia”. Il riferimento è al decreto legge che dovrebbe permettere la trasformazione della Protezione civile in una società per azioni. Allargando di fatto il suo campo d’azione e soprattutto diminuendo i livelli di trasparenza negli appalti in nome della rapidità invocata nelle situazioni di emergenza. Almeno questo è il rischio paventato da più parti. Di certo Guido Bertolaso, capo della protezione civile ormai agli sgoccioli della pensione e forse in procinto di diventare ministro, non assisterà agli effetti di questo terremoto giuridico.

LEGGI SPECIALI

“In Italia assistiamo continuamente alla creazione di leggi speciali: tutto è emergenza e caso eccezionale” spiega Schiattarella al Fatto Quotidiano “ciò determina un'alterazione del libero mercato e della concorrenza. E’ come se noi avessimo paura di affrontare la via ordinaria in favore delle scorciatoie. Cos’è l’emergenza? La costruzione delle opere per l’Expo di Milano o per gli stadi del nuoto a Roma? O magari le Olimpiadi? Ogni volta si devono inventare meccanismi particolari, invece di seguire le norme già esistenti”. Nella lettera si dà conto della battaglia che l’Ordine degli architetti da anni conduce contro tutte quelle “società in house” che per conto delle pubbliche amministrazioni “svolgono vere e proprie funzioni da società di ingegneria di proprietà pubblica, sottraendo ulteriori spazi di libera concorrenza sul mercato della progettazione delle opere pubbliche e contribuendo, in molti casi, ad abbassare il livello complessivo di qualità del progetto”.

GLI APPALTI

Il decreto prevede la costituzione di Protezione Civile spa, una società pubblica di proprietà della presidenza del Consiglio che avrà tra le sue competenze “la progettazione, la scelta del contraente, la direzione lavori, la vigilanza degli interventi strutturali ed infrastrutturali, nonché l'acquisizione di forniture o servizi rientranti negli ambiti di competenza del Dipartimento della protezione civile”. Non sarà un po’ troppo? E’ la domanda che si pongono in molti. “Nulla di personale con Bertolaso che conosco e stimo” affermava qualche giorno fa in un’intervista al Sole 24 Ore Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori “ma la Spa della protezione civile è un altro segnale della volontà di procedere negli appalti pubblici con procedure straordinarie ed emergenziali in deroga alle regole ordinarie. Una cosa del genere non può passare con un decreto legge senza che si svolga un ampio dibattito”.

E Buzzetti si spinge anche più in là affermando che “il decreto legge presenta profili di incostituzionalità. Lo dicono anche autorevoli esponenti della maggioranza. Torniamo ai tempi dello Stato costruttore. Incredibile”. Gli architetti hanno scritto anche a lui, in quanto rappresentante dell’Ance. “Quando ho letto le sue dichiarazioni in quell’intervista ho ritrovato le mie stesse preoccupazioni” prosegue Schiattarella “e giusto una decina di giorni fa il problema della protezione civile era stato sollevato durante l’assemblea nazionale dei presidenti dell’Ordine degli architetti. Il punto è che la ricostruzione post terremoto non ha a che vedere con l’emergenza. Riportare in vita il centro storico de L’Aquila è un’operazione culturale, che coinvolge il rapporto tra antico e moderno. È giusto affidarla a due pensatori o non è piuttosto un argomento di dibattito sociale, d discussione collettiva? Inoltre non capisco chi farà da controllore degli interessi generali se un unico soggetto è finanziatore, progettista ed esecutore”.

L’EMERGENZA

In Italia, si sa, il concetto di emergenza, che dovrebbe motivare il ricorso alla Protezione Civile spa, è quanto mai esteso. Su questo è d’accordo Stefano Riela, professore dell’Università Bocconi, direttore scientifico della Fondazione ResPublica ed esperto di tematiche antitrust: “Secondo le regole dell’Unione europea si possono sospendere le regole del mercato interno in caso di problemi per la sicurezza dei cittadini, si può derogare solo in casi eccezionali. Però va detto che il trattato di Lisbona entrato in vigore mesi fa ha declassato la concorrenza da obiettivo a strumento”. Il punto è che il concetto di emergenza non è definito da nessuna parte e bisogna valutare caso per caso. “Sono decisioni politiche, è difficile decidere oggettivamente cosa è emergenza e cosa non lo è. Però ricordiamoci che in Francia il presidente Nicolas Sarkozy utilizza ampiamente questa disapplicazione delle regole di concorrenza in settori considerati strategici come trasporti, difesa e telecomunicazioni. Per minimizzare il rischio di opacità la protezione civile dovrebbe giustificare ogni qualvolta una decisione viene presa senza effettuare una gara pubblica, ad esempio”. Ora non resta che aspettare per conoscere l’opinione del Garante. “Se Catricalà ravviserà degli estremi per convocarci” conclude Schiattarella “andremo a raccontare le nostre ragioni”.

La Protezione civile Spa trasforma la tutela del territorio da diritto a servizio a pagamento. Su

il manifesto

Haiti è l'occasione giusta per mostrare al mondo l'ultimo gioiello del made in Italy, la neonata Protezione civile Spa. Forte della fresca nomina a «Sottosegretario incaricato del coordinamento degli interventi di prevenzione in ambito europeo ed internazionale rispetto ad interventi di interesse di protezione civile» (come recita il decreto legge istitutivo della Spa), Guido Bertolaso è già all'opera per esportare brand e know how della sua creatura.

Un modello messo a punto in otto mesi di sperimentazione dopo il terremoto dell'Aquila: «Siamo pronti a mettere a disposizione di tutto il mondo, e degli haitiani in particolare, - ha annunciato il nostro "uomo della provvidenza" all'indomani della tragedia caraibica - l'esperienza nell'ambito della ricostruzione che abbiamo acquisito in Abruzzo».

La campagna pubblicitaria per lanciare sul mercato la Società in house, già preposta per legge a produrre «utili netti» dalle operazioni di protezione civile, è cominciata: Bertolaso, nel suo doppio ruolo politico e amministrativo, ieri era in Giappone, a Kobe, a illustrare «l'esperienza italiana nella gestione dell'emergenza e della ricostruzione collegate al terremoto del 6 aprile». Nel frattempo, in Italia, l'annuncio dato e subito ritirato dal ministro Ignazio La Russa circa l'invio ad Haiti di una nave d'appoggio italiana, da scegliere tra la San Giusto, anfibia della Protezione civile, e la portaerei militare Cavour, è stato letto da alcuni dirigenti della Protezione civile come il risultato dello sgomitamento tra il Dipartimento e la Difesa per conquistarsi la massima visibilità sul campo.

La pubblicità, d'altra parte, è l'anima del mercato necessario alla Società per azioni che, ai sensi dell'articolo 15 del decreto legge 195 pubblicato in Gazzetta ufficiale il 30 dicembre 2009, diventerà una centrale privata di appalto dei lavori pubblici, ma che potrà lavorare anche per i privati e all'estero. Da noi lo farà in deroga a tutte le leggi e i piani regolatori vigenti e potrà agire sotto l'impulso di ordinanze emanate per ogni tipo di evento trasformato in stato d'emergenza, esautorando non solo le funzioni del parlamento, ma anche gli enti locali. Esattamente come è avvenuto a L'Aquila. Basta ricordare la frase di Berlusconi pochi giorni dopo il 6 aprile: «Per governare questo paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile».

All'estero, invece, agirà sul modello americano della Fema, la Federal Emergency managment agency, che dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 e l'uragano Katrina del 2006 ha acquisito dal Congresso sempre più poteri tanto da essere definita «il governo segreto degli Stati uniti». E come la Fema, il cui brand impreziosisce ormai un particolarissimo merchandising dell'emergenza - aerei, elicotteri, prefabbricati in legno, ecc - commercializzati nel mondo, «anche la Spa di Bertolaso si prepara ad esportare il marchio del Biscione», per usare le parole di Antonio Crispi, segretario nazionale Fp-Cgil per la Protezione civile. La Spa, con un capitale iniziale di un milione di euro prelevato dal fondo della Protezione civile, acquisirà tutte le «funzioni strumentali» (non i compiti) del Dipartimento controllato dalla Presidenza del consiglio dei ministri, ossia subentra nella gestione di tutti i mezzi a disposizione del Dipartimento, centri funzionali, risorse tecnologiche, flotta aerea e quant'altro, tutto ciò che serve a seconda dell'evento che si dispone ad affrontare.

E quando Ionta annuncia che per costruire le carceri si servirà della Spa, dice semplicemente che i soldi per far fronte all'emergenza penitenziaria andranno a rimpinguare le casse della Società (che per il momento non può essere quotata in borsa). «Il fatto che la Spa possa accumulare utili ci dice che si passa dal concetto costi-benefici al concetto costo-ricavi - aggiunge Giovanna Martini, funzionaria di Protezione civile e coordinatrice del circolo Pd della Presidenza Cdm - la tutela della vita e del territorio diventano a pagamento». «Non sappiamo più se saremo funzionari pubblici che hanno giurato fedeltà alla Costituzione - lamenta Francesco Geri, ingegnere del Dipartimento - o procacciatore di affari per la Spa». «Qualsiasi intervento sul territorio, qualsiasi lavoro necessario alla prevenzione di qualunque tipo sono nelle mani della Spa. Che se entra in contenzioso con gli enti locali, per esempio, può avvalersi dell'avvocatura dello Stato», afferma Giovanni Ciancio, responsabile Cgil del settore emergenze della Protezione civile. «Per Silvio Berlusconi è il modo più semplice - conclude - per ottenere subito una sorta di premierato».

Habemus dominum dall’ugola d’oro. Ogni sillaba luccica: lunedì 11 gennaio, a proposito delle leggi con cui vuol salvarsi dai tribunali, le chiama «ad libertatem», indovinando la desinenza; manca solo un gerundio, «libertas delinquendi». Suona meno bene l’italiano, se "Repubblica" lo cita esattamente: «Mi indigna soltanto a sentirle certe cose»; lo stile è suo. Resta nella memoria acustica una frase storica scandita mercoledì sera 7 ottobre 2009; era furente contro la Consulta, avendo appena perso l’immunità: «Queste cose a me mi caricano, agli Italiani li caricano ...». Qui apostrofa la Cassazione: annulli la condanna inflitta all’avvocato Mills da Tribunale e Corte d’appello milanesi; se no, va su tutte le reti televisive a dire che «la magistratura è molto peggio della mafia» (ivi). In quarantott’ore dà sicuro un forte alleviamento fiscale (due sole aliquote Irpef) e se lo rimangia. Alla rentrée romana esegue una delle sue frequenti mosse da joker: gliele studiano maghi insonni, fallendo ogni volta l’obiettivo, ma bene o male sinora hanno scongiurato probabili condanne; e l’effetto riesce devastante. Ormai l’abbiamo nel codice genetico. Stavolta prendono le mosse da Corte costituzionale 14 dicembre 2009 n. 333: invalidamente l’art. 517 c.p.p. ignorava l’eventuale giudizio abbreviato quando l’accusa fosse accresciuta nel dibattimento; «urge» quindi sospendere i relativi processi affinché gl’imputati optino in quel senso, se vogliono; li iberna un decreto. I beneficiari sono Mister Mills e chi lo pagava: è il ventesimo abito cucito addosso; era decreto urgente anche il favore resogli da Craxi venticinque anni fa (dl 16 ottobre 1984), ripristinando l’etere selvatico dove fondava un piratesco impero televisivo.

Poche frasi congelano i dibattimenti pericolosi finché sia votata l’invereconda legge-spegnitoio che estingue i processi alla scadenza d’un termine. Follie simili avvengono nel mondo d’Alice in forma lieve e giocosa, mentre da noi è farsa sinistra. Actum est, annunciano i quotidiani mercoledì 12 gennaio: l’interessato voleva una sospensione lunga tre mesi; il Quirinale gliene accorda uno e mezzo; combineranno tutto stamattina. Ore 9, la conferma viene dal TG1, voce del padrone, ma abitiamo un mondo fluido e poco dopo, quel decreto svanisce: era superfluo, spiega il guardasigilli; siccome l’accertamento d’incostituzionalità non richiede complementi normativi, l’art. 517 vale nei termini stabiliti dalla Corte; i dibattimenti quindi saranno sospesi affinché l’imputato scelga un nuovo giudizio, se vuole. Discorsi analoghi risuonavano sulla nave dei matti col berretto a sonagli, un tema ricorrente nella pittura didascalica quattro-cinquecentesca (vi mette il bulino anche Dürer). Il giudizio abbreviato conta ventun anni: con l’assenso del pubblico ministero l’imputato chiede d’essere giudicato nell’udienza preliminare, sulle carte del fascicolo, escluso ogni nuovo atto istruttorio; hanno ingresso solo dei documenti; l’eventuale pena scende d’un terzo. L’idea nasceva da calcoli d’economia: tagliare i dibattimenti con un giudizio monocratico, rigorosamente cartolare, in camera di consiglio, mediante l’accordo tra le parti; lo promuove l’imputato con poche chances perché se fosse sicuro del fatto suo, sceglierebbe un contraddittorio pieno. La metamorfosi, suggerita dalla Consulta, sopravviene nella l. 16 novembre 1999: cade il veto istruttorio; l’instante può subordinare la richiesta all’acquisizione delle prove che offre o indica; l’udienza preliminare diventa dibattimento a porte chiuse, lungo e complesso; ogni imputato dal destino dubbio vi salta dentro assicurandosi lo sconto, se fosse condannato, a costo zero, visto che gioca quante mosse istruttorie vuole.

Resta da vedere come l’art. 517 nuovo sia applicabile nei procedimenti in corso, supponendo che pendano in cassazione: è il caso Mills; sarà discusso giovedì 25 febbraio, davanti alle Sezioni unite. L’imputato ha il diritto riconosciutogli da Corte cost. 14 dicembre 1999 n. 333: chiedere l’abbreviato; ma cosa significa? Escludiamo, ipotesi assurda persino nella sfrenata cabalistica berlusconiana, l’annullamento della condanna e regressione ad ovum, ossia all’udienza preliminare, dove il reato morrebbe estinto dal tempo (tale il teorema difensivo, l’unico prospettabile, parrebbe, visto quanto pesano le prove d’accusa): le misure rescindenti presuppongono invalide sequele d’atti, mentre qui l’iter appare impeccabile (la Consulta ha interloquito post eventa), né il ricorrente può dolersi d’uno svolgimento meno garantito; era l’optimum; giostrava davanti a tribunale e corte d’appello spendendo ogni risorsa disponibile. Concedergli congrua stasi perché mediti se chiedere o no «un nuovo giudizio?». Sono parole del guardasigilli e quanto poco valgano, lo vedono studenti alle prime armi. Non esistono "nuovi giudizi". Mister Mills risulta giudicato nell’unica forma possibile e c’è poco da meditare: sono lontani i tempi in cui l’imputato soppesava profitti e rischi, dovendo optare tra decisione sulle carte e contraddittorio perfetto; les jeux sont faits: a occhi chiusi, quindi, chieda l’abbreviato lucrando lo sconto sulla pena, se esce perdente. Affare suo, nonché dei difensori, come lo sarebbe stato nell’udienza preliminare: se ha gusti meditabondi, il tempo non gli manca; quando sia chiamata la sua causa, saranno passati settantatre giorni dalla decisione «additiva» (così le chiamano gl’intenditori). La Corte vaglia i motivi del ricorso: ritenendoli fondati, annulla con o senza rinvio; altrimenti riduce la pena d’un terzo e lì finisce il processo, superfluo essendo rinviare, perché gli ermellini sanno l’aritmetica (art.620, lett. l).

La procedura penale era materia dal passato equivoco, misconosciuta, quindi distorcibile, ma ancora vent’anni fa nessuno immaginava il guignol quotidiano sub divo Berluscone: tre leggi sul telaio (processo breve, legittimo impedimento, terzo lodo d’immunità) offrono materia d’estremo interesse al giuspatologo; l’analisi politica ispira profonda tristezza.

"Se la politica italiana fosse un film, questo inizio di 2010 lo intitolerei Le conseguenze dell’amore. Il regime c’è da tempo. Ma ora si sta consolidando e inasprendo alla maniera classica dei totalitarismi: introducendo nella politica la categoria del sentimento per cancellare qualunque normalità democratica, qualunque ordinaria dialettica fra maggioranza e opposizione, fra governo e poteri di controllo e di garanzia. Il Capo pretende di essere amato, anzi adorato e, dopo l’attentato di Piazza Duomo, gioca sui sentimenti dei cittadini per ricattarli: ‘Chi non è con me è contro di me. Chi non mi adora mi odia’". Barbara Spinelli non si è mai sottratta alle regole ferree del dizionario: ha sempre chiamato "regime" il berlusconismo. Ma ora vede un’altra svolta, una cesura estrema, un salto in avanti verso il baratro.

Qual è precisamente questa svolta di regime nel regime?

Nella testa di Berlusconi l’attentato di Piazza Duomo ha creato un prima e un dopo. Dopo, cioè oggi, nulla può più essere come prima. Si sente in guerra, anche se combatte da solo. E con il dualismo amore-odio crea una situazione militare: l’immagine del suo volto sfregiato e insanguinato, riproposta continuamente in tv e sui giornali, è per lui l’equivalente dell’attentato alle due Torri per Bush. Stessa valenza, stessa ossessività, stesso scopo ricattatorio. Con la differenza che, dietro l’11 settembre, c’era davvero il terrorismo internazionale. Dietro l’attentato a Berlusconi c’è solo una mente malata e isolata.

Qual è la conseguenza politica?

L’attentato al premier ha ancor di più narcotizzato la stampa italiana, che ha rapidamente interiorizzato il ricatto dell’amore e dell’odio. E il Pd dietro. Viene bollata come espressione di odio da neutralizzare, espellere, silenziare qualunque voce di opposizione intransigente. Cioè di opposizione. Tutti quei discorsi sul dovere del Pd di isolare Di Pietro. A leggere certi quotidiani, ci si fa l’idea che il vero guaio dell’Italia degli ultimi 15 anni non sia stato l’ascesa del berlusconismo, ma quella dell’antiberlusconismo. Quanti editoriali intimano ogni giorno all’opposizione di non odiare, cioè in definitiva di non opporsi! Come se l’azione isolata di un imbecille potesse e dovesse condizionare l’opposizione. Un ricatto che si riverbera anche sugli articoli di cronaca.

A che cosa si riferisce?

Alla strana indifferenza con cui si raccontano alcune scelte mostruose, eversive della maggioranza che inasprisce il suo regime senza più critiche né opposizione. Penso alle tre o quattro leggi ad personam fabbricate in queste ore nella residenza privata del premier. Penso all’orribile apposizione del segreto di Stato sugli spionaggi illegali scoperti dalla magistratura in un ufficio del Sismi e nell’apparato di sicurezza Telecom. A salvare con gli omissis di Stato gli spioni accusati di avere schedato oppositori, giornalisti e magistrati sono gli stessi che un anno fa creavano il mostro Genchi, dipingendolo come una minaccia per la democrazia, trasformando il suo presunto ‘archivio’ in una centrale eversiva.

E Genchi operava legalmente per procure e tribunali, al contrario delle barbe finte della Telecom e del Sismi.

Appunto, ma nella smemoratezza generale, facilitata dalla narcosi della stampa (per non parlare della tv), nessuno ricorda più nulla. Nessuno è chiamato a un minimo di coerenza, né di decenza. I sedicenti cultori della privacy che strillano a ogni legittima intercettazione giudiziaria tentano di controllare addirittura il cervello e i sentimenti del comune cittadino col ricatto dell’‘odio’. Fanno scandalo le intercettazioni legali, mentre lo spionaggio illegale viene coperto dal governo. Così il segreto di Stato diventa un lasciapassare preventivo a chiunque volesse tornare a spiare oppositori, giornalisti e magistrati. 'Fatelo ancora, noi vi copriremo', è il messaggio del regime. 'Le operazioni illegali diventano legali se le facciamo noi': un avvertimento per quel poco che resta di opposizione e informazione libera. E il Pd e i giornali ‘indipendenti’ non dicono una parola, soggiogati dalla sindrome di Stoccolma.

Che dovrebbe fare, in questo quadro, l’opposizione?

Vediamo intanto che cosa dobbiamo fare noi con l’opposizione: smettere di chiamarla opposizione. Diciamo ‘quelli che non governano’. Gli daremo la patente di oppositori quando ci diranno chiaramente che cosa intendono fare per contrastare il regime e cominceranno seriamente a farlo. Se è vero che Luciano Violante segnala addirittura al governo le procure da far ispezionare, se Enrico Letta difende il diritto del premier a difendersi 'dai' processi, se altri del Pd presentano disegni di legge per regalare l’immunità-impunità a lui e ai suoi amici, chiamarli oppositori è un favore. Li aspetto al varco: voglio sapere chi sono e cosa fanno.

Ellekappa li chiama "diversamente concordi".

Appunto. Non si sono nemmeno accorti dello spartiacque segnato dall’attentato nella testa di Berlusconi, fra il prima e il dopo. Non hanno neppure colto la portata ricattatoria dell’ultimatum del premier perché le nuove leggi ad personam vengano approvate entro febbraio, altrimenti 'le conseguenze politiche non saranno indolori'. Nessuno ha nulla da dire contro questo linguaggio da mafioso ai vertici dello Stato? Perché nessuno fa dieci domande su quella frase agghiacciante? E’ il Partito dell’Amore che si esprime così?

Che dovrebbe fare l’opposizione per essere tale?

Rendersi graniticamente inaccessibile a qualsiasi compromesso sulle leggi ad personam. Evitare di reagire di volta in volta sui piccoli dettagli, ma alzare lo sguardo al panorama d’insieme e dire chiaro e forte che siamo di fronte a una nuova svolta, a un inasprimento del regime. E respingere pubblicamente, una volta per tutte, questo discorso osceno sull’amore-odio.

Tabucchi invita le opposizioni a coinvolgere l’Europa con una denuncia che chiami in causa le istituzioni comunitarie.

Sull’Europa non mi farei soverchie illusioni: basta ricordare i baci e abbracci a Berlusconi negli ultimi vertici del Ppe. Io comincerei a dire che con questo tipo di governo non ci si siede a nessun tavolo, non si partecipa ad alcuna ’convenzione’, non si dialoga e non si collabora a cambiare nemmeno una virgola della Costituzione. Oddio, se vogliono ridurre i deputati da 630 a 500 o ritoccare i regolamenti, facciano pure: ma non è questo che interessa a Berlusconi. Come si fa a negoziare sulla seconda parte della Costituzione con chi, vedi Brunetta, disprezza anche la prima, cioè i princìpi fondamentali della nostra democrazia? Anziché dialogare con Berlusconi, quelli del Pd farebbero meglio a guardare a Fini, provando a fare finalmente politica e lavorando sulle divisioni nella destra, invece di inseguire, prigionieri stregati e consenzienti, il pifferaio magico. Spesso in questi mesi Fini s’è mostrato molto più avanti del Pd, che l’ha lasciato solo e costretto ad arretrare.

Perché, con la maggioranza che ha, il Cavaliere cerca il dialogo col Pd?

Anzitutto per un’irrefrenabile pulsione totalitaria: lui vorrebbe parlare da solo a nome di tutto il popolo italiano, ecco perché l’opposizione dovrebbe dirgli chiaramente che più della metà degli italiani non ci sta. E poi c’è una necessità spicciola: senza i due terzi del Parlamento, le controriforme costituzionali dovrebbero passare dalle forche caudine del referendum confermativo: e l’impunità delle alte cariche o della casta, per non parlare del lodo ad vitam di cui parlano i giornali, non hanno alcuna speranza di passare. Dunque è proprio sulla difesa della Costituzione e sul no a qualunque immunità che il Pd dovrebbe parlar chiaro. Invece è proprio lì che sta cedendo.

L’ha soddisfatta il discorso di Napolitano a Capodanno?

Mi ha impressionato più per quel che non ha detto, che per quel che ha detto. Mi aspettavo che, onorando i servitori dello Stato che rischiano la vita, non citasse solo i soldati in missione, ma anche i magistrati che corrono gli stessi rischi anche a causa del clima, questo sì di odio, seminato dalla maggioranza. Invece s’è dimenticato dei magistrati persino quando ha elencato i poteri dello Stato, come se quello giudiziario non esistesse più.

Perché, secondo lei, tutte queste dimenticanze?

È una lunga storia...Chi è stato comunista a quei livelli non ha mai interiorizzato a sufficienza i valori della legalità, della giustizia, dei diritti umani. Quando poi i comunisti italiani, caduto il Muro, hanno cambiato nome, sono diventati socialisti, e all’italiana: cioè perlopiù craxiani. Mentre la cultura socialista europea ha sempre difeso la legalità e la giustizia, il socialismo italiano degli anni ’80 e ‘90 era quello che purtroppo conosciamo. E chi, da comunista, è diventato craxiano oggi non può avvertire fino in fondo la violenza di quanto sta facendo il regime.

Ora si apprestano a celebrare il decennale di Craxi.

Mi auguro che il presidente della Repubblica non si abbandoni a festeggiamenti eccessivi. E non ceda alla tentazione di associarsi a questa deriva generale di revisionismo e di obnubilazione della realtà storica sulla figura di Craxi. Anche perché la riabilitazione di Craxi non è fine a se stessa: serve a svuotare politicamente e mediaticamente i processi a Berlusconi e a tutti i pezzi di classe dirigente compromessi con il malaffare. Riabilitano un defunto per riabilitare i vivi. Cioè se stessi.

Il successo di Di Pietro nella sinistra si deve al fatto che lui soltanto, e il suo bizzarro partito, esprime la protesta di quella metà degli italiani che vede Berlusconi chiedere con prepotenza di essere esentato dai processi che ha in sospeso. Perché questa elementare decenza non gli viene chiesta anche da quel Pd che si dice di opposizione, anzi pretende di rappresentarla quasi tutta? Onestà e legalità sono il minimo che si esige da chi esercita una carica pubblica e se il Pd non lo fa si deve pensare o che si comporterebbe esattamente come il Cavaliere, o che, come lui, pensa che il consenso elettorale valga più della legge, o che tenda a mettere le mani assieme a lui sulle riforme istituzionali. Né servono a fugare il sospetto i perpetui richiami del Presidente della Repubblica a ritrovare un accordo tra le parti per procedere più presto.

Ma quali riforme si potrebbero fare con un leader dalla cui filosofia, più volte espressa, esula qualsiasi simpatia per la repubblica parlamentare che abbiamo voluto essere? Che le camere gli diano solo fastidio lo ha detto a chiare lettere, farebbe più e meglio senza di esse, e queste potrebbero ridursi a cinque o sei portavoci. Che la divisione dei poteri gli sia concetto estraneo, al punto di vedere nei suoi istituti un nemico personale da abbattere, è altrettanto chiaramente dichiarato. Quali riforme si farebbero dunque con lui? Sarebbe come se la Repubblica di Weimar avesse proposto al nazismo di concordare una costituzione che gli andasse bene.

Ma, mi si può obiettare, Berlusconi non è Hitler, non ne ha né la ferocia né l'ideologia. È soltanto un padrone, convinto che se potesse dirigere l'Italia da solo tutto andrebbe meglio. E chi lo vota pensa lo stesso. Stupisce che il Pd non si ponga questo problema, quasi che assumesse questa mentalità aziendale come un contributo alla modernizzazione del paese.

In questo senso l'opposizione non solo non indebolisce Berlusconi ma indebolisce il Pd medesimo. A chi possono guardare i suoi seguaci? A Casini, disposto a sbarazzarsi del Cavaliere solo se il Pd si sbarazza di quel che resta di Sinistra e Libertà, di Rifondazione e dei Verdi? Non gli resta che affidarsi a Di Pietro, piaccia o non piaccia stare alle falde di un ex pubblico ministero incline a vedere ogni problema in chiave di guardie e ladri.

Che sia questa l'inclinazione, converrà anche Revelli. La democrazia non si identifica con il codice penale, come Marco Bascetta ha seriamente argomentato. Pretende molto di più ed è meno punitiva. Di più, perché ha esigenze di metodo e costume che il codice non contempla e non vorremmo che contemplasse. Esige cultura e stile che il Cavaliere non ha. Farsi portare una ventina di ragazze a Palazzo Grazioli e sceglierne una o due con cui andare a letto, non è proibito dalla legge: fa soltanto del premier una figura fra ridicola e maniacale, indicativa del suo modo di considerare gli uomini e le donne.

Lo stesso indicano le battute sessiste in tv, di cui si vanta. O l'imbarazzo in cui ha messo i partiti popolari europei sulle persecuzioni che subirebbe in Italia. Essere chiamato da un tribunale non è una persecuzione; Andreotti, che è uomo di altro spessore, non s'è mai sognato di dirlo.

Non lo è neanche l'essere colpito in volto da un modellino del duomo tirato da un infelice disturbato, incidente che perfino lui, ci è parso, tendeva a ridurre di peso, prima che i suoi consiglieri lo inducessero a parlare di sé come neanche di Aldo Moro.

Il solo argomento politico che il Cavaliere agita con ragione è che Di Pietro e non solo preferirebbero liberarsi di lui con lo strumento giudiziario piuttosto che con quello politico. Pd incluso. Non era del tutto normale imporgli di rinunciare alle sue reti televisive, come succede negli altri paesi? Ma non lo si fa. Non sarebbe stato del tutto normale permettere al Parlamento di fare una opposizione ribaltando una legge elettorale definita dal suo stesso promotore una porcheria? Ma non lo si è fatto.

La forza di Di Pietro viene da quel che il Pd non fa. Non si tratta di ridurre la conflittualità, ma di civilizzarla. Non è un affare di tribunali, ma di democrazia pura e semplice.

Massima apertura e massima fermezza. Questa potrebbe essere la sintesi della linea adottata dal presidente della Repubblica nella materia, delicatissima, non solo e non tanto delle riforme istituzionali, ma del contesto costituzionale all’interno del quale deve sempre muoversi la politica. In questo senso, il discorso tenuto davanti ai rappresentanti delle istituzioni è molto esplicito e, più che essere considerato una novità, deve essere letto come un forte chiarimento di una linea da lungo tempo perseguita.

Grande è la confusione sotto il cielo d’´Italia ma, a differenza della conclusione di uno dei "pensieri" del presidente Mao, la situazione è pessima. Più che venir considerata oggetto della attenzione riformatrice, la Costituzione sembra essere evaporata, scomparsa, lasciando una pagina bianca sulla quale esercitarsi liberamente. Proprio contro questo modo di vedere, che si è venuto diffondendo e rafforzando nell’ultimo anno, si leva il monito di Giorgio Napolitano. La sua analisi del funzionamento delle istituzioni è spietatamente realistica, ma in essa non si coglie nessuna tentazione di presentarsi come unico "custode della Costituzione", luogo dove si determina una progressiva concentrazione di poteri secondo la versione di quella formula data da Carl Schmitt.

Vi è, invece, un imperioso richiamo alla responsabilità costituzionale di tutte le istituzioni, e al suo obbligo di vegliare perché non sia stravolta la forma di Stato, perché sia garantito l’equilibrio tra i poteri. Esattamente l’opposto della concentrazione di poteri intorno all’esecutivo divenuta la caratteristica istituzionale di questa legislatura, che il presidente della Repubblica critica nella sua portata e nelle sue conseguenze e che, invece, sembra costituire l’ispirazione di troppi "riformatori". Si apre così una questione capitale: disponiamo di una cultura capace di sostenere una impresa tanto impegnativa quale è sempre una riforma costituzionale?

Affrontando questo tema si devono tener presenti tre punti sottolineati da Napolitano: l’abuso del riferimento alla "costituzione materiale"; la nascita di sistemi "paralleli" rispetto a quelli disegnati dalla Costituzione; la necessità di concentrarsi solo «su alcune, essenziali e ben mirate proposte di riforma». E, in tempi di strumentali esorcismi della violenza, è bene non dimenticare che il presidente della Repubblica giustamente definì "violento" dal punto di vista istituzionale il contenuto del discorso tenuto a Bonn dal presidente del Consiglio.

Parlar di "costituzione materiale" ha sempre avuto una forte ambiguità. Vi è una sua versione descrittiva di prassi più o meno diverse o integrative rispetto a quelle definite dalla costituzione formale. Vi è la sottolineatura della opportunità di razionalizzare il funzionamento di alcune istituzioni sulla base dell’esperienza. E vi è la pretesa di legittimare una "contro costituzione", emergente nella realtà grazie alla nuda forza della politica. Questi slittamenti progressivi spingono verso l’appiattimento della costituzione sulle esigenze del sistema politico, sì che la nozione stessa di Costituzione viene travolta dall’uso tutto congiunturale che se ne fa. Non a caso Napolitano ha citato Leopoldo Elia, che metteva in guardia contro l’«illusione ottica di scambiare per mutamento costituzionale ogni modificazione del sistema politico», aggiungendo però «o del sistema elettorale».

Questa integrazione è assai significativa, perché nell’ultimo periodo si è insistito assai sul fatto che ormai proprio le norme elettorali, prevedendo ad esempio l’indicazione sulla scheda del leader della coalizione, avrebbero dato un segnale inequivocabile nel senso del rafforzamento della posizione del presidente del Consiglio, la cui investitura diretta da parte dei cittadini avrebbe sostanzialmente privato di vero significato sia l’incarico conferito dal presidente della Repubblica, sia la stessa fiducia parlamentare. Ai futuri riformatori della Costituzione, quindi, spetterebbe soltanto il compito di registrare questo dato materiale, trasformando l’Italia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale. Napolitano ci ricorda che non è così, che il rapporto tra governo e Parlamento rimane il «cardine dell’equilibrio costituzionale».

Questa linea è rafforzata dalle considerazioni riguardanti la compressione del ruolo del Parlamento. Uso fluviale dei decreti legge, maxiemendamenti sui quali viene posta la questione di fiducia hanno determinato «evidenti distorsioni negli equilibri istituzionali e nelle possibilità di ordinato funzionamento dello Stato», privando il Parlamento della libertà di discutere e della stessa libertà di voto. La denuncia di questa perversa costituzione materiale, di cui Napolitano ricorda la lunga incubazione, si traduce così nella indicazione di un preciso limite alla eventuale revisione della Costituzione (e pure dei regolamenti parlamentari) che, inoltre, non potrebbe legittimare il "sistema parallelo" di produzione normativa tutto centrato sul governo, che ha finito con il «gravare negativamente sul livello qualitativo dell´attività legislativa e sull’equilibrio del sistema delle fonti».

Il punto è chiaro. La controcultura che ha via via definito la Costituzione come "ferrovecchio", "minestra riscaldata", residuo "sovietico", retaggio d’un passato ormai cancellato è in manifesto contrasto con il «risoluto ancoraggio ai lineamenti essenziali della Costituzione del 1948», già richiamato da Napolitano nel suo messaggio di insediamento. Questo non vuol dire che la Costituzione sia intoccabile: significa che la sua revisione non può determinare un cambiamento di regime. Emerge così un punto oscurato dalla discussione di questi tempi. Non è vero che si siano confrontati in passato e si confrontino oggi innovatori lungimiranti e chiusi conservatori. Il confronto è stato e rimane tra chi sostiene la "buona manutenzione della Costituzione", che ne rispetta fondamenti e principi, e chi vuole imboccare una strada che è legittimo definire "eversiva" perché proprio da quei fondamenti e principi vuole prendere congedo.

Non è un caso, ancora una volta, che Napolitano parli di «essenziali» e «ben mirate proposte di riforma» e che ricordi il referendum con il quale, nel 2006, sedici milioni di cittadini (il 61,32% dei votanti) bocciarono la riforma costituzionale approvata dal centrodestra. Di questo è bene avere memoria. In tempi in cui il consenso popolare viene impugnato da Pdl e Lega come una clava per screditare le istituzioni, per promuovere campagne contro ogni forma di garanzia, è almeno singolare che questi stessi soggetti dimentichino che la loro linea venne clamorosamente sconfessata proprio da un voto popolare. E in questa apparente contraddizione si coglie un altro tratto della "costituzione materiale" che si vorrebbe proiettare nel futuro.

Un assetto costituzionale "escludente", dove hanno voce e legittimità solo coloro i quali si riconoscono nella logica personalistica, autoritaria, e che accettano una deriva populista che li priva di autonomia critica e li accetta solo se pronti a tributare un applauso al leader. Vera riforma istituzionale è quella che può liberarci da questi rischi, già sperimentati, e che, rifiutando la riduzione del governo a logica aziendalistica, restituisca alle istituzioni quella dignità che possono riguadagnare solo se tornano ad essere davvero interlocutori affidabili e continui dei cittadini.

Siamo fortemente preoccupati per il presidente (nientemeno) dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri. Avendo scritto su questo giornale, in un inciso, che l’ex sacerdote Pierino Gelmini è stato “rinviato a giudizio per abusi sessuali”, ha sparato una raffica di contumelie. Sentite qua: “La notizia è falsa e sia Emiliani che l’Unità si confermano privi di credibilità. Emiliani è noto per la faziosità, la scarsa professionalità. E’ giustamente accompagnato da una diffusa e più che giustificata disistima. Come il giornale che pubblica le sue bugie”. Firmato, il Presidente dei senatori Pdl, Maurizio Gasparri. Il tutto lanciato (improvvidamente?) dalla sola AGI nel pomeriggio del 27 scorso col titoletto perentorio “don Gelmini non è stato rinviato a giudizio”.

Ora, tutti sanno, tranne Gasparri, che risale addirittura al 2008 il rinvio a giudizio nei confronti di Pietro Gelmini detto Pierino, ex “don” perché ridotto allo stato laicale dopo le note accuse. V’è di più: da mesi è in corso un regolare processo presso il Tribunale di Terni (dal quale, ovviamente, potrà uscire colpevole o innocente). Di che straparla dunque il sen. Gasparri? Di quali notizie false? Di quali disistime e faziosità? E’ vero, forse è un po’ appannato, dategli almeno uno straccio di assistente che telefoni alla Procura di Terni, o a qualche redazione, per aggiornarlo. Fra l’altro è giornalista professionista, ha co-firmato, sia pure anni fa, il libro (non molto attuale, pare) “L’età dell’intelligenza”. Insomma, non si può abbandonare così, alla deriva, un politico “di servizio”, un intellettuale vero, una mente pacata (sì, ho scritto pacata). Non si può lasciarlo sprofondare nel ridicolo. Ci pensi Berlusconi, o almeno Bonaiuti.

Il diciassette per cento delle famiglie, una ogni sei, arriva alla fine del mese con molta difficoltà. Lo afferma un'indagine dell'Istat, l'Istituto nazionale di statistica. Il dato riguarda la situazione di un anno fa, e mostra un peggioramento rispetto al 15,4 delle famiglie nella stessa condizione rilevato un anno prima. Non occorre un profeta di sventura per immaginare che la povertà di quel tipo abbia raggiunto, alla fine del 2009, ancora più famiglie, ancora più persone: chissà, una ogni cinque, tanto per indicare un possibile obiettivo. Ironicamente, si può indicare l'obiettivo dell'una su cinque al governo, perché possa vantarsene nelle sedi internazionali.

Nel frattempo il governo vanta altri successi: con lo scudo fiscale sono rientrati 95 miliardi di euro, con un gettito di 4,75 miliardi. Il conto non fa una grinza. L'imposta era pari al 5% e ora questi soldi sono liberi, «liberi soldi in libero stato». Quale che fosse l'origine, anche la più depravata, ora sono quattrini come gli altri. Non hanno più peccati: si sono confessati - in privato, dal commercialista di fiducia - hanno fatto la penitenza del 5% e ora sono candidi e pronti a nuove avventure. Il governo ha assicurato che si trattava di un'occasione irripetibile, ma in modo scherzoso, strizzando l'occhio. Infatti l'irripetibilità si è già trasformata in una proroga - con l'aliquota al 6 e al 7% - e tutto lascia pensare che ci saranno altri scudi fiscali; e altri ancora.

Si è aperta una voragine tra quelli che non arrivano alla fine del mese e questi che riportano indietro i soldi a colpi di scudo fiscale. Tra chi non ha di che comprare un abito necessario e chi ha solo il dubbio di scegliere leannate di vini preziosi. Un fossato c'era già, ma non di queste dimensioni. Un paese spaccato in due, a Natale.

Il governo, il partito di maggioranza, l'alleato leghista hanno fatto acutamente il loro dovere. Hanno favorito gli interessi dei loro rappresentati, offrendo molto e chiedendo consenso. Intorno hanno saputo costruire una vasta alleanza di persone spaventate, con poco da perdere ma molta paura di perderlo. E un modello di ricchezza alla portata di tutti, di sfida tra tutti per raggiungerla, di gara continua, che soltanto chi bada ai propri interessi, e basta, può vincere.

Chi invece non arriva alla fine del mese, non ha rappresentanti. I precari, i senza lavoro, le famiglie povere non hanno un partito di opposizione che interpreti i loro interessi. A parole alcuni partiti dicono di farlo, ma sono incredibili. Non riescono a non essere bipartisan: con il popolo e con i profeti liberisti. Protestano per i licenziamenti, ma sostengono le liberalizzazioni.

I poveri sono soli; dalla loro, in parte, la Chiesa. La Chiesa che però li esorta a non ribellarsi.

«Lo Stato è con voi».Con queste parole Guido Bertolaso ha salutato ieri gli alluvionati di Lucca. Chissà se potrà dire lo stesso tra qualche mese, quando sarà operativa la Protezione Civile Spa varata con il decreto milleproroghe (ma non ancora pubblicata in gazzetta)? È quello che gli chiederanno oggi i lavoratori del dipartimento, in un comunicato di fuoco. Ed è quello che tutti i cittadini dovranno chiedersi, d’ora in poi, in parecchie occasioni. Dove va a finire lo Stato con la Difesa Spa inserita in Finanziaria? Dove va a finire con la privatizzazione obbligatoria dei servizi idrici, disposta nel decreto Ronchi? In questo scorcio del 2009 il centrodestra al potere ha realizzato buona parte del suo disegno demolitore dei servizi pubblici.

NUOVO STATO

Ma non sempre lo Stato è «retrocesso ». Anzi. In alcune occasioni si è fatto fin troppo avanti, invadendo campi che non gli sarebbero propri. Èil caso della Banca del Mezzogiorno. Giulio Tremonti avrebbe voluto un’istituzione direttamente dipendente dal Tesoro. Ma la legge lo impedisce, così ha dovuto ripiegare su un comitato promotore «caldeggiato» dal dicastero. Protagonismo pubblico anche nei rapporti (tipicamente di mercato) tra banche e imprese, dove Tremonti ha «benedetto » intese, accordi, concertazioni, solitamente lasciate alle iniziative del business. Così in questi pochi mesi lo Stato ha cambiato forma e funzione: non più garante di servizi universali,maattore in «giochi» economici. Una trasformazione in cui a perdere sono proprio le fasce deboli.

Nella sua lettera d’auguri di fine anno ai dipendenti, Bertolaso parla di «una nuova società destinata a facilitare il nostro lavoro, una diversa struttura per la gestione dei grandi eventi». La Protezione Civile Spa servirebbe a questo: rendere le cose più facili. Non una parola sui rapporti istituzionali con le amminitrazioni locali. Il capo dipartimento parla di «una piccola flotta» di persone, che «al timone avrà gente nostra» (vuol dire competente e addestrata dall’esperienza della Protezione Civile). Ma francamente il senso dell’affiancamento di una «flottiglia» alla «nave madre» non si comprende affatto. Il vero senso resta nascosto: la verità è che se finora lo Stato si faceva garante delle emergenze nazionali, attraverso i canali istituzionali, d’ora in poi si creerà un centro di gare d’appalto che deciderà i lavori da effettuare e le aziende coinvolte.

Non sembra esattamente la stessa cosa. Business e stellette, invece, nella Difesa Spa. Al nuovo organismo, voluto da Ignazio La Russa e dal sottosegretario Guido Crosetto, si affidano le attività di «valorizzazione e gestione, fatta eccezione per quelle di alienazione, degli immobili militari ». Questa la vera partita, che fa gola ai vertici del ministero, chiamati a scegliere l’intero board della nuova società senza alcun filtro pubblico. La foglia di fico, propagandata soprattutto da Crosetto, sono i diritti sull’immagine dei simboli militari che d’ora in poi l’esercito potrà pretendere. Saremmo curiosi di sapere quanto pagherà Mediaset per una ipotetica fiction sui Carabinieri o sui paracadutisti.

Tutti da verificare anche i vantaggi economici della privatizzazione dei servizi idrici imposta per decreto agli enti locali. La disposizione è passata grazie alla fiducia, e con parecchi mal di pancia soprattutto della Lega. Nel testo si precisa che la proprietà pubblica del bene acqua dovrà essere garantita (grazie a unemendamentoPd) e che ad andare a gara è soltanto la distribuzione. L'articolo in questione prevede che la gestione dei servizi pubblici locali sarà conferita «in via ordinaria» attraverso gare pubbliche, mentre la gestione in house sarà consentita soltanto in deroga e «per situazioni eccezionali ». Le deroghe alla gara sono soltanto virtuali: lo sanno bene i cittadini che in alcune zone dove il pubblico è efficiente hanno cominciato a protestare. Manon sono stati ascoltati.

"Riforma" è la parola passepartout della politica italiana. Non c’è discorso politico che non la contempli. Negli anni della cosiddetta prima repubblica era la sinistra parlamentare che la invocava per marcare la fedeltà alla democrazia costituzionale e un’identità non rivoluzionaria. "Riforme di struttura" era una delle espressioni più spesso pronunciate nel Partito comunista (e per qualche tempo anche in quello socialista): voleva dire portare la democrazia oltre le istituzioni politiche; estendere i metodi elettivi di selezione e controllo nei luoghi di lavoro e nelle scuole; fare politiche di redistribuzioni per dare al maggior numero possibilità concrete di esercitare la cittadinanza. Questa è stata dal 1948 in poi, l’utopia riformatrice italiana. Alcune riforme importanti sono state fatte: gli Anni 70, ci hanno dato il decentramento amministrativo, un sistema sanitario e di previdenza nazionali, la pratica della concertazione tra le parti sociali per risolvere contenziosi sulle dinamiche salariali, le politiche occupazionali e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il termine riforma ha per decenni significato incremento e ampliamento della democrazia.

A partire dalla fine della Guerra fredda e del consenso largo che l’ha accompagnata, "riforma" è diventata una formula sulla quale si sono stabilizzati partiti nuovi o rinnovati nella convinzione che la crisi del sistema politico fosse essenzialmente una questione di ingegneria istituzionale e di tecnica elettorale. La retorica della riforma ha così cominciato a transitare dal sociale all’istituzionale. A partire dai referendum elettorali che si sono succeduti negli ultimi due decenni, le "riforme istituzionali" hanno sostituito nel linguaggio partitico le "riforme di struttura", con una modifica radicale: non solo i partiti di opposizione ma anche quelli di governo hanno preso a dirsi riformatori o riformisti.

Oggi, tutti auspicano, propongono, vogliono riforme, con il risultato che il termine ha perso il significato che nella tradizione politica moderna ha generalmente avuto: realizzare le promesse scritte nella carta dei diritti costituzionali. L’esito è che riformare può anche significare smantellare quelle promesse: per esempio decurtando i diritti sociali, impoverendo la scuola pubblica, istituendo un federalismo che ricusa la solidarietà nazionale. Infine, dalla nascita di Forza Italia ad oggi, e con una responsabilità nemmeno troppo velata dello schieramento opposto, la retorica delle riforme ha fatalmente esteso le sue mire sulla Costituzione e il sistema di giustizia. Non c’è settore della vita pubblica sul quale i nostri politici non si dilettino con proposte a volte bislacche e immaginifiche, sempre sollevando lo spettro dell’emergenza. La retorica delle riforme segue i cicli delle fortune politiche di chi la usa, la rilancia o l’atterra. Tutto il paese, noi tutti, dipendiamo da questi cicli e da questi leader guicciardiniani.

Con la recente riorganizzazione del Pd, la retorica delle riforme è tornata a fare da centro magnetico del discorso pubblico. Sul tappeto, non c’è la realizzazione delle promesse della democrazia, ma invece l’urgente bisogno del presidente del Consiglio di tutelarsi da possibili futuri guai giudiziari. L’attacco ai giudici comunisti si sta mescolando, colpevole il recente grave attentato alla sua persona, alla predica buonista della grande riconciliazione: "concordia" è la parola che torna spesso in questi giorni; non perché siamo in clima natalizio e la bontà di cuore è di pragmatica, ma perché si deve riuscire a convincere l’opinione pubblica che senza un intervento urgente per salvare il premier, sarà l’Italia intera a rimetterci. Bisogna far credere agli italiani l’opposto di quel che è, poiché è evidente che non è l’Italia ad aver bisogno di "queste" riforme.

Occorrerebbe aver il coraggio di dire che occorre conservare, non riformare: l’Italia ha urgente bisogno di conservare lo stato di diritto e il governo della legge. Scriveva Massimo Giannini su queste pagine alcuni giorni fa che esiste un condizionamento ferreo per il quale «se non c’è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell’immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura». In sostanza, la maggioranza non è autonoma; la sua politica è direttamente dipendente dalla necessità di "queste" riforme, e con essa lo è la vita intera del nostro paese.

Questa mancanza di autonomia politica della maggioranza non può essere trascurata dalle opposizioni. Anni fa si cercò con una regìa non dissimile di imbastire una bicamerale. Quale che fosse l’intenzione ragionata, si trattò di una politica improvvida perché ha abituato i politici a usare la nostra costituzione come merce di scambio per creare o affossare alleanze. In quell’occasione, i leader politici (allora al governo) non ebbero l’acume di imbrigliare il potere dell’interlocutore prima di farci compromessi politici. Non fecero caso al fatto che solo tra eguali ci si può accordare perché chi ha un potere sovrastante fa quel che vuole e non onora gli accordi.

Ora si ripropone uno scenario simile, con l’aggravante che quel potere esorbitante governa il paese e l’opinione pubblica. Non si tratta di resistere alle sirene della concordia per ragioni di pragmatismo, una forma nobile di politica che non ha nulla a che fare con il trasformismo ("inciucio" in gergo). E nemmeno di appellarsi alla fiducia nelle buone intenzioni del premier. Il veto viene da un fatto più semplice e che domina l’arena politica con la forza di una legge naturale: chi vuole "queste" riforme non può permettersi di ottenerne altre rispetto a quelle di cui ha urgente bisogno.

I buoni e i cattivi

«Penso che il clima politico sia cambiato in meglio.... e sembra che la stragrande maggioranza degli uomini politici si siano iscritti al nuovo partito che qualcuno, ironicamente, ha chiamato dell'amore» è il dolce prologo di Berlusconi al suo ritorno in campo, e alla promessa di fare «tutte le riforme entro il 2010». Quel qualcuno è il manifesto (16 dicembre) che così titolava la campagna natalizia del presidente del consiglio, alla quale si è affiancato il papa, che cautamente ha fatto una variazione sul tema e ha parlato di «civiltà dell'amore», tanto per non condividere le coloriture hard del partito coniato da Moana Pozzi. Partito inaugurato virtualmente ieri nell'Amelia di Don Gelmini, il prete sotto accusa di pedofilia e ridotto allo stato laico, in teleconferenza con il Cavaliere e davanti ai vari Gasparri e Giovanardi, quello che amorevolmente disse di Stefano Cucchi «morto perché drogato».

Accomunati dallo status di bersaglio per troppa passione, i due leader perdonano entrambi il proprio persecutore, così come il Santo Stefano celebrato dal pontefice, il martire che «non si arrende di fronte al male». Questi appelli rivolti alla nazione per un «rinnovato impegno di amore vicendevole» (il papa) e di sollecitazione a «contrastare tutte queste fabbriche di menzogne, di estremismo e di odio» (Berlusconi) indirizzano lo sguardo pubblico verso soggetti istigatori di violenza, che avrebbero armato menti deboli, contro una chiesa e un governo uniti dai sacri «principi cristiani». Chi critica aspramente sia l'una che l'altro, è dunque catalogato nel novero dei «cattivi».

Il lessico religioso si espande e contagia le parole della politica, ed è tutto un valzer di sentimenti e figure ultraterrene, fino a «il premier è un diavolo» di Di Pietro, preso sul serio nella sua letterina a Gesù bambino, che da genere letterario retorico si trasforma nel titolo di prima pagina del Corriere della sera, dove si registrano le rinnovate sollecitazioni del Pdl al Pd per mollare l'Idv, il «partito dell'odio». Così il fumo dell'incenso oscura la realtà e distrae l'attenzione dall'Italia di fine anno che di aggressori ne conta più d'uno.

Con chi, secondo le esortazioni di un Vaticano pronto a santificare Pio XII, l'opposizione dovrebbe abbracciarsi per agevolare un «clima d'intesa che favorisca il bene comune»? Con la città di Coccaglio che da giorni conduce rastrellamenti tra gli immigrati casa per casa per assicurarsi un «White Christmas»? Con chi permette la dissoluzione del concetto di solidarietà e fa passare le feste ai cassintegrati sui tetti e ai pendolari sui binari resi morti dalla Freccia rossa? Con i legislatori che negano ai bambini nati chez nous di diventare cittadini italiani? Con i responsabili del record di suicidi in carcere (ieri una trans brasiliana si è impiccata nel Cie di Milano)?

C'è un paese colpito da ogni tipo di vendetta sociale, dilaniato nelle sue istituzioni, dal Quirinale alla Costituzione, e al quale viene fatta la predica, state buoni, lasciate lavorare i moderati. Ora, non c'è niente di più violento e cinico del moderato, di chi finge di non vedere la violenza e il cinismo, e accusa gli oppositori di «gesti inconsulti», tutti psicolabili, tutti pericolosi. E se è questo il «partito dell'amore», primi firmatari Ratzinger-Berlusconi, andiamo volentieri all'inferno.

Fermi tutti, è l'anno dell'amore

Alessandro Robecchi

Arriva il 2010: portatevi coperte e panini, non si sa mai, metti che lo fanno gestire alle ferrovie e arriva il 3 febbraio. Secondo Silvio Berlusconi sarà l'anno dell'amore, anche lui ha una certa età, non è che può essere sempre l'anno del sesso, come il 2009: non so che anno cinese sarà il 2010, ma qui il 2009 era di sicuro l'anno del maiale. Bei tempi, il 2009, ricordate? Silvio non era ancora diventato buono e Bondi non era ancora diventato cattivo, questo tanto per dire che razza di 2010 ci aspetta.

Comunque buono a sapersi: uno può rompere i maroni all'intero mondo, insultare tutti, querelare, cercare di fregare la giustizia, affossare il paese, circondarsi di belle pupe, fare un regalo agli evasori, andare a mignotte e poi, di colpo dire, alt! È l'anno dell'amore, fermi tutti, pace! Pace! È comodo. È come avere il Tg5 incorporato: la crisi non c'è, i lavoratori se la spassano. Che problema c'è? Basta mentire, no? Un conto è dire: «cara, non è come pensi, posso spiegarti tutto...». E un conto è avere il Tg5 che dice: «Signora è un equivoco!».

Inizialmente a Silvio 'sta faccenda dell'anno nuovo non gli piaceva, voleva passare direttamente al 2011, ne ha parlato con Ghedini. Poi ha svelato il trucco: era solo uno scherzo, voleva vedere se ci cascavamo. Naturalmente non c'è cascato nessuno. Solo D'Alema e Violante sono ancora lì al bar che dicono, beh, tutto sommato è ragionevole, ci si può mettere d'accordo, fare a meno del 2010 è un male minore. E quindi, ecco che 'sto benedetto 2010 arriva per davvero. Sarà l'anno dell'ottimismo e della positività e si eviteranno conflitti e cattiverie. Tutti con le mutande di ghisa, perché Lui andrà avanti con le riforme. E poi ci diranno dove fare le centrali nucleari, ma questo solo dopo le elezioni regionali, perché essere paraculi non è mica un reato, è proprio uno stile di vita. Auguri.

I fatti sono questi, e forse li ricorderete. Berlusconi, il 13 giugno, racconta ai giovani industriali riuniti a Santa Margherita Ligure che contro di lui c’è un «progetto eversivo» e invita gli imprenditori a «non dare pubblicità ai media che cantano ogni giorno la canzone del pessimismo». Con chi ce l’ha? Il capo del governo lo spiega qualche ora dopo nella notte, al termine di una cena a Portofino con Marco Tronchetti Provera (Pirelli) e Roberto Poli (Eni). Dice: ce l’ho con i giornali «nemici», ce l’ho con Repubblica, quella gazzetta colpevole di fare qualche domanda di troppo, in quei mesi.

Sono subito in luce molte distorsioni in quel discorso. La pubblicità è lo strumento – può esserlo, deve esserlo, dice Berlusconi – per condizionare l’informazione, per indurre a più miti e malleabili scelte un giornale che ritiene di avere buone ragioni per criticare il governo. Nella prospettiva storta del Cavaliere, la pubblicità non è più l’arnese per affrontare la competizione economica, liberamente e con qualche vantaggio. Diviene un bastone per castigare il «nemico» diventato «eversore». Nella primitiva teologia politica inaugurata dal premier, è l’arma da usare – nel legittimo confronto delle idee – per difendere una maggioranza, il cui potere è il Bene, contro tutto ciò che vi si oppone, subito definito il Male. Il presidente del Consiglio esige quindi dagli imprenditori un’energica manomissione delle regole del mercato per punire chi disapprova la politica del suo governo o esamina le sue condotte pubbliche.

Bisogna chiedersi però se sia davvero soltanto il capo del governo a parlare a Santa Margherita ligure? È difficile non scorgere nell’obliqua esortazione del Cavaliere un groviglio che attorciglia l’uno sull’altro potere culturale, potere economico, potere politico. Berlusconi è il maggior editore del Paese: dunque, le difficoltà di un suo concorrente nell’editoria diventano un suo personale vantaggio. Berlusconi è anche il proprietario di Publitalia, prima concessionaria multinazionale d’Europa per fatturato nella raccolta pubblicitaria: dunque, meno pubblicità per gli altri, più pubblicità per se stesso. Non c’è dubbio che Berlusconi, come capo del governo, sia azionista – attraverso il Tesoro – dei colossi economici pubblici e semipubblici del "sistema Italia": dunque, Eni, Enel, Finmeccanica, Poste saranno "orientati" dagli ammonimenti del premier nella programmazione delle campagne pubblicitarie sui quotidiani e i settimanali che potrebbero essere danneggiati dall’ostilità dell’azionista pubblico. C’è chi si sente danneggiato.

Contro le dichiarazioni del presidente del Consiglio il Gruppo Espresso, «nemico» ed «eversore», muove un’azione a tutela della società vedendo violate le norme sulla concorrenza e lesa la sua immagine. Ora – notizia di oggi – è sorprendente che, per evitare ogni giudizio, Berlusconi invochi l’immunità prevista dall’articolo 68 della Costituzione («I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse»). Quell’immunità non è prevista dalla Carta per assicurare un privilegio al deputato, ma per renderlo più libero nella sua attività. Ma qual era l’attività che svolgeva, la veste che indossava Berlusconi a Santa Margherita? Sarà il giudice – e, probabilmente, la Corte costituzionale – a valutare se le parole minacciose del Cavaliere meritino la protezione dell’insindacabilità perché «esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri delle Camere», ma è fin da ora interessante comprendere come il premier intende declinare l’immunità parlamentare, visto che la questione è di nuovo nell’agenda della politica per una riscrittura che la irrobustisca.

Si sa, Berlusconi si sente primus super pares. Benedetto dalla volontà popolare, egli vuole essere padrone di un potere che non ammette controlli o verifiche. La convinzione, del tutto abusiva, che la sovranità popolare sia così assoluta da essere sovraordinata alla sovranità della Costituzione giustifica la sua irritazione per regole e limiti. Lo induce a respingere, per le sue leggi e iniziative, il vaglio di costituzionalità del capo dello Stato e della Consulta («editto di Bonn»). Lo conferma nell’ostinatissimo disprezzo per il potere giurisdizionale e quel disprezzo gli consiglia di sottrarsi ai processi che lo vedono imputato (con il "processo breve" e il "legittimo impedimento"). Berlusconi sembra credere che la sua immunità debba essere incondizionata, anche quando parla da imprenditore agli imprenditori; da "azionista" al management pubblico; da attore del mercato contro i suoi concorrenti.

"Impadronitosi" della sovranità, interpreta tutte le parti della commedia sociale, economica e politica pretendendo che la sua autonomia e libertà non abbiano limiti. Esige che gli sia riconosciuta un’impunità per qualsiasi atto, anche quando non è compiuto nell’esercizio delle sue funzioni. Dopo l’ultima mossa, si può concludere che il Cavaliere reclama per sé la stessa «irresponsabilità» che la Costituzione assegna soltanto al presidente della Repubblica. È un privilegio che la Carta ancora non gli assegna. Per il futuro converrà vigilare, con i tempi che corrono e i discorsi che si odono.

Una nuova, elementare teologia politica sembra stia sostituendo il discorso pubblico democratico nel nostro Paese. Tutte le forme del conflitto politico e dell’antagonismo sociale sono in via di sparizione. Non ci sono più il concorrente, l’avversario, il nemico esterno, ovvero i simboli in cui prendono corpo le tipologie di lotta (economica e politica) che possono trovare posto e legittimazione nella moderna civiltà liberale, e nella nostra Costituzione. È in via di trasformazione anche la figura novecentesca del nemico interno, ideologico, da osteggiare perché portatore di una visione del mondo che non può trovare collocazione nel nostro stesso spazio politico. Ormai, la politica viene spiegata attraverso un apparato categoriale estremo e rudimentale al contempo, come il confronto mortale tra Amore e Odio.

Questa suprema semplificazione – che ha in realtà radici tanto nelle fiabe e nel repertorio popolare antico e moderno quanto nelle cupe fantasie del pensiero controrivoluzionario, o nella bruciante denuncia del totalitarismo di Orwell in 1984 – non appare oggi nella politica italiana, ma ne è diventata l’epicentro dopo l’aggressione milanese a Berlusconi. Il crimine di uno squilibrato – un atto che è ovvio punire penalmente, come è ovvio solidarizzare umanamente con la vittima – è stato ed è utilizzato per bollare come criminale l’opposizione al premier; una immotivata e folle avversione personale è stata promossa a emblema della lotta politica contro le politiche della maggioranza, il cui potere è stato definito Bene, e Male ciò che vi si oppone.

Oltre la criminalizzazione dell’avversario, siamo alla sua demonizzazione, alla squalificazione non solo etica ma anche ontologica. La dimensione giuridica – che fa sì che un reato sia un reato, mentre una critica è una critica: illecito il primo, lecita la seconda – è risucchiata e annichilita in una teologia manichea che si propone come chiave di lettura onnicomprensiva della dinamiche politiche: tutto si confonde con tutto, tutto deriva da tutto, tutto conduce a tutto; il pensiero e l’azione si trovano sul medesimo piano, inesorabilmente inclinato verso l’abisso: verso il sangue, la violenza, il terrorismo anarchico. Non ci sono distinzioni ma solo gradazioni nel Male: è Male il semplice opporsi al Bene, in qualunque forma ciò avvenga. La metafora del clima (il "clima di odio"), oggi vincente, lo dice: il clima è appunto l’insieme dei fenomeni atmosferici e anche la generica predisposizione verso una certa loro tipologia (clima buono o cattivo). Con una simile concettualità si può rendere chiunque responsabile di qualunque cosa, o almeno si può sostenere la possibile pericolosità, diretta o indiretta, di ogni comportamento non conforme.

Le leggi che limitano la libertà di espressione, i provvedimenti speciali, pendono minacciosi sugli oppositori. Ma tutto ciò è Bene, è la forza dell’Amore.

Del Male c’è però una speranza di perdono: si chiama dialogo, collaborazione parlamentare per rifare la Costituzione. Dissolve il clima di odio e assolve da molti peccati. Il piccolo prezzo da pagare per l’indulgenza, la penitenza dopo tutto mite a cui l’opposizione si deve assoggettare, è di collaborare (o almeno di non ostacolarle efficacemente) ad alcune leggi volte a garantire l’impunità personale al premier (dal legittimo impedimento al Lodo Alfano costituzionalizzato) e il controllo della magistratura all’esecutivo (la separazione delle carriere e la "riforma della giustizia"). Se ciò non avverrà, se il Pd non saprà essere "autonomo" e presterà ancora orecchio alle lusinghe di Satana (Di Pietro, Repubblica), la reazione sarà durissima: il Male sarà condannato senza remissione, e l’intero sistema giudiziario sarà spazzato via dal "processo breve", che non sarà difficile, per chi controlla tutte le televisioni, presentare come giusta risposta all’esigenza di rapida giustizia che accomuna tutti gli italiani.

Non si è tratteggiata una caricatura; e del resto non c’è nulla da ridere. La situazione italiana è davvero questa: la costruzione mediatica di un’egemonia culturale pressoché incontrastata, o comunque subìta, dispiega tutta la propria potenza per creare un mondo artificiale che deve far velo a quello reale, che deve negare l’evidenza, ossia l’esistenza di un’Italia non di destra e non berlusconiana, e neppure terrorista o incline alla violenza, di una società che si sforza di essere libera e che dispiega le proprie capacità critiche in un pubblico dibattito, e quindi anche attraverso i giornali (alcuni) e le case editrici (alcune). L’obiettivo è evidente: delegittimare la base sociale e intellettuale dell’opposizione, tagliare i ponti fra la società e il palazzo, intimidire le forze che costituiscono la linfa vitale del Pd, in modo che questo, nella sua attività politica, sia sempre più isolato nella sua condizione di minoranza parlamentare. E questo isolamento, questo allontanamento dall’opinione della sua base, dovrebbe essere chiamato "autonomia".

Certo, la pressione sul Pd è davvero enorme: se cede verrà punito alle elezioni regionali, in favore di Di Pietro; se resiste rischia di produrre gravi lacerazioni al proprio interno. Eppure è in questo crinale che si deve dispiegare un’azione politica forte: che è non cercare di parlare d’altro (dei "veri problemi degli italiani", come se rifare la Costituzione in queste condizioni e con questi prezzi non fosse un problema di tutti), ma appunto parlare delle medesime cose di cui parla la destra, criticandole e demistificandole senza timidezze. Di fornire una contro-interpretazione della vulgata corrente sul Bene e sul Male, e di provare a inserirsi nuovamente nel discorso pubblico, senza rassegnazioni e anzi con la volontà di rovesciarne i termini. Di affermare la critica contro i miti, la ragione contro le fiabe, la forza della democrazia liberale contro la paura e contro i rischi di una democrazia "protetta".

Tanto tuonò che piovve. Da poche ore il premier Berlusconi ha denunciato al partito popolare europeo, a Bonn, di essere un perseguitato politico in Italia. E chi lo perseguita? L'Alta corte costituzionale, che non è più supremo istituto di garanzia ma organo di parte, e precisamente di sinistra, grazie alle nomine fatte da tre presidenti della Repubblica di sinistra che si sono susseguiti da noi, i noti estremisti Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Non solo: un partito di giudici, clandestino ma efficiente, gli scatena contro una valanga di calunniose vertenze giudiziarie. Stando così le cose, egli ha dichiarato solennemente al Ppe che intende cambiare la Costituzione italiana del 1948 e lo farà con tutte le regole o senza. Già in passato l'aveva disinvoltamente definita di tipo «sovietico».

Il Ppe è rimasto di stucco. Il Presidente Napolitano, di solito assai prudente, ha definito il discorso «un violento attacco alle istituzioni», il premier gli ha risposto con insolenza: «Si occupi piuttosto della giustizia». Il Presidente della Camera, Fini, che aveva preso le distanze, si è sentito ribattere: «Ne ho abbastanza delle ipocrisie».

La reazione del paese è stata nulla. Probabilmente molti hanno scosso privatamente la testa. Come la regina d'Inghilterra, l'Alta corte non risponde ai vituperi che le vengono rivolti, soltanto la Camera potrebbe denunciare il premier per attentato alle istituzioni, ma la maggioranza della Camera ce l'ha lui. Il suo alleato, Bossi, ne ha elogiato «le palle», argomento decisivo per tutti e due. Il Popolo della libertà ha annunciato per domenica a Milano una manifestazione a suo sostegno.

Il presidente Casini ha lamentato che Berlusconi, per essere stato votato dal 35 per cento del paese, crede di esserne il padrone. Il leader del Pd Bersani si è doluto di aver ricevuto, testualmente, un «cazzotto» ma si ripromette di avviare ugualmente assieme a Berlusconi le più urgenti riforme istituzionali. L'ex pm Di Pietro ha gridato con qualche approssimazione: «E che si aspetta per dire che siamo nel fascismo?», non senza aggiungere: «E se succede qualche incidente?». Alcuni giornali parlano di stato d'emergenza, la sinistra della sinistra ha emesso alcune strida o ha parlato d'altro.

Ora, ci rifiutiamo di credere che la metà del paese che non ha votato Berlusconi ne trangugi anche stavolta le escandescenze. Certo una maggioranza non si abbatte che con un'altra maggioranza, ma questa va preparata non essendo affatto detto che ci sarebbe già oggi. E per molti motivi. Perché quando la detta metà ha avuto un suo governo, non ha ritenuto urgente né risolvere il conflitto di interessi né regolare il sistema radiotelevisivo, né darsi una legge elettorale decente - provvedimenti che non sarebbero stati niente di straordinario, soltanto la premessa di un quadro politico decoroso.

Anche per questo la tela della democrazia, faticosamente tessuta nella Resistenza, si è andata sfilacciando, la crisi dei partiti è stata salutata dal più stolto degli entusiasmi, nulla di più affidabile ed efficace essendo stato messo al loro posto, socialisti e comunisti si sono pentiti di essere stati tali e la sinistra della sinistra non ha saputo che frammentarsi. E siamo arrivati a questo punto.

È l'ora di finirla di lamentarsi e di aspettare qualche leader miracoloso. Siamo noi, la gente che cerca di battersi con la Cgil, giovani e precari senza speranza, coloro che sono andati alla manifestazione del Nobday, gli piacesse Di Pietro o no, visto che nessun altro aveva pensato di promuoverla, siamo noi insomma la parte attiva di quella metà d'Italia che incassa botte da troppi anni. Andiamo a chieder conto a chi abbiamo votato fino a ieri di quel che sta facendo o non facendo oggi, senza né astio né affidamento. Proponiamo a chi lo vuole di metterci a discutere subito e a medio termine. Finiamola di lamentarci di non essere rappresentati. Siamo adulti e vaccinati. Rappresentiamoci.

Perché il governo vuole vendere i beni di Cosa Nostra
Sandra Amurri

Con il maxiemendamento del Governo sulla legge Finanziaria arriva Babbo Natale anche per la mafia. Un dono preziosissimo per le organizzazioni criminali segrete che, come si sa, più del carcere (che mettono in conto), temono di perdere i “piccioli”.

Il pacco dono si chiama: vendita dei beni confiscati, all’asta e a trattativa privata per quelli di valore fino a 400 milioni, cioè la maggior parte. Una legge che non garantisce nulla, tantomeno la trasparenza dell’azione dello Stato nella lotta alla mafia lasciando aperta la porta a qualsiasi abuso, e che di chiaro ha solo la finalità: vendere. Per il resto è buio fitto. Il testo non dice che decorsi i termini i beni possono essere destinati alla vendita, bensì che sono destinati alla vendita senza specificare come esempio quelli il cui recupero civico ha un alto valore simbolico.

Significato chiaro anche per un bambino: i beni tolti dallo Stato ai mafiosi saranno riacquistati dai mafiosi. E se è chiaro a un bambino è da escludere che non lo sia per il Governo. Dunque, non resta che prendere atto della volontà di questo Governo di fare un regalo alla mafia con la discutibile, e tra l’altro non veritiera motivazione: vendiamo per fare cassa come se l’emergenza potesse prescindere dal valore della trasparenza e dal rispetto delle regole.

E neppure fare cassa sarà facile considerate le molteplici criticità. La maggior parte dei beni confiscati, infatti, sono bloccati dalle ipoteche poste dalle banche che hanno elargito i mutui. Un esempio per tutti la tenuta del boss Michele Greco, detto il Papa. Affinché lo Stato ne possa disporre, come stabilito dalla giurisprudenza in assenza di una legge, deve dimostrare in sede penale con i tempi e le difficoltà che questo comporta che la banca, nell’elargire il mutuo, non abbia rispettato una serie di indicatori sufficienti a stabilire che la proprietà di quel bene, intestato magari ad un parente o a un prestanome, non fosse mafiosa.

Ultimamente la Cassazione non ha riconosciuto la buona fede del Banco di Sicilia di Palermo, ad esempio, su alcuni immobili confiscati ipotecati e il bene è rimasto allo Stato in quanto l’ipoteca non è risultata opponibile, ma non sempre accade. Mentre spesso si verifica che la Banca abbia venduto i crediti ipotecari a società di factoring e in questo caso tutto si complica. I beni vendibili, l’85% dei quali si trova nelle quattro regioni meridionali con una netta prevalenza della Sicilia (47%), potranno essere acquistati da società quotate in borsa che commercializzano immobili o anche da società a partecipazione pubblica che in seconda battuta li metterà in vendita, senza alcun controllo su chi li riacquisterà. È cosa così difficile da prevedere che ad acquistarli sarà la mafia? Dunque, il bene tornerà al mafioso a cui è stato confiscato e lo Stato dovrà tornare a riprenderselo con uno spreco di risorse pubbliche nemmeno lontanamente paragonabili al guadagno che potrebbe ricavarne con la vendita. Ma l’inganno è consumato.

A ciò, che poco non è, si aggiunge un’altra notizia non ancora ufficiale ma certa e preoccupante: il Governo, alla scadenza del 20 dicembre prossimo non rinnoverà l’incarico di commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati all’ex magistrato della Dda di Lecce ed ex consulente della Commissione Antimafia, Antonio Maruccia, nominato dal Governo Prodi nel 2007, nonostante (o forse proprio perché) abbia fatto un ottimo lavoro anche nel privilegiare l’affidamento dei beni tolti alla mafia alle cooperative e alle associazioni antimafia come Libera per intendersi. E per finire con la nuova legge viene prevista, anche in questo caso in maniera confusa e senza precisare da cosa verrà sostituita, la scomparsa dell’Agenzia del Demanio. Di certo quello che verrà, nonostante il duro colpo inferto con l’arresto dei due importanti latitanti, sarà davvero un bel Natale per Cosa Nostra che potrà brindare con lo champagne anche in carcere, all’idea di riprendersi quei beni che il sudore e la fatica di molti le avevano sottratto.

La parola “fine” alle battaglie di Pio La Torre e di Libera

Nando Dalla Chiesa

Dunque il dono di Natale resterà sotto l’albero. La commissione bilancio della Camera ha respinto tutti gli emendamenti volti a neutralizzare lo sconcio del Senato: la scelta di mettere all’asta (e in certi casi di vendere perfino a trattativa privata) i beni confiscati alla mafia. La quale ringrazia e si agghinda per giungere alle aste con gli abiti della festa: “piccioli”, tanti piccioli in una mano, e minacce agli improvvidi concorrenti nell’altra. Signori si scende. Si chiude un’epoca, da Pio La Torre al milione di firme raccolte da Libera per un uso sociale dei beni confiscati.

Il quadro non si presta a equivoci. É la prima legge in materia di mafia che il governo sforna dopo gli avvertimenti che vengono dalle file di Cosa Nostra. É la dimostrazione che non bisogna farsi intrappolare per tutti i mesi venturi dalle dichiarazioni di Spatuzza e far dipendere da quelle il giudizio sul governo. Il giudizio politico si dà prima di tutto sugli atti politici visibili. Che non sono gli arresti dei latitanti, da anni meritoriamente realizzati da magistratura e forze dell’ordine, indipendentemente dai governi. Ma sono le leggi. I comportamenti delle burocrazie e le circolari. Le dichiarazioni dei ministri e del presidente del consiglio.

E quindi non bisogna mai smettere di ricordare le tre irrinunciabili questioni su cui, sin dalle stragi, Cosa Nostra ha chiesto impegni precisi ai suoi interlocutori (e di cui abbiamo saputo ben prima che Gaspare Spatuzza spuntasse all’orizzonte): confische dei beni, uso dei “pentiti” e carcere duro. Sulle confische dei beni, il più è fatto. Basteranno tre mesi senza destinazione e via con l’asta. Fare scorrere quei tre mesi e poi piazzare sul mercato terre, immobili e imprese per la gioia del primo prestanome, sarà un gioco da ragazzi. Quanto ai pentiti, sta già dichiarando e chiedendo di cambiare la legge Umberto Bossi (è il vecchio consiglio di Vito Ciancimino: certe cose è meglio farle dire da altri). Sul carcere duro è in corso invece un’ambigua finzione: stabilizzato dalla legge ma svuotato dall’interno con ogni astuzia, stupidità o perfidia amministrativa. Su tutte e tre le “sue” questioni, insomma, Cosa Nostra va all’incasso.

Pretende di “far cassa” con le aste anche lo Stato, a beneficio – si dice – di giustizia e sicurezza. Ma è davvero questo lo scopo? Se lo fosse, tornerebbe sfrontatamente l’argomento dei “costi” economici della lotta alla mafia. Quanto costano le indagini, quanto le intercettazioni; quanto costa proteggere i collaboratori, quanto tenersi i beni. Un paese che ragiona così è un paese che si merita la mafia e forse in cuor suo la desidera. Ma il fatto è che lo stesso argomento del far cassa appare debole, debolissimo.

I beni confiscati servono già ora a farci caserme (quanto costano allo Stato i terreni e gli immobili per le nuove?) a farci scuole o pensionati studenteschi (idem), a promuovere iniziative economiche dove non c’è lavoro legale (quanto costa il “trattamento” della devianza sociale? E quanto la disoccupazione?). Alla fine si scoprirà che l’operazione è in perdita, che il far “cassa” per la giustizia è un gioco di prestigio utile a occultare l’altro, più pericoloso gioco che si sta conducendo con un occhio a Torino e l’altro a Palermo.

Quanto alle forze dell’ordine e ai magistrati, prendano pure i latitanti. Tanto non ci vorrà molto a tagliar loro le unghie investigative – dalle intercettazioni ai pentiti, dalla tracciabilità dei movimenti di capitali fino alla benzina – e, naturalmente, a render loro impossibile fare i processi. No, non diventeremo Spatuzza-dipendenti. Non dipenderemo dalle parole di un pluriomicida che ci giungono dai doppifondi della storia. Dipenderemo anzitutto, come è giusto, dagli atti dei galantuomini che governano il paese. Quelli ufficiali. Se poi Spatuzza ha messo l’autobomba per far saltare Borsellino e loro diciassette anni dopo fanno saltare le leggi che Borsellino, Falcone e altri hanno chiesto fino a morirne, questa non è colpa nostra. Noi arbitrariamente, e semplicemente, la chiamiamo trattativa.

O

ramai si dà per scontato, o qua­si, che le demo­crazie vivono nell'immediato e che non provvedono al futuro, ai bisogni e problemi del fu­turo. L'altro giorno Ange­lo Panebianco osservava, per inciso e con la tran­quilla placidità dello stu­dioso che registra un fat­to ovvio, che «la natura del sistema democratico spinge gli uomini politici a occuparsi solo dei pro­blemi del presente. Le grane che ci arriveranno addosso non possono es­sere prese in considera­zione... La politica demo­cratica non si occupa di prevenzione». Panebian­co ha ragione? Per il no­stro Paese sicuramente sì; ma sono oramai parec­chie le democrazie che sempre più diventano cor­to- veggenti e impreviden­ti. Dal che ricavo che sia­mo al cospetto di un pro­blema di estrema gravità.

Io non sono mai stato uno strombazzatore leo­pardiano delle «magnifi­che sorti e progressive» che ci sono state promes­se dai Sessantottini in poi. Ho però sempre stre­nuamente difeso la demo­crazia alla Churchill: che anche la democrazia è un pessimo sistema, «salvo che tutti gli altri sono peg­giori ». In quel detto ho sempre fermamente cre­duto; ma forse oggi va ri­precisato. Intanto va pre­cisato che una cosa è la democrazia liberale co­struita dal costituzionali­smo, e tutt'altra cosa so­no le cosiddette democra­zie populistiche e «diretti­stiche » di finto autogover­no che si liberano dell'im­paccio del garantismo co­stituzionale. In questa chiave io distinguo da tempo tra democrazia co­me demo-protezione (in­tendi: che protegge il de­mos dagli abusi di pote­re) e come demo-potere (che può diventate tutt'al­tra cosa).

Poniamo, in dannatissi­ma ipotesi, che Berlusco­ni mi voglia cacciare in prigione. Potrebbe farlo? No, perché io sono protet­to dal principio dell' habe­as corpus (abbi il tuo cor­po) che è quel cardine del costituzionalismo che ci tutela dall'incarcerazione illegale e arbitraria. Met­tiamo, d'altra parte, che io non voglia essere avve­lenato da «polveri sottili» e dal galoppante inquina­mento atmosferico, che io non voglia restare senz’acqua perché l'acque­dotto pugliese ne perde metà per strada, oppure che Pisa sparisca sott'ac­qua. In questi e consimili frangenti la democrazia descritta da Panebianco farebbe meglio delle non-democrazie? E' lecito dubitarne.

Le grandi civiltà idrauli­che del lontano passato raccontate da Karl Wittfo­gel furono create con stra­ordinaria perizia e preveg­genza dal despotismo orientale; tantissime lacri­me e sangue, ma anche straordinari risultati. Il dispotismo illuminato del '700 fu, appunto, «illu­minato ». Mentre oggi an­diamo alla deriva senza nessuna «illuminazio­ne », con occhi che non vogliono vedere e orec­chie imbottite di cerume. Il detto churchilliano tiene ancora? Sì e no. Sì, se lo dividiamo in due; no altrimenti. La mia pri­ma tesi è che la democra­zia protettiva dell' habeas corpus e del potere con­trollato da contropoteri, è e resta il migliore dei re­gimi possibili per la tute­la della libertà dei cittadi­ni. La mia seconda tesi è invece che il demopotere populistico e direttistico alla Chavez, e purtroppo ambito da Berlusconi, di­venta o può diventare uno dei peggiori sistemi di potere possibili.

Qui di seguito tutte le leggi approvate dal 2001 ad oggi dai governi di centrodestra che hanno prodotto benefici effetti per Berlusconi e le sue società:

1 Legge n. 367/2001. Rogatorie internazionali. Limita l'utilizzabilità delle prove acquisite attraverso una rogatoria. La nuova disciplina ha lo scopo di coprire i movimenti illeciti sui conti svizzeri effettuati da Cesare Previti e Renato Squillante, al centro del processo "Sme-Ariosto 1" (corruzione in atti giudiziari).

2 Legge n. 383/2001 (cosiddetta "Tremonti bis"). Abolizione dell'imposta su successioni e donazioni per grandi patrimoni. (Il governo dell'Ulivo l'aveva abolita per patrimoni fino a 350 milioni di lire).

3 Legge n.61/2001 (Riforma del diritto societario). Depenalizzazione del falso in bilancio. La nuova disciplina del falso in bilancio consente a Berlusconi di essere assolto perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato" nei processi "All Iberian 2" e "Sme- Ariosto2".

4 Legge 248/2002 (cosiddetta "legge Cirami sul legittimo sospetto"). Introduce il "legittimo sospetto" sull'imparzialità del giudice, quale causa di ricusazione e trasferimento del processo ("In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice"). La norma è sistematicamente invocata dagli avvocati di Berlusconi e Previti nei processi che li vedono imputati.

5 Decreto legge n. 282/2002 (cosiddetto "decreto salva-calcio"). Introduce una norma che consente alle società sportive (tra cui il Milan) di diluire le svalutazioni dei giocatori sui bilanci in un arco di dieci anni, con importanti benefici economici in termini fiscali.

6 Legge n. 289/2002 (Legge finanziaria 2003). Condono fiscale. A beneficiare del condono "tombale" anche le imprese del gruppo Mediaset.

7 Legge n.140/2003 (cosiddetto "Lodo Schifani"). E' il primo tentativo per rendere immune Silvio Berlusconi. Introduce ildivieto di sottomissione a processi delle cinque più altre cariche dello Stato (presidenti della Repubblica, della Corte Costituzionale, del Senato, della Camera, del Consiglio). La legge è dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Consulta n. 13 del 2004.

8 Decreto-legge n.352/2003 (cosiddetto "Decreto-salva Rete 4"). Introduce una norma ad hoc per consentire a rete 4 di continuare a trasmettere in analogico.

9 Legge n.350/2003 (Finanziaria 2004). Legge 311/2004 (Finanziaria 2005). Nelle norme sul digitale terrestre, è introdotto un incentivo statale all'acquisto di decoder. A beneficiare in forma prevalente dell'incentivo è la società Solari. com, il principale distributore in Italia dei decoder digitali Amstrad del tipo "Mhp". La società controllata al 51 per cento da Paolo e Alessia Berlusconi.

10 Legge 112/2004 (cosiddetta "Legge Gasparri"). Riordino del sistema radiotelevisivo e delle comunicazioni. Introduce il Sistema integrato delle comunicazioni. Scriverà il capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi: "Il sistema integrato delle comunicazioni (Sic) - assunto dalla legge in esame come base di riferimento per il calcolo dei ricavi dei singoli operatori di comunicazione - potrebbe consentire, a causa della sua dimensione, a chi ne detenga il 20% di disporre di strumenti di comunicazione in misura tale da dar luogo alla formazione di posizioni dominanti".

11 Legge n.308/2004. Estensione del condono edilizio alle aree protette. Nella scia del condono edilizio introdotto dal decreto legge n. 269/2003, la nuova disciplina ammette le zone protette tra le aree condonabili. E quindi anche alle aree di Villa Certosa di proprietà della famiglia Berlusconi.

12 Legge n. 251/2005 (cosiddetta "ex Cirielli"). Introduce una riduzione dei termini di prescrizione. La norma consente l'estinzione per prescrizione dei reati di corruzione in atti giudiziari e falso in bilancio nei processi "Lodo Mondadori", "Lentini", "Diritti tv Mediaset".

13 Decreto legislativo n. 252 del 2005 (Testo unico della previdenza complementare). Nella scia della riforma della previdenza complementare, si inseriscono norme che favoriscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale, a beneficio anche della società assicurative di proprietà della famiglia Berlusconi.

14 Legge 46/2006 (cosiddetta "legge Pecorella"). Introduce l'inappellabilità da parte del pubblico ministero per le sole sentenze di proscioglimento. La Corte Costituzionale la dichiara parzialmente incostituzionale con la sentenza n. 26 del 2007.

15 Legge n.124/2008 (cosiddetto "lodo Alfano"). Ripropone i contenuti del 2lodo Schifani". Sospende il processo penale per le alte cariche dello Stato. La nuova disciplina è emenata poco prima delle ultime udienze del processo per corruzione dell'avvocato inglese Davis Mills (testimone corrotto), in cui Berlusconi (corruttore) è coimputato. Mills sarà condannato in primo grado e in appello a quattro anni e sei mesi di carcere. La Consulta, sentenza n. 262 del 2009, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione.

16 Decreto legge n. 185/2008. Aumentata dal 10 al 20 per cento l'IVA sulla pay tv "Sky Italia", il principale competitore privato del gruppo Mediaset.

17 Aumento dal 10 al 20 per cento della quota di azione proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio. La disposizione è stata immediatamente utilizzata dalla Fininvest per aumentare il controllo su Mediaset.

18 Disegno di legge sul "processo breve". Per l'imputato incensurato, il processo non può durare più di sei anni (due anni per grado e due anni per il giudizio di legittimità). Una norma transitoria applica le nuove norme anche i processi di primo grado in corso. Berlusconi ne beneficerebbe nei processi per corruzione in atti giudiziari dell'avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset.

Paese meraviglioso l’Italia. Quando non si acceca da solo, chiude gli occhi. Il frastuono politico assorda e il rumore mediatico lascia nascosta qualche verità e – in un canto – fatti che, al contrario, meritano molta luce e l’attenzione dell’opinione pubblica. La disciplina del «processo breve» ce l’abbiamo sotto gli occhi e vale la pena di farci i conti, senza lasciarci distrarre da ingenui e imbonitori. Qualche punto fermo. Il disegno di legge pro divo Berluscone non rende i processi rapidi (è una cristallina scemenza). Quel provvedimento fabbrica una prescrizione svelta e improvvisa come un fulmine che uccide. Solitamente, a fronte dei reati più gravi, uno Stato responsabile – e leale con i suoi cittadini – si concede un tempo adeguato per accertare il reato e punire i responsabili (la prescrizione non è altro). Più grave è il reato, più problematico e laborioso il suo accertamento, maggiore è il tempo che lo Stato si riconosce prima di considerare estinto il delitto. Le regole della prescrizione svelta e assassina (dei processi) capovolgono questo criterio di efficienza e buon senso.

Più grave è il reato, minore è il tempo per giudicarlo. I magistrati avranno tutto il tempo per processare uno scippatore e tempi contingentati per venire a capo, per dire, di abuso d’ufficio, frodi comunitarie, frodi fiscali, bancarotta preferenziale, truffa semplice o aggravata: quel mascalzone di Bernard Madoff, che ha trafugato 50 miliardi di dollari ai suoi investitori, ne gioirebbe maledicendo di non essere nato italiano.

Ora il disegno di legge potrà essere corretto e limato ma – statene certi – non potrà mai lasciare per strada la corruzione propria e impropria perché Silvio Berlusconi, imputato di corruzione in atti giudiziari e con il corrotto già condannato in appello (David Mills), ha bisogno di quel «salvacondotto» per levarsi dai guai.

Un primo risultato si può allora scolpire nella pietra: l’Italia è il solo Paese dell’Occidente che considera la corruzione un reato non grave e dunque, se le parole e le intenzioni hanno un senso, una pratica penalmente lieve, socialmente risibile, economicamente tranquilla. Nessuno pare chiedersi se ce lo possiamo permettere; quali ne saranno i frutti; quali i costi economici e immateriali; quale il futuro di un Paese dove "corrotto" e "corruttore" sono considerati attori sociali infinitamente meno pericolosi di "scippatore", "immigrato clandestino", "automobilista distratto", e la corruzione così inoffensiva da meritare una definitiva depenalizzazione o una permanente amnistia.

Il silenzio su questo aspetto decisivo della "prescrizione svelta", inaugurata dalla "legge Berlusconi", è sorprendente. È sbalorditivo che il dibattito pubblico sul minaccioso pasticcio, cucinato dagli avvocati del premier nel suo interesse, non veda protagonisti anche la Confindustria, chi ha cara la piccola e media impresa, i sindacati, gli economisti, le autorità di controllo del mercato e della concorrenza, le associazioni dei risparmiatori e dei consumatori, i ministri del governo che ancora oggi si dannano l’anima per dare competitività al «sistema Italia». Come se il circuito mediatico e "pubblicitario" del presidente del consiglio fosse riuscito a gabellare per autentica la storia di un ennesimo conflitto tra politica e giustizia, e dunque soltanto affare per giuristi, toghe e giornalisti. Come se questo progetto criminofilo non parlasse di sviluppo e arretratezza; di passato e di futuro; di convivenza civile, organizzazione sociale, legittimità delle istituzioni, trasparenza dell’azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese.

È stupefacente questo silenzio perché ognuno di noi paga ancora oggi e pagherà domani, con l’ipoteca sul futuro di figli e nipoti, il prezzo della corruzione del passato, quasi sette punti di prodotto interno lordo ogni anno, 25mila euro di debito per ciascun cittadino della Repubblica, neonati inclusi. Settanta miliardi di euro di interessi passivi, sottratti ogni anno alle infrastrutture, al welfare, alla formazione, alla ricerca. È una condizione che corifei e turiferari, vespi e minzolini, occultano all’opinione pubblica. È necessario qualche ricordo allora per chi crede al «colpo di Stato giudiziario», alla finalità tutta politica dell’azione delle procure, favola ancora in voga in queste ore nel talk-show influenzati dal Cavaliere. Quando Mani Pulite muove i suoi primi passi, il giro di affari della corruzione italiana è di diecimila miliardi di lire l’anno, con un indebitamento pubblico tra i 150 e il 250 mila miliardi più 15/25 miliardi di interessi passivi.

L’abitudine alla corruzione cancella ogni sensibilità del ceto politico per i conti pubblici. Inesistente negli anni sessanta, il debito cresce fino al 60 per cento del prodotto interno lordo negli anni ottanta. Sale al 70 per cento nel 1983. Tocca il 92 per cento nei quattro anni (1983/1987) di governo Craxi, per chiudere alla vigilia di Mani Pulite, nel 1992, al 118 per cento. Non c’è dubbio che, in quegli anni, una maggiore attenzione della magistratura alla corruzione, e la consapevolezza sociale del danno che produce, favorisce il parziale rientro dal debito, utile per adeguarsi ai parametri di Maastricht. Di quegli anni – 1993/1994 – è infatti il picco di denunce dei delitti di corruzione. Con il tempo, la tensione si allenta. Lentamente la curva dei delitti denunciati decresce e nel 2000 torna ai livelli del 1991, quelli antecedenti all’emersione di Tangentopoli. Negli anni successivi la legislazione ad personam (taglio dei tempi di prescrizione per i reati economici, dalla corruzione al falso in bilancio), i condoni fiscali, le difficoltà della legge sul "risparmio" (in realtà sulla governance) chiudono il cerchio e una stagione.

Da qui, allora, occorre muovere per comprendere e giudicare un progetto che può spingere l’Italia, nell’interesse di uno, in prossimità di una condizione da "paese emergente". Perché la difficoltà della nostra storia recente nasce nel fondo oscuro della corruzione. Tirarsene fuori è una necessità in quanto c’è – non è un segreto, anche se è trascurato dal discorso pubblico e dai cantori dell’Egoarca – una simmetria perfetta tra la corruzione e le criticità per la società e il Paese. Mercati dominati da distorsioni e «tasse immorali» (60 miliardi di euro ogni anno per la Corte dei Conti) garantiscono benefici soltanto agli insiders della combriccola corruttiva. Oltre a perdere competitività, i mercati corrotti non attraggono investimenti di capitale straniero e sono segnati da una bassa crescita (troppe barriere all’entrata, troppi rischi di investimento).

Non c’è studio o analisi che non confermi la relazione tra il grado di corruzione e la crescita economica, soprattutto per quanto riguarda le medie e piccole imprese che sono il nocciolo duro della nostra economia reale. Infatti, le piccole e medie imprese – si legge nella relazione parlamentare che ha accompagnato la ratifica della convenzione dell’Onu contro la corruzione diventata legge il 14 agosto del 2009 – , «oltre a non avere i mezzi strutturali e finanziari delle grandi imprese (che consentono loro interventi diretti e distorsivi) risultano avere meno peso politico e minori disponibilità economiche per far fronte alla richiesta di tangenti». La corruzione diventa un costo fisso per le imprese e un onere che incide pesantemente nelle decisioni di investimento. Sono costi, per le piccole e medie imprese, che possono essere determinanti per l’entrata nel mercato, così come possono causarne l’uscita dal mercato. E in ogni caso sono costi che hanno rilevanti ricadute su altri fronti: ricerca, innovazioni tecnologiche, manutenzione, sicurezza personale, tutela ambientale.

Per queste ragioni, la corruzione dovrebbe trovare una sua assoluta priorità nell’agenda politica e gli italiani se ne rendono conto anche se magari non sanno, come ha scritto il ministro Renato Brunetta, che il balzello occulto della corruzione «equivale a una tassa di mille euro l’anno per ogni italiano, neonati inclusi». Secondo Trasparency International, un organismo "no profit" che studia il fenomeno della corruzione a livello globale, il 44 per cento degli italiani crede che la corruzione «incide in modo significativo» sulla sua vita personale e familiare; per il 92 per cento nel sistema economico; per il 95 nella vita politica; per il 85 sulla cultura e i valori della società. Più del 70 per cento della società ritiene che nei prossimi anni la corruzione sia destinata a non diminuire.

Il disastroso quadro nazionale è noto agli organismi internazionali. È di questi giorni il rapporto del Consiglio d’Europa sulla corruzione in Italia. Il Consiglio rileva che in Italia i casi di malversazione sono in aumento; che le condanne sono diminuite; i processi non si concludono per le tattiche dilatorie che ritardano i dibattimenti e favoriscono la prescrizione; la normativa è disorganica; la pubblica amministrazione ha una discrezionalità che confina con l’arbitrarietà. Il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa (Greco) ha inviato all’Italia 22 raccomandazioni di stampo amministrativo (introduzione di standard etici, per dire), procedurali (per evitare l’interruzione dei processi) normative (nuove figure di reato).

La risposta alle preoccupazioni della comunità internazionale – che appena al G8 dell’Aquila ha sottoscritto il dodecalogo dell’Ocse per un global legal standard (peraltro fortemente voluto da Tremonti) – è ora nel disegno di legge della "prescrizione svelta". La corruzione è trascurabile. Non è il piombo sulle ali dell’economia italiana. Non è la tossina che avvelena il metabolismo della società italiana. Non è il muro che ci impedisce di scorgere il futuro. È un grattacapo del capo del governo. Bisogna eliminarlo anche al prezzo di non avere più un futuro per l’Italia intera. Dove sono in questo piano inclinato «gli uomini del fare» che credono nella loro impresa, nel merito, nel mercato, nella concorrenza? E perché tacciono?

L’egemonia berlusconiana ha significato il trionfo del populismo, che è la base di ogni fascismo. Le democrazie vivono di dubbi e verifiche, di libera circolazione di notizie e di teorie complesse. Le ideologie liberali, come quelle socialiste, pur opposte, attribuiscono entrambe il cattivo funzionamento della società al sistema e non ai singoli individui. Il populismo abolisce la complessità, vive di certezze, di controllo dell’informazione e di teorie semplici. Attribuisce ogni problema a una causa umana, alla presenza di un gruppo di nemici e traditori infiltrati nel sistema e responsabili di ogni problema. Il populismo è una sequela infinita di pogrom contro l’ebreo di turno. Nella fase finale del populismo di Berlusconi, i pogrom mediatici si sono intensificati fino al parossismo: gli immigrati, i magistrati indipendenti, i giornalisti disfattisti, gli insegnanti, i "fannulloni", i cattolici dissidenti e così via.

L’egemonia culturale del berlusconismo, proprio nel senso classico gramsciano, è confermata dal successo di questo modo di ragionare, o di non ragionare, attraverso teorie del complotto, anche in vasti settori dell’opposizione. Il populismo di sinistra (?) diffonde teorie del complotto che spiegano il berlusconismo come l’avvento di una banda di malfattori piovuti da Marte nel cuore dello Stato. Il giornalismo di sinistra (?) spiega ogni problema con la presenza di una o più caste, politici o magistrati, industriali o sindacalisti, infiltrate al comando a dispetto della sana volontà popolare. La stessa lotta alla mafia prescinde dal sistema per concentrarsi su questo o quel clan, su questo o quel boss o padrino, meglio se assai pittoresco, analfabeta, in giacca di fustagno e lupara a portata di mano.

Il successo della grande semplificazione di Berlusconi, accettata come metodo anche dagli avversari, ha prodotto una perdita collettiva di senso e di memoria. Siamo ridotti come il paese di Macondo, che dovrà un giorno rinominare gli oggetti. Nel trionfo generale della teoria del complotto, si è persa la distinzione fra vero e falso, o meglio, fra realtà e finzione. Svanita la patina di modernità degli inizi, il berlusconismo ha portato nella società italiana una ventata di reazione che si manifesta in uno stato di panico permanente nei confronti di ogni novità del mondo moderno. L’elenco è lungo: l’immigrazione, il crescente ruolo delle donne, le scoperte della medicina, la globalizzazione dell’informazione attraverso la rete, l’integrazione europea, la rivoluzione ecologista, la fine del bipolarismo e il successivo tramonto dell’impero americano.

Ciascuna di queste opportunità è diventata fonte di paura per l’italiano medio, da esorcizzare con i peggiori luoghi comuni reazionari. La reazione più sguaiata è diventata pensiero unico, ma con l’astuzia di presentarsi come folgorante intuizione di modernità e addirittura coraggiosa tesi minoritaria, accompagnata da lagne vittimiste. Gli storici dilettanti sedicenti revisionisti che rilanciano la vecchia proposta dei governi Scelba di equiparare i repubblichini di Salò ai partigiani hanno l’improntitudine di proclamarsi perseguitati dalla defunta "egemonia culturale della sinistra". L’intero dibattito pubblico è del resto orientato dai media sulla centralità delle tesi più regressive, o anche di pure e semplici idiozie. Per avere la certezza di conquistare la ribalta mediatica ormai basta sparare una fesseria qualsiasi, purché molto reazionaria, e si scatena un’infinita discussione sul nulla. Ed è questo che colpisce all’estero: non tanto le vicende di Berlusconi, quanto la regressione dell’Italia intera in una visione premoderna.

Berlusconi ripete spesso che "la maggioranza degli italiani è con me". Ma forse pensa che quando parla di donne la totalità degli italiani (uomini ) è con lui. Il silenzio protratto di molti, troppi uomini su come il premier tratta e descrive le donne, sembrerebbe provare che egli rappresenta davvero il costume di una gran parte dei maschi. Anche alcuni leader dell´opposizione, quando si cominciò a sapere di escort e festini, dissero che erano affari privati e che la politica non doveva infilarsi sotto le lenzuola. Poi però si seppe che spesso le lenzuola vennero usate come trampolino per poltrone, affari e clientele e allora la tesi giustificativa del "privato" non tenne più.

Naturalmente, il ricorso al privato é ancora l´arma più brandita dal leader e da chi lo sostiene anche con la strategia del dileggio contro chi la mette in discussione. E tutto viene liquidato con l´accusa dell´invidia, la quale è un vizio privato non giustificabile; é un vizio e basta.

La donna, dice il Signor Berlusconi, è il più bel dono che il creato ci (leggi: a noi uomini, non al genere umano) ha dato. La logica è vecchia come il mondo ma sempre nuova: noi siamo state create ed educate per alleggerire il peso di chi ha potere e responsabilità. Noi siamo solo privato. Se proviamo a essere noi, né doni né veline, allora siamo niente, oggetto di offesa e di attacco: brutte, vecchie, e via di seguito. Anche in questo caso l´accusa di invidia viene usata per squalificare le nostre ragioni: perché, presumibilmente, se fossimo giovani e belle non ci offenderebbe essere trattate come un dono. Se ci offende, ecco la conclusione della filosofia dell´invidia del signor Berlusconi, è perché nessuno ci vuole più come un dono. Risultato: a bocca chiusa siamo accettate sempre, da giovani o vecchie, se belle o brutte; ma se usiamo il cervello siamo offese sempre: se belle perché pensare non si addice alla bellezza, se brutte perché pensare è germe di invidia.

La logica é chiara: il leader del nostro paese usa le armi del maschilismo più trito per azzerare nelle abitudini la cultura dei diritti e dell´eguale dignità che generazioni di donne e di uomini hanno con durissima fatica costruito. Si potrebbe dire che la sua è una logica controrivoluzionaria da manuale, una truculenta reazione contro una cultura che ci ha consentito di essere cittadine uguali fra cittadini uguali. Con una precisazione importante: non è la presenza nel pubblico che ci viene tolta; molto più subdolamente, è l´autonomia, la scelta competente di poter essere parte del pubblico che ci si vuole togliere (le poche ministre del governo sono lì perché sono gradevoli al capo, per ragioni tutte private e soprattutto per volontà altrui). È anche per questo che la distinzione tra pubblico e privato oggi non tiene: perché questa distinzione ha valore solo se riposa su un presupposto di eguaglianza di dignità; diversamente il privato è un serraglio e il pubblico uno spazio dispotico e di fatto un´estensione del privato, dei suoi interessi e delle sue pulsioni.

Viviamo un tempo in cui i diritti dell´eguaglianza sono sotto attacco: dall´istituzione della carta di povertà, alla demolizione della scuola pubblica e del servizio sanitario nazionale, al trattamento di privilegio rispetto alla legge che i potenti pretendono: tutto va nella direzione di una maggiore diseguaglianza. E l´offesa che subiscono le donne – l´insulto alle ragazze veline, a Rosy Bindi e a tutte noi–è la madre di tutte gli arbitri e di tutte le diseguaglianze. E per troppo tempo questo fenomeno è stato digerito come cibo normale, come se, appunto, il Signor Berlusconi fosse davvero rappresentativo della mentalità generale di tutti gli italiani. è vero che troppo spesso si vedono platee di convegni o di eventi pubblici popolate di soli uomini, come se il genere femminile non contemplasse anche studiose oltre che intrattenitrici. Ed è vero che purtroppo è quasi sempre solo l´occhio delle donne a vedere questa uniformità al maschile. Certo, è bene non generalizzare. Tuttavia non é fuori luogo ricordare anche a chi lo sa già che la dignità violata delle donne è dignità violata per tutti, anche per gli uomini. I quali, in una società compiutamente berlusconiana non sarebbero meno subalterni e più autonomi delle loro concittadine.

© 2025 Eddyburg