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Il verbo demonizzare è di gran moda, si sa. Diventerà il sigillo linguistico dell’era berlusconiana anche se è nato, sembra, nel 1982. La parola, in questi vent’anni, è stata negletta. Il Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia la ignora e così il Devoto-Oli. Più comprensivi lo Zingarelli, il Garzanti e soprattutto, il Sabatini-Coletti: «Far apparire qualcuno o qualcosa moralmente riprovevole; attribuire a persone o cose volontà o qualità perverse».

L’accusa dei fedeli berlusconiani a coloro che considerano nemici, non avversari politici come dovrebbe essere, è naturalmente quella di venire demonizzati, accusati di essere dei diavoli, Barbariccia, Alichino e Calcabrina, Cagnazzo e Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto e Graffiacane, Farfarello e Rubicante pazzo, la decina dantesca. Poveri angeli caduti, il Bondi, il Ferrara, il Cicchitto, il Baget Bozzo, lo Schifani, così parsimoniosi nel loro dialogare, così morbidi nella scelta delle parole, così flautati nel ribadire i voleri del Capo, celestiali pianissimi da non aver alcun bisogno di abbassare i toni.

È il capo stesso, non poche volte, il primattore.

Dar dell’assassino, autore di «azioni criminose» (Biagi, Santoro), lanciare anatemi, segnare a dito i magistrati di Milano («figure da ricordare con orrore»), annotare sul libro nero chi ha opinioni differenti, chi non si inchina alla santa gerarchia, definire un giornale come l’Unità «tendenzialmente omicida», rientra davvero nella normalità «liberale»? Chi demonizza?

Non è possibile attaccare volgarmente un giurista come Gustavo Zagrebelsky appena eletto presidente della Corte Costituzionale, definito un «girotondino» dalla Lega e un nemico da Bondi, «un’anomalia», mancante di neutralità, uno che dovrebbe imparare da Piero Calamandrei che cosa è l’indipendenza. Lasci stare Calamandrei che proverebbe vergogna della citazione, Bondi, e legga almeno qualche pagina di Zagrebelsky “Il Crucifige! e la democrazia”; lo scritto alto, di religiosità profonda che introduce la nuova edizione delle “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana” o il finale del “Diritto mite”: «C’è oggi certamente una grande responsabilità dei giudici nella vita del diritto, sconosciuta negli ordinamenti dello Stato di diritto legislativo. Ma i giudici non sono i padroni del diritto nello stesso senso in cui il legislatore lo era nel secolo scorso. Essi sono più propriamente i garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, cioè della necessaria, mite coesistenza di legge, diritti e giustizia. Potremmo anzi dire conclusivamente che tra Stato costituzionale e qualunque «padrone del diritto» c’è una radicale incompatibilità. Il diritto non è oggetto in proprietà di uno ma deve essere oggetto delle cure di tanti».

C’è chi sostiene che non giova all’opposizione lo scontro frontale. Che giova soltanto a Berlusconi essere definito il male assoluto. Che cosa vuol dire? Che bisogna usare le vecchie tattiche ambigue capaci di far apparire al confronto i dc dorotei dei giacobini, le stesse usate dal Cavaliere nella sua «verifica» di governo? Prender le legnate in testa e starsene tranquilli? Diventare moderati al posto di coloro che si definiscono tali, ma in ogni questione si comportano come estremisti dissennati? Non è stato fruttuoso, in passato.

Certo, sarebbe più vantaggiosa, per l’intero Paese, una politica fondata su un rapporto leale tra maggioranza e opposizione. Ma è possibile un qualsiasi genere di dialogo con chi nega i princìpi dell’esistere civile e politico e considera la Costituzione una carta da stracciare? Per questo è necessario ribattere colpo su colpo, sottolineare gli errori, le menzogne, l’incompetenza di governanti che con le loro leggi codine, aziendali, a uso privato, incuranti del bene collettivo, stanno disfacendo dei capisaldi dello Stato sociale e dello Stato di diritto. Non sarà facile, dopo, rimettere a posto leggi improvvide che riguardano una società incrinata: scuola, giustizia, televisione pubblica, beni culturali, sanità. E non è casuale che il disagio e la protesta siano oggi così estesi, dai professori ai medici ai piloti, dai pensionati alle maestre d’asilo ai veterinari agli operai di Terni.

Di nuovo sul verbo demonizzare. Domenica scorsa il segretario dell’Associazione nazionale magistrati Carlo Fucci ha suscitato scandalo ricordando, a proposito della riforma della magistratura, il decreto Oviglio, il guardasigilli del governo Mussolini appena al potere che vietava l’associazionismo giudiziario, prevedeva l’abolizione del sistema elettivo dei componenti del Consiglio superiore della magistratura e la soppressione del carattere giurisdizionale della Corte di disciplina. Può darsi che il riferimento alla «deriva istituzionale del 1923» in quel momento del Congresso fosse inopportuno. Ma le reazioni infuocate non potevano non far pensare alla coda di paglia ministeriale. Gli intoccabili. Non era preferibile, anziché usar l’insulto nei confronti di quella toga che tre l’altro rossa non è, spiegare che esistono differenze tra il regio decreto n. 2786 del 30 dicembre 1923 e la legge ora in discussione e che quindi la citazione era sbagliata? O non era proprio possibile farlo perché le similitudini scottano?

Sul decreto Oviglio, sulla sua sostanza, nessuno, tra vociferanti diatribe, ha chiesto alcunché, nessuno ha voluto sapere. Il quotidiano «tendenzialmente omicida» è stato l’unico a spiegarlo, mercoledì scorso, con un articolo di Paolo Piacenza.

PARIGI Nel panorama politico francese, Gilles Martinet (nato a Parigi nel 1916) occupa un posto comparabile a quello che è stato di Norberto Bobbio in Italia, in quanto coscienza critica dei valori della democrazia. Del resto, Martinet ha conosciuto Bobbio molto bene, ne è stato amico e ne ha perfino ricevuto una laurea honoris causa all’Università di Torino. Per la prima volta, ha accettato di rispondere ad alcune domande sulla percezione francese del berlusconismo.

Animatore del giornale clandestino «L’insurgé» durante l’occupazione tedesca, Martinet è stato successivamente redattore capo dell’Agenzia France Presse (AFP), direttore del settimanale L’Observateur (per quattordici anni) e direttore di riviste (La revue internationale e Faire). Nella sua carriera di uomo politico, è stato cofondatore poi segretario del Partito Socialista Unificato (PSU), segretario nazionale del Partito Socialista (PS), deputato europeo.

Amante della cultura italiana fin dalla giovinezza (e genero del grande sindacalista Bruno Buozzi, esiliato a Parigi fin dagli anni ‘20 e ucciso dai nazisti nel 1944), Martinet è stato scelto da Mitterrand come Ambasciatore di Francia in Italia (1981-85) proprio in considerazione della sua profonda conoscenza del nostro Paese. In oltre mezzo secolo di attività, ha pubblicato una quindicina di volumi (fra cui «Les cinq communismes», «Sept syndicalismes», «Cassandre et les tueurs», «Les Italiens», «Une certaine idée de la gauche»).

Perché il personaggio Berlusconi irrita tanto i francesi, ben al di là delle divisioni politiche fra destra e sinistra?

«Credo si debba risalire agli anni ‘80, quando il presidente Mitterrand decise di mettere fine al monopolio di Stato sul settore audiovisivo, favorendo la nascita di radio e televisioni private. Così nacque la Cinq, creata da un industriale protestante vicino alla sinistra, Jérôme Seydoux, in società con Silvio Berlusconi, che all’epoca era molto legato a Bettino Craxi. La nuova programmazione destò subito i timori del mondo intellettuale, così influente in Francia, che paventava un involgarimento del paesaggio televisivo. Ma al tempo stesso suscitò aspre reazioni negli ambienti di destra e di centro-destra, dove si diceva che in apparenza i socialisti avevano compiuto una scelta liberale nel privatizzare, ma in realtà l’avevano fatto per favorire i loro amici politici. Quando la destra tornò al governo nel 1986, inaugurando il primo biennio di coabitazione con Mitterrand, immediatamente annullò la concessione al tandem Seydoux-Berlusconi, che usciva di scena con un risultato catastrofico sia sul piano economico sia in termini d’immagine».

Da allora, la percezione francese del berlusconismo è divenuta sempre più negativa...

«Fin dalle prime battute di Mani Pulite, i francesi hanno cominciato ad associare il personaggio Berlusconi con l’Italia della corruzione: da allora, la sua faccia furba e quasi sempre sorridente continua ad ispirare la più totale diffidenza. Quando poi è avvenuta la sua entrata in politica, tutti in Francia l’hanno trovata abbastanza incomprensibile, per almeno due ragioni. Anzitutto, perchè gli uomini d’affari del nostro Paese non hanno l’abitudine di rappresentare personalmente i propri interessi sulla scena politica nazionale, e d’altronde anche in Italia i maggiori esponenti del potere economico si sono generalmente attenuti alla regola di esercitare un’influenza, ma senza assumere responsabilità dirette. Nella logica francese, la scelta di Berlusconi aveva tutta l’aria di un gettare la maschera di fronte ad una situazione altrimenti indifendibile. In secondo luogo, ha suscitato grande perplessità che l’uomo legato ai socialisti di Craxi si sia proposto come il capo di una coalizione destinata a riunire tutte le componenti della destra italiana. Ciò ha confermato l’impressione che l’entrata in politica di Berlusconi non corrispondesse ad alcuna esigenza d’interesse generale, ma semplicemente ad un suo personale stato di necessità: al bisogno di far apparire ogni inchiesta giudiziaria a suo carico come il frutto di una persecuzione politica».

Qual è la valutazione dominante in Francia sulla politica estera del governo Berlusconi ?

«In estrema sintesi, viene considerato come meno europeista, più nazionalista ed al tempo stesso più filo-americano dei suoi predecessori. Eravamo abituati a considerare l’Italia come un Paese che associava il proprio destino all’avanzare della costruzione europea e che, memore dell’avventura fascista, non nutriva ambizioni nazionali al di fuori dell’importante sviluppo economico e sociale che effettivamente nell’ultimo mezzo secolo, sebbene fra grandi contraddizioni, è stato realizzato. Craxi aveva cominciato a modificare questo scenario, Berlusconi ha accentuato il cambiamento ed è difficile dire dove voglia arrivare».

Sempre in materia di politica estera, l’elemento che più ha irritato i francesi è stato senza dubbio l’allineamento del governo Berlusconi sulle posizioni americane in occasione della guerra dell’Iraq.

«Si è trattato di un allineamento un po’ più prudente di quello spagnolo, essenzialmente a causa dell’influenza del Vaticano. Ma è chiaro che il governo Berlusconi si è posto in antitesi nettissima rispetto all’orientamento pacifista della grande maggioranza degli italiani. A mio avviso, su questa vicenda Parigi ha sostenuto una posizione fondamentalmente giusta, ma ha commesso l’errore politico di presentarla come espressione dell’eterno motore franco-tedesco cui tutti gli altri europei dovrebbero sempre obbedire. Se invece di affrettarsi a minacciare il suo veto in Consiglio di Sicurezza prima dell’inizio della guerra, e di poi contraddirsi avallando l’intervento americano nel voto del Consiglio intervenuto successivamente, la Francia avesse cercato fin dall’inizio una maggiore concertazione con i Paesi vicini, con ogni probabilità non avremmo assistito ad un’immagine finale così lacerata dell’Unione Europea».

Un’ultima domanda, più “leggera”. Come vengono percepite dai francesi le frequenti gaffes del nostro Presidente del Consiglio?

«Qualcuno vuole perfino interpretarle come sintomi di spontaneità, ma la gran parte degli osservatori francesi ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un uomo di successo che sembra fiero di non aver assimilato la professionalità specifica dei politici, nè il loro linguaggio. Quindi la percezione è per lo più assai negativa».

ROMA - Professore Sartori, quale progetto si cela secondo lei dietro questa offensiva mediatica di Berlusconi?

«La strategia è quella di moltiplicare la presenza e il protagonismo televisivo. Berlusconi viene dallo spettacolo, ha creato un impero mediatico e dunque il protagonismo televisivo c´è l´ha nel Dna. Ma rispetto a questo percorso naturale ci sono due novità. La prima è la dichiarazione, molto grave per il capo di un governo e di un partito, che tutti i politici professionisti sono dei ladri».

Non sembra avere riscosso molto successo fra i suoi alleati...

«Infatti. Berlusconi dice molte cose a vanvera. Con quale logica può dire questa cosa, spiegando che si riferiva solo alla sinistra, quando metà dei suoi alleati che siedono in Parlamento sono politici professionisti? È un´affermazione insensata e proporla dimostra molta arroganza perché è indifendibile. Se i politici professionali sono quelli che non hanno un´occupazione alternativa, e sono ladri, questo vale sia per la destra che per la sinistra. Usare questo tipo di ragionamenti può essere un boomerang per il presidente del Consiglio».

E allora perché il Cavaliere usa questo argomento? Non solo non demorde: insiste.

«Perché ormai l´uomo è sicuro di sé, lo dice, se ne frega delle obiezioni. E intanto colpisce una fascia elettorale ben precisa a cui piace la frase "i politici professionali sono dei ladri. E Berlusconi non lo è"».

Questa è la prima novità. E l´altra novità nel comportamento di Berlusconi qual è?

«L´altra novità rilevante è che Berlusconi sente di avere titolo di fare un uso anche della televisione pubblica come vuole e quando vuole. Telefona ad un programma e parla. I responsabili dovrebbero dirgli: abbia pazienza, al massimo possiamo darle tre minuti. E invece il fatto che lo lascino parlare per diciassette minuti dimostra la sudditanza terribile e totale della televisione di stato all´invadenza di Berlusconi».

La Margherita avanza il sospetto che la telefonata alla Domenica sportiva fosse concordata e autorizzata dal dg Cattaneo.

«L´ipotesi che la cosa sia stata concordata è ancora più grave. Un direttore generale che voleva salvare le apparenze e la faccia, anche se tutti sanno che prende ordini da Berlusconi, avrebbe dovuto chiedere al Cavaliere almeno di autolimitarsi».

Cattaneo si difende dicendo che Berlusconi è intervenuto come presidente del Milan.

«Vuol dire che tutti i presidenti di calcio di serie A possono telefonare per sedici minuti a qualsiasi trasmissione televisiva? Hanno o non hanno questo diritto? E se non lo hanno, Cattaneo ci può spiegare dove sta la differenza tra loro e Berlusconi? Non basta la qualifica con la quale lui giustifica l´intervento di Berlusconi, cioè quella di essere presidente di una squadra di calcio?

L´Annunziata ha fatto bene a intervenire?

«Ha fatto benissimo. Per fortuna che c´è lei alla presidenza del cda della Rai. Ma mentre lei cerca di fermare Berlusconi l´altro, Cattaneo, dice che va tutto bene».

Alcuni direttori Rai si complimentano con Fabrizio Maffei per lo scoop di avere avuto Berlusconi in diretta...

«E chi sono?».

Clemente Mimun, Anna La Rosa, Mauro Mazza, Antonio Bagnardi, Bruno Soccillo...

«Ah i berlusconoidi della Rai! Ma che razza di scoop è questo di cui parlano? Berlusconi in tv ci va già abbondantemente, ma questa volta è andato in un una sede extra. Ma i berlusconoidi della Rai devono sempre dimostrare la loro fedeltà al capo e usano l´argomento del grande scoop della Domenica Sportiva. Il problema è che abbiamo un servizio pubblico di stato appiattito su un presidente del Consiglio in corsa per le elezioni».

Ma chi può fermare questa deriva?

«Tanto per cominciare la commissione di Vigilanza Rai deve fare qualcosa. Altrimenti su che cosa vigila? Stiamo assistendo all´invasione di spazi impropri in misura totalmente inaccettabile e la Vigilanza non ha nulla da dire? Allora aboliamola o cambiamo il presidente. Claudio Petruccioli impari il mestiere di dirigere la Vigilanza dal suo predecessore Storace: quello urlava come un´aquila tutti i giorni e riusciva davvero a intimidire la Rai».

ROMA - Anche l'ultima uscita di Silvio Berlusconi sull'allenatore del suo Milan è campagna elettorale. Così come era campagna elettorale quella precedente sull'evasione fiscale che può essere tollerata se le tasse sono troppo alte o quella, subito seguente, sui politici di professione che "rubano o hanno rubato". Campagna elettorale. Sarà lunga, lunghissima fino a giugno per le amministrative e le europee. Poi continuerà fino alle politiche del 2006. E sarà dura, radicale, dai toni forti. Un clima pesante. Perché così la vuole Berlusconi "perché quello è il suo ring, lì lui è cintura nera e sa di poter vincere". E' l'analisi di Alessandro Amadori, psicologo, fondatore dell'istituto di ricerca Coesis Research. E' autore di due libri su Berlusconi: Mi consenta volumi 1 e 2.

Amadori, che tipo di campagna elettorale sarà questa che è di fatto già incominiciata?

"Radicalizzata, dai toni forti. E tutta basata a fare quadrato interno. Cioè a consolidare, da parte di entrambi gli schieramenti, il proprio mercato più che attrarre mercato potenziale".

Perché?

"Perché la politica è a corto di idee. Perché i problemi del Paese sono strutturali, come ha rivelato il caso Parmalat e diventa difficile parlarne in termini realistici. Perché è più facile. E' come il tifo calcistico. Si rafforza la propria parte e si demonizza l'altra. Perché forse è quello che gli italiani in qualche modo inconsciamente desiderano. Ma una delle ragioni decisive è che Berlusconi è più debole. La sua psicologia del sogno non attecchisce più e lui lo sa. Ha bisogno di una via d'uscita chiassosa".

E che spiegazione si darebbe Berlusconi del proprio indebolimento? Colpa dell'azione di governo o, come spesso ha detto, di un difetto di comunicazione delle cose fatte?

"E' convinto che il metodo dell'imprenditore, il metodo autocratico, non è praticabile in questo assetto istituzionale. Quella è la vera partita: le riforme, modificare surrettiziamente il dna della nostra democrazia. Per fare questo ha bisogno di due legislature. E mentre lui lavora a questo noi parliamo di Ancelotti".

L'uscita su Ancelotti servirebbe a sviare l'attenzione? Ma non è stata contropruducente? Gli italiani non potrebbero pensare: "Ma con tutti i problemi che abbiamo, il presidente pensa al Milan"?

"Dall'estate del 2003 all'elemento di distrazione si è aggiunto un elemento di evoluzione psicologica. La teoria della nemesi creativa: l'improvviso imbarbarimento dei grandi capi autoritari. Ci si distacca dalla realtà e si diventa preda di una forma di percezione all'insegna dell'onnipotenza. Questa mi sembra l'unica spiegazione dell'uscita su Ancelotti".

Quindi non era prevista? Non era un calcolo da grande comunicatore. Ma allora questa campagna elettorale rischia di avere elementi aleatori che potrebbero renderla ancora più incontrollabile. E' così?

"E' la teoria dei tre terzi. Per un terzo sarà strategia. Berlusconi parlerà di tasse, sicurezza, grandi opere e così via. La strategia ha come asse portante il presidio del territorio conquistato e fare i conti all'interno della coalizione".

Il secondo terzo?

"E' il diversivo, la schermaglia tattica. Volontà di distrarre l'attenzione. L'evasione fiscale, i comunisti senza comunismo, i politici che rubano. Il messaggio del Berlusconi antipolitico".

Infine?

"Berlusconite. Cesarismo. L'uscita su Ancelotti. Come se dicesse: 'Vedete che avevo ragione?' 'Che se non fate come dico io, se non fate giocare il Milan con due punte sbagliate?'"

Quanto pesa quest'ultimo terzo?

"E' la scheggia impazzita che rischia di rompere le uova nel paniere berlusconiano".

Ma se è come dice lei perché nessuno dei consulenti del premier lo sconsiglia dal fare queste uscite?

"Nella cerchia ristretta dei consulenti di Berlusconi si fa fatica a fargli capire gli effetti collaterali che certe uscite possono avere".

Insomma, nessuno ha il coraggio di dirglielo.

"Secondo me è così. Perché certe uscite sono francamente autolesionistiche. Le grandi personalità autoritarie hanno incominicato a distaccarsi dalla realtà perché sono venuti a mancare gli elementi di controllo, le verifiche razionali".

Quale è stata la miglior uscita elettorale di Berlusconi?

"Quella sui politici che rubano è quella che parla di più al suo elettorato. Che spesso gli rimprovera di proprio aver perduto la sua forza antipolitica".

La peggiore?

"I comunisti senza comunismo. Un messaggio che non interessa più a nessuno".

Il lifting?

"Una via di mezzo. L'ha fatto nel momento sbagliato, quando gli italiani sentono di diventare più poveri".

Berlusconi comunque sembra pronto per la lunga campagna elettorale. Che cosa dovrebbe fare il centrosinistra per vincere?

"Non cadere nella trappola. Se risponde alla provocazione il centrosinistra perde. Berlusconi in questo terreno è più bravo. L'opposizione dovrebbe fare in modo che Berlusconi faccia a pugni con il vuoto".

Succederà?

"Prodi e la Margherita sembrano averlo capito. Per i Ds è un po' più difficile resistere alla tentazione. E' comprensibile con tutti gli attacchi che subiscono quotidianamente".

RIUSCIREMO a sopravvivere da paese civile alla prossima campagna elettorale? Esiste un sistema per smontare la rabbiosa macchina da guerra messa in moto da Berlusconi per le Europee? È questa, più della vittoria dell´uno o dell´altro schieramento, la vera posta in gioco da qui a giugno. Una democrazia può ben resistere a un cambio di maggioranza ma non all´imbarbarimento progressivo della lotta politica oltre un punto di non ritorno. Ed è più o meno questo l´obiettivo di Berlusconi.

Convinto che con una campagna elettorale "normale" il suo partito andrebbe incontro a una disfatta storica, il premier fa leva sull´immenso potere mediatico per imporre una campagna folle, estrema, in un certo senso "finale". Il suo è un estremismo calcolato, una pazzia lucida e meticolosa. Si tratta di vedere se gli avversari sapranno riconoscerla come tale.

La reazione più naturale di fronte alle provocazioni del premier è, triste a dirsi, anche la più inutile. Scandalizzarsi non serve a niente. La maggioranza degli italiani in ogni caso non si scandalizza, non più, non per Berlusconi. La società è mitridatizzata, l´informazione scarsa e controllata.

Chi ha provato a contare i vantaggi enormi che l´attuale campione dell´antipolitica ha ricevuto dagli odiati politicanti della prima Repubblica è stato già censurato ed espulso da tutte le televisioni del regno. Si potrebbe anche provare a fare il calcolo di quante tangenti occorrono per arrivare in cima alla montagna di miliardi che si è messo in tasca lui da quando è premier, fra condoni, decreti tivù, defiscalizzazioni, abolizione della tassa di successione e perfino spalma-debiti per il calcio. Facciamo duemila seconde case di onorevoli? Un migliaio di barche con annesso skipper? Ma anche questo argomento non servirebbe a molto. Guai, oggi, a demonizzare chi lo merita.

Assai più utile è cercare di capire la meccanica della "follia" di Berlusconi e magari smontarla. La strategia del premier parte dalla lettura dei sondaggi che da mesi indicano un crollo di Forza Italia dal 30 al 20 per cento e una costante crescita di consensi della Lista Prodi fino al 35-37 per cento. Notizia che di per sé giustificava almeno un lifting. Berlusconi ha riunito i suoi esperti di comunicazione e ha deciso di sperimentare sul terreno la ricerca del messaggio in grado di rovesciare la situazione. Da quando è tornato sulla scena ne ha sperimentati tre. Il primo, l´Ottimismo. In tinta con il rimpasto facciale, il premier ha cominciare a dire che l´Italia è più ricca e prospera, felice e fiduciosa, insomma "più bella che pria". Non ha funzionato. Al contrario, l´ottimismo fuori luogo ha prodotto nell´opinione pubblica una reazione infastidita e di distacco dal capo, del genere: "Andrà meglio a lui, ma a noi?". Mancato il primo colpo si è passati al secondo, un classico: l´anticomunismo. Comunisti dappertutto, dalla Corte Costituzionale fino all´ultima aula scolastica. Comunisti feroci, sabotatori incalliti.

"Comunisti senza comunismo". E qui ha sbagliato slogan. Perché un conto è richiamare alle armi lo storico anticomunismo nazionale, vero collante ideologico dei ceti medi dal dopoguerra. Altro è ammettere che il comunismo non c´è più. Quel "senza" è stato fatale. Perché se il comunismo non esiste (in effetti sono passati quindici anni dal crollo del muro e tredici dalla dissoluzione del blocco sovietico) perché scaldarsi tanto contro i poveri superstiti?

Bruciati in pochi giorni i due messaggi fondanti del berlusconismo, il grande comunicatore non si è perso d´animo e con la riconosciuta mancanza di scrupoli è passato a quella che un dottor Stranamore chiamerebbe "l´arma fine di mondo", il qualunquismo. «È giusto evadere le tasse alte», «i politici sono tutti ladri». Pare di ascoltare il Bossi prima maniera. Ma intanto il messaggio è efficace, doppiamente efficace. Da un lato parla agli istinti animali dell´elettorato, dà voce a un rifiuto della politica forte e radicato nella società italiana tanto fra i giovani che fra i vecchi, fra i ricchi e gli impoveriti, gli operai e gli imprenditori, i professionisti e gli impiegati. Dall´altro costringe la politica a una difesa che suona di nomenklatura, rivelando un qualunquismo speculare. Da sempre in Italia all´antipolitica della società corrisponde lo spirito antisociale della politica. In questo modo Berlusconi recupera la sua centralità, la pretesa di essere diverso e migliore, l´unico capace di mediare fra il Palazzo e la Gente, tramite divino dal paese reale a quello (sempre meno) legale.

Trovato il "messaggio", non c´è dubbio che Berlusconi userà tutto il potere di cui dispone per imporlo alla campagna elettorale, senza preoccuparsi del potenziale distruttivo ed eversivo che sprigiona. Sarà come se nel ?92 Bossi e Miglio avessero avuto a disposizione il 90 per cento dell´informazione. Ma con una differenza importante e forse decisiva: l´esperienza di questi dieci anni.

Smontare il messaggio di Berlusconi non è poi così difficile. Tutte le sue strategie mirano all´unico scopo di oscurare i fatti con le parole. Vuole costringere tutti a discutere di quel che ha detto oggi o ieri perché si dimentichi quanto ha fatto in due anni e mezzo di governo. un´intuizione esatta. Gli italiani non sono affatto delusi dalle sue parole, che anzi continuano a piacere moltissimo. Sono delusi dai fatti, dalla distanza fra promesse e risultati. Se l´opposizione saprà insistere su questo contromessaggio, se saprà ogni volta incalzare il presidente del Consiglio chiamandolo a rispondere delle concrete azioni di governo e non delle sparate da capopopolo, allora avremo una campagna elettorale normale, davvero europea.

PER i lettori di Repubblica non sarà una sorpresa apprendere che la commissione d’inchiesta parlamentare Telekom Serbia è stata ingranaggio di una Grande Trappola contro il presidente della Commissione europea, il leader del maggior partito di opposizione, un ex presidente del Consiglio. Di quel disegno politico, perché di questo si tratta, Repubblica ha provato a indicare, fin da settembre scorso, gli attori, i comprimari e le mosse. Ora uno dei protagonisti dell’affare - Antonio Volpe - è in carcere, con Igor Marini, accusato di calunnia contro Prodi, Fassino e Dini. La magistratura farà il suo lavoro, accerterà e attribuirà le responsabilità, ma la decisione del giudice di Torino pone fin da ora una domanda e due questioni. La domanda interpella il governo. Antonio Volpe non è un uomo senza storia. è la muffa di un sistema che si immaginava seppellito per sempre. La sua opaca biografia di frammassone, di manovale a cottimo dei servizi segreti, i contatti costanti e recenti con l’intelligence della Difesa, la rete di legami (Francesco Pazienza, Renato D’Andria) con circoli di depistaggio e diffamazione impongono di sapere se, dentro le strutture dello Stato, esiste ancora (organizzata da chi? controllata da chi? tollerata da chi?) un’area oscura che si mette in azione contro gli avversari politici armata di dossier falsi e false testimonianze. è una risposta che tocca al governo dare. Sono il sottosegretario con la delega ai servizi segreti, il ministro della Difesa e dell’Interno a dover spiegare che cosa è nascosto sotto il tappeto nelle «case» di cui hanno la responsabilità politica. A dover dire se qualcosa sanno; se qualcosa e che cosa faranno per sapere; se sono d’accordo che sia ragionevole e doveroso, a questo punto, che qualcosa si sappia. Quel che è accaduto è sufficientemente chiaro a tutti. Una accolita di brutti ceffi, noti alla cronache fin dagli Anni Ottanta, si è stretta intorno a una commissione d’inchiesta parlamentare per annientare con la calunnia l’intera leadership dell’opposizione lanciando in aria, sospesa, addirittura una minaccia contro il presidente della Repubblica. Questi brutti ceffi, scrive il giudice di Torino, si sono mossi nel solco di «un unico disegno criminoso». Si incontra qui una prima questione politica: dove sono e chi sono i mandanti politici di quell’azione. Neppure Candido crederebbe che, un giorno tra novembre e dicembre del 2002, una pattuglia di massoni piduisti, di spioni e di spiantati si propone al lavoro di una commissione d’inchiesta, così, tanto per ammazzare il tempo in mancanza di meglio. Per stare ai fatti, vediamo Antonio Volpe intorno alla commissione Telekom fin da dicembre del 2002 (i lavori non sono ancora entrati nel vivo). Lo ritroviamo, a sentir lui, nelle stanze di san Macuto (il palazzo dove la commissione si riunisce) nel gennaio 2003 quando il cacciaballe Igor Marini ancora fatica da facchino all’ortomercato di Brescia. Frammassone Antonio Volpe se ne va in giro da quel momento presentandosi come «consulente della commissione». Ne rintracciamo la presenza nello studio del presidente Trantino in luglio, in comunicazione via fax con il "commissario" di Forza Italia Alfredo Vito in agosto e ancora con Alfredo Vito in settembre. Che cosa e chi lo autorizza a muoversi con quell’autonomia e, diciamo così, autorevolezza? Quale ingaggio, quale incarico? Se fossimo in una situazione appena decente, o decentemente normale, dovrebbe essere la stessa commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Enzo Trantino a fare luce sulla manovra che l’ha condotta in un vicolo maleodorante di calunnie. è la seconda questione che occorre affrontare. è una questione che chiama in causa il Parlamento e i presidenti di Camera e Senato. è in grado quella commissione di lavorare con serenità ed equilibrio? è in grado di raccogliere il rispetto dell’opinione pubblica, di onorare il qualificato compito che le è stato assegnato. Stiamo ancora i fatti. Anzi, a un fatto accaduto ieri. Un "commissario", Giuseppe Consolo, senatore di Alleanza nazionale, tra i più entusiasti estimatori del cacciaballe Igor Marini, tra i più inflessibili accusatori di Prodi, Fassino e Dini, apprende la notizia dell’arresto di Volpe. Non viene sfiorato né dall’imbarazzo né dalla cautela. Dà alle agenzie una notizia: ho consegnato alla commissione un documento da cui «si evince l’obbligo per le società pubbliche come Telecom di informare preventivamente l’azionista». Consolo non pensa di chiedere scusa a chi è stato per mesi infangato dalla calunnie che la sua avventatezza ha contribuito a diffondere. Consolo rilancia. Sventola un documento sortito chi lo sa da dove e come (non lo spiega) e dice: l’azionista di Telecom, cioè il ministro del Tesoro, cioè Carlo Azeglio Ciampi, doveva sapere. Delle due, l’una: o ha saputo e ha taciuto; o non ha saputo perché ha chiuso gli occhi. Senza un’ombra di rossore nel volto, Consolo ripropone la tecnica che ha soffocato la credibilità della commissione in questi mesi. Una procedura costruita con "clamorose" dichiarazioni alla stampa, con messaggi oscuri e parole oblique. Non c’è da meravigliarsi: la commissione Telekom non è nata per accertare i modi dell’acquisizione dell’azienda telefonica serba (e fatti da accertare ce n’erano e ce ne sono, come i lettori di Repubblica sanno). Quella commissione è stata costruita per liquidare l’opposizione, per fare da "camera di scoppio" di una campagna di diffamazione e di violenza politica. è quel che è avvenuto con l’arrivo di Marini e di Volpe, con le lettere anonime, con falsi documenti inviati da malvissuti ricattati da vecchi arnesi della massoneria piduista. Sono Pera e Casini a dover interrompere questa spirale di strumentalizzazioni politiche. I presidenti di Camera e Senato non possono interferire nelle determinazioni della commissione né devono condizionare la sua autonomia. è scritto nei regolamenti, è giusto che sia così. Ma la seconda e la terza autorità dello Stato hanno anche l’obbligo di preservare la rispettabilità delle Camere, hanno il dovere di chiedere che si allontani spontaneamente dalla commissione chi per inettitudine non ha saputo difenderne la limpidezza. Dopo quanto accaduto a san Macuto, in un Paese civile sarebbero formulate scuse a chi è stato ingiustamente infangato e sarebbe restituito, perché interesse di tutti, l’onore al Parlamento.

«So per certo che Berlusconi alza il telefono e chiama i consiglieri d'amministrazione per suggerire nomine ed influenzare le scelte sui programmi». Una denuncia esplicita che ha un effetto bomba, quella fatta dalla presidente Rai, Lucia Annunziata, in un incontro con la stampa estera. Subito si è scatenata l’ira del centrodestra (soprattutto di FI) e una raffica di smentite dai quattro consiglieri: «Si è incrinato il rapporto di fiducia nel Cda», afferma Marcello Veneziani. Se poi questo possa tradursi in una sfiducia alla presidente, nel Cda di oggi pomeriggio, è da vedere. Ma da destra le pressioni sono forti e dirette.

«Queste sono le spiegazioni che mi vengono date in via non ufficiale per giustificare alcune delle decisioni che vengono prese», ha risposto Lucia Annunziata ai giornalisti stranieri. La «goccia che ha fatto traboccare il vaso» è stata la «bocciatura» da parte della maggioranza del Cda Rai del nome di Ferruccio De Bortoli per la striscia informativa di sei minuti dopo il Tg1 delle 20, lo spazio che era occupato da «Il Fatto» di Enzo Biagi prima del diktat berlusconiano. E per una che si definisce una «moderata intransigente», il veto su una persona moderata come l’ex direttore del «Corriere della Sera» è stato la «goccia» esplosiva, spiegano da Viale Mazzini.

Uno per uno i consiglieri hanno smentito. Dall’ospedale parla per primo Giorgio Rumi, cattolico: «Io non ho mai ricevuto nessuna telefonata. Berlusconi non lo conosco nemmeno personalmente», ma «non ho capito perché De Bortoli non vada bene», aggiunge. Segue Francesco Alberoni, «sbalordito». «Mai ricevuto telefonate da Berlusconi per le nomine»; accusa la presidente di fare «comizi e comunicati durante il Cda», poi minimizza sulla scelta dei nomi: uno scambio di vedute con «diverse proposte, rinviamo ogni decisione, non c'è fretta», aveva detto (eppure la striscia sarebbe dovuta partire a febbraio aveva detto il Dg Cattaneo la settimana scorsa, ora è stata rinviata a marzo, dopo Sanremo). Dopo un po’ parla Marcello Veneziani, vicino ad An: «O chiarisce il suo pensiero e rivede la dichiarazione incauta rilasciata, oppure si incrinerà il rapporto fiduciario all'interno del Cda». Mai «preso ordini da nessuno», mai «ricevuto telefonate», Veneziani gira la questione: Annunziata «organica alla sinistra», attaccata da «Santoro e Sabina Guzzanti». Ultimo replica con toni duri Angelo Maria Petroni, il consigliere più organico a FI e che si sarebbe opposto per primo a De Bortoli: «La dottoressa Annunziata ha un transfert psicoanalitico. Probabilmente pensava a consiglieri Rai del passato, a Presidenti del consiglio del passato e a giornalisti Rai del passato» («ai miei tempi le nomine le facevamo noi», replica l’ex presidente Rai, Zaccaria, che cita tre direttori di Tg: Borrelli, Lerner e Longhi).

Subito la destra parte all’attacco chiedendo le dimissioni. Dalla prima fila delle truppe di Forza Italia parte Cicchitto: «Annunziata dà il suo contributo alla campagna elettorale dell’Ulivo, mettendo nel mirino il presidente del Consiglio»; Isabella Bertolini imita il Capo: «A RaiTre i vari soviet di redazione godono di ottima salute». Ricciotti è lapidario: «La signora Annunziata ha dichiarato il falso, farebbe bene ad andarsene». Accuse anche da An, con Bonatesta e Butti. Voce solitaria, il direttore del Tg2, Mauro Mazza (vicino ad An) trova «scandaloso scandalizzarsi. Anche nel caso della mia nomina la politica ha detto qualche parola».

Il centrosinistra è allarmato: «Il Re è nudo», afferma Rizzo, Pdci; Morri dei Ds: «È inutile strepitare, è la verità e la difesa dell'autonomia della Rai dovrebbe essere svolta non solo dal Presidente ma da tutto il CdA e dal Direttore Generale. O pensavate che la Presidente dovesse tagliare soltanto i nastrini?». Il diessino Falomi chiede che «l'Authority per le Comunicazioni avvii un’indagine sul controllo politico dell'informazione in Rai» e che ci sia «un’iniziativa del presidente della Commissione di Vigilanza». Lusetti, Margherita: «Inquietante, non bastano semplici dichiarazioni di smentita per fugare tutti i dubbi».

Già la settimana scorsa, quando fu «bocciato» De Bortoli, Lucia Annunziata aveva denunciato «pressioni esterne» sul nome «sgradito al governo». Qualcosa «era successo», perché l’accordo con il direttore generale, Flavio Cattaneo, era saltato nel Cda. Ma ieri la denuncia ha avuto un cognome (che vale anche per le pressioni di famiglia sulla sfida Bonolis-Ricci). Altro che «figurante», come l’ha definita Santoro, è stata nominata per «vigilare sul conflitto di interessi», spiegano, ma i consiglieri hanno sempre bocciato quattro a uno ogni sua proposta pluralista», per avere il controllo totale sull’informazione, tanto più in campagna elettorale. Annunziata aspetta ancora una risposta chiara sul veto a De Bortoli. Accada quel che accada nel Cda di oggi, la sfida è aperta.

Sulla scelta dei conduttori per la striscia c’è tempo, comunque resta in campo Vespa, alternato o affiancato da nuovi nomi: Enzo Bettizza, editorialista de «La Stampa», Maria Latella e Barbara Palombelli del «Corriere». Rinviata a mercoledì l’audizione in Vigilanza del direttore del Tg1, Mimun: convocata alle 14 di oggi, alla stessa ora è stata fissata la seduta in aula a Montecitorio per la Legge Gasparri.

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«So per certo che Berlusconi alza il telefono e chiama i consiglieri d'amministrazione per suggerire nomine ed influenzare le scelte sui programmi». Lucia Annunziata, presidente del Cda Rai, ha pronunciato questa frase intervenendo oggi a Roma davanti a una platea di corrispondenti di giornali esteri. La Annunziata precisa che queste almeno sono le spiegazioni che le sono state date in via non ufficiale per giustificare alcune decisioni prese in Rai su cui evidentemente la presidente non è stata d'accordo. Il riferimento è in particolare la recente bocciatura da parte della maggioranza del Cda della candidatura di Ferruccio De Bortoli alla conduzione della striscia informativa su Raiuno al posto de «Il Fatto» di Enzo Biagi. Questa bocciatura sarebbe stata decisa perchè l'ex direttore del Corriere della Sera «non è gradito al governo».

I consiglieri Giorgio Rumi e Francesco Alberoni cadono dalle nuvole e rispondono in coro che a loro il premier non ha mai telefonato. Nè conoscono vicende simili anche solo per sentito dire.

Mentre Giorgio Lainati, capogruppo di Forza Italia in commissione di vigilanza Rai, rincara la dose esprimendo sconcerto per le «gravi» dichiarazioni della presidente, considerandole per altro alla stregua di «pettegolezzo». «L'ennesima, gravissima scorrettezza» della Annunziata, soggiunge Antonio Leone, vicepresidente del Gruppo di Forza Italia alla Camera.

E un altro consigliere, l'intellettuale di destra Marcello Veneziani avverte che o la Annunziata smentisce o «il rapporto con il Cda deve considerarsi incrinato». «Capisco - continua - che l'Annunziata viva un difficile momento all'interno della sinistra

dopo le accuse rivoltele da Michele Santoro, in parte da Sabina Guzzanti e dal popolo dei girotondini. Ma che debba tentare di legittimarsi agli occhi della sinistra sparando sul consiglio che presiede è inaccettabile».

Infine il consigliere Angelo Maria Petroni descrive l'uscita della presidente alla stregua di un gesto di "matteria". Per Petroni la Annunziata si doveva riferire al passato e lui crede che dunque «abbia operato un transfert psicoanalitico».

Per il vice coordinatore di Forza italia Fabrizio Cicchitto, la denuncia della Annunziata va invece letta come un riflesso della campagna elettorale già iniziata.

È in auge una giudiziosa campagna d´opinione contro i toni forti. Con rimbrotti equamente ripartiti contro le due bande estreme del campo politico, la destra gradassa e la sinistra indignata. Però, al netto del fair-play e di altre non secondarie questioni di civismo e rispetto, restano sul campo, e contribuiscono a incendiarlo, questioni che purtroppo non sono affatto di tono (magari lo fossero!), ma di sostanza.

Per esempio la parola "censura", che è sgradevole e ingombrante quanto la parola "regime", della quale è sintomo, viene sovente tacitata di esagerazione strumentale, e isterica. Bene: vogliamo entrare nel merito, allora, per verificare se questa parola dia scandalo perché la si adopera a sproposito, o piuttosto perché la si adopera a proposito?

Ieri l´altro la magistratura competente ha fatto sapere che non c´è alcuna ragione di procedere per diffamazione contro Sabina Guzzanti e il suo Raiot. Poiché la Rai aveva sospeso ufficialmente la trasmissione esattamente per questa ragione - perché temeva le conseguenze legali - sarebbe logico presumere che a Guzzanti fossero restituiti, a questo punto, immagine e favella. Non accade e non accadrà. Da un punto di vista logico (e non politico) è lecito o no parlare di censura?

Due giornalisti di punta della Rai, Biagi e Santoro, dopo che in un discorso pubblico il premier li nominò persone sgradite e nemiche, sono stati levati dalla programmazione. Che il caso sia risaputo e logoro non cambia di una virgola la sostanza (non il tono) della nostra domanda, ugualmente risaputa e logora: è lecito o no parlare di censura?

Il comico e dicitore Daniele Luttazzi invitò nel suo talk-show il giornalista Travaglio, autore di un libro (regolarmente in vendita) contro Silvio Berlusconi. Carriera televisiva stroncata, e significativa difficoltà, per Luttazzi, di trovare teatri disponibili a farlo lavorare, specie nel Nord del Paese. Di nuovo: è lecito oppure no parlare di censura?

Dario Fo e Franca Rame hanno scritto una farsa satirica su Silvio Berlusconi. Prima alcuni consiglieri del Piccolo Teatro, nominati dalla maggioranza di centrodestra, si dichiarano contrari alla messa in scena perché lo spettacolo «fa politica schierata» (da Aristofane in poi, in effetti, capita), poi una rete satellitare lo manda in onda senza audio nel timore delle solite «conseguenze giudiziarie». Per la quarta volta: è lecito o no parlare di censura?

A Bologna, l´etologo Celli è invitato a parlare del comportamento dei cani in una sala pubblica. L´argomento non è strettamente politico, a meno di considerare Celli un manipolatore della scienza così geniale da volgere l´esegesi dei volpini e dei pastori bergamaschi in polemica antigovernativa. Ma dal Comune fanno sapere agli organizzatori del dibattito che Celli è «persona sgradita» (aridagli), e siamo punto e a capo: censura o cos´altro?

Infine, e forse perfino peggio, la vicenda della fascia preserale di Raiuno. Ferruccio De Bortoli viene indicato tra i possibili protagonisti Rai di quell´Ora Fatale, quella contesa a colpi di maglio tra Ricci e Bonolis. Pressioni di area governativa sconsigliano e dirottano, il presidente della Rai Annunziata sostiene che il premier in persona (proprietario di Mediaset) telefona ai consiglieri di viale Mazzini per consigliarli, e l´Unità, finora non smentita, giorni fa scrisse che lo stesso direttore generale discusse (diciamo così) con Berlusconi l´assetto della fascia preserale. L´accusa, nel caso in questione, è semplicemente gravissima, perché allo scopo censorio si sommerebbero ragioni di concorrenza sleale, rilevanti penalmente, nonché di Leso Mercato, crimine inaudito sotto questo cielo ma inevitabile strascico logico del famoso conflitto di interessi (altra questione sostanziale spesso retrocessa a una questione di cattivo umore di chi la tira in ballo).

A corollario di quanto detto, aggiungo due osservazioni. La prima: il dibattito sui precedenti casi si è dipanato principalmente sui toni inopportuni (di nuovo!) e lo stile dei censurati, sulla natura della satira, sul carattere fumantino della Guzzanti, sulla consunzione o meno del teatro di Fo-Rame, quasi si fosse a una convention di critici. Assai di meno ci si è soffermati sulla notizia-notizia, che era ed è, indubitabilmente, il secco limite alla libertà di espressione che queste vicende descrivono. Bastasse il giudizio negativo su uno spettacolo, per volerlo oscurare, io cancellerei di mio pugno metà dei palinsesti Rai e Mediaset: il fatto è che non basta affatto, quel giudizio, e la libertà d´espressione contiene, come scomoda conseguenza, appunto la messa in onda di facce e parole "antipatiche": ai giudici il compito, quando sia necessario, di risarcire i diffamati o di perseguire i reati commessi per mezzo della parola. Il resto, tutto il resto, è solo e soltanto censura politica.

Seconda osservazione: che a rimanere vittima di ostracismo politico sia stato, insieme ai ben noti agitatori di sinistra sopraccitati, anche Ferruccio De Bortoli, la dice lunga sull´imprevidenza di un dibattito fondato solo sul garbo politico: si sia garbati o meno - e De Bortoli lo è assolutamente e ai tempi del Corriere lo fu anche valorosamente - si rischia comunque di essere rispediti a casa, con tanti saluti. E dunque garbatamente, perfino squisitamente, con un cordiale sorriso sulle labbra e stringendo la mano a tutti, domando: non è arrivato il momento di chiederci che cosa sta succedendo, in questo paese, alla libertà d´espressione?

Un appello a Pera e Casini dai giornalisti Rai: i presidenti delle Camere intervengano per garantire l’autonomia professionale e le «minime» condizioni per una corretta informazione in vista della campagne elettorale. Un allarme lanciato dall’assemblea di tutte le redazioni, riunita a Saxa Rubra. E mercoledì si è dimessa Daniela Tagliafico, vicedirettore del Tg1, alla quale l’assemblea esprime solidarietà. La sua lettera, inviata anche al comitato di redazione, è affissa nella bacheca del tg a Saxa Rubra: «Caro direttore, poiché non hai risposto alla mia lettera in cui esplicitavo una serie di punti, a mio avviso ineludibili per ripristinare le condizioni per una piena condivisione della linea editoriale, e poiché mi hai pubblicamente invitato a dare le dimissioni da vicedirettore del Tg1, ti chiedo l'assegnazione di un nuovo incarico dentro la testata adeguato alla mia professionalità».

Nessun commento dal direttore del Tg1, Clemente Mimun, che in commissione di Vigilanza ha ribaltato la prassi dell’audizione: ai parlamentari ha detto solo «vi ascolto, risponderò dopo». Perché «rispetto il Parlamento», dice. «Un’audizione panino», secondo l’opposizione, che corrisponde alla tecnica usata dal Tg1, per cui l’ultima parola ce l’ha la maggioranza. Daniela Tagliafico aveva già spiegato i motivi tutti professionali del suo disagio, chiedendo al direttore una «narrazione della politica» corretta e non a «panino»; maggiore autonomia giornalistica e più interviste; un limite all’uso «chiavi in mano» delle immagini dei services di partito; l’utilizzo di tutti i giornalisti. Mimun le ha risposto solo in un comunicato: «Io non la esonero dall’incarico, se lei si vuole dimettere, si dimetta».

Erano più di centocinquanta i giornalisti riuniti mercoledì a Saxa Rubra: dalle redazioni dei tre tg, dalla radio, da Rainews24 e Televideo, molti i precari. Nel documento finale approvato all’unanimità l’assemblea denuncia il «grave stato di tensione e intimidazione che si respira nell’azienda» che lede l’autonomia e la libertà d’informazione, «minacciate da una dirigenza sempre più piegata al potere politico». Solidarietà anche al direttore di RaiTre Ruffini e al responsabile satira Andrea Salerno: il Dg Cattaneo ritiri i provvedimenti disciplinari dopo la richiesta di archiviazione della querela Mediaset contro «Raiot». L’Usigrai annuncia un nuovo «libro bianco» su tutti i casi di censura e manipolazione delle notizie e chiede di essere ascoltato dalla commissione che rivedrà di nuovo la legge Gasparri.

Nell’appello a Pera e Casini i giornalisti chiedono «condizioni minime di garanzia» per un’informazione equilibrata, da verificare «testata per testata, rete per rete e di tutti i settori produttivi dell’azienda». In pratica si chiede il sostegno istituzionale a quella vertenza sul pluralismo interno alla Rai che vuole aprire Lucia Annunziata. Molti interventi hanno richiamato i messaggi del presidente Ciampi sul pluralismo, Bruno Morbici del Tg1 ha citato quello di ieri sul «non demonizzare gli avversari». Il leitv motiv dell’assemblea è stato un no alla logica senza dialogo del «chi dissente vada via». «Questa è casa nostra, la Rai non è una caserma, i direttori non sono “l’ultimo imperatore”». Molti i conduttori, fra questi David Sassoli del Tg1, Federica Sciarelli del Tg3 suggerisce: «Denunciamo all’ordine dei giornalisti i casi di censure» o dei professionisti tenuti in panchina come Sandro Ruotolo e Riccardo Iacona della squadra di «Sciuscià» (ieri all’assemblea) «vengano utilizzati almeno per condurre “Primo Piano”». I giornalisti di RadioRai e dei Gr hanno denunciato la grave crisi della radio (il cui direttore Bruno Socillo sembra sia in procinto di lasciare). Precari in rivolta per l’eterna condizione che li mantiene sotto ricatto, si pensa ai ricorsi alla Corte dei Conti.

Mimun non ha voluto parlare, «la Vigilanza non è la commissione Warren», esagera in un battuta «innocente... e io non sono l'assassino di Kennedy». L’opposizione ha fatto le sue critiche: Gentiloni, della Margehrita, ha ricordato come lo spazio per il centrosinistra nel Tg1 si sia ridotto nel 2003 a un quarto, anziché un terzo: 20,9% all’Ulivo, 2,5 a Rifondazione. Sull’inflazione solo a dicembre solo 34 minuti su 51 ore, 1,1%. «Sono scomparsi dal tg i problemi reali», accusa Giordano, del Prc, che ha chiesto «un assetto di garanzia» per la campagna elettorale. Ma nella lista dei censurati dalla Cdl di Viale Mazzini è entrato anche un deputato: il diessino Giuseppe Giulietti non è stato voluto a «UnoMattina», pur essendo stato invitato in precedenza per parlare della legge contro le «truffe nelle televendite» di cui è primo firmatario. Ne chiede conto al direttore generale Rai il ds Gambino, al quale è stato chiesto di partecipare alla trasmissione perché «la presenza di Giulietti non era gradita», racconta nella lettera a Cattaneo. Gambino si è rifiutato, è andato D’Andrea, della Margherita, ignaro del retroscena.

Giuro, questo non è un articolo sulla verifica di cui vi importa poco, e a me ancor meno. È semplicemente il racconto di quanto è accaduto ieri durante una riunione a Palazzo Chigi fra gli alti papaveri della coalizione. Convocata da La Loggia, ministro per la Regioni, vi hanno partecipato Fini, Buttiglione, La Russa, Nania, Volontè, Calderoli e altri.

Qualcuno aveva pensato si trattasse di un incontro pacificatorio dopo le polemiche dei giorni scorsi sulla pretesa necessità di un rimpasto di governo allo scopo di rilanciarne l’azione. In realtà si è parlato di ben altro. E il verbo parlare è improprio se si considera che il colloquio è presto degenerato in turpiloquio. Proprio così. Sono volati gli stracci. Riportiamo per puro dovere di cronaca (anche nelle pagine interne) quanto ci è stato dato sapere, ma confessiamo un certo imbarazzo, perché mai avremmo creduto che la situazione nella Casa delle Libertà fosse tanto grave. Eravamo al corrente come voi delle tensioni, dei contrasti e dei litigi, però non immaginavamo si arrivasse tanto in basso.

Dei presenti alla seduta, il personaggio di maggiore spicco indovinate chi è? Silvio Berlusconi. Il quale prende in mano il pallino e annuncia cosa intende fare per predisporre la maggioranza a vincere le prossime elezioni, sia quelle amministrative sia quelle europee fissate il 13 e 14 giugno.

Punto primo. Modifica della legge elettorale. Abolizione del doppio turno per l’elezione dei sindaci, motivata dal fatto che la Lega pretende di correre in proprio e che gli elettori del centrodestra non amano essere mobilitati due volte a distanza di quindici giorni l’una dall’altra.

Secondo punto. Revisione della legge sulla par condicio. Ogni partito, dice il premier ribadendo una tesi già nota, avrà in tivù uno spazio proporzionato alla propria consistenza numerica. Esempio. Forza Italia ha il 26 per cento, quindi ha diritto a 26 minuti, si fa per dire. Alleanza nazionale ha il 12, quindi, 12 minuti. Figuriamoci la reazione degli ex missini e dei rappresentanti dell’Udc. No caro Cavaliere. Piuttosto, si dia uno spazio ai due schieramenti avversari, poi ciascuno di essi si regolerà seguendo una equa spartizione che non mortifichi né privilegi alcuno.

Quanto alla riforma della legge elettorale, aggiunge Fini, è indispensabile evitarla poiché la partita è già cominciata. Gli stessi concetti, all’incirca, sono espressi da Volontè (Udc). Ed è qui che il premier perde la pazienza e le staffe. Attacca con voce stentorea: «Voi ex democristiani mi avete rotto il cazzo, me lo hai rotto tu e il tuo segretario Follini. Basta con la vecchia politica. Conosco i vostri metodi da irresponsabili. Fate favori di qua e di là e poi raccogliete voti, ma io vi denuncio, non ve la caverete a buon mercato, vi faccio a pezzi. Io le televisioni le so usare e le userò. Chiaro? Mi avete rotto i coglioni. Non mi faccio massacrare due anni e mezzo per poi schiattare come un pollo cinese. Se andiamo avanti in questo modo ci stritolano, lo capite o no, affaristi che non siete altro?».

L’intemerata ammutolisce gli astanti. Volontè ha gli occhi sbarrati. Buttiglione gli tira la giacchetta per impedirgli di rispondere a tono oppure di alzarsi e filarsela. Chi invece si alza e gira i tacchi è Gianfranco Fini, pallido, anzi livido.

Berlusconi non è tipo da sfuriate. Al contrario è avvezzo a ricorrere alla blandizie, e punta a persuadere piuttosto che a intimidire. Se ha mutato registro all’improvviso, significa che ha i nervi logori. Non ne può più di mediare, di rabbonire questo e calmare quello, di predicare la concordia e appellarsi allo spirito di collaborazione. È scoppiato. La menata della verifica lo ha esasperato. Forse non ha idea di come ridurre i poteri a Tremonti e soddisfare le esigenze di An nonché dell’Udc. Inoltre, avverte il pericolo di una nuova sconfitta alle amministrative. E sorvoliamo sulle europee, alle quali è improbabile che la Casa delle Libertà riesca a “iscriversi” con un listone unico, e ciò rischia di indebolire la coalizione, dando l’impressione alla “base” che le beghe distraggano la maggioranza e la conducano alla deriva.

Insomma, Silvio davanti a simili ostacoli ha smarrito la sinderesi.

Oddio, comprendo il suo stato d’animo, lo comprendiamo tutti. Ma abbandonarsi all’ira in momenti delicati e di crisi è deleterio. Perché anche uomini cauti quali Fini non hanno le batterie della tolleranza inesauribili. A furia di strappi la corda è destinata a spezzarsi, e sarebbe un guaio. Se la coalizione va a ramengo, va a ramengo il governo, vanno a ramengo le elezioni.

Poi ci toccherà tornare a votare per le politiche e la sinistra, pur sfranta e sfinita, ha riserve d’energia per risollevarsi e conquistare la prima piazza. Questo, Berlusconi, ripresosi dallo scatto di rabbia, deve averlo intuito. Infatti in serata si è intrattenuto con Follini, e ci auguriamo che la frattura sia stata sanata. Udc e An sono in attesa di una schiarita, consapevoli che senza Berlusconi si affonda, ma con Berlusconi è faticoso galleggiare.

Il problema è aggravato dall’irritazione del capo di governo provocata dal momentaneo accantonamento della legge Gasparri, la cui eventuale bocciatura sarebbe una mazzata mortale per Retequattro, costretta a emigrare sul satellite, anticamera del cimitero.

Comunque Berlusconi non è bollito, nossignori. È semplicemente stato strinato dal fuoco sotto la sedia. Sarà obbligato a estendere il lifting alla schiena dove la carne si fa morbida.

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