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L'urbanistica italiana illegittima per la corte di (in)giustizia europea: si sa la giurisprudenza europea e' sovraordinata agli ordinamenti nazionali. Anche in questo bisognerà cambiare i rapporti con l'europa! Leggi qui.

A proposito di grattacieli e altre soperchierie immobiliariste, Carlo Giacomin ci segnala questo articolo che ci era sfuggito, e l'ineccepibile sentenza che l'accompagna (scaricabile in calce). Altalex online, 25 aprile 2014

Con la sentenza 5 febbraio 2014, n. 5751 la terza sezione penale della Corte di Cassazione interviene in materia edilizia, offrendo alcuni chiarimenti in merito all’indice di edificabilità che ne precisano limiti e contenuto.

In particolare, gli Ermellini chiariscono in primo luogo l’inderogabilità del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 a cui è stata in passato riconosciuta efficacia di legge dello Stato con la conseguenza che gli strumenti urbanistici non possono discostarsene, prevalendo il decreto anche sui regolamenti locali nella determinazione degli standard urbanistici. Ciò per chiarire che l’art. 7 del D.M. citato stabilisce i limiti inderogabili di densità edilizia per le diverse zone territoriali omogenee e che, in particolare, per le zone A – relative al caso di specie – si conformano nel senso che per le nuove eventuali costruzioni ammesse, la densità fondiaria non deve superare il 50% della densità fondiaria media della zona.

E’ importante questa precisazione da parte della Corte di Cassazione perché permette di ribadire l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale sulla differenza tra densità edilizia territoriale e densità edilizia fondiaria. La prima si riferisce a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona, mentre la seconda è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile. In buona sostanza – come si legge anche nella sentenza - , la differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona omogenea, per cui il relativo indice di edificabilità è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati a viabilità, ecc. Al contrario, la densità edilizia fondiaria, in quanto riferita alla singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato alla effettiva superficie suscettibile di edificazione.

Per i giudici del Palazzaccio diventa rilevante tracciare un netto confine tra i due concetti di densità, specificando che quella territoriale attiene al comparto, al lordo di strade e altri spazi pubblici, mentre quella fondiaria attiene al singolo lotto o fondo identificato al netto delle aree asservite a standard urbanistici. Ne consegue che l’indice di fabbricabilità fondiaria risulta essere lo strumento di misura del massimo volume edificabile su ciascuna unità di superficie fondiaria. Su questo aspetto si è fondato l’errore del giudice di merito che, come rilevato da Piazza Cavour, confonde, ai fini della determinazione della volumetria assentibile, la superficie edificabile con la superficie dell’intero comparto, pretermettendo la distinzione che giuridicamente distingue l’area edificabile dalla zona omogenea in cui si inserisce. Ciò elide i limiti di edificabilità in quanto questi costituirebbero in questo modo un a percentuale della zona omogenea anziché una percentuale dell’area interessata direttamente dalla edificabilità stessa, finendo per confondere il criterio da applicare.

Nel caso di specie il giudice di prime cure aveva condannato i titolari di una società di costruzione e i funzionari pubblici coinvolti alla pena di quattro mesi di arresto e 25000 € di ammenda per i reati di cui agli articoli 110 cod. pen. e 44 lettera c) del d.p.r. N. 380/2001 e art. 734 cod. pen. Ciò per la realizzazione di un complesso edilizio in area urbana sottoposta a vincolo paesaggistico ed in violazione della normativa di settore in merito a forme e misure consentite. Il Giudice di Appello tuttavia riformava la sentenze di primo grado assolvendo tutti gli imputati dai reati ascritti perché il fatto non sussiste. Da qui il ricorso del Procuratore generale della Repubblica, che contesta la violazione dell'articolo 44, lettera c), d.p.r. 380/2001 con riferimento all'articolo 7 D.M. 1444/1968.

Come si è visto la Cassazione accoglie le contestazioni del ricorrente annullando la sentenza impugnata con rinvio ad altra Corte di Appello territoriale.

Per approfondimenti:
Pacchetto promo volumi ''Reati + Illeciti edilizi'';
Illeciti edilizi. Profili civili, amministrativi e fiscali, di Alessandro Ferretti, Altalex editore, 2014.
Reati Edilizi. Aspetti normativi e sanzionatori, di Alessandro Ferretti, Altalex Editore, 2011;
Voce "Lottizzazione abusiva" di AltalexPedia.

Qui il link al documento per scaricarlo in formato .pdf

«Polizze tossiche . Alcuni costruttori hanno presentato fideiussioni prive di valore per il pagamento degli oneri. Il fenomeno è importante 1.200 negli ultimi 5 anni, di cui oltre 500 nel 2015». Altraeconomia, 31 maggio 2016,

In via del Gargalone, a Pisa, c’era un centro di raccolta per i rifiuti ingombranti. Serviva ai cittadini del quartiere di Porta a Mare. Costato circa 300mila euro, era stato inaugurato dal Comune nel 2013.

Oggi non c’è più, ed è diventato un “caso”: la richiesta di “smontarlo”, infatti, era arrivata da Ikea, che aveva acquistato l’area su cui costruire il proprio grande magazzino, inaugurato a marzo 2014, da una società privata di nome Sviluppo Navicelli. La stessa che avrebbe dovuto occuparsi della sua ricostruzione, ma non lo ha fatto. Così a fine novembre 2015 il consiglio comunale è stato costretto ad approvare una variazione di bilancio, per autorizzare una spesa di 240mila euro e farsene carico.

A maggio dello scorso anno, infatti, la Sviluppo Navicelli è fallita, e il Comune s’è accorto che le “garanzie” prestate non valevano niente. Tecnicamente questo strumento si chiama fideiussione, ed è una sorta di assicurazione sul pagamento degli oneri legati a un intervento urbanistico o sulla realizzazione di eventuali opere pubbliche in carico al privato.

Qualora il privato non faccia quanto stabilito, il Comune può rivalersi sul soggetto che ha prestato la garanzia, cioè “escutere” la fideiussione. Quelle delle Sviluppo Navicelli, due, per un valore complessivo di 4,7 milioni di euro, erano state rilasciate da Union Credit Finanziaria spa, un soggetto escluso a fine 2008 dall’elenco degli intermediari abilitati, che è disponibile sul sito della Banca d’Italia. Oggi questa società non esiste più. Le due fideiussioni di Sviluppo Navicelli erano state depositate in Comune in una data successiva, nel febbraio 2009.

Solo a novembre 2015 l’ente ha avviato un censimento delle “fideiussioni tossiche”, che sarebbero almeno una trentina, per un valore complessivo di 15.854.675 euro. Come dimostra il caso del centro rifiuti di via del Gargalone, il bilancio comunale può subire il colpo delle fideiussioni prive di valore. E per capire quanto potrebbero pesare 15,8 milioni di euro di investimenti non realizzati sul bilancio di una città che ha meno di 90mila abitanti, basti pensare che il bilancio preventivo 2016 del Comune evidenzia entrate -da tributi, trasferimenti, alienazioni di beni- per circa 180 milioni di euro.

Secondo il gruppo consiliare “Una città in comune-Rifondazione Comunista”, guidato dal consigliere Francesco Auletta, l’analisi avviata dal Comune è tardiva: “Il Comune si era accorto dell’esistenza di un problema già a gennaio 2015, quando aveva indirizzato ad Union Credit Finanziaria spa delle comunicazioni, che però tornavano indietro: all’indirizzo indicato, a Torino, in via Susa, quel soggetto era irrintracciabile.

Non si era mosso, però”. A settembre 2015 i due esponenti la lista d’opposizione chiede di poter accedere a tutti gli atti relativi alle fideiussioni presentate da Sviluppo Navicelli spa: il Comune si era “insinuato” nella procedura fallimentare dell’azienda, chiedendo il riconoscimento di un credito di circa 3 milioni di euro. Le risposta arrivano il 28 ottobre 2015: il nome di Union Credit Finanziaria spa è pubblico. È solo in quel momento che il Comune si muove, inviando una nota al Servizio supervisione intermediari finanziari della Banca d’Italia: la lettera è datata 29 ottobre 2015.

La vicenda Sviluppo Navicelli spa -una società che avrebbe dovuto sviluppare una nuova area dedicata alla cantieristica, lungo il Canale dei Navicelli che collega per 17 chilometri la darsena di Pisa a Livorno- non è isolata. A ottobre 2015 la città della Torre pendente è scossa da un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze sull’imprenditore edile Andrea Bulgarella, che a Pisa sta costruendo -tra le altre cose- il Parco delle torri a Cisanello e la Piazza del terzo millennio a Ospedaletto.

La sua società si chiama Edilcentro, e risulta garantita da una decina di fideiussioni per un importo di circa 5 milioni di euro. La più importante vale 2,9 milioni, e l’ha emessa Medusa Leasing, cancellata nel 2007 dagli elenchi di Banca d’Italia (oggi è in fallimento, e risulta controllata da una società fiduciaria, che è un modo per “schermare” il nome dei veri proprietari).

Un altro paio sono della Union Credit Finanziaria (UCF), e tre dalla United Consulting Finance, “cancellata” nel 2011, stessa sede torinese della prima. Il Comune di Pisa non si muove nemmeno quando il nome di quest’ultima società finisce sui giornali, nel giugno del 2014: l’inchiesta della Guardia di finanza di Torino riguarda Antonio Castelli, assicuratore cui le Fiamme gialle riconducono la UCF. La Repubblica Torino titola: “False fideiussioni, la truffa da mezzo miliardo del Madoff torinese: tra le vittime 200 Comuni”.

L’ultimo tessera del mosaico a gennaio 2016, quando la Boccadarno Porto di Pisa Spa -società che ha costruito il nuovo porto turistico di Marina di Pisa- delibera il concordato preventivo, una misura della legge fallimentare cui possono accedere le aziende in stato di crisi o di insolvenza.

Solito accesso agli atti e nuova conferma: due le fideiussioni, ed entrambe sono del Consorzio Garanzia Fidi Confidi Centrale, fallito nel corso del 2015. “A quel punto ci rendiamo conto che è un fatto sistemico -sottolinea Auletta-, e così avanziamo formalmente richiesta di istituire una commissione d’indagine”. Il consigliere della lista “Una città in comune” spiega che questo è un normale strumento che il consiglio comunale può darsi: “L’accesso agli atti è facilitato, e serve ad individuare eventuali responsabilità, che sono di carattere politico. Ha 30 giorni di tempo per completare il lavoro, con una relazione poi consegnata in consiglio comunale”.

Il 28 gennaio 2016 l’istituzione della Commissione viene bocciata in consiglio. Il giorno prima il sindaco, Marco Filippeschi del Partito democratico, aveva protocollato una nuova lettera alla Banca d’Italia, nella quale chiede un rafforzamento del sistema d’informazioni e di vigilanza preventiva. Che però già esiste: un elenco di Bankitalia evidenzia come siano 62 gli intermediari finanziari “cancellati” complessivamente tra il 2011 e il 2015 in seguito ad atti del ministero dell’Economia e delle finanze.

“Sulla base del numero degli esposti che sono pervenuti, il fenomeno è importante” spiega Banca d’Italia ad Ae. Per questo, “dal 12 maggio 2016, gli intermediari finanziari che concedono finanziamenti al pubblico saranno sottoposti al regime di vigilanza prudenziale equivalente a quella bancaria. Gli intermediari che offrono garanzie al pubblico dovranno disporre di un patrimonio minimo più elevato e di requisiti organizzativi più stringenti di quelli previsti per gli altri intermediari finanziari”.

A fine novembre 2015 Laura Tanini, che lavora per la Direzione supporto giuridico gare e contratti del Comune di Pisa, ha evidenziato come (almeno) una delle polizze -nello specifico quella di Union Credit numero 595119, a favore di Sviluppo Navicelli spa- “non avrebbe dovuto essere accettata da parte del Comune”. Ed è a questo livello che, secondo Auletta, “sono mancati i controlli”. “Ad alcuni imprenditori sono stati stesi tappeti rossi -sottolinea il consigliere d’opposizione- in cambio di poche opere di urbanizzazione, nemmeno realizzate”.

A Sviluppo Navicelli spa, Boccadarno spa ed Edilcentro srl fanno capo -in termini di valore- il 67% delle false fideiussioni. Tra le persone coinvolte negli interventi della Sviluppo Navicelli e di Boccadarno ci sono Stefano Bottai e l’avvocato Paolo Carrozza, entrambi in passato vice-sindaco della città. Il secondo è fratello dell’ex ministro Maria Chiara, presente nel 2013 all’inaugurazione del porto turistico di Marina di Pisa. La “Pisa dei miracoli” (il titolo di un libro del 2008 dall’allora sindaco Paolo Fontanelli, oggi Questore della Camera) non c’è più. E a Ignazio Visco di Bankitalia il sindaco Filippeschi scrive che la città vive “un caso di seria sofferenza”.

Non si può adoperare il grimaldello della “perequazione” estendola al di là degli ambiti individuati dai piani urbanistici e smantellando così il sistema della pianificazione. Venetoius online, 13 febbraio 2014
Che la cosiddetta “perequazione” sia una sorta di escrescenza maligna dell’urbanistica a noi è sempre apparso evidente. Ma non tutti lo pensano o, se lo pensano, non lo dicono. In verità ci risulta difficile non pensare che la perequazione sia diventata una imposta creata illegittimamente dai comuni in violazione dell’articolo 23 della Costituzione (perchè manca una legge statale che la giustifichi).

Un mezzo passo avanti, però, lo fa il Consiglio di Stato con la sentenza n. 616 del 2014, che stronca duramente una perequazione accettata dal comune di Oderzo. Oggetto del ricorso di un dissenziente erano il P.I. e gli atti presupposti (tra i quali l’accordo di pianificazione ex art. 6 l.r. n. 11/2004), che hanno modificato la destinazione di un’area da residenziale a commerciale direzionale, rendendo possibile la realizzazione da parte della controinteressata di un fabbricato ad uso commerciale direzionale, con annessa sistemazione della viabilità contermine, in modo particolare mediante la realizzazione di una rotonda al fine di favorire gli accessi limitrofi. In via perequativa, a fronte della nuova destinazione urbanistica dell’area oggetto dell’accordo, il soggetto privato si impegnava nei confronti dell’amministrazione comunale alla realizzazione degli interventi di sistemazione e riqualificazione di Piazza della Vittoria.

Il Consiglio di Stato ha accolto il motivo di ricorso col quale l ’appellante lamentava la violazione dell’art. 46 delle norme tecniche del PAT, delle linee guida approvate con delibera n. 60 del giorno 8 marzo 2010, nonché eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità, dello sviamento e del difetto di istruttoria. In concreto, l’appellante si doleva della modalità con cui era stato applicato al caso in specie il principio perequativo, atteso che l’accordo intervenuto tra il Comune e la ditta interessata si è fondato sulla disponibilità della società a realizzare a proprie spese, in cambio della variazione della destinazione urbanistica dell’area di interesse, gli interventi di risistemazione di un’area pubblica, ossia piazza della Vittoria, per un importo di circa €. 400.000 Euro, dando vita così ad opere slegate funzionalmente con l’area dell’intervento.

Così il Consiglio di Stato spiega perchè la perequazione non può portare a realizzare opere fuori ambito:

«Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli standard urbanistici abbia nuovamente assunto di recente un rilievo centrale nell’ambito degli strumenti di governo del territorio. In questo senso, sono riscontrabili non solo interventi normativi (peraltro organizzati secondo prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema della loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un lato – come nel caso della legge 14 gennaio 2013, n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani” - a marcarne la rilevanza ai fini della qualità di vita urbana e, dall’altro – come con l’introduzione dell’art. 2-bis “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” nel d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” – a renderne al contrario più flessibile e meno stringente il contenuto), ma anche prese di posizione di questo Consiglio, che non si è sottratto al dovere di esprimere il proprio avviso su un tema così rilevante nella costruzione del tessuto urbanistico.

«In particolare, questo Giudice ha già delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi” (Consiglio di Stato, sez. V, 25 giugno 2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 4 febbraio 2013 n. 644).
«Ancora, si è affermato che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del T.A.R., utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41 sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito” (Consiglio di Stato, sez. IV, 28 maggio 13 n. 2916). Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata. Il che comporta, come già notato dalle decisioni che precedono, come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica. La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione. Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose.
«L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede. In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26 marzo 2010 n, 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale – che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5 comma 3 del D.L. 13 maggio 2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa come “prestazione”, al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza del giudice delle leggi, cfr. Corte Costituzionale, 27 giugno 2012 n. 164).
«Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio. Sulla scorta delle coordinate appena indicate, appare del tutto palmare l’inidoneità della soluzione proposta dal Comune, che ha reperito gli standard collegati all’intervento edilizio proposto dalla parte privata appellata acconsentendo alla realizzazione di un’opera pubblica in area non contigua né funzionalmente collegata con quella di riferimento. Infatti, con l’accordo intervenuto tra il Comune e la CAMA s.r.l. si è stabilito che la società, in cambio della variazione della destinazione urbanistica dell’area di interesse, realizzasse a proprie spese gli interventi di risistemazione di un’area pubblica, ossia piazza della Vittoria, per un importo di circa €. 400.000 Euro. Si tratta di un’area collocata in zona non contigua né funzionalmente collegata con il sito dove avverrà la trasformazione urbanistica da residenziale a commerciale. Il primo giudice ha dato atto che le norme tecniche del PAT ammettono il ricorso alla procedura perequativa, disponendo in termini generali che per le aree interessate dalle linee di espansione residenziale la modalità perequativa consiste nella cessione del 50% dell’area che il PI attiverà, da destinare alla dotazione urbanistica o al trasferimento dei crediti edilizi. La stessa disposizione prevede inoltre che, in alternativa alla cessione delle aree e a seguito della valutazione operata da parte dell’amministrazione, potrà essere ammessa la realizzazione di opere di interesse pubblico, laddove l’amministrazione ne ravvisi l’opportunità. Tuttavia, interpretando il contenuto di tale disciplina, ha fondamentalmente scisso i due momenti, affermando che, “se è vero che in linea generale la medesima disposizione delle norme tecniche qui richiamata prevede che ai fini perequativi possano anche essere considerate aree distinte e non contigue, purchèé funzionalmente collegate, è anche vero che detta prescrizione si collega direttamente all’ipotesi ordinaria e cioè a quella per cui la modalità perequativa viene perseguita mediante la cessione di una percentuale delle aree che il PI attiverà. All’ipotesi diversa e derogatoria rispetto a tale previsione, ossia quella consistente nella realizzazione a spese del privato di opere di pubblico interesse, non pare applicabile anche l’invocato requisito della contiguità e funzionalità delle aree, per il semplice motivo che le valutazioni dell’amministrazione (valutazione che, richiamando il termine utilizzato nella stessa disposizione, è di opportunità) possono anche ravvisare l’interesse alla realizzazione di opere in altri ambiti del territorio comunale. In altre parole, una volta ammesso che ai fini della perequazione sia possibile anche compensare il vantaggio ricevuto con la realizzazione di un’opera pubblica, ciò non implica necessariamente che detta opera debba essere unicamente realizzata in aree funzionalmente collegate. In realtà come correttamente indicato nelle linee guida di cui alla delibera di Giunta n. 60/2010, è sufficiente che si tratti di opere rientranti nel programma triennale delle opere pubbliche e quindi che le stesse siano giustificate dalla programmazione comunale e dall’interesse pubblico sotteso alla loro realizzazione.”
«La Sezione contrasta decisamente tale assunto, proprio nella considerazione che la tipologia di esigenze pubbliche, che giustificano l’inserimento di un’opera nel programma triennale di cui all’art. 128 del codice appalti, non sono sovrapponibili a quelle che animano la disciplina degli standard urbanistici, visti i contesti topograficamente differenziati e gli interessi dimensionalmente distinti che li giustificano. In particolare, la vicenda qui in esame lo dimostra in maniera lampante come gli interessi privati e pubblici sottesi ai due diversi provvedimenti siano addirittura opposti: infatti, se è vero che in una determinata area cittadina vi sarà un miglioramento della viabilità, è pur vero che in un’altra avrà luogo un parallelo peggioramento della qualità di vita, conseguente alla diversa dislocazione degli interventi edificatori. Il che contrasta con il criterio di radicamento territoriale degli standard sopra evidenziato e rende concreto quel pericolo di miopia concettuale sopra tratteggiato, dove il rispetto della costruzione teorica fa perdere di vista il risultato effettivamente conseguito e il suo impatto sul territorio. E deve essere rimarcato come il ricorso a concetti di più difficile concretizzazione, come appunto quello di interesse pubblico, non deve far dimenticare come questo non abbia una sua connotazione unica e globalizzante, ma sia oggettivamente complesso, frammentato e, nella sua connotazione più utilizzata, quella di interesse pubblico in concreto, sia il frutto di una ponderazione di tutti gli interessi, privati e pubblici, che si equilibrano nel procedimento. Il che rende ragione dell’insidiosità della sovrapposizione (e della ritenuta preminenza) dell’interesse concreto che ha giustificato la redazione di un atto amministrativo, come il piano triennale delle opere pubbliche, rispetto all’altro interesse concreto (ma individuato in generale in previsioni di rango legislativo e regolamentare) che impone il rispetto degli standard urbanistici. Pertanto, in riforma della pronuncia del primo giudice, deve darsi atto dell’effettivo contrasto degli atti gravati con l’art. 46 delle norme tecniche del PAT e delle linee guida approvate con delibera n. 60 del giorno 8 marzo 2010, con consequenziale declaratoria di illegittimità in parte qua».

La tutela urbanistica regionale non può essere sostitutiva di quella statale, ma soltanto “aggiuntiva”. Può cioè ampliare il livello della tutela del bene protetto, non, all’inverso, servire a restringere l’ambito della protezione assicurata dalle leggi statali. Lo ha ribadito nei giorni scorsi la Corte costituzionale con la sentenza n.66/2012 nei confronti della legge n.10/2010 della Regione Veneto, in specie dell’art. 12. [Vedi il testo della sentenza e un primo commento qui su eddyburg - ndr]

La Corte riafferma dunque, più che opportunamente, un principio essenziale: il legislatore regionale non può scalfire la potestà dello Stato in materia di beni primari quali i beni paesaggistici. Punto di frizione fra norme statali e legge veneta? La possibilità per quest’ultima di eliminare, pur “sussistendo il vincolo paesaggistico”, l’obbligo dell’autorizzazione. Che resta invece intatto, in forza della legge Galasso/1985 e del Codice per il Paesaggio.

La “via veneta al paesaggio” porterebbe ad una sostanziale “delegificazione” della materia, dice la Corte, demandando ai Comuni di individuare i territori con caratteristiche analoghe a quelli inseriti nelle Zone A (centri storici) e B (tessuto edilizio consolidato). Una sorta di risotto paesaggistico alla veneta, che aprirebbe la strada ad uno spezzatino alla lombarda (in un paesaggio già disastrato dalle spinte della Lega), o all’amatriciana. Le deroghe – fa notare la Corte costituzionale – finirebbero per essere determinate direttamente dall’amministrazione locale, senza che lo Stato risulti in alcun modo chiamato a partecipare al relativo procedimento.

Finché vige l’art. 9 della Costituzione (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”), non c’è spinta federalista che tenga, come sembrano invece predicare pure alcuni ex governatori del Pd. E’ un caso se è la Regione Veneto ad aver prodotto una simile normativa? Purtroppo no, la collina di Zanzotto, di Parise, di Piovene è stata massacrata nell’ultimo trentennio; nell’area dei Colli Euganei sorgono ben tre cementifici con livelli spaventosi di smog (un solo cementificio ne produce, in un anno, quanto 300.000 veicoli). Ora si pensa di accorparli in un unico forno con una torre alta ben 90 metri, nuovo colpo al paesaggio, all’agricoltura, al turismo e alle tante possibili attività indotte (e pulite).

La sentenza della Corte dà quindi forza alle Direzioni Regionali e alle Soprintendenze statali impoverite, nell’era berlusconiana, di mezzi e di tecnici. In conclusione: la materia paesaggistica non può essere affidata ai Comuni né alle sole Regioni, lo Stato ha la priorità. A questo punto il Ministero batta un colpo. Bondi è stato un fantasma. Per ora lo è pure Ornaghi in tema di piani paesaggistici e non solo. E’ proprio ineluttabile assistere alla rovina del Belpaese?

Importante la recente sentenza della Corte costituzionale a proposito della tutela del paesaggio. La Regione Veneto aveva disposto, con una modifica alla propria legge urbanistica, che la norma del il Codice dei beni culturali e del paesaggio, che esentate dal rispetto di determinate prescrizioni del Codice le “zone omogenee A e B”, poteva trovare applicazione anche in altre “zone". La Corte ha bocciato questa norma regionale come incostituzionale.

In sostanza, la Corte ha confermato che, se le regioni possono e devono precisare, articolare ed estendere le tutele previste dalla legge nazionali, esse non possono ridurle.

Giova ricordare che, nella giurisprudenza costituzionale più volte confermata, il sistema di tutela del paesaggio avviato con la legge 431/1985 (legge Galasso) e completato con il decreto legislativo 42/2002 (codice dei beni culturali e del paesaggio) e successive modifiche e integrazioni prevede che la regione «nell'esercizio delle sue competenze urbanistiche, possa estendere l'efficacia dello strumento anche al di là della sua sfera "necessaria", fino ad investire aree territoriali non comprese nella disciplina della legge n. 431», poiché «la protezione preordinata dalla legge nazionale è «pur sempre "minimale" e non escluda né precluda "normative regionali di maggiore o pari efficienza" (vedi le sentenze cost. 151/1985 e 327/1990). In altre parole, la tutela del paesaggio, grazie al rilievo che le ha conferito l’inserimento nei principi della Costituzione, è responsabilità di tutte le istituzioni della Repubblica (Stato, Regione, Provincia, Comune), ma ciascuna secondo i livello territoriale della propria competenza. Talché ogni livello di governo può approfondire, precisare, estendere, ma mai ridurre il grado di tutela definito al livello sovraordinato.

Nelle sentenze ora citate la Corte aveva stabilito che la legge 431/1985 ha introdotto «una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale»; secondo il giudizio della Corte «una tutela così concepita è aderente al precetto dell'art. 9 Cost., il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell'ordinamento, assume il detto valore come primario, cioè come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro»; sebbene – precisa la Corte - essa «non esclude nè assorbe la configurazione dell'urbanistica quale funzione ordinatrice, ai fini della reciproca compatibilità, degli usi e delle trasformazioni del suolo nella dimensione spaziale considerata e nei tempi ordinatori previsti.»

Va infine rilevato che, mentre la magistratura costituzionale (e non solo quella) prosegue nella sua azione di difesa di quel che resta del Belpaese e vigila sulla corretta applicazione delle leggi che questa azione promuovono, non operano nella stessa direzione i governi, né regionali e nemmeno nazionali. In particolare lo Stato, se ha responsabilità primarie in proposito (come la Corte costantemente rileva) non si preoccupa di mettersi in condizione di gestirle. Pietosa è infatti la condizione nella quale il Mibac lascia languire (e anzi continuamente depotenzia) le strutture che dovrebbero gestire la tutela del paesaggio. Lo smantellamento di quel poco di amministrazione pubblica che la Repubblica italiana è stata in grado di darsi sembra proseguire indisturbato: è del resto impresa che caratterizza tutte le forme di neoliberismo, sia quelle indecenti che quelle decenti.

“È costituzionalmente illegittimo l'art. 32, comma 3, della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1, nella parte in cui non prevede che, ove dall'applicazione dell'art. 33, commi 3 e 4, o dell'art. 34 della stessa legge derivi una modificazione degli effetti degli atti e dei provvedimenti di cui agli artt. 157, 140 e 141 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, tale modificazione è subordinata all'accordo per l'elaborazione d'intesa tra la Regione, il Ministero per i Beni e le attività culturali ed il Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio del piano paesaggistico con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernente l'intero territorio regionale, e all'elaborazione congiunta del piano. Premesso, infatti, che la tutela tanto dell'ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato (art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.) mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza legislativa concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), qualora la Regione intenda, nel momento della pianificazione paesaggistica, modificare il regime dei beni, è necessario che lo Stato possa interloquire attraverso le forme della concertazione, senza le quali si viola il principio secondo cui solo se il piano paesaggistico è stato elaborato d'intesa, il vincolo paesaggistico che grava sui beni può essere tramutato in una disciplina d'uso del bene stesso”.

“È costituzionalmente illegittimo l'art. 34, comma 3, della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1, nella parte in cui stabilisce che sia il piano strutturale del Comune a indicare le aree in cui la realizzazione degli interventi non è soggetta all'autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 87 della legge regionale, anziché il piano regionale paesaggistico con specifica considerazione dei valori paesaggistici. Infatti, l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale, non consente che le decisioni operative concernenti il paesaggio siano trasferite alla dimensione pianificatoria comunale poiché ciò si porrebbe in contraddizione con il sistema di organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un livello uniforme di tutela, non derogabile dalla Regione, nell'ambito di una materia a legislazione esclusiva statale, ma anche della legislazione di principio nelle materie concorrenti del governo del territorio e della valorizzazione dei beni culturali”.

Postilla

Nell’inserire gli ultimi aggiornamenti della legge regionale della Toscana per il governo del territorio ci rendiamo conto che non si è provveduto a modificare le norme sulla pianificazione paesaggistica dichiarate incostituzionali dalla Corte. Nella sostanza la legge 1/2005 è in profondo contrasto con il Codice del paesaggio: l’individuazione puntuale e specifica, e la definzione delle regole che devono dettare le condizioni alle trasformazioni dei beni paesaggistici (sia quelli tutelati ope legis, sia quelli aggiuntivi definiti in sede regionale), non avviene nel piano regionale (il PIT), ma è demandato alla pianificazione comunale. Ma si vedano le puntuali osservazioni di Luigi Scano nella cartella dei suoi scritti.

Si direbbe che in Toscana abbia vinto la “devoluscion” di Umberto Bossi. La Toscana sembra oggi divenuta l’unica regione leghista d’Italia.

Forse pensano di risolvere con una sanatoria, costituita da una intesa tra Regione e Stato del tutto particolare. Basta uno scambio di pacche sulle spalle tra Martini e Rutelli per scavalcare leggi nazionali e sentenze costituzionali? (e.s.)

Più volte eddyburg ha affrontato la questione dei “diritti edificatori”, dimostrandone non solo l’inesistenza ma anche la loro pericolosità, considerato che la loro legittimazione può costituire una seria ipoteca sul territorio a discapito della collettività.

Una delle circostanze in cui tale legittimazione può concretizzarsi è la stesura di un nuovo piano urbanistico che preveda una variazione delle destinazioni d’uso fissate dal piano precedente. Cosa succede se un terreno passa da edificabile ad agricolo? È legittima una scelta del genere, considerate le aspettative, non solo meramente economiche, che i proprietari possono avere maturato rispetto a quella destinazione?

Proviamo a rispondere da due punti di vista: quello della tecnica urbanistica (e del buon senso) e quello della giurisprudenza.

Per quanto riguarda il primo, vale la pena ricordare che un piano urbanistico serve a stabilire regole certe per l’uso del territorio in un arco di tempo ragionevolmente ampio (in genere almeno 10 anni). Per stabilire queste regole, oltre ad avere le idee chiare su quello che dovrebbe essere il futuro di una città, è necessario ipotizzare per quante persone, residenti e non, dovrà essere dimensionato l’assetto della città stessa: detto in altri termini, è necessario prevedere i fabbisogni di una città, soprattutto quelli abitativi, nell’arco di tempo considerato.

Molti dei piani degli anni Settanta furono nettamente sovradimensionati rispetto alle esigenze reali della comunità: l’ottimismo, spesso unito ad una non colpevole incapacità di percepire fenomeni di dispersione insediativa ancora in nuce, portò molti comuni a costruire piani dimensionati per due o tre volte la popolazione effettivamente insediata. Anche lì dove vi è stata una prudente definizione del fabbisogno, il forte decremento della popolazione degli ultimi anni ha messo in discussione le generali previsioni di crescita, con la conseguenza che spesso è toccato alle politiche urbane rimediare alle inadeguatezze dei piani urbanistici.

Le destinazioni d’uso, quindi, non sono che l’esito di un processo più complesso: si definiscono i fabbisogni, in particolare quelli abitativi, si dimensiona il piano, si definisce, infine, il regime dei suoli.

In questa prospettiva, appare evidente che, in un contesto generale di decremento della popolazione e di modifica delle dinamiche insediative, la riduzione delle aree edificabili si può rivelare soluzione necessaria prima che opportuna, in quanto esito finale di scelte fatte sulla base dei fabbisogni previsti.

Non solo: andando aldilà della logica consequenzialità del processo di formazione di un piano, dietro la riduzione delle aree edificabili vi può essere anche il merito politico delle scelte fatte da un’amministrazione.

Chi si può opporre, infatti, alle ragioni di un’amministrazione che decida di contenere la nuova edificazione entro limiti precisi senza consumare ulteriore territorio? E ancora: è davvero così contrario al buon senso che un’amministrazione, in relazione ad un calo della popolazione insediata, ritenga opportuno preservare una porzione di territorio a cui si riconosce un valore proprio perché rimasta inedificata? E infine ecco il nodo cruciale: le aspettative di pochi privati bastano per mettere in discussione scelte, anche drastiche, finalizzate a garantire l’interesse pubblico?

Insomma, dal punto di vista della tecnica urbanistica, la soluzione del problema posto all’inizio appare abbastanza logica; purtroppo, però, il buon senso e la logica non sempre bastano a rendere le scelte solide e inattaccabili. Andiamo a vedere, quindi, se tali scelte possono trovare un qualche aiuto nel mare magnum del diritto e della giurisprudenza.

Il primo punto di partenza non può che essere la legge urbanistica nazionale, la 1150/1942, che nulla dice a proposito di eventuali garanzie ai proprietari per cambi “sfavorevoli” di destinazioni d’uso. Stessa cosa vale per le leggi regionali: nessuna di esse ha ritenuto di dover regolamentare in maniera particolare il passaggio di un suolo da edificabile ad agricolo nel caso di varianti generali agli strumenti urbanistici o di redazione di nuovi piani.

Rispetto al legislatore, invece, il parere dei giudici risulta essere più articolato. Le sentenze in materia sono tante ma tutte dello stesso segno: nella predisposizione di un nuovo strumento urbanistico, un’amministrazione comunale ha piena facoltà di cambiare le destinazioni d’uso rispetto allo strumento vigente, anche se ciò comporta una modifica “peggiorativa” per i proprietari.

Tra le tante sentenze che supportano questa tesi, se ne segnala una in particolare, quella del Consiglio di Stato n. 2827 del 2003 che stabilisce che la reformatio in peius della precedente destinazione di zona non comporta nemmeno l’obbligo di motivazione. Se ne riportano di seguito alcuni passaggi significativi:

“E’ in tale ottica che trova fondamento il consolidato principio giurisprudenziale, secondo cui le scelte urbanistiche dall’Amministrazione comunale costituiscono apprezzamenti di merito, connotati di un’amplissima discrezionalità, sottratte al sindacato di legittimità, proprio del giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi ovvero da arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare (tra le più recenti, C.d.S., sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3817; 22 maggio 2000, n. 2934).

III. 2. Le delineate caratteristiche delle scelte urbanistiche escludono, d’altronde, la necessità di una specifica motivazione che tenga conto, anche solo eventualmente, delle aspirazioni dei cittadini, essendo al riguardo sufficiente il semplice riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di piano (ex pluribus, C.d.S., sez. IV, 14 dicembre 2002, n. 6297; 6 febbraio 2002, n. 664; 17 gennaio 2002, n. 250; 19 gennaio 2000, n. 245; 8 febbraio 1999, n. 121; 9 luglio 1998 n. 1073).

L’obbligo di una puntuale motivazione è stato ritenuto sussistente, ai fini del legittimo uso del jus variandi quando, le nuove scelte incidono su aspettative qualificate del privato, quale quelle derivanti: dalla stipulazione di una convenzione di lottizzazione; da una sentenza dichiarativa dell’obbligo di disporre la convenzione urbanistica; da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia; dalla decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione(C.d.S., A.P. 22 dicembre 1999, n. 24; sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3817; 27 maggio 2002, n. 2899; 20 novembre 2000, n. 6177; 12 marzo 1996, n. 301); è stato, invece, considerato affidamento generico quello relativo alla non reformatio in peius di precedenti previsioni urbanistiche che non consentono una più proficua utilizzazione dell’area, con la conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di una motivazione specifica delle nuove destinazioni urbanistiche rispetto a quelle che può agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico – urbanistico seguiti per la redazione dello strumento stesso (C.d.S., sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3146; 20 ottobre 2000, n. 5635; A.P. 22 dicembre 1999, n. 24).

III. 3. Per completezza deve aggiungersi che, in concreto, l’unico limite che incontra l’ente locale nell’esercizio della delicata funzione di pianificazione urbanistica, salvo quello intrinseco – già delineato – della non arbitrarietà, non irragionevolezza e non irrazionalità, è costituito dalle “direttive” contenute nei piani territoriali di coordinamento e in quelli ad essi assimilati, quale – con riferimento al caso che ci occupa – il Piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC), di cui alla legge 30 aprile 1990, n. 40.

La posizione dei giudici appare dunque pienamente coerente con quanto detto prima circa le regole tecniche di redazione di un piano e il merito politico delle scelte fondamentali: addirittura, essa rimarca che, nel caso di reformatio in peius delle destinazioni d’uso, a meno che questa non derivi da scelte inficiate da palese irragionevolezza, non vi è nemmeno l’obbligo di specifica motivazione visto che è sufficiente chiarire quali siano state le scelte generali assunte a fondamento del piano stesso.

La risposta al problema, dunque, è la stessa, sia che la si guardi dal punto di vista della tecnica urbanistica che da quello del diritto e della giurisprudenza.

Rimane, purtroppo, un terzo punto di vista, molto più "discrezionale": quello del merito delle scelte di un’amministrazione.

Un autorevole urbanista qual è Francesco Indovina disse che il piano urbanistico è “l’espressione di una volontà politica tecnicamente assistita”: anche in questo caso, dunque, il problema è capire qual è la volontà politica che guida le scelte di un’amministrazione.

È infatti con una scelta tutta politica che si può concretizzare quella pericolosità dei “diritti edificatori” di cui si parlava all’inizio: il rischio è che un nuovo strumento, in barba a qualunque analisi del fabbisogno, nasca con una “dotazione” di metri cubi frutto di previsioni di piani precedenti mai attuate, “dotazione” che viene riproposta con la classica motivazione di non mortificare le aspirazioni di tanti proprietari che contavano sulla possibilità di poter costruire.

Il rischio è ancora più alto se si pensa che ormai quasi tutte le leggi urbanistiche regionali disciplinano la perequazione e con essa la possibilità di riconoscere, a certe condizioni, dei bonus di cubatura: senza voler demonizzare eccessivamente un tale strumento, non si può non preoccuparsi di fronte alla possibilità che questi “bonus” diventino delle mine vaganti capaci di mettere in discussione la certezza della disciplina che costituisce una delle ragioni dell’esistenza stessa di un piano urbanistico.

Ma, e leggendo la cronaca quotidiana dovrebbe essere ormai chiaro, per scongiurare rischi di questo tipo, purtroppo, né la tecnica, né il buon senso nè la giurisprudenza possono bastare.

Si vedano in proposito il parere pro veritate del prof. Vincenzo Cerulli Irelli, la relazione “ Forse che il diritto impone di compensare i vincoli sul territorio?”, di E. Salzano e l’articolo di eddyburg su Carta “ É una balla che il PRG attribuisca diritti edificatori".

L’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, prescrive, al primo comma, i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, che consistono nell’applicazione dell’art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di Napoli), «sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell’ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917». L’importo così determinato è ridotto del 40 per cento. Il secondo comma aggiunge che, in caso di cessione volontaria del bene da parte dell’espropriato, non si applica la riduzione di cui sopra.

Questa norma “la quale prevede un’indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al ragionevole legame con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte. La suddetta indennità è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall’imposizione fiscale, la quale – come rileva il rimettente – si attesta su valori di circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell’interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà”.

“L'indennizzo assicurato all'espropriato dall'art. 42, comma terzo, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse generale che l'espropriazione mira a realizzare - non può essere tuttavia fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro. A tali fini deve aversi riguardo al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso secondo legge, come nel caso di aree destinate all'edificazione in quanto poste in zone già interessate dallo sviluppo edilizio. Per siffatti beni la determinazione dell'indennità secondo il criterio del valore agricolo medio dei terreni, secondo i tipi di coltura praticati nella regione agraria interessata, introduce un elemento di valutazione del tutto astratto che porta alla liquidazione di indennizzi sperequati rispetto al valore dell'area da espropriare, con palese violazione del diritto a quello adeguato ristoro che la norma costituzionale assicura all'espropriato. Sono perciò illegittimi costituzionalmente gli artt. 16 e 20 della legge 22 ottobre 1971 n. 865, 14 e 19 della legge 28 gennaio 1977 n. 10 e dell'articolo unico della legge 27 giugno 1974 n. 247. - cfr. S. nn. 138/77, 115/69.”

“Non è esatto, in base alle leggi che hanno disposto la conformazione edilizia del territorio e condizionato la edificabilità dei suoli al rilascio di una concessione, che l'ius aedificandi non inerisca più al diritto di proprietà, potendo la edificabilità delle aree essere stabilita solo con provvedimento dell'autorità; relativamente ai suoli destinati dagli strumenti urbanistici alla edilizia residenziale privata, infatti, la edificazione avviene ad opera del proprietario dell'area il quale, concorrendo le condizioni previste dalla legge, ha diritto ad ottenere la concessione edilizia, che non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti. Pertanto nella determinazione della indennità di espropriazione, rilevante essendo la destinazione edilizia del suolo, occorre assicurare la congruità del ristoro spettante all'espropriato, che non può essere né apparente né irrisorio rispetto al valore del bene.”

“È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 42, comma terzo, Cost., il combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, comma 1, l. 19 novembre 1968, n. 1187 (Modifica ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), nella parte in cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di indennizzo, in quanto - posto che il problema di un indennizzo a seguito di vincoli urbanistici (come alternativa non eludibile tra previsione di indennizzo ovvero di un termine di durata massima dell'efficacia del vincolo) si può porre sul piano costituzionale quando si tratta di vincoli che: a) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni, b) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge, c) superino sotto un profilo quantitativo la normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà, che resta regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla funzione sociale (art. 42, comma secondo, Cost.);art. 42, comma secondo, Cost.); che la reiterazione in via amministrativa dei vincoli urbanistici decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale; che essi assumono, invece, carattere certamente patologico, in assenza di previsione alternativa di indennizzo e fermo che l'obbligo di indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia), quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga "sine die" o all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, e cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza; e che restano al di fuori dell'ambito della indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni (ivi compresi i vincoli ambientali-paesistici), i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile - una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico, avente le anzidette caratteristiche, se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all'espropriazione (o al serio inizio dell'attività preordinata all'espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi), dalla previsione di un indennizzo.“

“I beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro locazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalle legge. Costituiscono cioè una categoria che originariamente è di interesse pubblico, e l'amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente, ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa. Individua il bene che essenzialmente è soggetto al controllo amministrativo del suo uso, in modo che si fissi in esso il contrassegno giuridico espresso dalla sua natura e il bene assuma l'indice che ne rivela all'esterno le qualità; e in modo che sia specificata la maniera di incidenza di tali qualità sull'uso del bene medesimo.”

“L'atto amministrativo che acclara la situazione dei beni naturalmente paesistici non è accostabile ad un atto espropriativo e non pone perciò in essere la garanzia di indennizzo apprestata dell'art. 42 terzo comma della Costituzione.”

“Nell'ipotesi di vincolo paesistico su beni che hanno il carattere di bellezza naturale, la pubblica amministrazione, dichiarando un bene di pubblico interesse o includendolo in un elenco, non fa che esercitare una potestà che le è attribuita dallo stesso regime di godimento di quel bene, così che le sia consentito di confrontare il modo di esercizio di alcune facoltà inerenti a quel godimento con l'esigenza di conservare le qualità che il bene ha connaturali secondo il regime che gli è proprio e di prescrivere adempimenti coordinati e correlativi a tali esigenze. L'amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare sulle aree vincolate che siano considerate fabbricabili (art. 15 secondo comma). Ma, in tal caso, essa non comprime il diritto sull'area, perchè questo diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive; nè aggiunge al bene qualità di pubblico interesse non indicate dalla sua indole e acquistate per la sola forza di un atto amministrativo discrezionale, com'è nel caso dell'espropriazione considerata nell'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sacrificando una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che vi sta fuori e vi si contrappone.”

“Che non vi sia garanzia di un indennizzo per la limitazione nascente dal vincolo posto sui beni che hanno il carattere di bellezza naturale, deriva dall'essere il regime paesistico del tutto estraneo alla materia dell'espropriazione per pubblico interesse.”

“La garanzia della proprietà privata è menomata qualora i singoli diritti che all'istituto si riconnettono vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto, pur rimanendo intatta l'appartenenza del diritto. Il principio della necessità dell'indennizzo non opera invece nel caso di disposizioni le quali si riferiscano ad intere categorie di beni, sottoponendo in tal modo tutti i beni della categoria senza distinzione ad un particolare regime di appartenenza.”

“Il concetto di proprietà privata non può venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall'attitudine ad essere sottoposto, nel suo contenuto, ad un regime determinabile con legge ordinaria. Il legislatore può perfino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, oltre che imporre limitazioni, in via generale, o autorizzare imposizioni in via particolare, le quali peraltro non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata al di là della quale il sacrificio imposto venga ad incidere sul bene oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico, assumendo così carattere espropriativo. I commi secondo e terzo dell'art. 42 Cost. vanno insieme considerati e coordinati per ricavarne, alla stregua di quello che, in base all'ordinamento giuridico attuale, rappresenta il vigente concreto regime di appartenenza dei beni, l'identificazione dei casi nei quali, nell'ipotesi della imposizione di limiti, si verifichi una incidenza negativa a titolo individuale sulla proprietà riconosciuta secondo il regime stesso, ed occorre conseguentemente far luogo all'indennizzo.”

“I vincoli di cui ai nn. 2, 3 e 4 dell'art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, sono immediatamente operativi e validi a tempo indeterminato. Viene pertanto a determinarsi un distacco fra l'operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento di risultati finali del piano stesso, che sono dilazionati a data incerta, imprevista ed imprevedibile nel suo verificarsi. Peraltro, nel sistema della legge, non è di regola previsto indennizzo per nessuno dei detti vincoli, né, in particolare, nel caso di trasferimenti coattivi, per il vincolo di immodificabilità cui il proprietario è tenuto a sottostare per il tempo illimitato durante il quale rimarrà in attesa del trasferimento.”

“I beni immobili che ricadano nella sfera di applicazione della legge urbanistica continuano ad essere considerati di pertinenza del proprietario, con gli attributi inerenti alla loro possibilità di utilizzazione, per cui i proprietari che vengano a subire un trasferimento coattivo conseguono il valore venale attuale dei beni. Tuttavia la proprietà in questione è sottoposta ad alcuni limiti, in relazione alla funzione sociale che le è propria. Tra questi limiti sono da ritenere legittimi quelli connessi e connaturati a detta proprietà, in quanto hanno per scopo una disciplina dell'edilizia urbana nei suoi molteplici aspetti, ivi compresi, in particolare, i vincoli di immodificabilità (per la limitata durata, purché ragionevole, dei piani particolareggiati) di quelle aree che i piani stessi destinano al trasferimento in vista delle programmate trasformazioni a diverse utilizzazioni in considerazione della particolare natura e funzione dei piani stessi.”

“Sottrarre, senza indennizzo, beni immobili, alla loro riconosciuta destinazione, dal momento in cui su di essi interviene il vincolo urbanistico, significa operare una incisione a titolo individuale sul godimento del singolo bene che penetra al di là dei limiti configurati dalla legislazione stessa, che prevede invece l'indennizzo secondo il valore venale per gli immobili dei quali viene imposto il trasferimento per finalità urbanistiche. Questa incisione deve essere pertanto indennizzata a favore del proprietario, il cui interesse è subordinato a quello generale della collettività per quanto riguarda la sottoposizione ai vincoli, ma non per quanto riguarda le più gravi conseguenze economiche che ne derivano sul patrimonio di alcuni soltanto dei componenti la collettività destinataria della legge.”

“Quando le limitazioni immediatamente operative nei confronti di diritti reali di cui ai nn. 2, 3 e 4 dell'art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, abbiano contenuto espropriativo, le predette norme, nonché l'art. 40 della stessa legge nella parte in cui non ne prevedono l'indennizzabilità, sono costituzionalmente illegittime. Ferme restando che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse dall'art. 42 comma secondo Cost. (ad es., gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari), spetterà agli organi di giurisdizione ordinaria desumere, dalla casistica delle imposizioni, la rispettiva inserzione nei "vincoli di zona" contemplati nel n. 2 del citato art. 7 della legge n. 1150 del 1942, ovvero in una delle altre categorie indicate. Neppure spetta alla Corte, una volta riconosciuto il detto difetto di previsione legislativa, esaminare le modalità con cui, nei casi dovuti, debba procedersi all'indennizzo.”

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