loader
menu
© 2024 Eddyburg

Il decreto Milleproroghe approvato ieri dal Consiglio dei ministri ha sancito le ultime volontà 2010 del governo Berlusconi. Premiata innanzitutto la fedeltà dei due deputati del Südtiroler Volkspartei che s'erano astenuti sulla sfiducia alla Camera: contro tutti i pareri delle associazioni ambientaliste, è stata accolta la richiesta di smembrare la gestione unitaria del Parco dello Stelvio per attribuirla alle singole amministrazioni locali, assai interessate a seguire in proprio il business (specie quella di Bolzano). “Non ci hanno detto se votate la fiducia vi daremo questo o quell'altro, ma è vero che su due o tre cose ci sono state trattative con Tremonti e Calderoli" aveva ammesso la settimana scorsa il leader della Svp, Luis Dumwalder. Detto, firmato.

Secondo punto d'onore, il reintegro del 5 per mille. Da settimane il ministro Tremonti giurava che avrebbe tatto miracoli pur di riportare a quota 400 milioni la cifra 2011, ma il prodigio gli è riuscito solo in parte visto che i 300 milioni, necessari a integrare i 100 già stanziati tramite legge di stabilità, saranno in realtà 200. Altri 100 verranno destinati alla ricerca e alla cura della Sla, malattia gravemente invalidante per cui le associazioni di malati avevano chiesto attenzione e finanziamenti protestando a lungo davanti Montecitorio. Ed ecco qua la soluzione: il 5 per mi le avrà alla fine 300 milioni in tutto (anziché i 400 previsti, come negli ultimi anni, cifra che corrisponde alle reali donazioni degli italiani), mentre per la Sla ce ne saranno 100 nuovi di zecca. Magia di Natale? Margherita Miotto, capogruppo Pd nella Commissione Altari sociali, protesta: “Il gioco delle tre carte stavolta non riuscirà a Tremonti. Il governo non può decidere in nessun modo l'uso che le associazioni di volontariato faranno delle risorse che i cittadini vogliono dare al non profit". In effetti la questione è tecnicamente controversa: come dirottare le cifre assegnate tramite dichiarazione dei redditi seguendo i desiderata ministeriali? Se volessi finanziare Emergencv, perché magari sono un pacifista e non gradisco che il Milleproroghe abbia tra l'altro deciso di riconfermare i 750 milioni di euro destinati alle nostre 'missioni di pace', perché i miei soldi dovrebbero invece andare alla - pur nobilissima - causa Sla? Mentre monta la polemica, e la sensazione che la questione 5 per mille sia diventata uno spot, a farne di certo le spese stati i fondi per l'editoria (50 milioni, con severe proteste Fieg) e quelli per le emittenti locali (45 milioni, lamenta Fnsi). Soldi e agevolazioni superfast invece erano previste per Pompei: 50mila euro per il 2010 e di 900mila annui dal 2011 per procedure straordinarie di reclutamento, dinamiche semplificate per l'affidamento dei lavori, classificazione speciale per gli immobili fuori dall'area archeologica da costruire in deroga agli strumenti urbanistici nonché potenti semplificazioni per gli obblighi di imparzialità e trasparenza su eventuali sponsor. Roba manifestamente pericolosa, e quindi stralciata. Ma il ministro Bondi ieri ha avuto un altro spauracchio. 170 mila euro arrivano anche al comune di Gemonio, la città di Umberto Bossi.

Nella bozza iniziale era previsto il contributo di un euro da caricare su ogni biglietto del cinema, un obolo per finanziare gli incentivi fiscali delle imprese cinematografiche (confermati fino a giugno). Reazioni subito violente del settore, poi la smentita ufficiale ha rasserenato gli animi, tranne quella degli artisti: il ventilato reintegro del Fus, fondo unico per lo spettacolo, è saltato.

Altro duro match quello ingaggiato dal titolare dell'economia con Stefania Prestigiacomo, decisissima a far rispettare lo stop all'utilizzo delle borse di plastica dal 1 gennaio 2011. La discussione serrata ha guastato la mattinata, culminata nell'annuncio di voler lasciare il Pdl.

Contenta invece Giorgia Meloni per la decisione presa dal collega Maroni di consentire il wi-fi nei luoghi pubblici, ma sempre col vincolo di rilascio di licenza per il gestore. Tutti d'accordo nel sospendere le tasse agli alluvionati del Veneto fino al 30 giugno 2011 e niente agevolazioni per gli aquilani, che dal prossimo mese dovranno ricominciare a pagare. Posticipati anche i termini per l'autodenuncia delle case fantasma (a fine febbraio), l'attività intra moenia per i medici e gli eco-bonus per i trasportatori mentre resta il no agli aiuti per i distributori di benzina con relativo annuncio sciopero. Rimandati ancora gli studi di settore e il sistema delle riscossioni dirette degli enti locali mentre Roma Capitale dovrà stringere la cinghia: lo stipendio del commissario straordinario per il rientro del deficit arriverà dal risparmio sui compensi dei dipendenti. Escluso ma non deluso il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che ha avuto ampie rassicurazioni sulla legge speciale da lui proposta, una tassa da far pagare al turisti: “Dopo l'incontro ad Arcore, Tremonti mi ha spiegato che con il Milleproroghe è difficile, non importa, basta che arrivi presto questa norma" ha detto Renzi. Il mille e una proroga è già realtà per chi ha fede.

In un buon romanzo, Il Gattopardo, che non è tra i miei preferiti per la collocazione di chi racconta, il principe di Salina trae dalla Storia (l’Unità d’Italia, i nuovi padroni piemontesi) una morale acida e amara. Essa è di constatazione ma è anche, in sostanza, per il principe e per i finti vinti come lui è, di insegnamento o meglio di incitamento a sapersi adattare al nuovo corso. La frase è diventata proverbiale, ma in questi giorni non mi è capitato di vederla citata. Dice che tutto deve cambiare se si vuole che non cambi niente, che non cambi l’essenziale. Dice, per l’esattezza: «Perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Questa oscena saggezza riguarda l’ordinamento classista della società, i poteri concreti e basilari – che sono economici, che riguardano il privilegio economico, i modi di dominare e di agire dei gruppi dirigenti e dei loro singoli rappresentanti, i quali non vengono affatto messi in discussione, che devono restare nelle solite mani e ci restano. Nei casi più gravi, dopo una guerra mondiale e alla fine di una dittatura, si può assistere al rotolamento di qualche testa e marchio, a qualche “epurazione” (in Italia, dopo la guerra, i procedimenti di epurazione dei rappresentanti del vecchio regime colpirono solo pochi, e quasi soltanto in basso, e per breve tempo), nei casi meno gravi, come quello del nostro Paese alla fine del 2010 e in vista della fine, si presume e si spera, del ventennio berlusconiano, è molto facile prevedere che anche stavolta non cambierà niente di sostanziale. Qualcuno verrà messo in pensione anticipata, qualcun altro scivolerà da un ente a un altro e da un incarico a un altro e da una banca a un’altra, qualche gruppo politico portatore di qualche possibile novità sensata avrà per qualche tempo un’effimera importanza – anche perché protetto e cioè insidiato da media famelici – ma rischiando di non durare a lungo se vi si riverserà una schiera di politici e amministratori pronti ad adattarsi alla nuova situazione, con piccoli salti di campo, con spostamenti abili e calcolati o anche, tra i soliti pretoriani e peones, confusi e scomposti.

La pratica recente delle primarie è una buona cosa, perché almeno per il momento non sembra facilmente manipolabile, ma non basta a scalfire i blocchi consolidati dei professionisti della politica, sempre assai abili nei girotondi delle cariche e nella cura delle clientele, e se lo scontento dilaga anche nei confronti dei poteri ancora in carica, se il costo della vita aumenta e la retribuzione delle prestazioni lavorative cala e le stesse possibilità di lavoro diminuiscono a vista d’occhio per il fallimento di un modello economico che ha retto e illuso per lungo tempo, però sono ben radicati nel nostro humus culturale profondo un modo di pensare e dei modelli di comportamento che nessuno sembra aver davvero l’intenzione di scalfire.

Detto più chiaramente, se nel ’45 i fascisti erano scomparsi (ed erano stati la strabocchevole maggioranza della popolazione almeno fino all’entrata in guerra) già oggi va rapidamente scemando il numero di quelli che osano dirsi berlusconiani e che però hanno votato e idolatrato fino a pochi giorni addietro il loro affascinante super-ricco e i suoi magnifici esempi di comportamento civile e morale. Ma questo non vorrà dire che sia morto il berlusconismo e che gli italiani siano improvvisamente guariti dalla loro tendenza al conformismo e all’opportunismo. O, a sinistra, a dire A e fare B e magari a pensare C, e cioè a pensare e vivere, dicendo e credendo il contrario, da perfetti berlusconiani.

Nulla cambierà davvero? La speranza è l’ultima dea, e questa dea è bene onorarla e pregiarla sempre, nonostante le lezioni e le punizioni della realtà, è bene aggrapparsi a quel che di buono il futuro può offrirci e difendere e proteggere il poco che ci convince. Ma è anche bene guardare agli spostamenti della politica con qualche diffidenza, per non farsi fregare un’ennesima volta e perché sarà molto difficile che qualcosa possa davvero cambiare – con questa classe dirigente, con i rappresentanti che ci siamo dati, con le piccole e grandi complicità che abbiamo collezionato nei vent’anni delle vacche grasse (per alcuni grassissime).

Di tutto questo andrebbe rimproverato anche il giornalismo, che credo corresponsabile della miseria morale del nostro paese e di noi tutti, e che, su questo ci si potrebbe giurare, non cambierà negli anni a venire né il pelo né il vizio. Ma l’argomento è troppo grave per risolverlo in due battute, e bisognerà ritornarci.

Alcuni "fantasisti della Costituzione" immaginano e auspicano che, dalla situazione d'impasse politica che potrebbe nascere da un voto contraddittorio sulla fiducia al Governo espresso dalla Camera e dal Senato, si possa uscire semplicemente e immediatamente con lo scioglimento di quel ramo del Parlamento (nel nostro caso, la Camera dei Deputati) che ha votato la sfiducia. Ma la Costituzione dice tutt'altro. Purtroppo per il lettore, occorrono riferimenti tecnici. I seguenti.

Secondo l'articolo 94, "il Governo deve avere la fiducia delle due Camere". Se la fiducia viene meno, anche solo in una delle due, deve dimettersi. L'obbligo è tassativo. Solo nell'immaginazione di qualche fantasista della costituzione, si può pensare che nel Governo vi sia chi ragiona così: questa Camera, in questa composizione, mi è ostile, ma forse, in un'altra composizione, non lo sarebbe: dunque non mi dimetto (o mi dimetto solo pro forma, restando per l'intanto in carica), ne chiedo lo scioglimento e mi dimetterò effettivamente, se mai, solo dopo le nuove elezioni, nel caso in cui l'esito non mi sia favorevole. Avremmo così un Governo (non dimissionario) che resta in carica con la fiducia di una sola Camera.

Dopo un esplicito voto di sfiducia di una Camera (irrilevante è che l'altra abbia, prima o dopo, votato la fiducia), il Governo deve dunque "rassegnare" le dimissioni nella mani del Presidente della Repubblica: dimissioni che quest'ultimo non può respingere. Un Governo che restasse in carica contro la volontà del Parlamento (anche solo di una sola Camera), sostenuto dalla volontà del Presidente (quello che nella storia costituzionale si chiama "governo di lotta" antiparlamentare) sarebbe un sovvertimento della Costituzione e della democrazia. Nel solo caso di crisi di governo "extraparlamentare", cioè in assenza di un voto, il Presidente può (o forse deve) rinviare il Governo alle Camere perché si pronuncino sulla fiducia con un voto. Ma se vi è un voto è negativo, le dimissioni non possono essere respinte.

Una volta date le dimissioni, entra in gioco il Presidente della Repubblica, il cui compito non è quello di favorire o di ostacolare i disegni di questo o di quel raggruppamento politico, ma di garantire l'integrità e la funzionalità del sistema. Qui si aprono diverse possibilità. Non c'è una strada obbligata. La scelta non è dettata dall'arbitrio o dal capriccio, ma dipende dal fine costituzionale che è - si ripete - l'integrità e la funzionalità del sistema.

La prima possibilità è la formazione di un nuovo governo che disponga del sostegno della maggioranza in entrambe le Camere. "Prima possibilità" sia in senso temporale, sia in senso logico. Se esiste questa possibilità, da verificare per prima, non deve potersi passare alla seconda, lo scioglimento delle Camere. Sarebbe una prevaricazione politica anticostituzionale sciogliere Camere che siano in condizione d'esprimere maggioranze a sostegno di un governo. La legislatura ha una durata prefissata costituzionalmente, che non può essere accorciata se non quando siano le Camere stesse a darne motivo.

Solo dopo avere constatato l'impossibilità per le Camere di portare a termine la legislatura tramite la formazione d'un nuovo governo, dopo quello dimissionario - constatazione che spetta al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi politici presenti in Parlamento - si apre lo scenario dello scioglimento anticipato e delle nuove elezioni. Solo a questo punto, ove vi si arrivi e non prima, si può porre la questione dello scioglimento di entrambe le Camere o di una sola. Potrà piacere o non piacere, ma è la logica del governo parlamentare che è previsto dalla Costituzione.

Lo scioglimento "anche di una sola Camera", invece che di entrambe, è espressamente previsto dall'art. 88 della Costituzione. Anche qui, dunque, si aprono possibilità, ma anche qui la scelta tra l'una e l'altra non dipende dall'arbitrio o dal desiderio di favorire o danneggiare questa o quella forza politica: deve dipendere, ancora una volta, dall'obbiettivo di garantire imparzialmente l'integrità del sistema. Ora, lo scioglimento della sola Camera che abbia espresso la sfiducia al Governo sarebbe un atto palesemente partigiano, che discrimina tra le due Camere, cioè tra le eventuali diverse maggioranze che esistano nell'una o nell'altra. Sarebbe una sorta di abnorme sanzione costituzionale contro la Camera indocile al Governo e, all'opposto, di avallo politico della Camera docile. Ma la docilità parlamentare non è un valore costituzionale. In effetti, quando tra le due Camere si manifesti un così radicale conflitto politico, non si saprebbe quale delle due sciogliere. Il fatto che vi sia un Governo sostenuto dalla fiducia di una non è un motivo per sciogliere l'altra, se questa è in condizione di sostenerne uno diverso. Una scelta del Presidente tra questa o quella sarebbe palesemente una discriminazione, in un sistema in cui il "bicameralismo" è "paritario".

Inoltre, lo scioglimento di una sola Camera, nelle condizioni date, rischia di contraddire la finalità dello scioglimento, finalità che - si ripete ancora una volta - è l'integrità e la funzionalità del sistema. Che succederebbe se la Camera nella nuova composizione fosse disomogenea rispetto all'altra? Bisognerebbe ricorrere ancora alla scioglimento, ma di quale delle due? O forse di tutte due? Ci si potrebbe permettere di entrare in questo percorso da incubo? Ma, anche l'ipotesi fortunata che le elezioni ristabilissero l'omogeneità non sarebbe senza insolubili problemi. La nuova Camera dovrebbe durare cinque anni, ricreandosi quella sfasatura nel tempo rispetto all'altra, che la riforma costituzionale del 1963 ha inteso eliminare per prevenire i rischi d'instabilità politica - cioè di disintegrazione e d'inefficienza - insiti nell'elezione distanziata nel tempo. Oppure, si dovrebbe pensare che la Camera sciolta una prima volta anticipatamente nasca col destino segnato d'essere sciolta una seconda volta prima della scadenza naturale, in concomitanza con la scadenza dell'altra. Un'evidente aberrazione, contraria alla pari posizione costituzionale delle due Camere.

Eppure, si dirà, la possibilità dello scioglimento d'una Camera e non dell'altra è ben prevista dalla Costituzione. Si, ma è stata pensata quando era stabilita una durata diversa delle due Camere e se ne è sempre e solo fatto uso (nel 1953, nel 1958 e nel 1963; mai dopo l'equiparazione delle durate) per rendere contemporaneo il rinnovo dei due rami del Parlamento, non per il contrario. Cioè, se ne è fatto sempre uso per equipararne, non per differenziarne le durate. Nel contesto originario, lo scioglimento "anche di una sola Camera" serviva dunque alla coerenza del sistema; oggi, servirebbe all'incoerenza.

Si diceva all'inizio dei fantasisti della Costituzione. Sono coloro che fondano le loro richieste su una costituzione che, per ora, non c'è: una costituzione nella quale un capo eletto direttamente dal popolo sia autorizzato a passare sopra le prerogative degli altri organi costituzionali per assicurarsi a ogni costo la perduranza del potere. La costituzione che hanno in mente è anch'essa ad personam. La bizzarria della richiesta di scioglimento d'una sola Camera, oltretutto senza passare attraverso vere dimissioni e senza l'esplorazione delle possibilità di formare un diverso governo, si spiega con la speciale e triste condizione costituzionale materiale del nostro Paese. Siamo un Paese dove al governo c'è gente che altrove sarebbe politicamente nulla; dove il Governo è tenuto insieme da un uomo solo e dove questa persona è uno che, per ragioni di natura giudiziaria, per non perdere la protezione di cui gode non può permettersi di allontanarsene nemmeno per un po’, facendosi da parte quando le condizioni politiche generali lo richiederebbero. Come l'ostrica allo scoglio. Gran parte delle perturbazioni istituzionali di questi tempi dipende da questa semplice, abnorme e disonorevole per tutti, condizione in cui viviamo.

Diluvio e fango gli danno l’addio. L’ultimo ring che aspetta Guido Bertolaso è ancora in Campania, nella Piana del Sele dove una gravissima alluvione spazza via un ponte di acquedotto, riduce con i rubinetti a secco 400mila famiglie e spinge i diciotto sindaci a invocare «lo stato di emergenza». Il capo della Protezione civile li affronta e li gestisce per due ore, è uno di quei tavoli di cui «non sentirà la mancanza». Promette soldi, poteri di deroga e un fidato commissario straordinario del Sele. «Le decisioni saranno adottate nel Consiglio dei ministri di martedì prossimo», è il suo impegno. Poi infila un’uscita laterale dello scalo di Pontecagnano e salta su un elicottero. Beffati i giornalisti. Non vuole domande, Superman. Almeno nell’ultimo giorno. «Più sollevato che stanco», dicono.

L’uscita di scena si consuma lontano dai riflettori e sotto l’onda di un’altra emergenza. I lampi squarciano il cielo del suo rientro a Roma, direzione Palazzo Chigi per le ultime consegne al sottosegretario Gianni Letta, che sta già provvedendo a nominare il (noto) successore: Franco Gabrielli.

Sono le 19.30 quando si chiude l’ultima riunione di mister Emergenza. Il fermo immagine è su un alto funzionario che volta le spalle alla terra che lo aveva lanciato come autore del miracolo rifiuti e lo ha derubricato a sconfitto, appena qualche giorno fa, nella sua ultima stagione da sottosegretario. Nell’amaro ritorno a Napoli, un mese fa, SuperGuido ha davanti a sé nuovi, clamorosi cumuli di immondizia e le guerriglie urbane che si alternano da Terzigno a Giugliano. Sulle spalle, l’onta di un’inchiesta che lo vede indagato per corruzione e ha da sfondo la cricca che ha lucrato anche sul dolore dell’Aquila. «So di aver subito una grave ingiustizia - ci torna su di recente, Bertolaso, ormai cauto - ma confido ancora molto nella magistratura e posso solo augurarmi che il tempo ristabilirà la verità dei fatti». È stato anche l’uomo degli eventi mondiali di successo, dal Giubileo ai funerali di Papa Wojtyla. Una carriera al servizio di governi di destra e sinistra. Poi l’ultimo cammino al fianco di Berlusconi, la sua nomina a sottosegretario, il ruolo di colui che scioglieva le grane, a ogni costo. Fino a diventare il cerimoniere delle calamità. Le emergenze che diventavano palcoscenico. Come a L’Aquila. Prima che arrivasse la valanga di accuse, e i sospetti sul "sistema gelatinoso". «Ho dato l’anima in questi nove anni. E me ne vado con le pezze al culo, sereno», è il suo ultimo sfogo.

Bertolaso l’aveva immaginata in altro modo la sua ultima giornata prima della pensione. Per ieri aveva un appuntamento a Sant’Angelo a Scala, Avellino: doveva consegnare una casa, cioè un accogliente prefabbricato, ad Ernestina Cristiano, 69 anni, 23 dei quali passati in un container. «Sono qui per il rispetto di un impegno e di una promessa che ti avevo fatto». Una goccia d’affetto. Poco dopo eccolo al tavolo con i sindaci della Piana del Sele. Dall’incontro, a porte chiuse, si sente gridare qualche primo cittadino come il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca. Poi altri sindaci arringano sulla difficoltà di «garantire acqua potabile», sulla necessità di «risolvere il problema assolutamente entro Natale, altrimenti non solo l’economia agricola e le aziende della mozzarella andranno in crisi, ma interi comparti industriali e commerciali». Bertolaso assicura: sarà Edoardo Cosenza, l’assessore regionale ai Lavori pubblici, già preside del Politecnico napoletano, il commissario straordinario dell´alluvione del Sele.

E alla fine è proprio Cosenza ad offrirgli il commiato d’onore. «Il governo deve muoversi in fretta - avverte - altrimenti non potremmo farcela, occorrono 5 milioni e sono sicuro che il sottosegretario si impegnerà fino all’ultimo minuto. Però, ora consentitemi di salutare da esponente istituzionale uno dei migliori italiani che io abbia mai conosciuto». Applauso corale e lungo, che si sente dall’hangar. Applaude anche De Luca. È grato anche Ernesto Sica, il sindaco di Pontecagnano che ospitava l’incontro: è l’ex potente dimezzato, l’ex amico di scorribande a Villa Certosa, oggi inquisito nella vicenda della P3, l’uomo che avrebbe concepito il dossier diffamatorio che serviva a silurare il governatore Stefano Caldoro. Ancora fango. Non solo quello del meteo. Un destino beffardo, anche nell’ultimo giorno, sembra salutare mister Emergenza.

Il peggior nemico dell´attuale governo è il suo stesso premier. È lui il primo fattore della generale paralisi, denunciata da sindacati e produttori. E che aggrava "la fatica a crescere" del Paese come dice la Banca d´Italia. Lo stesso "federalismo fiscale" – che è diventato una specie di patto di sopravvivenza con i leghisti – è finora solo un castello di pezzi di carta: senza le cifre che contano e che non si possono determinare nell´incertezza del percorso di ripresa economica.

La legislatura oscilla tra immobilismo e confusione, come al Palio di Siena quando il mossiere non trova il momento buono per la partenza.

Vi è una causa che rende impossibile l’allineamento della sua stessa maggioranza. Ed è non solo e non tanto nella chiave giuridica di sospensione dei processi penali del premier, quanto nella recidività della sua condotta in border line con ogni norma. Quando un barlume di compromesso si intravede, è lui stesso a spegnerlo con nuovi "casi" personali. La Corte costituzionale, con tanta buona volontà, ha detto da anni che, con legge di revisione, si può tutelare l’interesse al "sereno svolgimento" delle funzioni proprie alle più alte cariche dello Stato. Ed ecco che la "serenità" dell´istituto presidenza-del-consiglio non è rotta dall’esterno per interventi giudiziari. Ma dall´interno con pratiche e giustificazioni di pubblico libertinaggio, di omofobia, di sviamento di indagini di polizia, di linguaggio blasfemo.

Non sono cose che si possono fare senza incorrere in responsabilità. Basta leggere la Costituzione al semplicissimo art. 54: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con onore". Quando, in epoche non sospette, i giuristi l´hanno interpretato, hanno scritto che "onore" è parola che riassume le regole di buon costume politico e sociale, le tradizioni di comune rispetto per le religioni, gli orientamenti sessuali, il colore della pelle degli "altri". Sono valori che ritroviamo oggi nella Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Violarli significa perciò fare atto non solo anti-italiano ma anche anti-europeo.

La mancanza del "senso dell’onore" - si scrisse ben prima del 1994 - significa la rottura di "norme di etica politica che non sono disponibili: nel senso che non possono essere lasciate al libero apprezzamento dei soggetti politici". Perché appartengono alla dignità non del singolo, che vi rinuncia, ma della Repubblica che ne è, temporaneamente, rappresentata. E si scrisse ancora che l´offesa all´"onore" repubblicano si verifica anche per "ipotesi che riguardano la sfera privata" di chi svolge in "affidamento" (come dice la Costituzione: cioè non in "proprietà") funzioni pubbliche.

Certo, ci possono essere comportamenti disonorevoli che non provocano immediate sanzioni giuridiche, ma soltanto riprovazione sociale: nazionale e internazionale. La stessa responsabilità istituzionale può incontrare difficoltà ad essere fatta valere con una sfiducia parlamentare pura e semplice, di portata politica generale. Basti pensare all´estrema fluidità della attuale situazione alle Camere (più sull’orlo di una crisi di nervi che di voti); alla perdurante pericolosità della nostra situazione economico-finanziaria.

Ma le responsabilità del premier possono essere sanzionate in altro modo. Dalle viscere della nostra esperienza costituzionale può venir fuori un altro rimedio per ristabilire il decoro nazionale. Un rimedio che, senza ricorrere a sentenze di giudici, inibisca, per censura personale all´attuale premier, la prosecuzione delle sue pubbliche funzioni. È la conventio ad excludendum, una "convenzione" politica di esclusione.

I paragoni valgono per quel che valgono gli strumenti oggettivi che richiamano: non certo per le situazioni e i protagonisti (oggi, di opposta caratura etico-politica). Ma sarebbe il riadattamento di quello strumento che per decenni impedì ai comunisti di partecipare al governo, pur prendendo una marea di voti. Il suo fondamento costituzionale era nella concezione di democrazia delle libertà che è propria della nostra Legge fondamentale. Il legame ideologico e organizzativo con l´impero sovietico negava, di per sé, che questa concezione potesse essere la stessa. Così il Pci - nonostante il suo decisivo contributo alla approvazione e alla attuazione della Costituzione repubblicana e alla tenuta degli equilibri profondi del Paese - era escluso dai governi. Un rifiuto che non si affidò, come altrove, a clausole di sbarramento elettorale né a decisioni di tribunali costituzionali. Ma fu un accordo di natura politica, di fatto.

Anche l’attuale premier ha avuto (e probabilmente conserva) una marea di voti. Anche lui vanta qualche merito politico nel suo passato. Ma oggi la incompatibilità alla presidenza del consiglio deriva semplicemente dalla abituale trasgressione del dovere costituzionale d´"onore" nei suoi compiti pubblici. Trasgressioni che provocano, a catena, sperpero di tempi politici, arresto di efficacia e di credibilità nell´azione di governo.

La confusione tra libertà e libertinaggio; la contemporanea rivendicazione di una propria privacy e l´offesa alla "privacy" degli altri (specie dei minori) con deteriori "stili di vita" propagandati come esemplari per l’intera Nazione; la palese ansia di complicità e di connivenze populiste nel banalizzare e normalizzare strappi comportamentali che nella stragrande parte di mondo non sono né banali né normali. Tutto questo non è in contrasto con una morale tipizzata o religiosa: è in contrasto con il laico modo di intendere le pubbliche funzioni nella Costituzione e nell´intera Unione europea. Non è una condanna moralistica o di costume. Ma una constatazione oggettiva. Come un macchinista ubriaco non può condurre un treno, così un premier sregolato non può guidare una Nazione. Nell´un caso e nell´altro non sono le condizioni personali che preoccupano, ma le loro ricadute sul diritto della collettività al buon governo della cosa pubblica.

Per questo, un accordo politico di tutti, o della maggior parte di tutti, troverebbe il suo fondamento costituzionale nella regola che impone un "onorevole" esercizio delle funzioni della Repubblica. Sarebbe una sfiducia "personale": ricostruttiva della soglia di decenza della politica, prima ancora che un accordo su comuni principi di azione pubblica nell’emergenza. Sarebbe, per singolare contrappasso, una intesa ad personam, per la prima volta conclusa contro di lui. Ma nel pubblico e non nel privato interesse.

Implacabili, si sono via via accumulati nel tempo (si approssima il ventennio) i materiali che ora ci presentano a tutto tondo la figura di chi ha dato il tono a questa fase: Silvio Berlusconi. Con una sorta di irresistibile perentorietà sono sempre più manifesti i tratti di una personalità in qualche modo emblematica di come oggi ci si possa affacciare sulla scena pubblica, conquistarla, segnarne i caratteri. Nasce da qui una nuova antropologia, che non è soltanto la somma e l´esibizione di antichi vizi italiani, ma è anche l´effetto di un loro impastarsi con la post-modernità del sistema mediatico, con la cancellazione della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, con la personalizzazione estrema della politica. 


Una volta di più, l´Italia come inquietante laboratorio, luogo di anticipazione e sperimentazione di modelli? È già avvenuto con Mussolini, che aveva sedotto anche le opinioni pubbliche di paesi democratici con la sua grinta. Oggi quelle opinioni pubbliche assistono sbigottite e, ahimè, divertite alla via italiana al "buon governo". Aveva ragione il vecchio Marx quando diceva che i fatti e i personaggi della storia «si presentano, per così dire, due volte: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Solo che si tratta di una farsa che ci attira il dileggio degli stranieri, e fa ridere ben poco gli italiani. E quelle parole, ricordiamolo, erano poste quasi in epigrafe di quel classico delle disavventure della democrazia che è "Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte", l´altro Bonaparte, non quel Napoleone al quale Berlusconi ebbe l´ardire di paragonarsi, annunciando per sé un luminoso futuro da legislatore. Qui l´antropologia si tinge di megalomania, quella delle autorappresentazioni come salvatore del mondo, come consigliere indispensabile d´ogni capo di stato o di governo nel quale abbia la ventura d´imbattersi.
Chi incitava a cogliere nel berlusconismo i tratti dell´innovazione, oggi dovrebbe riflettere non tanto sulle modernizzazioni autoritarie del secolo passato, ma piuttosto sul modo di questa nuovissima modernizzazione all´italiana. Senza dubbio Berlusconi seppe cogliere la Repubblica nel momento della sua massima crisi e si pose come "federatore" delle forze che potevano opporsi al centro sinistra. Ma, indubbio maestro nelle campagne elettorali, non è stato capace di trasformarsi in uomo di governo. Sì che oggi non solo la sua federazione si sbriciola, ma si ritrova con Fini come avversario e Bossi come padrone.
Il fedele Fedele Confalonieri ne invoca ora costumi morigerati e lo incita a tornare alle origini. Impresa impossibile, perché proprio l´intreccio di troppi vizi privati e di nessuna virtù pubblica è all´origine della sua fortuna.

Così, le due "modernizzazioni", quella craxiana e quella berlusconiana sembrano avere lo stesso esito - una eredità di macerie. Ma se vittima di Craxi fu solo il Partito socialista, oggi rischia d´esserlo la stessa democrazia italiana. 
In realtà, Berlusconi ha portato a compimento quella mutazione genetica intravista da Enrico Berlinguer al tempo del craxismo trionfante, e che ora s´incarna in una nuova prepotente antropologia che tende a trasfondere una autobiografia personale nell´autobiografia di una nazione. Se non ha governato, certamente Berlusconi ha trasformato il paese. Lo ha fatto con l´uso delle sue televisioni che facevano intenzionalmente regredire i telespettatori a fanciulli incolti; che li degradavano non a consumatori, ma a "consumati" dalla pubblicità (come scrive Benjamin Barber); che li consegnavano ad una informazione manipolata. Quando è "sceso in campo", aveva già pronto il suo elettorato, frutto di una trasformazione in cui già si potevano cogliere i tratti del populismo berlusconiano: l´appello diretto ai cittadini che, convocati in piazza, venivano aizzati contro il nemico o ossessivamente chiamati a rispondere "sì" a qualsiasi domanda; la riduzione delle persone a "carne da sondaggio"; le donne neppure oggetto rispettabile, ma pura carne da guardare (le premonitrici ragazze di Drive In) o di cui impadronirsi. Non l´"amore per le donne", ma le donne come suo personalissimo "logo".
Il tratto possessivo di questa antropologia politica è evidente. Il potere come esercizio di qualsiasi pulsione, con una brama proprietaria che non tollera limiti. La bulimia di volersi impadronire di tutto e lo sbalordimento che lo coglie quando accade che gli si chiede di rispettare qualche regola, di sottoporsi a qualche controllo. Proprietario di tutto. Delle istituzioni. Delle persone che lo circondano, fedeli o traditori. Della stessa verità, che modifica a suo piacimento.
Il senso dello Stato democratico è perduto, al suo posto troviamo lo Stato patrimoniale dove le risorse pubbliche sono nella piena disponibilità del sovrano. Uno Stato personale, dove vige la volontà del principe sciolto dalle leggi.

E qui si coglie un altro tratto originario di questa antropologia. Quella dell´imprenditore, per il quale la democrazia si arresta ai cancelli della fabbrica. Quella del capo azienda, che seleziona le segretarie "di bella presenza".
Il caso Ruby è la sintesi, l´epitome, la rivelazione definitiva di tutto questo. Senza freni, Berlusconi si rivolge ai corpi dello Stato come se fossero cosa propria. Si fa gestore della vita delle persone incurante d´ogni regola. Si manifesta come rappresentante di una borghesia compradora, che ritiene di potersi impadronire di tutto ciò che è alla sua portata. È qui la ragione del suo successo, la nuova antropologia dell´italiano che non trova riscontro nelle descrizioni di Giulio Bollati o nell´antitaliano di Giuseppe Prezzolini?
Ma si fa pure strada la consapevolezza che un limite sia stato varcato, che non si possa più accettare ogni prepotenza. Ecco, dunque, giungere in soccorso quelli che gli costruiscono una giustificatrice genealogia erotica di statisti, evocando Cavour e Kennedy (non mi pare sia stato ricordato il presidente della Repubblica francese Félix Faure, morto in un salone dell´Eliseo vittima delle cure di una antesignana di Monica Lewinski: lo aggiungo io, a buon peso). Altri dicono che in Italia così fan tutti, prevaricando, chiamando prefetti e questori. Attraverso la giustificazione di Berlusconi si intravede una autoassoluzione di massa. E invece no, è tempo di finirla con queste miserabili descrizioni del carattere degli italiani, e cominciare a cercare quello che un tempo si chiamava un "riscatto".

Le recenti cronache dell’Italia berlusconiana che raccontano l’ennesimo scandalo ormai generalmente etichettato «bunga bunga» mi hanno lasciato al tempo stesso indifferente e stupefatto.

L’indifferenza deriva dal fatto che conosco da trent’anni Silvio Berlusconi e sono da tempo arrivato alla conclusione che il nostro presidente del Consiglio rappresenta per molti aspetti il prototipo dei vizi italiani, latenti nel carattere nazionale insieme alle virtù che certamente non mancano. Siamo laboriosi, pazienti, adattabili, ospitali.

Ma anche furbi, vittimisti, millantatori, anarcoidi, insofferenti di regole, commedianti. Egoismo e generosità si fronteggiano e così pure trasformismo e coerenza, disprezzo delle istituzioni e sentimenti di patriottismo.

Berlusconi possiede l’indubbia e perversa capacità di aver evocato gli istinti peggiori del paese. I vizi latenti sono emersi in superficie ed hanno inquinato l’intera società nazionale ricacciando nel fondo la nostra parte migliore.

È stato messo in moto un vero e proprio processo di diseducazione di massa che dura da trent’anni avvalendosi delle moderne tecnologie della comunicazione e deturpando la mentalità delle persone e il funzionamento delle istituzioni.

Lo scandalo «bunga bunga» non è che l’ennesima conferma di questa pedagogia al rovescio. Perciò non ha ai miei occhi nulla di sorprendente.

Da quando avviò la sua attività immobiliare con denari di misteriosa provenienza, a quando con l’appoggio di Craxi costruì il suo impero televisivo ignorando le ripetute sentenze della Corte costituzionale, a quando organizzò il partito-azienda sulle ceneri della Prima Repubblica logorata dalla corruzione diventata sistema di governo.

A sua volta, su quelle ceneri, il berlusconismo è diventato sistema o regime che dir si voglia: un potere che aveva promesso di modernizzare il paese, sburocratizzarlo, far funzionare liberamente il mercato, diminuire equamente il peso fiscale, sbaraccare le confraternite e rifondare lo Stato.

Il programma era ambizioso ma fu attuato in minima parte negli otto anni di governo della destra ai quali di fatto se ne debbono aggiungere i due dell´ultimo governo Prodi durante i quali il peso dell’opposizione sul paese fu preponderante.

Ma non solo il programma rimase di fatto lettera morta, accadde di peggio. Accadde che il programma fu contraddetto. Il sistema-regime è stato tutto fuorché una modernizzazione liberale, tutto fuorché una visione coerente del bene comune.

Per dieci anni l’istituzione «governo» ha perseguito il solo scopo di difendere la persona di Berlusconi dalle misure di giustizia per i molti reati commessi da lui e dalle sue aziende prima e durante il suo ingresso in politica. Nel frattempo l’istituzione «Parlamento» è stata asservita al potere esecutivo mentre il potere giudiziario è stato quotidianamente bombardato di insulti, pressioni e minacce che si sono anche abbattute sulla Corte costituzionale, sul Csm, sulle Autorità di garanzia e sul Capo dello Stato.

Il «Capo» e i suoi vassalli hanno tentato e tentano di costruire una costituzione materiale incardinata sul presupposto che il Capo deriva la sua autorità dal voto del popolo ed è pertanto sovra-ordinato rispetto ad ogni potere di controllo e di garanzia. Questa situazione ha avuto il sostegno di quell’Italia che la diseducazione di massa aveva privato d’ogni discernimento critico e che vedeva nel Capo l’esempio da imitare e sostenere.

Il cortocircuito che questa situazione ha determinato nel carattere di una certa Italia ha fatto sì che Berlusconi esibisca i propri vizi, la propria ricchezza, la sistematica violazione delle regole istituzionali e perfino del buongusto e della buona educazione come altrettanti pregi.

Non passa giorno che non si vanti di quei comportamenti, di quella ricchezza, del numero delle sue ville, del suo amore per le donne giovani e belle, dei festini che organizza «per rilassarsi», degli insulti e delle minacce che lancia a chi non inalbera la sua bandiera. E non c’è giorno in cui quell’Italia da lui evocata e imposta non lo ricopra di applausi e non gli rinnovi la sua fiducia.

Lo scandalo «bunga bunga» è stato l’ennesima riprova di tutto questo. La magistratura sta indagando sugli aspetti tuttora oscuri di questa incredibile vicenda della quale tuttavia due punti risultano ormai chiari e ammessi dallo stesso Berlusconi: la sua telefonata al capo gabinetto del Questore di Milano nella quale chiedeva il pronto rilascio della minorenne marocchina sua amica nelle mani «sicure» di un’altra sua amica da lui fatta inserire da Formigoni nel Consiglio della Regione lombarda, e l’informazione da lui data alla Questura che la minorenne in questione era la nipote del presidente egiziano Mubarak.

Queste circostanze ormai acclarate superano ogni immaginazione e troverebbero adeguato posto nell’ultimo romanzo di Umberto Eco dove il protagonista ricalca per alcuni aspetti «mister B» per le sue capacità d’inventare il non inventabile facendolo diventare realtà.

La cosa sorprendente e stupefacente non è nella pervicacia con la quale Berlusconi resta aggrappato alla sua poltrona e neppure la solidarietà di tutto il gruppo dirigente del suo partito e della sua Corte, che fa quadrato attorno a lui ben sapendo che la sua uscita di scena sarebbe la rovina per tutti loro. La cosa sorprendente è che – sia pure con segnali di logoramento e di sfaldamento – ci sia ancora quella certa Italia il cui consenso nei suoi confronti resiste di fronte alla grottesca evidenza di quanto accade. Questo è l’aspetto sorprendente, anzi sconvolgente, che ci dà la misura del male che è stato iniettato e coltivato nelle vene della società e questo è il lascito, il solo lascito, di Silvio Berlusconi.

Sua moglie Veronica, in una lettera pubblicata un anno e mezzo fa, lo scolpì in poche righe, stigmatizzò l’uso che il marito faceva del potere e delle istituzioni, i criteri di reclutamento della «sua» classe politica imbottita di «veline» e di attricette che avevano «ceduto i loro corpi al drago» e concluse scrivendo: «Mio marito è ammalato e i suoi amici dovrebbero aiutarlo a curarsi seriamente».

Quello che sta accadendo lo dimostra e lo conferma: quest’uomo è gravemente ammalato, l´attrazione verso donne giovani e giovanissime è diventata una dipendenza che gli altera la mente e manda a pezzi i suoi freni inibitori.

Dovrebbe esser seguito da medici e da psico-terapeuti che lo aiutassero a riprendersi; ma sembra di capire che sia seguito da persone reclutate con tutt’altro criterio: quello di immortalare le apparenze della sua giovinezza in tutti i sensi. Ma così non fanno che aggravare il male.

* * *

È ormai evidente agli italiani normali e normalmente raziocinanti, il cui numero sta fortunatamente aumentando, che questa situazione non può continuare. In qualunque altro paese dell’Occidente democratico sarebbe terminata da un pezzo per decisione dello stesso interessato e del gruppo dirigente che lo attornia. Ma qui le cose vanno in un altro modo e sappiamo perché. Tra lui e i suoi accoliti, uomini e donne che siano, esistono vincoli che non si possono sciogliere perché ciascuno di loro (quelli che contano veramente) ha le sue carte sul Capo e lui ha le sue carte su tutti gli altri. Così per Previti, così per Dell’Utri, così per Scajola, così per Verdini, così per Brambilla ed altri ancora.

A questo punto tocca a tutti coloro che ritengono necessario ed urgente porre fine al «bunga bunga» politico, costituzionale e istituzionale, staccare la spina.

Presentare una mozione di sfiducia che vada da Bersani a Fini e da Casini a Di Pietro, che abbia la funzione che in Germania si chiamerebbe «sfiducia costruttiva». Esponga cioè il programma che quell’arco di forze vuole attuare subito dopo che la sfiducia sia stata approvata e che si può riassumere così:

1. Indicare al Presidente della Repubblica l’esistenza di una maggioranza alternativa che gli consenta di nominare un nuovo governo, come la Costituzione prevede.

2. Elencare alcuni temi programmatici a cominciare dal restauro costituzionale, indispensabile dopo la devastazione compiuta in questi anni e, a seguire, alcune urgenti misure economiche e sociali, un federalismo serio che rafforzi l’unità nazionale e la modernizzazione della società articolandola secondo un disegno federale, una riforma della giustizia che sia utile ai cittadini, una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di eleggere i propri rappresentanti nei vari modi con i quali quest’obiettivo può essere realizzato.

Uno sbocco di questo genere sarebbe estremamente positivo per il paese e dovrebbe essere guidato da qui alla fine naturale della legislatura da un «Mister X» che abbia le caratteristiche e la competenza necessaria al recupero dei valori etici e politici che la Costituzione contiene nella sua prima parte, ammodernandola nella seconda in conformità alle esigenze che una società moderna richiede.

Noi riteniamo che questo percorso vada intrapreso al più presto anche per riconciliare con le istituzioni un paese stanco e disilluso dal tristissimo spettacolo che è sotto gli occhi di tutti.

Non si tratta di utilizzare lo scandalo della minorenne marocchina strumentalizzandolo per fini politici. Si tratta invece di metter fine ad una rovinosa gestione governativa del «non fare» e del «malfare», che non è riuscito ad aprire un cantiere, a sostenere i consumi e il potere d’acquisto, a recuperare un centesimo di avanzo nel bilancio delle partite correnti, ad invertire il trend negativo dell’occupazione, a fare un solo passo avanti nella buona riforma della giustizia e del federalismo.

Infine a smantellare la «cricca» che da quindici anni non fa che rafforzarsi prendendo in giro i gonzi con il racconto d’una improbabile favola a lieto fine.

La storia italiana ha visto più volte analoghe «cricche» al vertice del paese. Quando ciò è accaduto, la favola è sempre terminata male o malissimo. L’esperienza dovrebbe aiutarci ad interrompere questo percorso in fondo al quale c’è inevitabilmente la rovina sociale e il degrado morale.

La Domus Aurea, uno dei capolavori architettonici e pittorici dell'età imperiale romana, aperta al pubblico nel 1999, è stata chiusa poco dopo perché infiltrazioni d'acqua hanno portato prima al crollo delle strutture murarie di una delle gallerie, poi di una delle volte, aprendo sul Colle Oppio una voragine di oltre 100 metri quadrati. La zona sopra e intorno alla Domus è stata occupata per anni da rifiuti e da una colonia di senza tetto che vi dormiva la notte. Poco diversa la situazione di Pompei: tutto il parco archeologico è fuori controllo, con pericolo di cedimenti, campo libero per cani randagi, guide e venditori abusivi. In questo desolato panorama vi sono tutti gli ingredienti non solo per descrivere lo stato di molti dei nostri beni culturali, ma per avere tutte le caratteristiche, non metaforiche, del degrado e, forse, dell'inarrestabile declino del nostro Paese. Collasso e crollo delle pubbliche istituzioni, occupate e utilizzate a fini privati, volgarità di comportamenti, decomposizione dei linguaggi e delle varie forme di comunicazione, aggressività e violenza gratuite.

Non parliamo di perduti «valori», parola troppo nobile per essere ancora usurata; parliamo piuttosto di cinismo e di disinteresse per la cosa pubblica, nell'impossibilità di sapere dove va il Paese. Parliamo di mancanza di assunzione di responsabilità, latitanza. nell'affrontare i problemi da parte dei nostri politici che sembrano «sbarcati da Marte». Forse potremmo azzardare un giudizio più radicale, data la diffusa ignoranza della classe politica anche rispetto alle più elementari nozioni di storia civile e istituzionale italiana. Ne è specchio il linguaggio: non dico del «vuoto» e «inconcludenza» dei discorsi politici cui faceva riferimento sul Corriere del 13 ottobre Giorgio Fedel in un'analisi fin troppo alta, ma delle normali espressioni linguistiche sgangherate, dialettali, approssimative, talvolta volgari. Non so quanti nostri parlamentari si sottoporrebbero, come in Francia, alla prova della dictée (in italiano dettato), né quanti supererebbero una prova scritta di italiano corrente come è stata proposta. per regolarizzare gli immigrati. Le poche persone colte (si constati il progressivo deterioramento dei profili dei parlamentari dalla Costituente ad oggi) confermano la norma; e la vuotezza, la banale ripetitività del linguaggio politico sono specchio fedele di una dilagante incultura di potere. - Aspetti non marginali della crisi delle istituzioni, l'assenteismo dei parlamentari, la lentezza degli itinerari legislativi che lascia solo spazio a canali privilegiati per provvedimenti che diventano i «nomodotti» (l'efficace neologismo è di Natalino Irti) di interessi personali o corporativi. L'assalto annuale alla diligenza, in sede di Finanziaria, ne è stato la prova lampante.

Si suole ripetere che la classe politica è l'espressione del (Paese: il che è solo parzialmente vero se ci si riferisce al rapporto numerico dei voti, ma non è esatto per la formazione del Parlamento che, come è noto, è determinata dalle scelte dei partiti, non degli elettori, come potrebbe essere in un'astratta democrazia diretta. Si dirà forse più correttamente che i cittadini subiscono i comportamenti della classe politica e tendono a ripeterli e che la stessa società civile — almeno nelle strutture pubbliche — è governata da orientamenti e scelte di persone che di quella classe sono espressione. Non a caso per questa classe di «marziani» — distratta o incolta — tutto il sistema scuola-ricerca-formazione, fondamentale per lo sviluppo civile ed economico del Paese, non ha particolare interesse, quindi il degrado della scuola pubblica non costituisce problema. Insegnanti — spesso bravissimi — fra i peggio retribuiti in Europa, scuole fatiscenti, biblioteche scolastiche chiuse, massa di precari come conseguenza dell'incapacità dei governi di assicurare regolari e periodici concorsi, progressiva diminuzione dei posti di ruolo per cosiddette esigenze di bilancio.

Non parliamo dell'università: le notizie di questi giorni — sedi semichiuse, professori e ricercatori in agitazione o in sciopero, drastica perdita di posti di ruolo — sono i segni di una progressiva crisi che negli ultimi cinque lustri è stata più o meno promossa o favorita — salvo rari casi — dai vari governi o ministri. La ricerca è umiliata da finanziamenti che collocano l'Italia nei livelli più bassi fra i Paesi industrializzati, mentre la stessa Italia occupa il primo posto nell'Unione Europea per numero di auto blu (cosiddette di servizio) e scorte relative.

Non può dunque stupire se, nelle famiglie e nei giovani, si vada sempre più nettamente manifestando — oltre al disinteresse per la politica la diffidenza perla scuola pubblica: conseguenza, come giustamente sottolineava Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere del 9 ottobre), non solo del «decadimento del nostro sistema scolastico», ma soprattutto della «repulsa del nostro passato» e della diffusa convinzione «che ormai questo Paese non ha più futuro»; potremmo aggiungere, più radicalmente, che questo avviene perché il Paese non c'è più ed è finito insieme all'interesse per il «bene comune», collante di ogni società civile. Di qui l'ostentato disprezzo delle elementari consuetudini di vita associata: i muri infestati da scritte, l'offesa agli edifici pubblici e alle opere d'arte (del resto la visione delle facciate di storici palazzi, come quello del Senato, è stata deturpata da oscene fioriere e pilastri di granito, pistoni, catene e altri simili apparati «deterrenti», almeno per il buon gusto); di qui ancora l'aggressività e la violenza gratuita, la lotta notturna fra bande di giovinastri in piazze storiche delle nostre città, le liti in sala operatoria fra medici incuranti del paziente, l'aggressione di passanti, autisti o ambulanti sotto lo sguardo indifferente dei presenti. Peraltro, quanto a violenza e volgarità, la televisione sembra essere un canale e un modello privilegiato. Il Paese non c'è più, come ormai da più parti libri e giornali tendono a sottolineare: perso il senso delle istituzioni, resta un cumulo di rovine cui fa riscontro la retorica delle «grandi opere», sempre promesse, mai realizzate, forse inutili.

Di qui la mancanza di rispetto non solo per la nostra storia ma per le più semplici forme di solidarietà, la ricerca prepotente del «particulare», personale, di branco o di cricca, l'elogio della «furbizia» nell'evadere le norme, siano esse fiscali o sociali. Del resto, da noi va in prigione solo chi ruba poco. Sembra tramontata ogni speranza in un Paese ove le persone, le istituzioni, le imprese che trovano ancorala forza di sopravvivere e di creare un futuro si muovono in un groviglio di impacci legislativi e sindacali, soprusi burocratici e invidiosa diffidenza; la fuga verso l'estero è uno dei tanti sintomi del nostro declino. Forse a questi soggetti faceva riferimento Bìll Emmott (già direttore dell'Economist) quando riponeva le sue speranze per un futuro migliore nel prevalere della «Buona Italia» sulla «Mala Italia»; «potrebbe farlo ancora, — aggiungeva — se lo si volesse abbastanza». Frattanto ci si può. consolare rileggendo Polibio e facendo propria la teoria dell'inevitabile declino delle forme di governo, quando l'interesse privato prevale sul bene comune; o forse anche riprendendo una folgorante pagina di Machiavelli: «Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcun ordine buono tale che rimangono il vituperio del mondo». L'ostentato disprezzo delle elementari consuetudini di vita associato all'aggressività e alla violenza gratuita Si dirà che i cittadini subiscono i comportamenti della classe politica e tendono a ripeterli.

Terzigno, provincia di Kabul, esibisce oggi alla luce del sole, dopo la notte della follia, le sue insondabili antinomie.

Spuntano tra le macerie i resti di un tricolore bruciato per disprezzo contro uno Stato infingardo e patrigno, mentre qualcuno, come già avvenne nella notte dei fuochi e dei sassi, intona patriottico Fratelli d'Italia e stende un altro tricolore intatto dinanzi agli agenti in tenuta antisommossa. "Ma l'inno nazionale non è servito la notte scorsa a fermare i poliziotti", lamenta una pasionaria del presidio antimonnezza. Oltre una curva, quattro ceffi lanciano taniche piene di ettolitri di petrolio nei pressi di via Cantinella, il cui nome grazioso è impresso su una nera pietra lavica, a non più di cento metri da un deposito di Gpl. Poco più in là rispetto al criminale imbrattamento un gruppetto di ragazzini delle medie generosamente si affanna, ma invano, per spostare con improbabili leve i tronchi pesanti tonnellate degli alberi abbattuti sulle strade con le seghe circolari. Una delegazione di commercianti cittadini solidarizza con l'intifada della Rotonda Panoramica, nonostante alcuni di loro abbiano avuto le vetrine dei negozi spaccate e le serrande sfregiate. Gli organizzatori della sagra della sfogliatella, pur destinata al fallimento, non si lagnano per le bellicose occupazioni serali dei compaesani che li allontanano dal consumo delle loro delizie e della penuria di visitatori da fuori.

Il panorama della Rotonda cambia molte volte di metro in metro e tra il giorno e la notte. Persino negli odori. Non c'è traccia di puzza oggi nell'aria, ma un salubre odore di resina dei pini centenari abbattuti senza pietà con imprevedibile perizia. Non c'è un solo gabbiano grasso come un maiale nel cielo, solo il rombo degli elicotteri della polizia e dei carabinieri. Stasera, insieme all'arrivo del redivivo Bertolaso, che di questa temperie rivoltosa e rovinosa porta cospicue responsabilità, è annunciato l'arrivo della Madonna, nonostante l'autentico furore provocato dalle parole di Berlusconi dopo il consiglio dei ministri, all'insegna del tout va bien madama la marchesa, e dal presidente della regione Caldoro, "'o cagnolino ai piedi del padrone, lì a sbavare vicino a 'o boss come i poveri sindachelli nostri". Il sindachello di Boscoreale Gennaro Langella, che si è dimesso dal Pdl, dice ironicamente che se in dieci giorni Berlusconi risolverà un problema irresoluto da tre lustri, andrà fatto subito santo.

La Madonna della Neve in effige dinanzi ai compattatori, i camion che nella notte scaricano le schifezze di Napoli, è annunciata da Brigida Avieno, professoressa di inglese molto british e anche molto incazzata: "La Madonna della neve fermò la colata di lava nel 1906, chissà che non riesca a fermare ora lo scempio di questa terra nostra che era generosa di prodotti straordinari e che affascinò persino Goethe". Oggi Lachryma Christi e Falanghina, i vini di questa zona, li rimandano indietro, i pomodorini del pendolo, conosciuti dai grandi chef di tutto il mondo, e le crisommole, le strepitose albicocche locali, sono ormai introvabili. "Io faccio la raccolta differenziata - racconta Brigida, reduce da un viaggio di studio a Edimburgo - poi vedo che la mia immondizia la mischiano con quella di Napoli che la differenziata non la fa, in un'unica schifosa poltiglia che dai compattatori disperde percolato per le nostre strade. Perché allora la monnezza napoletana non la buttano da loro, lì nell'area di venti ettari dell'ex Italsider, invece di avvelenare la terra delle nostre radici, dove mio nonno nacque nel 1850?" "Chissà se è perché a Napoli si vota a marzo e Berlusconi non può permettersi di perdere le elezioni nel capoluogo", interviene un'altra insegnante-politologa sotto un cartello che dice: "Berlusconi infame, vergogna d'Italia, hai perso il sud!".

Come Brigida, c'erano tante donne anziane, vecchi, giovani e bambini a lanciare di tutto contro i poveri autisti dei camion della vergogna, che fuggivano terrorizzati. Come se in un delirio di odio montante per le promesse tradite dalla destra, che qui fece una mietitura straordinaria di quasi l'80 per cento dei voti garantendo che mai si sarebbe fatta la seconda discarica nella Cava di Vitiello proprio adiacente a quella di antica proprietà camorrista di Sari, si fossero saldati buoni e cattivi, ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi e bambini, berlusconiani e antiberlusconiani, contadini e commercianti, vigili urbani e camorristi, preti e ultras degli stadi.

Eppure, questo è un popolo antropologicamente pacifico, che nei secoli ha subìto tutto senza protestare, dalla lava al dominio dei Borboni, che alla falde del Vesuvio costruirono la Reggia di Portici e le splendide ville vanvitelliane della corte. La delinquenza della droga - garantiscono - è arrivata soltanto con il Piano Napoli, dopo il terremoto del 1980, quando qui si fece l'edilizia per i napoletani del centro storico.

Ma questo popolo bonario, che rivendica la sua civiltà, portato al furore, partecipa a una violenza incontrollata, che viene dalla pancia e travalica il cervello. Senza nessuna traccia di pentimento. "E sa perché?" spiega una donna anziana del gruppo-Brigida, che confessa di aver lanciato anche lei un bullone o comunque qualcosa che la notte prima si era trovata in mano al momento dell'incedere della colonna di compattatori. "Perché per due anni abbiamo fatto comitati, fiaccolate, preghiere alla Madonna e nessuno se ne è accorto. Poi, al primo compattatore bruciato, siamo diventati un caso nazionale. Come se in questo paese dei paradossi occorresse fare i teppisti per essere ascoltati. Essere civili non serve".

I teppisti spuntano dal nulla in un attimo sui motorini, con i volti bendati e le targhe coperte, nonostante le decine di blindati di polizia e carabinieri che accerchiano tutta l'area. La collera si scarica ormai anche sui giornalisti, i cameramen, i fotografi: "Tenimmo pronte per voi 'e bombe a mano! Via di qui bastardi!". La tesi è che i media nascondono le notizie sgradite al potere, come quella di una donna incinta che avrebbe perso il figlio durante gli scontri e di alcuni manifestanti che sarebbero stati "massacrati" dalla polizia. Ma non risulta.

"Io non sono un massacratore - replica Alberto Francini, uno dei capi delle operazioni di polizia a Terzigno - e questa che vede qui intorno è per la stragrande maggioranza gente per bene che difende la propria vita e i propri beni. I violenti sono pochi professionisti che spesso lo fanno diciamo per sport, come negli stadi. Ma la situazione, vissuta da qui, sembra pericolosamente senza sbocco, se qualcuno non tira fuori una soluzione dal cilindro". Franco Matrone forse porta ai rivoltosi la notizia che esce dal cilindro. Dopo l'esposto dei sindaci, di Legambiente e del presidente del Parco del Vesuvio che chiede il sequestro cautelativo della cava per le infiltrazioni di veleno nelle falde acquifere, il procuratore di Nola ha aperto un'inchiesta. L'intifada finirà con il sequestro della cave? Scende la notte sulla Rotonda della rivolta e Bertolaso si rintana a Napoli in prefettura, dove riceve i sindaci, con le stesse promesse di due anni e mezzo fa. A Terzigno, provincia di Kabul, non ha il coraggio di salire. "Stanotte ci può dare una sola buona notizia", dice il sindaco di Trecase Gennaro Cirillo: "Che si dimette". Il carisma profuso dall'uomo del fare non abita più sotto il Vesuvio berlusconiano. La pazienza ora è finita sotto un mucchio inestinguibile di monnezza.

L’Italia è ultima dei paesi industrializzati, a pari merito con la Corea del Sud, negli aiuti ai paesi poveri. Nell’ultimo anno il governo ha addirittura ridotto a un terzo i suoi già miseri stanziamenti rispetto al 2009, quando ospitammo il G8 e B. s’impegnò ad aumentarli. Ma c’è una piccola eccezione, nella nostra proverbiale taccagneria: lo Stato caraibico di Antigua e Barbuda, che fin dal 2005 dirama comunicati grondanti gratitudine per il nostro premier-missionario: “Mr. Berlusconi si è offerto di aiutare Antigua e Barbuda a ridurre ulteriormente il loro debito nei confronti di altri Paesi del mondo. In un incontro bilaterale col premier Spencer alle Nazioni Unite, il premier italiano ha dichiarato che parlerà personalmente con altri capi di governo europei con i quali Antigua e Barbuda hanno impegni debitori, per convincerli a condonare il dovuto”. Che tesoro. Tre anni dopo, in vacanza ad Antigua, B. svelava all’inviato del Corriere i nobili motivi di quello slancio di generosità verso l’indigente popolazione del noto paradiso fiscale (in cima alla lista grigia dell’Ocse) costretta a vivere di stenti in apposite bidonville a forma di caveau e società off-shore: le nuove ville in costruzione per sé, la prole e i calciatori del Milan. “Guardi qui che spettacolo, quell'altra casa su quel promontorio è di Shevchenko. Ci sono state praticate ottime condizioni perché i nostri nomi fungono da calamita per il mercato europeo e americano. Ma la decisione finale l'ho presa per dare un sostegno al mio amico Gianni Gamondi (già architetto di villa Certosa, con relativi abusi, ndr), che è il regista di tutta la progettazione ambientale e architettonica... Lì ci sarà una grande piscina-lago, poi i negozi, la Marina, il golf da 18 buche, il ristorante. Davvero un posto da sogno. Ieri ero a pranzo col premier Baldwin Spencer, gli ho chiesto il voto per l'Expo di Milano. Abbiamo parlato anche di questo complesso, uno dei fiori all'occhiello dell'isola... La baia ha un nome strano, Nonsuch Bay, sembra napoletano, nun saccio. Per ovviare, Spencer (che parla un napoletano fluente, ndr) ha buttato lì un’idea: cambiargli il nome. Farla diventare, in mio onore, The President Bay”. Ora, grazie a Report, scopriamo che l’ex premier Lester Bird ha autorizzato B&C a cementificare il promontorio e la baia, poi B&C han regalato una bella villa anche a lui. Intanto B. si batteva come un leone per convincere l’Europa a ristrutturare i due terzi del debito estero di Antigua. E il sito di Milano Expo 2015 annunciava progetti per “l’impiego del sistema satellitare per prevenire terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche... in Bangladesh, Sudafrica e Isole Caraibiche” e “utilizzare specialità ittiche nell’industria della pesca... in Gabon, Fiji, Togo, Antigua e Barbuda”. Nel 2008 il Comune di Milano finanziava “il progetto ‘Accendi la luce nel tuo quartiere’ per l’illuminazione delle strade a St John’s”, capitale di Antigua. Iniziativa che la sindaca Lottizia Moratti, dopo un vertice con Spencer, spiegava come un passo decisivo “nella lotta alla delinquenza”. Ai Caraibi, s’intende. Il Comune di Milano finanziava pure “iniziative nei campi dell’istruzione, dello sport, delle risorse marine e costiere, dei collegamenti aerei”. Già nel 2004 il governo B. aveva investito 9 milioni di dollari (soldi nostri) per sviluppare l’ICT nei Caraibi, compresa Antigua, ma anche St. Lucia (toh). Che potrebbero persino avere la banda larga prima dell’Italia. In attesa di sapere se il fratello della compagna di Fini possieda un’off-shore a St. Lucia e un alloggio di 55 mq a Montecarlo, già sappiamo che B. ha varie ville in un paradiso fiscale, costruite da una società di prestanomi e intestate a off-shore su terreni pagati 22 milioni a chissà chi tramite l’Arner Bank indagata per riciclaggio a Milano e Palermo. Si attendono ora 90 prime pagine del Giornale e di Libero, con raccolte di firme per le dimissioni di B., più servizi speciali su Panorama, Porta a Porta, Matrix, Tg1, Tg2, Tg4, Tg5, Studio Aperto. Ma anche no.

Che cos’è oggi il ceto medio italiano? Tre elementi ci colpiscono subito. In primo luogo l’incessante crescita numerica. In base ai dati forniti da Paolo Sylos Labini, i ceti medi urbani italiani, in cui l’autore raggruppa le principali categorie dei piccoli imprenditori, degli impiegati pubblici e privati, degli artigiani e dei commercianti rappresentavano nel 1881 il 23,4% della popolazione, mentre nel 1993 toccavano il 52%. Oggi secondo le stime si attestano attorno al 60%...

Accanto a questo primo, grande fatto strutturale ve n’è un secondo: il livello sempre più alto di istruzione che li caratterizza. Nel 2001... gli italiani in possesso di un titolo di studio medio, superiore o universitario erano diventati il 63,4% per cento della popolazione. Questa rivoluzione scolastica non colma il divario esistente rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna, ma è innegabile che il paese può vantare un ceto medio sempre più esteso e istruito. Il terzo elemento strutturale riguarda la composizione interna dei ceti medi. L’Italia ha una quota di occupazione indipendente (o lavoro autonomo) molto alta (il 26,4% dell’occupazione totale nel 2006) più elevata di qualsiasi altro paese europeo. Ma attenzione: in questi anni i media e la destra politica hanno tentato con martellante insistenza di presentare il mondo del lavoro autonomo in generale e quello del piccolo imprenditore in particolare come predominante nel paese... In realtà, il lavoro autonomo è in lento declino dal 2003, costituisce solo un quarto del lavoro complessivo in Italia e meno della metà dell’occupazione dei ceti medi presi nel loro insieme. Esso cela in sé un gran numero di figure diverse – non solo quella del piccolo imprenditore dinamico ma anche il vasto e perdurante mondo dei commercianti e degli artigiani, nonché moltissimi ‘autonomi precari’, specialmente giovani, che hanno la partita Iva ma non un’ occupazione stabile...

Negli ultimi quindici anni il ceto medio si è diviso in due mondi, piuttosto diversi uno dall’altro... Chiamerei l’uno il ceto medio riflessivo, capace di bridging (cioè capacità di costruire ponti verso altri) e, in termini occupazionali, caratterizzato dal lavoro dipendente; l’altro il ceto medio concorrenziale, tendente al bonding (cioè tendenza a rafforzare i legami interni a uno specifico gruppo) e prevalentemente dedito al lavoro autonomo.

Partiamo con la prima componente, il ceto medio riflessivo. In tutta l’Europa si è sviluppato un ceto medio attivo nelle professioni socialmente utili, nel terzo settore e tra gli assistenti sociali, ma anche tra gli insegnanti e gli studenti, gli impiegati direttivi e di concetto del settore pubblico, i nuovi operatori nel mondo dell’informazione e della cultura... Ad ingrossarne le file è stato un numero sempre crescente di donne molto istruite, alla ricerca di un impiego adeguato alla loro professionalità, ma in forte difficoltà nel trovarlo, soprattutto al Sud... Questa componente dei ceti medi contemporanei in apparenza è dotata di notevole potenziale civico. Se guardiamo il caso italiano vediamo come l’opposizione al regime di Berlusconi provenga in parte considerevole da questi settori dei ceti medi. A partire dalle grandi manifestazioni della primavera e dell’autunno 2002, fino alle dimostrazioni organizzate attraverso internet dal ‘Popolo Viola’ del dicembre 2009 e di ottobre 2010, numerosi appartenenti a questi strati sociali si sono mobilitati contro il regime... Non bisogna in nessun modo esagerare le capacità civiche di questa parte dei ceti medi, né la loro consapevolezza di sé come gruppo sociale... Essi hanno sempre possibilità di scelta e, di fronte alla ripetitività delle proteste e soprattutto allo scarso incoraggiamento proveniente dal ceto politico di sinistra, perdono slancio e speranza...

Vengo ora alla seconda agglomerazione – i ceti medi – prevalentemente dediti al lavoro autonomo e fortemente orientati al mercato... Storicamente una componente di spicco di questo mondo sono sempre stati i distretti industriali italiani, apprezzati da numerosi studi internazionali e considerati anche portatori di un specifico modello di coesione sociale... Viene da chiedersi, però, quanto questo quadro sia ancora valido nel Nord Italia, di fronte alla crescita della Lega... Nella Lombardia e nel Veneto, se non nella Toscana e nell’Emilia-Romagna, si è sviluppato un modello diverso, fortemente basato sul bonding territoriale e sull’appartenenza etnica, sullo sfruttamento di una sottoclasse di immigrati, sulla scarsa presenza di equità sociale e su una forma di democrazia fortemente personalizzata e di partito. Davanti a quest’onda gli studiosi devono dirci cosa resta dell’ethos dei vecchi gloriosi distretti industriali...

Qual è l’apporto del ‘Berlusconismo’ a questo quadro generale?... La singolarità del ‘Berlusconismo’ risiede nell’uso particolare che egli ha fatto delle opportunità che il degrado democratico degli anni ‘80 gli ha offerto. In modo precoce (1984) ha potuto stabilire un controllo mediatico sulla televisione commerciale unico in Europa, senza la sorveglianza di un qualsiasi garante pubblico, e ha potuto utilizzare questa libertà per reiterare incessantemente determinati valori e stili di vita, e per trascurarne o denigrarne altri... Questo sfrenato potere mediatico è il primo elemento del Berlusconismo. Un secondo è il comportamento di Berlusconi nei confronti dello Stato e della sfera pubblica. Qui riscontriamo una forte diversità rispetto alla signora Thatcher. Quest’ultima, per quanto radicale, non mise mai in dubbio le istituzioni e le pratiche della democrazia britannica. Berlusconi, al contrario, come dimostra anche la sua famosa videocassetta del 26 gennaio 1994, quella della ‘discesa in campo’, ha sempre considerato la sfera pubblica una zona di conquista, di occupazione, di trasformazione... L’ultimo apporto del Berlusconismo... è l’esplicito appoggio a un elemento dei ceti medi – quello del lavoro autonomo e concorrenziale – a spese dell’altro, quello più riflessivo e basato sul lavoro dipendente. Berlusconi blandisce il primo con tutta una serie di carezze - agevolazioni fiscali, condoni edilizi, la depenalizzazione sostanziale del falso in bilancio... All’altro elemento dei ceti medi, il ‘Berlusconismo’ riserva solo schiaffi – lo smantellamento progressivo della scuola pubblica, il degrado senza fine delle grandi istituzioni culturali, gli stipendi in calo verticale in termini di potere d’acquisto. Così - e questo forse è la sua eredità più dannosa - Berlusconi contribuisce in modo drammatico a spaccare il ceto medio, e ad incrementare il livello di incomunicabilità tra le sue due componenti principali. Ogni tanto mi sembra che i moniti ottocenteschi di Disraeli circa il rischio di creare due Nazioni siano di scottante attualità per l’Italia contemporanea...

Questo testo è tratto dal discorso che terrà oggi a Firenze, al convegno "Società e Stato nell’era del berlusconismo".

Come siamo arrivati a questo punto? Bisogna sì partire da lontano, ma senza esagerare, senza indulgere a rivangare considerazioni plurisecolari sul "carattere" degli italiani. È più utile cercare vicino, nel passato a noi più prossimo. La tesi di fondo è gli anni Ottanta sono alle origini dell'Italia attuale, della "costruzione degli italiani" di oggi. Certo si può anche dire che l'humus profondo del berlusconismo viene da più lontano, è forse ancora più atavico del fascismo stesso, ma si ha la sensazione che alcune caratteristiche specifiche dell'Italia di oggi decollino proprio in questi anni, senza che vengano percepite e comprese dagli stessi soggetti in campo.

Riprenderei la formulazione usata da Giulio Bollati, quasi a suggello di una lunghissima diatriba sul rapporto tra fascismo e prefascismo: «Nulla è nel fascismo quod prius non fuerit nella società, nella cultura, nella politica italiana, tranne il fascismo stesso». Cosa si voleva dire? Che erano già presenti nella situazione italiana tutti gli elementi che sarebbero confluiti nel fascismo, ma che era decisiva la nascita, appunto, di un catalizzatore che li aggregasse e li fondesse, in una situazione particolarissima. Non era, quindi, lo sbocco inevitabile di tutta la precedente storia italiana. Lo stesso discorso si può fare per il rapporto tra gli anni Ottanta e il berlusconismo, che fu nel decennio successivo l'ascesa - più che mai "resistibile", da parte di avversari meno disarmati e insipienti - di una cultura diffusa, di un sistema di potere economico, politico e mediatico che avrebbero potuto essere contrastati e sconfitti. Gli anni Ottanta non vanno demonizzati, anzi bisogna confrontarsi con un decennio che probabilmente diverrà oggetto di celebrazione e di revival, di cui già si percepiscono le prime avvisaglie.

Quegli anni sono in fondo l'eterno presente in cui vivono o si illudono ancora di vivere gli italiani di oggi, sono gli anni in cui si è costruita la loro mentalità. Italiani che continuano a coltivare il rimpianto di quel decennio e lottano per la perpetuazione dello status acquisito allora nonostante il declino ormai ventennale che stiamo vivendo come paese.

Gli anni Ottanta ovviamente ci sono stati in tutto il mondo, con caratteri sostanzialmente simili sul piano politico e culturale. Hanno avuto effetti devastanti e duraturi in tutto l'Occidente, ma solo in Italia daranno luogo a un esito come quello che stiamo vivendo da molti anni: predominio di una destra populista e retriva, inabissamento della sinistra e sfarinamento del suo insediamento nel territorio.

Bisogna ricordare cosa furono quegli anni: senza dubbio anni di grande vitalità e di benessere diffuso che si traduceva in una vistosa esplosione dei consumi. Anni in cui si esprimeva il sollievo collettivo per la lenta uscita dagli anni del terrorismo. In cui sembrava prevalere, in contrasto con il decennio precedente, il trionfo del "privato". Già nella seconda metà degli anni Settanta si parla di "riflusso", si celebra l'elogio del disimpegno, i libri Adelphi scalzano i libri Einaudi nelle mode culturali. È un decennio che cerca la sua definizione in gran parte in contrasto con quello precedente. Gli anni Settanta erano stati tante cose, nel bene e nel male, che non è possibile qui rievocare. Ma si è persa a distanza la consapevolezza che quelli erano stati anche gli anni dell'eguaglianza, forse gli unici nella nostra storia. Quel decennio fu l'unico in cui la forbice tra le classi sociali si assottigliò sensibilmente nella storia repubblicana, per riprendere a crescere nel decennio successivo fino agli eccessi dell'ultimo quindicennio.

Individualismo è sicuramente una delle parole-chiavi del decennio. Già alla fine degli anni Settanta, nella particolare "modernità" italiana, vengono definendosi «modelli acquisitivi individuali» - di cui parlerà ampiamente il Censis nelle sue analisi degli anni Ottanta - che implicano «difesa dallo Stato» e «rifiuto dello Stato», che si innestano su una lunga tradizione e propensione, dando vita però a una forma di società che è nuova nella sua ideologia e nelle sue culture diffuse.

Anni di riscossa proprietaria, inaugurati dalla sconfitta operaia alla Fiat nel 1980, dalla marcia dei quarantamila (erano la metà, ma rimane questa cifra nella memoria) capi e quadri Fiat per le strade di Torino. Ci sarà progressivamente, come è stato notato, la cancellazione delle tute blu dall'immaginario diffuso degli italiani: non perché gli operai cessino di esistere, ma perché si conviene di non parlarne più. La borghesia in tutte le sue forme diviene realmente la vera classe universale. Sembra decollare una finanza popolare: molti italiani prendono a investire in Borsa, a seguire quotidianamente i listini, a scorrere ansiosamente il Televideo per informarsi delle valutazioni dei loro titoli. L'investimento nei Bot e nei Cct a interessi elevatissimi diviene fenomeno di massa e per molte categorie anche destinazione remunerativa dell'evasione fiscale.

Sono anni dell'opulenza, del vivere molto al di sopra dei propri mezzi. Chi gira in Europa in quegli anni nota subito - mettendo a confronto ciò che vede - l'esibizione da parte degli italiani di un tenore di vita che è anche ostentazione di un lusso sopra le righe. Ricchezza privata e povertà pubblica, di mezzi, di infrastrutture, di servizi e di decoro: si afferma stabilmente nell'opinione pubblica europea l'immagine dell'Italia come di «un paese povero abitato da ricchi».

Sappiamo oggi - in realtà lo si sapeva anche allora, ma si fingeva di non saperlo - che quella ricchezza si fondava su basi effimere: svalutazione competitiva della lira per trainare l'esportazione, enorme incremento del debito pubblico.

Si afferma un individualismo proprietario, che è trionfo di ceti emergenti o rampanti, frutto della enorme redistribuzione di ricchezza indotta dalla lunga svalutazione gestita dai governi del pentapartito.

Ci sono fenomeni che vengono da lontano ma si ingigantiscono in maniera abnorme. Il doppio regime fiscale, per lavoratori dipendenti e autonomi è sempre stato caratteristico del paese, ma qui abbiamo attraverso la redistribuzione del reddito l'avvio di una spoliazione del lavoro dipendente che procede costante fino ai nostri giorni, mentre si afferma una altrettanto abnorme diffusione del lavoro autonomo in tutte le sue forme che non ha paragoni in Europa.Un timido tentativo operato dal ministro Visentini nel 1984 di introdurre lo scontrino fiscale verrà vissuto da molte categorie come un sopruso.

Ci sono aree del paese, come il mitico Nord-Est, che conoscono una ricchezza improvvisa, e da cui muoverà quel paradosso culturale dell'Italia degli ultimi trent'anni che vuole più indignate contro le tasse proprio le categorie che più evadono il fisco.

L'economia sommersa, ignota alla fiscalità, viene vantata come risorsa di un paese in cui "la nave va" (l'uso del termine «sommerso» da parte di Craxi in una conferenza stampa a New York produrrà singolari equivoci presso la stampa americana, che ricondurrà l'economia underground alla mafia).

Sono gli anni del trionfo del liberismo in tutto l'Occidente, in cui la formula meno Stato più mercato diviene un mantra per tutti i politici e gli opinionisti in ascesa. Con alcune novità: per la prima volta il liberismo diviene ideologia di massa, popolare e populista. Ma soprattutto non ci troviamo di fronte alla consueta oscillazione del pendolo tra Stato e mercato che si è sempre verificata negli ultimi due secoli. Il liberismo che trionfa in questi anni è una ideologia intimamente totalitaria, che non postula né consente dubbi o alternative possibili, che si presenta come un dato di natura con la stessa ferrea necessità di una legge scientifica. Sono i presupposti di quello che diverrà il cosiddetto pensiero unico dopo il 1989, e che verrà lentamente introiettato anche dalle sue vittime. Questo trionfo si verifica in anni decisivi, che ipotecano il futuro. La costruzione europea avverrà sulla base di questi principi. I parametri di Maastricht, giustamente definiti «stupidi» nella loro rigidità da Romano Prodi negli anni a venire, verranno assunti non solo come vincolo empirico, ma anche come dogma indefettibile (e ancora oggi, contraddicendo le lezioni di un secolo e mezzo di crisi economiche, il primato del contenimento della spesa su quello degli investimenti spinge al lento suicidio l'economia europea).

Nell'immaginario collettivo si affermano parole chiave: modernità, modernizzazione, confusa ideologia che è il vero porto delle nebbie cui approda una generazione di marxisti pentiti. Successo è un'altra parola chiave del decennio, assieme a professionalità, tanto più evocata quanto più difetta. «Le parole sono importanti» diceva Nanni Moretti alla fine del decennio in Palombella rossa, dopo avere schiaffeggiato la giornalista che dava la stura ai più vieti luoghi comuni del linguaggio d'epoca. Arrogance, Égoïste sono alcune delle pubblicità più invadenti del decennio, impensabili dieci anni prima.

Naturalmente in tutto questo incide moltissimo la televisione. «Pertini non avrebbe firmato» si legge spesso nei cartelli dei manifestanti davanti al Quirinale in prossimità di promulgazioni di leggi o decreti controversi. Purtroppo Pertini firmò il decreto più incredibile nella storia repubblicana, il cosiddetto Decreto Salvapuffi disposto con urgenza da Bettino Craxi il 20 ottobre 1984, che riaccendeva le televisioni di Berlusconi spente da un pretore e sanciva di fatto l'esistenza di un monopolio nazionale nella televisione privata.

È solo in parte una "nuova" televisione. In realtà è anche un recupero della "vecchia" televisione familiare, con i suoi Mike Bongiorno, i suoi Corrado e le sue Raffaella Carrà, proprio nel momento in cui la Rai stava innovando il suo linguaggio e le sue tematiche. La concorrenza al ribasso spegnerà sul nascere questa fase di autonomia e creatività. Già nel 1985, solo cinque anni dopo l'avvio dell'avventura di Canale 5, Federico Fellini filma Ginger e Fred, con al centro la volgarità e l'invadenza del cavalier Fulvio Lombardoni nelle vite degli italiani. Il film non avrà successo, e dopo pochi anni verrà trasmesso da Rete4, massacrato dagli spot televisivi che aveva voluto denunciare.



Pubblichiamo il testo della relazione di Santomassimo al convegno «Società e stato, sfera del berlusconismo» in corso a Firenze, organizzato da Libertà e giustizia e dalla rivista storica Passato e presente. Coordinato da Paul Ginsborg e Sandra Bonsanti, tra gli interventi quelli di Gustavo Zagrebelsky, Norma Rangeri e Marco Revelli.

Le considerazioni che seguono sono sotto il segno di un celebre motto di Friedrich Schiller: «La lingua poeta e pensa per te». Nella lingua del nostro tempo, si nota la presenza sovrabbondante di un lessico che non sarà certo quello di Schiller ma è forse piuttosto quello di Berlusconi, dei suoi e dei loro mezzi di comunicazione che si esprimono come lui. E noi abbiamo cominciato a parlare come loro. Ciò può essere interpretato come un’intrusione nel nostro modo d’essere e di comunicare, oppure come un’emersione, che non crea nulla, ma solo dà voce.

In questo secondo caso, la radice sarebbe più profonda, la malattia più pervasiva. In ogni caso, l’uniformità della lingua, l’assenza di parole nuove, l’ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di decadenza senile, è tale certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma – molto più grave – è il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio kitsch, forse proprio per questo largamente diffuso e bene accolto.

«Scendere» (in politica) Qual è la via che conduce alla politica? O dal basso o dall’alto. Dal basso, vuol dire dall’interno di un’esperienza politica che, mano a mano si arricchisce e porta all’assunzione di sempre più vaste responsabilità e di più estesi poteri. Ciò equivale a una carriera politica e corrisponde all’idea della politica come professione, nel senso classico di Max Weber. La legittimità dell’aspirazione al potere politico è interna alla politica stessa, alle sue esperienze, alle sue procedure e ai suoi rituali. Oppure la via può essere la discesa, quando si fanno valere storie, competenze e virtù maturate in altre e più alte sfere. La politica non è, allora, una professione, ma una missione. La legittimità dell’aspirazione politica è esterna alla politica come professione, anzi sta proprio nel suo essere estranea, aliena. (....) Trasferita dalla salvezza delle anime alla salvezza delle società, è la sempiterna figura della missione redentrice che un «salvatore» assume su di sé, lasciando la vita beata in cui stava prima lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù. Teologia politica allo stato puro, cioè trasposizione di schemi mentali e suggestioni dalla teologia alla politica.

C’è poco da ridere o anche solo da sorridere. È cosa seria. È una forma mentale perenne e universale, ricorrente nella storia delle irruzioni in politica di tutti i salvatori che si accollano compiti provvidenziali. I «re nascosti», gli «unti del Signore» che gli uomini comuni devono riconoscere, fanno la loro apparizione nella storia dei popoli in ogni momento di difficoltà; gli «uomini della provvidenza», comunque li si denominino e quale che sia la forza provvidenziale che li manda e dalla quale sono «chiamati» (un Dio, la Storia, il Partito, la «Idea», la Libertà, il Sangue e la Terra, in generale il Bene dell’umanità) sono appena alle nostre spalle, anzi sono tra noi. La secolarizzazione del potere, premessa della democrazia, non li ha affatto scacciati. (....)

Quest’idea è pervasiva e va al di là degli schieramenti politici. L’invocazione di un «papa straniero», salvatore della Patria anch’esso, sia pure di segno provvidenziale opposto a quell’altro, è la dimostrazione che questa mentalità è penetrata profondamente ed estensivamente nel modo comune di considerare la politica e la salvezza politica. Certo, questa formula ha qualcosa d’ironico. Ma c’è da scommettere che, se un tale personaggio, dal mondo della finanza, dell’industria o dell’accademia, farà la sua apparizione, questa sarà circondata dagli stessi caratteri: anche lui «scenderà» in politica e il suo non sarà un «ingresso» ma una «discesa». Si renda o non si renda conto del significato di questo linguaggio che, ormai entrato nell’uso, gli sembrerà del tutto naturale, ovvio.

La parola-chiave è dunque «scendere». Scendere da dove? Da una vita superiore. Scendere dove? In una vita inferiore. Per quale ragione? Per rispondere a un dovere, al quale sacrificarsi. Quale dovere? Salvare un popolo avviato alla perdizione. Con quali mezzi? Mezzi politici. Dunque: «scendere in politica». Non con i mezzi corrotti del passato però, ma con mezzi inediti e con compagni d’avventura nuovi di zecca. Tutto dev’essere reso «nuovo», generato a un’altra vita. Ciò che è vecchio sa di corruzione. Per questo, si deve scendere dall’alto, dove c’è virtù, purezza, capacità di buone opere, e non dare l’impressione di salire dal basso, da dove nascono solo creature che si alimentano e vegetano nella putredine.

«Contratto» Da dove si scende, è ben detto fin dall’inizio, in quel volumetto del 2001, intitolato Una storia italiana, dove la vita del protagonista, prima della «discesa», è rappresentata come un idillio familiare, intriso di buoni sentimenti, di felicità nel suo rapporto con la natura, come una sequela di successi professionali, come una dedizione, già allora, al bene di tutti coloro che hanno a che fare con lui. Ma ora, c’è un popolo intero che ha bisogno di soccorso. Non rispondere alla chiamata, sarebbe un atto d’egoismo. Noi miscredenti pensiamo che la politica sia il luogo del potere, necessario ma pericoloso. No: è il mezzo per portare soccorso, da agevolare dunque. Resistere alla chiamata o opporsi al chiamato significa volere il male del bisognoso (...).

Questi concetti, ripetuti poi infinite volte, dovrebbero essere analizzati uno per uno. Non sono detti a caso. Ci deve essere una mente: la condizione beata di partenza, il sacrificio personale consacrato al paese infelice e bisognoso d’aiuto, il soccorso, la chiamata, l’altruismo, le armi. C’è già in nuce tutto quanto seguirà. Compreso il rito elettorale, inteso non come laico confronto tra persone e programmi, ma come una sorta di giudizio di Dio affidato al popolo ( vox populi, vox dei). Il programma elettorale diventa qualcosa di diverso da una proposta di governo. Diventa rivelazione della propria missione salvifica, «buona novella» che deve essere annunciata tramite «apostoli della libertà». L’investitura elettorale è la risposta all’annuncio. Il «contratto con gli Italiani» è cosa assai meno ingenua di quel che appare. È la sanzione dell’avvenuto riconoscimento del salvatore da parte dei salvati, da parte del suo popolo. La funzione mistica attribuita a questo «contratto», presentato come tavola fondativa d’un patto indistruttibile e sacro, è completamente al di fuori della logica della democrazia rappresentativa. Si spiega nella logica del disvelamento e del riconoscimento, della discesa dall’alto che incontra un bisogno e un’invocazione dal basso.

«Amore» Nel discorso con il quale fu dato l’annuncio (il Kérygma) della «discesa» in politica (26 gennaio 1994), un passaggio-chiave, una frasetta che sembra buttata lì, fu «L’Italia è il Paese che io amo». Così anche l’amore faceva la sua discesa nel linguaggio della politica, non senza conseguenze pervasive. Il neonato Partito Democratico, a sua volta, ritenne di non dovere essere da meno e rispose per le rime nel «Manifesto» fondativo del 2007, che inizia così: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Questo è un esempio delle conseguenze perverse dell’imitazione nel campo della comunicazione politica. Le due dichiarazioni d’amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima («L’Italia è il Paese che io amo») è una dichiarazione sovrana che proviene da uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé, oppure avrebbe potuto prescegliere un altro luogo per vivere o per discendere sulla terra dei comuni mortali. L’Italia, così, è la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l’amore che tanto gratuitamente le è stato donato. La seconda dichiarazione è tutt’altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto obbligato. Potrebbe un partito politico che, ovviamente, è dentro, non sopra il Paese al quale chiede consensi, dire: «Tu non mi piaci affatto». Questa dichiarazione, come dichiarazione d’amore, suona falsa perché è obbligata e l’amore obbligato che cosa è? Può essere un’adulazione interessata. Anche la prima, naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt’altro modo, come un dono d’amore, una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo?

E se non riama? Se l’amore non è corrisposto? Se non c’è corrispondenza a un amore così grande che è quasi un sacrificio, è perché qualcuno odia. Solo apparentemente, le parole d’amore, spostate dal campo che è loro proprio, cioè quello delle relazioni interpersonali concrete, e riversate nella campo della politica, cioè dei rapporti impersonali astratti, sono parole benevolenti. In realtà sono parole violente, destinate a provocare divisioni radicali, contrapposizioni e incomunicabilità, tra «noi che amiamo» e «voi che odiate». Valga, tra le tante possibili, questa citazione: «Noi non abbiamo in mente un’Italia come la loro, che sa solo proibire ed odiare. Noi abbiamo in mente un’altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena, prospera, un’Italia che sa anche e soprattutto amare» ( L’Italia che ho in mente, Milano, Mondadori, 2000, p. 280). Se guardiamo all’Italia di oggi, possiamo tristemente riconoscere che la spaccatura è avvenuta e non sappiamo come si potrà sanarla.

«Assolutamente» Un avverbio e un aggettivo apparentemente innocenti, da qualche tempo, condiscono i nostri discorsi e in modo così pervasivo che non ce ne accorgiamo «assolutamente» più: per l’appunto, assolutamente e assoluto. Tutto è assolutamente, tutto è assoluto. Facciamoci caso. È perfino superfluo esemplificare: tutto ciò che si fa e si dice è sotto il segno dell’assoluto. Neppure più il «sì» e il «no» si sottraggono alla dittatura dell’assoluto: «assolutamente sì», «assolutamente no». (...) Il predecessore dell’assoluto è il «categorico» d’un tempo, quando non c’era posto per le sfumature ma solo per le convinzioni granitiche, per gli «imperativi categorici» presi dalla filosofia morale e gettati nell’agone politico. Ciò che l’assoluto esclude è «il relativo». Il relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. L’assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza, assolutamente. Il relativo è proprio dei deboli, perché è insidiato dal dubbio; l’assoluto è forte perché, insieme ai dubbi, esclude la possibilità di venire incontro, di cercare accordi e stabilire compromessi con chi non condivide i nostri «assoluti». Tra assoluto e fanatico c’è parentela stretta in uno stesso mondo spirituale. (....)

«Fare-lavorare-decidere» La «discesa» dalla quale abbiamo iniziato a che cosa mira? La rigenerazione ch’essa promette in che cosa consiste? Non nella salvezza delle anime, né nell’elevazione civile della società e nemmeno nella potenza della Nazione o dello Stato, come fu per diverse «discese salvifiche» in altri tempi e luoghi. Lo dice ancora una volta il linguaggio del nostro tempo, così impregnato di aziendalismo e produttivismo. L’idea che la vita politica si basi su un legame sociale che – certamente – implica ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l’esprime. L’Italia è «l’azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare. Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, Internet, impresa. Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. La scuola, davvero, si orientava verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» dell’azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi».

La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costruito su un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi si mette di traverso, cioè «rema contro» la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l’Italia. (.....) Ora, l’ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell’efficienza l’esigenza principale: efficienza per l’efficienza. Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l’oggetto da realizzare. Viene meno il fine dell’agire. (....)

Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell’espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d’opposizione (...) Anche qui ciò che viene passato sotto silenzio è ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l’efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.

«Politicamente corretto» (....) Negli anni appena trascorsi è stata condotta vittoriosamente una battaglia semantica contro la dittatura del «politicamente corretto», accusato di conservatorismo, ipocrisia e perbenismo. I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata «sdoganata» perché qualunque parola deve essere «contestualizzata». I contesti sono infiniti. Così ogni parola è infinitamente giustificabile. Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l’ha inaugurato e anzi, all’inizio, l’ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. Tutti atteggiamenti che sembrano d’amicizia, essendo invece insulti e offensioni. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel «politicamente corretto» dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente.

Con una fantasia degna di Charles Perrault, l’autore della celebre fiaba di Pollicino, nella manovra economica di questa estate è comparso un bel grimaldello per aggirare le gare pubbliche. Il sistema è semplice: d’ora in poi i dirigenti «generali» dello Stato, per intenderci quelli più alti in grado come i capi dipartimento, potranno dichiarare «segreti» gli appalti e le forniture di beni e servizi per la pubblica amministrazione. Gli basterà fornire un motivo plausibile.

Il ricorso alla «segretazione» delle opere e dei contratti pubblici è diventata un’abitudine sempre più frequente. Ci sono ragioni di sicurezza, certamente, che riguardano per esempio gli apparati di polizia, gli 007, alcuni settori militari. Spesso, però, la scusa serve a imboccare scorciatoie immotivate. Qualcuno sa spiegare perché i lavori di ristrutturazione di un palazzetto del Senato che dovrebbe ospitare uffici degli onorevoli, come quello di Largo Toniolo, a Roma, debbano essere eseguiti con procedure «segretate»? O perché i cittadini italiani non possano conoscere i particolari del contratto per i vaccini contro l’influenza A che ci sono inutilmente costati oltre 180 milioni di euro, contratto dichiarato «segreto», come ha stigmatizzato la Corte dei conti?

La verità è che questa corsia preferenziale consente di evitare le gare ordinarie e aggirare vincoli ambientali e paesaggistici. Per non parlare dei controlli: le opere «segretate» non sono sottoposte alla vigilanza dell’authority. Non è un caso che quando quella norma era in discussione in Parlamento, l’autorità per i contratti pubblici allora presieduta da Luigi Giampaolino non mancò di manifestare la propria preoccupazione. E non perché l’idea di trasferire dalla politica all’amministrazione la responsabilità di stabilire se un certo appalto necessita della segretezza sia campata per aria. Anche se poi, com’è intuibile, iniziative del genere difficilmente verrebbero assunte senza l’avallo politico. Il fatto è che, senza uno strumento che consenta di tenere sotto controllo questa delicatissima materia, questo potrebbe amplificare a dismisura un fenomeno che ha già suscitato, per le sue degenerazioni, l’attenzione dell’Unione europea, dove si sta preparando qualche contromisura. Che però non potrà purtroppo risolvere un altro grosso problema: quello della trasparenza di leggi come questa. E qui entrano in gioco Pollicino e le sue molliche di pane.

La norma che consente ai dirigenti generali dello Stato di «segretare» i contratti pubblici è il comma 10 dell’articolo 8 del decreto legge 78/2010 convertito nella legge 122 del 30 luglio scorso. Dice così: «Al fine di rafforzare la separazione fra funzione di indirizzo politico-amministrativo e gestione amministrativa, all’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dopo la lettera d), è inserita la seguente: “d bis) – adottano i provvedimenti previsti dall’articolo 17, comma 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n.163, e successive modificazioni». Impossibile capirci qualcosa, senza seguire le molliche. Prima mollica: il decreto legislativo 165 del 2001 è quello che stabilisce i poteri dei «dirigenti di uffici dirigenziali generali». Seconda mollica: il decreto legislativo 163 del 2006 altro non è che il codice degli appalti nel quale si disciplina la «segretazione» delle opere e dei contratti. Chiaro, no? Tanto valeva «segretare» pure la legge...

Nei momenti cruciali torna sempre a vendere tappeti. Voi direte: ai suoi trucchetti da baro non ci crede più nessuno, nemmeno un ragazzino si farebbe più incantare dal gioco delle tre carte dopo averlo visto in azione migliaia di volte. Non è detto: avendo ridotto gli italiani ad un popolo ipnotizzato dall’avanspettacolo di tv e di governo è possibile che invece molti stiano lì incantati dall’affabulatore in parrucca.

La barzelletta di oggi è che Silvio B. dice che del processo breve non gli importa più. Dopo aver paralizzato l’attività legislativa e di governo per anni al solo scopo di scrivere e far scrivere leggi che lo salvassero dai processi, che gli garantissero l’immunità e l’impunità (per sé e per la cricca, che dopo la pausa estiva torna protagonista delle cronache) ora all'improvviso con una delle sue videocassette il venditore annuncia che no, invece, il processo breve non è più la sua priorità.

Come mai? Cos’è successo? Tanto per cominciare naturalmente non è vero. Lo stuolo di deputati-avvocati personali ministro di giustizia compreso sono già lì a studiare una via di fuga alternativa provvisoria: non allo snellimento del processo, richiesta sacrosanta che si otterrebbe dando più denaro e più mezzi a chi dei processi si occupa, ma alla salvaguardia del Capo sì da evitare l'odiosa eventualità dell’interdizione dai pubblici uffici, norma accessoria che come capite gli impedirebbe di fare, per dire, il presidente della Repubblica in un futuro prossimo. Lo dice, Silvio B., solo perché ha ben chiaro che votare in queste condizioni non gli conviene, ha paura del voto con la Lega che cresce Tremonti che incombe e Fini che scalpita. Dunque allestisce il tavolino con la merce e parte il baratto: io tolgo dal tavolo il processo breve, dice, in cambio voi finiani tornate tutti a Canossa, lasciate perdere Gianfranco e tornate da meche siccome sono buono vi offrirò un seggio sicuro alle prossime elezioni, vi perdonerò la scappatella. A parte la visione mercantile della politica qui ridotta a vero baratto (minacce, ricatti, promesse, tutto il repertorio) a parte lo squallore di quello che Farefuturo chiama il pifferaio di Arcore, voi ci credereste? Vi fidereste? E la dignità politica? E quella umana? Beni di lusso, di questi tempi.

Dice poi B. che la legge elettorale è perfetta: funziona benissimo. La porcata è l’ideale. Difficile, in queste condizioni, immaginare che ci sia anche una vaga possibilità di cambiarla. Conviene, lo diciamo da tempo, cominciare ad attrezzarci per una controffensiva dal basso. Le primarie di circoscrizione sono la nostra proposta. Sarebbe un inizio: contiamo chi dice di no, poi valutiamolo. La convulsa giornata di ieri, solo un assaggio dell’autunno che ci aspetta, ha fatto registrare la prevedibile contestazione di Schifani ospite della festa del Pd. Schifani è Schifani, conosciamo bene la sua biografia e il suo profilo. Una contestazione è una contestazione, un rischio che fa parte del mestiere. Forse affrontarlo senza esasperare i toni, senza farne un’emergenza democratica aiuterebbe ad occuparsi delle questioni serie, dei problemi reali, delle emergenze che davvero abbiamo davanti. Senza lasciarsi distrarre, che sono già in molti - mi pare - abbastanza distratti da quello che conta davvero.

L’inchiesta giudiziaria sulla cosiddetta P3 infligge un altro colpo al cuore del governo Berlusconi. Da ieri è indagato anche Giacomo Caliendo. Caliendo è sottosegretario alla Giustizia e va ad allungare una lista ormai molto corposa. Gli accertamenti in corso fanno attendere altre novità. Sempre ieri Marcello Dell’Utri si è rifiutato di rispondere ai magistrati, i quali hanno precisato che il suo ruolo politico nella vicenda appare di maggior rilievo rispetto a quello di Verdini. La giustizia di questo paese sta facendo il suo lavoro. Deve farlo: è importante che lo faccia perché è proprio la giustizia come ordinamento che è stata oggetto di un tentativo lungo e non privo di successi di corromperla dall’interno.

Il giudice corrotto è la figura che ha sempre evocato il delitto imperdonabile di ogni sistema politico. Nei secoli passati della storia italiana ed europea lo si raffigurava oggetto di punizioni terrificanti nelle sale di giustizia. Quanto al gruppo dei corruttori che compone la nuova Loggia, esso è per tanti aspetti rappresentativo delle reti di «faccendieri» attivate dalla sfacciata esibizione di prepotenza e di illegalità da parte del partito di maggioranza . È dal loro caso che prende oggi forma la questione dominante nel paese: che è una nuova questione morale. La moralità della politica è l’esigenza di un paese intero che ha bisogno di respirare aria pulita, di vedere rinnegato e punito il metodo della corruzione sistematica e dell’aggiramento furbesco degli ostacoli posti dall’ordinamento pubblico ai metodi «ad personam».

Questo sistema gelatinoso ha avvolto in una sola rete membri del governo, capi del partito, responsabili di amministrazioni pubbliche e pezzi rilevanti dell’ordinamento giudiziario. La loro azione si è basata su di un principio che sempre più si rivela il vero cancro del sistema che avvolge la società italiana e ne sta dissolvendo le fondamenta: la trasformazione dell’ufficio pubblico in beneficio privato, l’uso del potere politico come strumento per sfuggire alla legge, per compiere criminali operazioni di ricatto, per determinare fortune e sfortune politiche. A tutto questo era necessario il segreto. Perciò parlavano tra di loro al telefono per allusioni tanto più caute quanto più rivestivano un ruolo importante, lasciando che fossero i membri inferiori della banda a esprimersi con oscena libertà. E qui si spiega anche l’insistenza del governo sulla "legge bavaglio", un provvedimento che serve a proteggere un sistema avvelenato e prepotente, la ragnatela della corruzione. Una legge che la democrazia deve fermare.

Per valutare la gravità dei comportamenti addebitati ai signori della P3 è utile ricordare come la legge Anselmi definisca il carattere delle associazioni segrete proibite: sono «quelle che, anche all’interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale». Ora, i personaggi che tenevano le loro riunioni private e si mantenevano in costante rapporto come membri di una associazione nota solo a loro, appartenevano per l’appunto anche ad una associazione palese: quella del partito di governo. La rete che teneva insieme i nomi di Pasquale Lombardi, Flavio Carboni, Arcangelo Martino, funzionava con la decisiva partecipazione di pesci di ben altra dimensione e influenza nel partito di maggioranza e nel governo: e i loro traffici riguardavano tra l’altro i tentativi di sottrarre il capo del partito e del governo alla giustizia con leggi speciali della cui indifendibilità si era ben consapevoli: tale il caso del Lodo Alfano.

Per questo ci si incontrava nella casa romana del coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, tra uomini che ad alto e a basso livello, anzi altissimo e bassissimo livello, facevano parte di camarille di potere tutte interne allo stesso corpo politico. E lì si elaboravano reti vischiose, aggiramenti delle regole e condizionamenti di uomini e di istituzioni a favore di persone e cose del mondo berlusconiano. Ma in questa doppia appartenenza a una associazione segreta e a una notissima e dominante nel paese e nel governo si coglie una importante differenza tra P2 e P3: una differenza storica che permette di misurare quanto cammino è stato percorso da allora sulla via del disastro. La P2 di Licio Gelli operava per sovvertire gli ordinamenti del paese attraverso l’avvento al potere di un apparato di segno politico opposto. Oggi quel disegno può dirsi da tempo realizzato. Per questa ragione è facile profetizzare che nessun segnale di ritorno alla moralità della politica potrà venire da un capo di governo impegnato oggi più che mai a imbavagliare la giustizia e la stampa libera e ad accecare l’opinione pubblica.

Da quando nacque Forza Italia, nel 1994, e per diversi anni, Norberto Bobbio tornò ripetutamente sul tema della natura di questo partito. Partito personale, non tanto perché creato da una persona, ma perché posseduto, «tenuto» da una persona, che nel partito aveva investito come s’investe in un’impresa. Un partito anomalo dunque. Anomalo rispetto alla forma partito politico nelle democrazie liberali, il quale partito politico è un’associazione di persone e non l’associazione di una persona.

Anomalo rispetto ai partiti liberali. Infatti, nonostante si fosse da subito presentato come la «Casa delle libertà», nella sua natura, Forza Italia e poi Pdl si dimostrò essere tutto fuorché un partito liberale classico. Il partito liberale classico ha personalità diverse, non è una massa amorfa unita nella figura di un leader che si presenta come carismatico, è un partito di diversi leader non sempre in sintonia su tutto, molto spesso litigiosi o in disaccordo tra loro.

Anomalo infine rispetto ai partiti che hanno praticato il centralismo democratico, che insistevano cioè sulla funzione coagulante del consenso, che respingevano formalmente le correnti. Il Partito comunista italiano praticava il centralismo democratico, ma la sua unità era più la faccia rivolta all’esterno che quella rivolta all’interno, dove c’erano differenze espresse e non celate fra leader e fra gruppi. La difficile, impossibile, gestione del pluralismo interno, della libertà d’espressione delle idee, infine il riconoscimento di minoranze (di ciò che con disprezzo si chiamano «correnti»), è il segno del fatto che a sedici anni dalla sua fondazione, il Pdl (ex Fi) non è riuscito a risolvere quell’anomalia messa in luce da Bobbio.

Il Pdl è forse un esempio di cesarismo democratico, un partito del demagogo per usare una espressione classica. Ma con alcuni distinguo che meritano attenzione. Il dominio cesaristico del demagogo su una collettività di associati può riuscire spontaneo e agevole nella fase costitutiva, nel processo formativo del partito. Ma il passaggio dall’eccezionalità dell’atto fondativo alla normalità dell’azione politica ordinaria, rendono il dominio cesaristico e l’unanimismo un problema, un obiettivo di difficile attuazione.

Il rischio a questo punto è che delle due categorie che compongono l’ossimoro «cesarismo-democratico», il primo si rafforzi a spese del secondo, contro il secondo. Le vicende di questi mesi, seguite alla rivendicazione del presidente della Camera di una legittima libertà di espressione del dissenso dentro il Pdl, mostrano con molta chiarezza che l’esperimento di tenere insieme cesarismo e democrazia all’interno di un partito moderno è votato al fallimento.

La democrazia, anche nella sua più illiberale accezione, anche quando insiste più sul consenso che sull’articolazione libera del dissenso, non può sopportare comunque una gestione autoritaria della vita collettiva.

L’anomalia di allora, è quindi ancora tutta qui, irrisolta.

L'idea che il potere, in un'impresa come in uno Stato, debba avere mano libera sui dipendenti e sui cittadini è di quelle dure a morire. Il manager della Fiat Marchionne in questo è simile al capo del governo Berlusconi, entrambi stupiti e quasi delusi che i lavoratori sottoposti non capiscano, non gradiscano il ricatto del capitalismo globale: o mangiate questa minestra o saltate dalla finestra.

Appartiene alla filosofia del potere la convinzione che la legge del più forte, nel caso del mercato globale, sia anche la più giusta. Ma è un'idea di comodo, cara a chi sta al potere, smentita dalla storia, cioè dalla lotta di classe e dal progresso produttivo e sociale: se l'automazione è arrivata nelle fabbriche rivoluzionando e migliorando il modo di produrre lo si deve anche alla lotta di classe, alle rivendicazioni operaie. Marchionne è certamente un manager intelligente come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile.

Non sembra il caso di ricorrere di continuo nei rapporti di lavoro alle superiori, indiscutibili esigenze del mercato globale, cioè della facoltà che il capitale scambia per un suo inalienabile diritto: trasferire la produzione dove più gli comoda. È una pretesa inaccettabile da un paese civile: non si può compiere la prima accumulazione del capitale, la prima crescita produttiva e tecnica usando le risorse umane locali e poi trasferirsi dove al capitale conviene. Soprattutto in paesi come il nostro dove la formazione di una società industriale è avvenuta anche grazie ai privilegi e alle discipline autoritarie, anche grazie ai riarmi e ai bagni di sangue delle guerre mondiali.

Come Cesare Romiti, come altri manager e imprenditori, Marchionne è convinto che la crescita economica di un paese sia la stessa cosa della sua crescita civile e che essa sia possibile solo se si rispettano le regole fondamentali che legano il lavoro al salario e che rifiutano come utopie suicide quelle sessantottesche del più salario e meno lavoro. Ma questo rispetto delle regole non può essere una prerogativa dell'imprenditore razionale da imporre ai dipendenti immaturi che preferiscono la partita della Nazionale di calcio al lavoro, non può essere la richiesta di rinunciare nel nome della produzione ai diritti conquistati con duri sacrifici.

Anche il capitale, anche il potere capitalistico inseguono utopie come quella che sia possibile e augurabile abolire la lotta di classe. Non è così, sia che i padroni siano liberali, sia che siano comunisti come la Cina, dove i grandi balzi produttivi maoisti stanno finendo secondo logica nella ripresa degli scioperi e nelle lotte per i diritti umani.

Ha detto Marchionne: "Stiamo facendo discussioni su principi e ideologie che ormai non hanno più corrispondenza nella realtà. Parliamo di storie vecchie di trenta o quarant'anni, stiamo a parlare del padrone contro il lavoratore. Sono cose che non esistono più".

Davvero? Forse il Ceo della Fiat si sbaglia o si illude. I padroni esistono ancora, come i lavoratori che dai padroni dipendono. E per governarli occorre anche modestia, pazienza e sapersi mettere, come usa dire, nei loro panni.

Gli scandali venuti alla luce in questi giorni vedono il ritorno sulla scena di personaggi del passato accusati di pressioni indebite e tangenti. Nemmeno Pasolini aveva previsto quello che accade oggi con il livello del malaffare che va ben oltre quello raggiunto dall'Italia del pentapartitodi ALBERTO STATERA

Carlo, ingegnere che lavora all'Eni in un cefisiano losco contesto, ritorna a casa e non solo fa sesso con la mamma e anche con la nonna, ma ritrova il faccendiere Troya.

Chissà se Pier Paolo Pasolini sapeva, nello scrivere la monumentale opera incompiuta Petrolio, che al suo faccendiere aveva dato non un nome di fantasia, ma proprio il nome anagrafico di uno degli uomini che a quel tempo incarnava il non plus ultra dei faccendieri. Filippo Troja, forse con la "j" forse con la "y", da un ventennio incarnava lo spicciafaccende che al servizio della diccì programmava appalti, distribuiva tangibili benemerenze, erogava nomine e privilegi, appalti e mazzette. Mazzette, sia chiaro, da centinaia di milioni di lire, non le ricchezze stellari di milioni di euro che transitano oggigiorno prelevati da pubbliche risorse, nel mondo della neo-confraternita dei Beati Paoli, i sotterranei faccendieri di alcuni secoli fa, cui la complice benevolenza berlusconiana assegna al massimo il ruolo di "quattro pensionati sfigati".

Sfigati che nominano presidenti di Cassazione e di Corti d'Appello, che istruiscono dossier sessuali su candidati politici locali, che manovrano, nella loro pochezza etica e civile, centinaia di milioni e il potere di un regime fatto di bande, di comitati d'affari federati, senza cultura e senza onore, come intuiva Pasolini, che pure mai vide l'Italia più turpe del nuovo millennio. Un'Italia dei faccendieri ben oltre i livelli di malaffare raggiunti in quella pentapartita, quando buona parte del maltolto finiva ai partiti, anche se già allora Rino Formica proclamava: "I frati sono ricchi, la Chiesa è povera!" Se il federalismo entrante ha un obiettivo già raggiunto è quello del malaffare che si dipana regione per regione al Sud come al Nord, dove le risorse sono gestite e distribuite da comitati d'affari operanti sotto l'ombrello della cupola nazionale berlusconiana, il quale fin dall'inizio proclamò: "Andate e arricchitevi".

L'ultimo indirizzo conosciuto di Troja, inconsapevole personaggio pasoliniano ormai in là con gli anni e forse perso alla causa faccendiera dopo una comparsa nello scandalo Parmalat, è l'Alta Velocità di Lorenzo Necci. Laico, forse massone, Necci fu falciato e ucciso quando ormai era in disgrazia, dopo aver sperato di fare addirittura il presidente del Consiglio, mentre pedalava in bicicletta in un dimenticato carrugio pugliese, in compagnia del suo avvocato Paola Balducci. Ma la genia cui apparteneva Troja, sul quale eviteremo di maramaldeggiare con calembour del tipo "nomen omen", non solo non si è dissolta, ma governa l'Italia dai posti di comando, dai gabinetti ministeriali, dalle direzioni generali, dai tribunali amministrativi, dalle stanze di palazzo Chigi, dagli attici tripiani graziosamente concessi da Propaganda Fide, dal cardinale Crescenzio Sepe e dagli eccellenti faccendieri vaticani, quelli che, da Marcinkus e Calvi in poi, hanno seguito il corso inarrestabile del potere e soprattutto del denaro.

Altro che Troja. Fiumi e fiumi di denaro sporco Enimont, ex madre di tutte le tangenti ripulite dalla banca del Vaticano, ha riciclato Luigi Bisignani, tessera 203 della P2, ex giornalista dell'Ansa, definito il Ken Follett italiano per alcuni suoi romanzi gialli presentati da Andreotti in persona e da Giuliano Ferrara, che tra il suo prossimo ama soprattutto i brutti, sporchi e cattivi, quelli che vede meglio in una Repubblica senza borghesia e senza principii, fatta di laicismo devoto, di spartizioni di potere e di denari. Gigi, principe ancora in carica dei faccendieri di Stato, è l'unico che a palazzo Chigi entra nell'ufficio di Gianni Letta senza neanche bussare e che a Cesare Geronzi, neo-presidente di Generali nella poltrona che fu di Cesare Merzagora, il quale rifiutò l'ingresso nell'azionariato del palazzinaro Berlusconi, trasmette giorno per giorno gli umori della suburra di palazzo Chigi.

È lui che cerca al centralino della presidenza del Consiglio Angelo Balducci quando lo scandalo della Protezione civile è sul punto di scoppiare. E lui il tipo antropologico di cui questa Repubblica fondata sul binomio clientela e parentela non può fare a meno. Infante piduista gelliano per i trascorsi massonici del papà funzionario Pirelli in Argentina, fu postino implume dei più di novanta miliardi di lire Enimont nel torrione vaticano dello Ior. Gigi è meno ruspante del suo collega Flavio Carboni, oggi in galera per quell'incredibile pasticcio dell'eolico in Sardegna. E ben più attrezzato dei due vice-faccendieri eolici. Il geometra Pasquale Lombardi di Cervinara, l'amico di De Mita e Mancino che sussurrava in irpino stretto alle alte cariche della Magistratura e si sbatteva per la nomina di "Fofò" Marra a presidente della Corte d'appello di Milano, organizzava convegni di giudici, come ai tempi dei pretori d'assalto e dello scandalo dei petroli faceva Giancarlo Elia Valori, tuttora in servizio permanente effettivo.

L'"imprenditore" Arcangelo Martino, fece di più: presentò al premier la vergine partenopea Noemi Letizia, dopo che con il di lei genitore era finito in carcere. Al magistrato che qualche giorno fa lo interrogava ha piagnucolato: "Ma quale associazione segreta, signor giudice. Semmai un'assemblea di figure e 'mmerda!" Figure e 'mmerda, plastica definizione degli esponenti di una federazione di comitati d'affari che ci governa attraverso un manipolo di intriganti trafficoni mestatori, talvolta oggetto di mutazioni genetiche che giungono alla nuova specie, non più inedita, del ministro-faccendiere o del coordinatore nazionale-faccendiere.

Volentieri vi forniremmo in questo "Diario" un elenco di spicciafaccende nominativo, di oggi e del passato, con le loro fascinose storie, a cominciare dai mitici Gioacchino Albanese e Sergio Cusani, veterani dei tempi di Craxi. Ma, a parte questioni di spazio, in fondo l'unico che mantiene tuttora i supergalloni e li indossa con perfetta interpretazione del ruolo è proprio Gigi, l'omino furbo e scattante che sussurrava a Stammati e a Gelli, a Gardini e Andreotti, che può designare nel nuovo regime il capo dell'Eni nella persona di Paolo Scaroni, un vicentino che tanto per gradire si era fatta un po' di Tangentopoli. Ma i tempi, signora mia, non sono più quelli. Anche perché il mestiere del faccendiere è stato sottratto ai legittimi titolari da magistrati corrotti, giornalisti ben più che compiacenti con decenni di "professione", sottosegretari e ministri che il malaffare lo curano di persona. Com'è dura, signora mia, la concorrenza per i veri professionisti quando a Palazzo Chigi - Pasolini non lo prevedeva - siede in plancia il primo sommo faccendiere d'Italia.

Uno scioglilingua: non ci sarà più la “Dia” ma la “Scia”. Non la “dichiarazione di inizio attività” ma la “segnalazione certificata di inizio attività”. Ma dietro quella parolina: segnalazione al posto di dichiarazione si nasconde «il condono preventivo», l’atto finale di un «progressivo azzeramento del controllo del territorio». Se passerà l’emendamento del senatore Antonio Azzollini, relatore di maggioranza per la manovra finanziaria, per impiantare un’impresa, un centro commerciale,un laboratorio artigianale, non ci sarà bisogno di autorizzazioni, basterà l’autocertificazione e, in materia ambientale, sarà sufficiente la certificazione fornita da istituti universitari o altri organi con “capacità tecnica equipollente”.

«Con il pretesto di lottare contro una burocrazia soffocante – sostiene Vezio De Lucia, che è uno degli urbanisti più prestigiosi in Italia - in effetti si distrugge la Pubblica amministrazione in modo così radicale da intaccare la stessa democrazia. Pezzo a pezzo si annullano le regole dello stato moderno». Si potrebbe obiettare che lo spirito della legge sia rafforzare la responsabilità individuale, chi autocertifica il falso risponderà ex post. Non è così, secondo De Lucia: «Il controllo a posteriori non esiste e la prova regina è che ancora oggi si stanno smaltendo le pratiche del primo condono, quello fatto da Craxi nel 1985». E il paradosso è che ormai siamo al condono preventivo, «che non porta nemmeno soldi nelle casse dello Stato». «Penso - dice l’urbanista - che il condono in materia edilizia sia persino peggiore di quello tributario che produce un danno etico ma, dopo 20 anni, nessuno se lo ricorda, invece il condono edilizio produce una ferita che resta in eterno».

Quello di cui si discute in Senato è un capovolgimento di valori, un «colpo micidiale» al nostro ordinamento: «Siamo stati il primo stato moderno a mettere la tutela del paesaggio nei principi costituzionali» ora, invece, c’è «l’annichilimento del parere delle soprintendenze, l’edilizia comanda sull’urbanistica e il principio del silenzio-assenso pone la questione della tutela sullo stesso piano di ogni altra espressione della Pubblica amministrazione, facendo perdere ogni gerarchia di valori».

Pretesti

L’oppressione burocratica è un pretesto, «Nelle regioni più attente, in Toscana, per esempio, non ci sono lamentele degli imprenditori, le cose vanno male in quelle realtà del sud dove prevale la peggiore sub-cultura familistica che non accetta le regole». D’altra parte «è questa la mentalità del premier Berlusconi», la sua storia di imprenditore che scardina le regole e per la quale oggi ci troviamo il frutto avvelenato «di una informazione Tv che ha ucciso lo spirito critico e propagato un modo di pensare tutto privatistico». È questa mentalità che porta ad accettare «la devastazione della cultura pubblica». C’è una responsabilità «grave» del ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, la cui politica contrasta «il codice Urbani che è strumento valido e al quale, non per caso, ha lavorato, come presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, Salvatore Settis che si sta battendo con coraggio e lucidità». Ma quello che sta accadendo in Senato segue «una sfilza di provvedimenti precedenti» come l’approvazione del federalismo demaniale: «C’è qualcosa di simbolico nel fatto che subito dopo l’unità d’Italia, con l’esproprio dei beni ecclesiastici, lo Stato unitario demanializzava, creava beni pubblici. Oggi, a 150 anni, si privatizza».

È la legge di gravità che ha costretto infine Aldo Brancher a dimettersi ieri da ministro. Persino in Italia, non si può rimanere sospesi nel nulla governativo senza deleghe, senza ragioni politiche, senza giustificazioni istituzionali, appesi soltanto ad un´urgenza privata di salvaguardia dalla giustizia, per scappare al proprio giudice e all´uguaglianza costituzionale dei cittadini di fronte alla legge, secondo lo sperimentato modello Berlusconi.

Per questa ragione il Premier è nudo, dopo le dimissioni di Brancher, davanti al sopruso tentato e non consumato. Il sistema - quell´insieme di regole, soggetti, diritti e doveri che reggono la Repubblica democratica - si può forzare fino a un certo punto, non oltre. Il Cavaliere ha toccato con mano questo confine: la sconfitta è pesante proprio perché è la prova di un´impotenza e la conferma che l´arbitrio ha un limite. Quel limite democratico che passa tra la tenuta delle istituzioni responsabili e la reazione della pubblica opinione.

È un Cavaliere dimezzato quello che nomina Brancher ministro e poi lo ritira, svilendo il governo nelle porte girevoli di un triste vaudeville. Una specie di animale politico ferito perché la prepotenza istituzionale era stata finora la sua vera arma per uscire dalle difficoltà, quando si trovava nell´angolo.

Ora rimane l´angolo, le difficoltà si ingigantiscono sotto gli occhi di tutti, ma la prepotenza non funziona più. Il ruggito del "ghe pensi mi" viene ingigantito dai telegiornali, ma sembra venire dal cimitero degli elefanti, quasi una richiesta d´aiuto. Così l´annuncio roboante di pochi giorni fa, a reti unificate, si rovescia nel preannuncio di una ritirata impaurita, da governo balneare democristiano.

Che cosa resta di questo avventurismo da fine corsa? Le impronte digitali, prima di tutto, sugli annali della Repubblica. Sono le impronte tipiche di Berlusconi e testimoniano due cose: prima fra tutte, la concezione privata dello Stato, e l´uso del governo e dei ministeri come un qualsiasi appannaggio personale, di cui il Capo può disporre comunque a vantaggio di chiunque, meglio se si tratta di suoi ex dipendenti aziendali.

Ma è ancora più grave, perché rivelatrice, la seconda lezione che si deve trarre dal caso Berlusconi-Brancher. Ed è il rapporto inconfessabile che lega il nostro Presidente del Consiglio ad alcuni uomini - ieri Previti, oggi Brancher, ieri, oggi e domani Dell´Utri - che conoscono e partecipano il segreto oscuro delle origini. Fra questi personaggi e il Cavaliere il rapporto sotto pressione diventa drammatico e costringente da entrambe le parti. Un rapporto servo-padrone ma con i ruoli che si scambiano, perché è via via sempre più palese che entrambi agiscono in una dipendenza reciproca che li obbliga terribilmente, di cui non possono liberarsi: semplicemente perché ognuno sa ciò che l´altro conosce, e non c´è salvezza fuori da questo legame costrittivo, per sempre.

È una logica da setta ben più che da partito, da gruppo chiuso e non da formazione liberale, è la negazione della trasparenza e della pubblicità che dovrebbe governare la politica, anche nei momenti più difficili, anche nei conflitti. E il vero gran sacerdote, Fedele Confalonieri, ha svelato addirittura la liturgia e il rito ambrosiano separato che regola il cerchio più ristretto del berlusconismo, nel leggendario racconto all´epoca dell´arresto di Brancher per Tangentopoli: quando rivelò che lui e Berlusconi, futuro Presidente del Consiglio italiano, ogni domenica mattina si facevano condurre dall´autista attorno a San Vittore, dove giravano in Mercedes «per entrare in comunicazione spirituale con Brancher detenuto».

Bisogna domandarsi, a questo punto, qual è il grado di libertà personale e politica di un Capo di governo che sente questo tipo di obbligazioni e per rispondervi è costretto a ingannare il Capo dello Stato (che non ci sta) e a compiere atti politicamente autolesionisti per un´evidente urgenza a cui non può permettersi di sfuggire. Un premier che nomina un ministro per un incarico che non c´è e che tiene vuoto l´incarico di un altro ministro che non c´è più, costretto a dimettersi per lo scandalo - tutto ancora aperto - della Protezione Civile.

La questione, con ogni evidenza, non è giudiziaria, è tutta politica. Brancher, come gli auguriamo, può anche risultare innocente in tribunale, ma resta colpevole la commistione tra i suoi guai privati e il salvacondotto pubblico costruito insieme con il Cavaliere. La marcia indietro obbligata conferma che non ci sono più coperchi ad Arcore per le troppe pentole fabbricate da diavoli di serie B: e testimonia una debolezza politica ormai evidente nel leader, dopo la condanna di Dell´Utri, la rivolta costituzionale di Fini, gli avvertimenti istituzionali di Napolitano, l´incertezza della manovra, lo scandalo Bertolaso, l´affare Scajola, la forza separata di Tremonti, la febbre della Lega.

L´immagine che riassume tutto è il piano inclinato: sul quale rotola un governo che non governa da mesi, una leadership imponente ma immobile nel suo affanno -salvo colpi di coda-, come una balena spiaggiata. E al fondo della confusione, rotola un ministro ormai abbandonato che va a dimettersi addirittura in quel tribunale a cui voleva sfuggire, con la nomina fantasma del Cavaliere.

Nelle icone alchimistiche il re vecchio, quindi debole, divagante, gaffeur, muore e rinasce giovane: in una l´ammazzano dei rivoltosi (Stolcius de Stolcenberg, Viridarium Chymicum, 1524); nell´altra lo divora un lupo, simbolo della materia primordiale, e lui riappare poco distante, uscendo incolume dal fuoco (Maier, Scrutinium chymicum, 1687: cito da Jung). Viene in mente Re Lanterna, al secolo Silvio Berlusconi. Settantaquattro anni sono un´età ancora virile ma ogni tanto l´obiettivo crudele fissa figure che il trucco non ingentilisce, ad esempio, maschere d´ira torva, come chi, soverchiato dai fatti, non sappia dove battere la testa: il governo dorme al punto basso d´una terribile crisi economica; ministri o sottosegretari corrono pericoli penali; uno s´è dovuto dimettere; due o tre stanno sulla corda; in corte d´appello incassa sette anni il vecchio sodale, definito contiguo a poteri mafiosi, e qualora la decisione diventasse res iudicata, sarebbe arduo scindere l´impero d´Arcore da quei precedenti; nel partito l´obbedienza non è più assoluta. Sua Maestà soffre i tempi. Da via Solferino lancia allarmi la bibbia dei moderati, insolitamente disinvolta, senza toccare il monarca, beninteso. L´editoriale del 28 giugno invoca "un colpo d´ala". Chi abbia memoria buona rammenta lo scandaloso "fondo" in cui 65 anni fa l´allora direttore della Stampa, Concetto Pettinato, fustiga l´inerte governo repubblichino: "Se ci sei, batti un colpo"; frase futile nello scenario mondiale, quando mancano poche settimane all´epilogo e relativi rendiconti; da quella compagnia moribonda l´accusatore tardivo non poteva pretendere niente, sapendone l´ignobile storia.

Le cri du coeur non risuona invano. L´indomani un foglio della Casa risponde in gergo ambrosiano: "Silvio s´è rotto dei pirla" (Libero, 29 giugno); l´elegante frase appende alla gogna i dignitari pericolanti, colpevoli perché maldestri, in specie l´ultimo, appena nominato, con titoli dubbi, così incauto da opporre al tribunale lo scudo sotto cui Dominus Berlusco aspetta un terzo lodo d´immunità. Vi sarebbe molto da obiettare: gliel´aveva fornito lui, avendo buoni motivi, talmente buoni da indurlo al passo prevedibilmente rischioso, ma l´arte dei discorsi corretti vale poco nei regimi padronali, quindi chiudiamo gli occhi sull´incongruo; la colpa non è mai del padrone; nella stessa logica sghemba italiani devoti al Duce vituperavano i gerarchi invocando purghe esemplari. Che bell´animale espiatorio era Achille Starace. "Batta un colpo, dia una sterzata", allontani "qualche uomo che gli sta attorno". I fascisti li chiamavano "cambi della guardia". L´indomani, festa dei santi Pietro e Paolo, l´ex-socialista craxiano con stemma piduistico, capogruppo a Montecitorio, nell´intervista al Corriere indica la via d´uscita dalla congiuntura: riaffermare la leadership berlusconiana; con poteri rinforzati, inutile dirlo, che liberino miracolosi dinamismi. L´Uomo forte era sull´altra sponda atlantica. Da lì batte un colpo rovesciando il tavolo: gli ottimisti consideravano rinviabile all´autunno il ddl che inibisce le intercettazioni, a tutela d´una varia fioritura criminale; nossignori, sia votato dalle Camere in piena estate; gl´Italiani capiranno chi comanda.

Torniamo al "colpo d´ala"; lo invoca un cantore della "moderna democrazia liberale" ed enumera gl´inadempimenti: primo, la riforma della giustizia; come riformarla? Separando le carriere. Scaviamo sotto le parole. Poco o niente da obiettare se i riformatori postulassero due magistrature organicamente distinte, fermo restando l´identico stato giuridico; ma vogliono un pubblico ministero sui generis, "avvocato dell´accusa". Ancora parole vaghe.

L´autentico disegno trapela su due punti capitali, inscindibili: azione penale esercitabile o no, secondo lune politiche, mentre l´art. 112 Cost. la esige obbligatoria; e l´ufficio requirente convertito in lunga mano governativa negli affari de iustitia, in una catena gerarchica dall´ultimo sostituto all´onorevole Angelino Alfano. Che in Francia sia così, è argomento spudorato. Siamo in Italia, dove potere tirannico, cortigianeria, impulsi servili hanno radici profonde. In paesi meno guasti eventuali abusi sono rimediabili nel dibattito parlamentare. Qui vengono i brividi se pensiamo cos´avverrebbe appena la scelta del perseguire o no l´ipotetico reo dipenda da ministri ubbidienti: nessuno disturba i ruminanti della greppia governativa e meno che mai sfiora Sua Maestà d´Arcore; diventano superflui gli scudi; in compenso, "avvocati d´accusa" tengono d´occhio i politicamente malvisti; e poco male se il paese sprofonda, fino a quando nelle ore canoniche i Tg, lanterna magica, raccontino favole gaudiose al pubblico stupefatto, i cui voti scendono docili nell´urna.

Abbiamo capito perché la prima doléance sia una mancata "riforma delle carriere": d´un colpo incardina l´ancora malfermo regime padronale; quanto tempo era costata l´inutile ricerca d´espedienti che Lo rendano intoccabile dalla giustizia terrena. Siamo al quarto tentativo: due lodi invalidi; una legge precariamente rabberciata, su cui pende la stessa sorte; un terzo lodo in grembo alle Camere, da votare con la procedura delle revisioni costituzionali, e ogni intenditore lo vede altrettanto invalido; infine, il pensatoio blu elucubra una risuscitata immunità parlamentare, volendo salvare dalle molestie giudiziarie ottocento teste, meno gli oppositori antipatici. Sarebbe così comoda la leva penale in mano al guardasigilli, manovrabile secundum quid. Scivolando sui sottintesi, lo auspica l´organo dell´opinione moderata. Autorevole dottrina, ha due ascendenti negli anni Ottanta: Bettino Craxi, al quale Comuni memori intitolano una via; e Licio Gelli, iniquamente escluso dal culto toponomastico, come talvolta capita ai precursori; entrambi avevano qualche motivo per detestare l´azione penale obbligatoria (le cui sintassi e storia varrà la pena d´esporre, tanto importanti sono gl´interessi coinvolti).

Una sentenza ripete per la seconda volta, in appello, una verità tragica: Marcello Dell’Utri, l’uomo che ha accompagnato passo dopo passo, curva dopo curva, tutt’intera l’avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi è stato un amico dei mafiosi, l’anello di un sistema criminale, il facilitatore a Milano degli affari e delle pretese delle "famiglie" di Palermo, prima del 1980. Dei Corleonesi, almeno fino al 1992 quando cadono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Se sarà confermata dal giudizio della Cassazione, è una "verità" tragica perché ricorda quanto le fortune del Cavaliere abbiano incrociato e si siano sovrapposte agli interessi mafiosi e rammenta come – ancora oggi – possa essere vigoroso il potere di ricatto di Cosa Nostra su chi governa, sui soci di Berlusconi, forse sullo stesso capo del governo. È stupefacente, alla luce di queste osservazioni, il vivamaria che minimizza, ridimensiona, sdrammatizza l’esito della sentenza di Palermo. Come naufraghi al legno, ci si aggrappa – uno per tutti, lo spudorato Minzolini retribuito con pubblico denaro – alla riduzione della pena di due anni. Dai nove del primo grado ai sette anni di oggi, contro gli undici chiesti dall’accusa in appello. La decisione della corte conclude infatti che «dal 1992 ad oggi, il fatto (il soccorso offerto da Dell’Utri a Cosa Nostra) non sussiste». Prima di affrontare ciò che la sentenza esclude, è un obbligo esaminare ciò che i giudici confermano.

Per farlo, è utile riproporre, liberato dal groviglio di gerundi, il capo di imputazione che la sentenza approva e punisce. Sono parole così chiare e aspre che saranno accantonate per prime dal dibattito pubblico e dai ministri del culto di Arcore.

Dunque, si legge nel capo di imputazione: Marcello dell’Utri ha «concorso nelle attività dell’associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa. Mette a disposizione dell’associazione l’influenza e il potere della sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, nonché le relazioni intessute nel corso della sua attività. Partecipa in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione. Così ad esempio, partecipa personalmente a incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali vengono discusse condotte funzionali agli interessi dell’organizzazione. Intrattiene rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo del sodalizio criminale, tra i quali Stefano Bontate, Girolamo Teresi, Ignazio Pullarà, Giovanbattista Pullarà, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, Giuseppe Di Napoli, Pietro Di Napoli, Raffaele Ganci, Salvatore Riina. Provvede a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione. Pone a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Rafforza la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determina nei capi di Cosa Nostra la consapevolezza della responsabilità di Dell’Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte a influenzare – a vantaggio dell’associazione – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo di Cosa Nostra), Milano e altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982».

Di questo parliamo. Di un uomo che, a disposizione della mafia, è stato l’«intermediario» fra Cosa Nostra e il gruppo di Silvio Berlusconi. La ricostruzione che la corte approva e condivide è precisa. Marcello Dell’Utri media e risolve, di volta in volta, i conflitti nati tra le ambizioni di Cosa Nostra e la disponibilità di Berlusconi. Anzi, proprio il suo compito di "artefice delle soluzioni" gli permette di occupare un ruolo decisivo alla destra del Capo. Il ruolo di Dell’Utri va scorto e compreso nella relazione tra le pressioni scaricate dai mafiosi su Berlusconi e le mediazioni e gli incontri organizzati da Dell’Utri. Il patron di Fininvest, negli anni Settanta, è minacciato di sequestro (si tenta di rapire a mo’ di dimostrazione un suo ospite). Gli piazzano una bomba in via Rovani nel 1975 e ancora nel 1986. Negli anni Novanta tocca alla Standa subire in Sicilia, a Catania, un rosario di attentati. Ora alla sequela di pressioni, minacce, intimidazioni, che la mafia scatena per condizionare il Cavaliere, entrare in contatto con lui, "spremerlo", bisogna sovrapporre il lavorio d’ambasciatore di Dell’Utri se si vuole valutarne il ruolo. Organizza l’incontro tra Berlusconi e i "mammasantissima" Stefano Bontate e Mimmo Teresi per "rassicurarlo" dal pericolo dei sequestri. Fa assumere Vittorio Mangano ad Arcore, come fattore, per cementare «un accordo di convivenza con Cosa Nostra». Cerca di capire che cosa accade e che cosa si nasconde dietro l’attentato a via Rovani. Incontra, nel 1990, i capimafia catanesi e, soprattutto, Nitto Santapola, della combriccola il più pericoloso, per risolvere i problemi degli attentati alla Standa (dopo quell’incontro, non ci saranno più bombe). Sono fatti che oggi, dopo la sentenza di Palermo, devono dirsi documentati (il giudizio della Cassazione è soltanto di legittimità). Il quadro probatorio avrebbe potuto essere più dettagliato e significativo se Silvio Berlusconi («vittima di quelle minacce, di quelle intimidazioni, di quelle pressioni») non si fosse avvalso della facoltà di non rispondere rifiutando il suo contributo di verità per chiarire – per dire – l’assunzione e l’allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore; i suoi rapporti con Dell’Utri; gli anomali movimenti di denaro nelle casse della holding del gruppo Fininvest in coincidenza con la volontà delle famiglie di Palermo di investire a Milano.

Questa narrazione ha superato ora il vaglio del giudizio di appello (definitivo per il merito dei fatti) e legittima una prima conclusione: la sentenza di Palermo non dice soltanto di Dell’Utri, racconta anche di Berlusconi perché conferma quella sorta di "assicurazione" con la mafia che il Cavaliere sottoscrive ingaggiando e promuovendo il suo ex-segretario personale e compagno di studi. Non c’è dubbio che, con questo risultato, Berlusconi paga in Italia e nel mondo un prezzo molto imbarazzante al suo passato. Un onere non giudiziario, ma un costo decisivo, politico e d’immagine. Perché se si assemblano le tessere raccolte in questi anni emerge con sempre maggiore nitidezza, e nonostante l’ostinatissima distruzione della macchina giudiziaria, quali sono il fondo, le leve, le pratiche e i comprimari del successo di Silvio Berlusconi, dove Dell’Utri è soltanto un tassello, una delle concatenazioni oscure della sua fortuna, la più disonorevole forse, ma non la sola. Il puzzle è questo. Il Cesare di Arcore ha corrotto un testimone (Mills) che lo salva da una condanna, anzi da due (prescritto). Ha comprato un giudice (Metta) e la sentenza che gli hanno portato in dote la Mondadori (prescritto). Ha finanziato illecitamente il Psi di Bettino Craxi che gli ha scritto i televisivi decreti leggi ad personam (prescritto). Ha falsificato per 1500 miliardi i bilanci della Fininvest (prescritto). Ha manipolato i bilanci sui diritti-tv tra il 1988 e il 1992 (prescritto). Già potrebbe bastare e invece, alla sua sinistra, agisce (ancora oggi) un avvocato (Previti) condannato per la corruzione dei giudici e, alla sua destra, (ancora oggi) c’è un uomo (Dell’Utri) a disposizione degli interessi mafiosi. Questo è il triste tableau che accompagna Silvio Berlusconi e il malcostume e gli illegalismi che lo circondano – da Scajola a Lunardi, da Bertolaso a Brancher – non ne sono che un ragionato riflesso. I corifei possono anche strepitare e manipolare i fatti. La scena – tragica per il Paese – non può essere temperata o adulterata dalla riduzione della condanna di Dell’Utri di due anni né dalla conclusione della corte di Palermo di considerare l’insussistenza del concorso in associazione mafiosa "dal 1992 in poi". Bisognerà attendere le motivazioni per valutare questa decisione che colora di nero la silhouette del "Berlusconi imprenditore" liberando da ogni dubbio e responsabilità (sembra) il "Berlusconi politico". La contraddizione non può far felice il capo del governo. L’imprenditore passerà alla storia come il boss di una banda di criminali. Il politico dovrà guardarsi da un’incoerenza giudiziaria che stimolerà – più che deprimere – le inchieste sulla trattativa tra Stato e Mafia, avviata con le stragi del 1992 e accompagnata dalle bombe del 1993.

© 2024 Eddyburg