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Un progetto obsoleto ma una Grande Opera produttrice di giganteschi investimenti pubblici e generatrice di ingenti arricchimenti privati, ostacolata da un’intelligente e tenace opposizione popolare

Le “grandi opere” inutili e/o dannose non sono una prerogativa italiana, come sanno coloro che a livello europeo si occupano di questa problematica di vaste dimensioni. Dappertutto questi grandi progetti che implicano un oneroso investimento pubblico provocano ingenti danni non solo ambientali ma anche sociali ed economici alle comunità.

Il progetto


Secondo un progetto che risale al lontano 1994, la principale stazione ferroviaria di Stoccarda, situata in centro-città, con 17 binari e una frequenza di 50 treni all`ora, sta per essere sotterrata. Il grande cantiere, aperto nel febbraio 2010, è ormai esteso a tutta la città e devasta da anni ampi spazi cittadini : si scavano tunnel per circa 60 km per far passare solo 8 binari sui quali dovrebbero transitare 32 treni all`ora.

L’argomento ufficiale del necessario potenziamento del nodo ferroviario è dunque obsoleto, come si può evincere anche dalla nuova stazione centrale di Vienna, attiva dal 2015 e simile nelle sue dimensioni, con un traffico inferiore del 30% rispetto a quanto previsto anche per la nuova stazione di Stoccarda. Quali sarebbero allora i benefici di questa grande opera, i cui costi sono balzati dagli iniziali 2 miliardi di euro a 4,5 nel 2011, a 6,5 nel 2013 e nel 2016 a oltre 10 miliardi di euro? Si presume inoltre che con la nuova linea ferroviaria prevista sulla tratta Wendlingen - Ulm i costi lieviteranno a ben 14,6 miliardi di euro complessive. (Queste cifre sono infine da paragonare con la somma erogata alle Ferrovie tedesche per l’intera rete nazionale: 1,2 mrd.di euro.)

Oltre ai lauti profitti per le ditte di costruzione, ci si aspetta così anche per città e regione un lucrativo sviluppo urbano ed economico, last but not least sulle superfici liberate dagli attuali binari (circa 100 ettari). Ma anche qui i calcoli sono alquanto vaghi e la Corte dei conti ha ammonito contro aumenti e ritardi a seguito di una pianificazione solo approssimativa.

Richiesto dalle Ferrovie S.p.A. come “controllo” dello stato dei lavori (la cui fine si è posticipato ormai al 2021/22), il più recente rapporto (2016) della multinazionale KPMG, che fornisce servizi professionali alle grandi imprese nel mondo, si basa solo su informazioni interne e conferma più o meno le aspettative del committente pur rivelando tra le righe molte lacune su una serie di gravi mancanze tecniche. Oltre al fatto che non è di dominio pubblico.

La resistenza


L`intero progetto è stato osteggiato attivamente dal 2009 fino al 2011 da decine di migliaia di cittadini, sostenuti all`inizio dalle organizzazioni di tutela ambientale del Bund e dal partito dei Verdi. Nel 2011, i Verdi sono entrati in coalizione con la Spd (dal 2016 la coalizione è con la Cdu) al governo del Land Baden-Württemberg oltre a quello della città di Stoccarda, e da allora essi hanno virato su una posizione consenziente: “costruttiva, ma critica”.

Anche sull’onda dell`esito “favorevole” al finanziamento regionale, espresso in un referendum regionale nel novembre 2011, che - pur senza raggiungere il quorum necessario - ha fatto crollare parte della resistenza attiva. Ciò nonostante permane un’opposizione di base molto decisa al progetto “Stuttgart 21” che ha elaborato un progetto alternativo per una “svolta” (Umkehr 21/K21) mantenendo alta l`attenzione in città, nella speranza che “Stuttgart 21” non venga portato a termine nel modo previsto alla luce delle tante questioni ancora aperte. Dal 17 luglio 2010 il nucleo duro di resistenti (circa 300 persone, in maggioranza donne) tiene aperto 24 ore su 24, giorno e notte, davanti alla stazione centrale la “Mahnwache”, un posto di monito, di protesta permanente dove chiunque può trovare materiali e informazioni sullo stato delle cose.

Ogni lunedì (ininterrottamente dal 26 ottobre 2010!) questo gruppo di irriducibili organizza un raduno serale con qualche oratore nella centrale Schlossplatz che poi raggiunge in corteo la stazione centrale (alla 357a manifestazione dello scorso 6 febbraio hanno partecipato anche testimoni contro le grandi opere a Firenze e Venezia).

Con il gruppo di lavoro nominato “Stuttgart 21 è ovunque” si è potuto constatare che in ogni paese, e nello spazio pubblico sempre più privatizzato, le grandi opere non corrispondono alle esigenze concrete dei cittadini o del territorio ma piuttosto alle aspettative di alto profitto dei capitali, aspettative difficilmente raggiungibili altrove nella fase dell`odierno capitalismo. Lottare contro questi mostri (per lo più di cemento) significa quindi anche lottare per un futuro sostenibile per tutti.

«Il dibattito di questi giorni dimostra che non esiste una progettazione dei trasporti in città, si improvvisa cercando di rimediare maldestramente ai guai creati».territorialmente, 2 febbraio 2017 (c.m.c.)

Quando il saggio indica la luna qualcuno vuol farci vedere solo il dito. Pare proprio quello che sta succedendo attorno al Passante TAV: le persone sono attonite all’idea di spendere 1,5 miliardi per una mega stazione senza treni, ma si cerca di cambiare argomento e deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dicendo che si metteranno tanti bus in quella voragine ai Macelli.

Così ha fatto l’assessore ai Trasporti del Comune di Firenze Stefano Giorgetti nelle sue recenti dichiarazioni dove ha tranquillizzato che la futura “Foster” non sarà un deserto, ma ci saranno ben 20.000 viaggiatori al giorno che scenderanno e saliranno da tutti i bus diretti in città.

Questa prospettiva, che dovrebbe consolare i cittadini perplessi nel vedere tanti soldi buttati, al Comitato No Tunnel TAV rinforza invece le domande che non hanno ancora trovato risposta: se il buco ai Macelli sarà una stazione di bus che si fanno a fare due tunnel ferroviari? Se i viaggiatori ferroviari saranno così pochi che si spendono a fare 1,5 miliardi di euro?

Il Comitato indica da anni che questo progetto TAV è profondamente inutile e pericoloso, mentre qualcuno vuol distrarre l’attenzione parlando di autobus Il Comitato si pone anche un’altra serie di domande: ma è stato fatto uno studio che giustifichi lo spostamento di tutti i bus che arrivano a Firenze in una zona come quella dei Macelli? Questa decisione non sarà una trovata, poco credibile, per giustificare un errore marchiano come quello di aver iniziato a realizzare una ferrovia sotto la città? Ancora le dichiarazioni di Giorgetti, “È proprio la presenza dei pullman che ci consentirà di realizzare la nuova stazione”, sono lì a darci la risposta: è lo spostamento dei bus a far sembrare plausibile questa operazione!

Lasciano basiti le dichiarazioni del presidente della Commissione Ambiente Fabrizio Ricci che continua a dire che senza i tunnel le FS potrebbero “bypassare Firenze con il tracciato dell’alta velocità”. Ma vogliamo scherzare? Ma di cosa si sta parlando? Dal nodo fiorentino passano circa 200 treni AV ogni giorno, non ci sono percorsi alternativi; i treni o passano da Firenze o non passano! Il Comitato si chiede se non sarebbe opportuno un ripassino di geografia da parte dei nostri politici.

Il dibattito di questi giorni dimostra che non esiste una progettazione dei trasporti in città, si improvvisa cercando di rimediare maldestramente ai guai creati.Il re pare proprio nudo; c’è da chiedersi solo quand’è che i Fiorentini cominceranno a riderne sul serio.

Comitato No Tunnel TAV

A tutto questo c’è solo una spiegazione razionale: che si debba scavare e rimuovere milioni di metri cubi di terra perché ci sono accordi inconfessati e inconfessabili da cui non si può tornare indietro. perUnaltracittà, 2 febbraio 2017 (c.m.c.)

Il Comitato No Tunnel TAV di Firenze ha letto con incredulità le dichiarazioni dell’Assessore ai Trasporti del Comune di Firenze Stefano Giorgetti relative al futuro del Passante AV. Che il progetto rivisto fosse caratterizzato da gravi lacune è stato subito chiaro, ma adesso che alcuni particolari stanno emergendo la cosa si sta facendo addirittura ridicola.

Giorgetti ha riconosciuto che nella futura “mini-Foster” andrebbero solo i treni AV che attualmente fermano a Campo di Marte, servendo cioè circa 3.000 viaggiatori al giorno, il 10% dei viaggiatori dell’alta velocità a Firenze. Tutti gli altri, circa 160.000 al giorno, continuerebbero a servirsi di Santa Maria Novella.

C’è da non credere alle proprie orecchie! Si costruiscono due tunnel sotto la città e una stazione di 700.000 metri cubi di volume e 60.000 di superfici utili per un numero di viaggiatori come a Pontassieve! Si mettono a rischio monumenti e migliaia di appartamenti per realizzare una stazione con molto meno traffico di Rifredi o Campo Marte!

E in quei pericolosissimi tunnel sono previsti solo poche decine di treni al giorno! Quasi tutti i treni AV andranno a Santa Maria Novella; ma allora di cosa si parla quando si dice che si «libereranno i binari di superficie»? Questo deserto che hanno ideato ai Macelli a cosa potrebbe mai servire? Ecco la trovata: ad una stazione dei bus! Anzi, un hub, sembra una cosa più seria. Si cerca di riempire il vuoto di idee con una trovata da cabaret. Si giustifica la costruzione di 7 km tunnel ferroviari e tre piani sotto terra per una fermata di autobus? Ma vogliamo scherzare?
Per un traffico da stazione di campagna si sono stanziati e si vogliono spendere 1,5 miliardi di euro?

Il Comitato sa che ormai le faide interne al PD toscano portano agli assurdi che vediamo, ma si chiede cosa faccia il governo davanti a questi numeri, cosa ci sia stato a fare il Ministro Del Rio alla riunione del 25 scorso dove si è deciso di continuare con questi lavori TAV; come possa continuare a tacere il Ministro del Tesoro Padoan davanti a tanto vergognoso sperpero in una controllata dal suo ministero; a che politiche di risanamento stia pensando il Presidente del Consiglio Gentiloni se tollera follie come questa.

Il quadro che l’assessore Giorgetti ha aiutato a chiarire è senza senso, non ha alcuna logica. A tutto questo c’è solo una spiegazione razionale: che si debba scavare e rimuovere milioni di metri cubi di terra perché ci sono accordi inconfessati e inconfessabili da cui non si può tornare indietro.

Di questi veti e accordi segreti è prigioniera Firenze.

*Comitato No Tunnel TAV Firenze

«Comunicato stampa:Il Comitato No Tunnel TAV constata come si siano avverate le peggiori previsioni per la città: lo sciagurato progetto di Passante Alta Velocità di Firenze è stato confermato per intero nella riunione tentasi ieri a Roma tra Ministero dei Trasporti e enti locali». territorialmente online, 26 gennaio 2017 (c.m.c.)

Per il momento ha vinto la lobby del cemento e della politica clientelare che la sostiene, senza curarsi delle incongruenze e delle illogicità insite in ciò che è stato deciso; ma ormai la politica italiana ci ha abituato ad assumere gli ossimori come realtà.La Regione parla di «centralità del sottoattraversamento e della stazione di Santa Maria Novella» senza rendersi conto che le due cose sono incompatibili: o è centrale l’una o l’altro. Dietro questa confusione semantica si cela soprattutto l’imbarazzo di imporre alla città un progetto sbagliato, cercando affannosamente una logica dove non c’è che approssimazione.

Questa confusione la si vede chiaramente nell’idea che si propone per la Foster 2.0: si parla di “mini Stazione”, ma non si capisce cosa ci possa essere di “Mini” in una struttura a tre piani di 450×50 metri, dove – se l’aritmetica non è una opinione – si avranno tre livelli da oltre 20.000 metri quadri ciascuno. Lo scavo è di quelle dimensioni e non si può certamente ridurre. Si sta preparando un enorme deserto sotterraneo nel cuore della città.

L’idea di uno hub per treni AV e autobus è un coniglio fatto uscire dal cappello, un gioco di prestigio per nascondere l’assenza di idee, un goffo tentativo per mettere qualcosa nel deserto che si vuol costruire.

Nessuno si rende conto che, se si crea un interscambio forte tra bus e AV, si taglia totalmente fuori il trasporto ferroviario, soprattutto quello regionale, che resterà così totalmente scollegato dai trasporti a lungo percorso? I bus, che sono una componente fondamentale del trasporto locale, resterebbero lontanissimi dalla stazione di Santa Maria Novella dove continuerebbero ad attestarsi i treni locali. Ma ci si rende conto dell’incongruenza, della rottura di carico che si provoca?

Adesso i bus turistici entrano in città dall’uscita autostradale di Firenze Sud e, col raccordo che porta a Varlungo, poi in piazza Piave; soluzione assolutamente carente, ma l’idea di far attraversare tutta la zona ovest di Firenze per arrivare ai Macelli è ancora più pazza!
Ma esiste un piano dei trasporti che giustifiche questa trovata, che appare invece una boutade inventata sul momento per giustificare un progetto che non sta in piedi?

Il comitato ricorda come sarebbe molto più semplice, economico ed efficace concentrare servizi distribuendoli attorno alla stazione di Santa Maria Novella, soprattutto utilizzando gli spazi ricavabili dal terrapieno ferroviario e dalle zone dismesse al Romito; ma l’imperativo è scavare, muovere terra: esattamente ciò che gradiscono le mafie in tutti i cantieri d’Italia.

Nell’incontro romano si sono totalmente ignorati i rischi enormi di uno scavo in area metropolitana; questi non sono per niente spariti, si sono solo volutamente dimenticati; ma ce ne ricorderemo presto. Purtroppo.

I fatti dimostrano che le “grandi opere” solo occasionalmente producono utilità sociale. Ampio resoconto di un interessante convegno della Fondazione Basso e della Fondazione Culturale Responsabilità Etica. Un ricco inventario di misfatti a. Sbilanciamoci.info, 10 gennaio 2017

Davvero un appuntamento ricco di contenuti quello promosso di recente dalla Fondazione Basso e dalla Fondazione Culturale Banca Etica sul tema delle grandi opere, per ragionare non solo sugli aspetti ambientali, ma soprattutto sulla partecipazione dei cittadini, la vitalità dei territori, le regole del gioco deformate dalla Legge Obiettivo e dalle misure di semplificazione. Regole che non aiutano a scegliere le opere utile alla rigenerazione delle città, alla tutela del paesaggio ed alla cura contro il dissesto idrogeologico, come ha sottolineato Nicoletta Dentico della Fondazione Basso, concludendo i lavori e proponendo che questo dialogo e questa rete prosegua e diventi sempre più serrata ed innovativa. Una rete di associazioni e comitati capace anche di progetto e di alternative concrete, come dimostrano le tante esperienze di impegno e partecipazione nei territori.

Un evento a cui ha collaborato Giulio Marcon, Deputato e Segretario della Commissione Bilancio, animatore della campagna Sbilanciamoci, che ha ricordato come sia Pierluigi Vigna nel 2001 ed oggi Raffaele Cantone hanno definito le regole della Legge obiettivo potenzialmente “criminogene” e di come la Legge di Bilancio 2017 sia ancora nel solco delle grandi opere invece che sulla manutenzione del territorio e di servizi ai cittadini/e.

Il nuovo codice appalti approvato ad aprile 2016 prevede il superamento della Legge Obiettivo ma il regime transitorio rischia di essere lungo ed incerto, per questo occorre vigilanza in Parlamento ed azioni sul territorio per raggiungere l’obiettivo. A questo si è aggiunto di recente un regolamento Madia di semplificazione che ripropone la logica della lista e l’accentramento delle decisioni a Palazzo Ghigi.

Ma in realtà è un clima generale e la visione intorno alle grandi opere che deve cambiare. Il binomio grande opera/grande evento è spesso evocato come una irrinunciabile opportunità per le comunità, un sogno di sviluppo capace di generare nuove energie, nuove potenzialità di convivenza. I fatti dimostrano che, in realtà, questo binomio solo occasionalmente produce utilità sociale, mentre si accompagna sovente a prassi autoritarie e poco rispettose delle comunità coinvolte, a forzature gestionali e amministrative, talora non disgiunte da profili di opacità se non di illegittimità e illiceità.

Molte indagini, anche penali, hanno evidenziato che i sistemi costruiti sui meccanismi della deroga, del commissariamento, delle privatizzazione, dell’eterna emergenza per mettere subito in cantiere opere faraoniche che violentano il territorio e arricchiscono i grandi operatori economici, producono un meccanismo perverso di rapporti tra politica, enti istituzionali e imprese. Questo agevola l’inserimento di operatori spregiudicati e refrattari all’osservanza della legalità e dei controlli. La prospettiva della grande opera, presentata come realizzazione di un sogno collettivo, porta in dote una ben più prosaica realtà: una privatizzazione di programmazione e di decisioni apparentemente pubbliche, con spazio a concessionari, general contractors, progettisti-consulenti, i quali finiscono per dettare condizioni agli enti pubblici, stabilire in concreto tempi (e inevitabili contrattempi) dei lavori, autocertificare i costi. Un meccanismo dagli effetti deleteri per le comunità locali, talora coinvolte in esercizi formali di consultazione, più spesso strette nella morsa delle mitigazioni e con grave lesione per gli spazi della democrazia partecipata.

Al convegno si è ragionato su di un paradigma diverso, che serva davvero al nostro Paese, che coinvolga le Comunità locali come un processo educativo collegiale e come tutela dei diritti delle persone che vivono in un luogo, con una visione di tutela globale e capace di futuro. Estremamente interessante è stato l’Intervento di Franco Ippolito, Presidente del Tribunale Permanente dei Popoli (organismo promosso dalla Fondazione Basso) che ha seguito da vicino il caso delle grandi opere e della TAV in Valsusa, arrivando ad una sentenza di condanna l’8 novembre 2015. La forza di questo Tribunale indipendente deriva dalla capacità di denuncia e dalla forza della pubblica opinione, con un processo che segue tutte le regole e norme dei processi ordinari.

Prima d’ora il Tribunale Permanente per i diritti dei popoli si era occupato di grandi violazioni dei diritti fondamentali dei nativi in diversi paesi del mondo, ma quando ha ricevuto la denuncia del Controsservatorio Valsusa ha deciso di aprire una sessione su questo riscontrando violazioni anche in un paese democratico come l’Italia. La sentenza di condanna è motivata dal fatto che non è stato predisposto uno studio serio di impatto ambientale, non si è garantita una reale partecipazione alle popolazioni locali negando l’accesso a documenti, con dibattimenti fittizi e giustificativi, con la militarizzazione del dissenso nella valle, trasformandolo un problema di ordine pubblico. (Per saperne di più www.controsservatoriovalsusa.org)
Le raccomandazioni del Tribunale al Governo Italiano chiedono di aprire un confronto reale esteso a tutte le opzioni ed alternative, compresa l’opzione zero e nel frattempo sospendere i lavori del cantiere della Maddalena e l’occupazione militare della zona.

Roberto Cuda, giornalista economico ha analizzato con rigore il mito delproject financing, sempre invocato per realizzare l’opera senza contributo pubblico e quindi capace di una grande persuasione verso la politica e le sue regole, come è accaduto nel caso dell’autostrada Brebemi. Su questo caso clamoroso ha scritto anche un bel libro (Anatomia di una grande opera, la vera storia della Brebemi. Edizioni Ambiente 2015). La Brebemi era uno dei pochi casi su cui è stata effettuata una gara per la scelta del concessionario, che si doveva pagare completamente con le tariffe per l’investimento da 1,6 miliardi di euro. Ma non è andata cosi: ha ottenuto 300 milioni di contributo pubblico, una proroga di sei anni della durata della concessione, ed un valore di subentro che pagherà lo Stato alla scadenza della concessione pari a 1,250 miliardi. In pratica l’hanno pagata interamente tutti i cittadini e non gli utenti come era stato promesso. In questo caso si dimostra che l’opera serve solo a chi la costruisce, aumenta i debiti dello Stato e non serve a risolvere i problemi di mobilità. Altri tre casi “negativi” di grandi opere sono stati poi presentati al convegno. Il primo è la storia infinita del Ponte sullo Stretto con Stefano Lenzi del WWF Italia, che ha descritto l’iter trentennale di progetti bocciati e risorti, le intricate vicende giudiziarie ed i ribassi d’asta, i contratti sottoscritti senza un progetto definitivo approvato e la minaccia sempre agitata delle penali, in realtà di molto inferiori, in caso non si realizzi l’opera. Con l’auspicio che la promessa di realizzare il Ponte dell’exPresidente del Consiglio Renzi sia tramontata con le sue dimissioni.

Il secondo caso è l’autostrada della Maremma esposto da Edoardo Zanchini, vicepresidente Legambiente, un progetto nato negli anni 70, che si insiste nel voler realizzare ancora oggi, con la bocciatura di diversi tracciati, mentre l’alternativa è semplice: adeguare e mettere in sicurezza la Strada Statale Aurelia in quei 30/40 km ancora pericolosi. Proprio in queste settimane è in corso una nuova procedura di Valutazione di Impatto Ambientale sul tracciato autostradale Grosseto Capalbio e le associazioni sono di nuovo sul piede di guerra contro un progetto che sottrae una infrastruttura di uso quotidiano e gratuito come la SS Aurelia trasformandola in autostrada a pedaggio.

Il terzo è stato presentato da Cesare Vacchelli che a nome dei Comitati No Tibre e No Mantova Cremona è intervenuto su due progetti autostradali che incombono nel quadrante Parma, Verona, Mantova e Cremona. Ha descritto la storia ventennale di impegno dei comitati locali che con rigore hanno dimostrato l’inutilità dell’opera, il suo impatto ambientale, la crescita dell’inquinamento e del traffico, i legami perversi del progetto con la concessione autostradale privata del gruppo Gavio, i ricorsi in sede europea ed i ripensamenti in corso. Adesso si insiste nel voler realizzare 13 km di opera con un primo lotto del tutto inutile, ma evidentemente necessario per tenere in piedi la proroga della concessione a suo tempo autorizzata. In alternativa servirebbe il potenziamento del Tibre ferroviario. Ed ha rappresentato con il suo intervento una storia esemplare di impegno, rigore, competenza e resilienza di una comunità locale.

Anche il mondo della politica è intervenuto nel dibattito. Loredana de Petris, senatrice di Sinistra Italiana ha sottolineato il suo impegno contro le grande opere e la difficoltà anche a sinistra di cambiare strategia e strada. Il Ministro Delrio sta facendo un tentativo reale di superamento della legge obiettivo, ma gli interessi, i progetti in corsa, il peso delle concessionarie e dei costruttori, si fanno sentire rallentando le scelte nella giusta direzione. Se poi a questo si aggiunge che Luca Lotti i è diventato di recente con il nuovo Governo Gentiloni, sottosegretario con delega al Cipe e quindi sulle grandi opere, c’è ragione di preoccuparsi davvero.

Monica Frassoni copresidente del gruppo verde europeo ha raccontato tutte le iniziative di impegno contro le grandi opere che anche in sede europea con le reti TeN-T hanno preso piede come filosofia, tra cui la TAV Torino-Lione, l’Autostrada della Maremma, la Valdastico. E di come le regole europee e le direttive impongano Valutazioni Ambientali Strategiche, niente proroga delle concessioni autostradali, informazione e partecipazione dei cittadini: criteri spesso disattesi in Italia ma che diventano sempre oggetto di trattativa tra Bruxelles ed il Governo Italiano per trovare compromessi e deroghe in nome della realpolitik e della necessità di far ripartire gli investimenti e l’economia. Anche in Europa serve mobilitazione ed azioni per far pesare i punti di vista differenti e le alternative concrete e realizzabili.

Infine un appassionato intervento di Tomaso Montanari, storico dell’arte, animatore della battaglia contro lo Sblocca Italia, ha messo in relazione il successo del no al referendum con la battaglia contro le grandi opere, perché democrazia e territori possano davvero contare nelle scelte e che riguardano le regole del gioco del nostro paese. Non solo ambiente quindi, ma una idea di futuro dove coinvolgere l’immaginario, offrire una visione, usare linguaggi nuovi è essenziale per cambiare le cose ed avere ascolto tra i cittadini. Insomma fare cultura nel Belpaese per fermare la barbarie. Ad aprile 2017 il Ministro Delrio dovrà presentare il primo Documento di Programmazione Pluriennale dove indicare le opere prioritarie da realizzare ed entro fine 2017 l’aggiornamento del Piano generale dei Trasporti e della Logistica con la strategia per la mobilità e di trasporti. Si tratta di due documenti che faranno comprendere davvero se il superamento della Legge Obiettivo e della logica delle grandi opere da promessa sia trasformata in realtà o se invece interessi di parte e regime transitorio esteso avranno la meglio. Serve molta vigilanza, coordinamento, azioni comuni, competenze, partecipazione – anche in sede UE – per capire se stiamo andando davvero verso opere “utili, snelle e condivise”.

«La questione non sono le “opere” ma la democrazia. La riforma di Renzi era (anche) un esproprio dei poteri di autogestione dei territori». Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2016 (p.d.)

«Pubblichiamo una parte dell’intervento di Tomaso Montanari, vicepresidente di Libertà e Giustizia, al convegno “Grandi Opere, grandi ombre” organizzato in Senato»

Il 20 dicembre, cioè due settimane dopo il trionfo del No al referendum costituzionale, la Camera ha votato definitivamente la ratifica all’accordo tra i governi italiano e francese per l’avvio dei lavori del Treno ad Alta velocità tra Torino e Lione. Un voto che ha assai più a che fare col passato che col futuro: non solo perché il progetto risale al 1990 (quell’anno, per dire, Sanremo fu presentato da Johnny Dorelli e Gabriella Carlucci, e fu vinto dai Pooh), ma perché dimostra in modo plateale la drammatica incapacità della classe dirigente italiana di leggere la direzione in cui si muove il Paese.

Uno dei cuori della riforma costituzionale firmata da Matteo Renzi, infatti, riguardava proprio le Grandi Opere: le si definivano strategiche per l’interesse del Paese, e si stabiliva che esse fossero decise dal governo di Roma, tagliando completamente fuori le Regioni. Il sindaco d’Italia giurava che avrebbe preso quelle cruciali decisioni nell’interesse delle comunità condannate al silenzio, ma quelle comunità non gli hanno creduto.

Uno dei motivi di questa radicale sfiducia è legato proprio all’esperienza nera della Val di Susa. Qui, nella notte di Ognissanti del 2005, mille agenti caricarono un gruppo di manifestanti guidati da numerosi sindaci: “Quindici fasce tricolori. Pubblici ufficiali contro pubblici ufficiali, la forza armata dello Stato mandata a sbaragliare quelli che in teoria erano suoi rappresentanti”.

Quella notte “i No Tav avevano dalla loro tre forze: quella della ragione, quella della disperazione, quella della gravità perché gli agenti erano in numero soverchiante ma spingevano in salita”. Sono brani estratti da uno straordinario libro recente di Wu Ming 1 (Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav, Einaudi, 2016), che consegna la vicenda della Val di Susa all’epopea nazionale. E permette anche al pubblico più vasto di conoscerla nei minimi, documentatissimi, dettagli: e l’immagine che ne esce non ha a che fare con le Grandi Opere, ma con la questione della democrazia.

La memoria dei sindaci caricati dalla polizia impediva di credere all’immagine sorridente del sindaco d’Italia che sa qual è il bene delle più remote comunità. E invece rafforzava la convinzione che – per dirla con le parole di Papa Francesco – in ogni decisione “devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato”.

L’inderogabilità dell’autodeterminazione delle comunità nel governo del proprio territorio: ecco il vero frutto politico di 25 anni di lotta in Val di Susa. Tra le ragioni del No al referendum c’è anche questa: gli italiani non sono disposti a cedere sovranità su questo punto. Non per caso, alla campagna del No ha attivamente partecipato Nicoletta Dosio, una mitissima cittadina della Val di Susa che la Procura di Torino avrebbe voluto prima agli arresti domiciliari e ora fuori dalla Valle.

D’altro canto, solo chi ignora la nostra storia può stupirsene: il rapporto viscerale tra comunità e ambiente è uno dei tratti più profondi della nostra identità, come dimostra il fatto che la parola “nazione” figuri tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 9) solo in rapporto appunto al “paesaggio”, vale a dire al territorio.

Per questo è davvero lunare ascoltare il presidente del Piemonte Sergio Chiamparino dichiarare, dopo il voto della settimana scorsa, che “la morale è che bisogna sentire le comunità coinvolte. La svolta è arrivata infatti con la nascita dell’Osservatorio nel 2005”. Non ci potrebbe essere un capovolgimento più clamoroso della verità: quel grottesco Osservatorio avrebbe avuto, almeno in teoria, il compito di decidere se fare il Tav o no, ma era presieduto da quello stesso Mario Virano che, come commissario del progetto, aveva invece il compito di realizzarlo senza se e senza ma.

D’altra parte, proprio la verità è la più frequente vittima della battaglia intorno al Tav: si pensi al processo intentato a Erri De Luca (poi assolto) o all’inaudita condanna di una studentessa (Roberta Chiroli), accusata di aver manifestato, nella propria tesi di laurea, un’adesione alle azioni dei no Tav. Capovolgere la verità, ignorare la realtà: la maggioranza di questo Parlamento illegittimo corre spensierata sulla strada che l’ha già portata a sbattere contro il muro del 4 dicembre. I moventi che la guidano sono più forti dello stesso istinto di sopravvivenza, perché hanno a che fare con i grumi di interesse che dettano l’agenda del Paese.

Nel 1974 un leader per nulla ambientalista come Enrico Berlinguer comprendeva che era urgente mettere fine “al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati: di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere”. Una lezione del tutto inascoltata, se oggi Enrico Rossi – che si candida a guidare il Pd ‘da sinistra’ – è ben deciso a sventrare la Maremma per un'autostrada che servirà solo a chi la farà, e frontalmente avversata dalle comunità locali.

Ma una cosa il 4 dicembre l’ha insegnata: qualunque rinnovamento della politica si voglia attuare, non può che passare attraverso il rafforzamento del rapporto tra comunità e governo del territorio. Fuori da questo nesso elementare non c’è futuro per la democrazia in Italia.

Un governo fantoccio, un parlamento che non esiste, un insieme di istituzioni che gli elettori hanno clamorosamente bocciato continuano nell'errore come delle ruspe impazzite. Il manifesto, 20 dicembre 2016 (p.d.)

Oggi la Camera è impegnata a ratificare gli accordi intercorsi nel 2015 e 2016 tra i governi italiano e francese per l’avvio dei lavori della sezione transfrontaliera della Nuova linea ferroviaria Torino-Lione.

C’è da non crederci.

Il Paese è in balia di un Governo caricaturale, la crisi economica e le disuguaglianze aumentano (è di pochi giorni fa il rapporto di Eurostat che colloca l’Italia all’ultimo posto in Europa occidentale quanto a entità di salari e stipendi), le «grandi opere» bruciano le risorse necessarie al risanamento di un territorio devastato e incapace di assorbire piogge appena più intense del normale, la credibilità della politica è ai minimi storici e, a fronte di ciò, un Parlamento non rappresentativo (perché eletto con una legge incostituzionale) si accinge ad approvare ulteriori spese insostenibili, inutili e dannose.

Superfluo dirlo: quando gli interessi economici e finanziari premono, non c’è «navetta» né «bicameralismo paritario» che rallenti i lavori parlamentari. E altrettanto superfluo è sottolineare che il partito del cemento e i suoi sponsor (Repubblica su tutti) si scatenano in pressioni scomposte e annunciano trionfanti che a breve «non resterà che avviare i bandi di gara per far partire le ruspe e le frese che scaveranno il tunnel di base più lungo del mondo».

Ovviamente non è così: l’effettivo inizio dei lavori richiederà anni e gli accordi politici sono sempre suscettibili di modifiche e cancellazioni, soprattutto in caso di persistenza della crisi economica e di cambiamento del quadro politico (in Italia come in Francia, già oggi assai tiepida sull’opera). Ma non c’è dubbio che la ratifica degli accordi segnerebbe un nuovo passo verso quella che appare sempre più la versione ferroviaria della Salerno-Reggio Calabria. Non è dunque inutile, almeno a futura memoria, ricordare le ragioni che ostano alla ratifica e che consiglierebbero alla Camera, quantomeno, una qualche prudenza.

Ci sono ragioni generali, note da tempo, che riguardano la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione, l’inutilità della nuova linea, lo spreco di risorse in periodo di gravissima crisi economica, l’incertezza sui costi complessivi, l’irrazionalità dell’assunzione da parte dell’Italia della maggior parte delle spese per la tratta transfrontaliera (pur incidente per 45 km in territorio francese e solo per 12 km in territorio italiano), l’aggiramento di fatto della normativa antimafia nella aggiudicazione degli appalti (nonostante un escamotage finale del tutto inidoneo a modificare il quadro dei trattati) e molto altro ancora.

Basterebbe, ovviamente. E alla grande. Ma ci sono anche ragioni specifiche riguardanti la legittimità stessa della ratifica.

Due su tutte.

Anzitutto c’è, nei trattati di cui si discute, una violazione dell’accordo intergovernativo Italia-Francia del 29 gennaio 2001, costituente l’atto normativo fondamentale relativo alla Nuova linea ferroviaria, il cui articolo 1 prevede esplicitamente che la realizzazione dell’opera è subordinata alla imminente saturazione della linea storica. Orbene, tale condizione è irrealizzata e ben lungi dal realizzarsi posto che la linea esistente è attualmente utilizzata al 16 per cento della sua capacità e l’entità delle merci trasportate è in costante calo (attestandosi oggi su un terzo di quella raggiunta nel 1997).

In secondo luogo, c’è una violazione, altrettanto clamorosa, della convenzione di Aarhus del 1998, sottoscritta dal nostro Paese, concernente, tra l’altro, la «partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale». L’articolo 6 della Convenzione vincola, infatti, gli Stati contraenti a inserire, nell’iter procedimentale in materia ambientale, «termini ragionevoli, in modo da prevedere un margine di tempo sufficiente per informare il pubblico e consentirgli di prepararsi e di partecipare effettivamente», e a far sì che «la partecipazione del pubblico avvenga in una fase iniziale, quando tutte le alternative sono ancora praticabili e tale partecipazione può avere un’influenza effettiva». Orbene, nulla di ciò è avvenuto nella fase che ha preceduto i trattati, come accertato, tra l’altro, nella sentenza 8 novembre 2015 del Tribunale permanente dei popoli.

Basta ricordare, tra l’altro, che l’Osservatorio tecnico sulla Torino-Lione, istituito dal governo italiano come «luogo di confronto» di tutte le realtà interessate sui necessari «approfondimenti di carattere ambientale, sanitario ed economico» è, a partire dal gennaio 2010, limitato ai soli «comuni che dichiarino esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera» (sic!), con la conseguenza che non ne fa parte la stragrande maggioranza degli enti locali della Val Susa e che, da ultimo, ne è uscito anche il comune di Torino.

Dunque la ratifica dei trattati in discussione formalizzerebbe, ancora una volta, l’esclusione, finanche in termini normativi, della partecipazione prevista dalla convenzione di Aarhus. In una situazione siffatta un Parlamento rispettoso delle regole e del comune «buon senso» si concederebbe, almeno, una pausa di riflessione. Non accadrà. E ciò la dice lunga – se ancora ce ne fosse bisogno – sullo stato delle nostre istituzioni e sulla loro distanza dai bisogni e dalle richieste dei cittadini.

«La follia che si consuma a Firenze è una metafora perfetta dell’illogicità delle grandi opere inutili, pensate non per risolvere problemi reali, ma per aprire flussi finanziari nei confronti di imprenditori amici».Il Fatto Quotidiano online,, 27 novembre 2016 (c.m.c.)

L’articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della sera del 22 novembre scorso ha portato finalmente alla ribalta nazionale la vicenda, davvero surreale, del progetto di Passante ferroviario Alta Velocità di Firenze. Che cos’è questa infrastruttura, la più grande che si vorrebbe realizzare in città? Sarebbe una linea sotterranea di collegamento tra le tratte AV che, da nord e da sud, arrivano a Firenze; è composta da un doppio tunnel di circa sette km e una stazione interrata 25 metri sotto il livello del suolo, completamente scollegata dal restante trasporto ferroviario.

Opera estremamente impattante e dalle difficoltà di realizzazione enormi, tanto che lo scavo dei tunnel non è nemmeno iniziato per il problema di smaltimento delle terre di scavo e dai rischi enormi di cedimenti e danni per parecchie migliaia di appartamenti e alcuni monumenti come la Fortezza da Basso.

Il progetto risale ai tempi del denaro facile. La scelta di scendere con la ferrovia nel sottosuolo non è dovuta agli scarsi spazi in superficie ma ad una decisione presa dalla classe politica toscana per attrarre risorse miliardarie in città. Un primo progetto prevedeva il potenziamento delle linee esistenti, ma nel frattempo a Bologna avevano ottenuto oltre un miliardo di finanziamento per realizzare un sottoattraversamento AV. Forse per invidia, certamente per appetiti inconfessati, anche Firenze volle i suoi tunnel e i suoi miliardi che poi sarebbero andati a finanziare le cooperative amiche (infatti la gara fu vinta da Coopsette, nel frattempo fallita, oggi l’appalto è passato Condotte SpA di Caltagirone).

I cantieri furono aperti nel 2009 addirittura senza avere i permessi per lavorare: furono imposti alla città da una cinica volontà per far trovare i cittadini davanti al fatto compiuto. Iniziò da allora la litania dell’«ormai è troppo tardi per tornare indietro». Le critiche dei comitati cittadini, supportati da ricercatori e dall’Università, dimostrarono invece le insormontabili difficoltà ad andare avanti, ma le orecchie della politica rimasero accuratamente serrate davanti agli appelli al buon senso.

Oggi, a oltre 20 anni dalla proposta del progetto e 7 anni dopo l’apertura del cantiere, i nodi vengono al pettine e le difficoltà, unite all’aumento vertiginoso dei costi, hanno indotto le FS a ripensare a tutto. All’inizio dell’estate il sindaco di Firenze Dario Nardella – membro di primo piano con l’ad delle Ferrovie Renato Mazzoncini, renziano fedelissimo – disse che il progetto di sottoattraversamento della città sarebbe stato accantonato e che le FS avevano un progetto di potenziamento delle linee di superficie.

Immediatamente e con una virulenza insospettata la vecchia guardia del Partito Democratico toscano, all’interno del quale era nato e prosperato lo sperpero dovuto al progetto, fece muro e iniziarono trattative di scambio tra le due correnti del partito: all’ala renziana sta molto a cuore la costruzione di un inceneritore e soprattutto del nuovo aeroporto intercontinentale di Firenze, all’ala del vecchio Pci interessa molto lo scavo dei tunnel.

Da quel momento è cominciata una girandola di ipotesi le più fantasiose: tunnel di qua, tunnel di là, stazioni sotterranee, per finire con un tunnel senza stazione. Anche i cittadini più disinteressati hanno cominciato a chiedersi quale tarlo rodesse le meningi dei nostri politici che erano arrivati all’assurdo di voler scavare senza nemmeno una fermata in città. Consci della illogicità delle proposte si è passati ad abbandonare la megagalattica stazione sotterranea progettata da Norman Foster per approdare ad una “miniFoster”, una stazione più piccola senza i 30.000 m2 di centro commerciale previsto. L’illogicità permane perché lo scavo iniziato non è per una mini-stazione, ma per una struttura interrata di tre piani, ciascuno di circa 20.000 m2.

Ma l’apoteosi dell’insensatezza è dovuta al fatto che, nonostante si voglia abbandonare la realizzazione della megastazione, i lavori fervono in quel cantiere come mai si è visto in tutti questi anni: i cantieri sono sempre stati semideserti e addirittura si arrestarono, nel 2014, durante le due inchieste che la magistratura avviò sul progetto con accuse pesantissime di truffa, corruzione e infiltrazioni mafiose.

All’improvviso, in occasione delle dichiarazioni di Nardella di voler abbandonare la stazione, i cantieri si sono riempiti di lavoratori e in pochi mesi si sta realizzando il solaio del primo piano con strutture in acciaio che saranno difficilmente riutilizzabili; centinaia di lavoratori si affannano in turni serrati lavorando anche di domenica per un’opera che non sarà mai né finita, né utilizzata.

Proprio nelle ultime ore c’è stato un accordo tra Rfi, il costruttore e i sindacati confederali perché i cantieri vadano avanti fino a febbraio «per garantire il lavoro a 50 operai che erano a rischio licenziamento». Questo assurdo ricatto si aggiunge alla lista sterminata delle incongruenze Tav: ci sono i cantieri infiniti di una tranvia di cui non si vede la fine che sono ormai una barzelletta in città perché sempre vuoti, ci sono i poveri terremotati che, se sapessero come vengono sperperati tanti soldi in opere da demolire, avrebbero molto da dire a tutti questi protagonisti dello spreco. Ci si chiede cosa si aspetta a dire stop e fermare questa emorragia finanziaria: le FS, che sono il committente dell’opera, tacciono e lasciano andare, idem il governo e le istituzioni locali.

La follia che si consuma a Firenze è una metafora perfetta dell’illogicità delle grandi opere inutili, pensate non per risolvere problemi reali, ma per aprire flussi finanziari nei confronti di imprenditori amici. D’altronde la seconda inchiesta sul Tav fiorentino (detta “Sistema”) e quella attuale aperta sui lavori del Terzo Valico (detta “Amalgama”) lo spiegano bene: sono enormi problemi che aspettano risposte politiche che non arriveranno mai dalle attuali maggioranze. Non è un problema di mele marce, ma di un frutteto in putrefazione.

«La Rete Adriatica. Viaggio lungo il percorso del gasdotto Snam, tra le faglie più pericolose e i borghi demoliti dagli ultimi terremoti. Per il governo però rimane “un’opera strategica”». Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2016, con postilla (p.d.)

Siamo a poche curve da Sulmona, ai piedi del monte Morrone e all’ombra delle belle torri di Pacentro. Di fronte si stende la piana verde che sarà sacrificata alla centrale di compressione del gas. L’impianto della Snam (Società nazionale metanodotti) occuperà un’area di 12 ettari.

I portavoce del comitato cittadino fanno l’elenco dei danni (l’inquinamento ambientale, quello acustico, i terreni abbandonati, gli ulivi abbattuti) e contano gli spazi mangiati dal cemento (“una zona estesa quanto 16 campi da calcio e mezzo”). Ma la centrale è appena una parte delle loro preoccupazioni. Sarà lo snodo di un’opera molto più grande: qui passerà la “Rete Adriatica”, un serpente sotterraneo di 687 chilometri. L’ha raccontato Ferruccio Sansa sul Fatto Quotidiano del 15 novembre: il gasdotto della Snam attraverserà l’Italia da Massafra (Taranto) a Minerbio (Bologna). Un cantiere gigantesco diviso in cinque progetti autonomi. Uno parte proprio dalla città di Ovidio: i tubi della Snam riforniranno la centrale di Sulmona, tagliando attraverso il Parco nazionale del Gran Sasso, per puntare verso l’Umbria. Attraverseranno l’Appennino sotto l’Aquila, Onna e Paganica, devastate dal terremoto del 2009. Poi, sempre più a nord, il gasdotto sfiorerà Amatrice e Norcia, infine Visso e Ussita, dove le scosse proseguono praticamente ogni giorno. I 168 chilometri del metanodotto tra Sulmona e Foligno sono immersi nella zona a più alto pericolo sismico d’Italia (quella di grado 1, segnata in viola nella cartina a fianco).

Il progetto originale è datato 2005. Negli ultimi dieci anni, in questo territorio, i terremoti hanno spostato montagne e squarciato città, ma non hanno cambiato i piani della Snam, né quelli dei governi che si sono succeduti.

Le ferite della Maiella
“Sono venuti qui perché pensavano che gli abruzzesi fossero docili, che non avrebbero trovato alcuna resistenza. E invece questi quattro contadini gli danno ancora filo da torcere”. Giovanna Margadonna è una delle voci del comitato per l’ambiente di Sulmona che contesta il progetto della Snam. I “quattro contadini” che ci guidano lungo la traccia virtuale del gasdotto – Mario, Flora, Anna Maria, Lola, Clotilde – hanno professioni diverse, ma ognuno di loro ha imparato a raccontare la sua terra con le parole dei sismologi. Indicano cartine, mostrano le ferite invisibili nelle pareti delle montagne. Citano il lavoro di una geologa, Giusy Lavecchia (professore ordinario all’Università di Chieti), presentato l’anno dopo il disastro aquilano: “Il bacino di Sulmona è una depressione tettonica bordata ad est dal sistema di faglie dirette del Monte Morrone”, l’altopiano che domina l’area dove sarà costruita la centrale. Le due fenditure “in profondità, sono collegate in un unico piano di faglia che si sviluppa fino a 12-14 chilometri”. Le conclusioni del documento non sono incoraggianti: “L’area aquilana e quella del bacino di Sulmona sono le zone a più alta pericolosità dell’Italia centrale”. All’Aquila è andata come sappiamo, mentre per Sulmona e la Maiella “l’ultimo terremoto di magnitudo 6.6-6.7, probabilmente associato alla faglia del Morrone”, è avvenuto nel III secolo a.C.

“Sono passati circa 2000 anni e questo è proprio il tempo di ricarica previsto da queste strutture. Inoltre, è notorio che quanto maggiore è il tempo di ricarica di una faglia, tanto maggiore è il terremoto atteso”. Come se non bastasse, conclude il documento, “Sulmona si trova su un bacino continentale che può causare effetti di amplificazione locale dell’energia sismica”.

La zona rossa, le new town e i 30 km nelle Marche
In sostanza, si vive nell’attesa di una scossa imminente e violenta. “È davvero necessario – chiedono i ‘No Snam’ – che la centrale sia costruita su un territorio del genere? È davvero il caso di scavare sottoterra, infilarci dei tubi di 120 centimetri di diametro e farli correre attraverso linee di faglia attive, nelle aree più sismiche d’Italia?”.

Proseguendo lungo il tragitto del serpentone della Snam, si attraversa la Valle Peligna, le sorgenti del Pescara a Popoli (dove il gasdotto, secondo l’amministrazione comunale, “minaccerà uno dei bacini imbriferi più grandi d’Europa”), la piana verde di Navelli. L’arrivo a l’Aquila è annunciato dalle gru e dalle impalcature dell’infinita ricostruzione. Poco fuori dalla zona rossa, c’è la struttura “provvisoria” (ormai dal 2009) che ospita la sede della Regione. Pierpaolo Pietrucci è un giovane aquilano, consigliere del Pd, il partito del governatore Luciano D’Alfonso. Il presidente è criticato dai comitati per l’opposizione “timida”al gasdotto. Pietrucci invece non si nasconde: “Non bastano i tetti che ci crollano in testa? C’è bisogno di piazzare una potenziale bomba sotto i nostri piedi? Il progetto originale della Snam prevedeva un tracciato offshore, in mare, lungo la costa. Perché hanno deviato? Questo gasdotto taglierà parchi nazionali e boschi millenari, patrimonio dell’Unesco. Inciderà su territori che già rischiano lo spopolamento: sarà la condanna dell’Appennino”. Il consigliere ha inviato una lettera al premier, ma non ha ancora ricevuto risposta. “Caro Matteo, sono aquilano, tuo coetaneo: ho vissuto in prima linea, da capo di gabinetto del sindaco Massimo Cialente, il dramma del terremoto del 2009. Conosco il terrore, gli occhi delle persone, la voglia di tornare e l’improvvisa consapevolezza della sacralità della normalità. Quella che hanno perso gli abitanti di Amatrice, Accumoli, Norcia, Ussita, Visso e tutti gli altri splendidi borghi colpiti dai terremoti da agosto agli ultimi giorni”.

Il serpentone punta proprio verso quei borghi, dopo essersi lasciato alle spalle anche le “new town” di Onna e Paganica, subito fuori l’Aquila, nate sopra le rovine e i crolli del 2009.

Le Marche sono interessate da circa 30 chilometri del tracciato, alcuni dei quali sfiorano il versante ovest del monte Vettore, spaccato dal sisma di ottobre. Il responsabile del comitato No Tubo marchigiano-umbro si chiama Aldo Cucchiarini: “Non c’è solo l’assurdità di costruire sopra le faglie – spiega – ma anche un problema ambientale sottovalutato. Per posare una condotta di 120 centimetri a 5 metri di profondità, bisogna aprire uno sterrato largo 40 metri sui fianchi delle montagne. Bisognerà creare strade e piste per far spostare i mezzi speciali fino ai cantieri. Si crede che siccome i tubi vanno sotto terra, ’impatto ecologico non sia devastante: una follia”.

Il pubblico, il privato e il botto di Mutignano
Snam è una società quotata in borsa, detiene il monopolio nella gestione della rete del gas italiano. È un gigante da oltre 3 miliardi e mezzo di fatturato e 1,2 miliardi di utili netti nel 2015. Non sorprende che i “quattro contadini” che affrontano la Rete Adriatica siano stati respinti, nel tempo, senza particolari affanni.

In tutti questi anni gli interessi dell’azienda privata sono stati garantiti dai governi che si sono dati il cambio a Palazzo Chigi. Berlusconi, Monti, Letta, Renzi. Nell’ultima legislatura, il gasdotto Massafra-Minerbio è stato oggetto di almeno 5 interpellanze e interrogazioni tra Camera e Senato, firmate dai parlamentari di Sel e Movimento 5 Stelle. Le risposte dell’esecutivo – da Flavio Zanonato (ex titolare dello Sviluppo economico) a Claudio De Vincenti (ex vice del Mise, oggi sottosegretario a Palazzo Chigi) – sono state sempre le stesse. Si basano, in buona sostanza, su un’“autocertificazione” della Snam. “Il tracciato dei metanodotti – si legge nella relazione di Zanonato, ma con parole simili anche nelle repliche di tutti i ministri, compreso l’attuale titolare del Mise Carlo Calenda – è stato definito scegliendo i lineamenti morfologici e geologici più sicuri (...), le dimensioni del progetto adottate per la trincea di posa della condotta, unitamente alle caratteristiche di duttilità e flessibilità delle tubazioni in acciaio, permettono di sopportare agevolmente le eventuali deformazioni indotte dal sisma”. In poche parole, per la società il tracciato è il migliore possibile, e il test sui tubi (il cosiddetto “shaking”) è andato bene. I peggiori terremoti degli ultimi 40 anni – argomentano all’unisono l’azienda e i ministri – non hanno prodotto incidenti sui gasdotti in funzione in Italia.

L’opera è considerata “strategica”: malgrado i consumi di gas siano in calo, la Rete Adriatica potrebbe garantire un ruolo centrale nel mercato energetico europeo. I profitti saranno privati (si stima una resa di 26,5 milioni l’anno), mentre il denaro investito è anche pubblico: nel 2009 la Banca europea per gli investimenti ha versato 300 milioni di euro all’azienda italiana per coprire metà della spesa sul tratto Massafra e Biccari e su un altro gasdotto in Lombardia.

Insomma, tranquilli: il serpentone si farà, e non c’è pericolo. Garantisce la Snam. Meglio non pensare alla lunga lista di incidenti degli anni passati: in Italia sono 8 dal 2004. A marzo 2015 è toccato proprio all’Abruzzo, con l’espolosione del metanodotto Snam di Mutignano, in provincia di Teramo. Un piccolo smottamento ha divelto un tubo di 600 millimetri di diametro. Le fiamme, alte fino a 10 metri, hanno carbonizzato un costone della collina (le foto sono a centro pagina). Per fortuna senza uccidere nessuno.

postilla

Aggiungiamo che con la riforma costituzionale proposta nel referendum del 4 dicembre, le scelte riguardanti la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, nonché tutte le infrastrutture dichiarate come strategiche dal governo nazionale (insieme a tante altre materie fino ad ora considerate "concorrenti" fra Stato e amministrazioni locali), diventerebbero di esclusiva competenza statale. Cioè nelle mani del Governo e del Primo minisro. Tutto in nome della governabilità che, rottamando in una unica soluzione la corretta pianificazione e governo del territorio, riduce i cittadini in sudditi, con il preciso intento di rendere ininfluenti ed inefficaci le opinioni e le rimostranze delle amministrazioni locali, delle associazioni e delle persone che, vivendole quotidianamente, ben conoscono le loro terre.

«L’11 novembre entra in vigore la legge Madia. La Legge Obiettivo, pur abolita, in realtà avrà un regime transitorio davvero lungo ed insostenibile per cambiare realmente strategia. E la corsa alle grandi opere prosegue». Sbilanciamoci.info, 9 novembre 2016 (p.d.)

Sulle infrastrutture ed insediamenti produttivi arriva il Decreto del Presidente della Repubblica con il Regolamento di semplificazione in attuazione della Legge Madia. E’ il DPR n.194 del 12 settembre 2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27/10/2016 e che entrerà in funzione l’11 novembre 2016.

Quindi come al solito per il superamento della Legge Obiettivo si fa un passo avanti e due indietro come questo DPR basato sulla “semplificazione ed accelerazione di procedimenti amministrativi riguardante rilevanti insediamenti produttivi, opere di rilevante impatto sul territorio o l’avvio di attività imprenditoriali suscettibili di avere positivi effetti sull’economia o sull’occupazione” si legge all’articolo 1 del testo.

Come dire che non si valuta l’utilità delle opere ed il servizio che poi dovranno rendere ai cittadini. Il provvedimento si potrà applicare sia ad opere pubbliche che private e verranno semplificate ed accelerate anche le procedure preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico artistico e della tutela della salute.

Ogni anno entro il 31 marzo, su proposta del Presidente del Consiglio con relativa deliberazione del Consiglio dei Ministri, è individuata con DPCM la lista degli interventi sentiti i Presidenti delle Regioni interessate dai progetti. I Comuni, le Regioni e le città Metropolitane potranno avanzare progetti da inserire nel DPCM annuale, oltre ad altri progetti individuati dalla Presidenza del Consiglio, anche su segnalazione del soggetto proponente o del Ministro competente.

I criteri di selezione della lista saranno stabiliti da un Decreto da adottare entro 60 giorni con un provvedimento del Governo previa intesa in Conferenza Unificata. Sarà interessante capire quale saranno i criteri per scegliere le opere che hanno effetti positivi sull’occupazione e l’economia e se saranno messe a confronto analisi comparate e soluzioni differenti.

Il DPCM con la lista individua opera per opera i tempi ridotti delle procedure fino al 50% di quelli necessari per “la conclusione dei procedimenti necessari per la localizzazione, progettazione e realizzazione delle opere o degli insediamenti produttivi e l’avvio delle attività”. Se il termine fissato non viene rispettato, il Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del CdM può utilizzare “poteri sostitutivi” per procedere comunque.

Si tenga conto che le procedure ordinarie della Conferenza dei Servizi telematica (modificata di recente da altri decreti Madia) fissa 5 giorni per la convocazione, poi 45 giorni di svolgimento della CdS, che diventano al massimo 90 per gli enti di tutela. Con il DPR di semplificazione n.194 tutto si può dimezzare ed al massimo in 45 giorni si dovrà decidere altrimenti decide il Presidente del Consiglio, indebolendo gli strumenti di tutela.

Difficile credere che in questo modo si decideranno le opere utili, snelle e condivise di cui ha parlato il Ministro Delrio, anche nell’Allegato Infrastrutture al DEF 2016. E che verrà promosso un efficace e credibile processo di partecipazione e dibattimento pubblico sulle opere cosi come indicato dal nuovo Codice appalti (di cui manca per ora il regolamento attuativo). Di fatto questa è una nuova “legge obiettivo” con la lista delle opere e la massima semplificazione decisoria.

Si estende il regime transitorio della vecchia Legge obiettivo

Questa nuova semplificazione si aggiunge alla già complessa situazione della legge obiettivo che pur essendo stata abolita con la Legge 50/2016 nuovo Codice Appalti, in realtà avrà un regime transitorio davvero lungo ed insostenibile per cambiare realmente strategia.

Ricordiamo che andranno avanti secondo le procedure della Legge Obiettivo quelle in corso di realizzazione, quelle già decise dal Cipe e su cui vi sono Obblighi Giuridici Vincolanti, ma anche quelle che hanno avviato l’iter per la Valutazione di Impatto Ambientale. E’ questa è una novità certificata anche dal Presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone con la delibera n. 924 del 7 settembre 2016 che ha stabilito che le opere riferite al XI Allegato Infrastrutture al DEF 2013 che abbiamo avviato la VIA dovranno essere concluse con le stesse procedure, ad esclusione delle gare d’affidamento delle opere che dovranno seguire le procedure del nuovo Codice Appalti.

Il risultato è che abbiamo in essere cinque differenti procedimenti per l’approvazione delle opere e tutto questo non ci aiuta certo a diventare un paese normale: la vecchia legge obiettivo per le opere con iter avviato prima del 18/4/2016 (entrata in vigore nuovo codice appalti), le procedure ordinarie per le opere pubbliche (articolo 27 Codice Appalti), quelle speciali per le infrastrutture prioritarie nazionali (articoli 201-202 Codice Appalti). A cui si aggiunge il Commissario Straordinario previsto dal decreto Sblocca Italia con proprio iter semplificato ed infine il recente Regolamento “Madia” 194 di semplificazione che entra in funzione l’11 novembre 2016, con i poteri al Presidente e Consiglio dei Ministri.

Non si tratta di semplici procedure perché se vediamo di quali opere e di quali dimensioni stiamo parlando, risulterà chiaro che siamo davvero lontani a scegliere le opere secondo una strategia di politica dei trasporti, trasparente e misurabile.

Lo stato delle Infrastrutture strategiche

Per capirlo basta utilizzare il 10° Rapporto del Servizio Studi della Camera dei Deputati in collaborazione con l’Autorità Anticorruzione dal titolo “Le Infrastrutture strategiche. Dalla Legge obiettivo alle opere prioritarie” pubblicato a maggio 2016 che fa un punto preciso e ragionato della situazione. (www.silos.infrastrutturestrategiche.it)

Dal 2001 al 2015 sono state inserite nella Legge Obiettivo ben 418 opere con un costo stimato di 362 miliardi. Di queste – quelle che sono state inserite nell’XI allegato infrastrutture DEF 2013 (documento che ha completato l’iter di approvazione con l’intesa con le Regioni ed approvazione Cipe nel 2014) – equivalgono a 278 miliardi di investimenti ed una lista di 190 opere.

Tra questi 278 miliardi di opere in corsa, sono state selezionate dal Ministro Delrio le 25 opere prioritarie (costo stimato 90 miliardi) che costituiscono l’Allegato Infrastrutture 2015 e 2016, che non avendo però perfezionato l’iter di adozione costringe a riferirsi all’XI Allegato ed al suo vasto bacino di opere come regime transitorio della legge obiettivo.

Quindi dei 278 miliardi complessivi risultano esserci un gruppo di 25 opere prioritarie che vale 90 miliardi ed un altro gruppo di 165 opere non prioritarie che vale 188 miliardi. Tra le 25 opere prioritarie ben l’83% è stato deliberato dal Cipe (costo stimato 75 miliardi), tra quelle non prioritarie sono state deliberate dal Cipe il 39% (costo stimato 73 miliardi). Il risultato è che su 278 miliardi di interventi Legge Obiettivo ben 151 miliardi sono gli interventi che hanno avuto un iter presso il Cipe.

E sempre dal 10° Rapporto Camera si legge che lo stato di attuazione della lista dei 278 miliardi è cosi suddivisa: 10% sono le opere completate, in corso di realizzazione il 17%, un altro 8,4 ha un contratto di affidamento, l’1,6% sono aggiudicati ed il 6,7% sono in gara. Oltre il 55% sono le opere ancora in progettazione e procedure di autorizzazione.

Se guardiamo con un focus su quelle con Obbligazioni Giuridicamente Vincolanti (cioè con contratti come le definisce il Codice Appalti) si arriva ad un ammontare di 70,1 miliardi di opere.

Infine non può mancare una analisi delle risorse effettivamente disponibili: su 278 miliardi sono disponibili 140 miliardi ed il resto manca all’appello. Tra i 140 miliardi disponibili, 87 derivano da risorse pubbliche e 52 miliardi da risorse private, in grande parte concessionarie autostradali (che però chiedono sempre aiuti come tariffe, proroghe delle concessioni, valore di subentro, defiscalizzazioni varie, risorse pubbliche per specifiche opere).

Sarà su questi valori e procedure che si dovrà misurare il primo Documento Pluriennale di Programmazione che in Ministro Delrio dovrà presentare entro il 18 aprile 2017 e che avrà il potere anche di selezione reale degli investimenti.

Prosegue la corsa delle grandi opere

Entrando nel merito sulle opere in corso sappiamo che – pur a stadi differenti – sono numerose le grandi opere che proseguono la loro corsa. Tra le 25 opere prioritarie, oltre alle opere utili come le Metropolitane urbane, ci sono i grandi progetti TAV come la Torino-Lione e la Milano Genova, le autostrade Pedemontana Veneta e Pedemontana Lombarda, realizzate al 15%, dai costi ed impatti notevoli, che dovrebbero essere riviste.

Tra le opere non prioritarie e che stanno procedendo ugualmente troviamo il 1° lotto del Tibre Parma Verona, 513 miliardi di lavori della società AutoCisa, di scarsa utilità ma che forse servono alla concessionaria per non vedersi ridotta la proroga della concessione a suo tempo assentita.

Troviamo l’autostrada Campogalliano Sassuolo, che con una delibera Cipe del 1 maggio ha ottenuto un sistema di anticipi ed aiuti fiscali ed è in attesa del via libera della Corte dei Conti. Da notare che l’approvazione è avvenuta dopo l’entrata in vigore del nuovo codice appalti e comunque ai sensi della Legge Obiettivo nonostante non sia nemmeno un’opera prioritaria. Su quest’opera inoltre si intreccia la vicenda della Concessionaria Autobrennero che sta lavorando per diventare una società interamente pubblica e quindi – secondo la nuova direttiva UE concessioni – poter godere del rinnovo della scadenza. Ma se realizza in project financing insieme ai privati la Campogalliano Sassuolo può definirsi una società in house come richiede Bruxelles?

Vi sono opere autostradali come la Gronda di Genova, costo 3,8 miliardi, che Autostrade l’Italia per poter realizzare vorrebbe aumenti tariffari su tutta la rete ed anche una ventilata proroga della concessione di 7 anni dell’intere reta italiana.

C’è il passante autostradale di Bologna, che dopo la bocciatura da parte degli Enti locali del tracciato nord, adesso Autostrade per l’Italia d’intesa con il Comune, punta all’ampliamento in sede dell’attuale fascio autostradale. Tracciato comunque impattante sulle residenze e che aumenta il traffico veicolare in circolazione sull’area metropolitana. E’ in corso un esteso dibattimento pubblico nei quartieri e tra i cittadini per presentare il progetto e raccogliere le osservazioni.

Anche il sistema tangenziale di Lucca sembra essere ripartito dopo che il Cipe il 10 agosto 2016 ne ha finanziato un primo lotto del costo di 84 milioni di euro. Al momento la delibera è in attesa del via libera per essere pubblicata.

Prosegue la sua corsa l’autostrada Roma Latina, approvata dal Cipe nel 2013 e sui cui c’è una forte pressione della regione Lazio per la sua realizzazione. Affidata dopo molte traversie nel luglio 2016, adesso pende il ricorso al TAR della seconda impresa risultata non vincente, che ritiene l’offerta di quella risultata vincente non adeguata alle richieste del bando di gara.

Infine di recente si è riavviato il progetto sull’Autostrada della Maremma, dopo l’intesa tra Regioni, SAT, ASPI e MIT del maggio 2015, che ha stabilito che tra Grosseto e San Pietro in Palazzi a nord non verrà realizzata nessuna autostrada mentre il progetto si concentrerà a sud nel tratto tra Tarquinia e Grosseto. A settembre 2106 la concessionaria SAT ha esposto il nuovo tracciato ai Comuni ed alla Regione Toscana: il tracciato è prevalentemente in sede sull’Aurelia o lungo la ferrovia ma con diverse varianti importanti come ad Albinia e Fonteblanda. Inoltre il sistema è con barriere di esazione e pochi svincoli liberi: quindi i residenti e la viabilità locale si vedranno sottrarre una strada gratuita (per quanto da ammodernare) senza poter utilizzare liberamente la nuova infrastruttura a pedaggio. Nei prossimi mesi il progetto sarà ripubblicato in procedura di VIA e c’è da augurarsi che almeno in questo caso si utilizzeranno le nuove procedure del Codice appalti superando davvero la Legge Obiettivo.

Da questa breve sintesi sulle opere in corsa ben si comprende come la Legge obiettivo stia decisamente avanzando. E solo in pochi casi il MIT sta procedendo con la project review: l’adeguamento della E45-E55 invece dell’autostrada Orte Mestre, la Napoli Bari ad Alta Capacità, la Salerno Reggio Calabria (tratto finale) e la Statale Ionica 106, il nodo di Vicenza AV. Anche il tratto italiano della Torino Lione AV sarebbe soggetto a questa revisione ma non si comprende come si possa conciliare comunque il tunnel di base da scavare con l’uso della ferrovia esistente, che nel tratto italiano è utilizzata anche per il trasporto pendolari: servirebbe una revisione dell’intero progetto TAV e non solo del tratto Italiano.

Revisione del progetti, DPP ed aggiornamento del Piano Generale dei Trasporti

Nel nuovo codice appalti per fare le scelte sulle opere “utili snelle e condivise” si punta alla revisione dei progetti in corsa – cercando di ridurne l’impatto ed i costi – e sulla predisposizione entro il 18 aprile 2017 del Documento Pluriennale di Programmazione degli investimenti, che promette di fare ordine e di scegliere davvero le priorità. E’ poi previsto l’aggiornamento del Piano generale dei Trasporti e della Logistica per la fine del 2017, come documento strategico di riferimento per le politiche e le scelte.

Ma come abbiamo dimostrato – tra estensione del regime transitorio della vecchia legge obiettivo e nuove semplificazioni ai sensi della Legge Madia – il rischio concreto è che la buona pianificazione arrivi davvero troppo tardi.

Se poi oltre alle opere in corsa, aggiungiamo il Ponte sullo Stretto di Messina, che il Presidente del Consiglio ha rilanciato solo due mesi fa come opera strategica per il Paese, c’è davvero il rischio di veder “cambiare tutto per non cambiare nulla” sulle grandi opere.

«Terzo Valico. "Cemento come colla", appalti truccati ed escort. Manette a presidente e al vice del consorzio guidato da Impregilo-Salini. Cariche e feriti a Alessandria». Il manifesto, 30 ottobre 2016

Sommerso dagli scandali giudiziari, il Terzo Valico fa acqua da tutte le parti. D’altronde, quanto può essere solida un’opera dove «il cemento sembra colla», come dice un intercettato nell’ultima inchiesta che ha portato all’arresto del presidente e del vice del Cociv, consorzio guidato dalla potentissima Impregilo-Salini, che realizza l’infrastruttura.

Il governo Renzi, come i precedenti, non ha mai messo in discussione l’opera, malgrado le proteste delle popolazioni (ieri terminate in scontri) e l’assenza di serie analisi costi-benefici. «S’ha da fare», diceva la berlusconiana Legge obiettivo, contestata a parole ma mai cancellata, e lo ribadisce ora il ministro Graziano Delrio.

Ieri, ad Alessandria, quasi come se niente fosse, si è svolto l’Alessandria l’Open Space Technology, l’evento promosso dal commissario di governo del Terzo Valico, Iolanda Romano, per discutere delle «opportunità» per il territorio date dai 60 milioni di finanziamenti messi sul piatto dal ministro delle infrastrutture e da Rfi. «Non ci sottraiamo al confronto», aveva detto il commissario, mettendo a tacere le perplessità di alcuni sindaci sull’opportunità dell’evento dopo le ultime vicende.

I No Tav avevano annunciato che sarebbero andati a contestarlo, scrivendo sul sito «Roviniamogli la festa». E così è stato. Diverse centinaia di persone si sono radunate fuori dal centro sportivo Centogrigio, sorvegliato da un imponente schieramento delle forze dell’ordine che, quando i manifestanti si sono mossi per bloccare l’accesso ai delegati iscritti, sono intervenuti con una dura carica. Alcuni No Tav sono rimasti feriti. Contestati sonoramente i senatori del Pd Stefano Esposito e Daniele Borioli, sostenitori del Terzo Valico.

«I 60 milioni di compensazioni dovrebbero darli ai terremotati», ha replicato Claudio Sanita, uno dei leder del movimento contro la grande opera. «Non bisogna commissariare il Cociv ma fermare i cantieri. Le inchieste dimostrano – ha aggiunto Sanita – quello che dicevamo da anni. Noi non ci fermiamo, sabato prossimo bloccheremo il cantiere di Cravasco. E il 27 novembre saremo a Roma contro Renzi e una riforma costituzionale che toglie poteri alle comunità. Oggi la battaglia contro il Terzo valico passa dalla caduta di Renzi, sostenitore delle grandi opere. Contestiamo anche le compensazioni, istituzionalizzazione del meccanismo della tangente: si svende il territorio in cambio di soldi».

Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, ha chiesto il commissariamento del consorzio che ha la titolarità dei lavori «in modo da evitare che un’opera così essenziale per lo sviluppo di questa parte dell’Italia si incagli a tempo indefinito».

L’inchiesta che ha decapitato il Cociv pone sotto la lente appalti truccati per 324 milioni. Gli imprenditori non pagavano solo tangenti, ma offrivano anche escort ai dirigenti del general contractor.

«Cinque anni di ritardo, investimento raddoppiato e un carico di guai giudiziari». Il Fatto Quotidiano online, 29 ottobre 2016 (p.s.)

Festeggiare i primi passi nell’anno in cui diventi maggiorenne è sintomo di una discreta capacità di vedere il cosiddetto bicchiere mezzo pieno. La dote non manca all’Eur Spa, proprietario della Nuvola, e al governo italiano che – con il ministero dell’Economia – ne è socio di maggioranza: il taglio del nastro, oggi pomeriggio, arriva a esattamente diciotto anni dal bando con cui si pensò di far nascere a Roma un Nuovo Centro Congressi.

L’idea era brillante: portare nella Città eterna anche quel turismo di professionisti che viaggiano per convegni e seminari. E per realizzarla si fece avanti l’architetto Massimiliano Fuksas, uno che ha lasciato il segno in giro per il mondo e che Roma – la sua città – non era ancora riuscita a ospitare.

A dirigere il cronoprogramma dei lavori vengono chiamati gli ingegneri tedeschi della Dress&Sommer, che invece nella Capitale avevano già realizzato – e pure nei tempi previsti – l’Auditorium firmato da Renzo Piano. Il lieto fine arriva oggi. Ma nel mezzo ci sono milioni di euro di troppo, cinque anni di ritardo e un carico di guai giudiziari.

I soldi: il costo finale della Nuvola è ben lontano dai 239 milioni di euro ufficiali. L’opera, parola della sottosegretaria all’Economia Paola De Micheli, “richiede un investimento complessivo di 467 milioni di euro” visto che, oltre ai costi di costruzione, sono state necessarie “iniezioni” decisive per la sopravvivenza del progetto.

A fine 2014 il ministero è stato costretto a ricapitalizzare la società con 133 milioni di euro per convincere le banche a non chiudere i rubinetti. Scongiurato il fermo dei lavori, a giugno del 2015, Eur spa ha firmato con i creditori un accordo sulla ristrutturazione del debito (che, già “scontato”, ammontava a 37 milioni di euro: li ha anticipati il Mef, dovranno essere restituiti entro il 2029). Infine: la vendita dell’albergo, la Lama, doveva essere una delle entrate più sostanziose. Ma ad oggi è ancora sul mercato e il suo valore, nel frattempo, è precipitato da 140 a 50 milioni di euro.

I tempi: la posa della prima pietra è di dicembre 2007, l’obiettivo era chiudere entro la fine del 2010. Gli ingegneri tedeschi di cui sopra hanno scritto in 2 anni 91 report per segnalare i ritardi da parte di Condotte, l’impresa costruttrice. L’allora amministratore delegato di Eur spa, il fedelissimo di Alemanno Riccardo Mancini, finito nei guai per Mafia Capitale, però li fa fuori: la vicenda è arrivata fino al Consiglio di Stato, che ha dato ragione alla Drees&Sommer.

Le cause: la chiusura del contenzioso con Condotte è attesa per l’anno prossimo e vede sul tavolo 200 milioni di euro di varianti in corso d’opera; sulla querelle giudiziaria coi tedeschi invece pesa una richiesta danni per 10 milioni di euro, oltre a circa 800 mila euro di fatture non pagate; perfino la parcella di Fuksas è finita nel mirino della Corte dei Conti e non è chiaro a quanto ammonti il totale degli eventuali risarcimenti dovuti. La maledizione della Nuvola, insomma, potrebbe continuare. Gufi, andate. Oggi è tempo di brindare.

Articoli di Fabio Tonacci e Giuseppe Scarpa, di Katia Bonchi, di Giovanna Trinchella e Marco Pasciutti. La Repubblica, il manifesto, IlFatto Quotidiano online, 27 ottobre 2016 (c.m.c.)

La Repubblica
«QUEL CEMENTO È COLLA»
LE GRANDI OPERE PILOTATE CON ESCORT E BUSTARELLE

di Fabio Tonacci e Giuseppe Scarpa

«Trenta arresti per il Terzo valico e la Salerno-Reggio Arrestato il figlio di Monorchio, indagato Lunardi jr.»

Nell’amalgama di imprese colluse, di relazioni tecniche taroccate per illudere sul rispetto delle tempistiche, di funzionari corrotti, affonda il segreto del perché, in Italia, le grandi opere pubbliche non finiscono mai. E del perché, quelle volte che arrivano a conclusione, si scoprono giganti con piedi di cemento scadente.

«Cemento che sembra colla», come dicono al telefono gli uomini che tale “amalgama” hanno creato attorno a due infrastrutture vitali per il paese - la linea dell’Alta Velocità Milano-Genova, l’autostrada Salerno- Reggio Calabria - e al progetto del People mover, che dovrà collegare l’aeroporto Galilei e la stazione di Pisa.

Due inchieste separate dei pm di Roma e Genova, “Amalgama” e “Arka di Noè”, condotte dal Nucleo investigativo provinciale del comando di Roma e dal tributario dalla Finanza, hanno portato all’arresto di 30 persone in tutta Italia, con le accuse di associazione a delinquere, corruzione, turbativa d’asta, tentata estorsione. Quattro di loro figurano in entrambe le indagini: il direttore tecnico Giampiero De Michelis, l’imprenditore Domenico Gallo (che pare avere legami con le ‘ndrine di Platì), Michele Longo e Ettore Pagani. Non due nomi qualunque, questi ultimi.

Oltre ad avere ruoli apicali nella Salini-Impregilo, il colosso delle costruzioni asso pigliatutto dei lavori pubblici in Italia (tra le altre cose, il Ponte di Messina), sono anche direttore e presidente del consorzio Cociv cui le Ferrovie dello Stato hanno affidato la realizzazione del Terzo Valico della Tav, un’arteria strategica tra Genova e Milano (del costo di 6,2 miliardi, fine lavori nel 2021). Nel consorzio, oltre a Impregilo, c’è la Condotte d’Acqua spa. Gli stessi attori del sesto macrolotto della Salerno-Reggio Calabria, che ha richiesto un investimento per lo Stato di 632 milioni di euro. Questo è il quadro. Ciò che racchiude la cornice è desolante, ma spiega molte cose.

Il personaggio chiave è il “mostro”, come è soprannominato De Michelis, il tecnico della Sintel di Giandomenico Monorchio chiamato per fare il direttore dei lavori delle tre opere, assumendo il ruolo di pubblico ufficiale. Il “mostro” conduceva le danze: invece di controllare le imprese subappaltatrici (tra cui anche la Rocksoil dell’indagato Giuseppe Lunardi, figlio dell’ex ministro del Pdl), ometteva. I procuratori aggiunti Michele Prestipino e Paolo Ielo l’accusano di non aver segnalato «le irregolarità nelle forniture di prefabbricati e nell’ingresso nei cantieri di mezzi e materiali non autorizzati », di essersi “dimenticato” di applicare penali per i ritardi, di aver permesso che venissero montati cordoli costruiti con calcestruzzo sbagliato. La sua “cecità” aveva un prezzo: ottenere appalti per aziende (Breakout, Oikodomos, Tecnolab, Mandrocle) riconducibili a lui e a Gallo. Per ottenere la compiacenza e chiudere qualche occhio, giravano anche mazzette e escort.

«Quel cemento sembrava colla, abbiamo rimandato indietro tre betoniere», si lamenta l’impresario Paolo Piazzai, quando si accorge di cosa erano fatte le miscele mandate dalla Breakout. Un suo collega aggiunge: «L’iniziale fornitura era acqua, la seconda non scendeva nemmeno dalla canalina e si intasa pure la pompa». In un altro caso il gruppo cerca di nascondere una gettata di calcestruzzo malfatta, priva delle previste strutture di contenimento. «La cassaforma non c’era! Perché avete firmato una cosa così», sbraita al telefono un imprenditore con Jennifer De Michelis, la figlia del direttore dei lavori.

«Valuteremo se ci sono le condizioni per chiedere il commissariamento di alcuni appalti: se necessario, siamo pronti a farlo», spiega il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone.

Il manifesto
TAV MILANO-GENOVA,
TANGENTI E INTIMIDAZIONI.
E C'È UN LEGAME CON MAFIA CAPITALE

di Katia Bonchi

«Trenta arresti . Decapitati i vertici del consorzio ligure che gestisce gli appalti per la linea ad alta capacità. Fra gli arrestati il figlio dell'ex ragioniere generale dello Stato Monorchio. Indagato Lunardi, figlio dell’ex ministro dei Trasporti»

Turbativa d’asta, metodi di intimidazione mafiosa, tangenti ed escort. La doppia maxi inchiesta sulle grandi opere della Procura di Roma e di quella di Genova rispettivamente sulla Salerno Reggio Calabria e sul Terzo Valico mette in luce che almeno per la parte genovese ha scatenato una bufera con l’azzeramento di fatto dei vertici del Cociv, il consorzio che gestisce gli appalti per la linea ad alta capacità che collegherà Genova a Tortona, opera in sei lotti dal costo complessivo di oltre 6 miliardi di euro.

Le Fiamme gialle a Genova hanno eseguito 14 ordinanze di custodia cautelare (24 in tutto gli indagati) per corruzione, concussione e turbativa d’asta. Tra i destinatari il presidente del Cociv Michele Longo, il suo vice Ettore Pagani e nove fra dirigenti e funzionari del consorzio. Tra gli arrestati figura il figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Monorchio.

Indagato Lunardi, figlio dell’ex ministro dei Trasporti. L’indagine ha scoperto un giro di appalti milionari truccati grazie a mazzette, escort e anche metodi di intimidazione mafiosa. In un caso l’indagine ha documentato il passaggio di soldi da 10 mila euro da un imprenditore a un dirigente Cociv. In un altro, un imprenditore offre una escort a un dirigente del Cociv in cambio di facilitazioni per l’appalto di una galleria che consentirà di depositare in cava parte dello smarino del Terzo Valico.

Al centro dell’inchiesta ci sono altri due casi di turbativa d’asta. Il primo è relativo al cosiddetto lotto Libarna per un valore di 67 milioni e assegnato alla ditta Oberosler di Trento. L’accusa è di collusione per i suggerimenti dati dai funzionari del Cociv all’azienda per correggere le ‘anomalie’ della sua offerta. Il secondo riguarda il Lotto Serravalle, da 189 milioni, assegnato alla Grandi Lavori Fincosit senza che venisse espletata la valutazione delle anomalie dell’offerta presentata.

C’è di più. Tra gli arrestati, quattro persone legano i due filoni di inchiesta: l’indagine dei carabinieri che ha portato a 21 arresti su richiesta della Procura di Roma nasce da uno stralcio dell’inchiesta su Mafia Capitale e riguarda anche 4 persone che hanno avuto a che fare con i lavori del Tav ligure. Oltre al presidente del Cociv Longo e al suo vice Pagani, ci sono l’ingegnere Giampaolo De Michelis e l’imprenditore calabrese Domenico Gallo. De Michelis, fino alla fine del 2015 è stato direttore dei lavori per il Cociv e avrebbe favorto l’ingresso dell’amico e compaesano Gallo nei subappalti per la fornitura di inerti e calcestruzzi tanto che uno dei dirigenti Cociv in un’intercettazione dice: «C’è troppa Salerno Reggio, è diventato un consorzio a gestione meridionale, troppi calabresi, non va bene».

De Michelis avrebbe fatto di tutto per togliere il subappalto per la fornitura alla ditta Allara di Casale Monferrato con ordini di servizio e minacce ai dirigenti Cociv. Poi misteriosamente un anno fa quattro mezzi della stessa ditta vengono pedinati e danneggiati. L’imprenditore di Allara non ha dubbi, e pochi sembrano averne gli inquirenti: «Questo furgone che girava dietro sono i calabresi di Chivasso collegati a quello, quel delinquente» dice riferendosi a Gallo che secondo il gip di Genova avrebbe contatti «con soggetti legati alla criminalità organizzata» e avrebbe partecipato alla cresima della figlia di Domenico Borrello, affiliato alla `ndrina Barbaru U Castanu di Plati´.

Il Fatto Quotidiano
GRANDI OPERE, LE INTERCETTAZIONI
«CEMENTO COME COLLA»
E CALCESTRUZZO CHE DEFLUISCE A CAZZO.
GIP:«SICUREZZA VIOLATA».

di Giovanna Trinchella e Marco Pasciutti

La scarsa qualità dei materiali è evidente, in primo luogo a chi dovrebbe vigilare sulla regolarità dei lavori. Dalle intercettazioni si comprende che questo tipo di problemi potrebbe riguardare i lavori sulla autostrada Salerno Reggio Calabria. A parlare è l'imprenditore calabrese Domenico Gallo, che il gip di Genova nella complementare indagine ligure descrive come personaggio che «risulta avere contatti con soggetti legati alla criminalità organizzata». Parlando dell'opera la definisce «non collaudabile».

«Cemento che sembra colla», «calcestruzzo che non ha una barriera fisica e defluisce un po’ a cazzo come gli pare a lui». È vario il frasario utilizzato dai protagonisti dell’inchiesta “Amalgama“ per descrivere la scadente qualità dei materiali utilizzati nei cantieri finiti sotto la lente d’ingrandimento della Procura di Roma. Qualità così scadente che, in un caso, le betoniere pronte a gettare cemento che vengono rimandante indietro «essendo il materiale assolutamente inutilizzabile». Il problema del calcestruzzo fornito dalla Breakout (secondo gli inquirenti di Roma riferibili agli arrestati Giampiero De Michelis e Domenico Gallo) appare davvero inquietante: all’inizio la fornitura era “acqua” mentre la seconda «non scendeva nemmeno dalla canalina e si intasa pure la pompa». Miscele, quindi, che «non erano assolutamente idonee». In un altro caso il “cemento” era «diverso da quello prescritto».

Il cemento che sembra colla

Il primo a svelare questo particolare è stato il procuratore aggiunto Paolo Ielo nella conferenza stampa durante la quale il magistrato ha citato un’intercettazione del 27 novembre 2015 in cui Paolo Brogani, responsabile della Divisione Coordinamento Infrastrutture e Viabilità di Cociv – Consorzio Collegamenti Integrati Veloci, general contractor a cui è affidata la progettazione e la realizzazione della linea Alta Velocità Milano-Genova – riceve lamentazioni a causa del «cemento che sembra colla». Anche perché a dire di un intercettato l’imprenditore Domenico Gallo «ha sempre avuto il vizio di mettere nel cemento troppo additivo».

La scarsa qualità dei materiali è evidente, in primo luogo a chi dovrebbe vigilare sulla regolarità dei lavori. Il 24 luglio 2015 Jennifer De Michelis, indagata, responsabile Qualità e Sicurezza per società Grandi Opere Italiane e figlia di quel Giampiero ritenuto dai pm cardine dell’intero sistema corruttivo, parla al telefono con il suo fidanzato Enrico Conventi, indagato, ispettore di cantiere nella costruzione dell’Alta Velocità Milano-Genova, della scarsa qualità del calcestruzzo utilizzato e cerca di convincerlo, scrive il Gip, a «falsificare gli atti del controllo per garantire mediante soluzione condivisa la tenuta del patto criminale».

L’intercettazione: «Poi vediamo chi se la cava peggio»

Illuminanti i virgolettati: «C’è il calcestruzzo della fondazione che che non ha una barriera fisica… ma defluisce un po’ a cazzo come gli pare a lui – protesta l’ispettore con la De Michelis – allora lì è un problema ancora una volta! Se mettiamo “non conforme” il problema è che non essendo conforme va aperta una non conformità per quello. Però io ho autorizzato il getto. Quindi sono nella merda anch’io. Quindi che cazzo dobbiamo fare?».

Conventi è terrorizzato perché «la firma è mia» e la responsabile Qualità e Sicurezza gli fornisce – scrive il gip – la «soluzione documentale al fine di occultare le irregolarità commesse e certificare la regolarità della gittata»: il suggerimento è quello di metterci «una bella X sopra (…) visto che sul progetto c’è scritto ‘gettato controterra‘ (…) O cresciamo tutti e ognuno si assume le proprie responsabilità e tutti quanti troviamo una soluzione condivisa o sennò ognuno pensa al culo suo. Poi vediamo chi se la cava peggio».

Il gip: «Violate sistematicamente le procedure di sicurezza»

È il gip a fotografare in maniera inequivocabile la situazione: «Gli indagati (…) violano sistematicamente le procedure di sicurezza e di qualità delle opere realizzate grazie alla compiacenza della direzione dei lavori». «I risultati – scrive ancora Sturzo – di solito sono noti per altre esperienze accertate nel campo delle indagini degli uffici giudiziari; cosi poi emergeranno i cementi depotenziati, gli inerti di scarsa qualità, il ferro e gli acciai non conformi, gli asfalti diversi per qualità e quantità a quelli dei capitolati». Cause, scrive ancora il magistrato, alla base dei crolli e dei malfunzionamenti di cui sono protagonisti le opere pubbliche: «Questi artifici truffaldini saranno la matrice dei crolli spontanei o indotti dai terremoti e dall’uso, di migliaia di opere pubbliche consegnate come gioielli della tecnica ma, alla luce di ciò che solitamente si accerta, in molti casi frutto di gravissime truffe ai soggetti pubblici».

La Salerno Reggio Calabria «opera non collaudabile»

Dalle intercettazioni si comprende che questo tipo di problemi potrebbe riguardare i lavori sulla autostrada Salerno Reggio Calabria. A parlare è l’imprenditore calabrese Domenico Gallo, che il gip di Genova nella complementare indagine ligure descrive come personaggio che «risulta avere contatti con soggetti legati alla criminalità organizzata». «Dici ma io posso pensare pure perché eh m’avete fatto revocare pure l’incarico mi avete spinto pure voi perché non firmo quello che volevate … e io … Allora io le so tutte e tenete conto di un’altra cosa allora che qua caschiamo e tutta la Salerno Reggio Calabria, dell’opera non collaudabile, dell’arbitrato… Ed io le relazioni gli dici… che le troviamo… di quando dovevate chiudere a 40 milioni (inc) è stato trasferito apposta e cosa ora qua o fate le persone per bene completiamo il ciclo e poi mi mandate a fanculo però io 10 adesso devo completare perché cosi vi siete messi d accordo tutti per mettermi in mezzo ad una strada? Io mi difendo». Ad ascoltare c’è l’ingegnere Giampiero De Michelis, direttore dei lavori del Cociv, che con Gallo, secondo gli inquirenti, avevano innescato un ricatto nei confronti di Giandomenico Monorchio.

«"Una torta da oltre 90 miliardi ma si sceglie senza serie valutazioni" Riescono a far male perfino ciò che,ci considerano - secondo una criminale strategia di rottamazione del territorio - "uno dei principali motori della crescita"». La Repubblica, 10 ottobre 2016 (c.m.c.)

Quando due anni, sette mesi e 18 giorni fa si insediò il governo Renzi, la macchina delle opere pubbliche era ridotta più o meno così: progetti portati avanti senza uno straccio di valutazione, zero risorse o quasi per interventi salva-vita come la difesa del suolo e la messa in sicurezza degli edifici, fondi europei non spesi o sprecati in una miriade di micro-interventi affidati alla cieca a Comuni e Regioni, dieci anni di attesa e più per il completamento di infrastrutture di oltre 50 milioni di euro.

Cosa si è fatto da allora per aggiustare quello che è considerato uno dei principali motori della crescita? Un fatto è certo: gli investimenti pubblici si stanno lentamente riprendendo dopo il crollo verticale degli anni scorsi e ci sono più soldi da spendere. Ma le grandi opere di collegamento come l’alta velocità ferroviaria sono ancora in gran parte prive di un serio esame preventivo e ciononostante hanno a disposizione molte più risorse delle opere salva-vita, quelle che dovrebbero prevenire alluvioni, frane, crolli di edifici e incidenti ferroviari. Le quali hanno sì più soldi di prima ma non quanto sarebbe necessario. E intanto l’Ufficio parlamentare di bilancio denuncia la assoluta incapacità dei ministeri nel valutare i progetti e l’assenza di una seria programmazione nazionale.

Mai forse come in questo momento il ruolo degli investimenti, e in particolare delle opere pubbliche, è stato così cruciale per le chance di crescita del nostro Paese. Dal loro successo o meno dipende se l’Italia resterà impantanata nella malinconica teoria degli zero virgola o riuscirà a prendere il largo superando la soglia maledetta dell’1%, sempre più simile alla porta che nel film di Bunuel “L’angelo sterminatore” gli invitati non riescono a oltrepassare alla fine della serata. Situazione surreale come surreale è la condizione in cui sono stati tenuti in tutti questi decenni gli investimenti pubblici. Eppure non c’è politico che non li abbia evocati come arma risolutiva contro la crisi. Sono diventati uno stucchevole refrain, un mantra tanto insistito quanto inascoltato. Il governo Renzi cerca ora di rimettere in moto le infrastrutture, puntando su 90 miliardi di opere prioritarie. Vediamo con quali risultati.

Le risorse: adesso ci sono

L’Italia ha vinto due battaglie con Bruxelles ottenendo da una parte la fine del patto di stabilità interno che impediva a molti Comuni di investire e dall’altra la possibilità di finanziare in deficit parte degli investimenti già decisi: avevamo chiesto per il 2016 poco più di 5 miliardi, la Ue ce ne ha riconosciuti 4,3. Non male. In più (come spiega l’Ance in un suo recentissimo studio) la legge di stabilità di quest’anno ha previsto un aumento di risorse per le infrastrutture del 10%, che le porta a 13 miliardi e mezzo. Ovviamente solo una piccola parte potrà essere spesa quest’anno. Ma l’inversione di tendenza c’è, soprattutto se pensiamo che tra il 2008 e il 2015 i soldi per le opere pubbliche sono crollati del 42,6%. Questa volta dunque i soldi ci sono. Come si stanno spendendo e con quali priorità?

Le priorità: cosa scegliere

Qualcuno ricorderà la lunghissima lista di infrastrutture che i governi precedenti avevano agganciato al carro della “legge obiettivo”, una procedura straordinaria nella quale finì letteralmente di tutto, a cominciare dalle grandi opere, quasi tutte rimaste al palo.

Un anno fa il governo Renzi sfoltì quella assurda lista annunciando anche che avrebbe spostato l’asse degli interventi sui piccoli cantieri, più facilmente realizzabili e in molti casi anche più utili dei maxi-progetti. «Focalizzarsi sulle grandi opere – spiegò il ministro Delrio - ci ha portato in 14 anni di legge-obiettivo a stanziare 285 miliardi per vederne impiegati soltanto 23, appena l’8%». «Opere utili, snelle e condivise», è lo slogan del Def 2016. Ma le grandi opere, pur dimezzate nel novero di quelle prioritarie, sono rimaste, soprattutto quelle ferroviarie di valico, prolungamento dei corridoi europei, e quelle per l’alta velocità al Sud. A queste, almeno nelle intenzioni di Renzi, si aggiungerà anche la madre di tutte le infrastrutture: il Ponte sullo Stretto.

Nello stesso tempo, però, viene data per la prima volta certezza di risorse pluriennali al riassetto idrogeologico, all’edilizia scolastica e alla manutenzione stradale e ferroviaria. Così il governo sembra voler dare una risposta a due grandi obiettivi contemporaneamente: da una parte collegare l’Italia, dall’altra metterla in sicurezza. Ma in che proporzione le risorse sono destinate all’uno e all’altro? Difficile inoltrarsi nel labirinto dei finanziamenti pubblici. Prendiamo le opere che il governo potrebbe ora accelerare: quei 5,1 miliardi poi leggermente ridimensionati da Bruxelles. La parte del leone (circa la metà) la fanno trasporti e banda ultralarga per velocizzare Internet, mentre solo il 5% va alla protezione ambientale. Se poi restringiamo il campo ai progetti effettivamente in corso (2,6 miliardi) quasi il 40% va alle reti transeuropee con dentro i famosi corridoi ferroviari.

Questo non significa che non vi siano fondi per i cantieri minori e spesso più urgenti. L’Ance calcola in 900 milioni la disponibilità 2016 per l’edilizia scolastica e in 800 quella contro il rischio idrogeologico. C’è chi fa notare però che bisognerebbe concentrarsi quasi esclusivamente sul quel tipo di infrastrutture, che potremmo chiamare “opere salva- vita”, perché rispetto alle “opere di collegamento” presentano carenze infinitamente maggiori, oltre a garantire una crescita economica più diffusa e certa.

I fabbisogni del salva-vita

Per avere un’idea di fabbisogno delle infrastrutture salva-vita, guardiamo alla difesa del suolo e alla sua lotta impari con le catastrofi. Nei primi quindici anni del nuovo millennio, abbiamo da una parte duemila alluvioni che hanno spazzato via 293 vite umane e provocato danni per 3 miliardi e mezzo di euro l’anno. Dall’altro, un impegno dello Stato per il riassetto idrogeologico che non è andato oltre i 400 milioni annui.

Insomma, i poteri pubblici hanno investito per prevenire catastrofi in gran parte prevedibili un nono dei costi provocati dalle stesse catastrofi. Ora Italiasicura, la “struttura di missione” messa in piedi nel 2014 contro il dissesto idrogeologico, ci dice che il ritmo di spesa è aumentato a oltre un miliardo l’anno, e che tra fondi europei e nazionali saranno disponibili nei prossimi 7 anni altrettanti miliardi. Ma ci dice anche che questo non basta affatto: per dare alla parola prevenzione un significato appena dignitoso ci vorrebbe almeno il doppio, da spendere per più di dieci anni consecutivi. Solo così potremmo sperare di avvicinarci al fabbisogno indicato dalle Regioni: una ventina di miliardi.

Per adesso gli unici progetti che vanno avanti sono quelli di alcune città metropolitane, a partire da Genova, devastata dalle ultime alluvioni, e da Milano. E il grosso degli interventi sarà avviato solo nel 2018. Insomma, i tempi e i finanziamenti delle opere saranno anche meno lenti di prima ma sono ancora scanditi dal trascorrere degli anni, mentre torrenti e frane non aspettano. E se rinunciassimo ad alcune grandi opere per dare più spazio alle infrastrutture salva-vita? Una domanda alla quale se ne lega un’altra: quelle grandi opere confermate dal governo sono veramente utili? Chi le ha scelte e come?

Chi valuta e chi sceglie

Il governo, oltre a selezionare le nuove grandi opere, ha rivoluzionato le regole nella valutazione degli investimenti e negli appalti. Obiettivo: più qualità e trasparenza, tempi più rapidi, scelta delle opere in base a valutazioni rigorose, le cosiddette analisi costi-benefici. «Già, tutte buone intenzioni – dice Claudio Virno, esperto in valutazioni degli investimenti e consulente dell’Ufficio parlamentare di bilancio - ma questo sembra applicarsi ai progetti futuri, non a quelli in corso per i quali pare che il governo voglia mantenere le vecchie procedure, che di rigoroso non hanno nulla».

Sotto esame finiscono importanti opere ferroviarie per l’alta velocità: il terzo valico della Milano- Genova, il tunnel del Brennero, quello del Frejus della Torino- Lione, la Napoli-Bari. «Queste ultime due in particolare – continua Virno – non supererebbero test seri: hanno chiaramente sopravvalutato la domanda, il traffico futuro». Ma del resto abbiamo avuto un ministro dei Trasporti, predecessore di Delrio, che rispose così a quelle critiche: «Per le grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico arriverà». «L’aspetto più drammatico – rincalza Marco Ponti, che insegna economia dei trasporti al Politecnico di Milano - è la irreversibilità dei progetti: una volta che li approva il Cipe non si torna più indietro. Prima di far partire un progetto, bisognerebbe fare una gara internazionale con serie valutazioni comparative tra soluzioni diverse.

Oggi invece le analisi non vengono fatte o vengono demandate ai diretti interessati. I trucchi per far passare i progetti politicamente più gettonati sono molteplici. Pensi che c’è una leggina per cui quando un’opera è interamente finanziata dallo Stato (e le opere ferroviarie lo sono tutte) non è richiesta nessuna analisi economica o finanziaria. Ossia, se l’opera è pubblica i soldi si possono anche buttare dalla finestra. La conclusione è che ci sono una trentina di miliardi di progetti che rischiano di non essere valutati a dovere». Ma il ministero delle Infrastrutture la vede in modo diametralmente opposto: «Questa era la situazione fino ad oggi, ma ora con la nostra struttura di missione, fatta di esperti di livello internazionale, abbiamo rivisto moltissimi progetti facendo risparmiare miliardi di euro». Il problema però è che su 90 miliardi di opere prioritarie, 50 sono vincolati giuridicamente e 75 già approvati dal Cipe.

Strutture di missioni, valutatori esterni: ecco, per far funzionare una amministrazione pubblica, sembra che ci si debba per forza rivolgere a qualcuno al di fuori dei ministeri. Ma allora che ci stanno a fare le centinaia di funzionari e dirigenti? Se lo chiede l’Ufficio parlamentare di bilancio in suo recente studio. «I ministeri non dispongono di personale interno con le competenze professionali specialistiche necessarie, e lo stesso si può dire per i Nuclei di valutazione. Non c’è scambio di informazioni all’interno, non sono mai state applicate sanzioni per chi non fa il suo dovere ». In queste condizioni non c’è da stupirsi se i progetti sono fatti male e si impantanano in un crescendo di tempi e di costi.

Per non parlare del diluvio di sigle che ruotano intorno alla scelta delle opere: in ogni ministero ci sono i Nuvv (nuclei di valutazione degli investimenti), ai quali si affiancano a Palazzo Chigi il Nuvap, l’Uftp e il Nuvec che fa capo all’Agenzia per la coesione territoriale. A tutte queste sigle si chiedeva di scrivere almeno una cosa: il documento pluriennale di pianificazione, con l’analisi di tutti fabbisogni infrastrutturali. Ma questo documento è ancora fantasma, come sono fantasma le Linee guida per la valutazione. Niente paura, nel frattempo sono stati preparati i Vademecum che faranno da guida alle Linee guida.

Un percorso kafkiano che l’Ufficio bilancio chiama eufemisticamente «quadro istituzionale molto frammentato». Come frammentato è il quadro delle competenze, dove Regioni e Comuni hanno il potere di rallentare ogni opera e di aprire un contenzioso dopo l’altro portando l’Italia ai vertici mondiali dei ritardi.

Di fronte a questo affresco di deresponsabilizzazioni, si capisce come in tutti questi anni siano finiti i soldi dei progetti europei: da una parte in maxi-opere che si sono presto impantanate con costi e tempi fuori controllo, dall’altra in migliaia di micro-progetti locali che non rientrano in nessuna strategia nazionale.

I disastri di un territorio fragile rivelati dai terremoti sono aggravati e spesso provocati dagli interventi sbagliati (a partire dalle grandi opere). I loro effetti sarebbero ridotti o scongiurati se i intervenire con politiche lungimiranti: ma una classe dirigente che privilegia gli affari sul buongoverno è incapace di comprenderlo e di farlo. Il manifesto, 25 agosto 2016

L’Italia, la parte più bella e più vera del suo territorio e delle sue comunità, si sta disfando. Manca la manutenzione, ordinaria e quella straordinaria. I danni e le vittime, i lutti e i costi provocati dall’ultimo terremoto ne sono solo l’ennesima conferma. Con venticinque milioni di abitanti che vivono in zone ad alto rischio sismico, niente è stato fatto né predisposto per prevenire tragedie e devastazioni, che a detta di tutti i geologi, avrebbero potuto essere evitate. Ma dove non arrivano i terremoti provvede il dissesto idrogeologico: in parte provocato dall’abbandono di terre, insediamenti e attività non sostenuti da interventi pubblici per garantire tutto quello che potrebbero dare al resto del territorio; in parte, ma soprattutto, provocato dalla cementificazione selvaggia: sia quella abusiva; sia contrattata o promossa direttamente da “autorità” che avrebbero l’obbligo primario di salvaguardare il territorio e invece lo svendono per “salvare” i bilanci; sia imposta dall’alto, con quelle Grandi Opere contro cui si battono (per ora senza successo, con l’eccezione della Valle di Susa) le comunità locali.

Quella delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi (per “far ripartire il paese”, che invece affossano) è una logica perversa che impregna la politica istituzionalizzata in ogni sua articolazione. Non ci sono solo il Mose (che probabilmente dovrà essere smontato e portato via, perché, come previsto, non funziona), il Tav Torino-Lione o il sottopasso Tav di Firenze (che non verranno mai realizzati dopo aver inghiottito centinaia di milioni) e tante altre opere incompiute o inutili (come l’autostrada Brebemi, dove non passa quasi nessuno).

L’area più a rischio del paese, il crinale appenninico centro-meridionale, invece di venir messo in sicurezza antisismica, verrà attraversato da un gigantesco gasdotto che dalle Puglie dovrebbe rifornire tutto il resto dell’Europa (e che una scossa sismica potrebbe far esplodere in qualsiasi punto del suo tracciato), da progetti di trivellazioni e geotermici mortiferi per la qualità del paesaggio e delle produzioni agricole, e dall’autostrada Orte-Mestre, che la mancanza di fondi aveva temporaneamente cassato, ma che ora, con la “flessibilità”, concessa dall’Ue, è stata resuscitata.

Ed è sempre la logica delle Grandi Opere quella che impedisce di affrontare il più urgente di tutti i programmi in cui dovrebbe impegnarsi l’Italia (insieme a tutto il resto del mondo): quello della conversione ecologica, e innanzitutto energetica, del paese. Perché sia la conversione ecologica che la manutenzione del territorio non sono fatte solo da tante piccole opere studiate a misura del territorio e delle esigenze delle sue comunità, come ormai hanno capito in tanti, mentre il governo da questo orecchio proprio non ci sente. Entrambe richiedono anche un’inversione della logica che lega la politica agli affari; al punto che, per l’attuale classe dirigente, dove non ci sono affari non c’è politica; oppure deve essere la politica a creare l’occasione di nuovi affari: spendendo denaro sottratto ai cittadini e alla soddisfazione delle loro esigenze, devastandone il territorio, promuovendo la corruzione, creando e mantenendo un universo di finti imprenditori che senza appoggi di Stato non saprebbero mettere insieme due mattoni (altro che liberismo!).

Quattro cose da fare

Eppure, gran parte delle condizioni per un cambio di rotta ci sono. Il problema è metterle insieme, e non è una cosa facile; ma soprattutto occorre sbarazzarsi dell’attuale classe dirigente, abbarbicata alla logica perversa dell’identità tra politica e affari che ha presieduto, irreversibilmente, alla sua formazione.

Come? Innanzitutto, contro il trend che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che la riforma costituzionale di Renzi vorrebbe consolidare, va rivendicata piena autonomia fiscale e decisionale ai territori: ai Comuni, alle istituzioni del decentramento, alle unioni di piccoli Comuni che la legge prevede ma che non sono mai state fatte. E’ sul territorio, nelle comunità, che i problemi della vita quotidiana si conoscono, si possono individuare e tradurre in progetti; ed è lì che si può esercitare un controllo sulla loro selezione e realizzazione, promuovendo la partecipazione dal basso.

In secondo luogo bisogna valorizzare il sapere diffuso sul territorio: le comunità sono piene di saperi tecnici, di esperienze professionali, di passione e di conoscenze di qualche caratteristica del loro habitat, fondamentali nell’orientare il dibattito sulle iniziative da intraprendere, e il controllo su quello che viene fatto. La democrazia partecipata è anche e soprattutto questo.

In terzo luogo, bisogna far emergere una nuova imprenditoria. Inutile contare sulla trasformazione dei politici in finti imprenditori; o continuare ad accettare che l’imprenditorialità si trasmetta di padre in figlio. Quella serve solo, e neanche sempre, a perpetuare l’attuale assetto degli affari. Se invece si vuole promuovere una vera imprenditoria sociale, bisogna andare a cercarla là dove si sta già manifestando: nella capacità di far lavorare insieme un gruppo grande o piccolo di persone che condividono una o più finalità comuni.

Poi, ed è la cosa principale, bisogna distribuire il lavoro tra tutti e dare a tutti la possibilità di lavorare: a ciascuno secondo le sue capacità e le sue potenzialità. Solo il progetto di un grande piano nazionale (ed europeo) di piccole opere, finalizzato a creare lavoro aggiuntivo per chi non ce l’ha, come aveva proposto Luciano Gallino, può mettere in moto questo processo. Tutti vuol dire tutti: giovani e anziani (secondo le loro possibilità); uomini e donne; occupati e disoccupati; nativi, immigrati e profughi. Di cose da fare ce n’è per tutti, per tutti i livelli di professionalità, di capacità e di vocazione, e per molti anni.

I disastri e i lutti provocati dall’ultimo terremoto possono essere un’occasione per riflettere su questa prospettiva; per capire che la ricostruzione può essere pensata e realizzata in questo modo, invece di ripetere i disastri che sono state – e ancora sono – la falsa ricostruzione de L’Aquila, dell’Irpinia, del Belice. Non c’è niente di irrealistico nel voler seguire una strada diversa. Anzi, sarebbe sicuramente più efficace, un esempio per introdurre una logica diversa in tanti altri territori che non sono stati colpiti dal terremoto, ma che hanno anche loro da far fronte a grandi e piccoli dissesti.

In tre articoli il racconto di uno scempio programmato per infilzare l'Abruzzo con uno spiedo autostradale sventrando siti protetti e paesaggi incontaminati. C'è chi denuncia e resiste. Il manifesto, 18 agosto 2016 (c.m.c.)

IL PIANO PER
SVENTRARE L'ABRUZZO

A Cocullo, nell’Aquilano, il casello autostradale dell’A25 è a circa un chilometro e mezzo dal paese. Duecentocinquanta abitanti («in estate di più»), circa mille metri d’altitudine, è borgo celeberrimo nel mondo per l’annuale processione del primo maggio, con la statua di San Domenico avviluppata da centinaia di serpi catturate, nelle precedenti settimane, dai suoi residenti, tra pietre e cespi d’erbe.

L’autostrada qui è arrivata neppure tanto tempo fa, nel ’78. «È una risorsa – dice il sindaco neo eletto Sandro Chiocchio -, soprattutto per il turismo, che è occasione da cogliere in una realtà che, di fatto, per crescere, deve sfruttare bellezze e tradizioni del territorio. Ora a rischio sono sia l’autostrada sia gli splendidi scenari montani».

Perché in ballo c’è un progetto del gruppo imprenditoriale Toto, che gestisce la rete autostradale A24 (L’Aquila-Roma) e A25 (Pescara -Roma), la cosiddetta «Strada dei Parchi» – dal pedaggio tra i più costosi d’Italia – «il più rapido collegamento diretto tra Tirreno e Adriatico, infrastruttura di trasporto di elevato valore economico e strategico», si legge nel sito internet della holding che intende sventrare e asfaltare l’Abruzzo, in lungo e in largo.

Il piano prevede infatti la realizzazione di varianti, assi di penetrazione e di interconnessione, tunnel a volontà con paesaggi annientati, costoni rocciosi bucati e falde che verrebbero intaccate in maniera irreversibile, con una “monumentale” perdita di acqua. Progetto che nasce dall’interesse di un privato e non da programmazione statale: dieci anni di lavori, interventi per 6 miliardi. Niente fondi pubblici ma aumenti certi dei pedaggi (inevitabili, perché il treno per compiere quello stesso percorso, su una monorotaia, impiega più del doppio del tempo) e la società promotrice in cambio guadagnerebbe la gestione del tratto autostradale per altri 45 anni (oltre ai 28 già stabiliti).

«Ricostruire invece che mantenere».

L’idea è di rimodulare l’autostrada esistente in «considerazione della classificazione di A24 e A25 quali opere strategiche per finalità di protezione civile». Inoltre – recita il progetto preliminare – c’è necessità «di adeguamento e messa in sicurezza dei viadotti e degli impianti in galleria». Per sopperire alle carenze e per ammodernare sarebbero necessari interventi di manutenzione straordinaria e invece… Invece si vuole smantellare e ricostruire, cambiando tragitto, aggiungendo, distruggendo.

Le carte, tra continue revisioni, raccontano di demolizioni di tronchi autostradali, apertura e chiusura di caselli, raccordi e svincoli elevati qui e là. È prevista la realizzazione di 10 tunnel, a doppia canna più corsia d’emergenza, per circa 50 chilometri complessivi, in zone altamente sismiche. Un progetto faraonico, con distruzione e stravolgimento irreversibile dei territori (nella mappa, in rosso in nuovi tratti da costruire). Per quali fini? Perché, secondo Toto, è più agevole rifare che aggiustare. Adeguare significherebbe, viene fatto presente, «cantieri sulla viabilità autostradale, con necessità di chiusura delle tratte soggette a lavori, con ripercussioni notevoli sul comfort di viaggio…». Per scongiurare ciò, ecco colate infinite di cemento e catrame.

Sulla nuova autostrada – viene ancora specificato – «la velocità massima potrà essere di 130 chilometri orari, come da legge, mentre attualmente la velocità media possibile è di 90 chilometri, per la presenza delle elevate pendenze longitudinali, per le alte quote». Queste le motivazioni addotte e gli ambientalisti si sono infuriati. «Si promuove il progetto – spiegano – ipotizzando risparmi di tempo immaginari e comunque di manciate di minuti e sostenendo che adesso la velocità media di percorrenza possibile è di 90 km/h come si legge nel parere favorevole di un dirigente della Regione Lazio! Con la nostra esperienza diretta fatta, più volte, con un misero Pandino e senza superare i limiti ci pare di poter smentire questo dato. Inoltre, allontanando l’autostrada dalla Valle Peligna, dalla Valle del Sagittario, dalla Valle del Giovenco, e dall’Alto Sangro, non si è calcolato che i tempi di percorrenza per molti cittadini aumenterebbero a dismisura».

Le montagne bucate

«Nel progetto – rileva il coordinamento “No Toto – Salviamo l’Abruzzo” che abbraccia decine di associazioni, comitati, movimenti, partiti e sindacati – oltre alle varianti, si prospetta una doppia galleria tra il territorio del Parco nazionale d’Abruzzo e Roccaraso, con traforo sotto la Montagna Grande e il Genzana. Ipotesi incredibile e costi assurdi per limitatissimi volumi di traffico. Le zone interne verrebbero letteralmente massacrate, con tunnel che andrebbero a martoriare gioielli ambientali unici in Europa».

Solo il massiccio del Sirente, dove c’è l’unico cratere da impatto di meteorite italiano, verrebbe devastato con un traforo di 12,75 km e con altre due gallerie di 2,3 km e 3,9 km che sarebbero collegate ad un viadotto sulle Gole di San Venanzio. I Monti Simbruini sarebbero perforati per 9,88 km. «Abbiamo sovrapposto i tracciati con i perimetri delle aree protette – sottolineano dal coordinamento – : sarebbero direttamente coinvolti il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise; il Parco regionale del Sirente-Velino; la Riserva del Monte Genzana e quella delle Gole di San Venanzio, senza considerare le riserve limitrofe: di San Domenico a Villalago e delle Gole del Sagittario». La Val Vomano (Teramo), che presenta ancora un po’ di agricoltura, sarebbe distrutta da 24 chilometri di strade «con consumo di suolo irreparabile e risibili vantaggi a fronte di spese assurde».

In Valpescara il comune di Spoltore e la frazione di Santa Teresa verrebbero separate da una bretella: quest’ultima sarà ridotta ad uno spartitraffico. Progetto avallato dalla Regione Abruzzo ma che il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha finora ricusato. E decine di Comuni – delle province di L’Aquila, Teramo e Pescara – sono sul piede di guerra. Grandi e piccoli. «Basta affacciarsi da queste parti – riprende il sindaco Chiocchio – per rendersi conto delle condizioni, da denuncia, in cui versano alcuni piloni autostradali. Se la cura dell’esistente è già scarsa, chi gestirebbe la costosissima manutenzione dei lunghi tratti che verrebbero dismessi? Siamo contro perché il progetto è deleterio e taglierebbe fuori l’intera zona dai principali collegamenti viari. Senza contare il disastro ambientale».

La Valle del Sagittario – con Cocullo, Villalago, Anversa – vanta ambienti esuberanti – con canyon ed eremi -, tutelati per le loro caratteristiche. È rifugio di animali selvatici, dai lupi all’orso bruno marsicano, che qui è autoctono. E che di sicuro, al bitume, preferisce ciliegi da razziare.

TUTTI CONTRO IL PROGETTO TOTO
TRANNE REGIONE E PD

«Cinquanta chilometri di tunnel, lunghi come cinque trafori del Gran Sasso. Parchi, riserve e aree protette deturpati. Impatti irreversibili, comunità isolate, connotati della regione modificati, sfigurati».

Il progetto del gruppo imprenditoriale Toto di abbattere e in parte rifare le autostrade A24 e A25 ha «incocciato» la resistenza di un Abruzzo deciso a bloccare la proposta. «Abbiamo una visione alternativa della gestione del territorio – dicono gli ambientalisti, i primi a scendere in campo dopo essere riusciti a scovare mappe ed elaborati tecnici nascosti a lungo dalla Regione – ed è basata sul rilancio del trasporto pubblico collettivo, a partire dalle ferrovie, e sul risanamento del territorio, l’unica vera grande opera necessaria: dalla depurazione alle bonifiche, passando per il dissesto idrogeologico».

Invece piace tanto alla Regione Abruzzo il progetto e, in particolare, piace al presidente Pd Luciano D’Alfonso, che spinge e accelera.

In Regione, con delibera 325 del 5 maggio 2015, per seguire la faccenda, è stato istituito un Gruppo interdipartimentale che, il 6 giugno scorso, ha emesso un primo parere tecnico favorevole. Questo nonostante esistano più versioni del progetto (l’ultima del 13 aprile) e che una nuova sia in fase di predisposizione. Senza sapere quali saranno le variazioni, senza interpellare le comunità locali, tenendo ben celati pezzi di documenti e delibere, è stato detto sì ai mastodontici interventi.

Pur rilevando, comunque, che bisogna considerare «l’impatto delle gallerie a livello idrogeologico, anche in relazione alle problematiche che emersero durante la realizzazione del traforo del Gran Sasso». E pur evidenziando che l’autostrada in programma attraversa almeno tre «faglie pericolosamente attive» (del Fucino, dei Monti Capo di Moro-Ventrino e della Valle Subequana), quindi sarebbe un percorso «ad alto rischio sismico rispetto all’attuale tracciato». Anche per ciò il fronte del no cresce, si allarga giorno dopo giorno, è ampio ed è trasversale, anche a livello politico. Per le ragioni più disparate.

«Le decine di chilometri di scavi attraverserebbero montagne carbonatiche letteralmente piene d’acqua, la risorsa più preziosa – sottolinea Augusto De Sanctis, del Forum Acqua e coordinamento «No Toto» -. Stiamo parlando del patrimonio idrico con cui ci dissetiamo e che alimenta fiumi e sorgenti utili a industria ed agricoltura. Ebbene, considerando solo i trafori, sarebbero toccati almeno 10 corpi idrici sotterranei di interesse, più di un terzo di quelli dell’Abruzzo e tra i più significativi, un’enormità nell’epoca dei cambiamenti climatici. Ricordiamo – viene aggiunto – che il traforo del Gran Sasso, che ha comportato danni irreversibili alla falda abbassandola di 600 metri, era lungo solo 10 chilometri».

Contro, finora, si sono espressi Forza Italia, Ncd, Abruzzo Futuro, Sel- Sinistra italiana, Radicali, Italia Unica, Rifondazione comunista. Il Partito democratico è (come al solito) spaccato. Si oppongono Cgil e Cobas.

Il Movimento 5 Stelle ha presentato un’interpellanza parlamentare urgente per avere lumi. E, in risposta, dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, l’opera è stata definita «non sostenibile sotto il profilo tecnico, amministrativo, giuridico ed economico-finanziario». Fa presente il deputato grillino Gianluca Vacca: «È stata di fatto certificata la totale mancanza di qualsiasi presupposto normativo e amministrativo, confermando che gli unici lavori possibili sono appunto quelli di manutenzione e messa in sicurezza dell’attuale percorso, per un investimento totale stimato di circa un miliardo».

«Un progetto di tale portata calato sul territorio senza informare le istituzioni locali, senza chiarezza, senza confronto: è inaccettabile», tuona il sindaco di Sulmona, Annamaria Casini, che guida una coalizione di centrosinistra e dal cui Consiglio comunale è arrivata una unanime bocciatura all’iniziativa. «Insieme ad altri trenta Comuni, per capirci di più, per approfondire, stiamo promuovendo riunioni, anche di carattere tecnico scientifico. Di fronte ad interessi imponenti, bisogna tenere alta la guardia. Il territorio lavorerà coeso, per evitare di essere deturpato, pensando al proprio sviluppo. Altrimenti chi ci difenderà?».


GLI INTRECCI
DEL POTERE CEMENTIZIO

«Dati i notissimi legami Luciano D’Alfonso-Toto, confermati dai procedimenti giudiziari che li hanno riguardati e li riguardano, il presidente della Regione Abruzzo farebbe bene a dimettersi e andare a lavorare direttamente nel gruppo (anche il ruolo nell’Anas appare incompatibile)».

La stoccata, frontale, al governatore dell’Abruzzo parte da Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista, e l’occasione è data proprio dallo «scellerata trovata di Toto di adeguamento dell’autostrada A24/A25».

Un progetto inopportuno, secondo Acerbo, e «D’Alfonso – afferma – da esperto di infrastrutture e dirigente dell’Anas non può non sapere che l’operazione che sta sponsorizzando rappresenta una forzatura enorme, anche sul piano normativo e non solo su quello dello scempio ambientale».

L’accoppiata Toto-D’Alfonso, come ricorda l’esponente di Prc, è sinonimo di intrecci affari-politica che più d’una volta sono finiti all’attenzione della magistratura. È ancora in corso il processo sulla strada fantasma Mare-Monti a Penne, nato in seguito a proteste di Wwf e Prc e che ruota intorno ad un appalto da 22 milioni di euro, che prevedeva la realizzazione di un viadotto che sarebbe passato nel perimetro della riserva naturale del lago di Penne. Area protetta salvata dall’intervento di Forestale e carabinieri. «Quasi un’anticipazione – dice Acerbo – della mega devastazione che oggi, con questo nuovo progetto, propongono».

Risale invece al 2008 l’arresto di D’Alfonso, allora sindaco di Pescara e segretario regionale del Pd, per presunte tangenti in appalti pubblici. Tra i 21 indagati – per concussione, corruzione, falso e abuso – anche il patron di Air One, Carlo Toto, suo figlio Alfonso e tecnici del Comune.

Secondo l’accusa i Toto avevano riempito il primo cittadino di regali per ottenere lavori, tra cui l’affidamento in concessione dei parcheggi dell’area di risulta a Pescara. Alla fine – nel cosiddetto processo “Housework” perché in ballo c’erano anche interventi alla villa di D’Alfonso – è stato acclarato, con sentenza di assoluzione, che tutti quei “doni” a D’Alfonso c’erano stati ma erano conseguenza di un’amicizia di vecchia data: un’auto con autista per tre anni, dal settembre 2004 al gennaio 2007, pagata dai Toto; voli gratis sulla compagnia area di proprietà, pranzi e cene per circa 11 mila euro, viaggi, benefit, contributi. «D’Alfonso, che si è avvalso anche della prescrizione, è operativo più di prima.

Di recente – sottolinea Acerbo – ha infatti annunciato quella che ha definito una nomina storica, ossia quella di un architetto abruzzese nel Consiglio superiore dei Lavori pubblici (Gianluca Marcantonio, ndr).

Per la prima volta – ha detto D’Alfonso – un abruzzese entra nell’organismo. E guarda caso l’illustre designato è stato testimone della difesa in un suo processo. Dato il rapporto con D’Alfonso non so se questa nomina gioverà all’Abruzzo, – conclude Acerbo – considerato il ruolo che il presidente sta svolgendo di sostegno a progetti al di fuori della programmazione regionale, come quello dell’A24/A25».

«Dopo che il Tar ha bocciato il progetto di scalo intercontinentale caro a Renzi&Carrai, il sindaco Nardella e il viceministro Nencini replicano che alla fine decideranno i ministeri dell'ambiente e dei trasporti. Con un accentramento dei poteri a livello centrale ben definito nella riforma costituzionale su cui a novembre ci sarà il referendum».Il manifesto, 10 agosto 2016 (c.m.c.)

Il Tar boccia, per i tanti motivi che i lettori del manifesto ben conoscono, il progetto dell’aeroporto intercontinentale fiorentino tanto caro alla premiata ditta Renzi&Carrai? Poco male: «Tanto a decidere sarà il ministero». Questa chiave di lettura, esternata da Toscana Aeroporti, rende bene l’idea di quanto per i padroni del vapore sia seducente l’idea dell’accentramento dei poteri a livello centrale, messo nero su bianco nella riforma costituzionale su cui a novembre si terrà il referendum.

All’indomani della decisione dei giudici amministrativi, la riprova arriva con le parole del viceministro Riccardo Nencini: «Ho sentito il ministro Galletti, la sentenza del Tar non incide sul procedimento di valutazione di impatto ambientale in corso al ministero dell’Ambiente». A fare eco a Nencini ecco Dario Nardella: «Il piano bocciato dal Tar è stato superato: c’è un nuovo piano approvato dall’Enac. Quindi resta valido il percorso avviato con la valutazione di impatto ambientale che attendiamo dal ministero dell’ambiente, e la successiva conferenza dei servizi del ministero dei trasporti: il piano dell’aeroporto, sul quale il Tar non è intervenuto, va avanti». Insomma per Nardella, Nencini, e Toscana Aeroporti, decidono solo i ministeri.

Intanto però Guido Giovannelli, avvocato dei comitati no aeroporto, Medicina democratica e Ordine degli architetti di Prato, che hanno fatto ricorso contro la variante al Pit (Piano regionale integrato del territorio) che ha inserito la pista di 2.400 metri parallela all’autostrada A11, ha già inviato una diffida al ministero dell’ambiente: «Non può procedersi a Via – spiega Giovannelli – in quanto la Vas, la valutazione ambientale strategica che ne costituiva il presupposto normativo a livello regionale, è stata annullata dalla sentenza. Dunque la Via ministeriale, a queste condizioni, potrebbe essere solo negativa, venendo meno i suoi stessi presupposti, o sospesa, in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato sulla vicenda».

A seguire, proprio sul tema dei rapporti fra governo centrale ed enti locali, l’avvocato osserva: «Ho letto e sentito commenti secondo o quali questa pronuncia non cambierebbe nulla. Devo dire che trovo questa posizione contraddittoria. Se così fosse, non si penserebbe a fare ricorso al Consiglio di Stato. Cosa che è stata immediatamente annunciata». A partire da Enrico Rossi: «Ci appelleremo convinti delle nostre buone ragioni, la sentenza è confusa». Continuando con il presidente dell’assemblea toscana, Eugenio Giani: «Sono d’accordo che la Regione impugni la sentenza; ci aiuterà anche a capire che cosa fare per perfezionare gli atti amministrativi. Io sono per votare anche subito una variante che tenga conto delle decisioni del Tar».

Fra queste, come un macigno, spicca anche il problema di Castello, l’area oggi di proprietà di Unipol che ha un piano urbanistico, approvato da Palazzo Vecchio & c., con tutti i permessi a costruire già firmati: «Non risulta possibile approvare il progetto e al tempo stesso far salva la compatibilità con le previsioni urbanistiche» di Castello, scrivono i giudici del Tar, che sul tema accolgono le critiche di «carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, contraddittorietà e illogicità manifesta». «E chiaro quale sia l’interesse pubblico predominante», replica Nardella. Interesse pubblico? Nella zona solo la Scuola Marescialli dei Carabinieri è già costruita. E ricadrà nella zona dove il rumore sarà a ben 55 decibel. Auguri ai militari dell’Arma.

«Lo stop del TAR al piano approvato dalla Regione, accolti sei punti dei comitati contro il raddoppio della pista di Peretola: eccessivo impatto ambientale ». Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2016 (c.m.c.)

L’aeroporto di Renzi rischia di precipitare. «Il Tar ha accolto sei punti del ricorso presentato dai comitati», racconta l’avvocato Guido Giovannelli che ha curato l’azione legale contro l’infrastruttura voluta dal premier e dal governatore Enrico Rossi. Con Marco Carrai, fedelissimo del premier, a presiedere la società. E adesso il progetto rischia di fermarsi o di andare avanti con tanti paletti che ne cambieranno il volto.

I punti chiave della bocciatura? «Tanto per cominciare – spiega Giovannelli – la compatibilità della nuova opera con il Parco della Piana. Poi l’inquinamento dell’aria, perché – fanno intendere i giudici – non si possono fare studi su opere che non ci sono ancora. Infine la sicurezza idraulica della zona». Dubbi di cui il Fatto ha già più volte dato conto.

E che erano contenuti anche in un dossier presentato da professori universitari. Spiega Giovannelli: «Il Tar ha annullato il piano di indirizzo territoriale regionale nella parte in cui fissa l’ampliamento dello scalo secondo lo schema della pista parallela-convergente rispetto all’autostrada». Nelle 70 pagine della sentenza si legge: «Ogni prospettato intervento sul reticolo idrico, sul parco o sui boschi produce conseguenze rilevanti in termini di sostenibilità ambientale, la cui valutazione non può essere spostata alla successiva fase di Via».

È la questione sollevata dai comitati: la Valutazione di Impatto Ambientale che arriva a giochi fatti. Una prassi irrituale. Scrive il Tar: «La scelta della pista parallela convergente» con l’autostrada, «comporta una importante diminuzione sia del numero che della superficie totale delle zone umide». Una manciata di righe che, però, imporrebbero una radicale rivisitazione progettuale. Quindi, a pagina 42, il problema dell’inquinamento. In un’area dove oltre allo scalo aereo c’è un’autostrada.

E poi c’è la questione del termovalorizzatore: «Particolarmente delicata si presenta la questione dell’impatto» ambientale, «già l’attuale condizione della piana fiorentina presenta condizioni di criticità in ordine alla qualità dell’aria». Una zona delicatissima anche per l’equilibrio idrogeologico: «La complessità e l’incisività degli interventi previsti, in termini di interferenze con la rete delle acque, avrebbe richiesto, in forza del principio di precauzione, un’esauriente valutazione di sostenibilità ambientale, che invece è stata differita alle fasi successive».

I giudici concludono: «Il principio di precauzione in materia ambientale fa sì che ad esito della valutazione di incidenza sia preclusa la realizzazione dell’opera che risulti pregiudicare l’integrità del sito o anche dia adito a dubbi sulla compatibilità con l’integrità del sito stesso».

Infine il nodo delle ville medicee, sito Unesco che rischia di essere compromesso dall’aeroporto. Il governatore Rossi contesta la sentenza: «Confonde la valutazione strategica con la valutazione di impatto ambientale. Faremo ricorso al Consiglio di Stato». Rossi è convinto: «La sentenza non fermerà l’aeroporto». I comitati, però, pensano di aver vinto: «È la fine dell’aeroporto voluto da Renzi».

«Terzo Valico. Una lunga e controversa storia. il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati,ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato». Il manifesto, 20 luglio 2016 (c.m.c.)

Il Terzo Valico è il gigante invisibile delle grandi opere. Grande per impatto ambientale, per la spesa pubblica (6,2 miliardi di euro) e per la lunga e controversa storia, ma sconosciuto alla maggioranza delle persone. Una sorta di Golem, potente ma fragile.

Costellato da tantissimi stop and go, proclami, bocciature e travagli giudiziari, il suo sfumato racconto iniziò nel 1991, l’anno in cui venne presentato dal governo dell’epoca – era uno degli innumerevoli esecutivi Andreotti – il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati, in primis le famiglie del capitalismo italiano, ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato.

Dal primo tavolo dell’Alta velocità, apparecchiato per Fiat, Eni e Iri nell’estate del 1991, erano rimasti fuori i Ferruzzi e i Ligresti. Proprio a loro, in extremis (a dicembre), venne affidato il progetto del Supertreno Milano/Genova, che, dopo tre bocciature della commissione di Via (Valutazione d’impatto ambientale), grazie al salvataggio della legge obiettivo (considerata criminogena da Raffaele Cantone), diventerà successivamente Terzo Valico dei Giovi: dalla città della Lanterna fino alla piccola Rivalta Scrivia, frazione di Tortona.

Meno chilometri ma costi esponenzialmente lievitati. Si tratta di un tragitto ferroviario di 53 chilometri ad alta velocità, di cui 37 in galleria, che iniziano dal nodo ferroviario di Genova (Bivio Fegino) e arrivano nella Piana di Novi per poi ripiombare in una linea tradizionale. In questi anni, i proponenti e i favorevoli, al di là degli slogan («ce lo chiede l’Europa» e «senza Genova morirebbe»), hanno sempre eluso la domanda principale: serve davvero? Solo una seria e indipendente analisi costi-benefici avrebbe potuto dirlo, ma non è stata fatta.

L’11 novembre del 2011, l’ultimo giorno prima della caduta dell’esecutivo Berlusconi, con la firma del contratto per i lavori della linea, il gigante diventò visibile. Ma non senza problemi. D’altronde i guai giudiziari erano iniziati nella seconda metà degli anni Novanta, quando si avviarono i lavori per tre «fori pilota», cunicoli esplorativi per sondaggi geodiagnostici. Due di essi, nella Val Lemme, in provincia di Alessandria, da semplici rilievi esplorativi diventarono gallerie lunghe un chilometro.

Scattò la denuncia degli ambientalisti, con il Wwf in testa. E il 24 febbraio 1998 i cantieri furono chiusi dai carabinieri in seguito a un’inchiesta promossa dalla Procura di Milano con l’incriminazione del senatore di Forza Italia, Luigi Grillo, e dell’ingegner Ercole Incalza, accusati di avere speso soldi dello Stato senza alcun progetto approvato e per opere che non erano affatto «fori pilota».

Il processo per truffa aggravata ai danni dello Stato terminò anni dopo con la prescrizione dei reati grazie alla legge Cirielli. Il Sistema Incalza, così denominato successivamente, era già lampante nel 1998: un mix di burocrazia pubblica, privato affarista e cattiva politica che gestiva appalti sempre più cari.
Ed ora la ’ndrangheta.

Ma non è una sorpresa, la presenza della criminalità organizzata nei cantieri del Terzo Valico è stata documentata dai No Tav, in particolare nel settore del movimento terra, parallelamente alle procure. La presenza della ’ndrangheta è accertata sia in provincia di Alessandria sia in quella di Genova. Delle infiltrazioni se ne parlò, per esempio, a proposito del traffico illecito di rifiuti nelle cave del tortonese, quando fu comminata un’interdittiva antimafia all’imprenditore Francesco Ruberto, e se ne discusse quando fu arrestato per camorra il capo della Lande, Marco Cascella, subappaltatore nei cantieri della grande opera.

Con l’attuale indagine della procura di Reggia Calabria è stata accertata l’infiltrazione degli appartenenti alla cosca Raso-Gullace-Albanese in sub-appalti già aggiudicati per la realizzazione dell’infrastruttura. Alcuni affiliati avrebbero anche sovvenzionato i comitati «Sì Tav» per agevolare l’inizio dei lavori.
Contro tutto questo si è battuto anche ieri il movimento No Tav. A Pozzolo Formigaro, provincia di Alessandria, un centinaio di attivisti si è radunato per opporsi all’esproprio degli ultimi due lotti del cantiere.

Grandi Opere. Enrico Rossi rilancia: "Il sottoattraversamento va fatto, per separare treni av dai regionali". Rispondono i prof di architettura e ingegneria: "Con due binari di superficie in più, problemi risolti"». Il manifesto, 15 luglio 2016 (c.m.c.)

Come effetto collaterale del disastro ferroviario in Puglia, il sottoattraversamento fiorentino dell’alta velocità sta continuando a far discutere. Anche molto animatamente. Quando sembrava che il maxi progetto – doppio tunnel di sette chilometri e stazione sotterranea griffata Norman Foster nell’area Belfiore-Macelli – si fosse almeno politicamente arenato, a riaprire la partita è stata una netta presa di posizione di Enrico Rossi, che ha trovato alleati nel viceministro Riccardo Nencini e nel presidente del consiglio toscano Eugenio Giani.

Sull’altro fronte, dal dipartimento di Architettura dell’ateneo è stata ribadita la bontà del progetto alternativo di superficie, redatto già anni fa da architetti ed ingegneri dell’Università: “C’è già – ha sintetizzato Fausto Ferruzza che guida Legambiente Toscana – una soluzione: due binari in più fra le stazioni di Statuto, Campo di Marte e Rifredi. Una scelta che può tranquillamente assolvere alle stesse funzioni del sottoattraversamento, ma senza sbancare l’alveo del Mugnone, e senza creare un meccanismo di perturbazione grave e il dissesto idrogeologico dell’area”.

Sul punto però Rossi non molla la presa: «I treni ad alta velocità vanno separati da quelli regionali. Per questo si deve fare il sottoattraversamento. Non darò nessun assenso a soluzioni diverse fino a quando sarò presidente di questa Regione, soprattutto alla luce di quanto è avvenuto in Puglia». Il presidente toscano insiste: «Il 21 luglio parteciperò a un incontro con il governo a Roma. Se decidessero diversamente, vedremo con la nostra avvocatura; passeremo, come suggerisce Eugenio Giani, dal consiglio. Se poi la questione è lo smaltimento delle terre di scavo, che lo Stato e Rfi la risolvano. In tutte le altre città, da Bologna a Torino, si è scavato. Qui i cantieri sono aperti, ci sono le imprese, che si finiscano i lavori, altrimenti si cade nel ridicolo».

Da Architettura si risponde colpo su colpo: «L’assunto principale su cui si fonda il nostro progetto è che gli obiettivi prestazionali del sottoattraversamento possono essere tranquillamente conseguiti utilizzando strutture e spazi ferroviari già esistenti in superficie. La proposta consiste nell’aggiungere, al fascio di quattro binari già esistenti, una nuova coppia di binari destinati a ospitare l’aumento di traffico generato dall’alta velocità.Adottando caso per caso, nei punti dove la sede ferroviaria non consente in modo immediato questa aggiunta, espedienti progettuali ad hoc volti a garantirla». Il tutto, fatto non certo trascurabile, con una spesa del 70% inferiore a quanto previsto, al momento, per la Tav in sotterranea, che ha già drenato più di 700 milioni. Senza che i lavori dei due tunnel siano partiti.

Su questo punto, ieri Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, ha ricordato ancora una volta le “diffuse anomalie” nelle pieghe dei lavori fin qui fatti; con l’inchiesta della procura fiorentina del gennaio 2013, gli arresti anche eccellenti come quello di Maria Rita Lorenzetti, e il processo fissato in autunno. Anche da questo caso Cantone ha tirato le somme generali: «La realizzazione di alcune grandi infrastrutture nazionali ha confermato numerose criticità, quali le carenze nella progettazione, e l’apposizione di numerose varianti e riserve».

Gli aggravi anche forti dei costi, e i diffusi timori di impatti ambientali (e architettonici) come conseguenze dei lavori, sono fattori decisivi agli occhi dei prof dell’ateneo: «Il progetto di superficie nasce sulla base di tre principi: riuso delle strutture già esistenti, con minimizzazione delle nuove realizzazioni e quindi di spesa e impatti; integrazione con i sistemi (ambientali, territoriali, paesistici, urbanistici, dei trasporti…) già in essere nell’area; integrazione prospettica con i quadri scenariali previsti dalla pianificazione (integrazione pro-getto/piano)».

Va da sé infine che le parole di Rossi fanno arrabbiare il comitato No tunnel Tav: «La tragedia della Puglia non c’entra nulla con il tunnel. I 760 milioni spesi per la stazione Foster potevano essere utilizzati per la sicurezza sulle linee regionali. Anche le Ferrovie si sono rese conto dell’insostenibilità del progetto, anche Renzi se n’è accorto». «Rossi dice una sciocchezza – chiosa Alessia Petraglia di Si – affermando che il tunnel assicura sicurezza.Confonde due cose diverse».

Critico anche il comitato pendolari del Valdarno: «Il tunnel non serve ai pendolari. Il tappo è sulla direttissima Firenze Rovezzano, prima del Campo di Marte dove inizia il sottoattraversamento». E Legambiente ricorda: «Noi pensiamo che il Mugello insegni molte cose, basterebbe leggere gli atti di quel processo».

«Il ridimensionamento della grande opera era previsto da anni. Non è un improvviso "Nì Tav" ma la prima ammissione ufficiale della grande truffa perpetrata nei tunnel sotto le Alpi». Il manifesto, 5 luglio 2016 (p.d.)

Commentando una dichiarazione del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, il manifesto di domenica titola con qualche ottimismo e buona evidenza: «Torino-Lione, il governo diventa Nì Tav».

È proprio così o si tratta dell’ennesima bufala di un governo che privilegia, ancora una volta, la narrazione sulla realtà? Purtroppo la risposta è univocamente la seconda. Eppure anche le bufale, a volte, aprono nuovi spazi in cui è bene inserirsi. Partiamo, dunque, dai fatti.

Cosa ha detto il ministro? Ha detto – secondo le agenzie – che il progetto della tratta nazionale della Torino-Lione, che da Bussoleno scende verso il capoluogo e raggiunge Settimo, è stato "revisionato" rispetto a quello preliminare del 2011, prevedendo, almeno in una prima fase, l’utilizzo di una parte consistente dell’attuale linea storica (23 chilometri e mezzo tra Bussoleno e Buttigliera) e l’accantonamento, nella parte di nuova realizzazione, di alcuni tunnel originariamente previsti (in particolare la cosiddetta "gronda merci", cioè la galleria di venti chilometri da scavare tra Torino e Settimo).

Di qui un risparmio di oltre due miliardi, un minor impatto ambientale e una maggior "rapidità" di costruzione della tratta (destinata a essere completata entro il 2030). Naturalmente – si è affrettato a precisare il ministro – "non sono arretramenti ma adeguamenti, e sono un’intelligente rivisitazione dei progetti per fare le opere nei tempi giusti, con i costi minori e che siano davvero utili".

L’affermazione ministeriale, oltre che reticente in alcuni passaggi, è un capolavoro di narrazione tesa a trasformare il flop dell’originario progetto (e le conseguenti necessarie marce indietro) in una scelta strategica dei proponenti effettuata per responsabilità economica ed ecologica (magari accogliendo, magnanimamente, alcune proposte degli odiati No Tav).

In realtà, peraltro, non c’è nulla di nuovo, se non la traduzione in progetto (a quanto pare…) di una sorta di concordato fallimentare predisposto, non senza imbarazzo, cinque anni fa.

Meglio lasciar le parole a una fonte non sospetta (Il Sole24ore del 3 marzo 2012):

«Il miglior alleato dei No Tav è la difficoltà dei governi nel reperire le risorse per la realizzazione dell’intera linea Torino-Lione. Per questo, per uscire da un’impasse che rischiava di chiudere definitivamente in un cassetto il progetto, Italia e Francia sono state costrette, la scorsa estate, a prendere in mano le forbici e a dar vita a un progetto in versione “ridotta”, rispetto a quello da 20 miliardi, ipotizzato dall’Osservatorio di Mario Virano alla fine di un lungo lavoro di concertazione durato 182 riunioni.

«Il risultato è che, ad oggi, l’unica tratta garantita della Torino-Lione è la costruzione dei 57 chilometri del tunnel di base. Solo su questa prima porzione della Torino-Lione si è deciso di procedere con la progettazione definitiva. Sarà invece rimandata a data da destinarsi la realizzazione della parte comune in territorio italiano. Ancora agli albori resta la tratta italiana della Torino-Lione, ferma alla conferenza di servizi. Si lavora a un progetto a basso impatto, che utilizzi la linea storica da Bussoleno alle porte di Torino: costo di 2,2 miliardi rispetto al progetto tutto in variante da 4,4 miliardi».

Nessuna scelta innovativa, dunque, ma la presa d’atto della necessità di una via di fuga per evitare il disastro.

Va bene – si potrebbe dire – ma evitiamo posizioni di principio e rallegriamoci del fatto che qualche frammento di un’opera inutile e dannosa è stato rinviato sine die o abbandonato, qualunque ne siano le motivazioni. Giusto. Purché si prenda atto che ciò rivela una volta di più l’irrazionalità dell’opera complessiva e non lo si utilizzi per rafforzarla con una asserita sopravvenuta "ragionevolezza" del governo.

Se ragionevolezza e coerenza ci fossero, infatti, la "decisione" odierna porterebbe con sé l’abbandono dell’opera nella sua interezza.

Infatti, delle due l’una. O i lavori originariamente previsti sono semplicemente rinviati, e allora la narrazione odierna è pura ipocrisia (anche in termini di risparmio di risorse) e lascia intatte le controindicazioni di sempre. Oppure – com’è probabile, nonostante le rassicurazioni ministeriali che tutto sarà rivisto dopo il 2030 (sic!) – l’abbandono è definitivo e allora ci sarebbe un’ulteriore decisiva controindicazione persino ponendosi nell’ottica dei promotori.

La ragione di fondo a sostegno della nuova linea (esposta con sussiego dai soliti sedicenti "esperti") è, infatti, che la linea storica sarebbe inadeguata in radice, per ragioni tecniche e trasportistiche, alle nuove necessità. Non è così ma, se mai lo fosse, che senso avrebbe costruire un tunnel di 57 chilometri tra Italia e Francia quando, a monte e a valle (ché altrettanto si sta facendo in Francia) resta in gran parte la linea storica?

Non sarebbe come costruire un ponte con dieci corsie quando le strade che vi conducono ne hanno solo due? E quale senso strategico ha la decisione odierna? Nessuno, ovviamente. A meno che tutto fosse, fin dall’inizio, una gigantesca truffa che, finalmente, la crisi economica sta cominciando a svelare. Ad essere seri, la "revisione" annunciata dal ministro dovrebbe portare, quantomeno, alla sospensione dei lavori e a una nuova discussione globale sull’opera, prima che vengano sprecati altri miliardi di euro (poco importa se italiani o europei). Non farlo realizza l’ennesimo inganno.

Nessun "Nì Tav" governativo all’orizzonte, dunque. Ma, certo, una "scelta" e una narrazione che dimostrano una debolezza di fondo su cui occorre inserirsi politicamente.

«TAV Firenze. Il presidente onorario della rete dei comitati Alberto Asor Rosa chiede di di riaprire un confronto con i cittadini». La Repubblica, ed. Firenze, 4 luglio 2016 (c.m.c.)

Ho seguito con attenzione e, da un certo momento in poi, con appassionata partecipazione le vicende più recenti del sottoattraversamento ferroviario di Firenze. Per sintetizzare al massimo: titolo dell’articolo apparso su La Repubblica del 1 luglio: “Retromarcia sulla Tav. Foster e tunnel addio”. Ne ho ricavato pretesto per queste tre buone notizie.

1) La prima è che il sindaco Nardella ha parlato chiaro e forte per giudicare il progetto Tav inutile e dannoso. Ci vuole un buono e gran coraggio per confessare apertis verbis un così colossale fallimento! Qualche premonizione ce n’era stata già in passato (incontro Renzi-Nardella a Firenze di qualche mese fa). E però oggi, dopo le coraggiose dichiarazioni del sindaco, mi pare non ci sia più spazio per ripensamenti. L’idea che si debba fare il calcolo delle penali, e poi su questo decidere, non sta né in cielo né in terra. Se l’opera è gravemente inutile e dannosa, si paghino le penali e il discorso è chiuso.

2) La seconda buona notizia riguarda tutti i cittadini italiani, fiorentini e no, che in questi lunghi anni si sono fieramente battuti contro la Tav di Firenze. Facciamo finta di dimenticare che a Firenze opera fin dall’inizio, e cioè dalla fase di progettazione dell’impresa (quando non ci sarebbero state penali da pagare), un Comitato No Tav, parte integrante della Rete dei Comitati per la difesa del territorio, il quale ha condotto una lotta dura, tenace, seria, molto responsabile, e per converso vilipesa, contrastata e qualche volta minacciata, per affermare l’inutilità e la dannosità dell’impresa? Questo Comitato, e i suoi qualificatissimi esperti, pronunciarono giudizi che ritroviamo oggi tali e quali sulla bocca del sindaco Nardella. Non era più semplice fermarsi ad ascoltare allora?

3) Infine... No, infine non è corretto. Più corretto è pensare, e scrivere, “per continuare”. E cioè: se la Tav fiorentina è risultata alla fine una così colossale bufala, non diventa legittimo pensare la medesima cosa per altre grandi imprese della stessa ispirazione e natura?

Intendo, quasi ovviamente, il progetto di ampliamento e potenziamento dell’aeroporto di Peretola. Anche qui: una miriade di comitati avversi, molti Comuni della Piana risolutamente contrari, il Parco della Piana in pericolo, la sostanziale inutilità dell’impresa (Bologna e Pisa ad un passo), ecc. ecc. Non sarebbe il caso di fermarsi e ripensare la cosa in un rapporto di confronto e reciproco scambio con i cittadini e le istituzioni interessati, prima di accumulare le ingenti penali da pagare domani?

Se poi c’è chi pensa di barattare l’abbandono dell’impresa Tav con la pacifica e indiscussa realizzazione dell’impresa aeroporto, si sbaglia. Le due cose se mai si connettono, stanno dentro la stessa logica, vanno giudicate e decise con i medesimi rigorosi criteri.

«Grandi Opere. Ora lo ammettono, il sottoattraversamento in galleria di Firenze, e la stazione sotterranea di Norman Foster, sono un gioco costosissimo, e ambientalmente assai problematico, che non vale la candela». Il manifesto, 3 luglio 2016 (c.m.c.)

Tanto tuonò che piovve. Trent’anni di discussioni – e di periodici voti pro tunnel Tav da parte di tutti eccetto Rifondazione e Perunaltracittà – con 700 milioni di euro già spesi, per poi ammettere che il sottoattraversamento in galleria di Firenze, e la stazione anch’essa sotterranea progettata da Norman Foster, sono un gioco costosissimo, e ambientalmente assai problematico, che non vale la candela.

«Stanno dicendo ora quello che abbiamo segnalato e denunciato fin dall’inizio – osserva ai microfoni di Controradio l’ex ferroviere Tiziano Cardosi – il problema è che hanno già speso una montagna di soldi, che potevano benissimo essere investiti per potenziare subito le linee dei pendolari».

Quelli che «lo stanno dicendo ora» sono il sindaco Dario Nardella, anche a nome del suo predecessore Matteo Renzi, e il ministro delle infrastrutture e trasporti Graziano Delrio, ospite d’onore alla due giorni della Regione “Infrastrutture e mobilità, dal dire al fare”.

«Abbiamo lo stesso approccio a tutte le latitudini – ha spiegato Delrio – e stiamo procedendo ad una revisione complessiva dei progetti. Stiamo revisionando la Torino-Lione, abbiamo revisionato la Venezia-Trieste, portandola da un costo di più di 7 miliardi ad un costo più che dimezzato, proprio perché la tecnologia sta facendo passi da gigante: adesso possiamo avere un treno ogni 7-8 minuti in condizioni di sicurezza, presto potremo averne uno ogni 3 minuti. Abbiamo lo stesso atteggiamento qui a Firenze. L’obiettivo è fare le opere in tempi giusti e con costi minori».

La decisione definitiva arriverà a settembre, quando Ferrovie dello Stato presenterà ufficialmente il nuovo piano industriale sul quale sta lavorando da tempo. Certo però l’amministratore delegato Renato Mazzoncini, successore di Mauro Moretti ed ex ad dell’azienda fiorentina di trasporto pubblico locale Ataf, aveva già fatto capire che il gruppo Fs ci stava ripensando.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il parere del Cnr sulle terre da scavo. «Rifiuti da smaltire con accortezza, o inerti da stoccare subito nell’ex cava di Santa Barbara a Cavriglia?». Alla domanda dei ministeri interessati, il Consiglio nazionale delle ricerche ha risposto che le terre dovranno essere esaminate lotto dopo lotto, metro dopo metro di scavo. Troppo complicato, anche per i pasdaran del sottoattraversamento.

Nel gioco del cerino che è già partito, gli enti locali aspettano che siano le Ferrovie a decidere. Perché interrompere un contratto firmato, autorizzato, e condiviso politicamente per venti anni, vuol dire mettere in discussione un altro miliardo di euro di lavori. Con le penali del caso.

Intanto il comitato No tunnel Tav mette il gomito nella piaga: «Anche Renzi, da sindaco, contrattò compensazioni dalle Ferrovie di 80 milioni e accettò l’opera. Fuggire dalle proprie responsabilità non aiuterà la politica locale a ritrovare la credibilità in caduta libera. Se c’è davvero un ripensamento su questo progetto folle, il Comitato si chiede come mai i lavori nel cantiere ai Macelli, dove si sta costruendo la nuova stazione sotterranea, non vengono fermati subito, e si continua a buttare una mole enorme di risorse in quella voragine. Le stime che si possono fare sui costi sostenuti finora sono di circa 700 milioni; una cifra vergognosa di cui molte persone dovrebbero rispondere, ma temiamo che a pagare saranno i soliti cittadini che contemporaneamente si vedono distruggere il sistema di welfare».

«Berdini a Roma, Montanari a Torino: chi sono e cosa pensano gli assessori in pectore. Stop al consumo di suolo, revisione al ribasso dei piani regolatori, più trasporto pubblico, no alla privatizzazione del patrimonio immobiliare comunale». La Stampa, 9 giugno 2016 (m.p.r.)

È l’urbanistica il terreno su cui già si misura la sfida al Pd di Virginia Raggi e Chiara Appendino nei ballottaggi a Roma e Torino. Come assessori hanno indicato due «urbanisti gemelli»: Paolo Berdini e Guido Montanari. Nomi pesanti con radici accademiche, noti nelle città per le numerose battaglie civili, stessi maestri e una comune radice culturale, «prima che la sinistra buttasse alle ortiche l’urbanistica». Le loro idee: stop al consumo di suolo, revisione al ribasso dei piani regolatori, più trasporto pubblico, no alla privatizzazione del patrimonio immobiliare comunale. Proclamano «la fine dell’urbanistica neoliberista» e una soluzione di continuità con le giunte di centrosinistra.

Berdini e Montanari si riconoscono negli insegnamenti di Edoardo Salzano, Pierluigi Cervellati, Vezio De Lucia. Negli ultimi anni si sono ritrovati sia su temi nazionali che su battaglie locali. L’ultima è quella sulla Cavallerizza di Torino, il complesso tutelato dall’Unesco su cui il Comune ha lanciato un’operazione finanziaria (con Cassa Depositi e Prestiti) di ristrutturazione. Montanari è nel comitato «Cavallerizza Bene Comune», che ha occupato gli spazi e riaperto lo splendido giardino per opporsi alla privatizzazione.

Prima si era battuto contro i grattacieli e la trasformazione in centro commerciale del Palazzo del Lavoro di Pierluigi Nervi, che nel ’61 ospitò la celebrazione del centenario dell’Unità d’Italia. Tutte operazioni targate Pd. Tutte battaglie su cui ha incrociato i militanti del Movimento 5 Stelle. A una manifestazione Chiara Appendino, dopo averlo ascoltato, si avvicinò per conoscerlo. La frequentazione si è consolidata in vista delle elezioni, quando gli ha chiesto di collaborare al programma. Poi l’ha scelto come assessore.

Si sono trovati subito su alcuni capisaldi. Primo: il patrimonio comunale di valore storico e architettonico deve restare pubblico, sia per la proprietà che per la gestione. Spiega Montanari: «I gioielli di famiglia non si toccano. Le esigenze finanziarie? Non si può chiedere a un povero di vendersi cornee e reni».

Secondo: «Il territorio non deve essere un bancomat per un Comune assetato di oneri di urbanizzazione». Montanari vuole una revisione «dalla A alla Z» del piano regolatore del 1995. «Erano previsti 10 milioni di metri quadri di nuove edificazioni. Ne sono stati realizzati poco più della metà. Il residuo va ripensato, quartiere per quartiere, secondo le esigenze reali di un mercato cambiato, con 50 mila alloggi vuoti. I piani che comportano consumo di suolo si bloccano, le trasformazioni di aree già edificate, come quelle ex industriali, si orientano diversamente: no residenze e centri commerciali, ma piccole attività artigianali e commerciali e servizi collettivi». E poi sconti fiscali per interventi di riqualificazione ed efficienza energetica, investimenti nelle periferie («Le Spine, i quartieri nati negli ultimi vent’anni, sono disastrosi»), difesa delle destinazioni produttive («Meglio una fabbrica abbandonata che un centro commerciale: prima o poi qualcuno torna a produrre»).

Idee che Montanari ha sperimentato negli ultimi anni come assessore a Rivalta, comune dell’hinterland torinese, e illustrato qualche settimana fa all’associazione costruttori. «Ci dicono che noi siamo per l’opzione edilizia zero, per la decrescita? Ma la decrescita c’è già, lo dicono i costruttori. L’edilizia è già a zero. In Comune arrivavano 30 pratiche a settimana, ora 3. Questa è urbanistica del no, la nostra è urbanistica della felicità». È vero che anche le associazioni di categoria negli ultimi anni hanno cambiato rotta su questi temi, ma restano nodi non sciolti. Dove trovare le risorse per fare tutto questo, se si riducono gli incassi degli oneri di urbanizzazione? Resta un margine di vaghezza, oltre l’impegno a racimolare 5 milioni di euro dal taglio di sprechi e consulenze del Comune.

Berdini è sulla stessa lunghezza d’onda. Spiega che «lo stop all’espansione sull’agro romano (15 mila ettari decisi dal Piano di Veltroni nel 2008) non è ideologica, ma pragmatica. Roma è una città fallita perché dal 1993 ha inseguito gli interessi immobiliari privati». Non vuole bloccare tutti i progetti edilizi, ma solo quelli che «provocano un aggravio di spesa pubblica per portare i servizi e gestirli. Sulle aree già urbanizzate si può andare avanti». Altri capisaldi: più trasporto pubblico e stop a grandi opere (tipo centro congressi Eur o stadio del nuoto a Tor Vergata, esempi di spreco e abbandono). «Vogliamo dirottare gli investimenti su interventi nelle periferie della devastazione sociale».

Berdini non si nasconde «i rischi» di un approccio così radicale. Le questioni finanziarie che si possono aprire, i rapporti con le categorie interessate. «Ma qui è in gioco la tenuta patrimoniale delle famiglie. Nelle periferie il valore delle case è calato già del 30-35%. Vogliamo aumentare ancora l’offerta, nonostante la crisi di domanda?». E i palazzinari? «La filiera della casa non funziona, lo sanno anche loro. Sarà dura, ma non ne temo l’ostilità. Ne conosco alcuni, ci capiranno».

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