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Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è dimostrato ancora una volta l´autentico custode della Costituzione e delle regole, ovvero dell´interpretazione parlamentare - l´unica che la Carta consente - della politica italiana.

Con l´osservare che i nuovi sottosegretari appartengono a un gruppo politico che non esisteva al momento delle elezioni, e che quindi il premier devono presentarsi in Aula a riferirne, e che i presidenti delle Camere possono considerare se il Parlamento debba rilegittimare col voto di fiducia quello che a tutti gli effetti è un nuovo governo, il Capo dello Stato esercita la difesa attiva, non meramente notarile, della Costituzione.

Questa difesa consiste più o meno in questo ragionamento: se è vero che parecchi parlamentari – sulla base del principio costituzionale del mandato libero e dell´indipendenza dell´eletto dagli elettori – hanno maturato l´intimo convincimento di uscire dai partiti nelle cui liste sono stati eletti, lo possono certamente fare. Ma se danno vita a un nuovo gruppo parlamentare, e se ora questo gruppo, dopo avere ripetutamente votato insieme alla maggioranza, entra a far parte del governo, allora sarebbe necessario che il Parlamento tornasse a votare la fiducia al governo. Che è nuovo non perché ci sia stata una crisi formale, ma perché è politicamente non solo sorretto da una nuova maggioranza ma composto da nuovi partiti.

I numeri per il voto, se ci sarà, presumibilmente si troveranno: a questo, del resto, servono i Responsabili, che appunto così si guadagnano la ricompensa ministeriale. Ma il valore politico del gesto di Napolitano si misura in opposizione – implicita ma evidentissima – alla vera ideologia politica che anima Berlusconi. Che da sempre, oltre che ostile ai magistrati e alle istituzioni di garanzia come la Corte Costituzionale, è anti-parlamentare – si ricordino le proposte di ridurre il voto ai soli capigruppo, nonché la polemica ininterrotta verso "il teatrino della politica" – , ed è tutta spostata verso il rafforzamento dei poteri del governo e soprattutto verso la dimensione elettorale, interpretata in senso populistico-plebiscitario. Ovvero, per Berlusconi le elezioni sono il momento della verità in cui un popolo – spaccato in due dalla sua propaganda – si conta, e conferisce al Capo eletto (l´Unto del Signore) tutto il potere, facendone il dominus delle istituzioni. Cioè non solo del governo – come se si fosse eletto direttamente il premier – ma anche del Parlamento: che in quest´ottica è uno spazio subalterno, di servizio, perché la "vera" espressione della sovranità non sono per Berlusconi i parlamentari ma colui che – come individuo singolo – è risultato vincitore delle elezioni. Il Parlamento, semmai, è una "spoglia", un insieme di "posti" con cui, a spese dei contribuenti, si compensano i seguaci (che una legge pessima vuole siano blindati in una lista decisa dal Capo).

Nessuna centralità del Parlamento, quindi, ma solo supremazia (sovranità) del leader vittorioso. La centralità del Parlamento – di cui l´indipendenza dell´eletto è il cuore, poiché quella indipendenza significa che il baricentro della politica è nell´istituzione-Parlamento e non negli interessi sociali in grado di far eleggere questo o quello – è sempre stata respinta da Berlusconi, che alla mediazione preferisce l´immediatezza, alla discussione la decisione. Solo in un caso quella centralità – con l´indipendenza del parlamentare che ne consegue – è stata difesa: cioè nella fase in cui si è proceduto al "recupero" dei parlamentari per ricostituire la maggioranza, vulnerata dall´uscita di Fini e dei suoi. A quel punto, a giustificare i molti movimenti di molti parlamentari, si è fatto sentire un debole accenno al mandato libero e ai valori istituzionalmente fondanti del liberalismo: accenno incongruo, spaesato, strumentale al libero dispiegarsi della vera idea e della vera pratica del potere che ha Berlusconi: il dominio incontrastato, con ogni mezzo, per affermare la propria volontà. Si diceva "mandato libero" e si doveva intendere "compravendita" – almeno altro con le cariche nel governo che ora, a riprova, vengono elargite – .

Il capo dello Stato ha quindi fatto quello che era in suo potere per ridare dignità alle istituzioni, ovvero per ribadire che il Parlamento non è nella disponibilità del premier, non è lo spazio delle sue scorribande indisturbate; che è soggetto e non oggetto della politica. Che quindi il Parlamento deve prendersi la responsabilità dei responsabili, non limitarsi a registrarne l´ascesa agli ambìti posti di sottosegretari. Vedremo se altri si prenderanno a cuore quella dignità, che è anche la dignità di tutti i cittadini.

Non è sviluppo , è saccheggio del territorio, è cancellazione di ogni regola tesa a salvaguardare gli interessi collettivi, è resa alle lobby più arretrate e conservatrici che intendono lo sviluppo come arricchimento attraverso la rapina e il saccheggio dei beni pubblici.

E’ violazione clamorosa della Costituzione e della legge 400/88 che disciplina il contenuto dei decreti legge.

Questo decreto potrebbe essere condensato in un unico articolo che reciti : ciascuno, del territorio, può fare ciò che vuole e per questo non può essere perseguito dalla legge.

È bene ricordare che il Presidente della Repubblica, in occasione della promulgazione dell'ultimo decreto milleproroghe, aveva ricordato la necessità di ricondurre "la decretazione d'urgenza nell'ambito proprio di una fonte normativa straordinaria ed eccezionale, nel rispetto dell'equilibrio tra i poteri e delle competenze del Parlamento, organo titolare in via ordinaria della funzione legislativa". Un decreto come questo, che già in partenza si presenta disomogeneo e invasivo delle competenze delle regioni e dei comuni, ben si presta in sede emendativa a ulteriori strappi: a cominciare dai tentativi di predisporre un nuovo e più ampio condono edilizio che non è certo da cassandre prevedere.

Numerosi sono i profili di incostituzionalità del decreto-legge adottato due giorni fa che prevede misure diverse finalizzate allo sviluppo e al rilancio dell’economia. Il decreto contiene disposizioni in una infinità di materie disomogenee e ciascun articolo sostanzialmente è un autonomo provvedimento e si rivela un vero disastro, non solo per il territorio ma anche per la regolarità degli appalti, per il demanio costiero, i beni culturali, il paesaggio.

Con un espediente , la istituzione di una Autority, cerca di far saltare i referendum sull'acqua, depotenziandone la portata presso l'opinione pubblica.

Privatizza le spiagge, trasformando la concessione in diritto di superficie x 90 anni e rendendo trasferibili fra privati gli immobili costruiti su di esse, senza alcun coordinamento con la normativa demaniale vigente.

Si tratta di elementi palesi che non possono sfuggire ad un vaglio rigoroso rispetto ai parametri stabiliti dalla Costituzione e dalla legge 400 del 1988. Questa legge, all'articolo 15, afferma che i provvedimenti provvisori con forza di legge ordinaria devono contenere misure di immediata applicazione (ed in questo caso molte norme fanno rinvio a successivi adempimenti, talvolta persino configurandosi in una sorta di nuova delega, laddove demandano ad altra autorità il dettaglio dei criteri cui attenersi ) e il loro contenuto deve essere omogeneo. La eterogeneità del decreto risulta evidente perfino dalla titolazione dei suoi articoli.

Il decreto è adottato in clamorosa violazione dell'articolo 77, comma 2, della Costituzione che prevede che il Governo possa emanare decreti solo in casi straordinari di necessità ed urgenza e un provvedimento del genere non può in alcun modo averli.

Modifica il codice degli appalti in modo sostanziale intervenendo sulla qualificazione delle imprese, sulla trattativa privata, sulle riserve, sui requisiti per la partecipazione agli appalti delle imprese che abbiano commesso reati, modifica le norme che regolano l'attività urbanistica e quella edilizia, modifica la VAS per la quale eravamo stati oggetto di condanna in sede europea.

Interviene sul codice del Paesaggio, priva le Soprintendenze di compiti istruttori e di vigilanza..

Con la riproposizione del c.d. piano casa riduce a random i tempi istruttori, elimina le responsabilità derivanti da false dichiarazioni, consente l'indiscriminato aumento delle cubature, fatti salvi, bontà sua i centri storici ecc. rafforza il criminogeno silenzio assenso, fonte di ogni corruttela.

Qui si interviene sull'ordinamento, si vendono i beni demaniali quali gli arenili appartenenti al demanio pubblico, si modificano in un colpo solo, il codice degli appalti e quello sull’edilizia, si estende la SCIA agli interventi edilizi precedentemente compiuti con DIA , si applica il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali anche per il mutamento delle destinazioni d’uso complementari , si sanano per legge alcune violazioni delle misure progettuali (apparentemente innocuo pretesto cui agganciare magari un vero condono nella legge di conversione) , si interviene con profonde modifiche sul codice dei beni culturali, si vara un piano triennale per l’immissione in ruolo del personale della scuola e molto altro ancora.

Ci si chiede dove siano l'urgenza e la straordinaria necessità e urgenza, in una materia per la quale sono già stati indetti 2 referendum - quelli sull’acqua - per la istituzione dell’Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua, organismo indipendente a tutela dei cittadini utenti, con compiti di regolazione del mercato nel settore delle acque pubbliche e di gestione del servizio pubblico locale idrico integrato, oppure nelle misure volte a garantire l’operatività del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco o ancora nelle norme sulla privacy condite con agevolazioni di tipo fiscale oppure nelle altre disposizioni volte al rilancio delle attività imprenditoriali, al settore del credito e , fra le tante, anche quelle riguardanti un fondo per il merito nel sistema universitario o infine nelle possibilità di saccheggio del territorio contenute nelle norme che disciplinano il settore e i distretti turistici e molto altro ancora.

Per non parlare delle norme, particolarmente preoccupanti , contenute nell’articolo 6 “liberazione delle imprese dalla pubblica manomorta : la pubblica amministrazione” evidentemente uscite dalla penna dell’energumeno nemico della pubblica amministrazione.

Per ciscuna di questi argomenti, del tutto disomogenei fra loro sarebbe necessario eventualmente ricorrere ad un disegno di legge ordinaria per regolare ciascuna delle diverse materie.

Si viola, inoltre, l’articolo 9 della Costituzione che, al comma 2, prevede che la Repubblica italiana tuteli il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Infatti, l’articolo 5 del decreto-legge prevedendo la costituzione del diritto di superficie , e cioè la vendita, delle coste italiane, un bene paesaggistico tutelato, consentendo l’edificazione in quelle ancora rimaste libere, non prevedere neppure verifiche sul permanere in capo allo Stato dei doveri di tutela di beni culturali.

Inoltre, non sono previste procedure per la salvaguardia del territorio e le soprintendenze sono di fatto esautorate da ogni compito di tutela. Il piano casa, con i suoi ampliamenti indiscriminati , consente di intervenire senza controlli in tutto quel patrimonio edilizio storico o di interesse srtorico testimoniale che costituisce, con il suo tessuto, il paesaggio italiano, caratterizzando lo straordinaria qualità del territorio dell’Italia intera, fa prevalere gli interessi alla realizzazione di opere nei confronti di interessi costituzionalmente tutelati dall’art. 9 della Carta.

La terza violazione riguarda l’articolo 117, commi 3 e 4, della Costituzione in relazione alle competenze regionali in materia di governo del territorio e di urbanistica; in particolare, l’articolo 4 del decreto viola le competenze proprie delle amministrazioni regionali perché si introduce una legislazione di dettaglio in materia che il titolo V non consegna alla potestà esclusiva dello Stato.

Il silenzio assenso infine interviene in una materia di competenza dei Comuni, sottraendo alla loro valutazione la approvazione degli interventi edilizi.

La norma infine che ripristina e attiva il c.d. piano casa , consentendo l’ampliamento indiscriminato di ogni immobile esistente confligge con le attribuzioni dei Comuni in materia di pianificazione del territorio investendo così una materia che è di loro totale competenza.

Ricordiamo infatti che spetta ai Comuni il compito di gestire le trasformazioni urbanistiche ed edilizie del loro territorio: cosa c’entra in queste attività lo Stato? Si potrebbe continuare ancora a lungo, a proposito della violazione delle stesse regole fondamentali di corretta legislazione, sistematicamente ignorate, intervenendo parossisticamente su argomenti più volte mutati in brevissimo arco di tempo, accrescendo la confusione normativa e la difficoltà, per la P.A. di comprendere quale sia la norma applicabile ai casi concreti.

Non è nostra intenzione tirare per la giacca il Capo dello Stato ma questo decreto assomma in sé tutte le violazioni della Costituzione e i tutti i principi della legge 400/88, tanto da poter addirittura essere definito irricevibile e essere restituito al mittente.

Regole zero, speculatori a mille, di Tommaso De Berlanga
Albergo in spiaggia? Si può, di Paolo Berdini
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Cgil/ Vincenzo Scudiere, «Così non si aiuta lo sviluppo, ma il business selvaggio»
Abusivismo/ Rosania, ex sindaco di Eboli,«È un assalto al territorio In Campania sarà una giungla»

«Sviluppo: L’uso dei beni pubblici per ricavare reddito privato, le agevolazioni finanziarie nei distretti turistici, l’autocertificazione per le opere».

Regole zero, speculatori a mille
di Tommaso De Berlanga

Nel provvedimento del governo concessioni ai privati, edilizia senza freni e meno controlli fiscali. Liberismo da furbetti del quartierino Una lunga serie di misure per favorire le microimprese e l'elusione fiscale. Un decreto di classe

Difficile, per un profano, aggirarsi nella marea di punti discontinui che costituiscono il «decreto per lo sviluppo» varato dal governo sotto la supervisione di Tremonti e con l'imprimatur della Lega. Ma un filo conduttore, a ben guardare, lo si trova.

Si tratta, a prima vista, di un decreto che incentiva l'evasione fiscale e cerca di dividere, favorendole, le piccole da quelle grandi; e punta anche ad impedire la la «saldatura» moderata tra quest'ultima (impegnata da oggi, a Bergamo, per l'Assise; a porte chiuse sia per «la politica» che per la stampa) e l'opposizione. A cominciare da quella Cgil che ancora oggi ha chiesto all'associazione degli imprenditori di «voltare pagina».

È vero - come notavano diversi economisti oggi - che questo decreto cerca di «far nozze con i fichi secchi». Molte disposizioni fanno sorridere, altre indignare, specie lo si vuol prendere sul serio come una «frustata» in grado di far decollare la «crescita».

Persino il «liberismo», in questo testo, diventa roba da «furbetti del quartierino» dalla vista ridotta. Prendiamo la parte relativa alle spiagge demaniali, per esempio, date in concessione per ben 90 anni (invece del massimo 6 previsto dalla Ue e tramite normali «aste pubbliche»). Sono certamente un regalo ai privati che toglie un «bene comune» dalla disponibilità della popolazione; ma al tempo stesso inchioda una «risorsa turistica» a un modello di imprenditoria minore senza investimenti, innovazione, ambizione. Anche dal punto di vista capitalistico, insomma, è una stupidata che blocca lo sviluppo invece di stimolarlo. Il fatto di prevedere, in aggiunta, una «burocrazia zero» nei distretti turistico-alberghieri (con «agevolazioni in materia amministrativa, finanziaria») può diventare persino un incentivo per gli investimenti di origine più che sospetta. Ma questa è la cifra politica di questo governo, questa la «cultura imprenditoriale» del suo blocco sociale: l'uso dei beni pubblici per ricavarne reddito privato è il massimo che riesca a concepire.

Una verifica certa viene dalle incredibili «sanzioni» agli ispettori fiscali troppo zelanti nel controllo delle imprese. Vi immaginate gli inviati dell'Agenzia delle entrate (o la guardia di Finanza) che entrano nell'ufficio amministrazione di un'azienda? Una misura come questa può produrre effetti devastanti dal lato delle entrate dello stato - smentendo quindi Tremonti e Berlusconi, che assicurano si tratti di una manovra a «costo zero» - perché si traduce in un incoraggiamento governativo all'evasione fiscale.

È chiaro che una minore sorveglianza fiscale sia ben vista da tutti i tipi di impresa, ma diventa «vitale» - segna il confine tra sopravvivenza e fallimento a breve termine - soprattutto per quella piccola o microscopica «azienda» che proprio non riesce a stare «sul mercato» se deve anche rispettare le regole del mercato. Qui si può vedere con quanta pesantezza la «cultura» della Lega condiziona la decretazione in materia economica. Ma si tratta di una misura cerca anche di parlare a quella fetta di «popolo delle partite Iva» (chi ha visto Annozero l'altro ieri lo avrà capito) che in realtà è lavoro dipendente, ma deve ricorrere al commercialista per curare «l'amministrazione», rimanendo alla fine strozzato tra ritardi o mancati pagamenti delle tasse, interessi di mora, contravvenzioni, ecc.

Questo governo, invece, pensa di risolvere il problema bloccando l'azione investigativa del fisco (invece, casomai, di rimodularla a seconda della tipologia d'impresa). Incoraggia a disattendere controlli e regole, spinge all'evasione e all'elusione fiscale. Ma tutto questo produce un aumento di redditi privati per alcune limitate figure sociali, ma quasi nulla sul piano del prodotto interno lordo (Pil). Quindi ben poca «crescita e sviluppo» .

Una conferma viene dalle sbrigative norme per la costruzione di opere pubbliche: «estensione del campo di applicazione della finanza di progetto», «estensione del criterio di autocertificazione per la dimostrazione dei requisiti richiesti» e relativi «controlli essenzialmente ex post» (quando i soldi saranno stati incassati), «innalzamento dei limiti di importo per l'affidamento di appalti mediante procedura negoziata» (senza concorso pubblico, insomma). Altre perle potrebbero uscir fuori dalla lunga catena di riferimenti criptici a codicilli, commi, articoli, che vengono dichiarati cassati o mutati per una parola.

Quasi una beffa il primo articolo, che istituisce «in via sperimentale» per i prossimi due anni del «credito d'imposta a favore di imprese che finanziano progetti di ricerca in università o enti pubblici di ricerca». Si fa passare per un aiuto alla ricerca il fatto che gli enti pubblici che la fanno saranno costretti ad accettare qualsiasi proposta proveniente dai «privati» che troveranno una qualche convenienza in questa misura (non molti, a occhio). Così come l'altro «credito di imposta» - 300 euro per ogni assunzione nel Mezzogiorno - coperta finanziariamente con i fondi europei.

Ma è l'edilizia il cuore pulsante del decreto, dal «silenzio-assenso» ultra rapido all'applicazione della Scia (segnalazione) in luogo della Dia («denuncia», non a caso), dalla «cessione di cubatura» all'eliminazione dell'obbligo di comunicazione alla Ps; e che prosegue con un elenco sterminato di «semplificazioni» che faranno felici una base sociale ben identificata. E che penalizza la crescita del paese da un tempo infinito.

Albergo in spiaggia? Si può

di Paolo Berdini

I commenti a caldo sul decreto per il rilancio dell'economia si sono concentrati sul fatto - davvero inaudito - della svendita delle spiagge. Con il testo sotto gli occhi si può purtroppo affermare che essa sia addirittura il male minore: è prevista infatti la cementificazione delle coste italiane.

Ma prima è utile sottolineare un'altra vergogna. Invece dei 500 mila euro attuali, le amministrazioni pubbliche potranno affidare appalti a trattativa privata fino ad un importo di 1 milione di euro (articolo 3, lettera l). Bertolaso santo subito. Il sistema di potere della cricca si è basato, come noto, sull'assoluta discrezionalità nell'affidare appalti. Un numero ristretto di imprese veniva prescelta non sulla base delle capacità imprenditoriali ma sulla fedeltà assoluta e sull'inevitabile ritorno di favori e prebende. Con il decreto il sistema viene esteso a tutto il paese. Salvo pochi casi gli appalti pubblici sono infatti prevalentemente al di sotto del milione di euro o possono essere facilmente disaggregati per ricondurli a una sommatoria che singolarmente non superano quella cifra.

Con i livelli di mancanza di etica dei nostri amministratori non è difficile pensare alle conseguenze di questa scelta: la fine della trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Sul Sole 24 Ore non sono state versate lacrime.

Ma torniamo ai territori costieri. Con il primo comma dell'articolo 5, al fine di «rilanciare l'offerta turistica nazionale» si cedono le spiagge ai privati per novanta anni. È da tempo che il segmento del turismo marino è in crisi rispetto a un'offerta internazionale che possiede qualità ambientali e d'impresa migliori delle nostre: la risposta è la svendita del demanio. Nel comma 4 si afferma poi che «possono essere istituiti nei territori costieri, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su richiesta delle imprese di settore che operano nei medesimi territori», i Distretti turistico-alberghieri, che vengono (comma 6) equiparati alle «zone a burocrazia zero» istituite con decreto legge 78/2010.

L'articolo 43 di questo decreto affermava che per favorire l'economia potevano essere istituite zone in cui le richieste di attività produttive sono approvate da un Commissario di governo che provvede mediante una conferenza di servizi a consentirne l'attuazione. Se questo non avviene entro 30 giorni, la proposta si intende comunque approvata. Quell'articolo permette dunque di poter fare ciò che si vuole dove si vuole: costruire un albergo, un villaggio turistico e tutto ciò che salterà alla mente ad una classe dirigente incapace di pensare ad un futuro che non sia la speculazione edilizia. Si possono infatti superare vincoli urbanistici e paesaggistici: ci pensa l'accordo di programma.

Il meccanismo, come abbiamo visto, potrà partire su richiesta delle imprese: le grandi lobby del turismo internazionale e nostrano ringraziano il presidente imprenditore e i suoi ispiratori. Le prove generali di questo nuovo trionfo del mercato senza regole erano state fatte proprio dal primo ministro nella sua più riuscita comparsata a Lampedusa. Nel promettere alberghi e campi da golf, disse: «Abbiamo la possibilità anche di fare delle zone a burocrazia zero. Cosa significa? Che mentre adesso per aprire un ristorante, per aprire un negozio ci vogliono autorizzazioni su autorizzazioni, in quelle zone si potrà far tutto, rispettando i regolamenti edilizi, rispettando le norme igieniche sanitarie, e il Comune manderà soltanto successivamente alla realizzazione dell'opera un suo incaricato a verificare che siano state costruite le opere in osservanza a tali regolamenti e se è il caso chiederà che vengano apportate le opportune modifiche».

Anche in questo caso il Sole 24 Ore non ha fiatato. Forse perché le norme sono state scritte da qualcuno che frequenta via dell'Astronomia. Ma i Distretti turistico-alberghieri insieme alle zone a burocrazia zero rappresentano un'altra tappa, l'ultima forse, del processo di dissoluzione del governo pubblico del territorio e del cammino italiano verso l'inciviltà. E, purtroppo, non c'è opposizione parlamentare in grado di scuotere il paese dal torpore.

Mare privatizzato, l'Ue «preoccupata»

Bruxelles «Non è quello che ci aspettavamo».

Già un'infrazione contro l'Italia

Ci ha impiegato meno di 24 ore, la Commissione europea, a preoccuparsi del decreto Tremonti. Con una procedura d'infrazione ancora non risolta contro l'Italia per il sistema sulle concessioni marittime, che prevede il loro rinnovo automatico ogni sei anni, Bruxelles è rimasta «sorpresa» dalla notizia sul «diritto di superficie» su coste e litorali per un periodo di 90 anni. Il dubbio di Bruxelles è che il provvedimento sia contrario alle regole del mercato unico e della libera concorrenza. E si aggiunge alle critiche già giunte dagli ambientalisti e dai timori dei consumatori di rincari dei prezzi negli stabilimenti attorno al 6%. «Non abbiamo ricevuto nessuna notifica da parte delle autorità italiane, ma se i rapporti letti sulla stampa sono corretti e confermati, saremmo molto sorpresi perchè non sarebbe ciò che ci aspettavamo», ha detto Chantal Hughes, portavoce del commissario francese al mercato interno Michel Barnier. «Ci aspettiamo chiarimenti da parte delle autorità italiane, la nostra richiesta sarà inviata il più presto possibile», ha precisato. «La reazione ufficiale e formale della Commissione al decreto - ha detto ancora - arriverà solamente quando avremo visto e analizzato in dettaglio il provedimento». Il contenzioso riguarda in particolare la Direttiva servizi del 2006 che regola il settore del turismo. All'articolo 12 viene sancito che per le attività per le quali le risorse sono limitate (come nel caso dei litorali), le autorità pubbliche sono tenute ad applicare «una procedura di selezione trasparente ed imparziale, che permetta a tutti gli operatori interessati di candidarsi». La portavoce ha parlato di tempi «appropriati e limitati» per garantire agli operatori di pianificare i propri investimenti per un periodo certo, lasciando contemporaneamente a tutti quelli che lo desiderano la possibilità di stabilire un'impresa. Per avere infranto queste regole, Bruxelles ha aperto una procedura contro l'Italia (le due lettere di messa in mora sono state il 29 gennaio del 2009 e il 5 maggio del 2010), che se non risolta potrebbe portare le autorità italiane davanti alla Corte di giustizia Ue

Cgil/ Vincenzo Scudiere,

«Così non si aiuta lo sviluppo, ma il business selvaggio»

di E. Ma.

«È una risposta totalmente insufficiente alla crisi. Con questo decreto legge non si dà impulso alla crescita e non si aiuta lo sviluppo del Paese». È netto e decisamente negativo il giudizio di Vincenzo Scudiere, segretario confederale Cgil con delega all'industria.

Il dispositivo che il ministro Tremonti ha portato in consiglio dei ministri proprio alla vigilia dello sciopero generale è un tentativo di rispondere alle vostre istanze?

Da una prima lettura, appare evidente che questo decreto legge è utile alla propaganda elettorale del governo ma, a parte alcune semplificazioni di procedure che sono apprezzabili, non corrisponde alle finalità dichiarate. Non si capisce con quali e quante risorse intendono finanziare la ricerca, per esempio. Nel provvedimento, poi, non ho trovato alcuna corrispondenza con le dichiarazioni del giorno prima riguardo le 67 mila assunzioni nella scuola di docenti e personale Ata: in realtà non ci sono numeri e quindi il decreto non dà alcuna risposta certa alle migliaia di lavoratori precari da riassorbire.

Si introduce il credito d'imposta per i nuovi assunti nel Mezzogiorno, non va bene?

Va sempre bene, ma per affrontare la crisi di un Paese che è in coda in Europa, con un tasso di disoccupazione tendenziale oltre il 18,4%, e punte fino al 40% al Sud, soprattutto tra giovani e donne, ci vorrebbero politiche più incisive.

Sembra che Tremonti voglia dare una mano alle piccole e medie imprese, è così?

In Italia c'è una crisi vera nel settore dell'edilizia: negli ultimi due anni si sono persi oltre 200 mila posti di lavoro, anche se una parte si è trasformata in lavoro nero. Per rilanciare l'edilizia ci sarebbe bisogno di investimenti infrastrutturali seri e di un vero piano casa, solo così si può aumentare la crescita nel settore.

Non basta?

Non basta ma anzi, si fa un danno al Paese. Perché il piano casa aumenta le cubature, mette in mora le competenze delle regioni e non risolve la priorità dei 150 mila sfratti previsti per quest'anno. Alle famiglie si dà l'illusione di poter trasformare un mutuo da tasso variabile a fisso senza dire che si dovrà pagare un onere subito. Velocizzando poi l'affidamento di opere pubbliche fino a un milione di euro senza gara d'appalto ed eliminando così la possibilità di avere regole trasparenti come chiediamo da tempo, non si fa altro che dare il via libera a una nuova speculazione del cemento. Insomma, così non si rilancia l'edilizia italiana, si aiuta solo l'edilizia selvaggia. Non è un aiuto alla piccola e media impresa, la si illude spingendola di fatto verso la speculazione.

Abusivismo/ Rosania, ex sindaco di Eboli

«È un assalto al territorio

In Campania sarà una giungla»

di Eleonora Martini

«Il decreto sviluppo? La prima impressione è di un vero e proprio assalto al territorio, come dire "siamo nella giungla". A mio avviso la semplificazione delle procedure dovrebbe passare attraverso un potenziamento e una crescita degli uffici territoriali competenti, non certo eliminando qualsiasi forma di controllo sull'area». Gerardo Rosania oggi è consigliere comunale di Sel a Eboli, ma da sindaco della sua città diventò quasi un simbolo della lotta all'illegalità e alla speculazione edilizia. Fu tra i primi ad avere il coraggio di abbattere, per rilanciare il turismo e lo sviluppo della costa del Sele. Tra il 1998 e il 2001 demolì 472 edifici costruiti dalla camorra sul litorale di Eboli.

Avete liberato l'area costiera, e poi?

Poi cercammo di intervenire anche sugli stabilimenti che privatizzavano tutta la spiaggia, invadevano il bagnasciuga e addirittura spesso entravano nel mare, su palafitte, anche per 20 metri. Adottammo un piano spiagge per disciplinare questo tipo di insediamenti turistici, cercando di definire il limite della concessione, ma fummo costretti a fermarci per la marea di denunce che ci piovvero addosso. Abbiamo vinto tutti i ricorsi amministrativi ma la sentenza assolutoria penale arrivò solo 5 anni dopo la mia legislatura. Nessuno ci ha mai più riprovato e oggi sono quasi tutti condonati.

E allora cosa pensa del decreto sviluppo?

La prima impressione che ho avuto è che questa normativa tende a sottrarre un pezzo del territorio al governo locale e a cristallizzare pericolosamente la situazione per 90 anni. Per esempio nella nostra costa, a sud di Salerno, in 20 anni il mare ha eroso circa 30 metri di bagnasciuga. Ora, davanti a questi fenomeni naturali bisognerebbe poter pianificare l'utilizzo delle aree demaniali e ricalibrare le concessioni.

Aumento della volumetria, permessi di costruzione facili, appalti senza gara: cosa prevede possa accadere dalle sue parti?

Una giungla, un vero e proprio assalto al territorio. Pensi che già ora, in Campania Sicilia e Calabria si concentra l'80% dell'abusivismo edilizio italiano. Figuriamoci dopo: posso sbagliarmi ma mi sembra che il governo confonda la necessità di semplificare le procedure con l'eliminazione di qualsiasi forma di controllo. Governare significa pianificare, non lanciare costruire e poi eventualmente bloccare chi non è in regola. I comuni non sono più in grado di controllare per le pessime condizioni finanziarie e per mancanza di personale, potranno intervenire solo dopo le denunce dei cittadini Perciò questa logica del silenzio assenso si trasformerà in «costruisci e fai quello che ti pare».

Ma come? Si continua a scuotere la testa sulla crisi rovinosa dei Valori, ci si mette addirittura a piangere sulla ineluttabile scomparsa dei Valori, ci si conduole pubblicamente ad ogni passo con quanti ancora credono, ingenui, alla esistenza dei Valori, e poi, appena qualcuno pretende di affermare che il lavoro “è un valore”, che la sua giornata-simbolo - il 1° Maggio - va rispettata con qualche concessione al consumismo, al turismo, al consumerismo, si prende del “retrogrado”, anzi del “regredito” al passato, al primo Novecento, magari all’Ottocento? Non a caso non piace più nemmeno che l’Italia sia, costituzionalmente, una “repubblica fondata sul lavoro” e la si vorrebbe rifondare su altri “valori”. Non ha forse detto Silvio Berlusconi che la nostra Costituzione è nata “sovietica”? Del resto l’espressione “fondata sul lavoro” la propose alla Costituente un “comunistello di sacrestia” come Amintore Fanfani che quella denominazione si era meritato insieme a Giuseppe Dossetti e a Giorgio La Pira. Quest’ultimo, da sindaco di Firenze, organizzò una memorabile conferenza internazionale sul Mediterraneo, mentre il suo attuale successore promuove una crociata per tenere aperti tutti i negozi il 1° Maggio. Visioni un po’ distanti. Ma oggi non si è “moderni” se non si rottama qualcosa, magari anche la Festa del Lavoro (scusate le maiuscole, ma è colpa dell’età).

Il ministro del Welfare, il prode Sacconi Maurizio, che Gianni De Michelis in una perfida intervista sostenne di aver scoperto su un campo di tennis dove insegnava (Sacconi, non De Michelis), vorrebbe infatti che si parlasse di “lavori” e non più di “lavoro”. Per cui, frantumato, sminuzzato, parcellizzato in tanti pezzi e pezzetti il lavoro, resolo flessibile, modulabile, adattabile, perché mai si dovrebbe continuare a festeggiarlo? Come valore simbolico? Già, ma di che cosa? Facciamo come i giapponesi che il 1° Maggio non l’hanno (credo) mai celebrato. Mi capitò una volta di arrivare a Tokio un 1° Maggio e tutto funzionava, tutti correvano, pedalavano, producevano, lavoravano come formiche alacri e ubbidienti. Un modello. A me, a noi italiani faceva una certa raggelante impressione.

Ripensavamo alle origini della festa del lavoro, alla grande manifestazione operaia di Chicago, il 1° Maggio 1886, alla polizia che la reprime sparando sulla folla, e la colpa viene rigettata sui soliti anarchici (succede ancora) poi condannati a morte senza prove, uno trovato già cadavere in cella e altri 4 impiccati. Anche in Italia diventa presto una data-simbolo, per rivendicare altri diritti fondamentali come il suffragio universale. Alla fine dell’800 lavoratrici e lavoratori festeggiano 1° Maggio totalmente a loro spese, cioè scioperando, privandosi di un giorno di paga. A Voghera, all’epoca ricca di fabbriche tessili, gli operai costretti dai padroni al lavoro, protestano recandovisi vestiti della festa. Uno scandalo. Tanto più che intonano pure un coro verdiano dell’”Ernani” (“Si ridesti il leon di Castiglia”) al quale un vivacissimo giornalista locale, Ernesto Majocchi, ha dato nuovi versi: “Su compagni, lasciate le glebe/Questo giorno sacrato alla plebe/Della plebe sarà il redentor/Siamo tutti una sola famiglia/Operaj della penna e del braccio/Su venite correte all’abbraccio”…

Una festa gioiosa e ribelle dunque. Che Benito Mussolini subito abolisce. In Romagna, nella stessa natia Predappio, la si continua a festeggiare di nascosto con una minestra allora di lusso, i tortelli. Allora i fascisti locali vanno nelle case degli antifascisti, i fratelli Cappelli, i Cagnani, i Farneti, e se scoprono che sta bollendo una pentola coi tortelli, rovesciano tutto sul pavimento per spregio. Ma qualche bandiera rossa – mandandoli in bestia – intanto è comparsa lo stesso sulla ciminiera di una fornace, o sull’albero di un viale.

Tante altre lotte, tante altre vicende simboliche sono legate al 1° Maggio. Roba vecchia? Roba superata? Certo, per chi non vuole più ricordare chi eravamo, da dove siamo venuti, dove vogliamo dirigerci. Verso una società “bottegaia” di consumatori pilotati e indistinti. Pilotati dalle tv commerciali. Indistinti perché senza più identità. La mattina del 25 aprile Raitre, meritoriamente, ha trasmesso il più bel film di Florestano Vancini “La lunga notte del ‘43” dal racconto di Giorgio Bassani. Uscito nel 1960, indicava nell’indifferenza rispetto alla propria storia la causa prima di una società piatta, soddisfatta di sé e, quella sì, retrograda. Il finale era un vero pugno nello stomaco.

E adesso? Chi osa dire che un popolo senza memoria ha già ucciso anche la storia e quindi non ha più futuro, sia subito ridotto al silenzio e magari rottamato. Non è “moderno”, fa danno a sé (pazienza) e soprattutto agli altri, ai più giovani. I quali (per lor signori) è bene che non ricordino quella festa “ribelle” da vivere gioiosamente.

Meno nota e non sempre sotto i riflettori, la (non) politica ambientale dei vari governi Berlusconi ha provocato effetti disastrosi da molti punti di vista: la salute, la fertilità dei suoli, la sicurezza alimentare, il riscaldamento climatico, le frane e le alluvioni. Oltre a distruggere il nostro ecosistema, ha un costo economico e sociale enorme che ricade soprattutto sui soggetti più deboli.

Il problema

Il filo rosso che attraversa e orienta la politica ambientale dei governi Berlusconi dal 1994 ad oggi è efficacemente espresso dallo slogan «Padroni a casa propria», con cui Forza Italia vinse le elezioni politiche del 1994. Questo slogan, usato ripetutamente a sostegno delle scelte liberiste della politica ambientale, ne esprime bene anche le ambiguità: dichiara di voler sostenere la libertà individuale di tutti i cittadini, mentre nella sostanza serve a costruire e foraggiare l’alleanza con le forze della rendita, della speculazione, degli affari e spesso della malavita organizzata. L’ambientalismo berlusconiano si fonda sull’ideologia del «mercato senza regole», della privatizzazione di tutto quello che è «comune» o statale, dell’equiparazione tra il pubblico e il privato, della cancellazione dello Stato ridotto a impresa.

Tra il berlusconismo e l’ambiente esiste una contrapposizione insanabile e a priori: il primo si basa sul privato e sull’arricchimento individuale, sull’appropriazione individuale delle risorse naturali, sociali e culturali, sul governo della cosa pubblica da parte di un comitato d’affari; il secondo, sul pubblico e sulle regole, sui beni comuni, sul rispetto della natura e dei suoi cicli vitali, sulla giustizia ambientale oltre che su quella sociale, sulla democrazia intesa come partecipazione dei cittadini alle scelte che regolano la loro vita.

Negli anni Ottanta, e in particolare con la caduta del Muro di Berlino, l’ideologia del libero mercato ha fatto breccia anche nelle forze politiche di sinistra – in tutta la gamma delle sue articolazioni – e questo ha aperto un varco importante per il diffondersi in Italia di una destra populista, che si autodefinisce «liberale». Il rispetto delle regole e il controllo sulla loro applicazione non fanno parte del resto della tradizione italiana, come avviene in altri paesi europei; la cultura ecologista è nata in Italia molto più tardi che nel resto d’Europa e «il mattone» è un male antico, che trovava giustificazione in passato quando il paese era povero e la casa di proprietà era un fattore di sicurezza, e ne trova una anche oggi perché il costo delle abitazioni e il livello degli affitti è proibitivo per la stragrande maggioranza della popolazione rispetto al livello dei salari, molto di più di quanto non avvenga negli altri paesi europei. L’edilizia continua inoltre a essere considerata il motore o volano dello sviluppo da parte delle forze produttive – imprenditoriali e del lavoro – senza alcun serio ripensamento sui limiti intrinseci e sulla pochezza di un tale modello di sviluppo.

Nel secondo dopoguerra, anche in Italia c’è stata una stagione positiva di pianificazione territoriale e una «primavera» ambientale, che hanno prodotto strumenti e leggi di regolazione, ora nel mirino della destra al potere. Il berlusconismo, coadiuvato dalla Lega, ha cavalcato la situazione dando dignità di progetto politico a un disegno reazionario, senza trovare un’opposizione convinta da parte delle forze politiche di sinistra. Nella politica ambientale di questo governo c’è molta arroganza ma anche ignoranza sul ruolo insostituibile delle regole nella convivenza umana e dei servizi ecosistemici che la natura offre gratuitamente a tutti noi.

Gli effetti sono disastrosi da molti punti di vista: la salute, la fertilità dei suoli, la sicurezza alimentare, il riscaldamento climatico, le frane e le alluvioni, e hanno anche un notevole costo economico che pesa sulle casse dello Stato e che potrebbe essere evitato con politiche di prevenzione. Questa politica ambientale è inoltre iniqua e ingiusta, perché il suo costo ricade soprattutto sui soggetti più deboli – bambini, anziani e meno abbienti – e appare tanto più grave in un paese come l’Italia geologicamente giovane, fragile e instabile dal punto di vista idrogeologico sia nella pianura padana che lungo l’Appennino.

Uno sguardo d’insieme

La politica ambientale dei governi Berlusconi – che resta tale anche quando è una non politica, perché l’assenza di norme è in questo caso funzionale al progetto – ha spaziato fin dall’inizio in tutte le direzioni, usando tattiche diverse a seconda delle opportunità, sempre allo scopo di ottenere il consenso del popolo, che di quelle scelte e non scelte è comunque chiamato a pagare il prezzo maggiore.

Ha tagliato fin dagli inizi il bilancio del ministero dell’Ambiente fino al 60 per cento di quest’anno e ne ha ridimensionato il ruolo modificandone la legge istitutiva; non ha finanziato nessuno dei piani di riforestazione, la cui realizzazione spetta alle regioni; nel gennaio 2010 ha concesso a quest’ultime libertà di deroga sui calendari della caccia stabiliti dalla legge 157 dell’11 febbraio 1992 per gli uccelli migratori e alcuni mammiferi come cervi, caprioli e cinghiali, con conseguenze negative sulla biodiversità; ha negato l’esistenza del cambiamento climatico in molte dichiarazioni ufficiali e paga all’Unione Europea 42 euro al secondo per violazione degli accordi climatici; usa il milleproroghe – il decreto del Consiglio dei ministri per «prorogare o risolvere disposizioni urgenti entro la fine dell’anno in corso» – per cancellare, reintegrare o istituire norme e finanziamenti come nel caso della detrazione fiscale del 55 per cento sulla spesa di riqualificazione energetica degli edifici già esistenti; o, peggio ancora, per smembrare il Parco dello Stelvio tra le province di Trento e Bolzano e la regione Lombardia e «ringraziare» in questo modo i deputati della Svp che si sono astenuti sulla mozione di sfiducia il 14 dicembre 2010; inserisce norme ambientali in coda a leggi che si occupano d’altro o gioca sulle parole per dire e non dire, come nel caso della legge sulla prima sanatoria edilizia del 1994 dove un articolo esclude dal condono le volumetrie superiori a 750 mc per edificio mentre un altro articolo precisa che l’esclusione non riguarda la volumetria dell’intero edificio ma la singola domanda di condono: basta dunque presentare due domande, per aggirare l’ostacolo. Last but not least, il federalismo demaniale approvato dal Consiglio dei ministri il 20 maggio 2010, che trasferisce agli enti locali i beni del demanio patrimoniale dello Stato, al fine della loro «valorizzazione ambientale»: ma che cosa ci può essere di ambientale nella messa sul mercato dei beni pubblici? L’idea è quella che i «gioielli di famiglia» possano restare pubblici anche se dati in gestione al privato, che ne trae un profitto con cui compensare il taglio dei trasferimenti da parte dello Stato. L’esperienza dell’acqua, in Italia e nel mondo, dimostra che la gestione privata di un bene comune serve solo a privatizzare quel bene e, con esso, lo Stato e il pubblico in generale.

Condoni edilizi e morte dell’urbanistica

Urbanistica e assetto idrogeologico del suolo sono i due terreni privilegiati della controriforma ambientale berlusconiana. Per sostenere l’edilizia, e quindi con il consenso trasversale di cittadini, costruttori, speculazione edilizia, lobby del cemento e sempre più spesso della mafia e della camorra, il governo Berlusconi ha realizzato due condoni edilizi (rispettivamente nel 1994 e nel 2003), mentre un terzo è nell’aria; ha abolito l’Ici (2008) sulla prima casa per tutti indipendentemente dalla tipologia dell’abitazione e dal livello di reddito del proprietario; ha approvato un piano di edilizia abitativa (2009) da realizzare con l’ampliamento delle abitazioni esistenti senza alcuna considerazione dei servizi pubblici che tale piano richiede e che graveranno sulla spesa pubblica. Il piano stenta a decollare per vincoli burocratici, affermano governo e Confindustria. Era già stato realizzato abusivamente, fa capire l’Istat quando informa che nei dieci anni precedenti 24 mila alloggi (e 87 mila stanze) in media ogni anno erano già stati ampliati, abusivamente e illegalmente.

Il primo condono, subito dopo l’ingresso di Berlusconi a Palazzo Chigi, era una promessa fatta in campagna elettorale, con lo slogan: «Padroni a casa propria». Il condono riguardava tutte le costruzioni abusive anche quelle realizzate nelle zone ecologicamente fragili e soggette a rischio frana, nelle aree a elevato livello di biodiversità e in quelle soggette a vincolo paesaggistico, e quindi con divieto di edificazione in base alla legge Galasso (n. 431 del 1985), perché vicine a fiumi o sulla riva dal mare; la disposizione mirava a consentire ai fiumi di avere lo spazio di espansione nei periodi di piena. Quel condono rispondeva del resto a una domanda popolare diffusa anche perché le costruzioni abusive non erano più opera della vecchia borghesia parassitaria e dei grossi speculatori sulle aree del secondo dopoguerra ma di gruppi medi di proprietari e di esponenti della nuova borghesia commerciale. La legge di condono 724 del 23 dicembre 1994 si intitolava «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica», evidenziando un altro punto fermo della politica berlusconiana, far credere ai cittadini che il nuovo governo alimenta le casse dello Stato con le entrate della sanatoria «senza mettere le mani nelle tasche degli italiani». Era una grandissima bugia, perché i costi di urbanizzazione a carico dello Stato sono stati, in questo caso, almeno 5 volte superiori alle entrate.

Il secondo condono (decreto legge 269 del 2003) è servito soprattutto a sanare il cambiamento della destinazione d’uso di magazzini e capannoni in piccole attività artigianali, palestre, supermercati e centri commerciali, discoteche e altre attività terziarie necessarie al modello di sviluppo del Nord-Est ora in crisi e alla trasformazione della pianura padana in un continuo urbano senza forma né identità. Anche in questo caso, la legge aveva un titolo ambiguo: «Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici». L’esiguità delle somme stanziate per lo sviluppo – 50 milioni di euro per la riqualificazione urbanistica e 100 per la sicurezza idrogeologica – rivelarono subito l’imbroglio del titolo, che dice una cosa diversa da quella che si sta facendo.

L’abusivismo dell’era berlusconiana è un piaga storica, che la legislazione urbanistica del secondo dopoguerra non è riuscita a debellare perché l’abusivismo porta voti e perché lo Stato italiano non ha né la forza né l’autorità per far rispettare le sue leggi, specie in materia di edilizia; non per una predisposizione alla trasgressione del popolo italiano, come ha recentemente precisato Paolo Berdini (Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, Donzelli 2010). Con i governi Berlusconi questa piaga non è più un costo da pagare ma un’opportunità da utilizzare: l’illegalità nelle costruzioni è pertanto diventata permanente. L’abusivismo edilizio tollerato, e anzi «atteso», esprime anche il tentativo di chiudere definitivamente la stagione delle leggi di regolazione urbanistica e territoriale, che avevano dato agli enti locali gli strumenti per il controllo della rendita fondiaria: l’esproprio a prezzi agricoli della aree da edificare e l’abbattimento degli edifici costruiti illegalmente. Il poker delle leggi importanti, per il periodo preso in esame, era costituito dalle seguenti leggi (tra altre): la 167 del 1962 per l’edilizia economica e popolare, la 765 del 1967 contro l’abusivismo nei centri storici, la 10 del 1978 sull’edificabilità dei suoli, la 457 del 1978 sull’edilizia residenziale.

I costi ambientali dei condoni edilizi sono molto elevati da molti punti di vista, primo tra tutti la devastazione del territorio che è in larga misura irreversibile, e quindi non quantificabile. Può essere in parte reversibile, ma a un costo elevato e nei tempi lunghi. I suoi effetti negativi dipendono da un consumo di suolo superiore a quello ecologicamente e socialmente sostenibile; dalla scomparsa di aree verdi e agricole essenziali per respirare e per un’agricoltura sana; dalla deturpazione del paesaggio; da un sistema di trasporti caotico che insegue gli insediamenti senza mai raggiungerli; dall’inquinamento idrico per la mancanza di fognature; dal degrado sociale e umano di chi è costretto a vivere lontano dai servizi e dalle scuole, senza negozi, parchi, librerie, teatri e spazi pubblici. Costi elevati si calcolano anche nell’industria edile – da quelli legati al ciclo del cemento scavato nell’alveo dei fiumi agli incidenti sul lavoro nei cantieri privi di controlli.

Già verso la fine degli anni Ottanta la pianificazione urbanistica e territoriale cedeva il passo all’urbanistica contrattata e alla privatizzazione dell’urbanistica, che consegnava le trasformazioni del territorio alla proprietà immobiliare, con il consenso e anche il concorso della sinistra entrata nell’ottica del mercato, in particolare di alcune amministrazioni come il comune di Roma delle giunte Rutelli e Veltroni. Al cuore delle politiche di privatizzazione delle nostre città c’è la proposta presentata dall’onorevole Maurizio Lupi di riforma della legge urbanistica del 1942, che da anni il governo di destra cerca di far passare in parlamento. L’obiettivo della proposta è liquidare i piani regolatori e «convincere» le amministrazioni pubbliche a scendere a patti con la proprietà fondiaria, i cui esponenti sono equiparati allo Stato.

Agli inizi del 2010 è esploso infine lo scandalo della Protezione civile, dove Guido Bertolaso ha importato il «modello del fare» che risponde alla cultura dell’emergenza. Il modello era stato sperimentato per le infrastrutture dei Mondiali di nuoto del 2009 a Roma (con la costruzione delle piscine sulle rive del Tevere, nella fascia a rischio esondazione dove niente dovrebbe essere costruito) ma era stato messo a punto già prima, per il Giubileo del 2000. Il governo Prodi allora in carica nominò commissario straordinario alla costruzione delle opere per il Giubileo il sindaco di Roma Francesco Rutelli, che a sua volta nominò come vicecommissario Guido Bertolaso. È un modello che sottrae le decisioni urbanistiche alle amministrazioni locali e mette nelle mani di una sola persona – il commissario – ingenti somme di denaro pubblico fresco, da usare al di fuori dei vincoli paesaggistici, archeologici e di sicurezza delle opere. È il trionfo del «fai da te», dell’economia dell’illegalità e dell’impunità.

La primavera ecologica e i talebani di Roma

La cancellazione delle leggi per la difesa idrogeologica del suolo sono l’altro versante della devastazione compiuta dai «talebani di Roma», come la Frankfurter Allgemeine Zeitung chiamò i politici italiani che nel 2002 approvarono la legge sulla vendita ai privati del patrimonio culturale dello Stato. Vendita, o svendita, motivata con l’obiettivo di ricavarne le risorse monetarie per realizzare le grandi infrastrutture quali il Ponte sullo Stretto e l’Alta velocità in Val di Susa (che ci permetterebbe di andare da Lisbona a Kiev senza cambiare treno, ammesso che qualcuno fosse interessato a un simile viaggio). Scambiare il patrimonio culturale, che esprime l’identità di un popolo, con le grandi infrastrutture elencate nel Patto con gli italiani, sottoscritto da Berlusconi in diretta tv a Porta a Porta nel 2001 pochi giorni prima di entrare a Palazzo Chigi per la seconda volta, è un paradosso che avrebbe dovuto essere denunciato con più forza, come fece notare il grande quotidiano tedesco.

Le infrastrutture del Patto con gli italiani non erano infatti quelle necessarie per prevenire il dissesto idrogeologico del paese, di cui ci sarebbe estremo bisogno visti i danni che esso provoca. L’ultimo rapporto del Consiglio nazionale dell’ordine dei geologi informa che in Italia, nel periodo 2002-2010, la mancata cura del territorio ha provocato 37 frane e 72 alluvioni con 219 vittime pari a 30 morti all’anno, e un costo economico crescente nel tempo, pari a 1,2 miliardi di euro all’anno nel periodo che va dal 1990 ad oggi. Le infrastrutture di cui ci sarebbe bisogno per prevenire le frane e le alluvioni sono altre, come ad esempio la manutenzione degli argini e la costituzione delle casse di espansione lungo le sponde dei fiumi, che impediscano alle acque di esondare quando la pressione dell’acqua aumenta a causa delle piogge come è successo a Vicenza a novembre e dicembre scorsi. È stato stimato ad esempio che la costituzione della cassa di espansione del Bacchiglione, uno dei fiumi che ha messo sott’acqua Vicenza e il Veneto, sarebbe costata 35 milioni di euro se realizzata trent’anni fa, e cioè meno della metà del costo dell’alluvione veneta del novembre scorso. Secondo altre stime, la prevenzione dei danni da frane e alluvioni costerebbe il 10 per cento di quel che costa riparare i danni a posteriori, senza contare le vite umane che si perdono in queste occasioni.

La difesa del suolo non è un problema nuovo, ma è diventato più urgente per l’aumento della pressione dell’attività dell’uomo sulle risorse e per il conseguente aumento della deforestazione e del rischio siccità. Negli anni Settanta, durante la «primavera ecologica», erano state approvate alcune leggi per regolare e frenare i fattori che causano il dissesto idrogeologico – leggi che sono state poi abrogate o «ammorbidite»: la Merli del 10 maggio 1976 n. 319 sul controllo dell’inquinamento idrico da scarichi industriali, modificata in senso permissivo dal decreto legislativo 152 del 3 aprile 2006 (istitutiva del Testo unico o Codice ambientale); la Galasso dell’8 agosto 1985 n. 431 sul vincolo paesaggistico e il divieto di costruzione nella fascia di rispetto dei fiumi; la 349 dell’8 luglio 1986 sull’istituzione del ministero dell’Ambiente e la valutazione del danno ambientale; la 183 del 18 maggio 1989, «Riassetto e difesa dei suoli», per la pianificazione territoriale e la gestione delle acque, da realizzare sulla base dei distretti idrografici intesi come unità geograficamente definite di programmazione delle attività economiche. Anche questa legge, applicata poco e male, è stata abolita dal Codice ambientale del 2006, con la motivazione di recepire le direttive comunitarie; il decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 sulla raccolta e lo smaltimento dei rifiuti (la legge Ronchi – Edo Ronchi, ministro dell’Ambiente con Prodi, non Andrea Ronchi ministro, dimissionario, per le Politiche comunitarie dell’attuale governo Berlusconi), approvata dal governo Prodi e anch’essa abrogata dal Codice ambientale del 2006.

Queste leggi non ci sono più, ma l’esigenza di prendersi cura del territorio è sempre più pressante anche a causa dei cambiamenti climatici in corso, che acuiscono la fragilità fisica del paese. C’è da augurarsi che la frequenza dei disastri «naturali» porti a prendere in considerazione la prevenzione, che è l’unico strumento realistico per affrontare questo problema.

Altri aspetti della controriforma

Acqua e acquedotti. Nel 1994 un altro governo – di centro-sinistra – approvò la pessima legge Galli (n. 36 del 5 gennaio). Per mettere ordine negli acquedotti, che allora erano più di 8 mila e decisamente troppi, fissò il principio assurdo che le tariffe del servizio idrico dovessero essere coperte dalle entrate, con l’aumento del prezzo del servizio. Quel principio è assurdo perché l’acqua è necessaria alla vita e quindi un diritto universale e non una merce da mettere sul mercato, e perché è dimostrato che gli investimenti fissi continuano a ricadere sul bilancio pubblico in quanto la remuneratività di un servizio pubblico come l’acqua non può coprire le spese fisse di investimento e gestione degli impianti. Il governo Berlusconi ha peggiorato ancora la norma, quando l’ha inserita nel Testo unico, permettendo l’ingresso dei privati nelle società di gestione degli acquedotti e del servizio idrico. Questa decisione è stata la premessa di tutta la legislazione successiva sempre più orientata alla privatizzazione, fino al decreto Ronchi del 23 novembre 2009 (Andrea Ronchi, in questo caso). Con quest’ultimo decreto, la gestione del servizio idrico integrato, la raccolta dei rifiuti e il trasporto locale sono stati consegnati ai privati, vietandone la gestione in house degli enti locali. È contro questa norma che sono state raccolte un milione e 400 mila firme per il referendum abrogativo, che si dovrebbe svol­gere nella primavera 2011.

Infrastrutture, tra grandi opere e messa in sicurezza del territorio. Un’altra questione ambientale di grande rilevanza è quella delle grandi infrastrutture o opere pubbliche, gestita dai governi Berlusconi con la politica degli annunci. Si tratta di opere faraoniche, la cui utilità è controversa, con scarse prospettive di arrivare a compimento. Ma vengono riproposte ogni anno e realizzate in piccola parte (a pezzetti), per far girare i soldi dellecommesse e delle relative tangenti, incluse quelle della mafia. Il piano, riconfermato nel novembre 2010 dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) con qualche modifica e aggiunta e previsioni di spesa sempre al rialzo, è uno dei cinque punti del già citato Patto con gli italiani del 2001. Riguarda opere a forte impatto territoriale, energivore e cementificatorie, di dubbia utilità sociale e difficili da realizzare come il Ponte sullo Stretto di Messina, il Mose di Venezia, la Tav della Val di Susa e l’Alta velocità in genere, i grandi valichi ferroviari e molte altre autostrade, alcune delle quali utili mentre la maggior parte di esse non migliorerebbero sicuramente la mobilità delle persone e delle merci, essendo dimostrato che ogni nuova strada induce nuovo traffico. La realizzazione di queste infrastrutture è sempre rimandata, ufficialmente per mancanza di risorse; molto probabilmente per l’impossibilità pratica di costruirle veramente. Ciò non significa che l’operazione sia inutile o inoffensiva: serve invece moltissimo perché permette alle grandi imprese del cemento e della camorra di far soldi facili con le commesse, e legittima la mancata costruzione di altre opere pubbliche di minore impatto territoriale e sicuramente più necessarie come la messa in sicurezza delle scuole o quella degli argini dei fiumi. Anche in questo caso, le incertezze e le connivenze della sinistra offrono un salvacondotto al governo: basti dire che il piano annunciato nel 2001 da Berlusconi venne integralmente recepito dal successivo governo Prodi e dal suo ministro delle infrastrutture, Antonio Di Pietro.

Il rilancio del nucleare. Un altro terreno su cui il governo Berlusconi procede con la politica degli annunci è quello dell’energia nucleare, che ha deciso di rilanciare nonostante il referendum popolare che oltre trent’anni fa respinse questa opzione e nonostante la mancanza di un piano energetico nazionale che ne giustifichi la necessità. Si tratta di un rilancio impossibile per i costi elevati di costruzione e gestione, per i tempi lunghi di messa in opera e per i problemi irrisolti e irrisolvibili della sicurezza degli impianti e dello smaltimento delle scorie. L’operazione non è comunque inutile dal punto di vista del governo: serve a far girare i soldi delle commesse, che nel nucleare impegnano somme enormi, e a frenare lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili che sono la sola risposta possibile per superare la dipendenza dall’energia fossile, che è alla base del riscaldamento climatico.

Il terremoto dell’Abruzzo e le new towns. La dichiarazione dello «stato di calamità naturale» con cui il governo ha affrontato il terremoto dell’Abruzzo del 7 aprile 2009 – 308 morti tra cui 8 studenti universitari – ha messo nelle mani del commissario alla ricostruzione che all’epoca era Guido Bertolaso un ingente flusso di denaro pubblico. Ma le scelte della ricostruzione sono così state sottratte alla popolazione e alle amministrazioni locali, e il commissario nominato dal governo ha pertanto potuto decidere di ricostruire le abitazioni non tanto nel centro storico dell’Aquila dove si trovano i luoghi simbolo della città ma in una ventina di new towns, nuclei abitativi localizzati in aree sparse sulle colline intorno alla città, in aree verdi preziose per assorbire le piogge e neutralizzare la CO2. Il centro storico dell’Aquila è stato «militarizzato» e reso inaccessibile ai cittadini, motivando questa scelta con problemi di sicurezza delle persone per possibili crolli di parti degli edifici. Gli abitanti della città sono stati delocalizzati nelle new towns, o in costosissimi alberghi sulla costa adriatica, lontani dalle loro radici e dai luoghi degli affetti e della quotidianità. Mentre il governo raccontava ai quattro venti di aver compiuto un miracolo e di avere ridato casa ai terremotati, si è scoperto che le «macerie» off limits per i cittadini erano state trasformate in rifiuti smaltiti illegalmente dalla mafia e che gli appalti per la costruzione delle new towns erano stati pilotati da Bertolaso, il commissario alla ricostruzione. L’inchiesta della magistratura è ancora in corso, ma difficilmente essa potrà misurare e far pagarea qualcuno il danno ambientale della ricostruzione su aree vergini, distanti e non attrezzate.

Lo scandalo dei rifiuti in Campania. Su questo scandalo, che da un paio d’anni sta facendo il giro del mondo, non basta la critica sulle false promesse del governo, regolarmente smentite dai fatti tanto che l’Unione Europea ha sospeso i suoi finanziamenti per la raccolta differenziata affermando che «la situazione dei rifiuti in Campania è ferma da almeno due anni». Il problema vero è che dietro le promesse «il re è nudo», perché la soluzione del problema richiederebbe scelte radicali di democrazia partecipativa, com’è la raccolta differenziata, e di forte contrasto al business dei rifiuti messo in piedi dalla camorra, che ormai domina il settore. Le soluzioni prospettate dal governo sono state invece la «militarizzazione» dei siti e l’incenerimento dei rifiuti, due strade che non portano da nessuna parte: la prima, perché indebolisce le forze vive interessate a risolvere il problema; la seconda, perché i termovalorizzatori o inceneritori non funzionano se i rifiuti non sono stati prima trattati, richiedono tempi lunghi di costruzione e sono osteggiati dalla popolazione per la diossina derivante dall’incenerimento di rifiuti non trattati. La popolazione è scesa in piazza per difendere la salute e il futuro dei propri figli, minacciati dall’inquinamento del territorio e per contrastare la prepotenza con cui il governo con il primo decreto del 23 maggio 2008 ha trasformato in discarica la cava Sari di Terzigno, un comune localizzato nel Parco del Vesuvio, e intendeva trasformare in discarica anche la cava Vitiello di Boscoreale, altro comune nel Parco del Vesuvio, che sarebbe così diventata la più grande d’Europa. Il decreto aveva infatti consentito di derogare alla legge del 1991 istitutiva dei nuovi Parchi in Italia e a quella del 1995 istitutiva del Parco nazionale del Vesuvio, che vietano lo smaltimento nelle aree protette. I rifiuti non sono un problema di ordine pubblico ma un problema ambientale, hanno precisato i comitati cittadini per bloccare la discarica Vitiello e costringere le autorità a risanare il territorio. Ma il problema resta del tutto aperto, anche perché tra Napoli e Caserta ci sono da anni otto milioni di tonnellate di ecoballe, che inquinano il territorio e che nessuno sa come e dove smaltire.

Paolo Sylos Labini
Cari Ds manca ancora il rospo
l’Unità, 16 novembre 2001

I leader dei ds hanno detto che la perdita dei consensi dipende in primo luogo dalla
grave inadeguatezza dei programmi. Vero. Hanno detto anche che dipende dai litigi
interni. Anche questo è vero. Manca però il ROSPO: il grave errore di strategia
commesso quando, per avviare la Bicamerale, quei leader hanno cercato in tutti i
modi un accordo con Berlusconi, che doveva essere il socio di un’impresa tanto
ambiziosa quanto assurda: riformare la Costituzione, che era costata lacrime e sangue,
con la collaborazione di un personaggio che aveva gravi conti aperti con la giustizia e
che quindi avrebbe cercato innanzi tutto di informare a proprio vantaggio il sistema
giudiziario: se non avesse avuto soddisfazione, avrebbe fatto saltare il tavolo, com’è
accaduto e come alcuni avevano previsto fin da principio. Non si poteva, da un lato,
chiedere ed ottenere la collaborazione di Berlusconi per la Bicamerale e, dall’altro,
combatterlo, per esempio, sul terreno del mostruoso conflitto d’interessi. Ecco perché
i leader dei ds accettarono come buona la «finzione» – il miserabile cavillo – secondo
cui non era Berlusconi ma Confalonieri il titolare delle concessioni televisive,
aggirando così la legge del 1957 che stabiliva l’ineleggibilità dei titolari di
«concessioni pubbliche di rilevante interesse economico».


Accettato quel cavillo ed avendo così resa inutilizzabile la legge del 1957, i ds hanno
dovuto imboccare la strada della nuova legge. Nello sciagurato spirito della
collaborazione con Berlusconi fu preso per buono ed approvato, solo alla Camera, un
disegno di legge presentato dallo stesso Berlusconi e dai soci, fondato sull’idea
americana del blind trust un’idea ragionevole nel caso di titoli e di beni fungibili,
come i beni immobili, ma inattuabile – diciamo pure ridicola – nel caso di reti
televisive. Il disegno di legge non fu presentato al Senato e rimase con la sola
approvazione della Camera, viene tuttavia ripetutamente gettato fra le gambe dei ds
da Berlusconi e da chi sia pure non apertamente lo difende. Forte del tacito assenso
dei ds il Cavaliere è diventato sempre più sfrontato sul conflitto d’interessi ed ora ha
fatto presentare da Frattini un nuovo disegno di legge che è una vera e propria
burletta. Ha scritto giustamente Sartori che «in Italia sta scomparendo un principio
fondante della democrazia, la pluralità e la concorrenzialità degli strumenti
d’informazione». Dalla collaborazione con Berlusconi, che era l’inevitabile corollario
dello sciagurato errore strategico della Bicamerale, sono derivati vari altri «errori», fra
cui lo scarsissimo impegno nel ratificare in tempi brevi la convenzione italo-svizzera -
poteva essere approvata già nel 1998 – e la critica ai «demonizzatori» di Berlusconi,
come me e come diversi miei amici, tutti o quasi tutti dalla tradizione liberalsocialista
(saremmo dovuti essere cooptati nella «Cosa 2», mi pare, ma forse abbiamo capito
male). È vero almeno che «esagerando» nelle critiche a Berlusconi avremmo fatto il
suo gioco? No, non è vero: secondo uno studio serio di un centro torinese di ricerche
sui flussi elettorali la nostra azione, insieme con gl’interventi di Benigni, di Travaglio
e di Veltri e dei giornalisti dell’Economist, avrebbe spostato a favore del
centrosinistra, il minor male, da uno a due milioni di voti. Non chiedevamo né
ringraziamenti né riconoscimenti, ma almeno una qualche presa di posizione, nei fatti
e negli atti, che la nostra azione non andava duramente criticata, ma utilizzata: siamo
nella stessa barca. A giudicare da recenti dichiarazioni di diversi leader del
centrosinistra e dei ds in particolare sembra che ciò stia finalmente avvenendo.
Tuttavia, per contrastare con efficacia i reiterati attacchi di Berlusconi e di altri sulle
posizioni dei ds riguardanti il conflitto d’interessi e la «pigrizia» nella ratifica della
convenzione sulle rogatorie e per persuadere i votanti delusi ed amareggiati che
muteranno veramente la loro politica i leader ds debbono fare chiaramente ed
esplicitamente autocritica per quel grave errore strategico, magari invocando come
attenuante il fatto che il cinismo e la slealtà di Berlusconi hanno superato ogni limite,
sia pure riconoscendo che la politica non è un’attività per educande. Solo con una tale
autocritica – e non con la generica ammissione che errori sono stati compiti – i leader
ds possono via via recuperare credibilità. http://www.syloslabini.info/online/?p=416

Replica di Massimo D’Alema

L’Unità 22.11.2001



Gentile professore, in generale cerco di non replicare agli attacchi personali. Tendo
volentieri a discutere – questo sì – opinioni e punti di vista anche assai distanti dai
miei, ma di solito mi trattengo quando colgo nell’interlocutore un elemento di
pregiudizio.
Se nel suo caso mi sottraggo a questa consuetudine è per due ragioni: la stima che
nutro verso la sua figura di intellettuale e di studioso e, su un piano diverso, la
speranza di sgomberare il campo – chissà – una volta per tutte – dall’accusa che da più
parti mi viene rivolta di essere stato l’artefice di uno scambio inconfessabile e
immorale in materia di Costituzione e di conflitto di interessi con l’onorevole Silvio
Berlusconi. «Un pettegolezzo, invecchiando, diventa un mito» così scrive in uno dei
suoi illuminanti aforismi Stanislaw Lec. E questo mito mi viene fatto gravare sulle
spalle da diversi. Da alcuni per una concezione consapevolmente calunniosa della
lotta politica; da altri in buona fede, come nel suo caso, ma con non minore asprezza.


«D’Alema – lei scrive – ha come prima responsabilità quella di aver consentito che
venisse aggirata, con un miserabile cavillo, una legge del 1957 che stabiliva la
ineleggibilità di titolari di importanti concessioni pubbliche, e ha bloccato ogni serio
tentativo di risolvere il problema del conflitto di interessi; tutto ciò per portare a
compimento, niente meno, la riforma della Costituzione: con quel socio! Sembra
incredibile». Già, sembra incredibile; ma soprattutto ciò che lei scrive è falso, caro
professore. Ma procediamo con ordine.
Nel luglio del 1994 la giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò a
maggioranza il ricorso contro la elezione a deputato di Silvio Berlusconi. I deputati
del mio partito (del quale ero segretario da pochi giorni) votarono ovviamente contro,
come gli altri parlamentari progressisti. Con la maggioranza si schierarono due
deputati del Partito popolare, allora sotto la guida dell’on. Buttiglione.

Non vedo
proprio quindi che cosa mai avrei io consentito, in cosa potesse entrarci con la
Bicamerale la decisione del ’94. In realtà ciò che si dimostrò allora è (come poi più
volte ho sostenuto) la insostenibilità di una norma che, in tempi di sistema elettorale
maggioritario, affida alla giurisdizione domestica e politica del Parlamento il giudizio
in materia di ineleggibilità. Anche per questo proposi in seguito una riforma che
consentisse il ricorso di fronte alla Corte costituzionale, cioè a un giudice
indipendente dalle parti politiche. E anche questo aspetto dimostra quanto fosse
necessaria una riforma della Costituzione. Per realizzare le riforme l’Ulivo indicò la
via di una commissione parlamentare in alternativa alla proposta della destra di una
Assemblea costituente. E insistemmo molto sulla necessità che le riforme non fossero
imposte dalla volontà di una maggioranza parlando – come recita il programma
elettorale dell’Ulivo – di «un patto da scrivere insieme». Continuo a pensare che
quella scelta fosse giusta e comunque quella linea politica, del dialogo e della
comune responsabilità di fronte alle istituzioni, ci consentì di vincere le elezioni del
1996.

Non è affatto vero che l’istituzione della Commissione Bicamerale bloccò o
impedì l’esame di una legge sul conflitto di interessi. La legge venne discussa e
approvata all’unanimità nell’aprile del 1998. Certo, si trattò di quella legge che il
centro-sinistra considerò poi del tutto inadeguata a risolvere in modo efficace e serio i
nodi del conflitto di interessi.

Ma non fui certo io ad imporla, né vi era alcun nesso
con la vicenda della Bicamerale che aveva tra l’altro già concluso i propri lavori. In
un bel libro di recentissima pubblicazione («Democrazia e conflitto di interessi. Il
caso italiano») Stefano Passigli, che pure ricostruisce in chiave fortemente critica
l’intera vicenda, ridicolizza la tesi dello scambio o «dell’ inciucio» tra D’Alema e
Berlusconi. In effetti basta leggere gli atti del Parlamento per rendersi conto che
quella legge fu voluta dall’intero centro-sinistra; dal governo che fu attivamente
partecipe della discussione e della elaborazione del testo con il sottosegretario
Bettinelli, sino alle componenti più insospettabilmente anti-berlusconiane. Come
ricorda Passigli in sede di dichiarazione di voto l’on. Elio Veltri, braccio destro del dr.
Di Pietro, ebbe a dire «Questo testo non è molto distante dalla proposta di legge che
avevo presentato – abbiamo ottenuto garanzie maggiori nelle procedure – perché la
separazione della gestione fosse effettiva e il trust fosse effettivamente cieco». Nella
maggioranza dell’Ulivo la posizione più critica fu invece proprio quella dei Ds che
cercarono, almeno sul piano fiscale, di rendere la normativa meno “di favore” per il
proprietario di Mediaset. Se dunque errore vi fu, e certamente vi fu, esso rivelò un
limite culturale dell’intero centrosinistra. Ma i fatti smentiscono nel modo più netto la
teoria dello scambio Bicamerale/conflitto di interessi di cui sarei stato protagonista
io.

Non mi sfugge tuttavia che, al di là dei fatti, il diffuso pregiudizio, il sospetto, il
disagio per la ricerca di una intesa costituzionale con la destra ha finito per incrinare
il rapporto di fiducia fra noi e una parte dell’opinione pubblica di sinistra. E ciò,
paradossalmente, è tanto più significativo proprio perché quel pregiudizio non è
fondato sui fatti né su una seria analisi politica della vicenda della Bicamerale. La
Bicamerale rappresentò infatti un momento indubbiamente positivo per l’Ulivo. Fu un
aiuto per il governo Prodi in quanto concorse ad un clima parlamentare favorevole
alle scelte difficili ma necessarie per la rincorsa dell’Euro. Fu un momento alto del
profilo riformista. Costrinse la destra a un confronto che ne stemperò il carattere
“eversivo” di forza di rottura istituzionale e fece emergere articolazioni e divisioni.
Soprattutto delineò un impianto di riforme – certo non privo di debolezze e
incongruenze – ma che avrebbe potuto rappresentare la base per una grande riforma
da fare in Parlamento e che segnasse un approdo sicuro della lunga transizione
italiana. Fra l’altro sul tema che ci appassiona, della incompatibilità e ineleggibilità, il
progetto della Bicamerale segnava un netto passo in avanti prevedendo la possibilità
di ricorso alla Corte Costituzionale.

Fu Berlusconi a rompere e a far fallire il disegno
della Bicamerale. Prova questa indubitabile che nel progetto di riforme non si
nascondeva alcuna oscura concessione sui principi e sui valori, come pure invece si è
poi detto in questi anni. E da questa rottura comincia la sua rivincita. Anche perché
egli non pagò alcun prezzo e fu anzi aiutato dalla campagna sull’ «inciucio» che,
sostenuta in modo aspro anche da una parte della opinione del centrosinistra, gli
spianò la strada scaricandolo di ogni responsabilità per aver fatto fallire le riforme
costituzionali.
La verità è che non pochi furono quelli che, anche nel nostro campo, tirarono un
sospiro di sollievo. E l’Ulivo, prigioniero delle divisioni e delle resistenze
conservatrici, finì per lasciare sbiadire via via (con l’eccezione della legge sul
federalismo) il suo profilo di forza riformista e di cambiamento sul terreno
costituzionale.


Resta in me la convinzione che ci abbia danneggiato di più – anche elettoralmente -
non averle fatte le riforme che avere cercato di farle con la Bicamerale. Ma lei dice:
«con quel socio!». Capisco il problema. E sarebbe troppo facile rispondere che le
riforme si fanno in Parlamento e i soci non li scegliamo noi ma il popolo italiano.
Questo non la commuove dato che come lei scrive nel suo libro non esclude – per una
comprensibile indignazione civile – di «dimettersi da italiano».
Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l’impegno politico, ha l’ambizione di
tornare a governare questo paese e intanto il dovere di concorrere a far vivere e
funzionare le istituzioni. Con questa destra, sulla quale il mio giudizio non differisce
molto dal suo, continuo a pensare che tra «l’inciucio» (che non ci fu ma apparve), e la
demonizzazione reciproca (che giova solo a Berlusconi) possa esserci una terza via
capace di unire la nettezza della contrapposizione politica, programmatica, etica
(quando ci vuole) alla necessaria comune responsabilità quando siano in gioco le
istituzioni e il bene dell’Italia. http://www.syloslabini.info/online/?p=418

Paolo Sylos Labini

Noi, Berlusconi, l’Opposizione

l’Unità 24.11.2001

Nella lunga lettera pubblicata su l’Unità del 22 novembre D’Alema risponde alle
critiche da me sollevate alle sue scelte politiche nel libro-intervista «Un paese a civiltà
limitata» e poi in un articolo pubblicato su l’Unità del 16 novembre. Da principio
riconosce la mia «buona fede nel credere ad un pettegolezzo che invecchiando diventa
un mito, come scrive Stanislav Lec»; poi però si lascia un po’ andare e, riferendosi
alla posizione da lui presa consentendo che la legge del 1957, che stabiliva
l’ineleggibilità dei titolari di concessioni di rilevante interesse economico, venisse
aggirata con un cavillo (titolare delle concessioni tv sarebbe stato non Berlusconi ma
Confalonieri), afferma: «ciò che lei scrive è falso, caro professore» e ricorda, in primo
luogo, che «nel luglio 1994 la Giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò
a maggioranza il ricorso contro la elezione di Silvio Berlusconi».
Subito dopo aggiunge: «I deputati del mio partito votarono ovviamente contro, come
gli altri parlamentari progressisti».

Sono costretto a ribattere: no, caro presidente,
quello che scrivo non è falso e il suo ricordo non è esatto. A suo tempo, quando, per
far rispettare quella legge, io ed altri amici costituimmo un gruppo di pressione,
intorno al quale fu fatto un vuoto pneumatico, mi documentai con scrupolo; ho con
me vari documenti. Così, negli atti della Giunta per le elezioni della Camera di
mercoledì 20 luglio 1994 a pagina 3 risulta che l’unico oppositore fu il deputato ds
Luigi Saraceni, che, come dichiarò ad un mio amico del gruppo di pressione e come
mi ha confermato oggi per telefono, prese la decisione autonomamente: i suoi colleghi
ds votarono a favore. Tutto questo avveniva nel 1994, quando la maggioranza era del
cosiddetto centrodestra. Anche più grave è ciò che accadde dopo le elezioni del 1996:
allora la maggioranza era del centrosinistra ma non ci fu nessuna opposizione; anche
in questo caso ho gli atti della Giunta – martedì 17 ottobre, pagine 10-12.

Del 1996 il
presidente D’Alema non parla. Di tutto questo scrissi diffusamente in un lungo
articolo apparso nel fascicolo 5 del 2000 della rivista MicroMega; debbo ritenere che
sia sfuggito alla sua attenzione.
Siamo d’accordo sulla regola, praticata dagli altri paesi europei, che sui ricorsi in
materia d’ineleggibilità il giudizio non deve essere affidato al Parlamento, ma ad un
organo esterno, come la Corte Costituzionale; questa esigenza, però, fu considerata in
seguito e non nell’avvio della Bicamerale. Desidero essere chiaro: non sostengo che ci
sia stato uno scambio Bicamerale/conflitto d’interessi. Sostengo una tesi diversa e
cioè che una volta scelta come prioritaria la linea della Bicamerale l’inevitabile
corollario – lo scrivo nel mio articolo su l’Unità – sarebbe stato quello di un
atteggiamento non ostile verso il Cavaliere: non si poteva, da un lato, chiedere la sua
collaborazione per riformare – niente meno – la Costituzione e, dall’altro lato,
combatterlo con la necessaria intransigenza. Questa è la mia tesi e non quella dello
scambio che necessariamente presuppone una sorta di trattativa.

Un altro corollario -
anche questo scrivo nell’articolo – era quello di prendere le distanze dai critici duri e
intransigenti di Berlusconi, ossia da quelli che sono stati denominati i
«demonizzatori», una categoria alla quale appartengo. Vedo, con rammarico, che lei
non ha abbandonato l’idea che la «demonizzazione reciproca giova solo a
Berlusconi». Mi sembra evidente che la linea alternativa, quella della legittimazione
reciproca, è stata catastrofica per il centrosinistra ed ha giovato solo al Cavaliere, il
quale ha incassato i vantaggi della legittimazione offerta dai ds, ma li ha ripagati
continuando, anche più ossessivamente di prima, a definirli «comunisti», collusi con
le «toghe rosse» e quant’altro: in breve, la non demonizzazione è stata unidirezionale.
Quanto alla tesi che i demonizzatori avrebbero portato acqua al mulino del Cavaliere,
è una tesi smentita da un’analisi dei flussi elettorali diretta dal professor Ricolfi della
Facoltà torinese di sociologia, secondo cui l’azione congiunta di vari «demonizzatori»
ha spostato a favore del centrosinistra da uno a due milioni di voti pescandoli
principalmente fra chi pensava di non andare a votare: questo ha ridotto quella che lei
ha chiamato un’«incrinatura» – parlerei di una grave incrinatura – fra una parte
dell’opinione pubblica di sinistra e i ds. Non sarebbe allora il caso di riconoscere che
la critica dei demonizzatori va abbandonata? Che altro debbono combinare Berlusconi
ed il suo governo per convincere tutto il centrosinistra che è necessaria
un’opposizione intransigente? Lei, presidente D’Alema, riconosce che, nell’assai
ambizioso progetto di riformare la Costituzione, Berlusconi non era un socio
raccomandabile. Ma, osserva, le riforme si fanno in Parlamento e i soci non li
scegliamo noi ma il popolo italiano. Un tale ragionamento dà per certo che, non le
riforme in generale, ma – niente meno – la riforma della Costituzione non fosse in
alcun modo procrastinabile. Non è così: era sconsigliabile intraprenderla fino a
quando bisognava farla con un socio che aveva quel po’ po’ di conti da regolare con
la giustizia. Io, proponendo idee condivise da molti miei amici, le inviai una lettera
aperta pubblicata su Repubblica – certo se ne ricorda. D’altro canto, l’unica riforma
veramente urgente era quella riguardante la giustizia, per la quale quel pessimo socio
aveva evidenti interessi personali. Ma, a detta di numerosi giuristi e di magistrati, le
più importanti riforme in questo campo potevano e dovevano essere attuate con leggi
ordinarie, lasciando in pace la Costituzione. Verso la fine della sua lettera osserva,
rivolgendosi a me: «Lei non esclude – per una comprensibile indignazione civile – di
dimettersi da italiano. Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l’impegno politico
ed ha l’ambizione di tornare a governare questo paese ed intanto ha il dovere di
concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni». È vero: io non escludo di essere
costretto a dimettermi da italiano. Ma per ora, come vede, non mi sono affatto
dimesso. E l’opposizione a questa destra, sulla quale il suo ed il mio giudizio non
differiscono molto (salvo che nell’idea che questa sia veramente una destra),
dev’essere netta ed intransigente proprio per salvaguardare le istituzioni. Dico questo
con una certa fiducia che anche su tale campo vitale le nostre differenze oramai non
siano grandi: penso che quel che ha combinato il governo Berlusconi nei suoi primi
centoventi giorni di vita abbiano fatto cadere ogni illusione, per via dell’assalto che
hanno dato proprio alle istituzioni, a cominciare dalla giustizia. Come lei sa, le
illusioni sono cadute anche nei nostri partner, in Europa e fuori, principalmente per il
mostruoso conflitto d’interessi, che a detta di intellettuali che ben possono essere
considerati di destra è all’origine del discredito – Sartori ha parlato di disprezzo – che
oggi all’estero ricopre, non l’Italia, ma Berlusconi e il suo governo. In Parlamento ed
a Pesaro ho notato segnali incoraggianti, come – faccio solo due esempi – la vigorosa
reazione agli attacchi alla magistratura e l’appoggio, da lei proclamato, alla proposta
del referendum volto ad abrogare la vergognosa legge sulle rogatorie, una proposta
lanciata da tre riviste della sinistra liberale (MicroMega, Il Ponte, Critica liberale),
alla quale auspichiamo che lei voglia aderire – proprio ieri abbiamo avuto l’adesione
di Sergio Cofferati. È da considerare anche la possibilità di cancellare le altre due
vergogne: la depenalizzazione del falso in bilancio e la gigantesca sanatoria fiscale
legata al rientro di capitali. Sì, discutiamo pure delle formule – socialdemocrazia,
liberalsocialismo – e, ancor più, dei programmi. Ma il cosiddetto popolo di sinistra
vuole comprendere se i ds sono disposti a fare un’opposizione robusta e non
oscillante. Anche qui qualche segnale positivo c’è: recentemente lei su Berlusconi ha
fatto dichiarazioni così dure che l’ottimo Giuliano Ferrara, che qualche mese fa
paragonò Bobbio e me a Goebbels, l’ha minacciata d’includerla nella mia stessa
categoria. Caro presidente, tutte le forze di opposizione sono nella stessa barca. Noi
non chiediamo a nessuno prebende o posti e neppure orologi d’oro. Ci muove
l’aspirazione a vivere in un paese dove non solo non venga la tentazione di dimettersi,
ma in cui si possa vivere bene e senza angoscia civile. Se in qualche modo possiamo
collaborare, eccoci qua. http://www.syloslabini.info/online/?p=419#more-419

Siamo di fronte ad una aggressione continua, manifestazione pericolosa di una ossessione quotidiana di un presidente del Consiglio che, privo da sempre del senso delle istituzioni, affida la propria sopravvivenza alla riduzione d'ogni istituzione ad un cumulo di macerie. La sua furia si nutre di insinuazioni, minacce, aggiunge all'attacco alla magistratura, abituale oggetto polemico, un nuovo affondo contro la scuola pubblica.

In questi giorni la Repubblica italiana sta prendendo congedo dall'Europa e dalla sua stessa Costituzione. Sta così tagliando le proprie radici. Non siamo solo di fronte ad una crisi istituzionale e politica, pur profondissima. Sprofondiamo in un tunnel oscuro, diviene sempre più evidente una "tirannia della maggioranza" ben al di là dei timori manifestati da Alexis de Tocqueville, perché la perversa legge elettorale maggioritaria e la sciagurata deriva verso il bipolarismo hanno separato i "designati" dai cittadini, hanno fatto perdere al Parlamento la sua virtù rappresentativa.

Ha scritto un filosofo liberale, Ronald Dworkin, che "l'istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far rispettare il diritto, dev'esser ancor più sincera".

Questi principi non scritti, ma fondativi della città democratica, sono ormai estranei al modo d'essere dell'attuale maggioranza. E forse la stessa nozione di maggioranza parlamentare ha perduto il suo significato storico, poiché siamo di fronte ad una semplice propaggine del potere di un autocrate, che premia famigli e designa successori, riceve suppliche da chi vuole andare ad occupare qualche posto di governo, dispone delle cariche pubbliche come di un pezzo del suo patrimonio personale.

Compiuta la prima fase della sua alta missione con l'edificazione di un muro a tutela della sua persona, il presidente del Consiglio annuncia ora una inquietante e pericolosa "fase due". Possiamo legittimamente chiamarla "decostituzionalizzazione". Questo è il tratto che unisce le proposte che dovrebbero segnare l'imminente stagione legislativa, nella quale si vuole sfruttare la spinta propulsiva delle radiose giornate del processo breve. Si tratta dell'"epocale" riforma costituzionale della giustizia, del minaccioso ritorno della legge bavaglio sulle intercettazioni, della disciplina ideologica e proibizionista del testamento biologico.

La riforma della giustizia, infatti, vuole in primo luogo rendere disponibile per i voleri della maggioranza l'intero sistema giudiziario. Questo non avviene soltanto attraverso una crescita complessiva del peso della politica in snodi fondamentali. Il punto chiave della riforma è rappresentato dal fatto che materie oggi affidate ad una diretta garanzia costituzionale vengono trasferite alla legislazione ordinaria. Due esempi. Nell'attuale articolo 112 della Costituzione si stabilisce che: "Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale". La riforma proposta dal Governo aggiunge le parole "secondo i criteri stabiliti dalla legge": sarà dunque la maggioranza del momento a stabilire in quali casi il pubblico ministero può indagare. Nell'attuale articolo 109 si stabilisce che "l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria". La riforma proposta dal Governo prevede che "il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge": sarà dunque la maggioranza del momento a determinare le informazioni di cui i magistrati potranno disporre. Il mutamento è radicale, la decostituzionalizzazione è compiuta. Ciò che la Costituzione aveva voluto sottrarre alla possibile prepotenza delle maggioranze, per garantire l'autonomia della magistratura, dovrebbe essere assoggettato proprio a questa ipoteca.

Ed è sempre la decostituzionalizzazione a comparire negli altri casi. Sappiamo bene che la stretta sulle intercettazioni colpisce uno dei fondamenti della democrazia, la libertà d'informazione di cui parla l'articolo 21. E la proposta di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (il testamento biologico) è congegnata in modo tale da espropriare ogni persona del diritto fondamentale all'autodeterminazione, riconosciuto dalla Corte costituzionale sulla base degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione.

Per chiudere definitivamente questa partita, l'obiettivo finale è indicato appunto nell'odiata Corte costituzionale, con la quale il presidente del Consiglio annuncia un definitivo regolamento di conti, probabilmente affidato ad una legge che escluderebbe la possibilità di decidere con il voto della maggioranza dei suoi componenti, sostituito da un quorum particolarmente elevato. Una mostruosità giuridica, sconosciuta a ogni civile sistema giuridico, che produrrebbe l'assurdo effetto di mantenere in vigore leggi che la maggioranza dei giudici costituzionali ha ritenuto illegittime. Il risultato complessivo di tutte queste mosse sarebbero la scomparsa di un effettivo sistema di garanzie, una alterazione degli equilibri costituzionale che ci porterebbe verso un mutamento di regime.

Quest'orizzonte ravvicinato, realistico e ineludibile, è quello al quale si deve guardare per individuare le strategie possibili per opporsi a questa ascesa, che appare a qualcuno non più resistibile con i mezzi ordinari della democrazia. Ma immaginare rovesciamenti del tavolo rischia di distogliere l'attenzione dalla faticosa ricerca di quel che deve essere fatto qui e ora.

Dicevo che la fase due, quella della decostituzionalizzazione, è inquietante, ma pure pericolosa. Il pericolo nasce dal fatto che siamo di fronte a proposte che potrebbero dividere il fronte delle opposizioni. Quando comparve la proposta di riforma costituzionale della giustizia, subito si materializzò il singolare partito dei "sedersialtavolisti". Ma chi mai accetterebbe di sedersi ad un tavolo da gioco insieme ad un baro, al tavolo di un ristorante dove il cuoco è un noto avvelenatore travestito da chef creativo? Mi auguro che la lezione del processo breve alla Camera sia servita a dissuadere gli aperturisti ad ogni costo, convincendo tutti della necessità di mantenere saldo un fronte comune. Allo stesso spirito l'opposizione dovrebbe ispirarsi in tutti gli altri casi, compreso quello del testamento biologico dove qualche cattolico potrebbe essere sedotto dall'ingannevole richiamo a valori non negoziabili.

In questi ultimi mesi Berlusconi ha costruito un conglomerato di cui non possono soltanto essere denunciate le modalità corruttive e i rischi grandi che fa cogliere al paese senza accompagnare questa diagnosi con una strategia politica conseguente - parlamentare, sociale, elettorale. E allora. Riprodurre in tutte le prossime occasioni parlamentari i comportamenti tenuti in occasione del processo breve, sfruttare ogni spazio parlamentare per far discutere le proposte dell'opposizione. Può reggere la maggioranza ad una mobilitazione permanente che coinvolga l'intero Governo? Non chiudersi in Parlamento, troppe cose avvengono nel paese. Costruire, quindi, una solida sponda politica per il crescente numero di cittadini che non si limitano a manifestare nelle piazze reale e virtuali ma, così facendo, costruiscono una concreta agenda politica. Ma, soprattutto, per le opposizioni scocca l'ora obbligata dell'unione, la sola a poter ricostruire le condizioni per una vera dialettica democratica.

Forse solo la saggia parola alle Camere del Presidente della Repubblica può ricordare a tutti che la politica deve essere sempre "costituzionale".

Silvio Berlusconi potrà pure scamparla con la prescrizione breve e col processo lungo sui casi Mills e Mediatrade. Potrà perfino riuscire, grazie al genio dei suoi avvocati, alla servitù della sua corte e al potere del suo danaro, a costruire, nel processo Ruby, una verità giudiziaria diversa dalla verità effettiva (si sa che esse raramente coincidono). Ma sa lui stesso che nel caso Ruby c'è scritta la sua fine. Firmata dalle testimoni. Donne. E' il punto cruciale su cui ha sbagliato i suoi calcoli: «le sue bambine» non sono tutte a sua disposizione. Quale che sarà la verità giudiziaria, è firmata da loro la sua fine politica. E con la sua fine politica, la fine di un'epoca, di un'etica e di un'estetica.

Non sono nuovi i fatti che emergono dalle deposizioni, rese spontaneamente, di Ambra Battilana e Chiara Danese, meno di diciannove anni ciascuna oggi, poco più di diciotto al tempo, agosto 2010, della loro prima e unica cena a Arcore: i particolari inediti - e raggelanti - confermano e aggravano un quadro già noto, e al quale il premier conta, quando la mette in burletta ostentando pubblici inviti al bunga-bunga, che ci siamo assuefatti. Nuovo però è lo sguardo, nuova è la voce, nuovo il vissuto e lo sconcerto delle due ragazze. A conferma che in questa storia quello che è decisivo non sono i nomi comuni - escort, prostitute, veline, meteorine - con cui si continuano a guardare le protagoniste e le comparse, ma i nomi propri, le storie singolari e le parole singolari; la singolare posizione di soggetto che ciascuna riesce o non riesce a conquistare, contro la comune condizione di oggetto cui il sultano e i suoi complici le vogliono costringere.

Soggetto non si nasce, si diventa: bisogna che qualcuno o qualcosa ci interpelli, perché riusciamo a dire «io». Può essere il richiamo della legge, può essere lo scandalo della menzogna. Per Chiara e Ambra, è lo scandalo della menzogna di un premier che sulla scena pubblica definisce «cene eleganti» quelle serate fatte di volgarità trash, con seni e sederi che si offrono alla sua bocca, barzellette «tanto sconce da essere irritanti» e statuette falliche da adulare a mo' di totem ma senza tabù. Sentirle definire eleganti, «proprio no», non era sopportabile, dice Chiara. E nemmeno era sopportabile, aggiunge Ambra, vedere il proprio nome associato, su Google, al bunga-bunga, oppure, sui giornali, a un numero, quello delle trentadue (o cinquantacinque che siano diventate nel frattempo) prostitute frequentatrici di Villa San Martino. E' stato di fronte a questa doppia e insopportabile menzogna che hanno detto «io», e deciso di consegnare ai magistrati la loro verità sulle notti di Arcore, assistite da un'avvocata, «che perdipiù è donna».

Non si sentono e non sono prostitute, Ambra e Chiara. Giocavano a diventare Miss Italia, prima e terza alle selezioni del Piemonte, quando il ruffiano di corte Emilio Fede le invita a Arcore, dopo averle «provinate» per fare le meteorine e averle già fatte passare per il primo esame: mani sui fianchi e sguardi sul sedere, così procede il direttore del Tg4 per decidere chi è degna e di no. Le due ragazze potevano e dovevano sottrarsi già a quel punto, e lo sanno: già nella cena con Fede, racconta Ambra, «ero stupefatta e mi vergognavo tantissimo», «non era un atteggiamento normale», «eppure non riteniamo di andare via, perché ci interessa quel tipo di contratto con il direttore che, tutto sommato, si era mantenuto abbastanza nei limiti». Tutto sommato, abbastanza nei limiti: è la contabilità misera e amorale in cui vivacchia il precariato di massa sotto perenne e sistematico ricatto. Tutto sommato, mi serve un contratto; il direttore è un porco, ma se si tiene abbastanza nei limiti glielo strappo e ne esco in piedi. Invece quello era solo l'assaggio; il piatto forte arriva la sera dopo a casa del Presidente. Conosciamo la scena ed è inutile tornare a descrivere la cena e il dopocena, le canzoni e la lap-dance, le paroline dolci e le palpatine ruvide del padrone di casa. Anche se degli inediti particolari raggelanti di cui sopra, corre l'obbligo di segnalare il tasso di feticismo che promana da quell'oggetto che viene fatto passare di mano in mano e di bocca in bocca: «E' una specie di guscio. Dal guscio esce un omino con un pene grosso. Ha le dimensioni di una bottiglietta d'acqua da mezzo litro. Il pene è visibilmente sproporzionato». Il feticcio giusto, per uno che appena può si definisce «un premier con le palle» e che dallo stato maggiore del suo partito, sezione lombarda, riceve in dono un toro Swaroski «con due palle come le tue, Silvio», e un uovo di Pasqua alto due metri con dentro Charlotte Crona in carne e ossa che suona il violino (dalle cronache della cena offerta da Berlusconi a villa Gernetto due sere fa).

Corre l'obbligo, ancora, di segnalare l'insistenza con cui le due ragazze vengono vigorosamente invitate a lasciarsi prendere da un gioco dal quale vogliono scappare. E il cinismo con cui, quando se ne vanno senza averci partecipato, il direttore del Tg4 le avverte che così sfuma il loro contratto e il loro sogno. Questa è la scena che un noto intellettuale di punta berlusconiano, intervistato sul Riformista di ieri, definisce «amicale» e improntata a libere e consapevoli strategie seduttive nelle quali, si sa, sono le donne ad avere in mano il gioco e a sfruttare l'uomo di potere. Per fortuna, nel caso di Chiara e Ambra, ci sono alle spalle due madri che loro definiscono «semplici». Due collabortatrici domestiche, disposte ad accompagnarle nel sogno di diventare miss. Ma capaci di dire, al momento giusto: il gioco è finito, andate a dire la verità.

Mercoledì 13 aprile, alle 20.00, al Cinema Astra di Napoli si presenta il film documentario “Soltanto il mare” (50’, 2011), di Dagmawi Yimer, Giulio Cederna e Fabrizio Barraco, con le musiche originali di Nicola Alesini. [qui il trailer e il calendario delle proiezioni]. Girato a Lampedusa nel corso del 2010, periodo nel quale l’isola aveva smesso di fare notizia, e completato all’inizio del 2011, quando i nuovi sbarchi l’hanno riportata su tutti i media, il film propone lo sguardo incrociato di due realtà che a Lampedusa raramente dialogano tra loro: quella di un migrante, in questo caso Dagmawi Yimer, sbarcato da clandestino sulle coste dell’isola nel 2006, e quella dei lampedusani.

Soltanto il Mare vuole essere innanzitutto un omaggio a Lampedusa da parte di chi, come Dagmawi, all’isola deve la sua stessa vita. Le proiezioni sarabnno un’occasione per riflettere sul dovere morale di aiutare un’isola stretta tra una crisi umanitaria epocale, che non può fronteggiare da sola, una guerra a due passi, la stagione turistica ormai compromessa e una serie di problemi irrisolti che si trascinano da anni. Prodotto dall’Archivio Memorie Migranti di Asinitas, Alessandro Triulzi e Marco Guadagnino, in collaborazione con fondazione lettera27, il film ha ottenuto il premio del pubblico al Salina DocFest e il riconoscimento per il miglior film nella sezione migranti e viaggiatori al Festival del Cinema Africano di Verona.

Dalla note di regia:

“Giorno dopo giorno l’isola si apre e ci regala nuove storie, situazioni inaspettate, cortocircuiti. Al migrante fresco di sbarco l’isola era apparsa come l’avanguardia del benessere - con i suoi alberghi, le sue barche, i suoi turisti - alla sua videocamera si svela ora piena di problemi; l’aveva immaginata come frontiera del progresso, la ritrova isolata dal mondo, con lo sguardo nostalgico rivolto al passato e una patina fresca di vernice già incrostata di salsedine”.

Di fronte a Sarkozy e alla Merkel in camicia verde, i camaleonti della destra italiana reagiscono cambiando colore: si appellano ai principi della Ue che fino a ieri dileggiavano, nelle campagne contro la moneta unica e gli "euroburocrati" di Bruxelles.

Per colmo d’ironia la circolare diramata dal ministro degli Interni francese Guéant, allo scopo di bloccare l’accesso oltralpe dei tunisini dotati di permesso di soggiorno temporaneo in Italia, sembra fotocopiata da certe "ordinanze antisbandati" frutto della creatività di vari sindaci leghisti e dello stesso Maroni. Le ultime a poterne criticare la mancanza di carità sono dunque le sbiadite camicie verdi nostrane, esposte all’insofferenza di una base che avevano illuso con la retorica dei "respingimenti" e l’ignominia del fora di ball.

I tedeschi, invece, come al solito si rivelano ferrati nel conteggio delle cifre: difficile ignorare le decine di milioni di euro già oggi stanziati dalla Ue a sostegno dell’accoglienza dei disperati del mare. Vero è che i fondi comunitari non basteranno se gli sbarchi dal Nordafrica dovessero continuare al ritmo attuale. Ma intanto a Berlino fanno presente che il loro numero complessivo, tuttora inferiore ai trentamila arrivi nei primi tre mesi e mezzo del 2011, non ha le caratteristiche dell´"esodo biblico" o dello "tsunami umano" sbandierato dalle autorità italiane.

È certo per ragioni poco commendevoli di politica interna che Sarkozy e la Merkel indossano la camicia verde, rammentandoci che alla geografia non si comanda e dunque in Europa i meridionali siamo noi. Di fronte alla loro grettezza, una classe dirigente nordista spiazzata dalla perdita dei suoi abituali interlocutori africani, Gheddafi, Mubarak e Ben Ali, misura lo svantaggio dei rapporti di forza. Ben poco le servirà minacciare una rottura dei trattati europei, eventualità sciagurata da cui gli italiani avrebbero solo da perdere. Diverso sarebbe stato se, assumendo come virtuoso il suo destino mediterraneo, l’Italia si fosse protesa nel sostegno alla crescita di società aperte sulla vicina sponda sud del mare. Ma Berlusconi, Bossi e Maroni sono per loro natura impossibilitati a farsi portavoce di una fratellanza euro-africana, da recare in dote a tutta l’Unione.

Basti pensare che Maroni chiede a Bruxelles l’applicazione ai tunisini della direttiva 55 del 2001, per la protezione dei rifugiati in fuga dalle zone di guerra, quando ancora il governo italiano si ostina a non recepire l’altra direttiva europea che chiede un percorso più graduato nel rimpatrio dei migranti irregolari. In altre parole, vorremmo un’Europa compassionevole nei confronti dell’Italia fino al punto di considerare eccessivo per il nostro Paese sobbarcarsi da solo 14.500 permessi di soggiorno temporanei (tanti sono i possibili beneficiari del decreto, sulla base delle presenze registrate dal Viminale); lasciando però che nei confronti dei profughi e dei migranti venga ripristinato il "metodo Gheddafi-Maroni", con sbrigative pseudo-identificazioni in mezzo al mare e respingimenti immediati.

Nella trattativa con la Commissione europea non ha certo giovato alla credibilità del governo Berlusconi la disinvoltura con cui i suoi ministri diramavano previsioni a casaccio: prima l’annuncio di tre-quattrocentomila profughi in arrivo, poi ridotti a centocinquantamila. Tutte cifre lontanissime dalla realtà. Fermo restando che l’Italia, come del resto gli altri Paesi europei, accoglie ogni anno sul suo territorio un numero di immigrati di gran lunga superiore a quello per cui ora lancia allarmi sconsiderati (l’Istat calcola più di 350 mila nuovi arrivati nel solo 2010). Rispetto agli altri paesi europei accoglie un numero molto più basso di rifugiati politici. E in barba al proclama mendace, "aiutiamoli a casa loro", resta in assoluto il paese occidentale che destina meno fondi per lo sviluppo dei paesi poveri.

Certo i militanti leghisti chiamati a manifestare sotto il consolato tunisino di Milano con lo striscione Fora di ball si riconoscono più facilmente nel Mario Borghezio che scende a Lampedusa insieme a Marine Le Pen per invocare il rimpatrio forzato dei tunisini, magari con la flotta militare come ieri proponeva a Radio Padania il trevigiano Giancarlo Gentilini; faticano a giustificare il loro Roberto Maroni costretto a decretare permessi temporanei.

C’è da stupirsi se Sarkozy ripaga i leghisti della loro stessa moneta, visto che soffre l’asse xenofobo dei padani con la sua concorrente Le Pen? E l’Europa perché dovrebbe prendere sul serio le richieste di chi tuttora giustifica le truffe sulle quote latte?

A Lampedusa il colpo di teatro e la demagogia promozionale, a Roma il colpo di mano e la macelleria costituzionale. Diciassette anni dopo il suo primo trionfo elettorale del 29 marzo 1994, Silvio Berlusconi regala all´Italia un altro mercoledì nero della democrazia. L´ultimo strappo si è dunque compiuto. Con un atto di forza, tecnicamente eversivo e politicamente distruttivo, la destra inverte l´ordine dei lavori, e impone alle Camere l´approvazione immediata della legge sul processo breve e sulla prescrizione «corta» per gli incensurati. Cioè la trentottesima legge ad personam dell´era berlusconiana.

Eccola, la vera «riforma epocale» della giustizia che il presidente del Consiglio ha sempre avuto nel cuore e nella testa. Non è il disegno di legge di revisione costituzionale di Alfano, spacciato tre settimane fa dal guardasigilli al Capo dello Stato e all´opinione pubblica come una «svolta storica». L´epifania di una nuova era, nella quale la destra rinunciava alle leggi tagliate a misura per i bisogni di un solo imputato, per tutelare quelli di tutti i cittadini. E su questa piattaforma proponeva una fase di pacificazione, chiedendo alla magistratura di scendere alle barricate, e all´opposizione di aprirsi al dialogo.

Non abbiamo mai avuto dubbi. Ma ora abbiamo la «smoking gun». Quello è stato solo un inganno istituzionale e un tranello comunicazionale. Fabbricato ad arte, insieme alla guerra non guerreggiata contro la Libia e all´emergenza profughi sbandierata e non gestita, per distrarre l´attenzione. Mentre armava malvolentieri i nostri caccia in volo verso Tripoli e le nostre navi in rotta verso Lampedusa, in realtà il Cavaliere militarizzava la sua maggioranza in vista dell´unica battaglia che gli sta a cuore: quella contro la procura di Milano. Una battaglia che lo deve vedere a tutti i costi vincitore, e dunque finalmente e definitivamente libero da tutte le sue pendenze giudiziarie.

Il blitzkrieg sul processo breve è la conferma di un lucido progetto di destrutturazione del sistema giurisdizionale ad uso privato. Tutti i passi compiuti in quest´ultimo mese sono stati funzionali all´obiettivo. Lunedì la scena madre a Milano, con il predellino bis davanti a un Palazzo di Giustizia trasformato in palaforum da campagna elettorale: colossale finzione propagandistica, per dimostrare alla sua gente la «persecuzione giudiziaria» dei soliti comunisti. Ieri, nel retroscena di Montecitorio, al riparo dai riflettori concentrati sull´imbarazzante televendita approntata nella nostra povera Ellis Island del Mar di Sicilia, il «delitto perfetto» sul processo breve. Ultimo e tombale «salvacondotto», per mettersi al riparo entro l´estate dalla probabile condanna nel processo Mills.

Così, in un giorno solo, il Cavaliere torna Caimano. Cioè quello che, in fondo, non ha mai smesso di essere. A dispetto di tutte le dissimulazioni, alle quali hanno creduto alleati agguerriti e avversari spauriti. E confusi dalla tattica collaudata in un quasi Ventennio. Con una mano, esibita al pubblico plaudente, ti porgo un ramoscello d´ulivo. Con l´altra mano, nascosta dietro la schiena, mi preparo a colpirti con un bastone. Adesso c´è un´aggravante in più. Per salvare il premier, passa una legge che azzera migliaia di processi, e manda impuniti reati comuni gravissimi, dalla rapina alla violenza sessuale. È il prezzo, intollerabile, messo da Berlusconi sul conto degli italiani: per garantire la sua impunità, devono rinunciare alla loro giustizia.

Questa è dunque la vera «riforma» del centrodestra. Non c´è da gridare allo scandalo, se di fronte a questo nuovo abuso di potere mezzo Parlamento si sia sollevato, per gridare «vergogna». Quello che stupisce, semmai, è che interi pezzi di una destra che una volta fu legalitaria si adeguino. Dalla Lega agli ex di An. Gente che negli anni di Mani Pulite agitava nell´emiciclo i cappi davanti alla Prima Repubblica (come Bossi, un ministro ormai chiaramente impresentabile) e che oggi difende, perché li incarna, i privilegi della Seconda. Gente che sfilava in piazza per i magistrati (come La Russa, un ministro ormai palesemente inadeguato) che per difendere l´indifendibile insulta a viso aperto il presidente della Camera Fini.

Si grida allo scandalo, invece, perché fuori dal Palazzo tornano le folle che contestano e lanciano monetine, come all´epoca di Craxi davanti al Raphael. Ogni forma di protesta violenta va stigmatizzata. Ogni forma di deriva anti-politica va arginata. Il berlusconismo si supera solo con la fatica della politica e con la pazienza della democrazia. Ma manifestare il proprio dissenso, di fronte a quanto accade, è lecito e doveroso. E al premier e ai suoi cantori, che oggi lamentano il «clima», verrebbe da dire: chi semina anti-politica, raccoglie anti-politica. Le scorciatoie populiste non corrono sempre nella stessa direzione. Capita che si muovano all´inverso, e generino populismi uguali e contrari.

Su questa linea del fronte, la destra accusa «Repubblica». Usando strumentalmente l´articolo 68 della Costituzione, appellandosi alla sovranità del voto popolare, invocando il ripristino dell´immunità parlamentare e deprecando la bocciatura dello scudo per le alte cariche dello Stato. Ma farebbe bene a ricordare una verità elementare. Storica e politica. Quando scrissero quelle norme, i padri costituenti e i legislatori lo fecero in astratto, e su casi indistinti. Era la grundnorm di Hans Kelsen, concepita per regolare un sistema, non per proteggere un singolo.

La questione odierna è totalmente diversa. Qui si vara una legge che, mentre altera e snatura il sistema, entra nella carne viva di una specifica vicenda processuale e strappa una persona (proprio «quella» persona) al suo giudice naturale. In qualunque democrazia occidentale sarebbe inutile rammentare questa abissale differenza, a chi finge di non vederla e non vuol farla vedere ai cittadini elettori. Ma nell´Italia di oggi è doveroso: per rompere la nube tossica di mistificazione politica e di manipolazione semantica che l´egemonia culturale della destra berlusconiana sparge a piene mani sul Paese.

Neppure l’oppositore più prevenuto avrebbe potuto attribuire a Berlusconi le parole che ha realmente pronunciato presentando il suo progetto sulla giustizia: con questa legge - ha detto - non vi sarebbero mai state le indagini di Mani pulite. In altri termini, non sarebbe mai stato rivelato ai cittadini il degrado etico-politico che ha portato all’agonia e al tracollo della "Prima Repubblica". Il premier ha aggiunto: desidero questa legge dal 1994.

Cioè dal momento in cui il suo populismo antipolitico ha potuto affermarsi sulle macerie di un sistema partitico minato dalla corruzione e incapace di rinnovarsi. Perché Berlusconi ha voluto e potuto proclamare ad altissima voce opinioni e propositi che anni fa sarebbero stati vissuti dal sentire comune del Paese come un vero e indecente vulnus?

Perché, anche, ha fatto una dichiarazione di guerra così aperta alla magistratura e alla Costituzione proprio alla vigilia di processi che ha tentato di evitare in tutti i modi e con tutti i lodi possibili, entrando in ripetuto conflitto con la Corte Costituzionale e con la Presidenza della Repubblica (con Ciampi prima, e con Napolitano poi)?

Si tratta di una vera prova di forza - favorita dal dissolversi di una possibile "destra diversa" e dall’ormai cronico stato di confusione del centrosinistra - o è l’escalation di una pericolosissima debolezza?

Il progetto proposto è senza dubbio una "contro-riforma incostituzionale", come ha scritto Massimo Giannini, basata sul predominio del potere politico sul potere giudiziario, in dispregio di quell’equilibrio fra poteri che è alla base di ogni Costituzione democratica.

Se avesse una maggior dimestichezza con la storia patria Berlusconi forse evocherebbe, nelle sue ville e nelle sue feste, quell’articolo dello Statuto Albertino secondo cui "la Giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce". In questo scenario la riabilitazione della corruzione politica degli anni Ottanta - di questo si tratta - ha il senso di un atto simbolico interamente proiettato sul presente e sul futuro. E ha trovato, al solito, incauti ed entusiasti seguaci.

L’entusiasmo ha reso un pessimo servizio al direttore de "Il Giornale", che ha iniziato un suo editoriale di damnatio della magistratura evocando addirittura il 1974 ed attaccando frontalmente l’allora magistrato Luciano Violante, reo d’aver incriminato per tentato golpe Edgardo Sogno. "Una bufala", scrive elegantemente Sallusti. Peccato che lo stesso Sogno poco prima di morire abbia ammesso che l’accusa era pienamente fondata, e abbia affidato la sua testimonianza a un libro scritto con Aldo Cazzullo (è stato pubblicato dieci anni fa dalla Mondadori e ristampato di recente: il direttore del "Giornale" non dovrebbe avere difficoltà a procurarselo).

In quello stesso 1974 alcuni giovani pretori portavano alla luce le tangenti petrolifere e documentavano in modo inoppugnabile un salto di qualità decisivo della corruzione: non più somma di episodi ma metodo, con percentuali concordate e procedure sempre più "istituzionalizzate".

Scavò qui la talpa del degrado - non della rivoluzione, come avrebbe voluto il vecchio Marx - che portò alla crisi del "sistema dei partiti", e gli anni Ottanta furono il decennio della sua escalation. Una escalation che era sembrata allora tanto evidente quanto inarrestabile, ampiamente documentata dai processi che progressivamente si allargarono alle più differenti parti del Paese.

Era il 1984 quando un vicepresidente della Camera, di solida appartenenza democristiana, dichiarava: "Hanno reso fiorente la cultura della tangente tanto da farne la ragione di ogni attività politica". E negli anni successivi i principali quotidiani, con parole sempre più attonite e convergenti, ebbero a segnalare appunto l’affermarsi della tangente come "taglia permanente, tassa di cittadinanza", o di un potere "che incombe come fardello imposto alla società sotto forma di lottizzazioni e tangenti". O, ancora, l´"incrociarsi della corruzione dall’alto e di quella dal basso".

Di fronte alla realtà che le indagini rivelavano, Norberto Bobbio scrisse che una fine così miseranda della "Prima Repubblica" era l’espressione del fallimento di tutta una nazione. Non del solo ceto politico: dell’intero Paese.

L’incapacità di interrogarsi su quel nodo, la volontà di autoassolversi (un tratto non effimero della nostra storia) favorirono una rimozione profonda, e grazie ad essa fece progressivamente le sue fortune il progetto berlusconiano di imporre nuove e più solide forme di impunità. Un progetto sempre più esplicito e sempre più condiviso all’interno del centrodestra, i cui esponenti hanno dichiarato a più riprese nell’ultimo periodo: Berlusconi non farà la fine di Craxi perché, a differenza del Psi, il Pdl farà muro. Hanno cioè dichiarato: la salvezza del premier non risiede nella sua innocenza ma nella salda omertà di un partito in cui le "cricche" sono diventate cemento e ragion d’essere.

Su un punto il premier ha ragione: il rovesciamento incostituzionale che oggi vuol portare a termine è stato preparato in un lunghissimo scorrere di anni. E non sarebbe stato possibile senza gravissimi errori compiuti dal centrosinistra negli anni stessi in cui ha governato.

Non fu rimosso allora il conflitto di interessi, destinato così a ingigantirsi, e - ancor di più - vi furono vistosi cedimenti di fronte ad una offensiva che si basava sugli stessi cardini del disegno di legge attuale: l’attacco alla obbligatorietà dell’azione penale e la subordinazione della magistratura al potere politico. Fu questa offensiva ad avere troppo larghi spazi nella Commissione Bicamerale, favorita dalla insipiente illusione del centrosinistra di "normalizzare" Berlusconi (e il berlusconismo). Nel momento stesso in cui affossava la Commissione il Cavaliere andò a dire a un convegno dei giovani industriali: fino a quando il potere politico non diventerà il "dominus" dell’azione giudiziaria non si potranno fare riforme in Italia (lo sottolineava con chiarezza su questo giornale Eugenio Scalfari: era il 1998).

Il progetto oggi giunge a termine, e anche oggi intreccia obiettivi concreti e atti altamente simbolici: atti destinati comunque a lasciare il segno, a scavare a fondo in un terreno che è diventato sempre più friabile, perlomeno nelle stanze della politica. E il vero bersaglio, come nei recenti (o recentemente reiterati) attacchi alla scuola pubblica, è l’essenza stessa della Costituzione.

Alcuni anni fa Christoper Lash osservava che nel mondo contemporaneo la democrazia corre seri rischi non tanto per intolleranza quanto per indifferenza. In Italia, oggi, non è più solo così: intolleranza e arroganza del potere non sembrano avere limiti, e solo la fine dell’indifferenza potrà porvi rimedio. Solo la difesa intransigente di principi e valori irrinunciabili.

Il prefetto Franco Gabrielli, da quattro mesi capo della Protezione Civile, non soffre di ego ipertrofico come Guido Bertolaso, che si riteneva secondo per popolarità soltanto al pontefice di santa romana chiesa. Ma quanto a supponente rudezza qualcosa ha preso dal suo predecessore. Ne ha dato un saggio attaccando una delle rare misure ragionevoli contenute in quell'incredibile guazzabuglio legislativo che va sotto il nome di decreto Milleproroghe: il ritorno della Protezione Civile sotto il controllo del ministero dell'Economia e della Corte dei Conti.

Saggio desiderio del ministro Giulio Tremonti, ma non del sottosegretario Gianni Letta, fin dalla scorsa estate, dopo l'esplosione dello scandalo della Cricca, favorito da 600 ordinanze dirette della presidenza del Consiglio. Una sorta di corpus giuridico parallelo che ha trasformato l'emergenza in prassi, edificando un sistema di amicizie, vassallaggi, clientele, favori, appalti truccati e appartamenti regalati, con un immenso spreco di risorse finite in corruzione invece che in salvaguardia del territorio.

Per Gabrielli, che da prefetto dell'Aquila si era segnalato soprattutto per il sequestro di alcune carriole con cui gli aquilani volevano cominciare a rimuovere le macerie dal centro cittadino, le norme che dovrebbero riportare un minimo di controllo sulla spesa di un fiume di denaro pubblico "affonderanno come il Titanic la Protezione Civile migliore del mondo", allungando a suo dire i tempi degli interventi per la gestione delle emergenze. Anche le ordinanze firmate dal presidente del Consiglio dovranno essere emanate di concerto con il ministro dell'Economia e poi sottoposte al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti. Ma i tempi dati alla magistratura contabile sono strettissimi: sette giorni. E nel frattempo i provvedimenti potranno essere dichiarati "temporaneamente efficaci", con motivazione della stessa Protezione Civile. Qual è allora il problema? E perché mai di fronte a una catastrofe il ministro dell'Economia o la Corte dei Conti dovrebbero frapporre ostacoli da "burocrati", come Gabrielli preconizza?

Certo, la totale autonomia finanziaria di fatto era più comoda. Ma visto ciò che ha prodotto in un decennio, meglio avrebbe fatto il sanguigno prefetto Gabrielli a marcare la distanza rispetto alla precedente stagione e a chiedere semmai un intervento più significativo per definire i suoi campi d'azione. Per esempio abolendo i singolari compiti che fin dal 2001 la Protezione Civile conserva nella gestione dei cosiddetti Grandi Eventi, sconfinato terreno di sprechi, corruzione e degrado etico dell'intero paese, come i fatti hanno dimostrato.

Invece, in questo bizantino teatro di paradossi chi dovrebbe occuparsi della sicurezza dei cittadini, di calamità naturali e di emergenze continuerà a gestire pubblici appalti per l'organizzazione delle celebrazioni di Padre Pio o delle corse di ciclismo, dell'Expo di Milano o delle futuribili Olimpiadi del 2020 cui Roma aspira. Nella speranza che frane, alluvioni e terremoti ci risparmino.

L’Italia precipita in una rovinosa "democrazia del conflitto". Come è evidente, si fronteggiano due forze. Da una parte c’è lo Stato, con le sue ragioni e le sue istituzioni. Il simbolo dello Stato, oggi più che mai, è Giorgio Napolitano. Dall’altra parte c’è l’Anti-Stato, con le sue distorsioni e le sue convulsioni. Il paradigma dell’Anti-Stato, ormai, è Silvio Berlusconi. Dall’esito di questa contesa dipenderà l’assetto futuro del nostro sistema politico e costituzionale. La giornata di ieri fotografa con drammatica evidenza questa contrapposizione irriducibile tra due modi diversi di vivere la cosa pubblica e di interpretare il proprio ruolo nella "polis". Il capo dello Stato, in un’intervista al settimanale tedesco Welt am Sonntag, tenta di ricucire il tessuto lacerato delle istituzioni.

Si fa interprete dell’esigenza di responsabilità che si richiede alla politica e del bisogno di normalità che chiede il Paese. Si fa ancora una volta custode della Costituzione. Non per conservarla staticamente, ma per farla agire dinamicamente nella naturale dialettica tra i poteri. Questo vuol dire Napolitano, quando parla dei processi del premier osservando che si svolgeranno «secondo giustizia»: il nostro sistema giurisdizionale, incardinato coerentemente nel meccanismo della garanzia costituzionale, gli permetterà di difendersi davanti ai tribunali, di far valere le sue ragioni di fronte ai suoi giudici naturali.

Si tratta solo di riconoscere la legittimità dell’ordinamento giuridico e la validità dei suoi codici.

Si tratta solo di accettare l’irrinunciabilità di un principio che sta alla base della convivenza civile: la legge è uguale per tutti, tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. In altre parole, si tratta solo di riconoscere lo Stato di diritto, di difenderlo come una missione, e non di subirlo come una maledizione.

Invece è proprio questo che Berlusconi ha fatto e continua a fare. Il capo del governo, nel suo ormai rituale messaggio domenicale ai promotori della libertà, fa l’esatto opposto di quello che ha fatto e continua a fare Napolitano. Allarga lo strappo istituzionale, esaspera lo scontro tra i poteri, rilancia le «riforme della giustizia» a una sola dimensione: non quella dei cittadini, che chiedono un sistema giurisdizionale più equo, più rapido e più efficiente, ma quella del premier, che esige una magistratura umiliata, delegittimata e subordinata alla politica. Spaccare il Csm, separare le carriere, stravolgere i criteri delle selezioni dei giudici della Consulta, reintrodurre l’immunità parlamentare come mezzo per assicurarsi l’impunità politica, rilanciare la legge – bavaglio per negare ai pm l’uso di un prezioso strumento investigativo come le intercettazioni e per negare all’opinione pubblica il diritto di essere informata su ciò che accade negli scantinati del potere. Tutto questo non è nobile «garantismo liberale», ma truce avventurismo politico. Non è alto «riformismo costituzionale», ma bassa macelleria ordinamentale. «Atti insensati», quelli della Procura milanese? Piuttosto sono «atti sediziosi» quelli del premier. Ed è penoso, per non dire scandaloso, che su alcuni di questi atti trovi una sponda anche nel centrosinistra, che non sa più distinguere tra le leggi varate nell’interesse di una persona e quelle varate nell’interesse della collettività.

Con queste premesse, lo Stato di diritto non si difende né si migliora: va invece abbattuto e destrutturato. Questa è oggi la posta in gioco. Questa è la portata della guerra tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Una guerra asimmetrica tra un capo del governo che l’ha dichiarata e la combatte ogni giorno, e un capo dello Stato che non l’ha mai voluta e ora tenta di disinnescarla. Ma in questa guerra, di qui al 6 aprile, il Cavaliere trascinerà ogni cosa. Trascinerà il governo, trasfigurato in una trincea dove l’unico motto di generali e luogotenenti è «credere, obbedire, combattere».

Trascinerà il Parlamento, trasformato nel «tribunale del popolo» che dovrà opporsi a qualunque costo al tribunale di Milano. Trascinerà il Paese, che non ha bisogno di «rivoluzioni» populiste né di pulsioni autoritarie, ma urgente necessità di una strategia per tornare a crescere, produrre ricchezza e occupazione, a offrire opportunità alle donne e futuro ai giovani. Questa è e sarà la guerra delle prossime settimane. Proprio per questo, in un momento così difficile, dobbiamo essere grati a Napolitano. Senza il suo Presidente, l’Italia sarebbe un’altra Repubblica.

«Monocratica», non più democratica.

Attrarre pubblici, costruirsi le strutture, diffondere un'immagine appropriata - sono qualità decisive per ogni città che voglia affermare (nel mondo globale) una propria identità culturale riconoscibile e competitiva. Tutto questo richiede tempo e fatica, ma si distrugge in pochi attimi con lo spoil system.

Prendiamo Roma. La città di Argan e Petroselli, tra effimero e «progetto Fori», capace di sedurre il ministro della cultura di Mitterrand, Jack Lang; e - dieci anni dopo - la città del Colosseo che si illuminava contro la pena di morte e delle notti bianche di Veltroni... È diventata la città buia di Alemanno, che dopo due anni persi inseguendo la Formula 1 all'Eur (o la demolizione di Torbellamonaca), scopre più di duecento campi nomadi ignoti al Campidoglio. Senza la fantasia tolkieniana di Umberto Croppi, come non vedere che l'estate romana si è trasformata in un ristorante di scarsa qualità e alti prezzi, allestimenti tutti uguali e programmi in saldo estivo; che l'ambiziosa Festa del Cinema, senza più nessuna ambizione di competere con Venezia, ha perso comitato scientifico, le punte più radicali del team di programmatori, una metà del suo budget, e si prepara a ribattezzarsi Festa del Cinema e della Fiction (per rendere più visibile il ruolo della Regione Lazio)!

Questo destino da Beckett di dopolavoro è del resto già toccato alla Casa del Cinema di Villa Borghese. L'Auditorium - Parco della Musica non è più presieduto da una personalità della cultura ma da un imprenditore, con le prevedibili conseguenze che possiamo immaginare. Il contributo del Comune all'Azienda Autonoma Palaexpò (che comprende anche le Scuderie del Quirinale) scende da 8 a 2 milioni di euro, rimettendosi per il proprio futuro al portafoglio privato di Emanuele Emmanuele. Il Macro (come del resto il Maxxi) rischia, sempre per i tagli, la chiusura a pochi mesi dall'inaugurazione del nuovo ingresso. L'Opera si affida all'uso improprio del nome di Riccardo Muti per coprire un più che ordinario tran tran, il Teatro di Roma non ha trovato di più di Gabriele Lavia. Villa Borghese è visibilmente abbandonata ai vandali, non si chiudono nemmeno più i cancelli del Giardino del Lago la notte... I «teatri di cintura» e la Casa del Teatro non hanno altro futuro che quello che vorrà Zetema, il manager (monopolista e scelto dal potere politico) al posto dell'autonomia della cultura. Dove è restato l'intellettuale, lo si è scelto «uso a obbedir tacendo» (alla Casa del Cinema e della Fiction Caterina D'Amico, che non ha nemmeno chiesto a Mauro Masi perché Rai Cinema - di cui era amministratore delegato - doveva acquistare i diritti di trasmissione del film di Dragomira Bonev, quasi al prezzo del Caimano...).

Lo spoil system di Roma può persino apparire un modello di rispetto del principio di continuità istituzionale rispetto a quanto sta accadendo a Napoli. In odio a Bassolino se ne abbattono non i simulacri ma le cose buone che aveva fatto. Qualcuna era già caduta da sola, come il Museo Aperto lungo i Decumani; o si era deteriorata come il Maggio dei Monumenti. Ha un tremendo valore simbolico che - dopo quindici anni - questo Capodanno si sia interrotta la tradizione di aprire l'anno nuovo con un'installazione di un grande artista contemporaneo - Paladino, Kounellis... - in Piazza Plebiscito. Eduardo Cicelyn, direttore del Madre, un museo d'arte contemporanea che l'Europa ci invidia per il luogo in cui sorge, Palazzo Donnaregina, per la qualità architettonica con cui è stato allestito da Alvaro Siza, e per il valore delle sue collezioni e delle sue mostre, è sottoposto da più di un anno alla macchina del fango. Il Napoli Teatro Festival dopo tre anni chiuderà i battenti, col programma 2011 già stampato e con fondi europei che dovranno essere restituiti, perché si sono voluti licenziare tutti i suoi dipendenti (compreso il direttore artistico Renato Quaglia) e dimissionarne d'autorità il consiglio d'amministrazione. I pretesti sono degni della favola dell'agnello e del lupo: al Teatro Stabile di Napoli, il Mercadante, c'è una flessione delle presenze in sala, e senza ricondurla alla campagna denigratoria contro il suo direttore artistico Andrea De Rosa, se ne nomina un altro, che ha il pregio di essere particolarmente gradito a Gianni Letta (noncuranti di dover pagare per almeno un anno una doppia direzione artistica).

Che questo accada è perfettamente conforme alla politica per la cultura del Governo Berlusconi. Tagli al Fus; tagli persino al tax shelter per il cinema; trasformazione della Rai, azienda pubblica, nella copia conforme della Fininvest, con Mauro Masi a fare da cane da guardia; tagli al bilancio del ministero dei Beni culturali; crolli a Pompei; desertificazione delle sopraintendenze; Colosseo affidato a Della Valle; spada di Damocle sospesa sull'editoria; un ministro che diserta Cannes, Venezia e Scala di Milano; soppressione della Direzione generale per il paesaggio e l'architettura contemporanea ... La legge Gelmini, la soppressione del Cnr, i panini con la Divina Commedia di Tremonti, il furore anti '68 (comodo capro espiatorio), il «piano casa», la tragica menzogna dell'Aquila «ricostruita» sono in perfetta sintonia con un quadro che ha un chiaro significato: il lavoro intellettuale non ha più futuro in Italia, se non accetta di diventare una variante dell'industria della pubblicità. Anziché i «cattivi maestri» delle università, si consigliano Daniela Santanchè, Fabrizio Corona e Lele Mora. Quello che sorprende è l'incapacità politica delle opposizioni, a partire dal Pd, di farne la questione centrale, quella che meglio può disegnare partendo dal negativo il futuro possibile dell'Italia dopo Berlusconi.

Dice il presidente del Consiglio che un golpe morale è in atto contro di lui, e che a cospirare sono le procure, i giornali, le donne che domenica hanno manifestato contro un premier giudicato indegno della carica che ricopre.

Dice ancora, anticipando quella che sarà la sua strategia difensiva: «Io sono un uomo separato e sono libero di fare quel che voglio a casa mia. Vogliono farmi dimettere e basta». Sventola la bandiera della libertà, grida al lupo indicando il Tribunale di Milano che ieri l´ha rinviato a giudizio con rito immediato per concussione e prostituzione minorile, ma in questo suo sventolare c´è qualcosa che non va. Pur occupando il potere, non cessa di presentarsi come uomo privato, nella cui vita nessuno può interferire. S´identifica addirittura col piccolo mugnaio di Federico II, che ai soprusi del despota replicò: «C´è pur sempre un giudice a Berlino». Al tempo stesso, nella qualità di uomo pubblico, accampa diritti a un´impunità che nessun cittadino o mugnaio possiede.

Difficile sottrarsi al dubbio che si mimetizzi nella folla, diventandone il megafono, per meglio centralizzare un comando che non tollera contropoteri. Nella Fattoria degli Italiani cui anela, tutti sono eguali ma ce n´è uno, lui, più uguale degli altri. Tutti devono rispondere dei propri atti davanti alla legge ma non lui né la sua cerchia, che vive nella crepuscolare terra di nessuno dove pubblico e privato si confondono. Quando vuol nascondersi si rifugia nel privato, reclamandone l´inviolabilità. Quando passa al contrattacco cinge la corona e decreta: il mio corpo coincide con il re e non si tocca. Non si tocca neppure quello della mia corte, che condivide i miei privilegi finché mi resta fedele. Tutto sta a muoversi di continuo da una casella all´altra. Giolitti diceva di Mussolini: «Il fascismo è come una trottola, se si ferma cade».

Non è questo, d´altronde, il motivo per cui volle scendere in politica, fra il ´92 e il ´94, come si scende in uno scantinato per sfuggire il giudizio della pòlis? Non è, la sua, un´ininterrotta battaglia contro l´obbligatorietà dell´azione penale, sancita dalla Costituzione nell´articolo 112? Le parole che Fedele Confalonieri disse nel 2000 a («La verità è che se non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l´accusa di mafia») lui non le ha mai smentite. Il presidente di Mediaset aggiunse anni dopo su La Stampa: «Trattare non gli piace. Gli riesce difficile prendere atto che la democrazia pone dei freni. Le leggi ad personam le fa per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro». Confalonieri non parla solo del capo ma della sua cerchia («Noi saremmo in galera»). Ambedue sono unti dalle urne.

È da questi scantinati che sgorgano le parole fatali escogitate anche oggi per confondere le menti: la democrazia concepita come libertà di ciascuno (Premier compreso) di fare quel che desidera; l´accusa di moralismo rivolta a chi respinge tali idee; l´allergia a ogni freno che fermi l´arbitrio del capo. Questa commedia degli errori (il privato è pubblico, il pubblico è privato, sono io a decidere cos´è morale, democratico, lecito) ha la forza dell´inafferrabilità perché continuamente gioca con le funzioni, le definizioni, piegandole a proprio piacimento. Non c´è parola detta nello spazio pubblico che non venga subito trasformata in flatus vocis, in nominalistica emissione di suono che si sperde fra altri suoni sino a divenire inaudibile scheggia di un dibattito dove ogni fumo pesa tranne la non fumosa verità dei fatti, e dei reati.

È quel che accade da anni, ogni volta che vengon poste questioni concrete che riguardano la separazione fra Stato-Chiesa, o la domanda di giustizia uguale per tutti, o l´etica richiesta a chi esercita funzioni pubbliche e non è quindi la copia esatta del comune cittadino, avendo secondo la Costituzione speciali doveri di «disciplina e onore» (art. 54). È qui che s´alza la nebbia: trasformando il concreto in astratto, sottomettendo ogni questione alle preferenze di chi, detenendo il potere politico e quello dell´informazione, decide dove finisce l´arbitrio, dove inizia la legge. A questo serve lo storpiamento di vocaboli come morale, laicità, giustizia. Serve a uccidere la laicità, soprannominata laicista. A soffocare la giustizia, detta giustizialismo se applicata con rigore. La morale è il freno più infame, e per svalutarla riceve il timbro di moralismo. Se potesse, Berlusconi si scaglierebbe contro il Decalogo, chiamandolo decalogismo. Già è accaduto. Hitler già se la prese con «il Dio del Sinai e i suoi insopportabili Non devi». Non c´è tabù che non sia esecrato dai poteri assoluti.

A questo deturpamento delle parole si dà il nome di liberalismo, con disinvoltura. Un liberalismo talmente sfrondato che neppure il tronco sopravvive: ridotto al diritto di fare quel che piace, senza ingerenze; impoverito da un laisser faire che già tanti mali ha fatto all´economia di mercato. Un liberalismo che s´inventa una storia breve, invece della lunga che ha sotto i piedi, e nulla sa del pensiero repubblicano da cui discende, secondo il quale sovrano, anche in democrazia, non è il popolo con le sue effimere passioni ma la legge che dura.

A queste condizioni la pòlis è ordinata: che sia abitata da cittadini partecipi perché bene informati, che non faccia degenerare la libertà in sopraffazione dei forti sui deboli. Che tutti si assoggettino alla legge e riconoscano l´utilità pubblica delle virtù private. Per pensatori liberali come Locke, Tocqueville, John Stuart Mill, non c´è libertà, se l´autorità suprema non è la legge. La nostra Costituzione dice la stessa cosa. Il popolo è sovrano, nell´articolo 1, ma nell´articolo 54 «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi».

Quando Berlusconi decreta che la sua condizione di indagato è decisa solo dalle urne dice qualcosa di affatto indigesto per i liberali, perché la sovranità popolare senza separazione dei poteri e sottomissione alla legge di ciascuno (popolo, governi, chiese) è la volontà della maggioranza, e di poteri che pretendendo rappresentare un tutto diventano paralleli, rivali dello Stato. Tocqueville li riteneva letali, in democrazia: «Esiste una sorta di libertà corrotta, il cui uso è comune agli animali e all´uomo, e che consiste nel fare tutto quel che piace. Questa libertà è nemica di ogni autorità: sopporta con impazienza ogni regola. Con essa, diventiamo inferiori a noi stessi, nemici della verità e della pace». Sono anni che discutiamo di questo in Italia: se la legge abbia ancora un significato, se la morale pubblica sia una bussola o una contingenza. È ora di deciderlo e chiudere la discussione.

Il bersaglio di chi si ribella a simili vincoli è la morale (per i poteri ecclesiastici è la laicità), descritta come sovversiva, giacobina. Ma anche qui l´equivoco è palese: nello stesso momento in cui si atteggiano a anticonformisti minoritari, i ribelli si riscoprono giacobini tutori di valori morali non negoziabili, e con tutta la forza della maggioranza negano al singolo la libertà di morire naturalmente, non attaccato alle macchine. Tanto più grave il silenzio della Chiesa sull´etica pubblica. In fondo questa dovrebbe essere l´occasione di far vedere che il suo spazio nella pòlis non è paragonabile a quello di cricche e cose nostre. Se vuol rinascere, la Chiesa non può non rompere con Berlusconi, a meno di non divenire anch´essa potere sfrenato e parallelo. L´appello di Bagnasco a «più trasparenza» è tardivo e inadeguato.

Ezio Mauro ha giustamente difeso la breve vita del partito d´azione, soprattutto torinese. È vero, c´era un forte afflato morale nell´azionismo: forse si spense per questo, lasciandoci tuttavia in eredità il pensare onesto di Norberto Bobbio, Vittorio Foa. Senza gli azionisti non avremmo la Costituzione che abbiamo, la sua benefica laicità, la sua versatilità. Chi li bolla come moralisti teme come la peste che rinasca un´alleanza fra sinistra e liberali, in difesa dell´etica pubblica. Il mondo cui aspira l´antimoralista è la Fattoria degli Animali, dove non la legge comanda ma un unico capo, circondato da cerchie di bravi che a nessuno rispondono se non a lui.

Di Puritani, in Italia, Paese cattolico iper-accomodante, con una Chiesa pronta, oggi più che mai, a compromessi di basso profilo, non ce ne sono mai stati molti. C’è soprattutto il melodramma, “I Puritani”, libretto patriottico dell’esule bolognese conte Carlo Pepoli e musica, sublime, di Vincenzo Bellini, specie quando canta la Maria (Callas). I Puritani erano calvinisti e pure riformatori tutti d’un pezzo, alla Oliver Cromwell per intenderci, che guidò contro il re, uno Stuart, l’esercito “parlamentare”, processando e decapitando il sovrano anti-Parlamento.

Ho la vaga impressione che Giuliano Ferrara non conduca questa sua urlante campagna contro i Puritani e i Moralisti in nome della privacy sul “puttanaio” (a Milano, una volta, avrebbero liquidato il protagonista con un “t’el disi mi, a l’è ‘n purcùn”, ora invece molti solidarizzano). Bensì in nome dell’ossequio dovuto a questo re di denari che “si distende” certe sere, a Palazzo Grazioli o ad Arcore, compiacendosi del reclutamento di “nipotine” (una mania), di play-girls dichiarate. Per lui la donna è questo. Il fatto è che si deve dar ragione sempre e comunque all’“anziano dongiovanni”, con panzotta, gamba corta e una capigliatura a moquette, al tragicomico re di denari che la stampa estera più seria chiama da anni (vedi l’Economist) “the jester”, il buffone, che Ferrara stesso, in un attimo di lucidità, definì “inetto a governare”, che però da Palazzo Chigi, ha invaso quasi tutta la tv e altra ne vuole invadere. Egli tiene a libro-paga un esercito, come non succedeva neppure ai tempi della “fabbrica del consenso” a Mussolini che, almeno, il Parlamento l’aveva chiuso e non parlava in nome della libertà, e le sue amanti (una, Margherita Sarfatti, era davvero colta e intelligente) non si sognava di metterle “in politica”.

Ora vuol controllare anche i tak-show, anche l’ironia, selezionare chi fa l’ “opinionista”, e mettere ovunque gente sua, a libro-paga. Fate caso a quelli che vanno in tv a gridare, insultare, interrompere, dileggiare: sono stipendiati dei giornali non di destra ma “della famiglia”, gente che fa affari con la “sua” pubblicità, o parlamentari ex Fininvest, e così via. Tutti, oggettivamente, a libro-paga. Con eccezioni così rare (Piero Ostellino) da risultare patetiche e da metter voglia di dirgli: “Cosa fai lì? Ma vieni via.” Ci sono sempre stati, giustamente, giornalisti conservatori. Contro il primo centrosinistra, contro il Concilio Vaticano II, c’erano Enrico Mattei, Domenico Bartoli, Panfilo Gentile, Augusto Guerriero, lo stesso Indro Montanelli, ma a nessuno sarebbe venuto in mente di pensare che fossero a libro-paga di qualcuno. E allora capisci tutto. Anche l’odierna campagna urlante contro Puritani e Moralisti.

Cari elettori berlusconiani, vi sarà giunta voce, immagino, che gli italiani sono divenuti un enigma per le democrazie alleate. Il mistero non è più Berlusconi, che da anni detiene un potere non normale: controllando tv, intimidendo giornali e magistrati. Dopo tante elezioni, siamo noi, singoli cittadini, a essere il vero rebus.

Quel che ripetutamente ci chiedono è: «Perché continuate a volerlo? Perché insistete anche ora, che viene sospettato di corruzione di minorenni e concussione?». Nessun capo di governo potrebbe durare più di qualche giorno, fuori Italia: la stampa, la televisione, i suoi pari lo allontanerebbero, costringendolo a presentarsi ai giudici. Di questo le democrazie non si capacitano: se non ora, quando vi libererete?

A queste domande ciascuno deve saper rispondere: chi lo vota e chi non l´ha mai votato, giudicando non solo ineguale la battaglia fra schieramenti (per disparità di mezzi d´influenza) ma profondamente atipica. Tutti siamo contaminati, dal modo in cui quest´uomo entrò in politica e dalla natura del suo potere, che costantemente mescola il suo privato col nostro pubblico. Tutti viviamo in una sorta di show, dominato dal sesso e dai processi al premier.

La cosa peggiore a mio parere è quando inveiamo contro le sue passioni senili. Come se a far problema fosse l´età; come se bastasse che a Arcore ci fosse un trentenne, perché le cose cambiassero. È la trappola in cui spesso cadono gli oppositori. Vale la pena leggere quel che ha scritto lo scrittore Boris Izaguirre, a proposito del consenso tuttora vantato dal premier. Le sue debolezze sono in realtà forze nascoste: «La corruzione, quando si espone, crea meraviglia. La capacità di scansare ogni controllo e di schivare la giustizia affascina». Affascina anche l´epifania finale dell´anziano concupiscente. Nella «rivoluzione del gusto» che questi impersona, l´epifania è «l´unica opzione per l´uomo maturo moderno, e ineluttabilmente attrae un elettorato che condivide sogni di eterna gioventù» (El Paìs, 7-2-11). Il nostro, lo sappiamo, è un paese di vecchi: l´offensiva che accoppia età e reati del premier è qualcosa che turba sia voi sia me. Fa cadere ambedue in una rete che imprigiona, che impedisce di far politica normalmente, di reinventare quel che sono, in democrazia, destra e sinistra.

La rete in cui cadiamo è un film che non minaccia davvero il leader: è il suo film, noi e voi siamo comparse di una sua sceneggiatura, impastata di sesso, cattiveria, abuso di potere. Sono anni che abitiamo un mondo-fantasma lontano dalla realtà, imperniato sulla vita privata del capo. È lecito quel che fa? Osceno? I benpensanti sono convinti che di questo si occuperanno i magistrati, che politici e stampa debbano invece cercare una tregua. Ma tregua con chi? Si può patteggiare con un burattinaio che ci tramuta in pupazzi o spettatori di pupazzi? Se non si fa luce sulle notti di Arcore, è inevitabile che i film sulle papi-girl sfocino nel ridanciano. Ogni cittadino, berlusconiano o no, già ci scherza sopra, probabilmente, come gli spettatori ridono increduli negli ultimi giorni dell´uomo descritti da Kierkegaard, quando irrompe il buffone e dice che il teatro brucia. Nel momento in cui inizia la risata lo show sommerge il reale. Anche voi elettori Pdl lo intuite: le novità che attendete da anni rischiano di esaurirsi in un teatro in fiamme, con noi imbambolati a fissare il buffone.

C´è da domandarsi se non sia precisamente questa, la forza del Cavaliere: distruttiva, ma pur sempre forza. Come Napoleone quando parlava dei propri soldati, egli sembra dire: «I miei piani, li faccio coi sogni degli italiani addormentati». Imbullonati nello spettacolo senza vederne le insidie, ammaliati da veline e spazi azzurri che usurpano lo spazio della Cosa Pubblica, continueremo a esser pedine di un suo gioco. Sarà lui a decidere quando termina lo show di cui è protagonista. Lui occupa entrambi gli spazi, il fantasmatico e il reale, secondo le convenienze. È la sua doppia natura a confondere le menti: il suo essere Jekyll e Hyde. Chiamato a presentarsi in tribunale si rifugerà nell´inviolabile privato, esibendo la sguaiataggine di Hyde. Quando lo show tracimerà, ridiverrà l´impeccabile Dr Jekyll e dirà tutto stupito: «Propongo un patto di crescita economica, e l´armistizio sul resto». A Galli della Loggia, che è storico dell´Italia, vorrei chiedere: con questa doppia personalità urge far tregue?

È il motivo per cui nessun politico dovrebbe, oggi, invitare gli italiani a sognare un paese diverso. L´Italia ha già troppo sognato. Nel caldo delle illusioni ha disimparato lo sguardo freddo, snebbiato. Non di sogni c´è bisogno, ma di risvegli. L´altra Italia da raccontare fuori casa non è quella «che va a letto presto», come dice la Marcegaglia. È quella che veglia, che osa di nuovo sapere, informarsi (Umberto Eco ha ben risposto, nella manifestazione di Libertà e Giustizia: «Io vado a letto tardi, signora, ma è perché leggo Kant»). Come i prestiti subprime, l´Italia è chiusa in una bolla, fabbricata da chi si pretende garante della sua stabilità. Ma le bolle scoppiano e voi lo sapete, elettori Pdl: quel giorno i pescecani si salveranno, e il vostro grande sballo finirà.

Finché resta la bolla, è evidente che il premier conserverà influenza. Vi invito a leggere un articolo scritto nel 2002 sul Paìs da Javier Marìas (è riprodotto nel blog mirumir.blogspot.com). Lo scrittore enumera gli ingredienti della seduzione berlusconiana: la sua disinvoltura sempre «sottolineata in rosso», il «sorriso falso perché costante», il passato di cantante come allenamento per staccarsi dai domestici e mischiarsi ai potenti, la mentalità di vecchio portinaio franchista ossequioso coi potenti e sdegnoso coi domestici, il risentimento dietro una bontà caricaturale, il terrore d´essere escluso dalle cerchie dei grandi, l´assenza d´ogni «vergogna narrativa». Egli seduce i declassati identificandosi con loro, e tanto più li sprezza. La sua morale: sei un perdente, se non infrangi come me leggi, diritti, costituzione.

Dicono che vi piace l´antipolitica. Credo piuttosto che vi aspettiate troppo, dalla politica. Avete sognato un re-taumaturgo onnipotente e permissivo al tempo stesso, non un democratico. È inutile proseguire l´omertoso patto che vi lega a lui nell´illegalità: i risultati attesi non verranno. Questo è infatti Berlusconi: un potere fortissimo, ma impotente. Non è il fascismo, ma i primordi del fascismo - quando era pura «dottrina dell´azione» - ripetuti come un disco rotto. Le masse cullate nell´illusione: tali sono i primordi. Poi la dottrina divenne politica, guerra, e fu rovina. Ma fu un agire. Non così Berlusconi. Da anni l´immagine è fissa sui preamboli fascisti del mago che seduce le folle umiliando l´uomo, come il Cavalier Cipolla che ipnotizza le vittime nel racconto Mario e il Mago di Thomas Mann.

L´era Berlusconi è costellata di questi torbidi patti: patti con la mafia per proteggere impresa e famiglia; patti con giudici corrotti; patti con ragazze alla ricerca di soldi e visibilità. Si può indovinare quel che hanno pensato i loro genitori: «Meglio vergini offerte al drago, che precarie in un call-center». Erano pagate per le prestazioni, e poi perché tacessero. Per questo possono divenire, da ricattate, ricattatrici del papi-padrino.

Ma la storia italiana è anche storia di decenza, di morti caduti difendendo lo Stato, contro le mafie. Anche voi ammirate questa storia: avete ammirato i tre ultimi capi di Stato, e prima Pertini. Senza di voi tuttavia il Quirinale può poco e l´Europa ancor meno. Ambedue ci risparmiano per ora il baratro, e forse l´Europa solo economico-monetaria è un po´ la nostra sciagura: i pericoli, ci toccherà intuirli dietro tanti veli. Ma li intuiremo. Se l´Egitto ha avuto la rivoluzione della Dignità, perché l´Italia non può avere una rivolta della decenza? La decenza ricomincia sempre con la riscoperta di leggi superiori a chi governa, del diritto eguale per tutti, della libera parola.

L’Egitto è un’occasione che perderemo. L’occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo – spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall’Occidente – che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre. Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto "normale", con un potere politico legittimato dal popolo.

Dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare. In meglio. Avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l’avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.

L’Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la Quarta Sponda. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro? A chi più che a noi conviene la graduale composizione della frattura tra le sponde Nord e Sud del "nostro mare"? O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo – anzi, la condizione perché non si arresti?

Eppure Roma tace. Il nostro governo ha trovato modo di non esprimersi fino a sabato. Meglio così, forse, visto che quando ha parlato – via Frattini – nessuno se n’è accorto. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla "nipote". Stiamo perdendo l’occasione di incidere in una svolta storica – stavolta l’aggettivo è pertinente – che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti.

Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno. Certamente non i popoli che opprime. Ma nemmeno noi europei. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria. L’ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.

Un sobrio accertamento dello stato delle cose dovrebbe indurre il nostro governo a mobilitare ogni risorsa a sostegno dei cambiamenti in atto sulla sponda africana del Mediterraneo. Se ciò non accade, non è solo colpa di Berlusconi o Frattini, ma della rimozione che l’Italia ha compiuto di se stessa. Della sua geografia e della sua storia. Nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità è duro ammetterlo. Ma è un fatto: non sappiamo dove siamo né da dove veniamo.

Così abbiamo dimenticato che per secoli l’Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora. Come l’intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali. Operai, artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici.

Nell’Egitto khedivale l’italiano era lingua franca, usata nell’amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del "liberty alessandrino" sono ancora visibili. La nostra egittologia ha una lunga tradizione. Come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d’intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.

Di questo e delle nostre tradizioni levantine in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici. E´ storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie. Basterebbe poco per ravvivarle. Nell´immediato, anche un gesto simbolico.

A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini. Sarebbe forse utile uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: "La strada per Menfi e Tebe passa da Torino". Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell’identità egiziana. Quell’identità che i nostri levantini contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.

Eppure nell’immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l’Egitto sia un qualsiasi pezzo d’Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze. Più le piramidi e Sharm el-Sheikh. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano twitter e Facebook – già ribattezzato Sawrabook, "libro della rivoluzione" – e rischiano la vita per la libertà?

Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute. Un eterno fermo immagine. Intanto, la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli musulmani, un arcipelago dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come banda di terroristi. Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della "repubblica ereditaria". Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. E’ quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato. Per riproporre e rivenderci il muro contro muro.

Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non noi italiani. Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c’è più. L’Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.

Attivate il "mini-client" e cliccate con il vostro "mouse", come spiegato nella "slide" successiva, recitano le istruzioni del ministero. E attenti, aggiungeremmo noi, a non commettere errori nella compilazione della domanda: anche la minima incertezza nel trascrivere un nome o un indirizzo potrebbe costarvi cara.

Non riuscireste a regolarizzare la persona cui affidate la cura dei vostri cari, detta "badante". E voi immigrati con un permesso di soggiorno non potreste permettere ai vostri figli di raggiungervi senza doversi rivolgere ai criminali, quelli che organizzano il traffico degli immigrati clandestini, pagando un "pizzo" elevato e rischiando la loro vita.

Tutto avverrà in poco più di un minuto nei tre click-day a vostra disposizione. Bisognerebbe chiamarli "abdic day", perché sanciscono l’incapacità di governare i flussi migratori, la scelta di abdicare da questa responsabilità. Nel peggiore dei casi si lascia ai professionisti delle pratiche telematiche (le istruzioni sul sito del ministero sono tutt´altro che semplici e infarcite di termini inglesi, ostici per molti datori di lavori domestici) la scelta su chi regolarizzare e chi non. Nel migliore sarà invece un razionamento lasciato interamente al caso.

Ma davvero un paese come il nostro non può scegliere quali immigrati far arrivare da noi, non può stabilire priorità? Abbiamo già milioni di immigrati che vivono da anni in Italia e che vorrebbe ricostruire le loro famiglie da noi. I nuovi arrivati si integrerebbero molto più facilmente di chi arriva senza conoscere nessuno. Abbiamo uno stato sociale che non aiuta chi non è più autosufficiente e famiglie che diventano sempre più piccole, non più in grado di offrire la cura di qualità di cui gli anziani avrebbero bisogno. Gli immigrati che tappano questi buchi sono sempre più indispensabili, non possiamo farne a meno. Abbiamo anche un bisogno disperato di talenti, di manodopera qualificata per riconvertirci su produzioni a più alto valore aggiunto. Uno studente straniero che prende un dottorato da noi, molto spesso grazie a borse di studio a carico del contribuente italiano, che parla la lingua italiana e che potrebbe creare tanti nuovi posti di lavoro, è spinto ad andarsene altrove al termine dei propri studi. Non sarebbe più efficiente cercare di trattenerlo da noi anziché affidarsi al caso o confidare sul suo click veloce?

Sarà un "abdic day" anche perché, una volta di più, servirà soprattutto a regolarizzare chi è già da noi illegalmente, anziché a regolare i flussi in ingresso, come recita ipocritamente il decreto che lo istituisce. Chiederemo a queste persone di uscire e poi rientrare col rischio peraltro di non poterlo fare se identificate come irregolari nel momento in cui lasciano il nostro paese. Sarebbe una beffa per chi vince la gara del click-day, una beffa pagata all´ipocrisia di leggi che fingono di regolare gli ingressi sapendo bene che finiscono per lo più per sanare irregolari già da noi.

Non appena si è sentito odore di elezioni anticipate, la Lega ha fatto affiggere sui muri di Milano un manifesto con l´immagine di un barcone di disperati in arrivo sulle coste italiane. Titolo eloquente: "Vogliono farli tornare". Paradossalmente se la prendono proprio con il Presidente della Camera che ha sottoscritto assieme a Bossi la normativa sull´immigrazione. La Bossi-Fini gestisce da dieci anni le politiche dell´immigrazione in Italia.

Il manifesto è rimasto senza risposta. Anche perché l´immigrazione è uno dei tanti temi che divide l'opposizione, spaccata tra l´ideologia e il pragmatismo. Proviamo allora a darla noi la risposta. No, non vogliamo farli tornare, anche perché non hanno mai smesso di arrivare, valicando altre frontiere. Né vogliamo farli deportare nel deserto libico e stringere accordi molto impegnativi con i dittatori del nord-Africa, regimi antidemocratici e sulla via del tramonto. Vogliamo solo governare l´immigrazione. Voi siete capaci di farlo solo a parole e rigorosamente solo in campagna elettorale.

Nel ministero che fu di Giovanni Spadolini e di Alberto Ronchey, ma anche di Rocco Buttiglione ed Enzo Scotti, Sandro Bondi da Fivizzano ha scelto una terza via. L’autodissoluzione poetica. Scelto nel maggio del 2008 da Berlusconi come un testimone di fede del berlusconismo estatico, Bondi rischia ora di evaporare dopo tre anni di errori e versetti satanici in cui per sé ha ritagliato il ruolo del santo e a tutti gli altri, corifei di una cultura che “deforma i lineamenti”, addebita l’invenzione di un complotto diabolico.

Abbasso Draquila, viva Alain Elkann

E dire che c’era un Sandro Bondi che aveva e stigmate della sofferenza che nobilita: l’infanzia poverissima da immigrato (veniva preso in giro dai bambini svizzeri), i viaggi in piroscafo per andare a trovare la moglie per via dell’aerofobia. Un Forrest Gump ad Arcore, irricevibile ma dignitoso. Oggi, travolto dalla scapigliatura erotica del berlusconismo, il nuovo Bondi ha superato la paura del volo, ha lasciato la moglie permettersi con una rampante azzurrina, subisce un romanzo in codice in cui un’altra ex raccontava del ministro Toscani a cui piaceva farsi suggere i capezzoli ed eleggere le sue protette (capito?).

Bondi soffre il conflitto, preferisce farsi da parte, a due passi dal precipizio, un po’ piagnone. Ma lo scorso anno decise di indossare i paramenti da crociato. Primo obiettivo: negare il fondo pubblico a “La Prima linea”(senza averlo visto). Secondo passo: ostracizzare “Draquila” di Sabina Guzzanti, ospitato a Cannes. Un film applaudito da mezza Europa che nelle parole del ministro dei Beni Culturali divenne occasione per declinava l’invito della più importante rassegna cinematografica del mondo così: “Provo rincrescimento e sconcerto per la partecipazione di una pellicola di propaganda che offende la verità e l'intero popolo italiano”. Jack Lang, l’ex omologo francese di Bondi parlò di “bizzarra concezione della libertà”. Mentre la Guzzanti brindava (per la pubblicità involontaria) Bondi non tradì le aspettative. Rimase nell’angolo. E poi puntualmente, riemerse. A giugno, l’amico Alain Elkann venne estromesso dalla cinquina del premio Campiello. E Bondi, che vive di certezze e derubrica il dubbio ad agente della controinformazione, tornò dichiarazionista: “Secondo alcune ricostruzioni Elkann, che ha l'unico torto di collaborare con il ministero dei Beni culturali, sarebbe stato eliminato dopo la diffusione di un articolo del Fatto, scritto in un raccapricciante stile staliniano, a causa del quale alcuni giurati avrebbero mutato il loro voto precedentemente espresso in suo favore. Mi scuso con lui, che è un grande scrittore, persona perbene e lontana dagli intrighi politici e culturali, per averlo danneggiato senza saperlo”.

Premi bulgari, crolli italici

Con la destra si frusta e con l’altra mano colpisce l’universo ostile che mostra di non capirlo. Il decreto sulle fondazioni liriche suscita uno sciopero di maestranze e orchestrali mai visto? Conseguenza “dell’irresponsabile demagogia dei sindacati”. Il mondo del cinema si stupisce di non vederlo a Venezia? Lui scrive al Corriere considerazioni amare e, come da lezione arcoriana, individua il germe del preconcetto comunista. “Ho portato a termine un provvedimento essenziale come il Tax Credit e il Tax Shelter; abbiamo approvato un disegno di legge di riforma del Cinema ma non mi capiscono perché non nutro la loro stessa ideologia”.

Bondi al Festival non va, minaccia di “voler mettere becco nella scelta dei giurati”, ma fa premiare il 3 settembre uno sconosciuto film bulgaro. La regista, Michelle “Dragomira” Bonev è una cara amica del premier. E quando le insistenze per non deludere Dragomira salgono di tono,Bondi inventa da par suo. Un premio nuovo di zecca, con una targa-patacca,inserito in una parata di sorrisi di plastica tornita da deputati del Pdl ed europarlamentari ignari per compiacere B., 32 ospiti della Bonev alloggiati tra il Cipriani, i lussi del Lido e l’indecenza.

Due mesi dopo, mentre a Pompei crolla la casa dei Gladiatori, motore del turismo internazionale e Bondi sostiene di non aver idea di come possa essere accaduto lasciando al vice Francesco Giro l’’esilarante spiegazione: “L’archeologia è antica, antichissima e per questo di estrema fragilità: i monumenti come il Colosseo o gli edifici di Pompei sono alla stessa stregua di persone malate croniche, che hanno bisogno di cure continue”.

Il Fatto offre altri motivi di dispiacere al ministro. La storia porta il cognome della nuova compagna di Bondi, Manuela Repetti, parlamentare del Pdl. La Repetti ha un figlio laureando in architettura, Fabrizio. E Sandro, uomo di cuore, trova al ragazzo (senza competenze in materia) un contratto al Centro Sperimentale di Cinematografia con distaccamento preteso nella direzione cinema del ministero da lui diretto.

L’apoteosi nepotistica arriva quando si scopre nelle pieghe della relazione del Fus del 2009 (lo stesso trascinato da Bondi ai livelli più bassi della storia repubblicana) un impiego per Roberto Indaco, padre di Fabrizio. Venticinquemila euro per “arte e moda”, benché papà Indaco sia ricordato solo come co-gestore del Motel Novi, l’albergo di famiglia di Manuela Repetti a Novi Ligure. Bondi telefona al Fatto: “Sono due casi umani, non potreste sorvolare?”.

La fine di un equivoco

La vicenda, unita al premio patacca veneziano, lo indebolisce. Lo attaccano i giornali amici (durissimo Filippo Facci su Libero), i parlamentari del Pdl, Berlusconi stesso. Lui urla la propria innocenza e va a farsi trafiggere in diretta da Michele Santoro confondendo Paolo Sorrentino con Matteo Garrone. Sipario. Forse il Parlamento ora lo sfiducerà. Così Sandro potrà tornare all’invettiva vergata in occasione di un incontro tra il presidente Giorgio Napolitano e gli artisti italiani, nel 2009. Quando il complesso di inferiorità scatenato da Giovanna Mezzogiorno lo schiantò: “Davanti a tutto quel genuflettersi e inchinarsi di attori e attrici, di artisti e commedianti, di registi e teatranti, di cantanti e cantautori, quasi mi dispiaceva di aver previsto leggi che non contempleranno più la posa prona, il servaggio, l’accattonaggio dell’artista al politico. Mi sembrava di aver tolto dignità al servo, liberandolo”. Pensava di colpire gli odiati intellettuali di sinistra. E forse non si accorgeva di parlare di sé.

Uso della prostituzione minorile e concussione aggravata non sono due reati leggeri per nessuno, tantomeno per un presidente del consiglio. E la richiesta del rito immediato sta a significare che le prove in possesso della procura di Milano sono consistenti. Siamo di fronte all’atto giudiziario che sigla una sequenza di cosiddetti «scandali sessuali», meglio definita fin dall’inizio da Veronica Lario «ciarpame politico», che dura da ventuno mesi, e che contiene in sé tutti gli elementi necessari a un giudizio politico sul regime di Silvio Berlusconi, anche a prescindere dalla prova tecnica di un reato penale.

Chiunque, di fronte a tanta evidenza, cederebbe il passo, si imporrebbe cautela, abbasserebbe i toni. Berlusconi e la sua corte no. Quando, nell’autunno scorso, si seppe dai giornali che il premier aveva personalmente telefonato alla questura di Milano, la notte del 27 maggio scorso, perché Kharima el Marhouh, in arte Ruby, minorenne marocchina arrestata per furto, venisse rilasciata in quanto «nipote di Mubarak » e affidata a Nicole Minetti, il premier prima negò poi rivendicò: «l’ho fatto per bontà», «amo le donne» e «meglio amare le donne che essere gay». Oggi fa il gradasso e dice che non vede l’ora di difendersi dal reato inventato di «cena privata a casa del presidente». I suoi, intanto, organizzati in due armate, ripassano e ripetono il copione. L’armata politica grida alla giustizia a orologeria e al complotto destabilizzante; l’armata giuridica, Ghedini & co., prepara i cavilli per sfilare l’inchiesta dalla procura di Milano e le carte per usufruire di quel che resta del legittimo impedimento; Gaetano Quagliariello, testa di ponte fra i due battaglioni, sentendo parlare di prove «aspetta di vedere i preservativi» (parole sue). Non è da escludere che la seconda armata riesca nel suo intento di diluire nel nulla l’ennesima inchiesta a carico del premier. Ma qui non è, o non è solo, il seguito giudiziario della vicenda il punto.

Sempre nell’autunno scorso, fu di Carlo Freccero l’acuta osservazione che quel verbale della questura di Milano da cui risultava la telefonata notturna del premier rompeva improvvisamente e definitivamente, con un inoppugnabile dato di realtà, la fiction scritta, prodotta e interpretata con successo per vent’anni da Silvio Berlusconi.

A romperla in verità c’era già stata la parola di due donne, Veronica Lario e Patrizia D’Addario, la moglie e la prostituta uscite allo scoperto per denunciare di quanto ciarpame e di quanta corruzione fosse fatta quella fiction;Masi sa che nella misoginia imperante, non solo berlusconiana, la parola di due donne vale meno di un verbale. E dietro quel verbale ce n’erano altri, in procura, a resocontare un’inchiesta su un presunto giro di prostituzione organizzato a beneficio del premier dai suoi fidi, Mora, Fede, Minetti per le feste di Arcore nello stesso ruolo che fu di Tarantini per le feste di palazzo Grazioli e di villa Certosa. Questo è lo stato del principe e della corte. Questa è la fotografia del regime che va sotto il nome, ormai in tutto il mondo, di «berlusconismo».

Ora il punto è il seguente. Da ventuno mesi ci sentiamo ripetere, dalla maggioranza e dall’opposizione, la stessa solfa. Dalla maggioranza: sono «intrusioni indebite della vita privata»; a casa propria ognuno può fare quello che vuole, e la legge non ci può entrare; il premier è un simpatico libertino perseguitato da magistrati delinquenti e dalla stampa di sinistra talebana. Dall’opposizione, fatte salve poche e meritevoli eccezioni: lo stile di vita del premier non è un esempio di moralità, ma non ci interessa, se non per le questioni di sicurezza e di decoro istituzionale che solleva; non è su questo che Berlusconi va combattuto e battuto, ma sulla politica «vera», l’economia, il malgoverno, i deputati comprati e venduti. Lasciamo perdere gli insuccessi strategici e tattici di cui è stata costellata, anche di recente, questa strada, e torniamo alla fotografia del regime. Il fatto è che nella soap dei cosiddetti «scandali sessuali» che va avanti da ventuno mesi, derubricata da destra e da sinistra a fatto minore, c’è tutta, ma proprio tutta, la quintessenza del berlusconismo. Sconfinamento fra pubblico e privato, politicizzazione della biografia e privatizzazione della politica; contrabbando dell’arbitrio per libertà (tutto si può fare); riduzione a supermarket della vita pubblica e privata (tutto si può comprare, dalle donne ai parlamentari); uso della sessualità come protesi del potere; uso dei ruoli sessuali («veri uomini» e «vere donne») come maschere rassicuranti per identità, maschili e femminili, incerte;uso razzista della bellezza; imperativo del godimento come surrogato del desiderio; pratica dell’illegalità come risposta beffarda alla crisi dell’autorità e della legge; eccetera. Prima la politica di un’opposizione degna di questo nome si deciderà a occuparsi di questo fascio di questioni con una proposta culturale degna di questo nome, prima spunterà l’alba del dopo-regime. Diversamente la fiction scritta, prodotta e interpretata da Silvio Berlusconi continuerà a calamitare la sua audience, e i cavilli di Ghedini a occupare le cronache.

Conta due secoli la storia delle costituzioni scritte. Riassumiamola: monarchie assolute sradicano gli antagonisti interni sviluppando apparati e tecnologie moderni; culture del diritto naturale e illuministi riformatori postulano una razionalità immanente; metamorfosi traumatiche impongono un codice genetico. Supernorme fissano le procedure del lavoro legislativo, altre regolano i contenuti. Leggi formalmente perfette nascono morte quando divergano dai parametri. L’art. 3 Cost. ne detta uno capitale presupponendo cittadini giuridicamente eguali: «davanti alla legge» il vagabondo irsuto è pari al plutocrate talmente ricco da comprarsi castelli, palazzi, ville, corpi umani, maschere, lanterne magiche. La regola non ammette revisioni (art. 138): ad esempio, Camere servili ritoccano l’art. 3, stabilendo che Dominus e famigli stiano fuori del comune spazio normativo, intoccabili; mossa invalida nell’attuale sistema; i «revisori», infatti, vogliono affossarlo e vi riescono quando i sudditi pieghino la testa, eventualità nient’affatto improbabile nelle società diseducate al pensiero; chi comanda i piccoli schermi trascina masse stupefatte.

In formula ipocrita i due articoli della l. 7 aprile 2010 n. 51 creano exceptae personae, più forti della legge. Vediamole. L’art. 420-ter c. p. p. prevede il rinvio dell’udienza quando l’imputato non possa assistervi: deve trattarsi d’«assoluta impossibilità», da «caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento»; se ricorra tale ipotesi, lo stabilisce una decisione sindacabile; l’offesa al contraddittorio invalida i processi. Qualora l’imputato fosse presidente del consiglio (o ministro), era ovvio che entro dati limiti l’impegno governativo costituisse legittimo impedimento; basta intendersi sui tempi; indichi i giorni disponibili e tra persone serie tutto avviene de plano. Siccome gli uomini non sono angeli, c’era il rischio della soperchieria: guadagna settimane e mesi; finalmente viene, salvo interrompere l’azione scenica, chiamato altrove, né consente al sèguito, dove sarebbe rappresentato dai difensori; vuol occuparsene personalmente; il premier ha meno diritti del cittadino qualunque?; e sbandiera gli articoli de quibus. Il nuovo testo taglia corto a profitto dei perditempo, configurando un ostacolo permanente e insindacabile. Monsieur N, in fuga dal processo, risulta padrone del gioco, tanti sono gli asseribili impedimenti: ne evoca quanti vuole, dalla «politica generale» agli affari dei singoli dicasteri (art. 95 Cost.), né teme smentite; l’elenco nell’art. 1, comma 1, è fumo negli occhi, non essendo enumerabili in forma tassativa gl’incombenti; l’ultima frase allarga ancora le maglie mettendo nel conto prius e posterius, nonché «ogni attività» in qualunque modo «coessenziale» (aggettivo fumoso). Rinvio automatico, visto che il giudice non ha alternative: contestando i motivi addotti s’ingolfa avventurosamente; se procede, semina nullità.

Il comma 3 gli sottrae la cognizione dei fatti: ogniqualvolta il signore dell’esecutivo dica «non posso», l’evento processuale sfuma; può anche permettersi lo scherno raccontando che lui spende ogni ora libera, diurna o notturna, nel pensatoio elucubrante salutari riforme; è «attività preparatoria», no? Nel comma 4 siamo al clou: se afferma che l’impedimento duri fino alla data x (impregiudicati gli eventuali futuri), l’udienza va fissata oltre tale termine, col limite d’un semestre; e così, ripetuto due volte, il trucco porta via 18 mesi; entro i quali l’art. 2 pronostica l’immunità stabilita con legge costituzionale, altrimenti lo scudo temporaneo sarebbe prorogato; Camere docili votano sul tamburo una lexiuncula.

Insomma, finché presieda il Consiglio, durasse anche trenta o quarant’anni in sella, Monsieur N, affetto da fobia giudiziaria, schiva i tribunali opponendo l’impedimento ogni sei mesi. Il precedente fiabesco è Bertoldo condannato a morte mediante impiccagione, con una clausola: scelga l’albero a cui sarà appeso; pronto a servirli, appena trovi l’idoneo; non ne vede. L’ostacolo al processo diventa impunità. La stasi sine die equivale a riscrivere l’art. 3 Cost., come nell’orwelliana Fattoria degli animali: espulso mister Jones, i maiali vittoriosi elaborano una Carta (art. 7, «all animal are equal»); passando gli anni, s’evolvono; ormai camminano su due gambe.

Voltaire corrodeva gl’idoli con battute esilaranti. L’art. 2, comma 1, spiega dove miri questo capolavoro: garantisce al beneficiario un «sereno svolgimento» delle funzioni governative; dunque, non manca il tempo da spendere in curia; ne troverebbe anche Napoleone. I motivi della fuga stanno nell’interno d’anima: maledetta Dike, gli sta alle calcagna; la possibile condanna è un incubo. Cattivo segno, obietta lo spettatore ancora sofferente d’antiquati moralismi. No, replicano: innocente o colpevole, ha bisogno d’uno scudo e tutti vi siamo interessati; la sua quiete psichica è risorsa inestimabile. Era una fantasia primitiva che gli equilibri naturali influenti sulla tribù abbiano l’epicentro nel corpo del re: lui «sereno», il regno fiorisce; ogni disturbo scatena effetti calamitosi. Ergo, l’interesse tutelato dalla l. 7 aprile 2010 prevale sulla miserabile routine giudiziaria. Gli ascoltatori seri ridono, d’una ilarità malinconica perché corrono tempi tristi quando masnade parlamentari legiferano così.

«I l cielo quasi si velò come alla morte del Giusto, e gli elementi scatenati aggiunsero il loro fragore a quello del cannone, e i venti schiantarono le bandiere…» . Venne giù il diluvio a Caprera, racconta l'inglese di cuore italiano Jessie White Mario, eccezionale figura del Risorgimento, il giorno dei funerali di Giuseppe Garibaldi. Era l'8 giugno 1882. Erano venuti a migliaia, per l'ultimo saluto al vecchio condottiero spentosi la settimana prima dopo aver chiesto nell’ultima lettera al direttore dell'Osservatorio di Palermo «la posizione della nuova Cometa e il giorno della maggior grandezza» . E sotto la pioggia battente, mentre il mare mugghiava, ricorda un biografo, «appena deposto il feretro tutti fuggirono come anime perse nella bufera verso lo Stagnarello per cercare un imbarco…» . Come se fosse arrivato, di colpo, l’inverno.

Tredici decenni dopo, anche quelli della Protezione civile, i servitori perbene dello Stato e gli affaristi in giacca di lino se ne sono andati dalla Maddalena sotto una tempesta. Quella delle inchieste giudiziarie. E proprio come coloro che parteciparono alle esequie dell'Eroe dei due mondi, sui quali i garibaldini videro abbattersi la punizione di Giove pluvio perché era stata tradita la volontà del Vate di essere deposto su una catasta di mirto, agaccio e lentischio per esser bruciato come Patroclo su «un rogo omerico» , non tutti hanno trovato un'imbarco per andarsene senza danni. Non c'è posto migliore di Caprera e della Maddalena per racchiudere il senso dell'inchiesta che andiamo a finire dopo aver percorso tutta l'Italia per vedere com'è il Paese alla vigilia del Centocinquantenario dell'Unità. È tutto qui, a cavallo di queste isole stupende unite da un ponte-diga in faccia a Palau, nel Nordest della Sardegna. Il meglio e il peggio. La generosità più emozionante e l'egoismo più feroce. Il patriottismo ideale e l'immoralità indifferente al bene comune. L'Italia che amiamo, l'Italia che ci fa schifo.

Anche da Caprera, l’eremo scelto da Garibaldi per viverci con i figli e un po'di amici («una vera repubblica democratica e sociale — scrisse Michail Bakunin—, non conoscono la proprietà: tutto appartiene a tutti. Non conoscono neppure gli abiti da toilette, tutti portano giacche di grossa tela con i colletti aperti, le camicie rosse e le braccia nude, tutti sono neri dal sole, tutti lavorano fraternamente e tutti cantano…» ) gli ospiti rubarono qualcosa. Racconta Augusto Zedda nelle sue Cronache isolane che la pira omerica di quella specie di «santo ateo» che a Palermo era stato salutato come fratello di Santa Rosalia, venne saccheggiata dai fedeli a caccia di reliquie. Un rametto di lentischio, una foglia d'alloro, qualche bacca di mirto. Un secolo e passa dopo, i furbetti del G8 si sono portati via alcune decine di milioni di euro. E se il Gran Nizzardo invocava la sua isoletta chiamandola «Oh, caro scoglio!» , la Maddalena si è rivelata, per le tasche degli italiani, carissima. Al punto che non si sa più esattamente quanto è stato speso. C'è chi dice, rifacendosi ai dati ufficiali, 327 milioni. Chi spara 377. Certo è, spiega il ristoratore Andrea Orecchioni, che questo «è il primo inverno morto da decenni. Prima c'erano gli americani della base smobilitata a gennaio 2008 e i marinai della piazzaforte italiana, poi il formicaio della Protezione civile, architetti, tecnici, operai che preparavano in fretta e furia il vertice internazionale, poi quelli che si erano fermati per finire i lavori avviati… Fatto sta che quest'inverno non c'è nessuno. Nessuno» .

Orecchioni, detto Cicerone perché da ragazzo se un turista chiedeva informazioni al padre salumiere lui lo portava in giro spiegando le magie della Maddalena, non è un ristoratore tra tanti. È il padrone de «La scogliera» , un locale di Porto Massimo amatissimo dalla clientela più ricca della costa Smeralda. Lo chiamano il «Robin Hood del mestolo» dicendo che ruba ai ricchi presentandogli dei conti che sembrano eccessivi perfino a Flavio Briatore. Filippo Facci, un paio d'anni fa, arrivò a sbatterlo in prima pagina sul Giornale: aveva servito all'imprenditrice Luisa Todini, suo marito, la bambina e la tata «tre calici di vino, due bottiglie d’acqua, un antipasto per due, spaghetti all’aragosta per uno, branzino al sale per tre» . Conto finale: 850 euro. Nel dettaglio: «1 spaghetto aragosta 366 euro» . Lui ci ride su: «L’alta qualità si paga…» . Quelli della Cricca erano sempre a tavola da lui. Arrivavano con le Bmw e altri macchinoni extra lusso, mangiavano, bevevano. Lui, Cicerone, giura che ci ha rimesso: «Sono uno di quelli che sul G8 aveva scommesso. Gli avrò fatto una ventina di catering gratis. Una ventina. Ho preso anch'io il bidone. Gli curavo anche la mensa degli operai. Mille pasti al giorno. A 3 euro e mezzo a pasto. Gli dicevo: guarda che non ci sto dentro. E Mauro della Giovampaola, il coordinatore, mi diceva: “ Siamo all’osso”. Erano all'osso per me, e poi... Erano così tirchi che se non fosse scoppiata l'inchiesta non avrei mai immaginato che buttavano i soldi così... Li ho sempre difesi, ma hanno esagerato. Vengono fuori cose brutte. Brutte. Bertolaso no, lo difendo ancora. Ma gli altri...»

Per l'inaugurazione, che doveva far dimenticare la delusione inflitta all'arcipelago, gli ordinarono un buffet («prezzo stracciato: 90 mila euro» ) per tremila invitati. Tremila! Su un'isola che non arriva a 12.000 abitanti. Pierfranco Zanchetta, che dopo aver fatto l'assessore provinciale ha corso alle comunali contro la conferma del sindaco Angelo Comiti, che pure è del suo stesso partito, il Pd, spaccatissimo sull’ubriacatura del G8 ma più ancora sugli strascichi, rilegge ciò che aveva detto Guido Bertolaso in consiglio comunale: «Quella zona lì dell'Arsenale diventerà un grande Centro Nautico. Dovrebbe esserci un Cantiere Nautico con i controfiocchi, perché tutte le strutture e anche l'Area che chiamiamo dei Delegati sono progettate e realizzate non pensando che ci lavoreranno 2.500 ambasciatori da tutto il mondo, ma pensate perché, poi, ci saranno barche, rimessaggi, ci saranno cantieri, ci saranno officine…» . Sì, ciao. A girare per l'isola in quella manciata di chilometri quadrati in cui furono concentrati gli investimenti per il G8 mancato, viene il magone. Deserto l'ex ospedale militare ristrutturato come albergo pompandoci dentro, pare, 73 milioni di euro. Deserto il centro congressi avveniristicamente proiettato sull'acqua, costato 52 milioni pagati all'impresa edile di Diego Anemone e usato solo per il vertice con Zapatero passato alla storia (minore) perché il Cavaliere assicurò nella conferenza stampa di non aver mai pagato una donna. Deserto l'albergone rilevato con tutto l'ex Arsenale della Marina dalla società Mita Resort presieduta da Emma Marcegaglia. Deserta la darsena che, ospitando centinaia di posti barca da vendere a prezzi astronomici, dovrebbe rappresentare il vero grande business del business.

Il disinquinamento incompiuto di questo specchio di mare nel quale la Marina scaricò per anni tutto il pattume possibile e immaginabile, è il grande problema. Fin da quando Fabrizio Gatti raccolse su l'Espresso la testimonianza di un tecnico dell'impresa che doveva risanare l'area: «Più scavavi nel fondale, più trovavi fanghi contaminati. La benna tirava su melma densa come cioccolata e nera come pece. Erano sicuramente idrocarburi pesanti. Hanno deciso di lasciarli lì perché senza la costruzione di una diga ermetica, avrebbero inquinato l'arcipelago» . Sì, sospira il sindaco Angelo Comiti, «quando l’escavatore affondò i denti della benna ne tirò su una enorme cucchiaiata di idrocarburi. L'arsenale era una bomba ecologica. E’ la verità. Ma è falso che non abbiano fatto la bonifica. La bonifica c’è stata. Imponente. Lo sapevano tutti che restava da completare la parte finale di Cala Camicia. Mica doveva spiegarcelo Gatti…» . Per questo, dice, è convinto che l'affidamento per quarant'anni in cambio di 31 milioni di euro e un affitto di 60 mila l'anno «non è un regalo alla Marcegaglia. C'è stata una gara, regolare ha detto il Tar. Il dirottamento del G8 è stato un danno anche per lei. E poi, deve mettercene ancora tanti, di soldi… Anzi, capisco davanti a certe lentezze le sue perplessità» . Il guaio è, insiste, che «doveva esserci un’accelerazione finale dei lavori e invece lo spostamento all'Aquila causò una decelerazione. Partivano due navi al giorno per andare a buttar via quei sedimenti tossici. L'amianto, credo, a Torino. I materiali ferrosi a Livorno. Voglio dire che la bonifica è "quasi" finita. Ci vorranno ancora 6 milioni. Forse meno...» .

Sulla reale destinazione di tutti i fanghi portati via in realtà restano dei dubbi. Il 25 novembre i carabinieri, per dire, hanno sequestrato una discarica abusiva a Olbia: un ettaro pieno di eternit in un ex campo nomadi alla periferia della città. Campo che avrebbe dovuto essere a sua volta bonificato con l’occasione del G8. E chi hanno denunciato per l'immondezzaio tossico illegale? L’ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici Angelo Balducci e Raniero Fabrizi, tra i responsabili dell'organizzazione del G8 alla Maddalena. Come siano stati spesi tanti soldi è una cosa tutta da accertare. E non sarà facile. I lavori del G8, grazie alla qualifica di «Grande evento» , furono sottratti al controllo preventivo della Corte dei Conti. Di più, preso l'andazzo, i «maghi dell'emergenza» l'anno dopo il vertice cercarono di nascondere all'occhio dei magistrati contabili anche le regate della Louis Vuitton series. No, risposero i giudici: non si possono impiegare dipendenti e spendere soldi della Protezione civile per le barche a vela. Tanto più che oltre la metà dei quattrini stanziati per quelle regate (2 milioni 300 mila euro su 3 milioni 750 mila) furono direttamente versati dalla Protezione civile al Comitato organizzatore, una srl milanese controllata dalla società World sailing teams association che gestisce la Coppa America. Presidente: lo skipper Paul Cayard. Però un merito quella regata l’ha avuto. Fare scoprire appunto che quello specchio di mare non era stato ancora bonificato, nonostante i 31 milioni spesi per un’operazione alla quale aveva partecipato anche il cognato di Bertolaso, Francesco Piermarini. Benedetto come «un grande esperto» . Un fatto è sicuro: alla Maddalena non si è badato a spese. Stefano Boeri, l’architetto incaricato di gran parte delle opere ai tempi di Soru ma poi «di fatto escluso dalle decisioni e dalle valutazioni economiche di cantiere» , ha scritto sul blog della rivista «Abitare» di «uno spreco inqualificabile di risorse» .

E non si riferiva solo al fatto che i tecnici dell’Unità di missione alloggiassero in ville affittate sulla costa e mangiassero alla Scogliera. I costi schizzarono da 200 a 327 milioni senza che alcuno facesse una piega. Un rincaro mostruoso. Dovuto, parole di Boeri, «alle maggiorazioni già previste nell’appalto. Parliamo del 57%di aumenti dei compensi, già stabiliti, per le difficoltà dovute all’urgenza, il fatto che si lavorava su un’isola, i turni continui, il rispetto dei tempi...» . Lo sapevano già prima, i furbetti, che c'era da lavorare in fretta e su un'isola. Eppure riuscirono a farsi riconoscere rincari del 57% perché occorreva fare in fretta e la Maddalena è un’isola. In parole povere, i disagi furono pagati due volte. Un meccanismo, secondo Boeri, «assolutamente senza senso» .

Lasciarono impronte digitali dappertutto, quei furbetti. Lo ricorda l'intercettazione fra l’architetto Marco Casamonti, che aveva progettato la trasformazione dell’ex ospedale in albergo, e Valerio ***, proprietario della Gia. Fi. costruzioni, l’impresa appaltatrice. Casamonti dice che ha la possibilità di far lievitare il conto come panna montata: «Quella è una cosa che mi curo io. Guarda, secondo me, per fare quello che ci vuole… altri 60 milioni di lavori» . Millantava? Qualche numero balla. Ma Fabrizio Gatti, con l'aiuto di chi si oppose al progetto, su quell'ex ospedale ha fatto due conti: dato che le stanze sono 101, ogni stanza sarebbe costata 722 mila euro. A sentire le intercettazioni, c'era già chi sapeva come andava a finire. Il 28 dicembre 2008 Vincenzo Di Nardo, amministratore della Btp (la ditta di quel Riccardo Fusi amico di Denis Verdini che avrebbe lavorato anche all’Aquila) si sfoga: «Sono banditi… E’ gente… Prima o poi si leggerà sui giornali che li hanno cuccati con qualche tangente in mano… Dai! Questi poi sono violenti e… Io ho visto la squadra in azione… Non la conoscevo questa del Balducci… E’ una task force proprio insieme unita e compatta… Sono dei bulldozer e il *** è uno di quelli blindati dentro questa logica qui del Balducci, che è il vero regista».

L’ex governatore Renato Soru ricorda bene come tutto ebbe inizio: «La Protezione civile fece base nel vecchio quartier generale degli americani. Credo che solo l’acquartieramento costò qualcosa come 10 milioni di euro. Arrivarono perfino con un ospedale da campo, mai utilizzato e poi trasferito all’Aquila» . Era stato lui a spingere con Prodi perché il G8 si tenesse alla Maddalena. Le basi militari stavano chiudendo e quella era un’occasione storica per risanare un pezzo dell’isola. Decenni di lavori e stazionamento delle navi avevano compromesso i fondali. Pieni zeppi di detriti, e soprattutto intrisi di oli che erano penetrati per metri in profondità. Subentrato a Prodi, ricorda il sindaco, il Cavaliere si mostrò subito poco entusiasta: «Se le idee non sono sue...» . Fatto sta che il 23 aprile 2009, il nuovo governatore Ugo Cappellacci apprese dalla tivù che la Sardegna aveva perso il G8.

«La mia impressione? Che avessero già spremuto il limone fino in fondo. E si spostavano da un’altra parte», ipotizza Soru. A Caprera, Garibaldi riposa probabilmente inquieto. Con tutti i soldi che hanno speso di là del braccio di mare per fare in fretta una cosa che poi non hanno fatto, non hanno trovato il tempo e il denaro per fare entro il 2010, centocinquantenario della spedizione dei Mille, il museo nuovo che, ospitato nel forte Arbutici, dovrebbe accogliere la grande collezione di Mario Birardi, già sindaco della Maddalena e deputato del Pci e appassionato cultore dell'Eroe dei due mondi. Mai, forse, avrebbe immaginato che l'esasperazione affaristica di una certa Italia avrebbe insultato il suo bellissimo e civile arcipelago dove fin dal 1811 un certo Alessandro Turri sbarcò da Genova con un documento intitolato «Memoria circa un progetto di indipendenza italiana» Fosse vivo, scriverebbe forse parole ancora più addolorate di quelle incise nella prefazione alle memorie: «Sono amareggiato a veder tanti malanni e tante corruzioni in questo sedicente secolo civile…». Raccontano che chiamasse i somari coi nomi di chi disprezzava. Uno don Chico (Francesco Giuseppe), un altro Napoleone III, un altro ancora Pio IX. Tornasse in vita, saprebbe lui come chiamarli i somari di oggi...

*** A seguito di una istanza di appello al Diritto all’Oblio pervenuta alla redazione di Eddyburg, abbiamo cancellato il riferimento personale per non esporre l'associazione a cause giudiziarie. Restiamo convinti che il diritto di cronaca non debba essere sacrificato e ci adopereremo per trovare un giusto bilanciamento. (Mauro Baioni, presidente pro-tempore dell'associazione).

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