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Nella società tribale dei longobardi, tra il servo e l’uomo libero esisteva una categoria intermedia: quella degli "aldi". L’"aldo" era in qualche modo simile al liberto romano, ma con una notevole differenza: il liberto era uno schiavo liberato; in quanto tale aveva l’obbligo non solo morale ma addirittura giuridico di restar fedele alla "gens" cui apparteneva il suo liberatore. L’"aldo" invece non era stato beneficiario d’una vera e propria liberazione: semplicemente non era più soggetto alle limitazioni dei servi, si poteva muovere liberamente sul territorio e poteva anche svolgere affari e negozi in proprio nome, ma doveva fedeltà e obbedienza assoluta al suo padrone, assisterlo, rappresentarlo e battersi per lui e soltanto per lui. La volontà del suo padrone era la sola sua legge.

Queste cose pensavo quando Aldo Brancher è asceso nei giorni scorsi agli onori della cronaca. Chi meglio di lui raffigura l’"aldo" longobardo? Chi più di lui ha rappresentato il suo padrone ed ha stipulato negozi per lui? Negozi di alta politica (snodo di collegamento tra Berlusconi e la Lega) e negozi di sordidi affari (pagamenti in nero destinati a fini di corruzione di partiti, uomini politici, dirigenti amministrativi, imprenditori)?

Dalle accuse relative ad un periodo lontano, quando Berlusconi non era ancora entrato in politica e tanto più abbisognava di alleanze e coperture politico-affaristiche, Aldo Brancher si era liberato con la prescrizione raccorciata, disposta da una delle tante leggi "ad personam" volute dal Berlusconi ormai capo d’un partito e del governo, nonché con l’abolizione del reato di falso in bilancio, che gli era stato contestato dai magistrati della pubblica accusa.

Del reato di appropriazione indebita per il quale è perseguito in relazione alla scalata della banca "Antonveneta" avrebbe dovuto liberarlo la nomina a ministro varata nei giorni scorsi: nelle intenzioni di Berlusconi avrebbe dovuto consentirgli di valersi del legittimo impedimento disposto pochi mesi fa da un’altra legge "personale" destinata a sottrarre il premier ed i suoi ministri dai rigori processuali in attesa del lodo Alfano già in discussione in Parlamento.

Invece il caso Brancher è diventato un boomerang nei confronti di Berlusconi, del suo governo, delle sue alleanze, della compattezza della sua maggioranza; ha creato un profondo dissapore con Bossi e soprattutto con i leghisti, con Fini e soprattutto con i finiani, con un’opinione pubblica sempre più disamorata e critica. Ma principalmente un dissapore con il Quirinale.

Non era ancora mai accaduto che Napolitano entrasse a piedi uniti in un dibattito costituzionale con risvolti così direttamente politici. Non era mai accaduto che la natura profondamente padronale del potere berlusconiano fosse denunciata politicamente dalla più alta autorità dello Stato con parole che non consentono interpretazioni di sorta.

Ora il "boomerang" ha compiuto la sua traiettoria ed ha colpito non tanto Brancher quanto il suo padrone di cui da 25 anni è l’"aldo". La situazione di crisi che si è aperta è forse la più grave fin qui vissuta dal berlusconismo. Per le ragioni che l’hanno provocata. Per il momento in cui avviene. Per le sue possibili conseguenze sulle crepe sempre più vistose di quello che è stato finora un blocco sociale e politico e che rischia adesso di andare in pezzi molto prima del previsto.

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Travolto dalle accuse (non solo dell’opposizione, ma anche dei suoi alleati), alla fine il neo ministro ha dovuto gettare la spugna, rinunciando allo scudo che il Cavaliere gli aveva regalato. Era il minimo che ci si potesse aspettare dopo il richiamo del Quirinale, imprudentemente attaccato da solerti portabandiera del Pdl. Il presidente della Repubblica non poteva esimersi dall’esternazione pubblica del suo pensiero avvenuta venerdì scorso. Aveva firmato da pochi giorni la nomina di Brancher a ministro senza portafoglio ricevendone il giuramento; aveva chiesto e ricevuto dal presidente del Consiglio le motivazioni che rendevano necessaria (a suo dire) quella nomina per ragioni funzionali. Non era entrato nel merito di esse. Non gli spettava, riposavano sulla valutazione politica del premier che Napolitano ritiene gli sia preclusa, dando semmai al proprio ruolo una configurazione restrittiva.

Ovviamente aveva volutamente escluso che la nomina in questione fosse dovuta a ragioni diverse dalla "funzionalità del governo" invocata dal presidente del Consiglio. Ma a mettere in dubbio quella motivazione erano intervenuti nel frattempo tre fatti: l’infastidita sorpresa di Bossi per quella nomina, manifestata al Quirinale direttamente dal ministro delle Riforme; il cambiamento della delega a Brancher, da ministro addetto all’attuazione del federalismo ad altra mansione tuttora non precisata e quindi non ancora pubblicata in "Gazzetta ufficiale"; infine (e più grave di tutti) la decisione di Brancher di sottrarsi immediatamente all’udienza del processo che lo vede indagato per appropriazione indebita e la richiesta di spostare la prossima data processuale ad ottobre, sulla base del legittimo impedimento.

Di fronte a tre fatti di questa portata era tecnicamente impossibile che il Quirinale restasse silenzioso e non definisse con esattezza la posizione di un ministro senza portafoglio di fronte alle scadenze processuali che lo riguardano. È ciò che ha fatto Napolitano con un’asciuttezza di linguaggio che fa parte dei suoi poteri–doveri di custode della Costituzione.

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Il caso Brancher nella sua esemplarità ci porta ad alzare lo sguardo sul panorama generale che configura il nostro paese. È un quadro niente affatto consolante perché al declino, in sé auspicabile e salutare, d’un blocco di interessi e di potere che controlla e manipola la nostra società ormai da oltre vent’anni, si aggiunge la fine di un’epoca che è sempre solcata – quando avviene – da lampi e tuoni e raffiche e terremoti e marosi che sconvolgono culture e istituzioni, comportamenti e consuetudini, senza ancora essere in grado di proporne di nuovi, guidati da nuovi ideali e fresche speranze.

Ho scritto domenica scorsa del «dopo–Cristo» di Pomigliano e della legge dei vasi comunicanti che opera in un’economia globale percorsa da paurosi dislivelli tra opulenza e povertà. Ed ho osservato che quei dislivelli esistono non soltanto tra paesi ricchi e paesi poveri ma anche all’interno dei paesi ricchi, da un confronto sempre meno accettabile tra sacche di povertà e di mediocre e precaria sostenibilità e fasce di antica opulenza e privilegiati benefici.

Sempre più urgentemente si pone dunque il problema di governare la crisi anche attraverso una redistribuzione del reddito che sia spiegata al pubblico non certo come frutto d’invidia sociale ma come appello all’equità dei sacrifici e alla loro ineluttabilità in una prospettiva più dinamica e più coesa.

Questo è il futuro della sinistra italiana, dei cattolici democratici e del liberalismo laico: libertà e giustizia, coesione sociale, efficienza da offrire e da reclamare.

Io non credo che questa legislatura terminerà il suo corso come previsto nel 2013. Credo che Berlusconi senta il crescente scricchiolio del sistema di potere da lui costruito. Lo senta e ne sia angosciato, ma anche intestardito nel difenderlo con tutti i mezzi.

Sente anche che il solo modo di protrarne l’agonia sia il ricorso alle urne prima che lo scricchiolio divenga schianto. La data probabile è a cavallo tra 2011 e 2012 e comunque al più presto possibile, quando l’informazione sarà stata totalmente blindata e solidamente nelle sue mani, la magistratura umiliata e asservita, le istituzioni di garanzia depauperate.

Il prossimo autunno e l’inverno che seguirà saranno perciò teatro di questi scontri. Come ha scritto Ezio Mauro nel suo intervento di mercoledì scorso, è inutile scommettere sul meno peggio. Non ci sarà un meno peggio perché è il principale interlocutore a non volerlo. Il meno peggio passa necessariamente dalla sua personale uscita dal campo ma questa ipotesi non rientra nella sua natura. Chi lo conosce lo sa: il «meno male che Silvio c’è» è l’essenza d’un carattere che ha evocato gli istinti profondi d’una società desiderosa di lasciare in altre mani il governo di se stessa, fino a quando non sentirà di nuovo l’orgoglio di riappropriarsi del proprio futuro.

Nei prossimi mesi sarà dunque questo il terreno di scontro e di confronto e dovrà esser questo il linguaggio che bisognerà parlare per essere ascoltati, compresi e incoraggiati. Non bastasse il resto, anche le vicende del calcio nazionale ne hanno fornito un’eloquente conferma.

Dai naufragi speriamo che sorga una nuova e creatrice allegria.

Pensiamo ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l’intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta. Bisogna convincersene, quell’uomo sarà sempre in grado di mostrare un’intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l’opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l’affaire Brancher.

La storia la si conosce. C’è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l’addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.

Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l’una e l’altra, dalle leggi "privatistiche" del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l’incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.

Fin dall’annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti – se non agli ingenui – che Aldo Brancher diventa ministro per un’unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.

C’è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest’affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo – il Cesare di Arcore – che le "possiede" tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo "cavallo" senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.

Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo – chiamatelo come volete – di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli – nel suo potere e volontà – di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma – come per Brancher – in una casa dell’impunità per corifei e turiferari. Quel che l’affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l’abuso e l’istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.

Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l’uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l’esecutore muto degli ordini dell’esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull’oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l’annichilimento delle istituzioni.

Umiliante e illuminante, l’affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la "riduzione del danno" e "il male minore" saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d’istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che "l’antiberlusconismo non porta da nessuna parte". L’affaire Brancher conferma che non c’è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all’opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?

Se la tv di Stato taglia a metà la trasmissione di Roberto Saviano, vuol dire che lo Stato intende fare a metà la lotta alla camorra? In vista del cda Rai convocato per martedì prossimo l´interrogativo è più che lecito. Soprattutto alla luce delle inammissibili esternazioni con cui il presidente Berlusconi ha accusato lo scrittore napoletano di danneggiare l´immagine dell´Italia con i suoi libri e i suoi articoli contro la criminalità organizzata. È chiaro, comunque, che si tratta di un altro caso di censura preventiva, ai danni della televisione pubblica, dei telespettatori e dei cittadini italiani.

A quanto sembra di capire, sulle quattro puntate previste del programma che Saviano sta scrivendo per Rai Tre con Fabio Fazio, due sarebbero a rischio: una sulla ricostruzione post-terremoto in Abruzzo e l´altra sullo scandalo dei rifiuti in Campania. Due inchieste di approfondimento, dunque, su due vicende che certamente interessano l´opinione pubblica e hanno una rilevanza civile. Nessuno le ha ancora visionate, e forse non ne ha neppure letto il testo, ma la forbice del censore è già pronta a scattare per impedire a tutti noi di vedere e di giudicare.

Evidentemente, sotto il regime televisivo, siamo condannati ad avere una tv a sovranità limitata. Una tv dimezzata. Una tv con il silenziatore. E il fatto è tanto più grave perché deriva dalla pretesa di un premier-tycoon, un capo del governo che è anche capo del polo televisivo privato in concorrenza diretta con la televisione pubblica. Siamo, ormai, alla censura a reti unificate.

Prima che il presidente del Consiglio smentisca qualsiasi interferenza diretta o indiretta sull’autonomia della Rai, addebitando a chi lo critica l’arte della menzogna di cui è maestro, ricordiamo anche qui i precedenti. Già il 28 novembre del 2009, in un convegno dei giovani del Pdl a Olbia, il premier dichiarò minacciosamente: «Se trovo chi ha fatto le nove serie della Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura, lo strozzo». Poi, il 28 gennaio di quest’anno, nel corso di una conferenza-stampa a Reggio Calabria rincarò la dose: «Spero che questa brutta abitudine di fare fiction sulla mafia finisca. Queste fiction hanno danneggiato l´immagine del Paese».

Più recentemente, il 16 aprile scorso, lo stesso presidente del Consiglio ha ribadito il concetto che serial tv come La Piovra e libri come Gomorra fanno una cattiva pubblicità all´Italia nel mondo, promuovendo la mafia. Su questa scia, pochi giorni dopo il direttore del Tg 4 Emilio Fede ha sbottato: «Basta, Saviano non è un eroe. Non se ne può più!». E da ultimo, perfino il calciatore milanista Marco Borriello, napoletano di origine, s’è sentito in diritto di dichiarare che Saviano «è uno che ha lucrato sulla mia città», salvo poi pentirsi, esprimere il proprio rammarico e infine ammettere che «il problema è più grande di me».

Ecco, la conclusione del giocatore del Milan può valere anche per il patròn del Milan, per i suoi fans e ancor più per i censori della Rai. Lasciate stare: il problema, effettivamente, è più grande di voi. Non è il libro, il film o la trasmissione di Saviano che fanno una cattiva pubblicità all’Italia. Sono i problemi, i fatti, le situazioni che lui ha il coraggio di denunciare a non fare una buona pubblicità al nostro Paese. E sono le censure a danneggiarne l’immagine nel mondo, a farci fare una pessima figura.

C’è, al fondo di queste insulse reazioni, un’interpretazione puramente mediatica del potere; una visione esclusivamente propagandistica della politica. Come se tutto si riducesse a un maxi-spot, a una campagna promozionale o pubblicitaria, per nascondere i problemi reali, attirare masse di turisti ignoranti o creduloni e magari valorizzare, al di là delle bellezze naturali, le gambe delle nostre segretarie o gli attributi delle nostre escort. Un Carosello permanente al posto della lotta alla mafia.

Dice bene il sito della Fondazione Fare Futuro, presieduta da Gianfranco Fini: «Tagliare la trasmissione di Saviano significa che lo Stato abdica alle sue funzioni per accontentarsi di nani e ballerine, di zerbini e di veline». È il modello della tv di regime, rassicurante e consolatoria, compiacente e servile, falsa e bugiarda. Eppure, sappiamo tutti che all’interno della Rai non mancano né la competenza, né la professionalità né tantomeno il senso di responsabilità: quelle risorse, cioè, che giustificano e legittimano il ruolo della televisione pubblica.

Da Saviano a Santoro, da Floris a Dandini, da Ruffini a Busi, per citare solo i protagonisti o le vittime degli ultimi casi, questa funzione non si difende però a colpi di forbici. Si difende con l’impegno a fare informazione, intrattenimento o spettacolo, al servizio dei cittadini piuttosto che al servizio del potere.

La libertà di stampa è una di quelle libertà per le quali non può esistere una via intermedia tra massima libertà e dispotismo. Lo aveva capito quasi due secoli fa Alexis de Tocqueville, il quale, da critico diagnostico della trasformazione democratica delle società moderne, non si faceva scrupolo a confessare la sua ambigua attitudine nei confronti di questa libertà.

Una libertà che diceva di amare non perché un bene in sé ma perché un mezzo che impedisce cose veramente indesiderabili come l´impunità, l’abuso di potere e le tentazioni assolutistiche di chi governa. Proprio perché ogni tentativo di regolare la libertà di stampa si risolverebbe invariabilmente in uno sbilanciamento di potere a favore di chi regola, meglio, molto meglio una libertà senza limiti.

Del resto, chi può decidere su quale sia il limite giusto? E poi, chi controllerà colui che decide sul limite? Per questa ragione, Tocqueville osservava che se i governanti fossero coerenti con la loro proposta di limitare la libertà di stampa per impedirne un uso licenzioso ed esagerato, dovrebbero accettare di sottomettere le loro azioni ai tribunali, di essere monitorati dai giudici in ogni loro atto. Se non amano il tribunale dell’opinione dovrebbero preferire il tribunale vero. Ma questo, oltre che essere irrealistico, comporterebbe se attuato un allungamento della catena di impedimenti fino al punto da asfissiare l’intera società sotto una cappa di controllori e censori. A meno di non ripristinare l’assolutismo di età pre-moderna - un vero assurdo.

L’impossibilità di trovare una giusta limitazione per legge della libertà di stampa sta nel fatto che nei governi che si fondano sull’opinione, come sono quelli rappresentativi e costituzionali, non è possibile sfuggire all’opinione, la quale deve pur formarsi in qualche modo ed essere libera di fluire. È per questa ragione che l’azione del premier contro i due tribunali - la stampa e la magistratura - è in qualche modo anacronistica e assurda. Lo è per questa semplice ragione: nonostante la sua persistente passione censoria, egli vive di pubblico e non può restare celato agli occhi di chi è deputato a preferirlo e perfino amarlo. Il suo desiderio più grande è quindi quello non tanto o semplicemente di mettere il bavaglio alla stampa, ma invece quello di esaltare una forma soltanto di opinione, quella che non fa conoscere ma fa invece ammirare, preferire, amare. Egli vuole quindi l’impossibile: vivere di pubblico senza pubblico.

Poiché il pubblico è formato proprio attraverso diverse opinioni (questo è vero anche quando il pubblico è fatto di consumatori, e l’opinione è pubblicitaria, poiché in fondo anche di dentifrici ce ne sono di vari tipi sul mercato). Ma il premier vuole creare il suo pubblico e vuole che questo solo goda di libera circolazione: questa è l’ambizione assurda dell’assolutismo dispotico nell’era dei media.

Come ha scritto Ezio Mauro a commento dell’attacco in diretta che il premier ha lanciato contro chi aveva ricordato le sue passate dichiarazioni di sostegno agli evasori fiscali (Massimo Giannini) e contro chi aveva mostrato con i dati un suo calo nei consensi (Ipsos e Pagnoncelli), egli vuole «impedire ai giornali di raccontare la verità» per distribuire invece «un’unica verità di Stato». I monarchi assoluti dell’età pre-moderna non avevano a che fare con il pubblico: il decidere liberamente (fuori dai vincoli dell’opinione e del voto) li rendeva, se possibile, meno esposti alla menzogna e se menzogna c’era era all’interno della cerchia di potere nella quale vivevano. Arcana imperii era il nome della politica fatta a porte chiuse in un sistema di potere nel quale non c’era nessun obbligo a tenerle aperte. Ma con l’avvento della politica del consenso - in primis della designazione elettorale dei governanti - questa condizione di libertà ha perso giustificazione e, soprattutto, si è rivelata impossibile. Infatti, per il leader, l’essere scelto, sostenuto, e perfino amato è possibile solo se acquista o si crea un’immagine pubblica, un’immagine che esca dal palazzo e circoli liberamente. La condanna del leader con ambizioni assolutisiche nell’era democratica è quella di non poter più aspirare al potere assoluto mentre i mezzi di cui dispone - la stampa e l’opinione- - alimentano enormemente questa sua aspirazione.

Ecco quindi il paradosso del quale siamo testimoni (e vittime) in Italia: un leader che è stato creato dai media e che per restare al potere deve poter contare sulla pubblicità di quell’immagine vincente, e per tanto su un sostegno acritico dei media stessi. La premessa non detta di questo paradosso è che la verità sarebbe fatale a quell’immagine, e deve per tanto restare celata alla vista e all’udito. Ecco allora che la limitazione della libertà di stampa deve per forza essere più di questo per poter funzionare: deve coinvolgere non soltanto il momento della divulgazione delle opinioni scomode, ma anche quello del reperimento delle informazioni sulle quali quelle opinioni si basano (deve cioè mettere in discussione entrambi i tribunali). Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l’altro senza che si riesca a vederne la fine.

Il testo finale della manovra di governo per la stabilizzazione finanziaria ha rinunciato a espropriare il ministero dei Beni culturali della competenza sui tagli agli istituti culturali, e ne ha ridotto la portata. Buone notizie? Certo.

Ma, lo ha detto Mario Draghi nella sua importante relazione alla Banca d’Italia, «la correzione dei conti pubblici va accompagnata con il rilancio della crescita», e su questo punto capitale il decreto-legge Tremonti offre ben poco.

La relazione Draghi martella cifre non eludibili: nel biennio 2008-09 il Pil è calato di 6 punti e mezzo, la metà della crescita dei 10 anni precedenti; calano redditi, consumi, esportazioni. Cresce la disoccupazione dei giovani, calano i salari iniziali, crollano le nuove assunzioni, quasi sempre precarie, e «la stagnazione distrugge capitale umano, soprattutto tra i giovani».

A fronte di una situazione tanto drammatica, scrive Draghi, i tagli del governo «si concentrano sui costi di funzionamento delle amministrazioni pubbliche», e ciò proprio quando è necessario «aumentare la produttività della pubblica amministrazione». Secondo il presidente del Consiglio, le dichiarazioni del Governatore sono in piena sintonia con la manovra del Tesoro: ma questo embrassons-nous tanto ottimista non può esser preso sul serio.

La relazione Draghi contiene passaggi assai duri e severi, che danno dell’Italia un’istantanea assai più fedele di quella del governo. Nella situazione presente, «i costi dell’evasione fiscale e della corruzione divengono ancor più insopportabili». In particolare, ricorda Draghi, il 30% della base imponibile dell’Iva viene regolarmente evaso, per oltre 30 miliardi di euro l’anno, cifra che sale vertiginosamente (oltre i 100 miliardi) se si aggiunge l’evasione di altre imposte, come Irpef o Irap. Se tutti pagassero le tasse, non ci sarebbe alcun bisogno di manovre come quella che l’Italia dovrà ora subire.

«L’evasione fiscale è un freno alla crescita perché richiede tasse più elevate per chi le paga e riduce le risorse alle politiche sociali».

È la «macelleria sociale» di cui Draghi ha parlato commentando a braccio il proprio testo scritto: il taglio di oltre un miliardo e mezzo nel biennio al Servizio Sanitario Nazionale è un pezzo, e non il solo, di questa "macelleria".

Fra le vittime della "macelleria sociale" che affligge il Paese, non dimentichiamo il paesaggio, prezioso bene comune che la "manovra" e altre leggi di questa stagione consegnano al saccheggio indiscriminato di speculatori d’ogni sorta, cancellando il Codice dei Beni culturali con norme incostituzionali sul silenzio-assenso, rimaste tali e quali nella versione finale del decreto (si vedano i dati su Repubblica del 31 maggio).

Non dimentichiamo le nostre città in preda a una frenesia costruttiva che non riflette i bisogni di una crescita demografica che non c’è, ma un "investire nel mattone" che vede in prima fila mafie e riciclatori di denaro sporco: cioè i protagonisti di quelle «relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche, favorite dalla criminalità organizzata» di cui parla Draghi.

Non dimentichiamo infine il Mezzogiorno, che la manovra del governo (art. 43) consegna legato mani e piedi alla condizione derogatoria di «zona a burocrazia zero» dove non esiste più la pubblica amministrazione, e «i provvedimenti amministrativi di qualsiasi natura ed oggetto avviati su istanza di parte» con riferimento a qualsivoglia «iniziativa produttiva» vengono decise ad arbitrio di un Commissario di governo (e non più dei prefetti, come nella bozza di pochi giorni fa).

Sarà questo il modo di combattere la camorra e la ‘ndrangheta?

E se i 15 miliardi di tagli (nel biennio) a Regioni ed Enti locali sono fatti «ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica» (art 14), come mai la «burocrazia zero» riguarda solo metà dell’Italia? Saranno i Commissari di Governo a risolvere l’annosa questione meridionale imbavagliando le procedure di legge dell’amministrazione ordinaria?

Nella manovra Tremonti e nella relazione Draghi si fronteggiano due Italie ben diverse. L’una e l’altra vogliono, a ragione, la correzione dei conti pubblici. Ma l’Italia di Draghi individua lo strumento primario nella lotta all’evasione e alla corruzione, l’Italia di Tremonti preferisce l’olocausto della pubblica amministrazione (additata al ludibrio come "burocrazia"), il taglio delle risorse a Regioni ed enti locali che possono rimediarvi svendendo il territorio, la promozione di condoni edilizi ed altre misure derogatorie.

L’Italia di Draghi richiede «che l’Unità si celebri progettandone il rafforzamento e garantendone la vitalità», quella di Tremonti mette l’austerità e il sacrificio di tutti al servizio di un federalismo spendaccione e del separatismo leghista.

L’Italia più competitiva che il Governatore della Banca d’Italia ha disegnato richiede una pubblica amministrazione più efficiente, rinsanguata da nuove assunzioni di giovani scelti per competenza e per merito. Richiede la lotta senza quartiere alle mafie e ai loro complici, agli evasori e a chi vi cerca serbatoi elettorali. Richiede di capovolgere la "macelleria sociale" mediante una politica di investimenti sulle nuove generazioni, sulla scuola, l’università e la ricerca. Pretende di non limitarsi a quello che Keynes chiamava «l’incubo del contabile», di mettere sì a posto i conti (partendo dalla lotta all’evasione e alla corruzione e non borseggiando i cittadini), ma con in mente un progetto per un Paese migliore.

Sono state usate le parole giuste e forti per denunciare quel vero attentato all’ordine democratico rappresentato dalle nuove norme sulle intercettazioni. Un’opinione pubblica si è manifestata, ha occupato la scena politica e ad essa soltanto si deve quel mutamento di linea del governo che, pur essendo del tutto inadeguato, mai sarebbe venuto se ancora una volta avessero prevalso gli spiriti deboli e i cultori della moderazione sempre e ovunque. Ma un grave danno culturale è stato comunque provocato. Quando ho visto in piazza Montecitorio un cartello che proclamava "Non ho nulla da nascondere. Intercettatemi", sono stato preso da un vero scoramento, mi sono chiesto il perché di quella protesta estrema e mi è sembrato subito evidente che la nostra fragile cultura della privacy è a rischio proprio a causa di una legge che proclama di volerla proteggere.

Non è un esito paradossale. È il risultato di una riflessione sociale. Un’opinione pubblica sempre più larga si è resa conto che quella non era una legge a tutela della riservatezza delle persone, ma uno scudo protettivo per un ceto di cui si scoprivano l’immoralità civile, i mille traffici, la corruzione come regola. Da qui la reazione estrema, "intercettateci tutti", che ricorda il grido disperato dei ragazzi di Locri dopo l’ennesimo delitto della ‘ndrangheta, "ammazzateci tutti".

Ma questa esasperazione ci porta nella direzione sbagliata. Dico per l’ennesima volta che l’"uomo di vetro" è immagine nazista, è l’argomento con il quale tutti i regimi totalitari vogliono impadronirsi della vita delle persone. Se non avete nulla da nascondere, non avete nulla da temere. E così, appena qualcuno vuole rivendicare un brandello di intimità, diventa un "cattivo cittadino" sul quale lo Stato autoritario esercita le sue vendette.

È un argomento, dunque, da non usare mai, così come mai si deve ricorrere al suo opposto, all’uso strumentale della difesa della privacy per occultare comportamenti illegali o socialmente inaccettabili, per negare la trasparenza e la controllabilità dell’esercizio d´ogni potere. Entrambi questi atteggiamenti screditano la privacy agli occhi dei cittadini e occultano la realtà. Una realtà che, in questi anni, ha conosciuto gravi limitazioni della privacy dei dipendenti pubblici e il capovolgimento dell’impostazione con la quale si era cercato di mettere le persone al riparo dai disturbatori telefonici che invadono con pubblicità sgradite la sfera privata. Dopo aver ridotto la privacy di milioni di persone, ora la maggioranza si fa paladina di quella di un ceto indifendibile, cercando di cancellare quanto già è scritto nell’art. 6 del Codice sull’attività giornalistica: «La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica». Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici. In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza. E la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sottolineato con forza che questa essenziale esigenza democratica può rendere legittima anche la pubblicazione di notizie coperte dal segreto. L’opposto di quel che si cerca di fare in Italia.

La privacy, dunque, conosce diversi livelli di protezione. E non corrisponde alla realtà dei fatti sostenere che la tutela ha funzionato solo a favore dei vip. Prima di fare affermazioni del genere bisognerebbe dare un´occhiata all´attività passata e presente del Garante e si scoprirebbe che i casi riguardanti i cosiddetti vip sono una percentuale davvero minima e che l´attività nel suo insieme è volta a garantire proprio la "gente comune". Un lavoro sempre più difficile, che non può essere screditato con qualche sprezzante formula liquidatoria, ma che dovrebbe essere accompagnato da una attenzione che dia alle persone la consapevolezza dei loro diritti.

La privacy non è più soltanto il diritto d’essere lasciato solo, di allontanare lo sguardo indesiderato. È sempre di più uno strumento essenziale perché non si debba vivere in una società del controllo, della sorveglianza, della selezione sociale. Servono, dunque, strategie adeguate per contrastare la bulimia informativa di poteri pubblici e privati, per sottrarsi allo "tsunami digitale" che si sta abbattendo sulle persone.

La prima mossa riguarda l’osservanza del principio che limita la raccolta delle informazioni personali a quelle strettamente necessarie per raggiungere una determinata finalità. Una indicazione importante viene dal programma del nuovo governo britannico, che ha scelto una strada del tutto opposta a quella che, negli ultimi anni, stava trasformando l’Inghilterra in una società della sorveglianza. Ecco allora lo stop alla carta d’identità e al passaporto biometrico, alla creazione di banche dati del Dna senza garanzie adeguate, alla raccolta delle impronte digitali dei bambini senza il consenso dei genitori, alla videosorveglianza a tappeto, alla conservazione generalizzata dei dati riguardanti l’accesso a Internet e la posta elettronica, a tutte le misure restrittive introdotte con il pretesto della lotta al terrorismo. I nostri garantisti a corrente alternata daranno un’occhiata a queste pagine, significativamente intitolate "libertà civili"?

La privacy assume così le sembianze di altri specifici diritti. Diritto all’oblio, dunque a ottenere la cancellazione di dati che non debbono seguirci per tutta la vita (un diritto particolarmente importante nel tempo delle reti sociali, di Facebook). Diritto di "rendere silenzioso il chip", vale a dire potere individuale di disconnettersi da una serie di apparati tecnologici di controllo. Diritto all’anonimato, che può essere essenziale per la libertà di espressione, come ha appena sostenuto la Corte suprema di Israele scrivendo che esso offre una tutela importante per chi vuole esprimere opinioni non ortodosse.

Uno sprazzo di questa consapevolezza tecnologica si ritrova persino nell’orrendo testo in discussione al Senato, dove si prevede che, per ottenere i tabulati telefonici, sia necessaria la stessa autorizzazione richiesta per le intercettazioni. Una scelta corretta. Infatti i tabulati, pur non fornendo i contenuti delle conversazioni, rivelano una serie di informazioni (nome del chiamante e del chiamato, luoghi dove questi si trovano, durata della conservazione) che consente di ricostruire l´intera rete delle relazioni personali, politiche, economiche, religiose di tutti. E, mentre si può contestare il contenuto di una intercettazione, liberandosi così dal sospetto, questo diventa più difficile, o addirittura impossibile, quando i dati conservati registrano solo il nudo fatto dell’aver telefonato ad una persona.

Queste sono alcune delle strade da seguire se davvero si vuole tutelare la privacy delle persone, ormai identificata con la libera costruzione della personalità, con il potere di controllare chiunque usi le nostre informazioni, con il rifiuto di sottostare a pretese ammantate di sicurezza o efficienza del mercato. Qui si gioca la vera partita. Anche per questo dobbiamo uscire dalla trappola allestita da chi vuole trasformare la privacy in difesa del nudo potere.

Chi ha protetto la cricca degli appalti aveva un compito preciso: costruire una rete di altissimi dirigenti di governo in grado di sopravvivere ai cambi di coalizione. Questo emerge dalle indagini. Dopo Mani pulite, che negli anni Novanta aveva spazzato via boiardi e faccendieri, qualcuno ha voluto ricostituire la squadra. E soprattutto riconquistare il controllo su soldi pubblici, contratti e imprese. Così è successo. Una struttura parallela dentro e fuori i ministeri. E, se necessario, dentro e fuori la legge. Qualcosa che puzza di massoneria o almeno di accordi stretti al di sopra dello Stato. Un'entità in grado di determinare i costi e gli indirizzi della politica. Un'ombra che ha indotto perfino il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, a firmare inconsapevolmente atti contrari alle norme.

I soldi di Diego Anemone serviti a comprare appartamenti di lusso ai familiari dei grand commis Ercole Incalza e Angelo Balducci e al ministro dimissionario Claudio Scajola: quei soldi potrebbero essere soltanto i rivoli di un fiume carsico di denaro e potere.

L'espresso" ha provato a ripercorrerlo controcorrente. Ed è risalito a un anno chiave: il 2001. In quel periodo l'allora ministro alle Infrastrutture, Pietro Lunardi, sostituisce tre capidipartimento dei Trasporti con tre funzionari dei Lavori pubblici, nonostante la differente specializzazione. E un collega nel governo, Franco Frattini, in quegli anni ministro per la Funzione pubblica e per il Coordinamento dei servizi di intelligence, prova a fermarlo. Ma il suo tentativo viene spazzato via. L'imprenditore dei grandi appalti prestato alla politica, Lunardi, vince sull'esponente di Forza Italia. E in una lettera del 10 ottobre 2002, scoperta da "L'espresso", Frattini esprime "serio disappunto" (la lettera è sul nostro sito www.epressonline.it).

Da allora nessuno ha più fermato la cricca. Nemmeno il successivo governo di centrosinistra. Con i ministri Antonio Di Pietro e Francesco Rutelli: già nel 2007 il leader dell'Idv rimuove Balducci dal posto di presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici e in due settimane Rutelli gli inventa un incarico al ministero dei Beni culturali e del Turismo, in via della Ferratella a Roma, che presto diventerà quartier generale del partito del malaffare. Perché nessuno avverte Rutelli? Il Consiglio dei ministri doveva essere già bene informato sull'esistenza della banda.

Nel gennaio 2007 il ministro Di Pietro riceve infatti l'ennesima denuncia di alcuni imprenditori su presunte irregolarità nel pagamento di un appalto, per opere affidate come commissario al capo della Protezione civile, Guido Bertolaso: per quei lavori l'alter ego di Balducci, Claudio Rinaldi, e altri funzionari avrebbero proposto compensi con assegni privati. "Anche per questo ho spostato Balducci e Rinaldi", dice Di Pietro a "L'espresso". Nonostante l'esposto e la rimozione, però, Balducci rinasce subito grazie a Rutelli. E nel marzo 2008, un anno dopo, il premier Romano Prodi concede per decreto a Bertolaso la possibilità di mettere proprio Balducci a capo dei super appalti per il G8 sull'isola della Maddalena. Ed è quello che avviene. Bertolaso sceglie da solo? La riconversione dell'Arsenale è il fiore all'occhiello dell'operazione. Ma si trasformerà in uno scempio di denaro pubblico. Spese folli e nomine sospette che, come hanno scoperto le procure di Firenze e Perugia, proseguiranno sotto il successivo governo di Silvio Berlusconi e il controllo di Gianni Letta.

La lettera di Frattini, attuale ministro degli Esteri, è indirizzata a uno dei capidipartimento sostituiti da Lunardi nel 2001. "Egregio ingegnere", scrive Franco Frattini in poche righe su carta del ministero, "comprendo bene il suo fondato rammarico. Lei sa bene che sono intervenuto personalmente, senza risultato positivo, e ciò evidentemente ha determinato un serio disappunto".

"L'espresso" ha rintracciato l'ingegnere: Bruno Salvi, ora in pensione. Salvi ha fatto parte della commissione tecnica ministeriale sull'incidente di Linate dell'8 ottobre 2001 ed era capo del dipartimento per l'Aviazione civile. Prima di andarsene dall'amministrazione, il dirigente generale ha vinto la causa contro il decreto di revoca del suo incarico. Revoca firmata dall'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e controfirmata da Berlusconi e Lunardi, in quegli anni assistito dal capo di gabinetto Claudio Gelati. Il presidente della Repubblica non ha competenza diretta. Ma qualcuno al Quirinale gli ha presentato il fascicolo per farglielo siglare. Atto che poi il Tribunale del lavoro ha giudicato irregolare tanto da stabilire il reintegro e il risarcimento di Salvi.

C'è un altro provvedimento di Lunardi che incrementa il potere di Balducci e il guadagno dei suoi affiliati. È il 17 febbraio 2006 e il ministro con una firma ordina un nuovo ribaltamento delle regole del ministero. Da quel giorno le gare di appalto che riguardano caserme, uffici e infrastrutture della Guardia di finanza non verranno più sottoposte al controllo dei provveditorati regionali. Verranno tutte gestite dal provveditorato di Lazio, Abruzzo e Sardegna. Cioè dall'ufficio del pupillo di Balducci, Claudio Rinaldi. Sempre Lunardi, cambiando le norme in vigore, dispone che anche le opere di importo inferiore ai 25 milioni siano sottoposte al parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Cioè Balducci.

Sarà un caso ma proprio quei contratti per le caserme della Guardia di finanza faranno incrementare di decine di milioni in pochi anni i bilanci delle imprese di Diego Anemone, che ormai si muovono e incassano in simbiosi con Balducci. Lunardi firma il provvedimento due giorni dopo la riunione di coordinamento con il presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, il direttore Valeria Olivieri che dovrebbe controllare l'ufficio di Rinaldi e, sentite un po', l'allora sottocapo di Stato maggiore della guardia di finanza, il generale Paolo Poletti, attuale vicedirettore dell'Aisi. È il servizio segreto interno, nel quale lavora l'altro generale della finanza, Francesco Pittorru, destinatario con la figlia Claudia di assegni del giro Anemone. Le coincidenze sono sempre più interessanti. Perché negli stessi anni Lunardi compra dal Vaticano una palazzina in centro a Roma, in via dei Prefetti, di proprietà di Propaganda Fide di cui Balducci è "consultore", cioè amministratore immobiliare. E affida ad Anemone i lavori di ristrutturazione di cui, sostiene l'ex ministro, ha le fatture. Per essere completamente trasparente Lunardi potrebbe ora mostrare pubblicamente gli estratti conto da cui risultano i pagamenti.

Nell'enigmatico elenco dei lavori personali eseguiti da Anemone, risulta invece un "Poletti-via Ofanto". Se fosse il generale amico di Balducci, potrebbe comunque essere un appalto istituzionale visto che si tratta della casa del numero due del servizio segreto. Tra le tante coincidenze, "L'espresso" ha invece chiesto a Di Pietro come mai non abbia avvertito Rutelli e Prodi dei suoi sospetti su Balducci. E su Rinaldi, poi nominato commissario delegato per i Mondiali di nuoto 2009: un piano di finanziamenti e deroghe di cui ha beneficiato il Salaria sport village, il circolo di proprietà Anemone e Balducci, frequentato da Bertolaso e vip della politica. Di Pietro sostiene che il suo ruolo di testimone nell'inchiesta gli impedisce di rispondere.

Ricorda invece bene quei giorni del 2001 Bruno Salvi. "Avvenne una rivoluzione e una espropriazione", racconta Salvi: "La rivoluzione determinò l'eliminazione dei tre capi dipartimento del settore Trasporti. Due diedero le dimissioni per conservare le competenze accessorie per la pensione. Io chiesi un consiglio all'allora ministro per la Funzione pubblica, che era Frattini e che tuttora ringrazio con rinnovata stima. Il ministro mi suggerì di non andare via perché, cito le sue parole, nessuno si sarebbe potuto privare della mia esperienza in materia di trasporto aereo. Risposi: obbedisco". Frattini, però, non riesce a fermare Lunardi. "Tutti i capidipartimento furono rimossi per assegnare le funzioni a dirigenti, alcuni promossi nell'occasione, dell'ex ministero dei Lavori pubblici", continua Salvi: "L'epurazione proseguì con la rimozione del direttore del personale.

Ma fu anche politica. Il viceministro Mario Tassone fu collocato all'Eur, lontano dalla sede del ministero. L'operazione si estese alla costituzione del gabinetto del ministro che registrò l'assenza di personale qualificato dei Trasporti civili. Ne fecero parte il generale dell'aeronautica Andrea Fornasiero, il dottor Vito Riggio poi nominato presidente dell'Enac e l'ingegner Ercole Incalza". Fornasiero, estraneo alle indagini in corso, è conosciuto per la sua stretta amicizia con il costruttore Salvatore Ligresti. I contatti di Riggio con la cricca emergono dalle telefonate tra il coordinatore del Pdl Denis Verdini e l'imprenditore Riccardo Fusi. Di Ercole Incalza, l'attuale ministro alle Infrastrutture Altero Matteoli ha da poco respinto le dimissioni: l'alto funzionario, già indagato durante Mani pulite, le aveva presentate dopo la scoperta che il marito della figlia avrebbe comprato un appartamento con l'aggiunta di 520 mila euro girati dall'architetto di Anemone, Angelo Zampolini.

Gli appalti aeronautici sono un altro settore di grande interesse. Negli anni '90, durante l'ampliamento di Fiumicino, Salvi paga il suo rifiuto a gonfiare le spese con il carcere, grazie a un'accusa di concussione smentita durante il processo e completamente inventata da un imprenditore che voleva toglierselo di mezzo. Altre gravi irregolarità emergono durante l'inchiesta sull'incidente di Linate e il mancato funzionamento del radar di terra. E anche qui sono in gioco appalti segretati, come quelli gestiti dalla coppia Bertolaso-Balducci per il G8. "La segretazione non serve per nascondere l'appalto, ma chi lo fornisce", dice Salvi: "In quei giorni si indagava sull'Enav, l'ente di assistenza al volo. Il pm di Milano mi aveva chiesto una relazione sull'effetto della segretazione sui costi. La differenza tra i prezzi di mercato degli stessi apparati rispetto a quelli sostenuti dall'Enav, riferita a 41 impianti, superava i 130 miliardi di vecchie lire". Proprio in questi giorni sull'Enav ha aperto un'inchiesta la Procura di Roma. Riguarderebbe l'allontanamento di un manager addetto al controllo dei conti e l'assunzione in ruoli chiave dei soliti amici degli amici. Tra i nomi, Luca Iafolla. Chi è? Il papà si chiama Claudio. È il capo di gabinetto del ministro Matteoli. Sempre la solita coincidenza all'ombra della cricca.

Era già tutto scritto in un romanzo, «Nelle mani giuste», uscito nel 2005, nell’indifferenza generale. Nonostante fosse il seguito del capolavoro di Giancarlo De Cataldo, «Romanzo Criminale». C’era già tutto, con precisione impressionante: le trattative fra Stato e mafia, le bombe il «papello», perfino il misterioso «signor Franco».

Come poteva sapere, De Cataldo? Intuito di romanziere, esperienza di magistrato o qualche «gola profonda»?

«Letture e logica. Non ho avuto fonti privilegiate. Mi sono documentato sui giornali dell’epoca, con gli atti del processo di Firenze, dove c’era già quasi tutto, con il libro «La trattativa» di Maurizio Torrealta e il fondamentale rapporto del Copaco del 1995, scritto dal senatore Massimo Brutti dei Ds, che è la più completa inchiesta sui servizi deviati mai fatta. La verità è che molti dei misteri del ‘92 e ‘93 non sono poi tali. Tutto si svolse sotto gli occhi di tanti, per non dire di tutti: soltanto che nessuno volle o seppe vedere»

Chi non volle e chi non seppe vedere?

«Non vollero vedere molti apparati dello Stato. Non seppe vedere la sinistra. L’aspetto che mi ha più sconvolto, nei mesi di ricerca per scrivere il romanzo, erano le molte e dettagliate "profezie" su quanto stava per accadere. Il 6 marzo ‘92 Elio Ciolini, personaggio legato ai servizi deviati e alla P2, annuncia che ci sarà un assassinio politico e si darà la colpa alla mafia. Nessuno lo prende sul serio, ma sei giorni dopo uccidono Salvo Lima. Tutti tornano da Ciolini e lui rincara la dose: ora ci saranno altri botti. Ma non è il solo. Anche Vittorio Sbardella parla di "un bel botto", negli stessi giorni. Gli attentati del ‘93 sono le stragi più annunciate nella storia delle stragi».

Chi doveva ascoltare gli avvertimenti, i governi Amato e Ciampi, la sinistra?

«A sinistra c’era un’euforia da vittoria sicura. È incredibile quanto si sia sottovalutata la minaccia dei vecchi apparati»

Nel suo romanzo c’è un personaggio della prima repubblica che avverte il senatore di sinistra Argenti: non crederete che vi lasceremo vincere senza inventarci nulla?

«È un episodio reale, che mi è stato raccontato dal senatore Brutti. Ma quando parlo di sottovalutazione da parte della sinistra, non mi riferisco soltanto ai politici, ma anche alla cosiddetta società civile, compresi noi magistrati democratici. Non avevamo capito nulla delle stragi di Falcone e Borsellino. Diciamo la verità, molti di noi pensavamo che Sciascia avesse ragione quando li identificava nei professionisti dell’antimafia. A molti di noi sembravano malati di protagonismo. Non avevamo capito che Falcone e Borsellino avevano scoperto qualcosa di enorme, erano andati al di là della nostra immaginazione»

Torniamo all’invenzione per fermare la sinistra, all’entità, al «nuovo assetto politico» di cui parla il procuratore Grasso. A Berlusconi e a Forza Italia, insomma.

«Sì, certo, ovvio. L’invenzione è Berlusconi. Non il miliardario solitario e geniale, ma l’espressione di un gruppo di potere della prima repubblica in cerca di una figura moderna e simbolica in cui incarnarsi. Questo però non significa che Berlusconi c’entri con le bombe. Diciamo che hanno lavorato delle sinergie».

Perché cominciano e perché finiscono le stragi?

«Per rispondere a questa domanda bisogna capire che cos’è davvero successo intorno all’ultimo attentato fallito, quello all’Olimpico, nell´ottobre del ‘93, che doveva fare strage di un centinaio di carabinieri».

Gli atti dicono che il timer non ha funzionato.

«Sì, ma perché allora la mafia non lo replica? Perché non si sono mai trovati né l’auto né l’esplosivo? La spiegazione più ragionevole è che la mafia abbia ottenuto ciò che si proponeva con le stragi, o quello che si proponevano i suoi alleati politici»

La banda della Magliana gioca un ruolo importante nei misteri italiani. Dopo tanti anni, che idea s’è fatto di questo ruolo?

«Nel ‘93 la banda non c’è più, ma il mistero continua. De Pedis seppellito a Sant’Apollinare, il rapimento di Emanuela Orlandi. Che cosa c’entrava una banda di criminali romani con tutto questo e con le stragi, l’assassinio di Rosone compiuto materialmente da Abbruciati, l’affare Moro e tanto altro? È la stessa domanda che circonda gli attentati del ‘93: chiunque si sia occupato nella vita di mafia sa che è impossibile per gente come Riina e Provenzano anche soltanto immaginare un attentato agli Uffizi o al Velabro se non sulla base di uno scambio di favori con qualche entità esterna».

Secondo la sua esperienza di magistrato e scrittore, si può scoprire ancora qualcosa sulla strada dell’inchiesta?

«No. Magistrati e giornalisti hanno scoperto tutto quanto si potesse scoprire, hanno fatto un grandissimo lavoro. L’unica possibilità di arrivare alla verità ultima è che si muova la politica: Ci vorrebbe una commissione parlamentare».

Ma una commissione parlamentare non ha gli stessi poteri della magistratura?

«Penso a una commissione parlamentare come quella sull’apartheid in Sudafrica, che accerti la verità senza il potere sanzionatorio. In questo modo molti, garantiti, oggi si metterebbero a raccontare. È certo penoso rinunciare a fare giustizia. Ma qui bisogna scegliere se fare giustizia o conoscere tutta la verità. E ormai, persa la prima speranza, non rimane che la seconda».

Quanto costa a' funtana? chiedeva a Totò l'emigrante rimpatriato. Oggi la finzione comica diventa realtà: perché quella stessa domanda la stanno facendo sindaci di comuni grandi e piccoli di fronte al federalismo demaniale. Solo che, adesso, al posto di Totò e Nino Taranto ci sono Giulio Tremonti e Roberto Calderoli, e invece della Fontana di Trevi si tratta sul prezzo di caserme abbandonate, fabbriche dismesse, terreni incolti, aeroporti, moli in disuso. Nonostante le apparenze, un ricchissimo buffet da 3,2 miliardi di euro. E mentre nei Comuni tirano fuori le calcolatrici, in Regione i governatori si scervellano per un'eredità più impegnativa: laghi, fiumi, monti, spiagge e miniere. Da oggi toccherà a loro capire cosa farne.

Di primo acchito un fiume può sembrare un affare, e una caserma abbandonata una fregatura. In realtà nelle mani dei Comuni è stato consegnato un vero e proprio tesoretto. Perché grazie alla formula magica del "cambio di destinazione d'uso" al Catasto, una zucca può diventare una carrozza, o per meglio dire una vecchia polveriera senza futuro può diventare un esclusivo resort da gestire, o da rivendere. "I tre miliardi in beni demaniali ceduti dallo Stato possono facilmente raddoppiare, triplicare e perfino quadruplicare il proprio valore", spiega Luca Antonini, presidente della Commissione tecnica per l'attuazione del federalismo fiscale. Lo sanno bene gli amministratori locali, tanto che - nonostante il menu dei beni da passare agli enti locali non sia ancora pronto - al Demanio già vanno a batter cassa.

Come a Napoli, dove l'assessore al Patrimonio Marcello D'Aponte vorrebbe mettere le mani su uno dei simboli della città: Castel dell'Ovo. "Lì abbiamo già parecchi uffici per i quali paghiamo un fitto salato. Tutti soldi che potremmo risparmiare se tornasse a noi". A meno che qualcuno a Palazzo San Giacomo non ci voglia poi lucrare sopra. Secondo voci che girano al consiglio comunale, infatti, ci sarebbe già un potenziale acquirente: niente meno che Quentin Tarantino, il regista italoamericano, pronto a fare un'offerta in nome delle sue radici. A Roma, invece, Gianni Alemanno si frega le mani in attesa di vedersi assegnare le caserme di cui pullula la città. Soprattutto quelle di Prati, zona fra le più prestigiose della capitale: qui le case si vendono dai 6.500 agli 8.500 euro al metro quadro. Ma anche più in periferia i progetti del sindaco non mancano. A Tor di Quinto - se la città si aggiudicasse le Olimpiadi 2020 - un bel pezzo di zona militare potrebbe finire per ospitare il villaggio olimpico. Ancora, a Ferrara la vecchia caserma di Cisterna del Follo è pronta a diventare il parcheggio della zona medievale. A Brescia, il vicesindaco leghista Fabio Rolfi per la nuova vita dell'ennesima caserma (la Randaccio) ha in mente un campus universitario.

Il business della devolution non finisce solo nelle casse dei comuni, ma anche nelle tasche di chi ha fiuto per gli affari. Perché spesso i sindaci, quando si tratta di far soldi, preferiscono affidarsi a un privato. Sempre a Napoli, ad esempio, al comune fa gola il vecchio Hotel Londra di piazza Municipio (anche se poi toccherebbe sfrattare i magistrati del Tar): "Io lo farei tornare un albergo, per darlo in gestione a un privato", confessa D'Aponte. Ma quando li vogliono maledetti e subito, fiaccati dai tagli tremontiani di ieri, oggi e domani, ai nostri sindaci non resta che vendere.

Ed è qui che il federalismo demaniale si fa più opaco. "Noi attribuiamo beni del patrimonio statale ai Comuni e alle Regioni, che poi potranno venderli o fare accordi con gli immobiliaristi", avverte Bruno Tabacci di Alleanza per l'Italia, "il che si presta ad ambiguità già viste, come le cricche, le cerchie di amici, il sistema protezione civile". Per ogni palazzinaro che ci guadagna, però, c'è anche un fondo immobiliare che si sente tagliato fuori dal business. Loro credevano che si sarebbero visti affidare edifici e terreni ex demaniali per tradurli in finanza. Ma Tremonti ha chiuso loro la porta in faccia in favore di una creatura di sua invenzione: il fondo immobiliare chiuso a prevalente capitale pubblico. Ossia tanti piccoli fondi immobiliari dove ci sarà spazio solo per i soldi degli enti locali, e un po' per quelli di banche e fondazioni. In alternativa, toccherà rivolgersi al feudo tremontiano della Cassa depositi e prestiti.

Il tesoretto federalista, però, non è per tutti: il Comune grande prospera alle spalle del piccolo. Lo dimostrano i dati ottenuti dal senatore Marco Stradiotto, l'unico che sia riuscito ad ottenere la lista dei beni che il demanio trasferirà alla sua regione, il Veneto. Qui, su 581 Comuni, appena 103 riceveranno qualcosa. Ma la parte del leone la farà Venezia con la sua Provincia, che assorbirà 146 milioni in immobili e terreni, ossia più della metà di tutta la regione. Fra questi spicca l'antichissima ex caserma Guglielmo Pepe del Lido, che a Ca' Farsetti sognavano da tempo - già valutata, così com'è, 24 milioni e mezzo di euro. Ai ricchi tutte le fortune: a Cortina D'Ampezzo potranno andare a pescare dalla lista demaniale addirittura uno dei loro gioielli, il Monte Cristallo, valutato - incredibilmente - poco più di 250 mila euro. "Per me federalismo significa equità, e questo federalismo demaniale non è equo", lamenta Stradiotto: "Ci vorrebbe un fondo perequativo a livello centrale, per aiutare i Comuni svantaggiati". Anzi, la manna diventa mannaia: i tagli di Tremonti colpiscono in egual misura chi ha avuto tanto e chi niente. Il che è vero in ogni regione, ma è ancor più vero nel confronto fra Nord e Sud. Se infatti si leggono le stime del Demanio, ne emerge che le regioni settentrionali più il Lazio si prenderanno il 65 per cento dell'intero tesoro. Agli altri le briciole. Ad altri ancora, zero: i Comuni in stato di dissesto non potranno partecipare al banchetto. Come Taranto, Enna o Velletri.

"Abbiamo provato in tutti i modi a offrire una compensazione ai Comuni più sfortunati", racconta l'onorevole Enrico La Loggia, presidente della bicamerale sul federalismo, "ma c'era un problema tecnico insuperabile: alla fine sarebbero arrivati loro solo pochi euro. Per questo abbiamo chiesto al governo di trattenere una parte di quanto gli spetta (il 25 per cento di ogni euro incassato per la vendita d'immobili e terreni) per rendere questo federalismo più solidale".

Il federalismo non tocca solo i primi cittadini. Anche i presidenti delle Regioni possono contare sui gentili omaggi della politica romana, seppur in modo diverso: a loro andranno i beni demaniali, quelli che si possono solo gestire e non vendere per far cassa. A partire dalle spiagge, scrigno di quei preziosi canoni che i lidi pagano per montare cabine e ombrelloni. "Con la gestione diretta da parte dei governatori", spiega Riccardo Borgo, presidente del Sib, il sindacato dei balneari, "mi aspetto che le regioni possano farsi concorrenza fra loro, giocando sulla leva dei canoni e la durata delle concessioni". Previsione che già si sta rivelando azzeccata. Se il governatore ligure, Claudio Burlando, fa saper di voler venire incontro agli imprenditori turistici riducendo il canone il più possibile (in questo seguìto a ruota dal collega veneto Luca Zaia), l'assessore al Turismo laziale, Stefano Zappalà, non ha timore nel preannunciare un aumento.

Per Zaia, spiagge lo sono anche le sponde del Piave. Il fiume che mormorava, oggi acclamato primo fiume federalista, sembra destinato a grandi cambiamenti: "Bisogna realizzare le infrastrutture necessarie a rendere l'offerta turistica competitiva", sostiene Zaia, "la "spiaggia dei trevigiani" sarà un volano economico importante per il territorio". Peccato che l'economia del Piave, e il fiume stesso, siano già segnati dalle centrali idroelettriche e dai sistemi d'irrigazione, che se lo risucchiano, rendendolo poco più di un rivolo quando scende nella sua parte bassa. "Nessuno controlla i minimi di flusso vitale", denuncia Guido Trento, ex consigliere Pd, "quindi questo Piave è un fiume fantasma. Prima di fare proclami, Zaia dovrebbe occuparsene". Ma per farlo dovrà fare i conti con i soldi delle concessioni idroelettriche che adesso inizieranno a fluire nelle casse della sua regione. Anche a Biella l'acqua è sinonimo di affari: "Oggi lo Stato ci guadagna10 mila euro", osserva Marco Giovanni Reguzzoni, presidente dei deputati leghisti, "ma solo imbottigliando bibite alla provincia calcolano che si potranno ricavare sei milioni l'anno. Questo è il valore aggiunto che Roma da lontano non capisce". Che il lago di Garda sia importante, invece, lo capiscono tutti. Bisognerà vedere se Veneto, Lombardia e Trento sapranno trovare un accordo per gestirlo tutti insieme.

Nel decreto varato dal governo c'è posto anche per la devoluzione degli aeroporti. Non tutti, però. Si parla di quelli a carattere regionale, mentre quelli d'interesse nazionale sono esclusi. Una distinzione ragionevole, che però di fatto blocca il passaggio di mano dei piccoli scali. Come ammettono all'Enac, l'Ente per l'aviazione civile, la lista che divide i piccoli dai grandi ancora non è pronta. Lo sarà solo dopo aver completato il piano nazionale degli aeroporti. Quindi, almeno per ora, il federalismo dei cieli è una chimera. A meno che non si voglia prendere un criterio di distinzione molto empirico, suggerito dalle autorità europee: sotto i 5 milioni di passeggeri all'anno sei marginale, sopra sei strategico per il paese. Sulla base dei dati di traffico, si potrebbe fare una scrematura dei 47 scali commerciali italiani. Ebbene, potrebbero finire nel patrimonio delle regioni più di una trentina di piste, fra cui aeroporti di una certa importanza come quelli di Pisa, Cagliari o Genova.

E i beni scartati? Restano a casa

colloquio con Mauro Renna

Scelte troppo discrezionali lasciano spazio ad accordi poco trasparenti. Senza contare che i beni rifiutati resteranno in carico al Demanio

"Cambiare la destinazione d'uso di un bene oggi sarà più facile. Ma il rischio cricca è dietro l'angolo", avverte Mauro Renna, ordinario di Diritto amministrativo all'Università dell'Insubria e partner dello Studio legale Leone-Torrani e Associati, il quale ha studiato pregi e difetti del nascituro federalismo demaniale.

"Sono state introdotte procedure semplificate", spiega, "ma siccome c'è molta discrezionalità, le scelte compiute saranno poco controllabili. Il pericolo è che in alcune realtà le trasformazioni vengano fatte avendo già bene in mente i soggetti che poi potrebbero essere interessati all'acquisto".

Fiumi e laghi a parte, a sindaci e governatori viene lasciata assoluta libertà su cosa scegliersi e cosa scartare dal menu del demanio. I beni e terreni rifiutati resteranno allo Stato. L'ennesima "bad company"?

"È proprio così. Alla fine uno richiede solo i beni interessanti. Quindi i beni patacche, quelli per nulla valorizzabili o sui quali bisogna investire troppo, tenderanno a restare dove sono. Si sarebbe potuto imporre agli enti di prendere l'intero pacchetto o nulla. Così come stanno le cose, invece, tutti gli "scarti" finiranno nel freezer del Demanio, nella speranza che un giorno i sindaci cambino idea".

Il tesoretto demaniale è stato presentato come un regalo, ma non è proprio a costo zero...

"I trasferimenti in sé sono "gratuiti", ma i fondi statali che spettano a regioni ed enti locali verranno diminuiti in misura corrispondente alla riduzione delle entrate dell'erario post-trasferimento. Quindi parlare di gratuità è improprio, perché una ricaduta ce l'avrà, non è a costo zero. Bisognerà vedere se gli enti locali, costretti a guadagnarsi da soli il pane, saranno più bravi dello Stato nel farli fruttare. Ma non sono così ottimista che questo sia possibile in tutto il Paese".

Galapagos

Come si gestisce una crisi? Draghi non ha dubbi: con la condivisione. E, a proposito della crisi del 1992, a suo giudizio «ben più seria di quella che oggi hanno davanti alcuni paesi europei», ha ricordato che fu varata una manovra enorme, da 95 mila miliardi di lire, ma l'Italia e non chiese alcun aiuto alle istituzioni internazionali e, grazie anche alla svalutazione, riuscì a uscire dal gorgo nel quale stava affogando. Con questa affermazione (la «condivisione») il governatore sembra aver fornito un jolly al governo (soddisfatto della relazione) che accusa l'opposizione di non collaborare. Ma Draghi ribatte: «la crisi ci ha ricordato in forma brutale l'importanza dell'azione comune, della condivisione di obiettivi, politiche, sacrifici», ma anche equità, possiamo aggiungere. Su questo c'è divaricazione, tra le opposizioni e un governo che persegue una politica di classe.

Il governo sostiene: con questa manovra non abbiamo fatto «macelleria sociale», ma Draghi pur lodando il rilancio - tardivo e modesto - dell'azione anti evasione, afferma che sono gli evasori fiscali a fare «macelleria sociale», sottraendo risorse a chi le tasse le paga. Una cifra: tra il 2005 e il 2008 solo con l'evasione dell'Iva sono stati sottratti 30 miliardi di euro l'anno. L'evasione è questione seria e se combattuta seriamente potrebbe fornire risorse per ridurre la pressione fiscale e per rilanciare lo sviluppo, grande assente nella manovra del governo. In questo il giudizio di Draghi è simile a quello di Confindustria e Cgil: loda l'intenzione di ridurre le spese correnti (fortemente aumentate da Berlusconi) ma non vi trova elementi di rilancio dell'economia. In una fase oltretutto pericolosa perché la contemporaneità delle azioni di rientro di molti stati rischia di impaludarsi nelle scarse prospettive di crescita già minata, nei dieci anni precedenti la crisi odierna, da una scarsa crescita della produttività (3% contro il 14 dell'area dell'euro) da un incremento del Pil del 15% contro il 25% dei paesi dell'area, da un tasso di occupazione di 7 punti più basso e da un tasso di disoccupazione molto superiore soprattutto per quanto riguarda giovani e donne (12 punti in più).

E' «naturale» che le ricette di Draghi non portino al socialismo (come auspica Paolo Ferrero, unica voce critica) ma solo a un sistema economico forse meno iniquo. In particolare è deludente l'analisi della crisi. Già nelle «Considerazioni» dello scorso anno era assente; ieri l'amnesia è proseguita: tutto viene ridotto agli eccessi finanziari, a quelli di liquidità a un indebitamente eccessivo delle famiglie Usa, senza spiegare da dove è nato il bisogno di indebitarsi. Non c'è alcun riferimento alla crisi del welfare, alla pessima distribuzione dei redditi, all'esasperata ricerca del profitto con una mostruosa flessibilità.

Belle, invece, le bacchettate alla Lega riguardo alle nomine nelle Fondazioni bancarie nelle quali gli uomini di Bossi vogliono mettere le mani. Sacrosanto il richiamo che le grandi banche devono muoversi sul territorio come banche locali. Un ultima curiosità: la rivalutazione del diritto a fallire sia per le imprese che per gli stati. Ovviamente in un quadro regolamentare diverso. Le regole, però, non le fanno i lavoratori, ma i grandi della terra che dopo aver coperto d'oro le banche ora chiedono sacrifici ai cittadini.

Prosegue alacremente il cantiere di smontaggio dello Stato. Sotto l’etichetta di "federalismo demaniale", passano a Regioni ed enti locali 19.005 unità del demanio dello Stato, per un valore nominale di oltre tre miliardi.

Mente Calderoli quando afferma (La Padania, 7 maggio) che i beni trasferiti «demaniali sono e demaniali resteranno». Il demanio non è una forma di proprietà, ma servizio pubblico nell’interesse generale di tutti i cittadini, per questo è inalienabile. Al contrario, i beni trasferiti possono essere «anche alienati per produrre ricchezza a beneficio delle collettività territoriali», o saranno versati in fondi immobiliari di proprietà privata; la legge incoraggia anzi i Comuni a produrre varianti urbanistiche che ne consentano non solo la mercificazione, ma la cementificazione, sigillata e garantita dai ricorrenti condoni edilizi (l’ultimo disegno di legge, presentato dal Pdl, sana con un sol colpo di spugna tutti i reati contro il paesaggio e l’ambiente commessi o da commettersi entro il 31 dicembre 2010).

La manovra Tremonti, approvata sulla parola e senza il testo finale da un Consiglio dei ministri assai ubbidiente, aggraverà lo stato delle finanze locali, strangolando ulteriormente Comuni Province e Regioni. Il taglio previsto, quasi 15 miliardi nel biennio 2011-12 (4 miliardi ai soli Comuni), obbligherà i Comuni ad alienare l’alienabile, e a concedere licenze di edificazione a occhi chiusi, pur di incassare gli oneri di urbanizzazione, un tributo che, contro la ratio originaria della norma Bucalossi (1977), si può ora utilizzare nella spesa corrente per qualsiasi finalità. Ai sacrifici richiesti ai cittadini (basti ricordare la riduzione imposta al Servizio sanitario nazionale: 418 milioni nel 2011, 1.132 milioni dal 2012 in poi) si aggiungerà dunque l’ecatombe delle nostre città, del nostro paesaggio. Le disposizioni in materia di conferenze di servizi (art. 49 della bozza), che riprendono il disegno di legge Brunetta-Calderoli sulla cosiddetta "semplificazione della pubblica amministrazione", vanificano gli argini posti dal Codice dei Beni Culturali. Secondo la nuova norma, ogni volta che il Codice richiede l’autorizzazione di interventi edilizi che incidano sul paesaggio, «il Soprintendente si esprime in via definitiva in sede di conferenza di servizi in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza»; la sua eventuale assenza dalla conferenza dei servizi equivale al pieno consenso del Soprintendente.

Viene in tal modo riesumato e radicalizzato il principio del silenzio-assenso, un istituto che sin dalla legge 241 del 1990 non può applicarsi «agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico», come ribadito più volte, dalla legge 537 del 1993 alla legge 80 del 2005 (governo Berlusconi). Invano il ministero dei Beni Culturali, che aveva ottenuto la soppressione di analoghe norme almeno due volte (nella Finanziaria 2008 e nell’abortito decreto-legge sul "piano casa"), ha richiamato il governo al rispetto della legge. Ma la tutela del paesaggio imposta dall’art. 9 della Costituzione richiede che, in una materia così sensibile, il previsto giudizio di compatibilità degli interventi edilizi con il valore culturale del bene venga formulato espressamente e dopo attenta valutazione: il silenzio o l’inerzia non può in alcun modo sostituire l’attivo esercizio della tutela, che l’art. 9 della Costituzione pone fra i principi fondamentali dello Stato. Lo ha espressamente dichiarato la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza nr. 404 del 1997). Il silenzio-assenso, nato per tutelare il cittadino contro l’inerzia della pubblica amministrazione, non può diventare un trucco per eludere la legge col sigillo di una norma anticostituzionale.

Ma c’è di peggio, e lo ha ben visto Eugenio Scalfari (Repubblica, 30 maggio), che ha lucidamente disegnato la «prospettiva raccapricciante» di un’Italia a due velocità: «Federalismo al Nord e accentuazione del centralismo statale al Sud». La "manovra Tremonti" è anche troppo esplicita: prevede (art. 43 della bozza) che «nel Meridione d’Italia possono essere istituite zone a burocrazia zero». Burocrazia zero significa che per tutte le nuove «iniziative produttive» (non meglio definite) ogni procedimento amministrativo di qualsiasi natura viene «adottato esclusivamente dal Prefetto ovvero dal Commissario di Governo», e diventa operativo dopo 30 giorni. Non senza raccapriccio, immaginiamo dunque, domani o dopodomani, un’Italia con il Nord governato dalla Lega e il Sud dai gauleiter della Lega.

Sotto la maschera bugiarda di un federalismo democratico, nuove forme di centralismo spuntano per ogni dove. Definanziando decine di istituti culturali (cito fra gli altri la gloriosa Scuola archeologica di Atene, a Napoli l’Istituto Croce e quello di Studi Filosofici, e così via), la manovra Tremonti sottrae ogni possibile finanziamento futuro di queste istituzioni al ministero dei Beni Culturali, e ne sposta la responsabilità alle Finanze e a Palazzo Chigi: una forma di commissariamento che espande ed esaspera, per contrappasso, quello che i Beni Culturali hanno fatto, dando Pompei a un commissario della Protezione Civile senza la minima competenza archeologica. Le centinaia di pensionamenti dell’alta burocrazia ministeriale, propiziati se non imposti dalla stretta pensionistica della manovra, decapitando numerosi uffici in tutto il Paese, favoriranno inevitabilmente un continuo ridisegnarsi delle competenze, in cui il diktat del ministero delle Finanze avrà sempre più peso, e agli altri ministri non resterà che rassegnarsi al silenzio-assenso.

Se tutto questo fosse fatto, come vuole la party line diffusa anche in quella che fu la sinistra, per contrastare la crisi e avviare la ripresa, potremmo provare a farcene una ragione. Ma incombe su questa interpretazione più d’un sospetto. Perché la devastazione del paesaggio e l’offesa alla Costituzione dovrebbero alleviare la crisi economica? Che cosa guadagna in coesione e in forza economica il Paese col "commissariare" l’intero Sud, riducendolo a una colonia a "burocrazia zero", cioè governata dai prefetti? Perché, se le casse sono vuote al punto da dover ridurre i finanziamenti alla sanità (mettendo in forse il diritto alla salute garantito dall’art. 32 della Costituzione), dovremmo ostinarci a voler costruire il ponte sullo Stretto? Il «tesoretto di Giulio», come qualche leghista ha affettuosamente chiamato i risparmi che la manovra dovrebbe mettere da parte, non servirà proprio a promuovere un federalismo i cui costi nessuno si attarda a calcolare? Lo smontaggio dello Stato serve ad assicurare la stabilità della moneta e il benessere dei cittadini, o ad accelerare la disgregazione del Paese voluta dalla Lega e dai suoi complici d’ogni colore, a velocizzare il saccheggio del territorio e la spartizione del bottino?

«Comprendo lo scoramento di Gerardo Marotta e sposo in pieno la causa dell’Istituto di Studi Filosofici e dell’Istituto Croce che insieme alla scuola di Alta Matematica sono centri di cultura dei quali non si può fare ameno».

Salvatore Settis, direttore dimissionario della «Normale» di Pisa, ha tenuto ieri pomeriggio una lezione sulla «tutela del paesaggio e del patrimonio artistico e archeologico» nell’ambito del ciclo de «I venerdì della politica».

Salone affollato, una rumorosa presenza di una delegazione di giovani studenti di una scuola di Altamura che, se si arrivasse all’azzeramento dell’Istituto, non avrebbero più la chance di uscire dall’isolamento e confrontarsi con esperienze in grado di formarli meglio.

Malinconiche considerazioni mentre su palazzo Serra di Cassano grava una cappa di angoscia; Settis, dal suo canto, non ha di certo contribuito a diradare le nubi. Anzi, ha affondato il coltello nella piaga. «Sono sicuro, ha detto, che la scure dei tagli colpirà senza pietà perché questo governo a differenza di quanto hanno fatto Sarkozy e la signora Merkel che non sono certo di sinistra, ritiene che la cultura sia un fascio di rami secchi. In Francia, in Germania e in America, invece, hanno deciso di incrementare i fondi destinati alla ricerca e alla scuola perché sanno che dalla crisi si esce puntando sulla qualità».

Che è poi, con parole diverse ma con la stessa intensità di denuncia, la posizione del sindaco Rosa Russo Iervolino che, in attesa della versione definitiva della manovra, prende una posizione drastica: «La riduzione dei finanziamenti per i più significativi centri di cultura napoletana che proprio attraverso essi esprime il meglio di se stessa».

La psicosi dei tagli, insomma, ha contagiato tutti e si ha notizia che sta per essere reso pubblico un fortissimo documento che sarà firmato da una cordata di intellettuali a sostegno di Palazzo Serra di Cassano e di palazzo Filomarino, ma anche del Cira, dell’Istituto di Paleontologia del Sannio e di tutte le postazioni minacciate. Alla stesura del documento sta lavorando Biagio De Giovanni e tra i firmatari, oltre l’accademico di Francia Marc Fumaroli e Settis, ci saranno Aldo Masullo e, forse, il Cardinale Crescenzio Sepe che è stato interpellato.

Nel mare di pessimismo si fa largo, però, unica e isolata, una voce di speranza, quella di Sergio Vetrella, ex presidente del Cira e ora assessore regionale alle attività produttive, che si dichiara ottimista sul futuro dell’Ente di ricerca aerospaziale. «Si è trattato di una distrazione, sono sicuro che si potrà recuperare. Mi sento di assicurare tutti i lavoratori sulla soluzione positiva della vertenza». Che dire? Speriamo che abbia ragione, ma, intanto, c’è da rilevare che l’assessore parla solo del Cira. E gli altri centri? Speriamo che trovino altri difensori, non di ufficio, e che anche per loro si possa dire che il Governo si è «distratto».

Nonostante questa flebile luce, però, il professor Settis non cambia idea e resta decisamente pessimista «perché — dice — i nostri governanti di ieri e di oggi hanno smarrito la strada della lungimiranza».

A cattivi pensieri induce anche l’avanzata del federalismo: «La nostra classe politica — aggiunge — è sotto ricatto della Lega e la sinistra sa solo dire di avere un progetto di federalismo migliore. Sarà pure ma di fatto inseguono il Carroccio e continueranno a perdere».

L’analisi di Salvatore Settis si fonda soprattutto sui costi del Federalismo «che ha già avuto costi altissimi e io sono convinto che questi tagli alla cultura servono per pagare un nuovo centralismo regionale e non a formare una nuova generazione».

Previsioni infauste e una stagione di rinunce che impoverirà culturalmente il Paese: «I costi dell’estensione del federalismo verranno sopportati, cioè pagati, dai cittadini e nessuno— dice ancora l’ormai ex direttore della Normale — ha ancora fatto i conti su quanto costerà globalmente questa operazione. Dovrebbe farli l’opposizione, ma è debole e sfilacciata e fa temere il peggio perché un paese senza opposizione non è democratico».

La conversazione di Settis è stata molto apprezzata dall’uditorio, anche per le preoccupate considerazioni sulla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico e archeologico.

Questo capitolo, tra l’altro, ci ha offerto lo spunto per chiedere allo studioso un commento sulla decisione del Commissario straordinario degli Scavi di Pompei di inaugurare una pista ciclabile e una ludoteca per bambini. A tutti sono sembrate decisioni che vanno nel segno di aumentare l’affezione dei visitatori per gli scavi, ma Settis è di tutt’altro avviso: «È giusto controllare l’impatto di queste installazioni, ma di primo acchito mi viene da dire che si tratta di un altro passo verso la barbarie». O, se più aggrada, di una ennesima profanazione del tempio.

Presidente dell´Istituto Gramsci, intellettuale ex comunista e poi convinto sostenitore della svolta, Beppe Vacca non riesce a prendere sul serio Silvio Berlusconi. Soprattutto quando fa riferimenti storici. «Il Duce non aveva potere? Ha ragione. Infatti i partigiani che lo fucilarono non capivano niente».

Lei scherza, ma non è prima volta che il premier usa la storia del fascismo in maniera distorta e perlomeno singolare.

«Direi che stavolta c´è un salto di qualità. Mi incuriosisce il fatto che Berlusconi usi Mussolini per parlare di sé».

Poteva fare altri esempi?

«Se avesse un po´ a cuore la storia del socialismo avrebbe potuto citare Nenni. Il leader del Psi, quando entrò a Palazzo Chigi, disse: "Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni ma non li ho trovati"».

È giusta la citazione del Duce, sul piano storico?

«Non saprei dire con esattezza. Ma era proprio come spiega Berlusconi: Mussolini non aveva alcun potere. Fu un errore gravissimo dei partigiani la sua fucilazione. Loro pensavano di ammazzare un dittatore, un uomo onnipotente invece fecero fuori un passante qualunque che non aveva nessun potere. Eppure in televisione e adesso anche in qualche dvd distribuito con i quotidiani si vede Mussolini che arringa la folla a Piazza Venezia e che dichiara guerra al mondo. Lui che non aveva potere».

Il suo sarcasmo sembra un gioco intellettuale. Non è grave l´accostamento con il Duce?

«Nulla di quello che dice Berlusconi è grave. Quando Benedetto Croce accettò di scrivere per Laterza, all´editore spiego così i motivi della sua scelta: "Perché voi avete il coraggio di pubblicare cose gravi". Grave è quindi un aggettivo importante, non si può accompagnare alle dichiarazioni di Berlusconi».

Ecco le parole del Presidente del consiglio dei ministri della Repubblica italiana, Silvio Berlusconi (da la Repubblica, 28 maggio 2010)

«Come primo ministro non ho mai avuto la sensazione di essere al potere, magari qualche volta quando ero imprenditore. Oggi invece tutti mi possono criticare e magari anche insultare […] Ho letto i diari di Mussolini. Oso citare le parole di qualcuno che era ritenuto un grande dittatore: dicono che ho potere, ma non è vero, lo hanno i gerarchi. Io posso solo dire al mio cavallo se andare a destra o a sinistra».

Da una Tangentopoli all’altra? Potrebbe sembrare che la vicenda politica di Berlusconi stia andando incontro a un destino speculare e opposto rispetto alla sua origine. Nato sull’onda della reazione popolare alla catastrofe etico-giudiziaria dei partiti di governo della Prima Repubblica, e al contempo come supplenza rispetto agli assetti di potere che ne costituivano la sostanza materiale, il suo lungo e fortunato impegno politico corre oggi il rischio di perdere la sua legittimazione profonda. Che era consistita - e in parte ancora consiste - nel mutare la forma della politica, cioè nel trasformare progressivamente la democrazia repubblicana in un regime populista, nel riferirsi al popolo-massa più che alle istituzioni, nello stabilire un patto di intensa fiducia personale, emotiva e quasi corporea, con i suoi fedeli, nel fare del suo stesso partito un "popolo", unito dalla ferrea convinzione che il "fare" del suo Capo sia infinitamente più sano, efficace e onesto delle parole ipocrite, e del malaffare, della politica tradizionale, della "casta" (identificata per lo più con la sinistra).

È l´identificazione fra il leader e la sua gente a spiegare come sia stato e sia possibile che gli interessi personali e settoriali di una sola persona e della sua cerchia siano presentati (e percepiti) come interessi di tutti - si pensi alle esigenze processuali del Cavaliere, di cui si è cercata la soluzione con il "processo breve" - ; e come il plusvalore ideologico dell’antipolitica, incarnata dal superpolitico Berlusconi, abbia chiuso gli occhi di tanti suoi elettori davanti ai suoi insuccessi, e agli scandali che da ogni parte occupano ormai la scena pubblica (fino a quando non ne sarà punita per legge la divulgazione).

Ora questa magia - questa proiezione collettiva - sta finendo. Già intaccata - come si è visto nelle recenti elezioni regionali - dagli scandali personali della scorsa estate e dalla prima ondata dell´inchiesta sul G8, la credibilità politica di Berlusconi rischia di subire un duro colpo dall’emergere di un meccanismo di corruzione e di favoritismi che non è più spiegabile, come pure si è tentato di fare, con la teoria della mela marcia o della pecora nera, ma che assume, con ogni evidenza, carattere sistemico. Non è certo l’antica corruzione: quella aveva il suo perno e i suoi attori principali nei partiti; questa invece vede protagonisti gli affaristi, i costruttori, gli appaltatori, che hanno rovesciato i rapporti di forza rispetto ai singoli politici, che sembrano coinvolti assai più a titolo personale che per finalità di partito.

Tuttavia, è lecito dubitare che questa distinzione, pur importante, appaia decisiva agli occhi degli elettori del Pdl. È più probabile, invece, che lo smottamento del consenso divenga una frana, davanti a quello che potrebbe essere percepito come il ritorno della vecchia politica, e quindi come il tradimento del patto di fiducia antipolitico che lega il Capo alle masse. La cui psicologia collettiva comprende anche il rischio dell’abbandono, della delusione, dell’avversione per quello che fino a poco prima era l’oggetto d’amore. E questo rischio è tanto più significativo quanto più odioso potrebbe apparire il rovesciamento perverso del fiore all’occhiello di questi ultimi anni di governo: l’agire pronto, efficace, esemplare - tra l’aziendale e il comunitario - , della Protezione Civile. Che, operando secondo procedimenti d’emergenza davanti alle emergenze a cui deve far fronte, voleva essere la più visibile ed eloquente manifestazione del "fare" berlusconiano, la controprova pratica della sua ideologia. E che invece sta diventando - pare - la voragine, l’autentica emergenza che delegittima il potere del Cavaliere. A dimostrazione del fatto che l’eccezione, se elevata a sistema di governo, si ritorce contro chi ne abusa.

Consapevole del pericolo che si parli di una "casta" berlusconiana sottratta alle leggi ordinarie - e anche dell’aggravante costituita dalla circostanza che la corruzione riguarda le case, il bene più caro agli italiani, per il quale le persone comuni si sacrificano per lunghi anni - Berlusconi riscopre ora la legalità e la normalità; che non appartengono certo al suo usuale repertorio politico e che paiono giustificate solo dall’esigenza di recuperare consenso e di stringere nuovamente il patto antipolitico con la sua gente, anche contro i "suoi" politici. Legalità non come filosofia politica, quindi, ma come ultimo espediente del populismo, come ultima paradossale risorsa del leader carismatico. Che non cessa infatti di polemizzare contro la "macelleria giudiziaria" delle "liste di proscrizione", e che - data anche la linea dei giornali d’area governativa - pare tentato di assumere a sua volta la postura del Capo tradito dai propri collaboratori sleali e mediocri, sui quali si può abbattere l’ira popolare, e la "purga" politico-giudiziaria. L’eccezionalità, d’ora in poi, resterà appannaggio esclusivo del Capo (il lodo Alfano prosegue il suo iter), e non coprirà più i comprimari.

La questione è ora se questo tentativo di Berlusconi di avere le mani ancora più libere (magari con un rimpasto, o un allargamento della maggioranza) avrà successo, o se invece il Capo carismatico ferito non sarà condannato - dato che le elezioni anticipate dovrebbero ora apparirgli non più molto appetibili - a continuare a governare, sempre più debole e sempre più sottoposto alla tutela di Bossi e Tremonti. Una prospettiva, questa, non certo utile al Paese.

E’ qualcosa di emblematico nella burrasca che scuote il comitato per le celebrazioni dell´Unità d´Italia. Dopo le dimissioni del presidente Carlo Azeglio Ciampi, dettate da ragioni d´anagrafe, s´annunciano altre defezioni illustri, firmate da Dacia Maraini, Ugo Gregoretti, Marta Boneschi e Ludina Barzini. Tra i nomi dei dimissionari è circolato ieri anche quello di Gustavo Zagrebelsky, il quale però precisa: «Non esiste alcun atto formale. Siamo ancora in alto mare, non so bene come andrà a finire. Quel che posso esprimere è solo un sentimento di disagio».

Se è vero che anche le precedenti celebrazioni - nel 1911 e nel 1961 - si svolsero nel segno della disunità, queste del prossimo anno rischiano di saltare del tutto: anche per scarsa convinzione - da parte dei seguaci di Bossi, ma non solo - che vi sia qualcosa da festeggiare. Ora il nuovo contrasto, di cui non erano mancate le avvisaglie. Ma conviene procedere per ordine. Ciampi scrive una lettera di dimissioni a Berlusconi e Bondi dai toni molto sereni («Negli ultimi tempi sto avvertendo una riduzione delle mie energie, che si traduce in un senso di affaticamento, fisico e psicologico. Nulla di grave. Tutto in linea con... i dati anagrafici»). Una missiva che in sostanza riconosce al governo il merito di avere avviato le celebrazioni, e che dunque sembra sgombrare il campo da ogni malizia (ora, per la sua successione alla presidenza, si fanno i nomi di Giovanni Conso, Lamberto Maffei e Giuliano Amato).

Però alcuni "saggi" del comitato colgono l´occasione per annunciare il proprio ritiro. Tra questi Dacia Maraini, che sul sito dell´Espresso dichiara: «Con il passare dei mesi il ruolo del comitato è stato svuotato. Non contavamo più niente, non potevamo decidere niente. Mi sembrava poco dignitoso restare lì a fare la foglia di fico e così ho mandato una mail a Zagrebelsky, anche lui preoccupato per la deriva del nostro lavoro, dicendogli: "Ma che ci stiamo a fare?". Zagrebelsky ha scritto una lettera di dimissioni piuttosto dura e motivata, che è stata firmata da me, da Gregoretti e da Boneschi». Zagrebelsky mostra cautela: «È solo una situazione in movimento, la lettera è un documento privato». Di più lo studioso non vuole dire, anche perché «tradirei la riservatezza di altri membri del comitato».

Quel che si percepisce è il sentimento di inutilità diffuso tra i "saggi", messi da parte dalle autorità che guidano le celebrazioni. La Maraini racconta di aver provato a impegnarsi in prima persona con due proposte, una rassegna di film sul Risorgimento e una serie di iniziative sulla lingua italiana. «Nessuno mi ha mai risposto. Poi improvvisamente ci è stato detto che non c´era più una lira, che non si poteva fare più niente. Abbiamo continuato a vederci lo stesso, sperando di sbloccare la situazione, ma è stato inutile. In tutte le nostre riunioni siamo riusciti ad approvare una sola cosa, un disegno con tre bandierine che sarà il logo delle celebrazioni».

Anche il programma finora definito - il restauro dei monumenti, un museo virtuale del Risorgimento, un paio di convegni e poche altre cose - era apparso a diversi membri del comitato molto debole, inadeguato a restituire il senso del processo unitario e di una storia lunga un secolo e mezzo. Un progetto che in sostanza restituiva la scarsa convinzione con cui l´attuale governo si predispone a omaggiare la data fondativa della nostra identità italiana.

Ma abbandonare oggi il comitato potrebbe avere conseguenze indesiderate. Il rischio è che saltino le celebrazioni o subiscano l´influenza di chi ancora crede che l´Italia sia "un´espressione geografica". È dai primi anni Novanta che alcune forze politiche oggi al governo mettono in discussione il processo storico unitario e l´assetto statuale dell´Italia. È anche per sottolineare il valore di un anniversario - contestato "con toni rozzi e inaccettabili", come dice la Maraini - che molti avevano accettato con entusiasmo di impegnarsi nelle celebrazioni. Ora però sembrano venute meno le condizioni per il proseguimento della collaborazione. Un bel pasticcio. Gli storici del futuro potranno usare anche questa vicenda come indicatore del debole stato di salute del nostro sentimento nazionale.

Il PDL è un difficile tentativo di convivenza di tre diversi stili politici; tre modi di essere che, come la crisi interna di questi giorni dimostra, sono difficilmente armonizzabili. Tre sono le concezioni politiche o sedicenti politiche che lo compongono: una comunitaria-organicistica; una tradizionale istituzionale; e una patrimonialista.

La vittoria elettorale nelle recenti consultazioni amministrative ha marcato e ingigantito le differenze tra queste tre anime fino a destabilizzare la coalizione di governo. Una ragione che ha probabilmente portato a questo esito paradossale di indebolimento a seguito di una vittoria sta nella distribuzione geografica. Nel fatto cioè che non tutte e tre queste anime sono equamente distribuite sul territorio nazionale. Il gruppo che fa capo al presidente della Camera ha una forte presenza nel Centro-Sud, mentre la Lega ha una forte se non esclusiva rappresentanza al Nord. A mediare questo bipolarismo territoriale è Silvio Berlusconi. Ma che la mediazione non sia tale, e infatti sia l'opposto di ogni forma di mediazione, diventa chiaro qualora si presti attenzione alla ragione strutturale e non solo territoriale del sisma che sta sconquassando il Pdl: gli alleati hanno diverse, se non opposte, concezioni di che cosa debba essere la politica conservatrice e più in generale la politica e le istituzioni.

La Lega ha bisogno di radicamento per esistere e resistere: quindi non sopporta facilmente la competizione sul proprio territorio. Nei blog del movimento giovanile dei Padani si trova ripetuta l'espressione "fratelli su libero suolo". "Libero suolo" ha una doppia implicazione: denota una "libertà da" ovvero contro chi cerca, non appartenendovi, di insediarvisi e una "libertà di" esprimere liberamente le proprie energie. Il "suolo" è lo spazio vitale che contiene e alimenta la libertà dei leghisti, un luogo abitato non tanto da eguali nei diritti (un valore molto poco compreso dai fedeli della Lega) ma da simili nella cultura e nei supposti valori; persone che si riconoscono con una semplice occhiata, che si odorano identici, che si fidano solo se non ci sono estranei tra loro - e, si badi bene, gli estranei non sono soltanto gli immigrati, ma possono esserlo anche gli alleati di coalizione (non è un caso che pochi giorni dopo la vittoria elettorale, Umberto Bossi si sia prenotato per il sindaco di Milano: la "nostra terra", la "nostra gente", il "nostro sindaco" e, come abbiamo anche sentito, le "nostre banche") . Il gruppo che si riconosce in Fini esprime al contrario una politica istituzionale nazionale, un approccio tradizionale alla forma Stato che è per questo più facilmente comprensibile da parte di chi mastica politica secondo le regole di uno Stato moderno di diritto. Per esempio, l'idea che se si vuole approdare a una repubblica presidenziale occorra cambiare la legge elettorale è quanto di più ragionevole e sensato ci possa essere per chi si occupa di politica istituzionale: nulla di trascendente, eppure così impossibile da accettare e comprendere da parte di Berlusconi!

E qui veniamo alla terza componente della destra italiana, che in effetti "componente" non lo è proprio, perché Berlusconi è non soltanto l'ideatore del Pdl ma ne è proprietario a tutti gli effetti e per questa ragione non può oggettivamente comprendere le ragioni istituzionali. Mentre può forse meglio comprendere quelle "organiche" territoriali della Lega perché, in fondo, sono mosse da una logica monopolistica che ha comunque a che fare con un linguaggio "proprietario" (del suolo).

Quale che sia l'esito di questo movimento tellurico è evidente che almeno una cosa dovrebbe essere diventata chiara a chi si è illuso di godere "da pari" dei privilegi promessi da un'alleanza con Berlusconi: che gli alleati sono tali solo se e perché hanno una indipendenza e sono partner. Ma non si può essere partner in un partito che è proprietà di qualcuno; anzi, in questo caso ogni tentativo di ridiscutere le forme dell'accordo è visto e trattato come un insolente attacco al leader. Berlusconi ha un'etica monolitica, e conosce un linguaggio e uno solo: quello del comando padronale. È così connaturato in lui questo stile che egli non sa nemmeno distinguere fra Istituzioni dello Stato e dipartimenti economici del suo impero: se Fini dissente, minaccia di licenziarlo. È difficile pensare quindi a come si possa soltanto pensare in termini di trattativa, mediazione, accordo - anche in questo Fini dà il segno di parlare una lingua che il presidente del Consiglio non conosce: quella della politica come funzione che chi svolge non possiede. La cultura ‘politica’ del leader del Pdl è per tanto di destra in senso molto improprio perché è semplicemente patrimonialista. Si leverà qualche voce meno stentorea a dire forte che lo Stato non è a sua disposizione perché non è roba sua?

Un filo neanche molto sottile lega l’offensiva del presidente del Consiglio contro La piovra e Gomorra, e il divario crescente che lo separa da Gianfranco Fini. Il filo è costituito dal parlar-vero, sui mali italiani: da quello che Melville chiama, meditando in Moby Dick sul ruolo profetico, il dovere del verbo. Non è la prima volta che Berlusconi attacca La piovra. Lo ha già fatto il 28 novembre («Se trovo quelli che hanno fatto 9 serie sulla Piovra, e quelli che scrivono libri sulla mafia che vanno in giro in tutto il mondo a farci fare così bella figura, giuro li strozzo»).

L’assalto non era impulsivo: venerdì s’è esteso al libro di Roberto Saviano Gomorra. Ha detto testualmente: «(Dalle statistiche) la mafia italiana risulterebbe la sesta al mondo. Ma guarda caso è quella più conosciuta, perché c’è stato un supporto promozionale a quest’organizzazione criminale, che l’ha portata a essere un elemento molto negativo di giudizio per il nostro Paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra, programmate dalle televisioni di 160 Paesi nel mondo, e tutto il resto, tutta la letteratura, il supporto culturale, Gomorra...». Se fuori casa appaiamo brutti, la colpa non è della mafia ma di chi fa vedere.

Allo stesso modo gli sono intollerabili le analisi negative sulla crisi economica mondiale, e infine il lavorio che Fini sta compiendo per costruire una destra conservatrice ma non populista, non xenofoba, con un forte senso della legge e soprattutto dello Stato: poiché è la sfiducia nello Stato che alimenta, a Sud come a Nord, la potenza mafiosa. I giornalisti narrano come alle critiche concrete del presidente della Camera, giovedì, Berlusconi rispondesse, macchinalmente, con slogan di piazza o frasi tipo: «Va tutto bene». Lo scisma della destra a Sud è disastroso e la Lega prevarica, osservava il primo, e lui replicava che a Sud la destra vince e che la Lega gli ubbidisce.

Vivo all’estero da tempo e posso certificarlo: se abbiamo ancora prestigio, presso i cittadini e i politici europei, è perché accanto al crimine esiste chi lo denuncia, a voce alta, rischiando la solitudine in patria e a volte la morte. Le sale si riempiono quando dall’Italia giungono Saviano, Travaglio, Tabucchi, descrivendo il regno d’un prepotente che controlla tutte le tv. Nei cinema, Gomorra e Il divo suscitano, oltre che spavento, ammirazione. Il giorno che Saviano visitò il Canada senza guardie del corpo, le giubbe rosse vollero scortarlo loro: per entusiasmo, e gratitudine. Non va dimenticato che la lotta antimafia di giudici e scrittori italiani aiuta molti Paesi ad arginare un crimine fattosi globale. Quando Falcone fu ucciso, nel maggio ’92, il giudice americano Richard Martin disse che mai sarebbe riuscito a smantellare Pizza Connection, senza Falcone. La mafia Usa fu combattuta da un trio composto da Falcone, Martin e Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di Manhattan. I metodi italiani antimafia sono un esempio mondiale. Non è con fiabe edificanti che correggiamo la storia. Fuori Italia, è a causa di Berlusconi che abbiamo problemi. Continuamente dobbiamo spiegare il suo successo, la sua malia, e non tanto lui quanto noi stessi.

Dice Saviano nella lettera al premier, pubblicata ieri da Repubblica, che «accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al Paese non è un modo per migliorare l’immagine italiana, quanto piuttosto per isolare» chi esplora tale potere. Senza narrazione veridica, niente riscatto: «È l’unica strada per dimostrare che siamo il Paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, non il Paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan». Berlusconi non l’ignora: sa quel che dice, e non teme di dirlo in nome di tutti gli italiani. Quando proclamò eroe Vittorio Mangano (ergastolo per due omicidi, appartenenza alla mafia, traffico di droga) fu il silenzio omertoso che esaltò come modello di virtù. L’arma principe contro le mafie - i pentiti, che lo Stato deve tutelare - veniva spuntata.

Infatti è stata spuntata, come spiega il giudice Nicola Gratteri quando evoca la battaglia alla ’ndrangheta. Gian Carlo Caselli sostiene che il discredito gettato sui pentiti - quindi su chi parla - non esisteva nel contrasto al terrorismo, ragion per cui quest’ultimo fu vinto e la mafia no (Le due guerre, Melampo 2009). Sono arrestati molti latitanti, non c’è dubbio: un successo del ministro dell’Interno, ma anche di magistrati e poliziotti non intralciati. In futuro lo saranno. Dice ancora Gratteri che quella sulle intercettazioni è «una legge spaventosa, che costruirà attorno alle mafie una diga di silenzio con il pretesto della “privacy”» (il suo libro, La malapianta, è pubblicato come Saviano da Mondadori, editrice del premier). Il silenzio è un regalo enorme alle mafie.

Anche per questo, perché l’omertà trascolora in eroismo, la mafia non spara come prima. Ma dilaga, specie a Nord. La legge del silenzio e la legge che silenzia: probabilmente è questa la stoffa di cui è fatto il patto politica-mafia, sotto la cui tenda viviamo. Ci ha protetti da attentati. Non ci protegge da una condiscendenza dilatata all’illegalità, dai profitti colossali della ’ndrangheta. Parlando degli elettori berlusconiani, Saviano osserva: «Molti di loro saranno rimasti sbigottiti e indignati dalle sue parole». Gli italiani, non solo di sinistra, si sono appassionati a Gomorra e alla Piovra (il primo film che parli di rapporti fra mafia, politica, finanzieri, massoni). La piovra ha agito sulle coscienze come il serial televisivo Olocausto sui tedeschi, nel 1979, o come sui francesi il film di Resnais sulla collaborazione, Notte e nebbia. Scoprire i propri lati oscuri è parte d’ogni guarigione, individuale o collettiva. È raccontare il proprio Paese com’è, per migliorarlo. Matilde Serao fece vedere che Napoli non era una cuccagna: nel Ventre di Napoli s’aggrovigliavano crimine e povertà. Grazie a lei la medicazione ebbe inizio.

Parlare vero è anche una barriera contro la degradazione della politica, contro i suoi vocaboli edulcoranti, i suoi eufemismi. È qui che il richiamo al dovere del verbo si allaccia alle vicende di Fini. Dell’Utri afferma che la politica gli serve per i processi di complicità con la mafia. Lo ha detto in un’intervista a Beatrice Borromeo, il 10 febbraio sul Fatto: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera». Lo ha ripetuto giovedì, al processo d’appello di Palermo. Ancora non si sa come finirà il conflitto Fini-Berlusconi, ma spegnersi del tutto non può: perché due visioni della destra si scontrano. Perché la contesa ha al proprio centro il dovere del verbo. Perché dall’antichità è con la parola che la politica comincia, o ricomincia. Perché l’attesa che si è creata non è piccola.

È vero: Fini ha inaugurato la sua diversità con il vocabolario e lo stile, prima che con le azioni; con discorsi sempre più affilati su temi decisivi come l’immigrazione, la legalità, la Costituzione. Dicono che qui è la sua debolezza, che mancano le politiche; che tutto è intellettualismo, maniera. «Fini dove va? Sono quattro gatti, sono dei fighetti», dice Berlusconi, e sa di poter contare su molti che la pensano così. Molti detrattori della parola, sospettata di non avere «radici nel territorio»: dunque radici nella paura, come la Lega. La retorica ha una fama cattiva, ma ha nobili tradizioni. Chi voglia riscoprirlo sfogli il periodico online di Farefuturo, la fondazione di Fini: spesso troverà i toni del j’accuse di Zola, che non è roba di fighetti. Il massimo politologo europeo è Machiavelli. È lui a smascherare l’opacità verbale, quando descrive riformatori religiosi come San Francesco: essi «lasciarono intendere che egli è male dir male del male», coprendo per questa via gli uomini della Chiesa. «Così quegli fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione che non veggono e non credono».

Il dovere del verbo non è altro che questo: dire male del male. Su mafia, crisi, sul parto così difficile di una destra non biliosa, equilibrata. Un male non imbellito da telegiornali che rincretiniscono con servizi sulla fine dei chewing-gum masticati, e che diventano - la formula è di Sabina Guzzanti - armi di distrazione di massa. Saremo apprezzati all’estero a queste condizioni. In Italia si dimenticano presto non solo i propri misfatti, ma anche le proprie grandezze e i propri uomini di valore.

Presidente Silvio Berlusconi, le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato di essere responsabile di "supporto promozionale alle cosche". Non sono accuse nuove. Mi vengono rivolte da anni: si fermi un momento a pensare a cosa le sue parole significano. A quanti cronisti, operatori sociali, a quanti avvocati, giudici, magistrati, a quanti narratori, registi, ma anche a quanti cittadini che da anni, in certe parti d'Italia, trovano la forza di raccontare, di esporsi, di opporsi, pensi a quanti hanno rischiato e stanno tutt'ora rischiando, eppure vengono accusati di essere fiancheggiatori delle organizzazioni criminali per il solo volerne parlare. Perché per lei è meglio non dire.

E’ meglio la narrativa del silenzio. Del visto e taciuto. Del lasciar fare alle polizie ai tribunali come se le mafie fossero cosa loro. Affari loro. E le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro, Cosa nostra appunto è un'espressione ancor prima di divenire il nome di un'organizzazione.

Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese. Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?

Il ruolo della 'ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d'affari - cento miliardi di euro all'anno di profitto - un volume d'affari che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché? Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che "era tutta colpa de Il Padrino" se in Sicilia venivano istruiti processi contro la mafia. Nicola Schiavone, il padre dei boss Francesco Schiavone e Walter Schiavone, dinanzi alle telecamere ha ribadito che la camorra era nella testa di chi scriveva di camorra, che il fenomeno era solo legato al crimine di strada e che io stesso ero il vero camorrista che scriveva di queste storie quando raccontava che la camorra era impresa, cemento, rifiuti, politica.

Per i clan che in questi anni si sono visti raccontare, la parola ha rappresentato sempre un affronto perché rendeva di tutti informazioni e comportamenti che volevano restassero di pochi. Perché quando la parola rende cittadinanza universale a quelli che prima erano considerati argomenti particolari, lontani, per pochi, è in quell'istante che sta chiamando un intervento di tutti, un impegno di molti, una decisione che non riguarda più solo addetti ai lavori e cronisti di nera.

Le ricordo le parole di Paolo Borsellino in ricordo di Giovanni Falcone pronunciate poco prima che lui stesso fosse ammazzato. "La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere ... non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni le spinga a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale della indifferenza della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale dà al lavoro dei giudici, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze".

Il silenzio è ciò che vogliono. Vogliono che tutto si riduca a un problema tra guardie e ladri. Ma non è così. E' mostrando, facendo vedere, che si ha la possibilità di avere un contrasto. Lo stesso Piano Caserta che il suo governo ha attuato è partito perché è stata accesa la luce sull'organizzazione dei casalesi prima nota solo agli addetti ai lavori e a chi subiva i suoi ricatti.

Eppure la sua non è un'accusa nuova. Anche molte personalità del centrosinistra campano, quando uscì il libro, dissero che avevo diffamato il rinascimento napoletano, che mi ero fatto pubblicità, che la mia era semplicemente un'insana voglia di apparire. Quando c'è un incendio si lascia fuggire chi ha appiccato le fiamme e si dà la colpa a chi ha dato l'allarme? Guardando a chi ha pagato con la vita la lotta per la verità, trovo assurdo e sconfortante pensare che il silenzio sia l'unica strada raccomandabile. Eppure, Presidente, avrebbe potuto dire molte cose per dimostrare l'impegno antimafia degli italiani. Avrebbe potuto raccontare che l'Italia è il paese con la migliore legislazione antimafia del mondo. Avrebbe potuto ricordare di come noi italiani offriamo il know-how dell'antimafia a mezzo mondo. Le organizzazioni criminali in questa fase di crisi generalizzata si stanno infiltrando nei sistemi finanziari ed economici dell'occidente e oggi gli esperti italiani vengono chiamati a dare informazioni per aiutare i governi a combattere le organizzazioni criminali di ogni genealogia. E' drammatico - e ne siamo consapevoli in molti - essere etichettati mafiosi ogni volta che un italiano supera i confini della sua terra. Certo che lo è. Ma non è con il silenzio che mostriamo di essere diversi e migliori.

Diffondendo il valore della responsabilità, del coraggio del dire, del valore della denuncia, della forza dell'accusa, possiamo cambiare le cose.

Accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al paese non è un modo per migliorare l'immagine italiana quanto piuttosto per isolare chi lo fa. Raccontare è il modo per innescare il cambiamento. Questa è l'unica strada per dimostrare che siamo il paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, e non il paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan. Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare. Credo semplicemente che ci sia un movimento culturale e morale al quale aspirare. Io continuerò a parlare a tutti, qualunque sarà il credo politico, anche e soprattutto ai suoi elettori, Presidente: molti di loro, credo, saranno rimasti sbigottiti ed indignati dalle sue parole. Chiedo ai suoi elettori, chiedo agli elettori del Pdl di aiutarla a smentire le sue parole. E' l'unico modo per ridare la giusta direzione alla lotta alla mafia. Chiederei di porgere le sue scuse non a me - che ormai ci sono abituato - ma ai parenti delle vittime di tutti coloro che sono caduti raccontando.

Io sono un autore che ha pubblicato i suoi libri per Mondadori e Einaudi, entrambe case editrici di proprietà della sua famiglia. Ho sempre pensato che la storia partita da molto lontano della Mondadori fosse pienamente in linea per accettare un tipo di narrazione come la mia, pensavo che avesse gli strumenti per convalidare anche posizioni forti, correnti di pensiero diverse. Dopo le sue parole non so se sarà più così. E non so se lo sarà per tutti gli autori che si sono occupati di mafie esponendo loro stessi e che Mondadori e Einaudi in questi anni hanno pubblicato. La cosa che farò sarà incontrare le persone nella casa editrice che in questi anni hanno lavorato con me, donne e uomini che hanno creduto nelle mie parole e sono riuscite a far arrivare le mie storie al grande pubblico. Persone che hanno spesso dovuto difendersi dall'accusa di essere editor, uffici stampa, dirigenti, "comprati". E che invece fino ad ora hanno svolto un grande lavoro. E' da loro che voglio risposte.

Una cosa è certa: io, come molti altri, continueremo a raccontare. Userò la parola come un modo per condividere, per aggiustare il mondo, per capire. Sono nato, caro Presidente, in una terra meravigliosa e purtroppo devastata, la cui bellezza però continua a darmi forza per sognare la possibilità di una Italia diversa. Una Italia che può cambiare solo se il sud può cambiare. Lo giuro Presidente, anche a nome degli italiani che considerano i propri morti tutti coloro che sono caduti combattendo le organizzazioni criminali, che non ci sarà giorno in cui taceremo. Questo lo prometto. A voce alta.

«Sono stufo di vedere la scuola italiana agli ultimi posti in Europa. Sono stufo di vedere i professori depressi a causa di un sistema che non garantisce la qualità». Roberto Formigoni, fresco di quarto mandato come presidente della Regione Lombardia, anticipa la svolta federalista della scuola. Due i principi cardine della riforma. Stop alle graduatorie nazionali con il reclutamento diretto dei professori da parte delle scuole su base regionale. Assoluta parità tra istituti statali e istituti privati grazie al potenziamento della dote scuola. Un modello che ricalca la riforma della sanità del 1997. La Lombardia chiede al governo di fare da apripista e di sperimentare il «nuovo modello».

Presidente Formigoni, più che una riforma sembra una mossa per spiazzare e anticipare la Lega.

«La definirei una proposta formigoniana-pidiellina-leghista in profonda sintonia con il programma del governo e della coalizione».

Una riforma che richiede un cambiamento delle leggi.

«Ne ho già parlato con il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini e con il governo. La direzione è condivisa. Siamo all’inizio della legislatura emetteremo con forza sul piatto la nostra proposta».

La risposta?

«Per la sperimentazione non è necessario cambiare le leggi, c’è bisogno di un accordo con il governo. Individueremo delle scuole e ci confronteremo con tutti, senza violenza e senza ledere i diritti di chicchessia. Abbiamo già trovato un terreno favorevole sia con i sindacati sia con i professori».

Su quali proposte?

«Integrare il meglio della scuola pubblica e privata puntando su un elemento: la valorizzazione degli insegnanti grazie all’introduzione del merito. Dopo aver premiato gli studenti vogliamo premiare gli insegnanti esaltando chi vuole continuare a qualificarsi».

Come?

«Deve essere la scuola a scegliere gli insegnanti. Adesso esistono le graduatorie nazionali. Ti iscrivi a quell’elenco, arriva il numero 1826, e la scuola ti deve prendere. Sia che tu sia un premio Nobel sia che tu sia uno che fa il professore perché non ha nulla di meglio da fare».

Con quale strumento?

«Costituendo degli albi regionali. Le scuole pescano in questo albo in base al merito».

Albi riservati ai residenti lombardi?

«No. Chiunque può iscriversi all’albo regionale. Garantendo però alcuni requisiti».

Quali? «Una certa permanenza nel territorio, almeno un ciclo di studio di 5 anni. Per evitare turn over frenetici come succede adesso».

Basta?

«No, bisogna anche premiare. Estendendo la dote scuola anche agli insegnati meritevoli. Con incentivi di natura economica e diversificazione degli stipendi. Come accade in Regione per i dirigenti dove un terzo del loro stipendio dipende dal merito. Non voglio insegnati burocrati, ma insegnanti dirigenti».

Sul versante delle famiglie?

«Bisogna potenziare la dote scuola. E permettere alla famiglia e allo studente di scegliere in massima libertà a quale scuola iscriversi, sia statale, sia privata. E dall’altra parte passare al finanziamento diretto delle scuole. È la scuola che ingaggiando l’insegnante gli garantisce lo stipendio».

Sa quale sarà la critica? La stessa che ha segnato la riforma della sanità. Favorite i privati a scapito del pubblico.

«È il residuo degli ultimi maoisti in Lombardia. L’88 per cento della popolazione lombarda è soddisfatta della nostra sanità. Hanno capito che abbiamo puntato sulla qualità. Non si chiedono se l’ospedale è pubblico o privato, ma se cura o non cura. Lo stesso avverrà con il sistema scolastico».

E’ diffusa l’opinione, anzi la certezza, che la campagna elettorale appena conclusa sia stata molto brutta: lo ripetono le principali cariche dello Stato, oltre a politici e giornalisti di varia provenienza. I veri temi non sarebbero stati affrontati: quelli che inquietano il cittadino localmente, nelle regioni o nei comuni in cui si vota. Sarebbero stati confiscati da temi non solo falsi ma fuorvianti: l’informazione televisiva, la battaglia su legalità e corruzione.

La Lega in particolare, che ha mostrato in queste settimane la forza del suo insediamento territoriale, vede confermata una tesi difesa da anni: se la democrazia italiana non funziona, è perché la politica e i mezzi d’informazione vedono la realtà attraverso una lente deformante, e non si sono adattati al sistema nuovo, non più centralizzato, del potere. In un sistema federale, competenze e poteri si disseminano, e quando si vota nelle regioni o nei comuni è di regioni e comuni che si deve parlare, non di argomenti generali come informazione e imperio della legge.

Questa forte convinzione potrebbe essere premiata dagli elettori: è probabile che il Nord ad esempio, compreso il Piemonte, condivida il disgusto verso lo spazio che nella campagna hanno preso questioni politiche generali, giudicate importanti a Roma ma non fuori Roma. Le questioni specifiche di cui si sarebbe dovuto parlare (sanità, lavoro, trasporti, effetti della crisi) sarebbero state confiscate da un tutto che col particolare non ha nulla a che fare e che a esso è fondamentalmente disinteressato. L’intera campagna non sarebbe che un immane escamotage, un trucco astratto e furioso usato per eludere le faccende veramente concrete.

Stupisce che analogo fastidio non sia stato suscitato dall’irruzione di temi considerati localmente decisivi dalla Chiesa, come aborto e fine-vita.

Anche se comprensibili, constatazioni così desolate non sono tuttavia giuste, né pertinenti. La perentorietà del lamento somiglia troppo, inoltre, a un ritornello: e sempre i ritornelli hanno un modo di ripetere l’identico che trasforma le verità in pensieri non chiarificatori ma martellati per diffondere conformismi. Il ritornello dice, in sostanza: «In Italia non si riesce più a parlare d’altro» se non di Annozero, di informazione più o meno indipendente, di legge più o meno osservata da governanti e governati. Un fossato si sarebbe aperto ­ intollerabile ­ fra discorsi autentici e discorsi avulsi come l’informazione o la legge. Anche i giornali non si sentono a posto con la coscienza quando non «parlano d’altro».

Il fatto è che quest’altro di cui si vorrebbe non parlare e che addirittura crea rimorsi ha invece rapporti strettissimi con i problemi locali, e non è affatto estraneo al vissuto di ciascuno di noi: cittadino dello Stato o cittadino che chiede i conti a governi regionali o comunali.

Non esiste, la famosa divaricazione tra mali veri e non veri: o si sanano tutti e due insieme, o tutti e due degenereranno infettandosi a vicenda.

Vediamo l’informazione, in primo luogo televisiva visto che i dati lo confermano: sia localmente che nazionalmente, gli italiani si informano soprattutto alla televisione, cosa che spiega d’altronde il rifiuto, più che quindicennale, opposto dal Presidente del consiglio a ogni limitazione del suo potere catodico. Non si tratta di sapere se con la tv si vincono o si perdono le elezioni. In questione è la società: la facoltà che le viene data di formarsi un giudizio conoscendo i fatti, la sua cultura della legalità, della tolleranza, della mente libera da slogan, ritornelli. Impossibile acquisire tale cultura se il cittadino non è bene informato. Se viene tenuto in una sorta di Kindergarten, davanti al quale si recitano giuramenti, e si ripetono aggettivi o parole («una grande grande grande grande riforma») come si fa con i bambini e le filastrocche.

In vari articoli scritti sul sito della Voce, Michele Polo, economista della Bocconi, denuncia questa infantilizzazione e respinge l’accusa, che gli viene rivolta, di sprezzare snobisticamente gli elettori, ritenendoli influenzabili e incapaci di giudizio: «Oggi gran parte dei cittadini si forma una opinione sui fatti principali e sull’operare della politica non già attraverso una esperienza diretta e personale, ma mediante i mezzi di informazione. In Italia, con un ruolo preponderante della televisione». A essere pericolante è il giudizio informato attorno a fatti non tenuti nascosti, ma resi pubblici. E che l’Italia sia più a rischio di altri lo si evince da dati precisi: «Tra le peculiarità italiane ­ scrive Polo ­ c’è una bassa abitudine alla lettura, che fa dei telegiornali di gran lunga la principale fonte di informazione. I due principali telegiornali serali, Tg1 e Tg5, raccolgono in media 6,4 e 5,3 milioni di telespettatori, mentre gli spettatori dei telegiornali sulle sei reti sono circa 19 milioni. I primi 5 quotidiani (Corriere, Repubblica, Sole 24 ore, Stampa, Messaggero) arrivano a circa due milioni di copie, corrispondenti a circa sei milioni di lettori.

In una recente indagine del Censis sulle elezioni europee del 2009 emerge come il 69 per cento degli elettori ha fatto ricorso ai telegiornali per formarsi una opinione in vista del voto, il 30 per cento ai programmi televisivi di approfondimento, il 25 per cento si è affidato ai giornali, il 5 per cento alla radio e solo un coraggioso drappello del 2 per cento ha utilizzato Internet». Proprio Tg1 e Tg5 sono accusate d’aver privilegiato enormemente il Pdl, nella campagna elettorale.

La legalità è il secondo tema apparentemente non essenziale ma invece essenzialissimo a qualsivoglia livello: locale, nazionale, europeo, mondiale. Sono tante le cose che da noi non funzionano per la corruttela epidemica, per l’evasione fiscale che s’estende, per l’impunità di colletti bianchi collusi con le mafie. Chi è fuori da simili «giri» (come li chiama Gustavo Zagrebelsky su Repubblica) non sa come ricominciare vite lavorative, imprese malferme, speranze. È per aiutare gli esclusi e gli onesti che legalità e magistratura vanno difese. L’illegalità alimenta la disuguaglianza sociale e viceversa, l’usura e le estorsioni crescono con la crisi economica e l’accrescono, gli immensi costi dell’illegalità sono pagati da ogni cittadino, come ben illustrato dal giudice Gratteri, impegnato nella lotta alla ’ndrangheta. In alcune regioni del Sud mafia e ’ndrangheta si sostituiscono allo Stato, inerte se non corrivo: ci sono «paesi in cui il mafioso è tutto. Amministra la giustizia nel nome della violenza e offre servizi che lo Stato non è in grado di garantire». Il male oltrepassa da tempo il Sud: «Ormai le mafie hanno aggredito ogni lembo del territorio nazionale» (Nicola Gratteri, La Malapianta, Mondadori 2009)

Parlare di rispetto della legge non è dunque avulso. Né parlare di intercettazioni. Se già valesse la legge che le restringe, mai sarebbero stati arrestati tanti malavitosi. Un limite si dovrà stabilire, alla pubblicità data alle intercettazioni concernenti fatti privati, ma oltre tale limite la pubblicità è giusta: anch’essa ci informa e ci fa giudicare meglio. Anche qui, il cittadino informato è la priorità assoluta: se non avessero letto le intercettazioni sui giornali, tanti ignorerebbero le corruttele italiane e quel che esse ci costano.

Legalità e informazione sono vere emergenze, ed è positivo che abbiano occupato il centro della campagna elettorale. Troppo pericoloso ignorarle in tempi di crisi, come si è visto in Grecia. Un regime corrotto, che truccava le cifre, che allontanava lo Stato dai cittadini, che parlava sempre d’altro: così si è scivolati nella quasi bancarotta. È probabile che anche su questo l’Unione europea sarà più vigile. Onestà delle cifre, lotta alla corruzione, restaurazione del senso dello Stato diverranno criteri base della ripresa greca, così come furono criteri non irrilevanti per i paesi corrotti dal comunismo che entrarono nell’Unione, o per l’Italia che nei primi Anni 90, alla vigilia del Trattato di Maastricht e dell’euro, fu invitata da Kohl a frenare il dilagare delle proprie mafie.

«La prova delle regionali è importantissima. E il Lazio e la capitale sono decisivi per assestare a Berlusconi un colpo di portata nazionale. E poi, oltre a Roma, questi sono i luoghi dove sono cresciuto, spesso in mano a reazionari come a Fondi. Perciò tutti al voto e facciamo vincere la Bonino, che stimo molto. Come del resto Vendola, al cui partito penso di dare il mio voto di lista». Novantacinque anni martedì prossimo e appello al voto. Così ci si presenta Pietro Ingrao, materializzandosi nel suo soggiorno di Via Balzani in Roma, dopo una mezzoretta di ritardo «accademico» e mentre osserviamo un ritratto di Vespignani e una marionetta di Charlot appesa al muro.

Intervista per uno straordinario compleanno: le 95 primavere di un leader che ha incarnato una delle anime chiave del Pci (l’ingraismo) e che ha inventato l’Unità del dopoguerra, come grande giornale di informazione. Figura del dissenso, e della fedeltà a un ideale: il comunismo. Al quale non smette di credere. Come quando gli chiediamo ad esempio: ma tu Pietro la vuoi l’alleanza con Casini? E lui risponde tranquillo: «Per battere Hitler mi sono alleato anche con i monarchici. Tenendo ben chiara la guida e l’asse fondamentale. Dal punto di vista nazionale e della lotta di classe...». Perciò comunista non pentito e togliattiano, a suo modo ovviamente... Sentiamo il «giovane» Ingrao.

Caro Pietro: vittoria della sinistra in Francia e riforma sanitaria di Obama. Due regali che possono allietare i tuoi primi 95 anni, malgrado le tante delusioni?

«Certo, qualcosa si muove nel mondo. Ma in Italia siamo in forte ritardo, rispetto alle novità e alle speranze che ci vengono da un globo ormai da un secolo e più in tempesta. In particolare il ritardo italiano concerne l’assenza di un soggetto collettivo in grado di guidare grandi masse disorientate e in cerca di riscatto. Berlusconi è ancora lì in cima. Anche se l’Italia non se lo meritava proprio uno così».

Molti parlano di un declino di Berlusconi e del suo blocco sociale. Tu che ne pensi?

«Vedo gli inciampi in cui si è cacciato questo reazionario. E però tarda a crescere un soggetto collettivo antagonista. Lui ce la mette tutta a farsi danno, ma non c’è l’avversario a contrastarlo. Troppo debole, malgrado le tante forze generose in campo. E la mancata ripresa sta nella divisione politica e nell’insufficiente radicamento politico nei luoghi nevralgici: i luoghi del lavoro. I miei maestri mi hanno indicato che lì andava cercata la risposta, per cambiare l’Italia che aveva tanto patito sotto la borghesia capitalistica e terriera. E da quel contatto sono venute le fortune della sinistra italiana del dopoguerra: dalle lotte degli anni ’60, all’irruzione dei metalmeccanici nel ’69, alle conquiste civili e sociali degli anni ’70».

Tutto ciò è rifluito per la sparizione dei soggetti sociali del lavoro, o per l’incapacità di continuare a vederli quei soggetti?

«Prima di tutto c’è stata la controffensiva reazionaria, scattata negli anni ’70 e ’80: Agnelli in Italia, e Reagan e la Tatcher sul piano mondiale. Dopo la vittoria sui fascismi, le lotte del secondo dopoguerra e le conquiste degli anni 70, quella controffensiva ha vinto, sul piano internazionale. Da noi, con gli aspetti meschini del craxismo. Chi dice poi che il lavoro è scomparso dice balle. Quel che è cambiata è la geografia delle forze di classe, a partire dagli scenari globali. È mutata in Asia e in Oriente. Pensa alla Cina, o all’India... di lì vengono cambiamenti grandiosi negli equilibri economici del mondo. Quanto all’Italia, ripeto, pesano le sconfitte degli ultimi decenni. Che hanno portato al prevalere del blocco berlusconiano, sulle divisioni sociali e politiche del soggetto antagonista. Gli operai e i lavoratori subalterni ci sono eccome! Sono invisibili e divisi sul terreno della rappresentanza. Vanno reindividuati con un’analisi nuova. E riunificati politicamente».

Il Pd di Bersani, libero dai teodem, più orientato verso il lavoro e le alleanze, al centro e a sinistra, ti lascia sperare in meglio?

«Senza dubbio Bersani è meglio di Veltroni. Tuttavia anche il Pd di oggi resta un partito di centro e non di sinistra. Ci vuole molto di più per rispondere alle questioni sul tappeto. Prima di tutto occorre la costruzione tenace e collettiva di un dialogo tra le forze antagoniste a Berlusconi. Uno schieramento di resistenza. Unito e collegato dall’uno all’altro versante, e ben guidato».

Immagini anche tu una sorta di Cln anti-Berlusconi, tra sinistra e forze centriste e moderate?

«Può sembrare un po’ inattuale. Ma quel che suggerisci nella tua domanda mi pare molto giusto: costruiamolo questo schieramento! Non vedo però la volontà sufficiente, per sedersi attorno a un tavolo a ragionare sulle cose da fare e quelle da non fare. Si tratta di adottare una piattaforma concordata per mettere in movimento una dinamica sociale di massa. E questo non c’è ancora. Ricordo la nostra ossessione unitaria nel ’900, e come quella ossessione si traducesse nel costruire assieme azioni e decisioni. È questo che si è indebolito. Se guardo a sinistra poi, vedo solo frammenti irrilevanti e cose esili... ».

Al tavolo che sogni, la sinistra radicale non potrebbe sedersi. Non c’è più, a parte Vendola. Come mai?

«Non possiamo rifare di nuovo tutta la storia di una sconfitta. Però non è che il mondo della sinistra radicale non esista proprio più. Vendola ha storia e futuro dalla sua parte. È un attore nuovo in campo. Benché senza alleati e consistenza attorno. Non credo che neanche Bersani e Vendola messi insieme ce la possano fare a dare la risposta che occorre a Berlusconi».

Temi contraccolpi pericolosi per la democrazia, tra crisi di Berlusconi e mancata replica antagonista?

«Berlusconi ne sta già combinando tante e non c’è bisogno di paventare altro. Muoviamoci per allestire uno schieramento unitario. E in fretta!».

E ora parliamo tanto di te, in questo compleanno. Nell’altro secolo volevi la luna. La vuoi ancora o ti sei calmato?

«Mi piace ancora molto la luna. E non smetto di guardarla, sognandola per i miei nipoti e pensando a tutta la strada percorsa fin qui, alle battaglie politiche per la liberazione umana. La voglio ancora quella luna, anche nelle sue facce diverse. Quando sono al mio paese, nelle sere d’estate mi affaccio al balcone e vedo uno spettacolo straordinario. Da una cima di montagna spunta quel volto rotondo, col suo alone. Quando lo guardo mi tornano in mente altri tempi e altre parole. Oppure cose indimenticabili, come i versi di Giacomo Leopardi alla luna. Allora la speranza e la fantasia si riaprono. E ricomincia l’esplorazione dell’inedito, il bisogno di ricominciare. A volte chiamo i miei bis-nipoti e da lontano indico loro la luna con la mano. È il mio contributo “educativo”. Poi toccherà a loro volere la luna».

Bertolaso&c, l’affare emergenze ecco la fabbrica degli stipendi d’oro
La Repubblica, 14 marzo 2010

Ci sono eventi e eventi, nell’Italia dell’emergenza continua e delle ordinanze a pioggia. Alcuni calamitosi. Altri che non lo sono per niente. Ma che, per la Protezione civile, erano e sono da ritenersi "grandi eventi". Gare ciclistiche, regate, mondiali di nuoto, beatificazioni, visite pastorali, convegni eucaristici, vertici politici e militari, pellegrinaggi. Per legittimarli, e per assegnare un compenso "aggiuntivo" ai «soggetti attuatori», ai commissari delegati e a quelli straordinari che li gestiscono - quasi sempre Guido Bertolaso - a palazzo Chigi è sempre pronta una disposizione urgente. Che in molti casi stabilisce un gettone: dal 3,75% al 50% del «trattamento economico complessivo in godimento».

Sono 628 le ordinanze straordinarie dal 2001 a oggi. Un diluvio di procedure "ad hoc" che hanno permesso al dipartimento di Protezione civile della Presidenza del consiglio di bruciare, in nove anni, oltre 10 miliardi di euro. Più di un miliardo all’anno. Settanta milioni al mese. Quasi 3 milioni al giorno. Un sistema che ha ingrossato i conti delle centinaia di ditte appaltate a trattativa privata. O con gare-lampo sottratte alle regole di assegnazione e controllo della Corte dei Conti. O - vedi Abruzzo - «sulla base di criteri di scelta di carattere fiduciario».

L’Italia che emerge dalle ordinanze di Protezione civile è un paese a rischio ininterrotto. Pronto a sprecare. Calamità naturali, certo. Terremoti, alluvioni, smottamenti. Mettiamoci pure il traffico di una mezza dozzina di città, i rifiuti sotto il Vesuvio, le gondole e i vaporetti che assediano Venezia e «l´eccezionale afflusso turistico» nelle isole Eolie. Ma in un fritto misto di sacralità, agonismo e alta diplomazia istituzionale, a Bertolaso&co sono state affidate anche: le visite pastorali del Papa (800 mila euro stanziati nel 2008 per gli spostamenti di Benedetto XVI, ogni volta che il pontefice supera le sponde del Tevere il governo concede la dichiarazione di "grande evento"); i mondiali di ciclismo di Varese (71 milioni) e quelli di nuoto di Roma (60 milioni); i congressi eucaristici di Bari (2005, 3 milioni) e Ancona (2011, 200 mila euro per ora); le Olimpiadi di Torino e i vertici internazionali come il Nato-Russia del 2002 a Pratica di Mare (5 milioni solo di telecomunicazioni). E ancora: il semestre italiano di presidenza europea, la firma della Carta di Roma, il doppio G8 Maddalena-L´Aquila - quello della "cricca" costato 500 milioni - , la Louis Vuitton trophy. E, trattata come «un evento calamitoso di natura terroristica», l´influenza suina: 24 milioni di vaccini acquistati dalla casa farmaceutica Novartis; ne è stato usato uno solo, gli altri 23 sono andati in malora. In tutto una quarantina di eventi. Almeno tre - secondo le procure di Roma, Firenze e Perugia - hanno prodotto la «gelatina» della corruzione, il reato di cui è ac-cusato il capo della Protezione civile.

Il dipartimento al tempo di super Guido è una macchina del potere. La più veloce, ricca e meno controllata dello Stato. Un pozzo di San Patrizio che in meno di un decennio - da quando nel 2001 Berlusconi ne ha fatto un dipartimento della presidenza del consiglio - si è trasformato in un grande ente appaltatore. In spregio alle norme sugli appalti e le assunzioni. Tutte per chiamata diretta, senza concorso (l´ultima infornata ne ha prodotte 200). Gli stipendi, poi. Dal capo ai funzionari, ce ne sono molti che lievitano grazie alle indennità: non solo per le emergenze e le missioni, anche per i grandi eventi.

È qui il nocciolo del potere della Protezione civile. Decreto varato da Berlusconi il 7 settembre 2001, articolo 5 bis comma 5. La "carta" estende il potere di ordinanza «alla dichiarazione di grandi eventi (...) diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di emergenza». Tradotto: una frana è come il G8, il terrorismo in Iraq come il ciclismo in Insubria. La canonizzazione di Padre Pio e Josè Maria Escrivà come i tuffi al Foro Italico e la preregata dell´America’s cup. Risultato: centinaia di milioni che fanno felici gli amministratori locali. E non solo. «È un’anomalia istituzionale - tuona il senatore del Pd Mario Gasbarri - . Le ordinanze le propone Bertolaso, Berlusconi le firma e le emana. In ogni ordinanza si nomina Bertolaso commissario. E in queste ordinanze lui riceve un compenso aggiuntivo. Bertolaso, insomma, decide quanti soldi deve prendere Bertolaso». Il capo della Protezione civile guadagna 236 mila euro (lordi). Più di ogni altro capo dipartimento. La sua retribuzione va in deroga alle leggi vigenti (pubblico impiego e contratto nazionale di lavoro del personale dirigente). Nel 2008 ha dichiarato un reddito imponibile di 1 milione e 13mila euro (quarto più ricco nel governo), a fronte di uno stipendio di molto inferiore. «Emolumenti episodici relativi ad attività svolte negli anni precedenti», ha spiegato in una nota la Protezione civile. Già. Ma qual è il compenso «aggiuntivo» di cui - documenti alla mano - Bertolaso pare aver beneficiato in questi anni? Per quanto Repubblica ha potuto sin qui verificare, ci sono una serie di ordinanze, almeno 12, emanate dalla Presidenza del consiglio tra aprile 2002 e giugno 2009, nelle quali è indicato un compenso extra per il commissario degli eventi. Che risponde quasi sempre al nome di Bertolaso. Lo "scalino" standard ammonta al 3,75%. Da calcolarsi sul «trattamento economico complessivo in godimento».

Esempi. Il G8, il 50° anniversario della firma dei trattati di Roma, il congresso eucaristico di Ancona (in programma l´anno prossimo e già affidato al sottosegretario B.). In altri casi, come per il pellegrinaggio a Loreto del 2007, palazzo Chigi elargisce ai soggetti attuatori un´indennità pari al 50% del «trattamento economico». «Vorremmo capire se il compenso per Bertolaso è cumulativo o se lo è stato - ragiona Antonio Crispi, funzione pubblica Cgil - , lo chiederemo al segretario generale della presidenza del consiglio dei ministri». È un ginepraio il sistema di ordinanze di Protezione civile. Spesso, a un certo punto, la traccia che indirizza ai cachet si perde. Ecco alcune procedure urgenti. Emergenza terrorismo internazionale (2003, ancora in vigore, «retribuzione da determinarsi con successivo provvedimento del ministro dell´Interno); le frane di Cosenza (dal 2005 al 2010, compenso che Repubblica ha potuto stimare in circa 32 mila euro per il solo 2009 a favore del commissario straordinario); anniversario della firma dei trattati di Roma (2006, 3,75%); G8 (2007, 3,75%); congresso eucaristico di Ancona (2008, 3,75%). «Più ordinanze propone e più Bertolaso guadagna?», attacca Gasbarri.

Che con le ordinanze si sia fatto prendere un po´ la mano, del resto, lo ha ammesso lo stesso sottosegretario. «Forse il ricorso ai poteri di emergenza è stato un po´ eccessivo» ha detto a Panorama il 25 febbraio scorso. «Purtroppo, da servitore dello Stato, ogni volta che mi hanno sottoposto un problema, io sono intervenuto. Mi sembrava il modo migliore per fare andare avanti il paese». 800 dipendenti, una rete di 1milione e 300mila volontari, ultimo bilancio 2 miliardi e 72 milioni di cui 1,2 miliardi destinati ai mutui accesi per i lavori di ricostruzione e solo 31 milioni all´attività di "previsione e prevenzione" (la ragione sociale della Protezione civile). Uno «Stato nello Stato», lo definisce Manuele Bonaccorsi in "Potere assoluto". Con i piedi ben piantati nei grandi eventi. Meno sulla salvaguardia dell´ambiente. «Se non tuteli il territorio non tuteli la vita umana, di cui sei diretto responsabile - dice ancora Antonio Crispi - . Bisogna togliere alla Protezione civile i grandi eventi, cambiare il sistema». Quello che munge milioni allo Stato anche per un pellegrinaggio o una gara di ciclismo. "Emergenze" che per molti funzionari valgono il 30% in più dello stipendio. E altri cotillon. Lo dice chiaro l´ordinanza per i campionati di ciclismo di Varese: «Ai componenti della struttura commissariale», oltre all´indennità di missione, «spettano 100 ore mensili di straordinario forfaittario».

(1 - continua)

Bertolaso, consulenze record 9 milioni per gettoni e assegni

La Repubblica, 20 marzo 2010

Di beffe i terremotati dell´Aquila ne hanno subite abbastanza. Comprese le risate sciacalle della «cricca». Ce n´è una, però, che non conoscono ancora. Va iscritta in quel generoso consulentificio che è la Protezione civile al tempo di Guido Bertolaso. È il 15 aprile 2009. Ad appena nove giorni dal sisma che ha violentato l´Abruzzo provocando la morte di 308 aquilani, ferendone altri 1.600 e lesionando centinaia di edifici, l´ennesimo contributo, 300 mila euro, finisce - con la solita ordinanza ad hoc - nelle casse di una fondazione. Che ha come scopo la prevenzione del rischio sismico. Già materializzatosi 216 ore prima. La fondazione si chiama Eucentre e fa parte della short list (commesse, consulenze, convenzioni) del dipartimento di Protezione civile. Fondata nel 2003, tra gli altri, dalla stessa Protezione, Eucentre è il professor Gian Michele Calvi. Che è pure direttore - con il Consorzio For Case di cui è presidente - del progetto C. A. S. E.. La ricostruzione all´Aquila di 183 edifici, 4.600 appartamenti con appalti per 800 milioni. Calvi insegna meccanica strutturale all´ateneo di Pavia, la sua città. Lo considerano un braccio destro di Bertolaso. Dopo l´estate del 2008 il sottosegretario lo spedisce alla Maddalena come «soggetto attuatore» del G8 al posto dello spendaccione Fabio De Santis (ora in carcere), «allontanato» perché stava appaltando a 600 milioni opere che dovevano costarne 300. Peccato che l´ingegner Calvi, figlio d´arte, studio da 30 dipendenti, famiglia vicina all´Opus Dei, un fratello, Gian Luca, che l´anno scorso rileva per 300mila euro la Tecno Hospital di Gianpaolo Tarantini, all´Aquila abbia splafonato e non di poco proprio nella costruzione delle new town. In 11 mesi, dall´aprile del 2009, con la sua task force di 119 tecnici è riuscito a far lievitare i costi del 40%: dai 570 milioni preventivati a 800. Non male per un´emergenza costata finora la cifra record di 1 miliardo e 431 milioni. «Alla fine sarà il terremoto più caro di sempre», dice Teresa Crespellani, già docente di ingegneria geotecnica sismica all´ateneo di Firenze. Dal pozzo di via Ulpiano, a favore di Eucentre, sono usciti 700 mila euro solo per la valutazione di agibilità delle case. Un compito che nell´era pre-Bertolaso era appannaggio dei tecnici del dipartimento. Con un bel risparmio.

All´Aquila tra gli edifici dichiarati inagibili c´è la vecchia sede dell´Anas. Danni modesti, nemmeno puntellata ma si è deciso, d´urgenza, di tirarne su una nuova. Costo: 14,5 milioni di euro (cordata Maltauro di Vicenza, consegna 27 aprile prossimo). A distanza di un anno nessuna costruzione: solo un cratere. «Prima si valorizzavano le risorse interne, oggi è un continuo e oneroso ricorso a soggetti esterni», ragiona Roberto De Marco, fino al 2002 direttore del defunto servizio sismico nazionale. In effetti in Protezione civile, quando si parla di consulenze, i cordoni della borsa si aprono senza problemi. Nel 2007 ne sono state assegnate per 2 milioni e 436 mila euro, record di spesa con 80 consulenti.

I collaboratori. Bertolaso i suoi se li tiene stretti. A Giovanni Bastianini, «consulente per informazione, immagine e divulgazione della cultura di protezione civile», vanno 104mila euro. La cura delle «attività di comunicazione visiva» è affidata a Maurizio Silvestri, e costa 74 mila euro. Prende 6 mila euro in più l´avvocato di Stato Ettore Figliolia, un tempo consigliere giuridico, oggi superconsulente. E´ lui, già capo gabinetto di Rutelli vicepremier, la "mente" creativa delle ordinanze di Protezione civile.

Quanto ci costano i nostri protettori civili e i loro "aggiunti"? Nel bilancio 2009 (2 miliardi e 72milioni) figura la voce «emolumenti accessori al personale interno e distaccato, per gettoni di presenza, stipendi e assegni per il personale assunto con contratti "privati"». In tutto fanno oltre 9 milioni. Normale per un dipartimento che ha quadruplicato le dimensioni della sua struttura (una tendenza inversa ai drastici tagli di tutto l´apparato pubblico centrale). Con un ufficio stampa-comunicazione formato da un esercito di 28 persone (con Franco Barberi erano 8). Persino poca roba se paragonata alle commesse e agli incarichi extra. Tra i "partner" più fedeli c´è Finmeccanica. Specializzata nel settore militare ma alla quale è affidata l´infrastruttura informatica (appalto secretato). Sono targati Selex (società di Finmeccanica) anche i 20 nuovi meteo-radar acquistati nel 2007 per 20 milioni (2,8 milioni a pezzo). Restiamo nei cieli. La flotta delle emergenze, e dei grandi eventi, è tanto fornita quanto costosa: nel 2008 per mantenere i 19 Canadair CL 415, i due aerei Piaggio C 180, i tre elicotteri Agusta e i 6 elicotteri Erickson S63 in appalto, ci sono voluti 158 milioni. Per la sola gestione dei Canadair 43 milioni sono andati alla Sorem: un partner resistente a tutto. Anche alle indagini giudiziarie e a quelle dell’Enav, che nel 2002 denuncia «carenze addestrative e operative». Tra il 2003 e il 2007 si verificano una serie di incidenti, alcuni mortali. Bertolaso ammette «un errore» nella programmazione degli orari di volo, ma Sorem è confermatissima. Come l´Ingv (istituto nazionale geofisica e vulcanologia) di Enzo Boschi. L´ultimo assegno staccato è di 63 milioni, convenzione del 2004. Altri si "accontentano". Legambiente, «protagonista nell´organizzazione di grandi eventi», nel 2006 incassa 694 mila euro. Più del doppio di quanto sono costati (335 mila) i distintivi e le medaglie 2009 della Protezione civile (ma i pompieri che hanno scavato all´Aquila hanno dovuto pagarsele). Meno di un terzo di quanto costa (3,5 milioni all´anno per 9 anni) la sede operativa scelta da Bertolaso nel 2004. Sorge in via Vitorchiano, sulle sponde del Tevere. In una zona che l´autorità di bacino del fiume ha definito "R4". Il massimo livello di rischio idrogeologico.

(2 - continua)

La Parentopoli di Bertolaso: quei figli dei potenti assunti senza concorso

la Repubblica, 27 marzo 2010

Lo «Stato nello Stato» ha imbarcato proprio tutti. Tutti quelli che bisognava imbarcare. Figli e nipoti di: generali, colonnelli, magistrati della Corte dei conti e della Corte costituzionale, cardinali, prefetti, direttori generali del Tesoro (gli stessi che devono controllare le spese della Protezione civile), avvocati di Stato, 007 dei servizi segreti, dirigenti e segretari generali della Presidenza del consiglio dei ministri, ex capi dei vigili del fuoco, dirigenti sindacali. Tutti assunti per chiamata diretta. Senza concorso. Tutti catapultati nel dipartimento-carrozzone più generoso d´Italia. Quello della «procedura straordinaria», della deroga continua a tutto. Anche all´articolo 97 della Costituzione che prevede il concorso per entrare nella pubblica amministrazione. In Protezione civile i posti di lavoro si materializzano su indicazione di Guido Bertolaso. Che di problemi, da questo punto di vista, non se n´è mai fatti.

Avendo piazzato il cognato ed ex socio in affari, Francesco Piermarini - ingegnere in stretti rapporti con uno dei pilastri della "cricca dei banditi", l´imprenditore Diego Anemone - a lavorare in evidente "conflitto d´interessi" nei cantieri del G8 della Maddalena. «L´anomalia istituzionale è mostruosa - dice il senatore Pd Mario Gasbarri - questo è l´unico settore della pubblica amministrazione dove la parola concorso pubblico non esiste e dove si va avanti con assunzioni parentali e amicali in cui la grande assente è la competenza. Alla faccia di Brunetta». Nel mare grande del pubblico impiego, in effetti, l´attuale Protezione civile è un isola del tesoro sciolta dagli ordinamenti dello Stato. Un coacervo istituzionale dove il nepotismo e il clientelismo sono elevati alla massima potenza grazie anche a un "congelamento" delle norme che regolano le assunzioni statali. E dove un posto, una collaborazione, un salto di carriera, un trattamento economico extra moenia, si materializzano sempre. Anche se sei un pensionato di 83 anni (è il caso di Domenico Rivelli, «collaboratore per le problematiche amministrativo-contabili dell´emergenza rifiuti a Napoli»). Anche se di emergenze e calamità hai sentito parlare solo in televisione. Può capitare di essere figli del capo del personale di palazzo Chigi (Giuseppina Perozzi). E così si aprono le porte dell´ufficio stampa del dipartimento. E´ il caso di Eugenio D´Agata, già «collaboratore dell´emergenza eventi avversi» in Calabria, assunto a 24mila euro assieme ad altri 199 con la recente legge 26 che ha trasformato il decreto 195, quello della "Protezione civile spa".

Del mazzo dei fortunati fa parte anche Carola Angioni, figlia del generale Franco Angioni, capo della spedizione in Libano, oggi assunta dopo aver collaborato a tamponare nel 2007 «l´emergenza eventi atmosferici» nel Veneto. I rifiuti di Napoli sono stati il banco di prova di Marta Sica, figlia del vicesegretario generale di palazzo Chigi: arruolata anche lei. Come la nipote del cardinale Achille Silvestrini, come la figlia di Carmen Iannacone, funzionaria della Corte di conti addetta al controllo degli atti di palazzo Chigi. Sono molti i magistrati che hanno prole tra i protettori civili: almeno cinque della Corte di conti, e cioè quello che dovrebbe essere il cane da guardia del dipartimento. Due sono Rocco Colicchio e Marco Conti. Un´altra è la segretaria generale, Gabriella Palmieri. Poi c´è la Corte costituzionale. Giovanni De Siervo, figlio del vicepresidente della Corte, Ugo De Siervo, è in squadra. Si è occupato dell´esondazione del Sarno e ora segue le «relazioni con gli organismi internazionali».

Fino al 2004 i dipendenti della Protezione civile erano 320. Oggi sono 800, di cui 150 "comandati" (provenienti già da altre amministrazioni). Cinquecento assunti in cinque anni. Gli ultimi 200 Bertolaso li ha chiamati a corte a fine febbraio: da co.co.co. a contratto a tempo determinato. In attesa di essere stabilizzati. Ovviamente senza concorso. Altri 16 dirigenti a contratto (con ordinanza) diventeranno in questi giorni dirigenti dello Stato, stipendio da 3 mila euro netti. L´elenco dei neo protettori è una specie di manuale Cencelli. Puoi trovare la figlia del prefetto Anna Maria D´Ascenzo, già capo del dipartimento dei vigili del fuoco; quella del colonnello Roberto Babusci che dirigeva il centro operativo aereo della Protezione civile; la nipote dell´ex presidente della Rai Ettore Bernabei e il figlio di Mario Ferrazzano, segretario generale del sindacato della presidenza del consiglio Snaprecom. Un dipartimento fidelizzato. E la fede con Bertolaso paga. Nel "cerchio magico" ci sono Agostino Miozzo, Marcello Fiori e Bernardo De Bernardinis. Tutti e tre sono stati nominati (da co.co.pro che erano) dirigenti generali della Presidenza del consiglio con norme ad personam. Infilate nel decreto rifiuti del 2008. Guadagnano 170mila euro. Quando nel 2001 sono stati assunti, i primi due erano estranei alla pubblica amministrazione. Facevano solo parte della squadra di Rutelli al Giubileo. Da oggi a vigilare sull´operato della Protezione civile, «a difesa dell´equità di trattamento dei lavoratori», c´è una consulta permanente creata dalla Cgil. Basterà?

(3.fine)

L’altra sera, girovagando fra i canali, mi sono imbattuto in un volto ispirato che, dal palco di una piazza, inneggiava all’amore e urlava: entro il 2013 vogliamo vincere il cancro. Giuro, diceva proprio così. Vo-glia-mo vin-ce-re il can-cro. Non la disoccupazione. E nemmeno lo scudetto. Il cancro, «che ogni anno colpisce 250 mila italiani». Sulle prime ho sperato fosse il portavoce del professor Veronesi e ci stesse annunciando uno scoop mondiale. Così ho telefonato a uno dei 250 mila, un caro amico che combatte con coraggio la sua battaglia, e gli ho dato la grande notizia. Come no?, ha risposto, adesso però ti devo lasciare perché sono a cena con Vanna Marchi.

Ho degli amici molto spiritosi. Mi auguro che tutti i malati e i loro parenti la prendano allo stesso modo. E anche tutti i medici che in ogni angolo del pianeta si impegnano per raggiungere quell’obiettivo. In Italia con qualche problema in più, dato che il governo che entro tre anni intende vincere il cancro ha ridotto i fondi per la ricerca scientifica. Vorrei sorriderne, come il mio amico. Ma stavolta non ci riesco. Ho perso i genitori e tante persone care a causa di quel male. E allora: passi per le barzellette, le favole e persino le balle. Fa tutto parte del campionario di iperboli del bravo venditore e il pubblico ormai è assuefatto allo show. Ma anche a un’alluvione bisogna mettere un argine. Bene, per me il cancro rappresenta quell’argine. Non è: un milione di posti di lavoro. Non è: meno tasse per tutti. Il cancro è una cosa seria. E lui, che lo ha avuto e lo ha vinto, dovrebbe saperlo.

Oggi non è solo all´Aquila che si deve sgombrare il terreno dalle macerie. Quelle che segnano i luoghi istituzionali del Paese sono diventate così tante da cancellare il profilo del nostro orizzonte di riferimento e da diffondere un sentimento generale di ansia e di smarrimento. Per questo fa bene il Presidente della Repubblica a segnalare che il valore della Costituzione resta ancora un punto di riferimento fondamentale per l´opinione pubblica.

È dall´altezza di questo osservatorio che bisogna misurare la gravità della situazione. Oggi il documento votato all´unanimità della prima sezione del Consiglio Superiore della Magistratura mette sotto gli occhi di tutti lo spettacolo del disastro provocato dagli attacchi violentissimi del presidente del Consiglio dei ministri alla magistratura. Ne abbiamo letti quasi uno al giorno per anni. Qualcuno li considera intemperanze caratteriali su cui poi esperti mediatori dal sorriso facile e dalla parola morbida si occupano di versare mielate rassicurazioni. Si rischia di abituarsi allo spettacolo: una variante italiana dei costumi politici, con tanto di sesso, barzellette e canzoni napoletane. Non così pensano i magistrati della prima sezione del Csm. Si tratta secondo loro di una denigrazione e di un condizionamento della magistratura assolutamente inaccettabili perché mettono in pericolo l´equilibrio tra poteri e ordini dello Stato. Senza questo equilibrio non si dà un ordinamento civile capace di tutelare i diritti di ognuno. Lo sappiamo. Dovremmo saperlo. È un dato elementare, semplicissimo, un pilastro fondamentale del sistema democratico.

Ma i magistrati non si limitano a condannare. Il loro documento rivolge «un pressante appello a tutte le istituzioni perché sia ristabilito un clima di rispetto dei singoli magistrati e dell´intera magistratura». Oggi la magistratura è accusata nientemeno che di sovversione. E non si è trattato solo di parole. Le accuse del premier si sono tradotte in gravissimi episodi di diffamazione e aggressione all´immagine e alla dignità di singoli magistrati, vere e proprie esecuzioni in effigie. Questo documento del Csm segna una svolta storica nella lotta politica italiana: segnala una situazione di emergenza e invita a scelte adeguate. Scuote un torpore politico e morale che è frutto di una corruzione radicata in profondità. Quando si cominciano ad accettare certe cose in silenzio, quando si decide di smorzare i toni della reazione e a far finta di niente non si è contribuito al buon andamento della cosa pubblica come qualcuno può pensare: di fatto si è già accettato di vivere nella «Repubblica del Male Minore». È quello che sta accadendo da tempo.

È un fatto che appartiene al peggiore costume del nostro passato, a forme di corruzione morale e di indifferenza per le regole che ha avuto tanti nomi ma che ha una sola sostanza. Di secolo in secolo si sono usati nomi diversi: «nicodemismo»,«dissimulazione onesta», «familismo amorale». Diversi i fenomeni storici, legati però da un minimo comune denominatore morale che si è fissato nel costume di casa: il chiudere la porta e la finestra sul mondo degli altri, il conservarsi indifferenti alla cosa pubblica , il tollerare le lesioni ai diritti individuali in nome del tranquillo vivere dei più, il considerare ovvio che chi dispone del potere faccia straccio dei diritti di chi non gli obbedisce. Da questo costume sono nate le vergogne e gli errori della storia italiana: è questo che permise al popolo italiano nel suo insieme di accettare senza reagire l´immane vergogna delle leggi razziali, salvo poi addossare questa colpa al solo pontefice regnante come unico titolare della coscienza collettiva.

Ma quello della violenza contro i magistrati non è che il fenomeno più evidente prodotto da un leader politico che disprezza la giustizia come norma e come istituzione e si fabbrica le leggi e le sentenze su misura. Altre rovine sono state seminate un po´ dovunque da quella che oggi anche i commentatori più moderati e più filo governativi si rassegnano ormai a riconoscere come una congenita incapacità di Silvio Berlusconi di affrontare le responsabilità del governo di una grande nazione. Un sistema di potere personalistico ha fatto continuamente leva sul principio rozzo e intrinsecamente dittatoriale di interpretare una vittoria elettorale come una investitura plebiscitaria a comandare. I suoi attacchi alle istituzioni hanno superato da tempo ogni limite tollerabile in un sistema fondato sulla divisione dei poteri. Per disgrazia del Paese il comando è caduto nelle mani di una persona determinata a servirsene per tutelare e accrescere i suoi beni e per risolvere i suoi problemi con la giustizia. Da qui l´invenzione a getto continuo di norme e decreti «ad personam»: mentre scriviamo è in atto l´ennesima affannosa corsa del Parlamento per poter definire legittimo il fatto che un imputato non si presenta in tribunale. E non è certo la prima volta che quel potere legislativo che il popolo ha affidato al Parlamento viene confiscato e distolto dai problemi del Paese per togliere un privato cittadino che è anche per caso il presidente del Consiglio dagli impicci con la giustizia. Ai problemi del Paese si è data finora una risposta sbrigativa considerandoli come emergenze da affidare a strutture sottratte alle leggi ordinarie. Ma la politica dell´emergenza sta crollando sotto una valanga di scandali. E la vicenda delle liste elettorali segna il fallimento clamoroso di un sistema che ha concepito le elezioni non come un modo per far emergere una classe di governo dal consenso dei cittadini ma come l´imposizione agli elettori di candidati scelti su altri e ben diversi parametri da quelli della capacità e dell´onestà nel servire gli interessi del Paese.

Un fatto è certo: comandare non è governare. Una cultura di governo deve conoscere e rispettare le regole. Questo governo le ignora a tal punto che ha visto ridicolizzato da un tribunale amministrativo per insipienza e approssimazione il recente decreto «interpretativo», cioè l´ennesimo tentativo di sanare le malefatte col solito decreto tappabuchi. Questo governo? Diciamo pure quest´uomo: l´uomo che oggi tace. Il suo silenzio è più di una confessione. La voce arrogante che ha aggredito e sbeffeggiato istituzioni e ordini fondamentali del sistema democratico, dalla magistratura alla presidenza della repubblica, oggi è assente da uno scenario dove si aggirano smarriti e balbettanti i suoi cortigiani. Spettava a lui, se fosse stato quello statista che non è, prendersi la responsabilità del pasticcio combinato dai suoi e chiedere alle altre forze politiche e al Paese di risolvere insieme il problema: che è un problema di tutti se è vero che il diritto al voto è l´incancellabile principio base della democrazia. Diritto di tutti: di ogni partito, non solo del più grosso come tende a dire la poco democratica petulanza dei portavoce della maggioranza. Ma se i diritti di tutti non sono difesi con la durezza e l´intransigenza necessaria, se si continua ad accettare una violenza eversiva sfacciata e uno spettacolo di conclamata immoralità e corruzione accettando di abbassare la protesta in un sussurro, forse non ci accorgeremo nemmeno quando dalla Repubblica del Male Minore ci avranno trasferito armi e bagagli nel territorio della confinante Repubblica della Giustizia assente.

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