«Nell’Allegato infrastrutture del Def si parla di politica dei trasporti sostenibile. Ma c’è il rischio che cancellata la legge Obiettivo restino in corsa le grandi opere, mentre nuove semplificazioni sostituiscono quelle previste dal Codice Appalti del 2006». Sbilanciamoci.info, 13 maggio 2016 (p.d.)
Il documento contiene in Appendice anche la “lista delle 25 opere prioritarie” – già in corso di realizzazione, approvate o in progetto secondo le procedure della Legge Obiettivo già indicate nel DEF 2015 dal Ministero – che vanno avanti come se niente fosse, mentre dovrebbero essere verificate e riviste secondo i criteri di utilità pubblica e analisi costi/benefici indicati dallo stesso documento. C’è quindi una vistosa contraddizione tra i buoni principi e la realtà delle grandi opere in corso.
Il documento è coerente con i contenuti del nuovo Codice Appalti entrato in funzione il 19 aprile 2016, che cancella le semplificazioni della Legge Obiettivo 443 del 2001 del Governo Berlusconi. Le nuove regole cancellano il Piano delle Infrastrutture Strategiche (PIS), l’esclusione dei Comuni dalle decisioni, la VIA sul progetto preliminare. Si torna ad un unico regime ordinario di regole per realizzare le opere, il procedimento sarà in mano al Ministero dei Trasporti e le Infrastrutture, ritorna la VIA sul progetto definitivo, ma resta l’approvazione dei finanziamenti e dei relativi progetti rilevanti al Cipe. L’ultima versione del Codice Appalti pubblicata in Gazzetta ha indebolito il MIT e rafforzato il Cipe, come voleva peraltro la Presidenza del Consiglio.
Il ritorno alla pianificazione dei trasporti e della logisticaLa programmazione delle infrastrutture viene demandata a due strumenti fondamentali: il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica che deve indicare le politiche, gli obiettivi e gli strumenti, che motivano la scelta delle opere, da aggiornare ogni tre anni.
Il secondo strumento è il Documento Pluriennale di programmazione (DPP) che deve integrare tutti i programmi esistenti nelle opere pubbliche – RFI, ANAS, Porti, Aeroporti, reti urbane, Concessionarie Autostradali – con coerenza secondo i principi del DglS 228 del 2011 e mai applicato. Adesso ogni piano settoriale viene approvato ed attuato in modo separato, senza attenzione ai nodi ed alla integrazione dei progetti e dei servizi. Il primo DPP dovrà essere predisposto entro un anno.
A questo strumenti si aggiunge la project review, per rivedere le opere non ancora avviate ma già decise con le procedure della legge obiettivo.
L’Allegato, con le analisi sulla mobilità e le infrastrutture sono già “la premessa ad un nuovo Piano Generale dei Trasporti e della Logistica” con un quadro organico degli obiettivi, delle strategie, delle azioni intraprese e da intraprendere.
Il contesto di riferimento si inquadra nelle politiche europee delle reti TEN, analizza lo stato dei poli e delle reti urbane e metropolitane sottolineando i problemi di accessibilità nelle città, valuta lo stato dei nodi come porti, interporti ed aeroporti, effettua una disamina delle stato delle reti come strade, autostrade e ferrovie.
Di questo contesto italiano analizza i punti di forza e di punti di debolezza, tra cui le scarse risorse investite per la manutenzione, la ripartizione disomogenea di infrastrutture e servizi sul territorio nazionale, lo squilibro modale a favore della modalità stradale.
Nel secondo capitolo vengono indicati quattro obiettivi prioritari della strategia per le infrastrutture e di trasporti:
Per l’accessibilità viene indicato un obiettivo, un target: il 30% della popolazione dovrà essere servita dall’Alta velocità entro il 2030, ed un massimo di due ore per accedere a porti ed aeroporti.
Molto significativo ed opportuno per le aree urbane e metropolitane il target di mobilità sostenibile entro il 2030: la ripartizione modale della mobilità urbana dovrà raggiungere il 40% di trasporto pubblico, il 10% di mobilità ciclopedonale e si dovrà incrementare con un + 20% i km di tram/metro per abitante.
Obiettivi davvero sfidanti e necessari per garantire accessibilità, vivibilità nelle città, riduzione dei gas serra e delle emissioni inquinanti, che qualificano in senso innovativo la strategia del Ministro Delrio sulla mobilità urbana.
Le linee d’azione puntano all’integrazione modale, alla cura del ferro, allo sviluppo urbano sostenibile, alla crescita della portualità e della logistica, al riequilibro modale, favorire l’uso degli ITS, ad incrementare la manutenzione delle reti e la valorizzazione del patrimonio esistente, il potenziamento tecnologico delle infrastrutture.
Un’osservazione critica: tra gli strumenti non viene mai richiamata la VAS, la Valutazione Ambientale Strategica che dovrà accompagnare tutti i processi di elaborazione, partecipazione e valutazione dei Piani e Programmi, ormai obbligatoria. Non era un richiamo inutile in un documento che si pone obiettivi di sostenibilità e che dovrà fare i conti anche con la riduzione delle emissioni dei gas serra – i trasporti pesano per il 26% delle emissioni totali – con gli impegni sottoscritti dal governo italiano.
Positivo che si torna a ragionare di pianificazione, di programmazione, di qualità dei progetti, con una critica esplicata alle semplificazioni ed alle liste della Legge Obiettivo, da sostituire con “investimenti realmente utili al Paese” per offrire servizi di trasporto capaci di soddisfare i bisogni di mobilità ed accessibilità del paese.
Ma intanto avanzano le grandi opere della legge obiettivoInfrastrutture utili, snelle e condivise: cosi è il titolo del capitolo dedicato agli investimenti per i trasporti nell’Allegato: ottimo principio ma quando accadrà davvero?
Come detto nello stesso Allegato DEF 2016 si confermano in Appendice le 25 opere strategiche già decise con l’Allegato Infrastrutture del 2015, in parte in corso di realizzazione ed in parte in corso di progettazione, del valore di 70 miliardi di costo e di cui sono disponibili 48 miliardi, incluse le risorse private dei concessionari. Ma anche su queste opere sarebbe necessario applicare la project review, la revisione di progetto per verificarne l’utilità ed il sovradimensionamento.
Tra queste 25 opere vi sono opere utili come metropolitane, reti tramviarie e Servizi Ferroviari Metropolitani. Ma ci sono anche pezzi di alta velocità come il terzo valico Milano-Genova o nuove autostrade come la Pedemontana Lombarda, che davvero dovrebbero essere riviste dato che la loro realizzazione è al 15% ed hanno un impatto e costi davvero notevoli a fronte di una scarsa utilità collettiva.
Una analogo ragionamento riguarda l’Alta Velocità Torino-Lione, di cui si è ampiamente documentato la scarsa utilità, gli alti costi ed impatti: difficile quindi considerarla una priorità come fa il documento del Ministro Delrio, che motiva la scelta in relazione alle reti TEN europee.
Si dovrebbe rivedere anche la Pedemontana Veneta, che è diventata un ibrido tra superstrada a pagamento ma con caratteristiche autostradali, che grazie al Commissario è stata approvata in deroga alla stessa legge obiettivo e di cui la Corte dei Conti ha denunciato nella sua relazione l’insostenibilità finanziaria.
Di una verifica hanno bisogno anche gli investimenti sulla SS Ionica 106, di cui circa 1 miliardo sono lavori in corso ed altri 6, 3 miliardi sono quelli in progettazione: abbiamo visto progetti sovrastimati, impatti devastanti e costi insostenibili che niente hanno a che fare con il necessario adeguamento della Strada Statale Ionica.
Oltre le 25 opere prioritarie ci sono altre 165 le opere – per un costo complessivo di 145 miliardi – che sono state approvate dal Cipe con progetto preliminare, progetto definitivo e/ quadro economico e finanziario, ai sensi della Legge Obiettivo. Sarà necessario intervenire per selezionare, ridimensionare e cancellare una buona parte di queste opere come prevede lo strumento della project review previsto dal nuovo Codice Appalti.
Tra queste opere c’è l’Autostrada della Maremma, che dopo molte polemiche e revisioni di tracciato, con l’ultimo accordo MIT-SAT-Regioni prevede un progetto autostradale tra Grosseto e Tarquinia a ridosso dell’Aurelia: i scarsi volumi di traffico non giustificano un sistema chiuso, basta adeguare l’Aurelia dove è ancora a due corsie ed introdurre un pedaggio free flow che escluda i residenti.
Ci sono opere come l’Autostrada Cispadana, la Gronda di Genova, il Passante di Bologna che dopo l’abbandono del tracciato nella pianura adesso è tornato come potenziamento del fascio tangenziale ma non avrà pochi problemi di impatto sulla città: bisognerebbe ragionare su come usare in modo efficiente le attuali corsie senza ampliamenti, aprendo anche quelle autostradali (in gergo si chiama banalizzazione).
Per il TiBre autostradale Parma-Verona, il Ministero e Regione Emilia Romagna hanno deciso di abbandonare il secondo lotto – costoso ed impattante – con il disaccordo delle Regioni Veneto e Lombardia. Puntano comunque alla realizzazione del primo lotto, 10 km per 513 milioni di euro: anche qui serve un miglioramento della viabilità locale in diversi punti, un potenziamento delle ferrovie e l’abbandono definitivo del tracciato autostradale.
La cancellazione del progetto autostradale Orte Mestre è già stato annunciato dal Ministro Delrio e Anas ed si punta al miglioramento della E45 e della E55: questo è un bel passo in avanti e sarà importante la qualità dei progetti di adeguamento.
Pessime notizie invece sulla bretella Campogalliano Sassuolo, con il Cipe che nella seduta del 1 maggio 2016 avrebbe sbloccato e risolto gli aspetti finanziari, con la concessione di un prestito statale (da restituire nei primi 10 anni di gestione) e la defiscalizzazione dall’undicesimo anno di gestione in poi. Decisione prese al CIPE ai sensi Dlgs 163/2006 parte Legge Obiettivo, che quindi anche in questo caso continua a produrre i suoi effetti.
Con il nuovo Codice ha debuttato l’obbligo nelle concessioni di traferire al privato il “rischio operativo”, incluse le fluttuazioni del traffico per quelle autostradali, senza che siano presenti garanzie pubbliche. Resta da capire come e se verrà applicata alle concessioni in essere, che hanno atti convenzionali già sottoscritti e che faranno una resistenza granitica all’introduzione di questo principio.
E le preoccupazioni aumentano con il parere circolato nei giorni scorsi del DIPE, Presidenza del Consiglio, in cui si ipotizzava che tutte le opere con procedure autorizzative avviate con la legge obbiettivo dovranno concludersi nello stesso modo.
Se poi aggiungiamo le semplificazioni in arrivo ai sensi della norma Madia,come la nuova Conferenza dei Servizi con il silenzio assenso anche per gli enti di tutela e la VIA ed il Regolamento “sblocca opere” per la completa delegificazione della Pubblica Amministrazione, il quadro è completo e preoccupante.
Il rischio concreto è che, cancellata la legge obiettivo, non si cancellino le grandi opere inutili e devastanti, mentre nuove semplificazioni sostituiscono quelle previste dal Codice Appalti del 2006. Serve una azione energica di indirizzo sul regime transitorio della legge Obiettivo del Ministro Delrio, capace di trasformare in fatti concreti le politiche positive annunciate nell’Allegato al DEF, per realizzare le opere utili, snelle e condivise.
«Dopo le polemiche bolognesi, i murales del celebre street artist irrompono in val Susa a fianco del movimento che si oppone all’«alta voracità» e a difesa della casa di Ines, minacciata dalle ruspe». Il manifesto, 3 maggio 2016 (c.m.c.)
Un eurocrate carponi, la cui testa invisibile entra dentro la zona rossa del cantiere dell’alta velocità, defeca denaro. Dietro di lui un sindaco, con fascia tricolore, nella stessa posizione raccoglie una manciata delle feci sonanti e se ne ciba. E poi un costruttore, un giudice con parrucca e toga e una serie di poliziotti: chi armato di codice penale, chi di fucile e chi di manganello. Tutti carponi, tutti coprofagi di denaro, quello prodotto dal cantiere di Chiomonte, in val Susa. È la prima delle due opere dipinte la scorsa settimana da Blu, l’artista anonimo definito dal Guardian «uno dei dieci migliori street artist in circolazione».
«Alta voracità», questo il titolo dell’imponente murales, dà il benvenuto all’interno del cantiere fortezza di Chiomonte. Arrivato giovedì scorso, inaspettato dai più, l’artista ha preso possesso della massicciata oggetto di infinte scritte No Tav negli ultimi anni. Sotto lo sguardo incredulo dei poliziotti – è stato necessario spiegare che si trattava di un artista di fama mondiale – Blu ha iniziato il suo lavoro di pulitura del muro. Dopodiché ha costruito la scena che ricorda il celebre film horror The human centipide, incentrato su un folle medico che vuole unire chirurgicamente tre persone, bocca con ano, allo scopo di creare un «centopiedi umano».
Tutti i personaggi hanno figura vagamente porcina, occhi privi di pupille, sguardo stravolto e perso nel vuoto, e utilizzano la mano sinistra per raccogliere il denaro e divorarlo. Stagliati a metà dell’opera, lunga circa cinquanta metri e alta dieci, si evidenziano le figure del costruttore e del giudice, punto centrale della catena alimentare che mette in relazione il grande burocrate con i soldati posti a difesa del cantiere più contrastato d’Europa.
L’opera è in sé un grande treno umano, che si ciba delle proprie deiezioni per sopravvivere. Ma i personaggi finali di «Alta Voracità», sempre più indistinti, divengono deformi e piccoli, fino ad essere solo dei mostri dalle forme disumane. La disumanizzazione del capitalismo assume così forme disgustose, estreme, che giungono perfino a violare un principio biologico atto a preservare la vita. Ma l’alienazione che parte dal burocrate e si sviluppa per i passaggi successivi rende ciechi coloro che detengono le leve del potere, ignari che stanno distruggendo anche se stessi.
Blu, nella sua opera, getta fiumi di sarcasmo, perché gli unici che possono entrare dentro quel cantiere, che possono oltrepassare quella porta inviolabile ai cittadini della valle, sono i personaggi coprofagi della sua opera: dal burocrateal costruttore, fino alle varie polizie che ogni giorno, che gli piaccia o no, sono poste a difesa di un sistema malato e distruttivo.
Intorno a Blu intento a dipingere si è radunata la solita folla di militanti No Tav, che non aspettavano il suo arrivo. Molto conosciuto in valle, Blu ha solidarizzato con la lotta che vede un momento di calma apparente. Il cantiere di fatto è esiliato in una stretta e lontana valle laterale, e il tunnel di base procede a ritmo blando, senza fretta. La val Susa in sé è intatta, molto meno le casse dello Stato sottoposte all’emorragia Tav. Dopo aver concluso l’opera, apparentemente apprezzata anche dai militari posti al check point adiacente che hanno guardato con curiosità e fotografato, Blu si è spostato nella frazione di san Giuliano, dove dovrebbe sorgere la grande stazione internazionale di Susa.
Prima di passare al secondo capolavoro di Blu è necessario scendere negli abissi dell’irrazionalità. Susa è una bella cittadina incastrata in un fondo valle, famosa per la sua focaccia e l’arco romano in perfette condizioni. Non è poco, ma altro non c’é. Conta ben 6mila abitanti, e nella frazione di San Giuliano, poche case e un forno, si vorrebbe costruire una stazione ferroviaria degna di una metropoli di medie dimensioni.
Qui abita la signora Ines, e la sua bella cascina verrebbe abbattuta qualora si procedesse con la costruzione della Stazione Internazionale di Susa. Blu le ha chiesto se poteva «dare un tinteggiata» alla parete esposta a est. Nulla di meglio per la battagliera signora che espone orgogliosa una bandiera col treno crociato sul balcone. Blu ha disegnato una megamacchina arancione, dotata di benne, manganelli, punte, picconi, mani che impugnano denaro e bandiere. Lanciata contro l’albero della vita così diverso da quello Expo che si spiega su una distesa di cemento. La macchina fuoriesce dalla montagna lasciando alle sue spalle una distesa grigia, fatta di nulla.
Di fronte un albero possente si erge a difesa della bellezza, che non vale niente perché non serve a nessuno. È un’epopea quella dipinta da Blu, in cui sono rappresentati tutti i valori della lotta No Tav. L’albero, protetto da barricate fatte di copertoni, ha rami che si trasformano in braccia che si difendono, che fanno resistenza attiva. Macchine fotografiche, la storica bandiera del movimento, fionde, tronchesine, molotov ricolme di foglie tutto è impugnato: ma soprattutto ci sono braccia che si stringono forte, che serrano i ranghi. E nella parte superiore, dove la quercia si biforca in due possenti rami, le catene si spezzano e l’albero è finalmente libero di crescere.
Quelle di Blu in val Susa sono le prime opere dopo la volontaria cancellazione di alcuni suoi murales a Bologna. Scelta dovuta alla pretesa che le sue opere fossero di fatto privatizzate e mercificate. In val Susa, soprattutto per quanto riguarda il murales dipinto sulla casa della signora Ines, il problema sarebbe diverso: verrebbe perso per sempre, abbattuto. E data la presenza di tre opere di Blu in questo territorio, il movimento No Tav ipotizza una valorizzazione culturale che coinvolga anche le istituzioni. Un percorso nell’arte gratuita, quella che “serve”” ad elevare il cittadino, unica valorizzazione prevista dalla Costituzione.
«Quando sentiamo magnificare le buche keynesiane, non occorrerà essere filosofi liberisti per ricordarci che, di sicuramente pubblici ci sono i fondi sovvenzionati dai contribuenti, mentre i benefici sono spesso privati». La Repubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)
UNO dei mantra più ripetuti dai politici di ogni colore e da molti commentatori è che condizione indispensabile per una maggiore crescita economica è far ripartire gli investimenti pubblici. E, per rafforzare il concetto, si sottolinea che l’Italia è terzultima in Europa, seguita solo da Grecia e Portogallo, come percentuale di spesa pubblica dedicata agli investimenti rispetto al Pil.
Il piano Juncker è stato presentato come una occasione di sviluppo e non passa giorno in cui i ministri non annuncino deroghe intelligenti al Patto di Stabilità per permettere ai Comuni di spendere in infrastrutture, nuovi stanziamenti per metropolitane, strade, ferrovie, tram, fibre ottiche e ogni opera che renda più efficiente il Paese in attesa della possibile apoteosi dell’investimento infrastrutturale, vale a dire le Olimpiadi di Roma del 2024.
Ma è proprio vero, per utilizzare il paradosso keynesiano, che mettere uomini a scavare buche e poi riempirle genera reddito? Partiamo da due recenti episodi. Il primo è l’audizione del ministro Delrio del 20 aprile sull’autostrada Pedemontana, progetto vecchio di lustri che avrebbe dovuto decongestionare il traffico nell’Alta Lombardia nell’affollata area tra Milano, Como e Varese. Ebbene, la parte finora realizzata di strada non attira traffico sufficiente, il 30% in meno rispetto al budget, nonostante sconti ed esenzioni distribuiti a pioggia agli automobilisti poco inclini a pagare il pedaggio.
Lo Stato ha già stanziato per l’opera 1,245 miliardi con contributi a fondo perduto ed è previsto un ulteriore sconto fiscale di quasi 400 milioni. Nonostante in teoria i 4,2 miliardi previsti per il completamento dell’autostrada (schizzati a 5,87 se si comprendono gli oneri finanziari) dovrebbero essere in gran parte messi a disposizione da privati, finora la parte del leone l’hanno avuta i contribuenti, avendo lo Stato versato ben 900 milioni. Né sorte migliore sembra arridere alla Brebemi, che collega Milano a Brescia ed è in cronica perdita di esercizio. Minacciando sfracelli, i soci privati della società concessionaria sono riusciti ad ottenere nel 2015 ben 320 milioni da Stato e Regioni e l’allungamento della concessione per sei anni con la garanzia che alla fine lo Stato rileverà la tratta per 1,25 miliardi.
Questi investimenti hanno creato o distrutto valore? Uno studio del 2014 di tre economisti, Maffii, Parolin e Ponti, esaminando una lista di progetti costosi ed inefficienti, ha concluso che le “grandi opere”, presentate dai governi come fiore all’occhiello dell’investimento pubblico, sono caratterizzate da alcuni elementi poco lusinghieri. Primo: sistematica assenza di valutazioni negative nelle analisi costi-benefici rese note al pubblico; secondo, scarsità di tali analisi; terzo, assoluta mancanza di terzietà delle stesse, che perdono così di credibilità in quanto eseguite da «portatori di interessi favorevoli della fattibilità dell’opera analizzata»; quarto, assenza di analisi comparative. Le conseguenze sono ovvie: scorretta definizione del progetto da attuare e delle soluzioni proposte, carenza di alternative, previsioni di domanda sovrastimate.
Un bell’esempio di come una semplice analisi comparativa potrebbe fare miracoli è fornito dalla linea Alta Velocità Milano-Venezia. Nel 2005 il costo stimato per l’opera era di 8,6 miliardi. Nel 2014 era schizzato a 13,368 miliardi, quasi 5 in più! Notevoli i 1202 milioni per il collegamento con l’aeroporto di Montichiari vicino Brescia: zero voli passeggeri e solo un paio al giorno per la posta (vogliamo dimenticarci gli inutili, deserti aeroporti in perdita di cui è disseminata l’Italia, da Siena a Pescara?). Le tratte padane orientali hanno un costo superiore a quelle occidentali, Torino-Milano e a quelle appenniniche Firenze-Bologna. Se poi facciamo la comparazione di costo per chilometro con Francia e Spagna, i binari italiani vengono pagati multipli rispetto a quelli franco-iberici.
Esempi eclatanti che vanno inquadrati in un contesto più ampio? Meglio di no. Sia lo studio del Fondo Monetario Internazionale del 2015 che quello della Banca Mondiale del 2014 mettono in luce la scarsa efficienza dei nostri investimenti pubblici a causa di aggiramento delle leggi, decisioni prese per motivi elettorali, corruzione, ritardi, innalzamento dei costi e bassa qualità di quanto realizzato. Solito pregiudizio anti- italiano? Chissà.
Certo è che nell’Allegato sulle infrastrutture al recente Def 2106, annunciando nuovi criteri di valutazione e velocizzazione delle opere pubbliche, il governo ha sottolineato carenza nella progettazione che porta a realizzazioni di bassa qualità; polverizzazione delle risorse; incertezza dei finanziamenti, addebitabile, tra l’altro, alla necessità di reperire risorse a causa dell’aumento dei costi delle opere ed ai contenziosi in fase di aggiudicazione ed esecuzione dei lavori; rapporti conflittuali con i territori dovuti anche all’incertezza sull’utilità delle opere.
Insomma, quando sentiamo magnificare le buche keynesiane, non occorrerà essere filosofi liberisti per ricordarci che, quando si impugna il badile, di sicuramente pubblici ci sono i fondi sovvenzionati dai contribuenti, mentre i benefici sono spesso privatamente allocati tra politici, burocrati ed appaltatori.
Torino. «In Val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione. Dall’altra parte, si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta».
Dopo aver sottoposto a giudizio le violenze commesse dalle dittature in America Latina, le estrazione del carbone in Canada, i rischi del fracking, e molte grandi opere il Tribunale Permanente dei Popoli esaminerà la il Tav TorinoLione. Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2015
Un processo al Tav. Con l’accusa, la difesa (se si presenterà). E un verdetto finale. Sarà celebrato domani a Torino dal Tribunale Permanente dei Popoli. Tutto aperto al pubblico, un’occasione rara per capire le ragioni di chi è contrario alla grande opera e magari anche di chi la difende.
L’appuntamento è fissato presso la “Fabbrica delle E” del Gruppo Abele, mentre per la sentenza finale ci si troverà domenica ad Almese nella sede del Teatro Magnetto. I quattro giorni di incontri seguiranno il ritmo di un vero e proprio processo: la requisitoria dell’accusa, le deduzioni della difesa (sperando che si presenti); poi i testimoni delle parti. E infine la corte che si ritira in camera di consiglio e decide. Il ricorso è stato presentato da diversi comuni della valle e dal Controsservatorio Val Susa. Oggetto, appunto, il Tav della Valsusa. “La sentenza potrebbe portare a un’assoluzione, una condanna, ma anche a una dichiarazione di violazione dei diritti”, spiega il magistrato Livio Pepino che a Torino rappresenterà l’accusa. Una decisione che avrà un peso essenzialmente sull’opinione pubblica.
Il Tpp infatti è un Tribunale di opinione. Indipendente. È nato nel 1979 per occuparsi delle violenze commesse dalle dittature in America Latina, ma ha negli anni ampliato le sue competenze. Ecco così la sessione sull’estrazione del carbone in Canada, sui rischi del fracking, poi su grandi opere progettate in Germania, Olanda e Spagna.
Fa parte del tribunale una rete internazionale di esperti in discipline giuridiche, economiche, socio-politiche. Il loro compito è mettere a confronto le tesi dell’accusa e quelle della difesa. Come è successo in alcune sessioni, dove multinazionali e governi hanno mandato i loro avvo- cati a partecipare. Ma il timore è che a Torino lo Stato, gli enti locali e le imprese coinvolte nella realizzazione del Tav decidano di snobbare la sessione: “Finora la segreteria del Tribunale non è stata ancora contattata dalla difesa.
Tante domande. Un bisogno di informarsi e di vedere confrontate le opposte posizioni. La sessione del Tribunale Permanente dei Popoli a Torino sarebbe una grande occasione. C’è ancora tempo. La giornata di sabato 7 novembre è stata riservata anche alla difesa. Verrà qualcuno?
«Diritti. Grandi opere e territorio, lobby e democrazia. Il modello "coloniale" di decidere e costruire. I tre capi d’accusa di una sessione del Tribunale dedicata alla Torino-Lione». Il manifesto, 5 novembre 2015 (m.p.r.)
La sessione del Tribunale permanente dei popoli dedicata a Tav, grandi opere e diritti fondamentali dei cittadini e delle comunità locali che inizia oggi a Torino è un evento importante, anche oltre il caso concreto. Il tema centrale è, ovviamente, la nuova linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione: un’opera ciclopica devastante, di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa pubblica, giustificata solo da una cultura sviluppista ormai anacronistica, da interessi economici lobbistici di breve periodo e dalla disperazione di un sistema politico ed economico incapace di dare alla crisi vie di uscita razionali.
Un’opera inoltre – sarà questo il punto principale dell’analisi del Tribunale dei popoli – decisa in modo autoritario, provocando un movimento di opposizione profondamente radicato e capace di manifestazioni con decine di migliaia di persone. Orbene questo movimento, in tutte le sue articolazioni (anche istituzionali), è stato sistematicamente escluso da ogni confronto reale e da ogni decisione. Esattamente come sta avvenendo in diverse località della Francia, del Regno Unito, della Spagna, della Germania, della Romania e dell’Italia (per limitarsi alle realtà che saranno esaminate dal Tribunale).
L’esclusione delle comunità locali da decisioni cruciali riguardanti il loro habitat, la loro salute, le stesse prospettive di vita attuali e delle generazioni future, è avvenuta e avviene in Val Susa in un modo esemplare di un sistema che si ripete con sostanziale identità per tutte le grandi opere inutili e imposte e che si articola in tre fasi fondamentali:
Tutto ciò – lo si è già accennato e sarà al centro dell’esame del Tribunale – realizza un vero e proprio sistema di governo di pezzi di società che ha a che fare con i diritti fondamentali delle persone e delle comunità e di partecipazione. Di democrazia si potrebbe dire, se il termine non fosse sempre più spesso utilizzato a copertura di scelte che vanno in direzione esattamente opposta e di istituzioni e regimi che tutto sono meno che democratici. Perché la logica sottesa a questo sistema è – non sembri eccessivo il termine – una logica neocoloniale, fondata sulla pretesa di lobby economiche e finanziarie nazionali e sovranazionali e delle istituzioni con esse collegate di disporre senza limiti e senza controlli delle risorse del territorio estromettendo le popolazioni interessate (considerate portatrici di interessi particolaristici e non apprezzabili), trasferita nel cuore dell’Europa.
Parlo di logica ovviamente, essendo ben consapevole che essa si manifesta in Occidente con modalità e caratteristiche incomparabili in termini di uso della violenza e di sopraffazione. Ma il segnale è chiaro. Nelle società contemporanee, percorse da derive decisioniste e autoritarie accade che la verità si intraveda dai margini, dalle periferie, da vicende riguardanti parti limitate della società che anticipano, peraltro, fenomeni di carattere generale. Come hanno dimostrato – tra le altre – le ricerche, ormai classiche, di Enzo Traverso sul nazismo e la sua genesi, la mancata percezione e l’omessa analisi di molti segnali premonitori pur facilmente avvertibili hanno prodotto nel secolo scorso lutti e disastri indicibili.
La speranza è che il Tribunale permanente dei popoli, da sempre in anticipo sui tempi, sappia, anche in questo caso, assumere decisioni e chiavi di letture utili non solo per la Val Susa ma per le prospettive dell’intera Europa.
Consideriamo una buona notizia ogni iniziativa volta a denunciare la rapina del project financing all'italiana, da anni denunciato da inascoltati studiosi e decine di comitati di cittadini. Questa volta viene dal Veneto, ne aspettiamo altre. La Nuova Venezia, 4 novembre 2015
L’offensiva parte da un dato: la maxi rata di 200 milioni di euro che la Regione corrisponde ogni anno a copertura delle opere realizzate in sanità con il progetto di finanza. Per questo, la Cgil del Veneto chiede al presidente della Regione di presentare una legge «per porre fine quanto sta accadendo».
Una delle maggiori aggressioni al nostro presente e al nostro futuro sono le Grandi opere. Per difendersi bisogna combattere, per combattere bisogna conoscere. Ecco un utile strumento di conoscenza, un'intelligente arma di difesa della salute, della bellezza, della funzionalità, dell'equità, delle risorse, per noi e per i posteri. La citta invisibile, 9 settembre 2015
Al Forum internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte – Bagnaria Arsa (UD) tra il 17 e 19 luglio scorso – si è tenuto un’intervento di Alberto Vannucci, autore dell'”Atlante della corruzione”, Edizioni Gruppo Abele (Torino 2012) di cui pubblichiamo una sintesi in 15 punti, a margine potrete ascoltare la registrazione video della relazione di Vannucci al TEDxFirenze.
1) Le nuove forme della corruzione sistemica in Italia: non più e non solo un’attività illecita, una violazione del codice penale, ma un meccanismo complesso, consolidatosi nel tempo, realizzato con modalità sofisticate frutto di un lungo processo di apprendimento, attraverso il quale un piccola minoranza di soggetti che appartengono alla classe dirigente (politici e burocrati corrotti, imprenditori, professionisti, faccendieri) e soggetti criminali (organizzazioni mafiose) si impossessano congiuntamente di beni comuni, attraverso una privatizzazione di fatto di risorse di proprietà collettiva: risorse di bilancio, ma anche ambientali, paesaggistiche (consumo di territorio), politiche (reinvestimento dei proventi per acquistare consenso), ecc.. La realizzazione della grande opera permette di accrescere considerevolmente la scala di questo processo di appropriazione criminale di rendite parassitarie, concentrando le opportunità di profitto illecito entro sedi istituzionali e processi decisionali circoscritti e più facilmente controllabili, minimizzando così i rischi delle corrispondenti attività illecite.
2) Corruzione e pressioni politiche per la realizzazione di grandi opere (denominate nella letteratura internazionale “white elephants” – elefanti bianchi – per la loro capacità di gravare con costi insostenibili su una comunità) si sviluppano in simbiosi. Grande opera è spesso sinonimo di grande corruzione, e viceversa. La presenza di un tessuto di corruzione capillare e le aspettative di guadagno illecito dirottano quote crescenti di bilancio verso i settori nei quali sono attesi maggiori profitti illeciti, come quello delle grandi opere (oltre a forniture militari, etc.). Le fasi di progettazione, finanziamento, realizzazione, etc. delle grandi opere presentano a loro volta molteplici passaggi particolarmente vulnerabili alla realizzazione di scambi occulti.
3) La natura intrinsecamente criminogena delle grandi opere. Nella letteratura scientifica sono stati individuati una serie di fattori (sintetizzabili in una “formula della corruzione”) che descrivono le condizioni nelle quali è più alta la probabilità che vi sia corruzione. Tutti questi fattori, senza eccezione, convergono nel rendere più redditizie e meno rischiose le opportunità di corruzione nel caso di grandi lavori pubblici. Molto brevemente, la probabilità che si realizzino scambi occulti crescono se:
4) Il soggetto che prende decisioni pubbliche opera in un regime di monopolio, e chi voglia conseguire quello specifico beneficio non ha altri cui rivolgersi. La grande opera non ha alternative, la sua realizzazione è programmata, progettata, deliberata, realizzata sotto la supervisione di un unico soggetto pubblico di fatto monopolista, che potrà “capitalizzare” in tangenti la sua posizione privilegiata rispetto agli imprenditori e agli altri soggetti privati che partecipano alla procedura di aggiudicazione dei corrispondenti contratti.
5) Le rendite create tramite le decisioni pubbliche sono consistenti. La grande opera permette per sua stessa natura la gestione di ingenti, talora estremamente ingenti, talora colossali quantità di risorse pubbliche, facile preda degli appetiti di corrotti e corruttori. Lo “spread etico” che separa i paesi più corrotti da quelli meno corrotti è quantificabile nel differenziale del costo medio delle opere nei paesi dove le tangenti sono la regola (vedi ad esempio linee Tav, passante ferroviario, Mose, etc., costati in Italia tra il doppio e sei volte tanto rispetto a equivalenti realizzazioni in altri paesi).
6) L’opacità dei processi decisionali, dalla fase della giustificazione e del finanziamento a quella della realizzazione, che si lega alla grande complessità degli aspetti tecnici, al fatto che molti di quei passaggi – stante la strutturale inefficienza delle strutture tecniche pubbliche che dovrebbero gestirli, particolarmente marcata nel caso italiano – sono di fatto delegati a soggetti privati, o utilizzano forme pseudo privatistiche (project financing, general contractor) che di fatto sottraggono alla trasparenza dei processi decisionali pubblici i corrispondenti passaggi decisionali. Informazioni confidenziali possono così diventare una risorsa di scambio nella corruzione. Particolarmente preoccupante è l’opacità che investe la fase di definizione delle stesse esigenze collettive e dei bisogni pubblici che la grande opera dovrebbe soddisfare, resa possibile dall’ambiguità che circonda molti parametri utilizzati nei calcoli dei “costi-benefici” dell’eventuale realizzazione, che permette ai decisori di accampare un qualche reale “interesse pubblico” come motivazione della decisione di investire ingenti risorse in quella specifica realizzazione, che appare invece di dubbia utilità (o nel peggiore dei casi di sicura nocività).
7) L’elevata discrezionalità dei processi decisionali, che spesso si associa alle condizioni di pseudo-emergenza costruite fittiziamente o a tavolino (emergenza legata anche alle vischiosità dei corrispondenti processi decisionali “ordinari”, che possono essere aggirati solo tramite ordinanze in deroga a tutte le disposizioni vigenti, secondo il modello “cricca della protezione civile”). Nella grande opera le iniziali decisioni di fondo sono altamente discrezionali – quali “grandi opere” siano meritevoli di finanziamento per la realizzazione – e un analogo livello di discrezionalità accompagna molti altri passaggi. Naturalmente la decisione discrezionale può essere più facilmente “venduta” dagli amministratori e dai politici corrotti in cambio di tangenti.
8) L’indebolirsi dei controlli, di tutti i meccanismi di supervisione e sanzione delle condotte devianti e della corruzione (non solo il controllo giudiziario, ma anche quello amministrativo, contabile, politico, sociale, concorrenziale). Nelle grandi opere spesso i controlli istituzionali sono largamente vanificati dalle caratteristiche “straordinarie” adottate in molte procedure di aggiudicazione e di gestione dei lavori, oltre che dalla estrema complessità dei contenuti tecnici dei corrispondenti atti e provvedimenti, dal moltiplicarsi di soggetti istituzionali e di attori pubblici coinvolti (che offusca le responsabilità individuali nella decisione finale). Il controllo politico (oltre che dal reinvestimento nella creazione di reti clientelari di consenso dei proventi degli scambi occulti) è vanificato dal cemento invisibile delle reti di corruzione: il reciproco potere di ricatto che fa sì che si formi un “partito unico degli affari”, avente natura bipartisan dato il coinvolgimento di soggetti di ogni colore politico, che protegge i corrotti, ne favorisce l’ascesa nelle rispettive carriere, si compatta assicurando un convergente appoggio quando occorre, ossia nelle diverse fasi dei processi decisionali che accompagnano la realizzazione delle grandi opere. Il controllo concorrenziale è vanificato dall’orientamento collusivo largamente prevalente tra gli imprenditori, specie tra i pochi di dimensioni tali da poter partecipare alle gare per la realizzazione di grandi opere: nessuno denuncia l’altrui corruzione, preferendo aspettare il proprio turno in una spartizione che assicura a tutti ingenti margini di profitto, irrealizzabili in un contesto economico aperto e concorrenziale.
9) L’utilizzo estensivo nel discorso pubblico di argomenti di ordine simbolico legati al un presunto valore intrinseco delle grandi opere, accompagnati spesso da una retorica giustificatrice che si accompagna al richiamo alle esigenze del “progresso” o all’”orgoglio di patria” nella loro realizzazione (vedi il caso della diga del Vajont, la più alta diga al mondo con quelle caratteristiche tecniche, “orgoglio dell’ingegneria italiana”) produce un duplice effetto: (a) crea un clima favorevole (ovvero non ostile) in settori dell’opinione pubblica in ordine alla sua realizzazione, attenuando ulteriormente il controllo sociale; (b) può attenuare nei partecipanti ai corrispondenti processi decisionali – tramite un meccanismo psicologico di auto-giustificazione – le barriere morali al coinvolgimento in attività illecite, che finiranno per essere ritenute in qualche modo funzionali al “bene superiore” per gli interessi collettivi della realizzazione dell’opera.
10) La grande opera si associa spesso a lunghi tempi di realizzazione. Si dilatano i tempi anche a seguito delle frequenti lacune progettuali (causate dalla debolezza dell’amministrazione) e del fatto che per sua stessa natura la realizzazione della grande opera espone a una probabilità più elevata – per la sua complessità progettuale, per l’alto impatto sui territori, etc. – di incorrere in difformità rispetto a quanto inizialmente previsto. Questi fattori costringono a interruzioni e ritardi legati all’esigenza di rinegoziare i termini contrattuali. La rinegoziazione espone di per sé a un ulteriore rischio corruzione, mentre l’allungamento dei tempi giustifica inefficienze nella realizzazione che diventano il “serbatoio” cui attingere per prelevarvi le risorse di scambio della corruzione.
11) Grande opera significa anche grande complessità e difficoltà tecniche nella gestione che si proiettano nei futuri lavori di manutenzione. Questo è un valore aggiunto nella prospettiva di corrotti e corruttori, i quali sanno che una volta completata la realizzazione della grande opera potranno comunque continuare a contare su un flusso ininterrotto e costante di tangenti grazie appunto alle successive forniture, opere di supporto, contratti per la manutenzione, etc. (vedi caso Mose).
12) L’inutilità della grande opera è un valore aggiunto quando la sua finalità è l’arricchimento di pochi. Infatti la grande opera utile, che risponde a un concreto bisogno sociale da soddisfare, crea aspettative e attese nella popolazione, e dunque un diffuso controllo sociale su tempi e costi della realizzazione. Ma la grande opera inutile, quando si siano vinte le resistenze degli (talora sparuti) oppositori che ne contestano le ragioni, diventa semplicemente un “bancomat” cui attingere per l’arricchimento illecito dei corrotti e dei corruttori, senza che vi siano pressioni dal basso per accelerarne e neppure completarne la realizzazione.
13) L’infiltrazione mafiosa è più facile nel corso della realizzazione di grandi opere, perché i soggetti criminali possono inserirsi facilmente in quei lavori in subappalto e forniture a bassa intensità tecnologica, riciclandovi capitali, sversandovi rifiuti tossici (vedi realizzazione dell’autostrada Bre-Be-Mi) e soprattutto possono fornire utili servizi di “regolazione interna” nelle transazioni illegali che coinvolgono un’estesa rete di corrotti e corruttori. I protagonisti delle estese reti di corruzione e di scambio illecito che si formano attorno alle grandi opere, in altri termini, formulano una “domanda di protezione” nei loro scambi occulti che può essere soddisfatta dalle organizzazioni mafiose, le quali si inseriscono stabilmente in quel tessuto criminali dandogli forza e stabilità – vedi i casi Mose (alcune piccole imprese subappaltanti confiscate per mafia), Salerno-Reggio Calabria, (irrealizzato) Ponte sullo stretto.
14) Grande opera significa grande rischio di disastro: disastro ambientale od ecologico (vedi Mose), ma anche catastrofe in termini di vite umane – si veda il caso della diga del Vajont.
15) Come spezzare il nesso simbiotico che lega grandi opere e grande rischio corruzione? Difficile credere nella palingenesi di soluzioni ed efficaci proposte anticorruzione calate dall’alto – nelle sedi istituzionali dove troppo spesso dominano lobbies, cricche, comitati d’affari che grazie alla corruzione hanno costruito le proprie fortune, e di quella realtà criminale sono partecipi, beneficiari o conniventi. Occorre piuttosto sostenere, promuovere e valorizzare tutte le esperienze di anticorruzione dal basso, a livello di comunità e di enti locali, attraverso la conoscenza della reale natura di questi fenomeni criminali, della zavorra insostenibile che essi rappresentano degradando la qualità della vita civile e dei servizi pubblici, cancellando opportunità di sviluppo economico, conducendo all’affievolirsi o all’espropriazione di fatto dei diritti politici e civili. Movimenti, gruppi, associazioni, comitati di cittadini possono e devono contribuire a riallacciare i circuiti di controllo democratico che li legano ai loro amministratori locali e ai decisori pubblici, elaborando insieme le migliori strategie di prevenzione e controllo delle distorsioni e delle degenerazioni nella gestione della cosa pubblica e del bene comune.
Alberto Vannucci insegna Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, dove dirige il Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione, organizzato insieme a Libera e Avviso pubblico. Tra le sue ultime pubblicazioni sulla corruzione: Atlante della corruzione (Ega 2012), The hidden order of corruption (Ashgate 2012, con D. della Porta), Mani impunite (Laterza 2007, con D. della Porta).
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