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«Due sono gli scenari che si aprono: una maggiore integrazione, ma fondata su presupposti neoliberali, o un recupero di sovranità, politica ed economica, da parte degli Stati membri».

Sbilanciamoci info 29 giugno 2016 (c.m.c.)

A meno di un anno dal referendum greco, una nuova scossa ha investito il processo di integrazione europeo. Il 23 di giugno, la maggioranza assoluta dei votanti del Regno Unito ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. Si chiude così una vicenda iniziata con la mossa di Cameron, che nella campagna elettorale del 2015 promise il referendum per contenere il deflusso di voti verso gli estremisti dello UKIP.

Difficile negare che si tratti di una sorpresa: il leave ha vinto nonostante l’impatto emotivo dell’omicidio della deputata laburista Jo Cox e l’appoggio dato al remain da parte dei grandi partiti e dalla maggioranza degli intellettuali. Tuttavia, come segnalava Krugman sul suo blog, bisognava essere ciechi per non vedere arrivare una crisi di questo genere nel progetto europeo. L’analisi del voto mostra infatti risultati interessanti: da un punto di vista geografico, a votare per il leave sono stati per lo più i cittadini dei grandi centri urbani delle Midlands come Birmingham e vecchi distretti industriali delle West (59,3%) e East Midlands (58,5%).

Aree che hanno sofferto intensi processi di deindustrializzazione e smantellamento di interi comparti produttivi, a seguito dell’applicazione delle ricette neoliberiste di origine Thatcheriana portate avanti negli ultimi decenni con la benedizione dell’UE. I voti a favore del leave schizzano in centri medio-piccoli quali Mansfield (70.86%), Doncaster (68.98%), Sunderland (61.34%), Middlesbrough (65.48%), Scunthorpe (66.30%) in cui disoccupazione e povertà registrano valori superiori alla media nazionale. Città contro periferie, ricchi contro poveri, dirigenti e funzionari contro operai e lavoratori precari.

È bene chiarire quali sono i termini della questione. Il referendum non è vincolante: il Parlamento è sovrano e può decidere di ignorarlo. Sarebbe una pessima decisione, che segnerebbe ancor di più il solco tra il popolo del leave e i rappresentanti politici nazionali. Inoltre, si profilerebbe come un regalo politico allo UKIP di Nigel Farage, da sempre antagonista alla costruzione politica ed economica della UE.

Tuttavia, non sarebbe la prima volta che l’UE, o gli Stati membri direttamente, prendono la decisione di ignorare gli esisti dei referendum consultivi (il no danese contro Maastricht nel 1992, le sconfitte nei referendum sulla costituzione del 2005 in Francia e Olanda, e l’OXI greco). Adottando questa linea, alcuni parlamentari del Labour hanno già formalmente chiesto di ignorare il risultato, un dato che la dice lunga sulla ‘sintonia’ che lega alcune componenti del partito di Corbyn e settori importanti della classe operaia britannica, che in larga parte ha votato per l’uscita.

Se si decidesse di andare avanti e appellarsi all’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, che regola l’uscita di uno Stato membro dall’UE, da un punto di vista giuridico inizierebbe una negoziazione con la UE e verosimilmente una contemporanea adesione all’EFTA, l’area di libero scambio europea, di cui sono membri, oltre ai Paesi dell’UE, l’Islanda, la Svizzera e la Norvegia. Il processo durerebbe un massimo di due anni ma la reale durata del processo potrebbe variare sensibilmente a seconda di come la situazione evolverà.

Le conseguenze economiche sarebbero, invece, determinate dai termini dell’adesione. Al momento, la linea di tensione più forte per l’economia del Regno Unito è il deficit esterno di circa il 5% del PIL, squilibrio che (sebbene di dimensione variabile) si trascina dal 1985.

Il finanziamento di questo deficit non è in principio problematico, per tre ragioni: 1) la City di Londra è un polo attrattivo per i capitali; 2) il Regno Unito ha la propria moneta e si indebita in sterline, eliminando eventuali problemi di bilancio per la svalutazione in atto; 3) Londra condivide con la UE la strategia fallimentare fatta di austerità di bilancio e lotta all’inflazione. Basti ricordare che dal 2010 Cameron e Osborne han ridotto di 5 punti di PIL la spesa pubblica pur non essendo stretti nel cappio dell’Euro.

Tuttavia, se si imponessero ai britannici dei termini ‘punitivi’ di accesso all’EFTA, si potrebbe generare una pericolosa recessione nel Regno Unito moltiplicando le conseguenze economiche negative per la UE e alimentando ancor di più i rispettivi spiriti di rivalsa nazionalistica. Innanzitutto, il 5% del deficit esterno del Regno Unito si spiega per il 53% con l’import dall’UE (dati Eurostat), quindi non è nell’interesse economico dell’Europa castigare Londra, che copre il 10% dell’import intra-UE.

Inoltre, questa sorta di rappresaglia suonerebbe come una minaccia imperialista che rappresenterebbe un ulteriore regalo elettorale allo UKIP. Tutte le altre proposte abbozzate, come castigare la City o offrire accordi tributari speciali per dirottare le sedi delle multinazionali verso la UE sono o inutili – i servizi finanziari sono il 7% del PIL inglese e si spiegano soprattutto con vantaggi comparati – o dannose, perché approfondirebbero la disuguaglianza che cresce ogni volta che aumenta la quota del capitale nel reddito.

D’altra parte, anche il populismo inglese dovrà fare i conti con la realtà: l’accesso all’EFTA implica l’adozione di regolamenti e standard europei, l’accettazione delle norme sulla circolazione delle persone e un contributo economico, sebbene inferiore a quanto pagato alla UE oggi.

E l’Europa? Chi si preoccupa del progetto europeo in fieri, sa bene che le contraddizioni esistenti sarebbero esplose prima o poi. Che sia accaduto in Inghilterra, che tra tutti i paesi ha sempre avuto una certa resistenza ai processi di integrazione europea, si deve alle contingenze storiche. Il sistema istituzionale europeo è incapace di far fronte agli shock asimmetrici, con il risultato che ogni scossone aumenta le divergenze interne. La crisi del 2008 lo ha mostrato in modo chiaro, con l’austerità imposta ai paesi in crisi e i paesi più forti favoriti dai bassi tassi di interesse.

Dal 2009, il processo d’integrazione è andato avanti come mai prima d’ora. Tuttavia, ciò è avvenuto solo nella direzione di garantire un ambiente favorevole al capitale a dispetto delle montanti disuguaglianze e dei crescenti rischi di disintegrazione. Regole costituzionali contro il deficit di bilancio, ma non la mutualizzazione dei debiti; un’unione bancaria con regole di salvataggio, ma non l’assicurazione sui depositi. Una schizofrenia istituzionale che fa temere per quel che potrebbe accadere con un ministro delle finanze comune.

La stessa schizofrenia istituzionale è la causa prima degli esistenti problemi di gestione dell’immigrazione. Il turismo del welfare contro cui si scagliano i sostenitori del leave sono in effetti esacerbati dalla mancata convergenza dentro l’Unione, generando insofferenza nell’opinione pubblica. La legislazione e gli accordi recenti circa la gestione dei flussi migratori di cittadini non comunitari si stanno dimostrando incompatibili con i divari di reddito e le tensioni sociali crescenti negli Stati membri. Infine, paesi deboli come Grecia e Italia si trovano nella folle posizione di dover gestire la frontiera comune essendo nello stesso tempo vittime di austerità, e dunque privi delle necessarie risorse per farlo.

A questo punto, con un possibile effetto domino alle porte e ulteriori tensioni sulla strada dell’integrazione rimangono due sole strade possibili. Una maggiore integrazione, ancora una volta fondata su presupposti neoliberali e con la capital union a fare da perno; o un arretramento del medesimo processo di integrazione, con gli Stati membri a recuperare parte della loro sovranità politica ed economica.

Nel primo caso, le garanzie che una maggiore integrazione non soffra degli stessi problemi di disegno istituzionali denunciati finora sono oggettivamente nulle. Politicamente, questo rischierebbe anche di favorire in modo sostanziale la crescita dell’estrema destra come le ultime elezioni hanno dimostrato.

Nel secondo caso, potrebbe aver luogo un accordo di cooperazione politico-economica, teso ad arretrare rispetto al processo di integrazione stesso, rimettendo in discussione, ad esempio, la libera circolazione dei capitali.

Di fronte ad una destra arrembante e sempre più efficace nell’intercettare la rabbia antieuropea delle classi popolari, ogni opzione merita di essere presa in considerazione e valutata. Con l’unico metro possibile: quello delle condizioni di vita, di lavoro e soprattutto di agibilità politica delle classi che più stanno subendo le conseguenze dell’attuale configurazione europea.

«Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove». La Repubblica, 26 giugno 2016
LA lunga strada verso Brexit è cominciata insieme ai boat people e alle guerre civili che in questi ultimi anni hanno disintegrato paesi chiave del nord Africa e del Medio Oriente.
Insieme ai disperati che per mare e per terra cercano scampo dalla fame e dalle guerre cercando rifugio nella ricca Europa. Povertà e mancanza di sicurezza sono beni irrinunciabili e non negoziabili, beni assoluti che siamo disposti a cercare altrove quando non sono disponibili vicino a noi. Nella speranza di trovare porte aperte e non ermeticamente chiuse. La storia dell’Europa del nostro tempo è legata inscindibilmente con quella di questa speranza e di questa disperazione. Dunque: le frontiere sono uno dei fattori che dobbiamo tener presente se vogliamo cercare di capire Brexit.

A partire dalla scorsa estate l’Ungheria ha iniziato - prima tra i paesi europei - a installare barriere di filo spinato per chiudere le frontiere con i paesi balcanici, quasi a farsi porta blindata dell’Unione Europea. Nessuno glielo ha impedito. I paesi dell’Unione hanno criticato quella decisione ma non sarà nei loro poteri quello di intervenire perché le frontiere dell’Europa sono ancora le frontiere degli stati-membri. Un tentativo di politica comune con Frontex - di respingimento dei migranti e, in casi di emergenza, soccorso - e poi un accordo con la Turchia, un paese autoritario e lesivo delle libertà civili e dei diritti umani, per pattugliare le porte ad Est, verso la Siria e i paesi distrutti e destabilizzati dai governi americani con gli alleati occidentali. Le frontiere sono la questione geopolitica sulla quale l’Europa rischia di disintegrarsi. Nata per abbattere le frontiere interne (il prossimo anno si festeggerà il Trattato di Roma che riconobbe ai cittadini di paesi ex-nemici di muoversi oltre le frontiere dei loro stati d’origine) le frontiere sono la sua damnatio memoriae.

Chi ha più bisogno di frontiere, nel mondo globalizzato, è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci e della forza lavoro, la merce che può essere comperata a bassissimo costo quando le frontiere sono aperte ai disperati della terra, disposti per vivere a salari da fame e al lavoro quasi servo, senza diritti. Tutto questo avviene in Gran Bretagna e in tutti i paesi europei - dove l’Unione non si è in questi anni di crisi infinita impegnata a non far sentire la paura delle frontiere aperte, dove, al contrario, si è speculato sulla mano d’opera serva (pensiamo al bracciantato nelle campagne del nostro meridione).

La responsabilità di Brexit esce dalle frontiere della Gran Bretagna dunque, e non è semplicisticamente imputabile all’irrazionalità di chi l’ha votata - i cittadini impoveriti e ridiventati poveri non hanno tanto interesse a che il loro paese tenga le frontiere aperte. Sarebbe un errore sottovalutare questa legge eterna: la libertà non sta insieme alla destituzione. L’Unione Europea non può per questo andare avanti, oltre Brexit, come se nulla fosse cambiato, come se Brexit non mettesse in discussione la sua miope politica di austerità. Il problema è quindi un problema di frontiere perché è un problema di opportunità sociale ed economica. In questo ultimo anno si è pensato che la costruzione del filo spinato non solo all’esterno dell’Europa ma anche dentro l’Europa fosse la soluzione - una soluzione nazionalista e populista.

La risposta non può però venire dalla continuazione dello status quo: il problema dei rifugiati e il problema dell’erosione del benessere dei cittadini europei sono ineludibili e sono legati tra loro. Richiedono un governo politico però. Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove. Sarebbe urgente che in risposta a Brexit l’Europa mostrasse anche la faccia politica e costruttiva oltre a quella bancaria e restrittiva.

«Gli enti locali nel mirino. Sono loro a "possedere" la gran parte della ricchezza sociale del paese – in termini di territorio, patrimonio pubblico e servizi pubblici localiIl manifesto, 25 giugno 2016 (c.m.c.)

Il risultato delle recenti elezioni amministrative apre nuovi scenari nel nostro Paese: la pesante sconfitta del governo Renzi e del Pd si è espressa con una forte domanda di cambiamento, che da Napoli -con la riconferma di De Magistris- a Roma e Torino –con la netta vittoria di Virginia Raggi e Chiara Appendino, giovani sindache del M5S- attraversa l’intera penisola.

Non è un caso se questa ribellione si sia evidenziata nella scelta sulla guida dei comuni e delle città: nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia risibile (intorno al 2,1%) è sugli stessi che in questi ultimi quindici anni sono state scaricate tutte le misure per farvi fronte.

Un dato per tutti: nel periodo 2008/2014, il contributo richiesto agli enti locali – fra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità interno- è passato da 1.650 a 16.665 miliardi (!). Facile immaginare cosa abbia voluto dire in termini di taglio dei servizi e delle prestazioni sociali, abbandono del territorio e delle periferie, dispersione e solitudine sociale.

Del resto, gli enti locali sono nel mirino per un ben preciso motivo: sono loro a «possedere» la gran parte della ricchezza sociale del paese –in termini di territorio, patrimonio pubblico e servizi pubblici locali. Una ricchezza quantificata dalla Deutsche Bank in ben 571 miliardi, e da tempo nel mirino dei grandi interessi speculativi e finanziari, alla ricerca di mercati sicuri e profittevoli.

I comuni sono dunque uno dei luoghi di precipitazione della crisi e uno dei terreni su cui si approfondiranno importanti conflittualità sociali. Per questo è bene che, fuori da una astratta neutralità degli enti locali, i nuovi sindaci siano consapevoli di alcune fondamentali battaglie sulle quali sarà richiesto loro di prendere posizione.

Il primo terreno è quello del debito, utilizzato come ricatto per permettere la spoliazione delle comunità locali e la messa a valorizzazione finanziaria di tutti i beni comuni urbani. La radicale rimessa in discussione dell’ideologia del debito, attraverso l’avvio di audit pubblici e partecipati, potrebbe essere il primo passo per le comunità territoriali verso il diritto di riappropriarsi del proprio destino.

Un secondo terreno è quello della contestazione del patto di stabilità e del pareggio di bilancio, che in questi anni hanno prodotto solo instabilità sociale e aumento delle disuguaglianze. E’ un terreno decisivo per sindaci che vogliano abbandonare il ruolo di facilitatori della penetrazione dei grandi interessi finanziari sulla società, per riappropriarsi finalmente di quello di difensori delle comunità territoriali e degli uomini e le donne che le abitano.

Da questo punto di vista, la messa in discussione dell’Anci, organismo da sempre subalterno ai diktat governativi, anche pensando ad una nuova aggregazione delle “municipalità ribelli”, diventa uno dei possibili tasselli del cambiamento.

Il terzo terreno è senz’altro quello della riappropriazione dei beni comuni urbani, sia per garantire diritti fondamentali alle comunità amministrate, sia per impostare sul riconoscimento degli stessi una nuova economia territoriale, ecologicamente e socialmente orientata.

Da questo punto di vista, il contrasto da parte dei Comuni del decreto Madia di privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali diviene dirimente, e dovrà vedere –in caso di sua approvazione- l’estendersi a macchia d’olio della disobbedienza territoriale.

Siamo dentro un tempo, in cui non si può più definirsi «sindaco di tutti» e occorre decidere se schierarsi con la città e gli abitanti che la vivono o con i poteri forti della speculazione immobiliare e finanziaria. Questione dirimente, che riguarda i sindaci, ma, naturalmente e soprattutto, le comunità territoriali, che devono riappropriarsi del futuro, iniziando dal presente.

«Nel 2015, sono stati 479 gli atti intimidatori e le minacce rivolte ad amministratori locali e funzionari pubblici. 40 intimidazioni al mese, una minaccia ogni 18 ore». Il manifesto, 25 giugno 2016 (c.m.c.)
Avrebbero potuto essere di più. Sarebbe stato un dovere istituzionale di tutti. Una esigenza per chi continuamente ricorda con note stampa e proclami che fare l’amministratore in Calabria significa sacrificarsi. Però, quando bisogna dimostrarlo in piazza, in troppi disertano.

La prima marcia nazionale “Amministratori sotto tiro” voluta da Avviso Pubblico a Polistena, in provincia di Reggio Calabria, conserva comunque intatto il suo valore simbolico. Anche se i cittadini rimangono a guardare dalle finestre, più incuriositi che partecipi, più nascosti che visibili. Ma qui siamo in Calabria e qui niente è semplice. Quasi mai. Resta, però, di questa passeggiata tra gonfaloni, bandiere di Libera, fasce tricolore il ricordo di visi felici. Quelli dei ragazzi che hanno sfilato tutt’altro che in silenzio. Hanno urlato che loro non temono la mafia, ma anche che vogliono che gli si garantisca un futuro.

Ecco perché vale la pena, comunque, insistere e ancora resistere. Di una nuova resistenza ha parlato Don Pino De Masi che è il parroco della piccola cittadina calabrese. “Chi marcia oggi insieme a noi, lo fa anche per coloro i quali invece hanno deciso di non partecipare. E’ vero che sono ovunque i sindaci che con la mafia flirtano, ma questo è un motivo in più per credere che chi non lo fa, è partigiano di questo tempo. L’Italia si deve rifare e saremo noi i combattenti”.

Così, da un angolo bello e profondo del Sud, tanto bistrattato e dimenticato da essersi formato leggi fuori dalla legge, che si alza forte un grido di aiuto allo Stato. A farlo dal palco, senza alcuna diplomazia, come ha notato il vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico, è stato il primo cittadino di Polistena, Michele Tripodi che ha tuonato contro il Governo reo di aver impoverito ulteriormente e in maniera drammatica le casse dei Comuni e di averle così “rese fragili anche agli occhi dei cittadini”.
Qui si rischia di tornare tanto indietro da non ricordare neanche più da dove si è partiti. Così Tripodi denuncia e a fermarlo non ci riesce neanche una improvvisa pioggia battente “la mafia qui, è tornata ad essere punto di riferimento. La privatizzazione del ciclo dei rifiuti, come dell’acqua è legata ad appetiti illeciti e i danneggiamenti subiti dalle aziende che attualmente lavorano in questi ambiti, sono solo avvisaglie. Noi però abbiamo scelto, noi non restiamo muti, noi non ci leviamo il cappello”.
Questo il benvenuto a Polistena, questo è il monito di un Sindaco che non rinuncia a parlare anche della riforma costituzionale e di come quello che sta per accadere in Italia è il contrario di ciò che gli italiani auspicano. Di Costituzione ha parlato anche Don Luigi Ciotti: “Il primo e più importante testo antimafia che deve ancora trovare piena applicazione”.

A cambiare, invece, deve essere la politica, l’unico strumento destinato al miglioramento. Altrimenti, avverte Don Ciotti “le mafie non moriranno mai, se non cacciamo via coloro i quali si nascondono dietro le parole giuste, ma rimangono immobilizzati in una grave malattia che si chiama potere”.

Avviso Pubblico ha chiesto impegno ai parlamentari presenti e a Rosy Bindi e a Bubbico. Ha domandato maggiore attenzione ai percorsi legislativi che dovranno garantire il lavoro svolto dagli amministratori, anche attraverso la regolazione della normativa che riguarda i beni confiscati. Auspicando la formazione di una classe dirigente responsabile e trasparente. Tutti compiti ardui, ma non impossibili.

Ci credono i sindaci venuti fin qui anche da Campania, Puglia e Sicilia. Ci credono i giornalisti minacciati come Michele Albanese che combatte una strenue lotta solo per poter fare bene il suo mestiere, solo perché ha raccontato fatti che in molti preferirebbero venissero taciuti. Albanese non si stupisce della scarsa adesione, anche di quella dei cittadini “hanno paura a schierarsi. Non vedi come rimangono distanti, lo fanno perché è così che opera la ‘ndrangheta. Si muove sotto traccia e in silenzio si impone”.

Di come si muova la ‘ndrangheta non hanno dubbi neanche due ex sindaci di Lamezia Terme e di Rosarno, Gianni Speranza e Elisabetta Tripodi. Entrambi si definiscono indignati e preoccupati. Speranza dal canto suo legge “una ipocrisia calabrese che soffoca ogni buon progetto, sempre in silenzio, sempre senza appello”.

Come senza possibilità alcuna hanno lasciato la giovane ex sindaca Tripodi che ci tiene a dire “noi non siamo tutti uguali, sono riusciti però nella concezione al ribasso. Il problema non è solo la mafia, ma il suo gene, che rischia di macchiare tutti”.

E se le parole non fossero ancora abbastanza per comprendere il fenomeno, tocca ai numeri la sintesi. Nel 2015, sono stati 479 gli atti intimidatori e le minacce rivolte ad amministratori locali e funzionari pubblici. 40 intimidazioni al mese, una minaccia ogni 18 ore. Rispetto allo scorso anno, l’incremento in tutta Italia è stato del 33 per cento.

«Dentro o fuori. Il premier lanciò l'idea del referendum per prevenire l’emorragia elettorale verso la destra populista dell’Ukip di Farage». Il manifesto, 25 giugno 2016

Cameron pareva (ed è) un esponente tipico dell’euro scetticismo moderato del partito Tory. Uno da cui non usciva mai una professione di europeismo, ma solo l’esultanza per una eccezione strappata, per uno sconto ottenuto sui fondi da corrispondere, per ogni episodio in cui il punto di vista strategico degli Usa si imponeva grazie all’alleanza speciale con i britannici. Pareva ed era, la sua, solo una nuova edizione della vecchia dottrina di Macmillan.

Nel 1960 il primo ministro Tory aveva commissionato un rapporto ai maggiori esperti conservatori, da cui impietosamente risultava il declino del Regno Unito come forza globale, e l’urgenza di un’adesione alla Comunità Europea. Per questo, dopo il ritiro di un De Gaulle contrario all’adesione britannica, il Regno Unito era stato ammesso al principio degli anni 1970, ancora grazie a un primo ministro conservatore come Heath.

Il dinamismo superiore del Mercato Comune e i portenti industriali di Italia e Germania ridicolizzavano gli eleganti snobismi di chi, fra i conservatori, aveva definito la conferenza di Messina e il Trattato di Roma «scavi archeologici». Fra rovesci, riprese e oscillazioni, fra asprezze thatcheriane e morbidezze alla Mayor la linea Tory era sostanzialmente rimasta la medesima: non era sufficiente essere solo il paese più vicino agli Usa, occorreva (anche per essere più preziosi per gli americani) al contempo essere parte importante dell’integrazione europea. Dovere «scegliere fra le due sponde dell’Atlantico», sosteneva Macmillan, rappresentava in realtà una condizione di minorità e di dipendenza, non di forza. Si trattava casomai di fare ambedue le cose: essere lo Stato membro con la migliore «relazione speciale» con Washington. Certo: il progetto europeo, specie da Thatcher in poi, non doveva essere che un mercato a integrazione negativa, e il rapporto con gli Usa doveva ricevere un riguardo che la Lady di ferro non avrebbe mai riservato alle istituzioni europee.

Il risultato del referendum però ha rotto per sempre questa, forse già logora, ambivalenza dei tories.

La differenza l’ha fatta la spregiudicatezza: Cameron nel 2013 promise il referendum per prevenire l’emorragia elettorale verso la destra populista dell’Ukip di Farage. Di questa spregiudicatezza l’eccentrico ex sindaco di Londra Ben Johnson, però, ha deciso di fare uso più estremo: puntare ai voti di Farage ma assumendo egli stesso una leadership anti europeista definitiva, senza timore di spaccare profondamente il partito conservatore, spostandolo sulla Brexit oggi, domani e sempre, a prescindere dal referendum e dal suo risultato. Un risultato che poi ha tramutato in scioccante realtà quelli che sembravano giochi tattici per la leadership della destra. Un altro esempio che la spregiudicatezza, in tempi di sistemi politico-sociali sempre più deteriorati, conduce verso l’avventurismo.

C’è chi nella attuale instabilità europea vede solo una classe operaia che si dissolve, a danno della sinistra europea: costoro non hanno capito che le classi medie sono oggi altrettanto imprevedibili di altri ceti. Il dramma dei conservatori britannici lo conferma. Questo, come fra le due guerre, accade sempre in epoche chiuse in ideologie economiche talmente ottuse da non lasciare prospettive. Un contesto che, in modo diverso, ha danneggiato anche la strategia di Corbyn e del Labour. La sua linea di «Sì in Europa contro il liberismo dei tory» rompeva con gli anni di Blair: da quest’ultimo erano, è vero, giunte inedite professioni di europeismo (almeno in qualche efficace discorso) ma il progetto europeo era rimasto sostanzialmente quello di un mercato largo, e il rapporto speciale con gli Usa era giunto fino a spaccare la Ue, e a ignorare l’opinione della stragrande maggioranza degli europei (britannici compresi) pur di combattere una guerra all’Iraq fatta di menzogne e pseudo-strategie.

La campagna di Corbyn per una Social Europe di nuovo conio intendeva e intende essere, a anche a prescindere dalla sua realizzabilità, anzitutto critica del modello sociale britannico, condivisa dal socialismo nazionale dello Scottish National Party. Un europeismo affermatosi nel Labour già nella seconda metà degli anni 1980 con la leadership di Kinnock, che in una futura regolazione europea scorgeva un modello da opporre in quegli anni alla signora Thatcher. Precedentemente, invece, aveva dominato l’anti-europeismo della New Left laburista, specie fra gli anni 1970 e 1980.

A convertire in seguito i laburisti a una possibile Social Europe era intervenuto Jacques Delors: in un discorso del 1988 al congresso delle Unions egli aveva prospettato un’integrazione dedita a combattere le aree di sottosviluppo e ritardo sociale del continente, a favore di maggiore protezione sociale e maggiore potere negoziale del sindacato. Sappiamo che questa prospettiva, in parte ancora presente nel Libro Bianco di Delors, è stata abbandonata negli ultimi 25 anni. Proprio l’abbandono di questo progetto del socialismo europeo ha indebolito Corbyn e la sua battaglia per il remain. Rimane il grido che tutti i laburisti e i socialisti nazionali scozzesi rivolgono alla sinistra europea: «Non lasciateci su quest’isola da soli con i tories».

La Gran Bretagna esce dall’Unione europea. Oltre 17 milioni di sudditi di sua maestà (51,89%) hanno votato a favore del Brexit.

Il manifesto, 24 giugno 2016 (m.p.r.)

Remain: 16.141.241 (48.11%)
Leave: 17.410.742 (51.89%)

Affluenza molto alta al referendum (72,2%), che dopo i conteggi della notte ha consegnato un verdetto storico, che ora quasi sicuramente scatenerà un effetto domino per tutto il continente. Diverse forze anti-europeiste infatti hanno già chiesto il referendum sull’Unione.

Sterlina ai minimi storici, crollo delle borse mondiali. La Banca d’Inghilterra assicura che prenderà “tutti i passi necessari per la stabilità finanziaria e monetaria”.

Il leader dell’Ukip, Nigel Farage, ha chiesto le dimissioni del premier David Cameron: «E’ il nostro giorno dell’indipendenza, una vittoria della gente vera, una vittoria della gente ordinaria, una vittoria della gente per bene».

Preoccupazioni anche per la tenuta del Regno Unito, visto che Scozia e Irlanda del Nord hanno votato massicciamente a favore dell’adesione all’Europa. Lo Scottish National Party (Snp) si prepara in ogni caso a chiedere a Westminster di partecipare al negoziato tra Regno Unito e Ue per il ritiro. E’ altamente probabile che contestualmente sarà richiesta la possibilità di un secondo referendum limitato alla sola Scozia. Alex Salmond (Snp): «L’esito del referendum cambia completamente tutto il contesto dell’indipendenza scozzese».

Secondo i trattati l’uscita di Londra andrà ora negoziata con l’Ue ma la trattativa e l’uscita definitiva dovrebbe concludersi entro due anni (salvo proroghe).

Non è escluso che in questo lungo processo di uscita, la Scozia scelga di tenere un nuovo referendum definitivo sulla permanenza o no nell’Ue a differenza del Regno Unito.

Critiche all’interno del Labour anche per il leader Jeremy Corbyn, a favore del Remain. Il Guardian parla di manovre rapidissime dietro le quinte per votare la sfiducia al segretario e costringerlo alle dimissioni.

Previste per la mattinata riunioni in tutte le cancellerie del mondo.

Rinviata a data da destinarsi la direzione del Partito democratico che era stata convocata per oggi dopo la sconfitta alle elezioni comunali.

Si è tenuta questa mattina presso la Sala Situazioni della Presidenza del Consiglio una riunione convocata da Matteo Renzi. Alla riunione hanno partecipato il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il Ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti (servizi segreti) e il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.

Alle 11.30 conferenza stampa a Parigi di Marine Le Pen (in Francia le presidenziali si terranno l’anno prossimo). La leader del Fronte Nazionale ha già chiesto l’indizione di un identico referendum in Francia e in tutti i paesi Ue che lo vorranno.

Il premier belga Charles Michel ha chiesto la convocazione immediata di un vertice europeo senza la presenza inglese.

Le tre istituzioni che guidano l’Europa (il premier olandese Rutte come presidente di turno, Juncker per la Commissione, Tusk per il Consiglio) si riuniranno oggi alle 10.30.

Convocato nel pomeriggio in Lussemburgo un vertice di tutti i ministri degli Esteri europei.

Nel suo discorso alla nazione, in diretta televisiva (alle 9.20 ora italiana, le 8,20 a Londra), il premier David Cameron ha detto che Galles, Scozia e Irlanda del Nord saranno coinvolte nei negoziati con Bruxelles.

Cameron si dimette da primo ministro e affida al congresso del Partito Conservatore di ottobre la scelta di individuare il suo successore, continuerà dunque a governare per i prossimi tre mesi.

Articoli di Beppe Severgnini, Andrea Cerretelli, Francesco Merlo, Ivo Caizzi, Gianni De Fraja. Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 OreLavoce.info, 24 giugno 2016 (m.p.r.)

Corriere della Sera

La SCELTA PEGGIORE
PAGHEREMO TUTTI
di Beppe Severgnini

Phileas Fogg, qui dentro, fece una scommessa da ventimila sterline: avrebbe compiuto il giro del mondo in ottanta giorni. Ai membri del Reform Club, riuniti nello stesso luogo, ieri sera ne avevo suggerita un’altra: se la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea se ne pentirà, anche prima di ottanta giorni. E la posta in gioco, stavolta, è ben più alta. È accaduto. Leave (lasciare la UE) ha ottenuto il risultato che pochi aspettavano e molti temevano. Little England batte Gran Bretagna. Gli inglesi scappano, e non succede spesso. Il Regno Unito non è più una grande potenza: è una media potenza che sa fare alcune cose molto bene (parlare inglese, vendere servizi, andar per mare, coltivare l’arte, esportare musica e calcio). I problemi del pianeta sono troppo vasti e complessi – le migrazioni e i conflitti, gli accordi commerciali e la finanza globale – perché le democrazie europee li affrontino in ordine sparso. Gli inglesi, da soli, non ce la possono fare. Avrei voluto gridarle, queste cose: ma le regole del club lo impediscono.

Sono membro del Reform da trent’anni: è la mia casa londinese (dopo averci vissuto, non ho mai dormito in un albergo in questa città). Ed è importante trovarsi a casa quando i proprietari prendono decisioni fondamentali per la loro vita. E la nostra, in questo caso.

Il referendum britannico sull’Europa era storico: per una volta, l’aggettivo non è abusato. E il Reform Club ha dimestichezza con la storia. Come gli inglesi, del resto, che la masticano con una passione sconosciuta ad altri popoli (e non usano rimuoverla, anche quando provoca imbarazzo).

Il club ha aperto le porte centottanta anni fa, nel 1836. Esattamente dov’è oggi: 104 Pall Mall, dentro un edificio modellato su Palazzo Farnese a Roma. L’architetto, Sir Charles Barry, non voleva copertura sull’atrio centrale, come nel modello originale. Poi è stato convinto che il clima di Londra non era il clima di Roma, e ha aggiunto una cupola di vetro.

Eravamo in tanti là sotto, la notte scorsa. Un salone dove sono passati Disraeli e Gladstone, Lloyd George e un giovane, iracondo Churchill. Tutti ad aspettare, con un bicchiere in mano e un po’ di preoccupazione nello sguardo.

Per la Referendum Evening — è solo la terza consultazione nella storia del Regno Unito — il club aveva piazzato grandi televisori all’ingresso, esteso l’orario della Coffee Room (il ristorante, non servono il caffè) e tenuto aperta la Smoking Room (la sala di lettura, dove non si può fumare). Noi ci siamo chiusi a scrivere nella Study Room dove c’era poco da studiare, ormai: bisognava solo aspettare i risultati finali, che sono arrivati all’alba.

Nella Study Room, verso le 20, sono entrati un australiano, una sudafricana, un inglese. Ha detto il primo: «Io spero fortemente che rimangano! Perché la permanenza del Regno Unito è fondamentale per l’Europa, l’Europa è fondamentale per la pace del mondo, e l’Australia fa parte del mondo. Lo sa anche lui, questo pom (inglese)!». Avremmo dovuto dirgli: illuso! Ma non l’abbiamo fatto.

Un socio, esperto di statistica, verso le 21 si è alzato e tutti hanno taciuto per ascoltarlo: «Otto sondaggi su dieci per Remain», afferma sicuro. Ha detto un altro, verso le 22: «Vengo da Downing Street: Remain chiuderà al 58%». Un terzo, poco dopo: «Secondo me si resta in Europa, ma con una percentuale più bassa: 52%». Un quarto, intorno a mezzanotte: «Stasera decideremo che tipo di nazione vogliamo essere».

Ora lo sappiamo: una nazione che ha scelto il passato, 52% contro 48%. Speriamo non debba pentirsene.

Il barista, ieri sera, aveva preparato due cocktail: Remain (Prosecco, Schnapp, Pesca) e Leave (Prosecco, Blue Curaçao, Arancia). Diceva di vendere più il primo, ma a un certo punto — mentre l’atrio, lentamente, si svuotava — ha chiuso bottega.

I dipinti, dentro le cornici dorate, la notte scorsa hanno assistito a uno spettacolo inconsueto: il Regno Unito ha deciso il suo destino in modo emotivo, e non l’aveva mai fatto. Chissà cos’avrebbero votato Charles Dickens, William Makepeace Thackeray e Arthur Conan Doyle — tutti, in passato, membri del Reform Club. I primi due avevano i titoli giusti per l’occasione: Grandi speranze (da una parte e dall’altra) e La fiera delle vanità (non si spiegherebbe la trasformazione di Boris Johnson da europeista convinto a leader della Brexit). In quanto a Conan Doyle, avrebbe potuto affidare a Sherlock Holmes un’indagine affascinante: cos’è venuto in mente a David Cameron di indire un referendum su un tema tanto complesso e così facile da strumentalizzare?

La campagna prima del voto è stata perfida e, quel che è peggio, superficiale. I paladini del Leave hanno puntato sulla paura dell’immigrazione, senza considerare i fatti. La Gran Bretagna vive — letteralmente — sugli immigrati: dai medici agli infermieri, dai camerieri ai calciatori, dagli autisti ai dentisti. Anche i sostenitori del Remain hanno provato a spaventare i cittadini. Non hanno detto che l’Unione Europea fosse meglio; hanno ripetuto, allo sfinimento, che uscirne era peggio. Solo l’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox ha scosso le coscienze. Ma non ha cambiato il risultato.

Il Reform Club non si schiera e non rappresenta un campione statistico; ma l’impressione è che, tra i soci inglesi, sette su dieci abbiano votato per restare nell’Unione. I Brexiteers, però, si sono fatti sentire. I nomi non sono consentiti: ma uno di loro, con un incarico di partito, ha provocato un certo sconquasso quando cercato di coinvolgere il club nella sua crociata pro-Leave.

Una posizione che sembra poco congeniale allo spirito di questo posto. Il Reform Club prende infatti il nome dal Reform Act del 1832, che modificava il sistema elettorale e allargava il diritto di voto alla borghesia. E’ stato, nel corso del XIX secolo, il club liberale di Londra, «noto per lo spirito radicale e progressista». E’ rimasto tale nel XX secolo. E’ stato il primo ad ammettere le donne come soci, nel 1981; a concentrarsi sulla qualità della cucina; e a fornire stanze da letto per i soci venuti da lontano (ora ne ha 48, di cui 26 con bagno). Ancora oggi, al momento dell’adesione, i membri devono sottoscrivere un’adesione ai principi liberali. Quando firmò anche un consigliere dell’Ambasciata Sovietica, negli anni Ottanta, in molti si chiesero se fosse sincero.

Mentre la luce torna sugli Waterloo Gardens, i liberali e i progressisti insonni del Reform Club hanno qualcosa da festeggiare? Non sembra proprio. Il Regno Unito scappa, e non l’ha mai fatto. E’ uscito dal club sbattendo la porta: e non si fa.


La Repubblica
ESSERE O NON ESSERE UN'ISOLA
di Francesco Merlo

«Dai prati ai corgi della Regina, i britannici restano un’umanità speciale perché anfibia. E il voto sulla loro identità rilancia il Regno Unito come luogo della libertà»

Mia moglie è inglese e ho due figli che hanno votato “Remain” «per non cacciare papà di casa», che è la formula scherzosa che riassume bene l’idea del mare aperto, del bisogno d’Europa intesa però come mondo. E tuttavia mia moglie ha zie e cugini che hanno votato “Leave” per la stessa identica ragione: «Perché l’Europa ci allontana dal mondo». Non sono gli estremisti della paura, non sono i populisti, non sono i nativisti alla Nigel Farage né gli eccentrici alla Boris Johnson, ma sono persone colte e intelligenti che hanno vissuto in Svizzera, in Francia, in Nuova Zelanda. Gli uni e gli altri, quelli che hanno votato “Remain” e quelli che hanno votato “Leave”, credono nella europeità dell’open sea di Winston Churchill, nella sua difformità rispetto ai progetti, ai sogni e qualche volta anche ai deliri franco-tedeschi, perché credono - scrive Shakespeare nel Riccardo II - in «questa isola di maestà, questa dimora di Marte, questo nuovo Eden e Paradiso Terrestre… questa pietra preziosa incastonata nel mare d’argento che la difende contro l’invidia di paesi meno felici come un muro e un fossato difendono una casa».
È questa l‘insularità degli inglesi che non sarà mai addomesticata né da un Parlamento sovranazionale e neppure da Internet. Ed è un’insularità tutta racchiusa nella sfumatura negativa con cui gli inglesi pronunziano l’aggettivo continental, una vaga ironia che esprime estraneità e commiserazione. Continental è il breakfast che non sa di niente, è il vino, è la terrazza, è lo snob pacchiano, è salutarsi baciandosi sulle guance, è la precedenza a destra, è parlare con le mani, è la lingua inglese inevitabilmente masticata, è il barocco di chi mette più di quel che serve: «The French are glad to die for love» (i francesi sono felici di morire per amore) cantava Marylin e subito aggiungeva che il baciamano è «quite continental», molto continentale. Quando il 6 maggio del 1994 la Regina Elisabetta e il presidente Mitterrand inaugurarono l’Eurotunnel sotto la Manica un titolo spiritoso del Times riassunse così la paura dell’omologazione: «Mamma mia che puzza d’aglio».
Anche l’odore dell’isola - che è il luogo senza storia che dà origine alla storia - è speciale perché è unico. Ed è inutile contrapporre all’aglio del continente l’insularità fritta dei fish and chips mischiati al legno umido dei Piers, dei moli, e delle pietre bagnate da un mare sempre agitato. E c’è pure l’afrore di stalla dei garzoni che ravviva lo spirito di Lady Chatterley, l’odore del cavallo che è ancora l’odore tipico dell’Inghilterra, quello che diventa americano in Martin Eden, l’odore della fatica «dei bifolchi e dei facchini, dei sobborghi sozzi, puzza di verdure andate a male: quelle patate stanno marcendo, annusale, maledizione, annusale».
La ur-Pflanze, la pianta originaria che Goethe cercava nelle isole, secondo gli inglesi è la rosa d’Inghilterra, “lo splendido odore” con cui si apre Il ritratto di Dorian Gray, la rosa bianca di York fusa con quella rossa di Lancaster, la rosa dei Tudor a cui si aggiunge «l’effluvio greve dei lillà e la fragranza più delicata dei cespugli dell’eglantina, i fiori del citiso, dorati e dolci come il miele…». In realtà anche il giardino inglese è nato come un opt-out, direbbe l’europeista con moderazione David Cameron, come un’opzione di uscita, qualche secolo prima che da Schengen e dalla moneta unica, dall’eccesso di geometria dei giardini continentali all’italiana e alla francese: il prato rasato, ma libero, contro la burocrazia di Bruxelles che imprigiona la bellezza negli arabeschi cromatici.
Il punto è che la Gran Bretagna deve, comunque, rimanere isola perché è il luogo che sta fuori dal tempo e dallo spazio, o forse è il punto in cui spazio e tempo si incontrano, un punto senza svolgimento dove tutto si conserva e dove le modificazioni, impercettibili, durano millenni. L’odore del giardino inglese di cui parla Oscar Wilde è in realtà una leggenda della botanica. E il Corgi, il famoso cane britannico che la Regina alleva, protegge e seppellisce nel castello di Balmoral, il Pem- broke Welsh Corgi che - scrisse spiritosamente il Guardian - «forse the Queen ama più del principe Filippo, dei suoi figli e dei suoi nipoti», piccolo, goffo, gambe troppo corte e testa volpina, è così strano che forse davvero è l’ur-Hund, il cane originario, il quale somiglia a tutti i cani ma non è un cane.
Nelle isole, e tanto più in Gran Bretagna che è l’isola che non è stata mai invasa, tutte le forme portano tracce di antichità, sono come le ombre della caverna di Platone, e anche gli uomini e le donne sono prototipi e stereotipi di razze dimenticate o superate, con quel tanto di selvatico che affascina i cercatori di sensazioni forti, profonde e sensuali, come quando si addenta una pork pie o come quando il corpo acerbo, forte e nudo di Lady Godiva cavalcava per le vie di Coventry accecando tutti i giovani (tutti i Tom) di Inghilterra. Nell’opera di Mascagni, Lady Godiva è una vittima, nei versi di Bukowski è invece la fonte di ogni ispirazione artistica: «Una poesia è una città dove Dio cavalca nudo per le strade come Lady Godiva».
Dunque il codice mentale dell’inglese è come il Corgi della regina, inattuale e perciò dirompente, sorprendente e scandaloso. Quella isolana è infatti un’umanità speciale perché anfibia: cool, calm and collected (fresca, calma, composta) come la terra saggia e buona del Kent, e al tempo stesso rough, stormy, unruly (agitata, tempestosa, e indomabile) come il mare sconfinato della Land’s End, la punta Ovest della Cornovaglia. Aspettando il D-Day Churchill disse a De Gaulle: «Ogni volta che l’Inghilterra dovrà scegliere tra l’Europa e il mare aperto, sceglierà sempre the open sea. E ogni volta che io dovrò scegliere tra te e Roosevelt, io sempre sceglierò Roosevelt».
E qui si capisce bene come l’insularità possa diventare, anche senza la demagogia di un referendum, libertà o reclusione, che sono gli opposti simbolici di ogni isola del mondo. Nel 1969 tutti i ragazzi della terra si radunarono e si riconobbero nell’isola di Wight, nel Sud dell’Inghilterra: la libertà dell’isolacontro i doveri, gli obblighi e le convezioni del continente. Ma l’isola è anche la punizione dell’uomo: Napoleone morì a Sant’Elena; a Ventotene fu fiaccata la dignità di Giorgio Amendola, Altiero Spinelli, Sandro Pertini, Ernesto Rossi…; Paul Gauguin mise in salvo nelle isole Marchesi la fantasia e i colori aggrediti dal grigio fumo della nebbia e delle ciminiere dell’Ottocento europeo. Alcatraz è il contrario di Mikonos, Guantanamo è il contrario della Key West di Hemingway. E però sempre i contrari sono complici. Ed è infatti questa doppia faccia della separatezza insulare a rendere gli inglesi così aperti e al tempo stesso così chiusi: l’isola è il mondo, è il luogo di ogni utopia (Thomas More), ma è anche il piccolo posto segreto dove si conserva la ricchezza, l’altrove dei dobloni che confortano il grigio continente, “l’Isola del Tesoro” come fierezza di essere diversi, necessari al mondo proprio perché unici e migliori, come vuole il paradosso di quel poeta veneziano, Mario Stefani, che scrisse un libro intitolato: Se Venezia non avesse il ponte, l’Europa sarebbe un’isola.
Chiuso il referendum, stamani ogni inglese che si è guardato allo specchio si è comunque ritrovato più orgogliosamente inglese. Al di là del risultato, infatti, il rito del voto sull’identità ha rilanciato l’Inghilterra che celebra in se stessa l’isola-mare come il luogo della libertà e della civiltà occidentali, l’unico spazio d’Europa davvero transnazionale, il fuori mano e l’eccezione assunte come forza. È l’Inghilterra che ogni anno a Portsmouth rende onore alla Victory di Nelson rispettata come una chiesa. Gli inglesi credono infatti nel mare aperto, che è la sostanza della loro storia, e hanno in Nelson il vero eroe nazionale, il piccolo ammiraglio il cui cadavere fu conservato dentro un barile di brandy, l’uomo con un braccio solo, cieco da un occhio, goffo sulla terra e bellissimo in acqua, maldestro, imbranato e isterico in porto, ma intelligentissimo sulla nave che è sempre inglese perché è l’isola che va per isole, governata da un comandate che ne traccia la rotta e non può mai abbandonarla. La nave, dove libertà e reclusione coincidono perfettamente, è il luogo in cui l’inglese si illude di sentirsi più vicino alla propria origine. Scrisse Stevenson: «Noi inglesi abbiamo la pretesa che il mare sia inglese. Anche sotto i cannoni e negli spazi più ostili delle nazioni straniere e lontane, sul mare siamo in patria. È il cimitero dove i nostri avi riposano aspettando le trombe del giudizio universale, il nostro accesso al mondo e il nostro baluardo».
Ci voleva davvero un referendum, così terribile e appassionato, perché l’Inghilterra tornasse a proporsi come laboratorio dell’Occidente, lo scrigno dei suoi valori, la banca delle risorse del navigatore cosmico, dell’isolano primordiale che è l’uomo del futuro, dell’inglese come pirata d’Europa. È infatti l’insularità che ha trasformato la pirateria in civiltà. Il pirata, senza l’isola che gli è solidale, non sarebbe mai esistito e mai potrebbe esistere. Il pirata e l’isola sono come l’astronauta e le stelle.

Il Sole 24 Ore

BREXIT,
LA CATTIVA COSCIENZA DELL'EUROPA

di Adriana Cerretelli

Fallimento della Ced, la Comunità di euro-difesa, affondata nel 1954 dall’Assemblea nazionale francese. Nove anni dopo, politica della sedia vuota: il generale De Gaulle blocca per 7 mesi il mercato comune per ritorsione contro partner troppo ansiosi di integrazione, troppo poco leali alla sua Europa delle patrie, alla fine garantita dal compromesso di Lussemburgo, lo scudo a difesa degli interessi nazionali.
«I want my money back»: da poco premier Margaret Thatcher, che pure nel referendum inglese del ’75 si era battuta per il “Remain”, apre un conflitto che bloccherà per 4 anni la vita comunitaria, fino a quando non otterrà soddisfazione sul taglio del contributo britannico all’euro-bilancio.
Fine anni ’80, caduta del Muro di Berlino, riunificazione tedesca prima ed europea 15 anni dopo: bagno improvviso di nuovo disorientamento e antiche paure, conclusosi però con il balzo in avanti verso il mercato e la moneta unica.
Poi, è storia recente, otto anni di crisi finanziaria, la peggior recessione dal dopoguerra, disoccupati alle stelle, euro in bilico sull’abisso non solo greco, il salvataggio di Mario Draghi ma quasi tutti i problemi restano ancora irrisolti.
Ne ha vissute di crisi l’Europa! Tanto da entrare nel suo Dna, spesso per trasformare drammi immediati in successi futuri. Finirà così anche questa volta dopo l’ennesimo pronunciamento popolare sul vecchio dilemma inglese dell’essere o non essere europei? Verrebbe voglia di sdrammatizzare, mettendo l’intera vicenda in prospettiva storica per concludere che l’Europa alla fine macinerà anche questa crisi, come ha fatto con tutte le altre.
Questa volta però non sarà come le altre. La Gran Bretagna che esce dalla prova referendaria è un Paese irriconoscibile: fazioso, bugiardo, violento, spaccato. Come ai tempi della guerra civile, di Oliver Cromwell e dei suoi “bravi” che incendiavano chiese lasciandosi indietro scheletri vuoti, sognavano di rovesciare la monarchia e instaurare la repubblica. Solo che oggi l’assalto è alla cattedrale europea e ai suoi odiati sacerdoti.

Trasformata nel male assoluto, l’Europa acceca i suoi nemici, tanto che non riescono più a vedere gli enormi benefici che regala. Però è essa stessa accecata, non dalla stessa violenza ma dai propri limiti. Sempre più evidenti.

Ha fatto molto l’Unione sulla strada della propria integrazione ma ha fatto tutto a metà: dal mercato unico, all’euro, all’unione bancaria, al micro-bilancio comune. Quasi niente su energia, digitale, innovazione tecnologica, servizi, investimenti, politica macroeconomica comuni. Per non parlare della politica migratoria.
Sono queste le nuove sfide? Certo. Ma come e con chi quando nazionalismi, protezionismi ed egoismi dovunque rialzano la testa, la sfiducia reciproca la fa da padrone insieme alla paura di populismi ed euroscetticismi che dovunque paralizzano azione e visione dei Governi in carica?
Mancano leader veri? Certo. L’Europa a 28 è un progetto spezzato? Anche. Dietro malessere e cacofonie generali c’è anche la sua incapacità di tenere il passo con la globalizzazione ineluttabile che avanza sul filo di una travolgente innovazione tecnologica e digitale, riduce il mondo al formato di un click, stravolgendone il modello di sviluppo e di società.
C’è la caduta demografica che rema contro la sua crescita economica e la tenuta del welfare. C’è la democrazia che cambia, spiazzata dal tramonto di ogni forma di intermediazione politica, economica e finanziaria, costretta alla concorrenza con populismi e social media nella ricerca di un consenso irrinunciabile ma di sicuro più volatile e instabile. Sullo sfondo di questo storico rivolgimento, le divergenze intra-europee appaiono danni collaterali da aggiungere al groviglio dei problemi interni aperti. E da superare per restare nella partita globale.
Non sarà facile. Da tempo l’Unione si è brexizzata sull’onda di rabbia, frustrazioni e disincanto dei suoi cittadini, che non sono solo inglesi. In questo senso Brexit, quella vera, appare lo specchio impietoso della cattiva coscienza europea, di un’Unione da tempo ai ferri corti con se stessa. I negoziati con Londra, sulla base degli accordi di febbraio, saranno comunque lunghi, difficili, in parte imprevedibili perché l’interdipendenza con l’Europa è molto stretta e perché quasi mai la realtà si conforma alla perfezione agli schemi giuridici che dovrebbero regolarla. Saranno complicati e poco inclini al compromesso, contrariamente a una lunga tradizione europea, perché questa volta bisognerà a tutti i costi evitare l’effetto imitazione.
E lo saranno ancora di più perché l’anno prossimo andranno alle urne Olanda, Francia e Germania, le prime due da anni logorate da incontenibili spinte nazional-euroscettiche, la terza con sindrome anti-immigrati e anti-euro diffusa. Senza contare la Spagna: domenica potrebbe decretare la vittoria di Podemos ed estrema sinistra, tutti anti-rigore.
Dunque un duro colpo da incassare e gestire con le mani legate almeno per un anno e mezzo. Anche per questo la partita che va a incominciare assomiglia a un salto nel buio.
Corriere della Sera

DA BRUXELLES A FRANCOFORTE
SCATTA IL PIANO DI EMERGENZA
di Ivo Caizzi

Bruxelles. L’Europa schiera le istituzioni comunitarie per affrontare le conseguenze della clamorosa vittoria di Brexit nel referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, che nelle proiezioni della rete tv Bbc è stata prevista a 52% contro 48% davanti al vantaggio di circa un milione di voti con 335 delle 382 aree scrutinate.

I presidenti del Consiglio dei governi, il polacco Donald Tusk (stabile) e il premier olandese Mark Rutte (di turno), insieme a quelli della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, e dell’Europarlamento, il tedesco Martin Schulz, sono stati delegati a fornire da Bruxelles la prima reazione istituzionale «a caldo».

La loro riunione è programmata subito dopo l’annuncio ufficiale dell’esito del voto su Brexit, atteso stamattina. Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi resterà in contatto dalla sede a Francoforte, pronto a intervenire davanti a eccessive instabilità sui mercati finanziari con impatto sulla moneta unica e sui titoli di Stato della zona euro. L’immediato tracollo della sterlina sui mercati extraeuropei aperti nella notte fa temere manovre speculative di dimensioni imprevedibili.

Tra le capitali vengono invece discusse da giorni le possibili ricadute politiche, in vista del Consiglio dei capi di Stato e di governo di martedì e mercoledì prossimi. Questo summit Ue era in programma questa settimana. E’ stato spostato proprio per poter affrontare l’esito della consultazione nel Regno Unito. E per conoscere il risultato delle elezioni in Spagna di domenica prossima, dove una vittoria del movimento di estrema sinistra Podemos, che è molto critico sull’attuale gestione dell’Ue, può generare un devastante uno-due contro l’attuale gestione dell’apparato comunitario.

Una riunione straordinaria della Commissione europea è stata convocata per lunedì prossimo. Nel week end la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese Francois Hollande, il premier Matteo Renzi e gli altri leader europei dovrebbero intensificare le consultazioni per favorire il raggiungimento al summit di una posizione comune su come procedere in Europa, che si avvia a fronteggiare un trauma a rischio di estensione in altri Paesi membri. Giovedì scorso il premier belga Charles Michel aveva già chiesto un ulteriore vertice dei capi di governo, indipendentemente dall’esito del referendum su Brexit, per affrontare l’evidente sfiducia verso l’Unione europea dimostrata da ampie fasce di cittadini europei. Michel ha evocato il crescente euroscetticismo, che potrebbe con solidarsi, dopo i voti nel Regno Unito e in Spagna, se non verranno attuate azioni di riavvicinamento ai cittadini. «La leadership europea deve farsi carico dell’inclusione sociale e battersi contro le disuguaglianze», ha suggerito il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Nei Palazzi comunitari circolano indiscrezioni su possibili ricambi al vertice come segnale di rinnovamento. Il controverso Juncker, simbolo della «vecchia Europa» sotto accusa, si è affrettato a far smentire le voci su un suo dimissionamento.

Lavoce.info
REGNO DISUNITO
di Gianni De Fraja

Il voto pro Brexit ci consegna un Regno Unito molto diviso. È probabile che la Scozia torni a chiedere l’indipendenza. Anche le linee di reddito segnano una divisione: le aree ricche hanno scelto “remain”, quelle meno benestanti hanno optato per il “leave”. E si apre una questione generazionale.

Il giorno dopo
Difficile esprimere una reazione così vicino all’annuncio del risultato che vede l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, avvenuto verso le 8 italiane a Manchester. L’esito del voto, in realtà, era chiaro dalla sera del 23 giugno. Lo preannunciavano, verso l’1 italiana, i risultati ufficiali di due città del Nord-Est, Sunderland e Newcastle, che, pur votando entrambe secondo le previsioni, la prima per Brexit, la seconda per “remain”, lo hanno fatto con margini completamente al di là delle aspettative: Newcastle con il minimo scarto mentre a Sunderland a ogni voto per restare ne corrispondevano due pro-Brexit. Se lì va così, vuol dire che Brexit ha vinto. Entrambe le città sono tradizionalmente laburiste, quindi molti elettori che di solito votano fedelmente per il Labour hanno rifiutato di seguire le indicazioni unanimi della dirigenza del partito, e hanno votato Brexit. La tendenza è stata poi confermata a livello nazionale Quali conclusioni trarre dal voto? Sicuramente andranno fatte analisi più dettagliate e rigorose, ma queste le mie prime impressioni.

Voto diviso per nazioni
La Scozia è completamente diversa dall’Inghilterra e dal Galles, a loro volta diverse dall’Irlanda del Nord. In Scozia “remain” ha vinto in tutte le circoscrizioni, ottenendo complessivamente il 62 per cento dei voti. Per l’Irlanda del Nord, che ha votato in maggioranza “remain”, c’è una divisione geo-politica: nelle zone all’est, più protestanti-unioniste ha vinto Brexit, mentre vicino al confine con l’Eire, in aree più cattoliche e culturalmente vicine alla repubblica, gli elettori hanno scelto “remain”. Questa diversità porterà quasi sicuramente a un nuovo referendum per l’indipendenza in Scozia. Già se ne è accennato in fase di campagna elettorale, ma viste le cifre della differenza tra le due nazioni, sarà per Londra politicamente impossibile resistere a una nuova richiesta di voto.

Una questione di reddito
In Inghilterra e Galles, ed è un punto che non ho ancora sentito sottolineare, la mia impressione è che la divisione sia soprattutto lungo linee di reddito: aree ricche hanno scelto “remain”, invece quelle meno benestanti hanno optato per Brexit. Jeremy Corbyn, leader laburista, ha probabilmente ragione quando dice che molti elettori hanno voluto punire il governo per le loro difficoltà economiche e hanno semplicemente votato contro “la politica”. Alcune delle aree più ricche, dove alle elezioni politiche i Tory ottengono maggioranze schiaccianti, a nord e sud, a est e a ovest, a Londra e in zone davvero rurali, “remain” vince dove il reddito è alto: Tunbridge Wells, e Guilford, la “stockbroker belt”; la chic Kensington e Chelsea, che contiene Sloane Square; South Hams, nel profondo sud-ovest sulla Manica; Harrogate, nello Yorkshire, uno dei vertici del triangolo più ricco del paese, fino alle zone del Costwold, la zona dei ricchi villaggi pittoreschi da cartolina.

La divisione generazionale
Un’altra impressione, che dovrà però essere confermata da ulteriori sondaggi perché i dati elettorali disponibili oggi sono solo a livello di circoscrizione, è di una netta divisione generazionale: i giovani pro-Europa, i vecchi pro-Brexit. Questo ovviamente non depone bene per il futuro: non è chiaro se un giovane brillante e ambizioso vorrà restare permanentemente in Inghilterra, dove sembra prevalere una visione isolazionistica e nostalgica del mondo. Anche se politicamente inevitabili, le dimissioni di David Cameron, che passerà alla storia come uno dei peggiori premier di sempre, lasceranno la nazione con una spaventosa assenza di carisma a livello internazionale, guidata come sarà da figure quali Boris Johnson e Nigel Farage con all’opposizione Jeremy Corbyn: nessuno di loro può onestamente dire di rappresentare gli elementi più dinamici e innovativi della società e dell’economia inglese.

«Corsa a ostacoli nei prossimi quattro mesi per affrontare le emergenze. Misure per riqualificare le periferie, tagliare le tasse e ridurre la povertà». La Repubblica, 23 giugno 2016 (m.p.r.)

Roma. Prima mossa: una boccata d’ossigeno da oltre 3 miliardi ai Comuni, alle Città metropolitane e alle Regioni. Il decreto, che il governo aveva rinunciato a varare prima dei ballottaggi, approvato venerdì, arriva in Parlamento ad alimentare, con fair play, anche le affamate casse delle città ora guidate dalle sindache grilline. Così, tra aiuti agli enti locali e annunci di nuovi sgravi fiscali e interventi su periferie e povertà, il premier Matteo Renzi conta di superare la fase difficile, segnata da una ripresa fragile, tra le elezioni comunali e il referendum costituzionale di ottobre.

Il decreto contiene misure tecniche, calibrate sulla complessa contabilità che guida il rapporto tra Stato ed enti territoriali, ma è denaro sonante e spendibile. Si parte dalla cancellazione delle sanzioni per 500 milioni per le città metropolitane, tra cui Roma, Milano e Torino, si passa ai 450 milioni in tre anni per sostenere gli oltre 400 Comuni in dissesto finanziario, si arriva allo sblocco del turn over per l’assunzione di maestre degli asili nido gestiti dai Municipi.
La mano tesa dell’esecutivo si allunga anche ai governatori: le industrie farmaceutiche dovranno rimborsare alle Regioni 1,7 miliardi per compensare lo sforamento della spesa farmaceutica ospedaliera dell’ultimo triennio, soldi dovuti per legge ma fino ad oggi bloccati da un lungo contenzioso a colpi di Tar. Denari freschi arrivano alla Sicilia (che spunta 400 milioni strutturali di aumento di compartecipazione all’Irpef) e toccano la Valle d’Aosta (70 milioni per il recupero del gettito dell’accisa sui carburanti).
Le mosse successive, per il rilancio dell’economia e per dare una risposta al disagio sociale, sono all’esame dei tecnici: l’azione entrerà nel vivo dalla prossima settimana, superate le scadenze internazionali del «Brexit» di oggi e delle elezioni spagnole di domenica e il confronto interno della direzione Pd di domani. La corsa taglierà il traguardo, tra quattro mesi, con la nuova legge di Bilancio (entro il 20 ottobre alle Camere, secondo il testo approvato ieri) una volta superata probabilmente la scadenza del referendum costituzionale.
Le tre emergenze sul tavolo potrebbero essere riassunte con tre «p»: povertà, periferie e prelievo fiscale. La questione della povertà è tra le priorità, assai sentita anche all’interno del Pd che dovrà confrontarsi sulle prossime scelte: il 44 per cento delle persone in condizioni di disagio è senza il paracadute di sostegni pubblici e lo stesso Renzi, durante la riunione di «disgelo» con Cgil-Cisl- Uil di un paio di settimane fa, ha osservato che le pensioni minime, quelle da 500 euro al mese, sono «oggettivamente troppo basse». Torna dunque l’opzione di una estensione del bonus di 80 euro ai pensionati ma si punta anche ad una accelerazione sulla legge delega sulla povertà (1 miliardo per il 2017).
L’altro tema è quello delle periferie, dove le elezioni hanno suonato per il governo un campanello d’allarme. Qui la parola d’ordine è ristrutturazione degli alloggi popolari Erp: un piano è già stato finanziato con 470 milioni per 25 mila alloggi, l’obiettivo è quello di arrivare a 70 mila alloggi. Si lavora anche all’housing sociale: progetti di recupero d’intesa con le fondazioni bancarie e con l’Ance, con idee che vanno dal «rammendo » delle periferie a sconti fiscali e prestiti per gli impianti fotovoltaici dei condomini e per le centraline per le auto elettriche.
Infine il tema del prelievo fiscale: in cantiere c’è l’intenzione di Renzi di anticipare il taglio dell’Irpef al 2017, con la limatura delle aliquote intermedie del 27 e del 38 per cento o, addirittura, incidendo sulla prima del 23 per cento. Il costo è dai 3 ai 9 miliardi, secondo le modalità del piano, e il discorso torna sulle risorse: Padoan, non è contrario e anche martedì alla Guardia di Finanza ha parlato di “alleggerimento del carico fiscale”, ma in “coerenza con gli obiettivi di stabilizzare la finanza pubblica”.
Nel frattempo, in vista di una legge di Stabilità 2017 che parte appesantita da una decina di miliardi per la sterilizzazione dell’Iva e la riduzione del deficit, si conta anche su misure una tantum per trovare risorse: dalla riedizione della voluntary disclosure alla proposta lanciata ieri dal viceministro dell’Economia Enrico Zanetti di rottamazione delle cartelle di Equitalia che potrebbe fornire un gettito valutato in 1-2 miliardi. «Si pagherebbero tutte le imposte e gli interessi legali, ma a fronte di un pagamento sull’unghia, lo sconto su sanzioni e aggi potrebbe andare da un terzo alla metà del dovuto», ha dichiarato a Repubblica Zanetti.

Domenica scorsa, cinque grandi Comuni italiani hanno rinnovato la loro amministrazione e tre di essi hanno eletto sindaci nuovi. Nella Capitale della Repubblica, Roma, e nella prima Capitale dell’Italia unitaria, Torino, i cittadini hanno eletto per la prima volta sindaci espressi non da partiti o raggruppamenti tradizionali, ma dal Movimento 5 Stelle. In queste città, così come a Napoli, le maggioranze locali non sono allineate col governo centrale, da cui dipendono tuttavia flussi di risorse importanti per il normale funzionamento delle città. Quali rischi corrono i nuovi sindaci? È possibile in linea teorica che il governo nazionale riduca, nei provvedimenti di finanza pubblica, i trasferimenti alle amministrazioni locali? E può farlo in maniera asimmetrica, privilegiando i governi locali amici e danneggiando quelli avversari? Può chiudere discrezionalmente alcuni rubinetti?

La risposta non è netta e richiede di distinguere in base alle tipologie di trasferimenti dal governo: quelli ordinari, cosiddetti di parte corrente, che sono finalizzati a contribuire alle spese di funzionamento delle amministrazioni, appaiono difficilmente modulabili su basi discrezionali. Da questo punto di vista i nuovi sindaci dovrebbero stare relativamente tranquilli. Anche quando i governi sono intervenuti in corso d’opera nell’ultimo quinquennio per tagliare risorse già assegnate ai Comuni, essi hanno dovuto concordare con la Conferenza Stato-Città i criteri di ripartizione della riduzione.

Vi è un solo caso in cui non lo hanno fatto, decidendo a monte un criterio di ripartizione, comunque oggettivo, e la Consulta lo ha dichiarato incostituzionale poche settimane fa. Le autonomie locali sono tutelate in particolare da due articoli della Costituzione, che vanno letti congiuntamente: l’art. 118, secondo comma, per il quale “i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” e l’art. 119 il quale stabilisce che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. (…) hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri (…). Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”. È inoltre previsto un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale. L’art. 119 stabilisce infine che “le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.

Tale enunciato sembra collocare le autonomie locali in una botte di ferro: il governo non può sottrarre o smettere di conferire risorse finanziarie indispensabili per lo svolgimento delle funzioni assegnate. Ma siamo sicuri che queste previsioni siano sempre state rispettate?

La risposta è negativa e si ritrova proprio nei tagli attuati dai governi a danno delle autonomie locali durante il processo di risanamento dei conti pubblici che ha fatto seguito alla grande recessione dell’anno 2009. A partire dal 2011 la crisi del nostro debito sovrano ha spinto i governi ad accelerare il riequilibrio della finanza pubblica, imponendo alle autonomie locali rigidi vincoli, i quali avrebbero dovuto contribuire al pareggio di bilancio dell’Italia già dal 2013.

Il problema è che gli enti locali hanno dovuto dare comunque il loro contributo ma il pareggio di bilancio non c’è stato, né poteva esserci, tanto che ancora oggi siamo su un disavanzo pubblico pari al 2,6% del Pil. Qual è stato il contributo delle amministrazioni locali (Comuni, Province e Regioni, sanità compresa) al risanamento effettivo? Un semplice calcolo: dal suo livello record del 2009 al 2015 il disavanzo pubblico si è ridotto di 40,6 miliardi. Quanti fondi statali hanno perso nel periodo tutte le amministrazioni locali? Esattamente 30,6 miliardi, dato che i trasferimenti statali di parte corrente sono diminuiti di 23,2 miliardi e quelli in conto capitale di 7,4 miliardi. Inoltre le amministrazioni locali hanno migliorato il loro saldo economico di 7,9 miliardi, portandosi complessivamente in attivo. Il loro contributo totale al miglioramento del disavanzo pubblico è pertanto di 38,5 miliardi, corrispondenti al 95% dei 40,6 miliardi di miglioramento complessivo dell’Italia. Ovviamente le funzioni svolte non sono diminuite, la Costituzione non è stata rispettata, dato che le amministrazioni locali si son fatte carico del 95% del risanamento totale del Paese, né le diverse associazioni che le raggruppano sono andate oltre deboli e poco efficaci proteste verbali.

Quanti fondi statali hanno perso nel tempo le 5 grandi città che domenica hanno votato? Confrontando coppie di anni conviene limitarci ai trasferimenti di parte corrente, data la molto maggiore variabilità di quelli in conto capitale: Milano ha perso il 66% dei trasferimenti statali tra il 2011, anno in cui si è accentuata la pressione sui comuni, e il 2015; Bologna il 70%; Torino il 36%; Roma il 40%; Napoli il 24%. Le 5 città messe assieme hanno perso nel 2015 quasi un miliardo rispetto al 2011, dato che i fondi statali correnti complessivi sono diminuiti da 2,3 a 1,35 miliardi: Roma ha perso più di 400 milioni, Milano quasi 250, Torino 100, Napoli quasi 130, Bologna quasi 80. Difficilmente, partendo da queste cifre, i nuovi sindaci possono temere ulteriori tagli, ma avranno molta difficoltà a governare proprio a causa della penuria di risorse già in essere. Ma forse è proprio per questo che sono stati eletti e i loro predecessori rimossi.

«Troppe similitudini con l’oggi. I colpevoli del dissesto del Paese, la Casta in poche parole, che spinge lucidamente i popoli gli uni contro gli altri per non pagare il dazio del suo fallimento, trasformando una lotta politica e sociale in una lotta etnica in nome del Dio Nazione. In poche parole, fascismo».

La Repubblica, 23 giugno 2016 (m.p.r.)

Ma che cos’è questo rumore di chiavistelli che percorre l’Europa, questo rugginoso agitarsi di lucchetti, serrature, reticolati e sbarre di frontiera che dalla Gran Bretagna alla Grecia raggiunge la Catalogna e i confini della Russia, così simile al grattare della lima dei galeotti nel carcere di Montecristo? E che cos’è questa banalizzazione del linguaggio che ci invade, questo diffondersi di alternative violente nascoste dietro innocue sigle da computer, “In/Out”, “Leave/“Remain”? Dove nascono l’aggressività omicida e gli osceni bisillabi che annichiliscono la complessità di eventi, come “Brexit” o “Grexit”? E soprattutto, come chiamare questa illusione che si impossessa delle nazioni, secondo la quale “Da soli è meglio”?

Non so perché esitiamo tanto. Il termine ce l’abbiamo a disposizione da un quarto di secolo, o forse da molto di più. Chiamasi “balcanizzazione”. So che non piace assimilarsi ai Balcani. Genera sollievo pensare che quello sia un focolaio di tribalismo a sé stante, dal quale l’Europa “civile” è immune. Ricordo distintamente che allora, prima che la Jugoslavia si disintegrasse, i signori economisti erano convinti che uno scoppio di follia collettiva autodistruttiva sarebbe stato impossibile. Nell’89 scrissi un libro in cui dicevo: attenti, dopo la caduta del Muro, salta in aria la Federazione di Tito. Romano Prodi lo lesse e mi scrisse che ero troppo pessimista, perché i popoli lo capiscono da soli che “separati si è più deboli”.
Non andò così. In uno stato di demenza generalizzata, la Jugoslavia - il paese della cuccagna invidiato da tutte le altre nazioni dell’ex blocco comunista - si buttò nel baratro. Ma anche allora, di fronte all’evidenza dei fatti, non si volle capire. E io avevo un bel spiegare ai miei lettori che quello che succedeva nei Balcani non era una malattia balcanica, ma europea. Il riattivarsi di una faglia, il sintomo d’inizio di un sisma di più vasta portata, così come l’attentato di Sarajevo - lungi dal provocare la Grande Guerra - ne aveva segnalato l’imminenza. Nessuno mi credeva.
E così vennero i populismi, venne la Lega, scoppiò il caso Haider (che rispetto agli agitatori di oggi pare ahimè un’educanda), esplose l’islamismo assassino. E furono le tensioni tra fiamminghi e francofoni in Belgio, la chiusura a riccio dell’Olanda, l’ondata irrazionale di indipendentismo catalano, il separatismo scozzese. Venne a galla il rancore antieuropeo dell’Ungheria e della Polonia. Esplose la rabbia lepenista in Francia e l’Inghilterra perse il suo tradizionale “à plomb”. Bruxelles era il perfetto capro espiatorio di qualsiasi malessere.
Rileggere i miei appunti jugoslavi, oggi, fa venire i brividi. Riporto in sintesi solo alcuni stralci di quello che notai nella fase di incubazione del conflitto. Rabbia giustizialista di periferie dimenticate che trovano un megafono interessato nei responsabili stessi della loro emarginazione. Incapacità dei “liberal” di ascoltare la pancia inquieta del Paese. Ritorno di mitologie tribali da strapazzo per bocca di intellettuali ignoranti. Incapacità del potere federale di proporre una visione “alta” della coabitazione fra popoli. Intossicazione mediatica, imbarbarimento del linguaggio, spazio scandaloso offerto agli urlatori rispetto ai pensatori, per motivi di audience.
Troppe similitudini con l’oggi. In particolare questa: i colpevoli del dissesto del Paese, la Casta in poche parole, che spinge lucidamente i popoli gli uni contro gli altri per non pagare il dazio del suo fallimento, trasformando una lotta politica e sociale in una lotta etnica in nome del Dio Nazione. In poche parole, fascismo. Una lebbra che prende a diffondersi non a partire dai centri, evoluti e plurali, ma dai villaggi lontani dal potere. Una rivincita dei primitivi incolti, portatori di un’idea di purezza della razza, contro gli evoluti figli di un mondo cosmopolita. Campagna contro metropoli. Se manteniamo questa visione “sismica” del contagio - Dio solo sa quanto bisogno abbiamo di visionari dopo il fallimento degli analisti - ci capita magari di vedere un pezzo di possibile futuro.
Possiamo ipotizzare un ramificarsi di crepe dopo il botto del voto inglese, un riattivarsi per contagio delle linee di faglia dormienti. L’Irlanda che si stacca, la Polonia e i Paesi baltici che danno vita a incidenti di frontiera con la Russia, la piccola Danimarca che va per conto suo, i populisti francesi che istituiscono ronde armate contro gli immigrati, Salvini e i Cinquestelle che indicono un referendum come quello inglese, e magari l’Austria che vuole riprendersi il Sudtirolo. E poi Catalogna, Grecia, Scozia, Ungheria, coinvolte in un generale cortocircuito di protezionismi, autarchie e ritorsioni.
Ecco, potrebbe franare così il nostro sogno europeo, nel silenzio attonito del suo apparato burocratico e monetario. In un perfetto copione balcanico. Speriamo non accada. Ma l’amico Andrea Mammone, ricercatore italiano a Londra, è scettico che una vittoria del “ Leave” in Gran Bretagna possa dare ai politici una salutare frustata. «Spesso è gente che crede basti un clic per sapere le cose - mi dice - e quindi temo siano incapaci di controllare la situazione». Concordo in pieno. La malattia è europea. Essa discende da una politica che non batte più i territori. Si estrinseca come vendetta epocale della geografia e della storia - espulse dal nostro immaginario nel tempo di Internet - contro l’illusione che il mondo sia uno spazio aperto, liscio e senza cicatrici.
«Legge elettorale. Anche nella maggioranza renziana c'è adesso la preoccupazione che possa essere stato costruito un sistema perfetto, tra sistema di voto e riforma costituzionale, ma per gli avversari. E il premier non può neanche sperare nella Consulta».

Il manifesto, 22 giugno 2016
Sull’Italicum «c’è una riflessione da fare». All’indomani della vittoria del Movimento 5 Stelle nei ballottaggi, la scoperta di Piero Fassino – personalmente colpito – è la stessa di molti renziani che fin qui avevano condiviso senza tentennamenti le riforme governative. L’idea che Matteo Renzi abbia messo in piedi un sistema perfetto – sistema elettorale ultra maggioritario e controllo del governo sul parlamento – per consegnarlo però ad altri, adesso circola e preoccupa. Se una sola camera politica, con una maggioranza blindata, scelta da una minoranza di elettori e nelle mani del capo del governo spaventava già gli avversari dell’Italicum e della riforma costituzionale, la prospettiva di 340 e più deputati contrattualmente vincolati con la Casaleggio associati non tranquillizza. La vecchia richiesta della minoranza Pd e del resto degli alleati centristi, alla quale Renzi continua a rispondere di no, è quella di correre ai ripari riportando il premio dell’Italicum alle coalizioni. Perché i grillini, com’è noto, non si coalizzano.

Eppure resta improbabile che il presidente del Consiglio possa lanciarsi anzitempo in una simile conversione a U: non solo la nuova legge elettorale non è stata mai utilizzata, ma ancora per una settimana non è neanche pienamente in vigore. Il leghista Calderoli ieri ha ipotizzato che Renzi «non potendo contraddire le posizioni già aggiunte e non potendo dar ragione alla propria opposizione interna o agli alleati, lascerà fare il lavoro sporco alla Corte costituzionale». Il riferimento è al fatto che la Consulta il prossimo 4 ottobre dovrà pronunciarsi sul primo (e unico, fino a qui) ricorso contro la legge elettorale arrivato da un tribunale civile (quello di Messina). I giudici sospettano l’incostituzionalità della nuova legge elettorale in sei punti, nessuno dei quali però ha direttamente a che vedere con la richiesta di modifica avanzata dalla minoranza Pd. Non è in discussione il premio alla lista, ma l’enormità del premio di maggioranza, che il meccanismo del ballottaggio finisce col rendere astratto da qualsiasi soglia minima di voti.

La Corte costituzionale dovrà giudicare anche sui capolista bloccati, sulla convivenza di premio di maggioranza e sbarramento, sulla ripartizione nazionale dei seggi e sul fatto che l’Italicum si applichi solo alla camera, quando il senato elettivo non è ancora stato abolito. Ci sono dentro i temi dei due referendum abrogativi della legge elettorale per i quali si stanno raccogliendo le firme, cioè quelli che producono la distorsione tra il voto popolare e la sua rappresentanza nelle assemblee (è successo anche nei comuni assegnati con i ballottaggi), ma non c’è la questione del premio alla lista che spaventa e muove la minoranza Pd. In ogni caso, se si chiede a chi ha promosso la battaglia contro l’Italicum quante speranze ci sono che la Consulta possa accogliere il ricorso di Messina, la risposta è «poche». Sei giudici costituzionali su quindici sono diversi da quelli che nel 2014 condannarono il Porcellum.

Per cambiare l’Italicum resterebbe aperta, in teoria, solo la via parlamentare. Complicata dal fatto che i 5 Stelle, che si trovano ora una legge elettorale su misura per loro, farebbero le barricate. «Non siamo disponibili a parlare di questo», diceva ieri il deputato grillino Toninelli. Ma in passato i 5 stelle sono stati anche più espliciti, arrivando a proporre un ordine del giorno che voleva impegnare il governo a non toccare una virgola dell’Italicum. Quanto alla campagna di raccolta firme per i referendum contro la legge, i grillini hanno ufficialmente aderito. Ma assai in ritardo. Solo nelle ultime settimane i loro banchetti si sono fatti notare nelle città, e la campagna si sta ormai per concludere.

«Left, 22 giugno 2016

La campagna elettorale per le amministrative ha per alcune settimane tenuto i riflettori spenti sul referendum costituzionale; o meglio abbassati. In alcuni casi, come in quello di Torino e di Bologna, i rappresentanti del NO (Zagrebelski e la sottoscritta) hanno rilasciato dichiarazioni per sottolineare come il voto per il sindaco non avrebbe dovuto essere dato secondo le preferenze espresse dai candidati (nei due casi in questione, Fassino e Merola) per il SI. Oggi, all’indomani delle consultazioni, delle vittorie e delle sconfitte, il referendum torna ad essere al centro. Ma qualche cosa è cambiato con queste elezioni: la sconfitta netta del Pd, la sua perdita del voto popolare, gettano sul referendum una diversa luce. Per alcune ragioni che meritano di essere sottolineate.

La prima ragione sta nell’effetto sorprendente dell’impatto inverso del dominio mediatico televisivo e giornalistico del Pd di Renzi: l’esposizione quotidiana del Presidente del consiglio e l’attacco nei confronti dei candidati del M5S non sembra abbia portato i risultati sperati. La sovraesposizione mediatica appare anzi una condizione ingombrante – gli italiani hanno dimostrato di comprendere l’inequità di questo potere e l’insopportabilità del disequilibrio di influenza. Questa è un’avvisaglia di quanto potrà succedere con la campagna referendaria.

La seconda ragione sta nel declino di gradimento di Renzi e del suo partito da parte di molti elettori – e anche l’astensione è un segno di questo allontanamento. Il Pd a guida Renzi non convince nemmeno coloro che più sono vicini a questo partito. Perde voti tra i ceti popolari e genera astensione, un fenomeno questo ultimo che già si era manifestato nelle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna di due anni fa. L’aver trasformato il referendum costituzionale in un plebiscito su Renzi non sembra fare intravedere scenari soddisfacenti per il Sì proprio perchè il leader piace poco.

La terza ragione sta nell’esplicita dichiarazione del leader di M5S, Di Maio, di destinare d’ora in avanti l’impegno del movimento contro la proposta Renzi-Boschi. Se il M5S si dedicherà a questa campagna ci sono buone ragioni per sentirsi più ottimisti – non per voler attribuire poteri taumatirgici a questo movimento, ma perchè i cittadini che si stanno impegnando ogni giorno per la Costituzione saranno meno soli. Abbiamo spesso parlato di cittadinanza referendaria, di solitudine dei cittadini nel caso di questo referendum – che nessun partito ha fino a questo momento guidato o sostenuto con determinazione. I proclami, i documenti, i banchetti per raccogliere firme per il NO e per chiedere il referendum sull’Italicum sono frutto del lavoro di cittadini impegnati, non di politici legati a partiti. Sembra che chi sta nelle istituzioni e il popolo siano due mondi che operano su due obiettivi: i primi per garantirsi un potere decisionale che con la Renzi-Boschi sarebbe superlativo, e il secondo per respingere quel tentativo e contenere il potere di chi ha potere. Fino a questo momento il SI e il NO hanno corrisposto rispettivament al “paese legale” e al “paese reale” per usare un dualismo che è vecchio quanta l’unità del nostro paese. Ora, benchè il M5S non sia (ancora) un movimento dell’establishment e anzi cresca nei consensi elettorali proprio per la sua posizione contro l’establishment, non è tuttavia irrilevante la dichiarazione di Di Maio. I cittadini che si impegnano per il NO possono avere un aiuto importante.

Queste tre ragioni che le recenti consultazioni hanno messo sul tappeto gettano nuova luce sulla campagna referendaria. Comincia una nuova fase.

«Quattro donne cresciute nel contrasto alla classe politica dominante, di governo o di opposizione, guidano oggi le prime città dei due Paesi europei».

La Repubblica, 21 giugno 2016 (m.p.r.)

Come Madrid e Barcellona in Spagna, così Roma e Torino in Italia. Là due donne sindaco elette con Podemos, qui coi Cinquestelle. In entrambi i casi: la capitale, la città simbolo del lavoro. Quattro donne cresciute nel contrasto alla classe politica dominante, di governo o di opposizione, guidano oggi le prime città dei due Paesi europei. Le analisi di quel che sta cambiando (che è già cambiato da tempo) lasciamole ad altri: non sempre e non tutti hanno avuto il dono della preveggenza. Restiamo piuttosto ai fatti, riprendiamo da dove eravamo rimasti due settimane fa. «Vorrei parlare di Virginia Raggi e Chiara Appendino », dicevo. «Di cosa stiamo parlando? », ha replicato su questo giornale qualcuno, molto vicino all’ex sindaco di Torino. Risposta: dei nuovi sindaci. Ora che hanno vinto osserviamole muoversi nei primi passi del loro primo giorno. A volte una parola, un dettaglio possono illuminare il quadro.

Sono due giovani donne, madri, in politica da più di cinque anni. Una sorpresa solo per chi non le aveva mai viste. Entrambe definite “prime della classe”, da chi le conosce come da chi le denigra. Appendino ha persino risposto: «Non sono secchiona, ho sempre passato i compiti a chi era in difficoltà». Vediamo le immagini di ieri.

Il risultato, la reazione.


Virginia Raggi, 37 anni, avvocato, un figlio, ha preso 770mila voti, più del doppio del candidato Pd Roberto Giachetti. 67,15 per cento. I dirigenti locali e nazionali del Pd hanno commentato che le destre hanno votato Cinquestelle. Raggi ha risposto che le sinistre non hanno votato Pd, circostanza per quel partito caso mai più preoccupante. Che la metà dei cittadini non è andata a votare, dato più eloquente ancora. Quelle che nella notte sono state indicate come sue lacrime sono in realtà le immagini di una lieve danza di esultanza, al telefono, come si vede bene nel video. Raggi ha raggiunto in un hotel romano Grillo e Davide Casaleggio. Grillo è comparso alla finestra con un appendiabiti, o appendino, attaccato al collo. Raggi è uscita per strada, fra i militanti in festa sotto gli ombrelli, e ha detto poche parole: «Lo sappiamo come è Roma, ma più è difficile più sarà bello. Abbiamo un programma pazzesco scritto insieme ai cittadini. Portiamo tutti i romani a lavorare per Roma, anche se siamo disabituati». Poi ha scherzato sui tormentoni della campagna elettorale. «Allora: sulle Olimpiadi…». I militanti hanno applaudito e fatto buu, indicando il disinteresse per il tema. Infine, con riferimento all’imitazione che ne fa Fiorello, ha detto: «Poi vi dico anche una poesia e gli affluenti del Po». Dopo fino alle 4 a festeggiare.
Chiara Appendino, 31 anni, economista, un figlio di pochi mesi (ha iniziato in gravidanza la campagna elettorale) ha avuto il 54,56 % dei voti, quasi dieci punti in più di Piero Fassino. Il quale - da sindaco, lei consigliera comunale – la sfidò a fare di meglio una volta al suo posto. Lo stesso Fassino alla vigilia del primo turno aveva attribuito ai Cinquestelle in un paio di occasioni pubbliche, per esempio al Salone del Libro, una scarsa presa del Movimento in città. Nel commentare il risultato Appendino ha dedicato al suo avversario una sola frase: «Non molto incisivo nella capacità di ascolto». Poi, più in generale: «La città si è sentita sola, in questi anni. Specialmente le periferie».

Il programma.

Qualche accenno al programma fin dal primo giorno. Appendino, no Tav, è stata accolta dal giubilo degli abitanti della Val di Susa. Contraria al traforo per motivi non solo ambientali ma economici («I costi sono superiori ai benefici, meglio molte piccole opere per la comunità») ieri ha detto che «un sindaco non può bloccare i lavori. Porterò al tavolo le ragioni del mio no e in base alla discussione valuterò se uscirne». Ha subito chiesto le dimissioni di Francesco Profumo dalla presidenza della Compagnia di San Paolo, il cuore economico finanziario della città, accennando al recente aumento di 400 mila euro stanziato nei giorni scorsi per aumenti agli stipendi dei dirigenti. Ha anche messo in dubbio la nomina di Paolo Peverano all’Iren, nome da poco indicato da Fassino. Nel mio mandato, ha detto, ci sarà un semestre bianco per il sindaco: non potrà fare nomine negli ultimi sei mesi di mandato. Ha annunciato anche il reddito di cittadinanza e la chiusura dei centri Cie con una politica di reinserimento scolastico per i bambini e lavorativo per gli adulti immigrati.
Virginia Raggi si è rivolta ieri agli elettori con un lungo post su Facebook nel quale non ha fatto cenno a funivie, olimpiadi e altri caposaldi della discussione televisiva delle scorse settimane. Ha detto prima di tutto: «Finalmente una donna, in un tempo in cui le pari opportunità sono una chimera», mettendo a tacere tutti coloro che giudicavano sessista sottolineare il genere del candidato. Ha poi parlato di anni di malgoverno e di Mafia capitale. «Cambia tutto, ora tocca a noi», il titolo. Fra i primi commenti quello di un ragazzo di 17 anni che dice: non ho potuto votare ma ho convinto la mia famiglia. I dati indicano che l’elettorato di Raggi (e dei candidati grillini nei municipi, vinti nel numero di 12 su 14 a Roma) è molto più giovane rispetto a quello dei partiti tradizionali.
La giunta.

Appendino ha selezionato curriculum di 400 candidati e già indicato quasi tutti i nomi. Ci sono il presidente dell’Arcigay Marco Giusta, l’uomo dei conti del leghista Cota Sergio Rolando, il docente di storia dell’architettura al Politecnico Guido Montanari, per lo Sport Roberto Finardi ex dirigente Coni, atleta e tifoso del Toro (Appendino è juventina, fino a 25 anni ha giocato terzino). Sonia Schettino che viene dalla Compagnia di San Paolo e dalla fondazione Agnelli, l’insegnante Federica Patti, che come altri arriva da associazioni e ambienti vicini alla sinistra. Ha annunciato che i lavori della giunta saranno trasmessi in diretta Facebook una volta al mese. Dal Politecnico viene anche Cristina Pronello, che Virginia Raggi vuole a Roma ai Trasporti. L’assai apprezzato urbanista Paolo Berdini e il rugbista Andrea Lo Cicero, pilone, 103 presenze in nazionale. Questi i nomi di punta. Ieri giornata di grandi consultazioni per le posizioni ancora scoperte.
Grillo.

Appendino non ha sottoscritto il “contratto” che vincola Virginia Raggi e i consiglieri capitolini allo staff del Movimento e che prevede tra l’altro multe in caso di “danno d’immagine”. Raggi ha pubblicamente ringraziato della sua elezione Grillo e Casaleggio, Appendino forse in privato. Rispetto a Raggi, che è stata indicata come candidato sindaco da 1724 persone nelle primarie on line, Appendino è stata scelta come candidato sindaco per acclamazione, in assemblea.

Carriera politica e polemiche.

Entrambe fanno politica da più di cinque anni e sono state consigliere comunali di opposizione nell’ultimo mandato. Appendino aveva una iniziale simpatia per Sel e stima per l’allora leader Nichi Vendola. Si è avvicinata ai Cinquestelle “per caso”, ha raccontato, insieme al marito, industriale e simpatizzante del Movimento. Ha proposto, a un banchetto per strada, di “dare una mano” a decifrare il Bilancio del Comune. E’ laureata in Economia alla Bocconi. Raggi ha lavorato come praticante nello studio legale Sammarco, prima di entrare in politica a 32 anni. Il praticantato in quello studio, che ha lavorato con Cesare Previti, ha suscitato polemiche in campagna elettorale. Da ultimo, alla vigilia del voto, è stata attaccata per una consulenza non dichiarata alla Asl di Civitavecchia. «Ci hanno fatto una guerra senza precedenti », ha detto ieri notte sotto la pioggia, «ma da oggi lavoriamo tutti per Roma».

ntervista di Silvia Truzzi a Barbara Spinelli sui risultati del voto. «C’è il desiderio profondo di restaurare in pieno la sovranità popolare». Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2016 (m.p.r.)

La parola è populismo. «Queste elezioni rappresentano una svolta che mette in dubbio molte granitiche certezze nella classe politica tradizionale. In particolare confutano slogan che sembravano punti di forza e invece si sono rivelati fragilissimi», spiega Barbara Spinelli, giornalista, scrittrice ed europarlamentare, Indipendente del gruppo GuE-Ngl (Sinistra unitaria europea). «La prima accusa che in genere viene rivolta al Movimento 5 Stelle è quella di populismo. Ma le urne di domenica ci dicono che il populismo di cui si parla con tanto disprezzo non è in fondo altro che il desiderio, profondo, di restaurare in pieno la sovranità popolare».


Il populismo è l’altra faccia della governabilità, slogan che sentiamo ripetere continuamente.
Infatti: la governabilità, che ci viene propagandata come il valore massimo, nasconde in realtà un tentativo di accentramento del potere. Del resto “governabilità” ha un significato passivo, vuol dire “essere governati”. Tra queste due parole, “populismo” e “governabilità”, c’è una connessione stretta: le urne ci hanno detto che il popolo non vuole subire il governo dall'alto. Vuole governi, non governabilità. Questo al netto dell’astensionismo, che però nei ballottaggi è abbastanza fisiologico. L’accusa di populismo in tutta Europa viene utilizzata insistentemente per screditare ogni forma di protesta o di partecipazione dei cittadini, penso per esempio ai referendum. Tutto ciò che dà voce alla volontà dei cittadini viene svilito, eppure in tutta Europa il principio della sovranità popolare è il fondamento della democrazia costituzionale. Qualche settimana fa Junker al G7 ha attaccato i populisti dell’Occidente mettendo sullo stesso piano Beppe Grillo e Donald Trump. Accusa che ha certamente fatto piacere al premier Renzi, ma che indica la cecità della classe dirigente europea rispetto a movimenti sociali sempre più rilevanti.

C’è un legame con i prossimi appuntamenti, come il referendum costituzionale di ottobre?
Un legame strettissimo. Tutta l’impalcatura oligarchica scricchiola: la riforma del Senato, che non sarà più elettivo, nella misura in cui è abbinato alla nuova legge elettorale, si contrappone a questo tentativo di recupero del principio di rappresentanza e di sovranità. Per essere coerenti, gli anti-populisti dovrebbero eliminare le elezioni: se si considera qualunque alternativa alle politiche proposte come populista, tanto vale non chiamare più i cittadini a esprimersi. Perché le elezioni ti possono dare come risultato il fatto che il popolo sceglie l’alternativa.
Si è detto che con Virginia Raggi e Chiara Appendino il Movimento 5 Stelle ha presentato un volto più rassicurante, più istituzionale.
Ho seguito la campagna elettorale e ho avuto l’impressione che le due candidate siano arrivate molto preparate e con le idee chiare all’appuntamento con le urne. Aggiungo: non ne sono affatto sorpresa. Sono al Parlamento europeo da due anni e seguo attentamente quello che i miei colleghi del Movimento 5 stelle fanno a Bruxelles e Strasburgo: con loro lavoro in modo molto proficuo perché hanno competenza di altissimo livello su questioni specifiche e tecniche. Sono documentati, studiano, sono puntuali negli interventi. Dicono che sono antieuropei, ma non è vero: si battono per un’Europa diversa e questo per me vuol dire essere pro Europa.
Quali sono le sfide che ha davanti il Movimento ora?
Queste elezioni hanno dimostrato la prevalenza della sovranità popolare, ma non basta esprimerle nel momento del voto. Deve essere un processo continuo. Una volta insediati nei municipi, i nuovi sindaci 5 Stelle dovranno continuare ad appellarsi alla sovranità popolare, e avere un legame forte con i cittadini, con la società civile: i poteri forti non si faranno da parte.
Sia Virginia Raggi che Chiara Appendino dopo la vittoria hanno fatto discorsi molto inclusivi. È un messaggio molto giusto. Non sarà semplice il loro lavoro. Virginia Raggi ha detto di voler mettere un punto e cambiare pagina, dopo gli scontri della campagna elettorale. Ma gli altri, i poteri forti, non credo lo faranno. Anche i cittadini dovranno essere molto vigili, continuando a sostenere il lavoro dei nuovi eletti.
Il Pd ha perso la connessione sentimentale con i ceti più popolari?
Non considero il Pd un partito di sinistra. Quello che i candidati e le candidate dei 5 Stelle dicono sulla povertà e le disuguaglianze sociali sono temi che un tempo erano della sinistra. Anche nella battaglia No Tav io credo che molte persone di sinistra si potrebbero riconoscere.
Commentatori e politici del Pd dicono che Renzi non avrebbe completato il processo di rottamazione e qui starebbero le ragioni della sconfitta.
Renzi rispecchia molto la tendenza oligarchica che c’è negli esecutivi di tutta Europa: è questo modo di governare che va rottamato.

«Non si vede una maggioranza diversa dall’attuale per guidare l’Italia. Ieri, tuttavia, si è aperta una stagione che cancella qualunque illusione di primato e di posizione di rendita». Articoli di Stefano Folli, Norma Rangeri, Massimo Franco, Roberto Napolitano. La Repubblica, Il manifesto, Il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2016 (m.p.r.)
La Repubblica

LA ROTTAMAZIONE GRILLINA
CHE BATTE IL RENZISMO

di Stefano Folli

Stamane la vittoria dei Cinque Stelle a Roma sarà su tutti i siti web e sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. È una vittoria prevista ma clamorosa, anche nelle proporzioni. La capitale d’Italia verrà amministrata da una forza che pretende di essere un movimento e non un partito e che esiste da pochi anni. Beppe Grillo, assente durante la campagna, è piombato nella notte ad abbracciare Virginia Raggi e forse a sovrapporsi a lei. Quello che accadrà è un enigma avvolto in un rebus, ma i Cinque Stelle hanno vinto con un colpo di scena anche a Torino, il che raddoppia la loro responsabilità. Hanno gli occhi del mondo addosso e sono di fronte al passaggio cruciale della loro breve esistenza. Se intendono diventare qualcosa di diverso dal fenomeno protestatario e un po’ folkloristico che sono stati fin qui, salvo poche eccezioni, da oggi non dovranno sbagliare. Sapendo che le scelte possono essere impopolari e richiedono la capacità di riunire una classe dirigente.

Di sicuro sono scelte che turbano il raccontino manicheo dei buoni contro i cattivi. Per Matteo Renzi e il suo partito il risultato è molto negativo. È soprattutto un pessimo risultato per il “renzismo” inteso come ambizioso disegno volto a rimodellare l’Italia definendo i contorni di un partito personale costruito sul carisma del leader. Perdere Roma è grave, ma per mille ragioni inevitabile. Perderla con uno scarto percentuale così significativo è spiacevole, dimostra che Giachetti è stato un candidato dignitoso ma debole e fuori contesto. Tuttavia ciò che rende grave la sconfitta e apre un capitolo carico di incognite nel centrosinistra è la parallela caduta al Nord.

Fassino, uno dei fondatori del Pd, era in vantaggio di circa undici punti al primo turno e nonostante questo Torino ha da oggi un sindaco a Cinque Stelle. Torino, non solo Roma. La Capitale sconta un dissesto amministrativo di anni, il capoluogo del Piemonte è un’altra storia. Fassino ha adempiuto ai doveri del suo mandato con esperienza e serietà, come dimostra la realtà di una città ben gestita e sotto questo profilo non paragonabile a Roma. Eppure l’esito del voto è il medesimo al Nord come al Centro: vince l’alternativa “grillina” con le sue ricette vaghe, i mille No e le prospettive di “decrescita felice”. E se mettiamo nel canestro anche Napoli, dove De Magistris è stato confermato senza problemi, abbiamo una dorsale dell’anti-politica, della protesta e del malessere sociale che abbraccia mondi lontani e diversi da Nord a Sud, uniti da un senso di insofferenza e di rivolta contro il vecchio assetto. E infatti De Magistris, che non é “grillino”, ha assorbito e riproposto molti dei temi populisti cari ai Cinque Stelle. I quali sotto il Vesuvio quasi non esistono, mentre il Pd - come è noto - è completamente scomparso dalla contesa.
Quanto a Milano, Sala ha prevalso di misura. Nonostante questo, nessuno può davvero pensare che dal laboratorio milanese sia uscita la ricetta vincente per dimenticare Roma, Torino e Napoli. È un dato che rende meno drammatica la notte del Pd, ma non basta a costruire un’ipotesi rassicurante: troppo poco per riconciliare il centrosinistra con il suo elettorato, tanto meno per individuare le coordinate del famoso “partito di Renzi” su cui il premier ha puntato le sue carte a partire dalle elezioni europee del 2014. Così come non è sufficiente il successo di Merola a Bologna, terreno tradizionalmente favorevole, a garantire sullo stato di salute del Pd. Perché queste elezioni, pur nella diversità dei luoghi e delle situazioni, dimostrano che il Partito Democratico ha bisogno di essere ripensato dalle radici.
Travolto dai Cinque Stelle a Roma e a Torino, inesistente a Napoli, perdente a Trieste, vittorioso alla fine a Milano (e vedremo poi le altre piazze, alcune - come Varese - positive per il Pd). Un bilancio abbastanza misero per alimentare le prospettive renziane, il sogno del partito “di sistema” capace di tenersi l’ala sinistra e al tempo stesso di sfondare, novello Tony Blair, verso il centrodestra. Questo scenario non si è verificato e se Renzi conserverà Milano lo deve alla lealtà di Pisapia, che ha permesso di incollare a Sala buona parte dei voti di sinistra.
Il Pd ha bisogno di una rifondazione ideale e di un modo meno aspro di intendere la leadership. Il che non significa una trattativa di basso livello con la minoranza bersaniana. Ovvio che il premier-segretario deve attendersi qualche atto poco amichevole da parte di quel segmento del partito che è stato trattato con malcelato disprezzo negli ultimi due anni. Ma la rifondazione ideale presuppone un orizzonte assai più ampio. Temi, prospettive, ricerca di un nuovo rapporto con la base sociale e gli elettori; un rinnovamento che non sia solo la resa dei conti con gli avversari interni per promuovere il proprio gruppo di potere... c’è solo da cominciare. Il congresso del Pd potrà essere l’occasione propizia per segnare il cambio di passo, alla ricerca di un più equilibrato assetto interno. Ma nulla sarà possibile senza idee e suggestioni calate nel solco del riformismo europeo, fondate su una visione non solo propagandistica dell’Italia di oggi e del suo disagio, sullo sfondo di una ripresa economica troppo fragile e di ingiustizie percepite come intollerabili.
Il governo non corre rischi. Ma sarebbe grave se l’analisi si limitasse a tale considerazione. Questa volta è indispensabile un bagno nel realismo. A lungo, il premier si è protetto dietro uno scudo: l’assenza di alternative. Un centrodestra berlusconiano troppo debole e diviso fra moderati e “lepenisti” alla Salvini. E un movimento Cinque Stelle chiassoso ma immaturo e poco credibile come forza di governo. In parte è ancora così, ma sempre meno. Le elezioni comunali dimostrano che una forma di alternativa prende forma nelle città. Sarà incapace di esprimere, come si usa dire, una cultura di governo? Vedremo. La storia insegna che le alternative politiche con il tempo si creano sempre, per cui è pericoloso cullarsi nelle illusioni. Da stanotte anche il referendum costituzionale di ottobre diventa un’insidia da non sottovalutare. Non c’è un nesso diretto fra il voto amministrativo e la consultazione sulla riforma, salvo uno: la popolarità di Renzi è in calo insieme alle fortune del suo Pd. Per cui una certa retorica del rinnovamento, con il vezzo di dividere gli italiani fra riformisti e conservatori, rischia di essere irritante e poco utile. Anche rispetto alla strategia referendaria sarà opportuna una riflessione.

Il manifesto
UNA SCONFITTA CAPITALE
di Norma Rangeri

Il numero clamoroso che crolla in testa a Renzi sarebbe da scrivere a caratteri romani perché si tratta della valanga 5Stelle che ieri si è abbattuta sulla Capitale con percentuali bulgare. Le prime proiezioni sfioravano il 70% per la giovane Raggi, a vanificare la fatica di Sisifo del povero Giachetti, doppiato dai consensi della futura sindaca di Roma.

È la prima donna nella storia ad agguantare il governo della Capitale. E non c’è dubbio che nella scelta di far correre due donne in città importanti del paese, Raggi a Roma e Appendino che vince a Torino, c’è una marcia in più del Movimento 5Stelle. Si compensa l’inesperienza di queste future prime cittadine (hanno alle spalle una consiliatura nei precedenti governi comunali), con l’attenzione alla domanda di cambiamento radicale reclamato dalla cittadinanza: specialmente, come si è visto dalla geografia dei quartieri, di quella parte della società che paga i prezzi più pesanti della crisi.

La pesante, e inaspettata, sconfitta di Fassino a Torino è l’altro risultato che mette il piombo all’avventura nazionale di Renzi. Cade proprio sul fronte torinese la linea d’attacco del renzismo-marchionnismo rappresentata da un renziano ante-litteram come Fassino, antico dirigente del Pci-Pds-Ds-Pd, il partito che oggi perde una città che guidava da più di vent’anni.

E neppure la difficile vittoria di Sala a Milano, raggiunta con fatica e probabilmente ottenuta grazie al soccorso rosso della sinistra e dei radicali, riesce a pareggiare il pesante debito elettorale del partito democratico. Con la conferma piena della vittoria di De Magistris a Napoli, il Pd di Renzi esce dal match delle urne come un pugile suonato, perché ai risultati dei ballottaggi va affiancato quello del crollo registrato dal Pd già al primo turno. Dalle europee del 2014 sembra passata un’era geologica.

È basso ma non inedito il dato dell’affluenza che si profila intorno a un 50% dei votanti. Le elezioni comunali, un tempo le più partecipate, fin da quando inaugurarono, nel 1993, l’elezione diretta dei sindaci, oggi si rivelano poco amate e meno frequentate dagli elettori italiani. E tutto fa pensare allo scenario possibile dell’Italicum, quando ci potremmo ritrovare in una situazione analoga alle elezioni politiche, con una nuova legge elettorale che prevede il ballottaggio senza nessuna soglia per il premio di maggioranza. Configurando così un governo nazionale espressione di una minoranza di votanti.

Un obiettivo del resto perseguito con tenacia e perseveranza da Renzi, politico allergico alla filosofia decoubertiana, l’importante per lui non è partecipare ma vincere. Le urne dicono che da solo perde. La strategia dell’autosufficienza fa solo terra bruciata.

Corriere della Sera
GLI ERRORI E LE INSIDIE
di Massimo Franco

Sarà difficile minimizzare quanto è successo ieri nelle maggiori città italiane. E ancora di più catalogare come voto amministrativo ballottaggi che spediscono al governo nazionale un segnale univoco. Per mutuare il verbo crudo scelto da Matteo Renzi all’inizio della sua esperienza, l’elettorato ha «rottamato» il Pd a Roma e Torino, premiando le due candidate del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi e Chiara Appendino; e fino a notte fonda ha tenuto in bilico la vittoria a Milano di Giuseppe Sala su Stefano Parisi del centrodestra. Il capoluogo lombardo è l’unica soddisfazione, e non da poco, per Palazzo Chigi. Gli consente di tirare un sospiro di sollievo, come a Bologna. Relativo, però. Né basterebbe prendersela con gli avversari interni: le diatribe tra i Democratici interessano poco, ormai.

La sconfitta della sinistra di governo pone un problema di sistema, perché l’alternativa in incubazione ha il profilo di Beppe Grillo. Il rischio, adesso, è di gettare l’esecutivo in un limbo di paura e di logoramento che il vertice del Pd dovrà affrontare anche psicologicamente. Va ribadito che non si vede una maggioranza diversa dall’attuale per guidare l’Italia. Ieri, tuttavia, si è aperta una stagione che cancella qualunque illusione di primato e di posizione di rendita.

Al punto che viene da chiedersi se il Pd riuscirà a prevalere nel referendum di ottobre sulle riforme istituzionali: quello su cui punta tutto. Se non cambia la strategia, c’è da dubitarne. Il flop delle Amministrative non avviene per la bontà delle proposte avversarie. È figlio di errori di sottovalutazione e di un filo di presunzione. Non è esagerato dire che probabilmente, qualunque candidato del M5S avrebbe dato filo da torcere a Pd e centrodestra. E non solo perché il movimento di Grillo è una «macchina da ballottaggi» capace di pescare consensi dovunque. La sua affermazione si alimenta del fallimento delle forze tradizionali: è il sintomo della delusione verso i partiti tradizionali, e di tensioni sociali irrisolte.

Per Renzi lo schiaffo è più doloroso, perché respinge la sua narrativa ottimistica e getta ombre sul referendum. Due anni e mezzo di segreteria del Pd e oltre due di presidenza del Consiglio dovevano consacrarlo come il leader capace di riplasmare la sinistra e porsi come nuovo baricentro della politica. Il mandato era di fermare Grillo e di far ripartire l’economia attraverso le riforme. Alcune riforme ci sono, eppure i loro effetti tardano a vedersi. Già emergono, invece, i contraccolpi negativi. Il M5S ha espugnato facilmente il Campidoglio, sospinto da un consenso popolare gonfiatosi sulle macerie del Pd e del centrodestra capitolini.

E a Milano è bastato un candidato moderato come Parisi per mettere in forse fino all’ultimo la vittoria di Sala. Quanto a Napoli, cuore del Sud, i Dem non sono arrivati nemmeno al ballottaggio. Insomma, abbiamo alcune delle «capitali» d’Italia non governate dal Pd. E lo schema del partito che si percepisce così forte da ritenersi autosufficiente deve fare i conti con ballottaggi dispettosi. I risultati confermano che nessuno si può permettere l’autarchia. Sono necessarie alleanze. Gli unici a prescinderne in nome di una controversa purezza sono i grillini: almeno ufficialmente.

Bisogna prendere atto che al secondo turno si formano coalizioni di fatto, micidiali per chi ne è escluso. Si tratta di una verità che potrebbe portare a una modifica dell’Italicum, ritenuto dal premier un tabù intoccabile. Bisognerebbe aspettarsi un ripensamento dell’agenda del governo, e del modo in cui il premier ha svolto il suo doppio incarico. L’insuccesso, tuttavia, non può essere scaricato solo su di lui. I limiti di leadership si abbinano all’incapacità dell’intero Pd di trasmettere al Paese un messaggio di unità e di credibilità.

Gli elettori hanno tolto a Renzi l’aureola della grande vittoria del Pd alle Europee del 2014. Ma c’è poco da rallegrarsi. La fase che si apre presenta molte insidie. Non c’è un dopo-Renzi in vista. C’è un partito-perno che di colpo si ritrova indebolito e magari tentato dalla caccia ai capri espiatori: tutte premesse di un periodo di confusione. Bisogna sperare che, messo di fronte alla responsabilità di governare, il M5S scelga un profilo meno estremista; e riesca a battere le diffidenze verso la sua classe dirigente magari onesta ma inesperta e manichea: anche perché il tripolarismo sta diventando sfida Pd-M5S. Con la Lega ridimensionata nelle ambizioni, e l’astensione come convitata di pietra.
Il Sole 24 Ore
LA FORZA DEL SEGNALE POLITICO

di Roberto Napoletano

Il segnale “politico” per il governo Renzi si era appalesato con chiarezza al primo turno delle amministrative, e lo avevamo prontamente evidenziato, adesso rimbomba con ancora maggiore forza e certifica quanto pesino la fragilità della ripresa e il disagio sociale nell’urna. Il nemico comune da battere è la mancata crescita e per costruirla, in Italia e in Europa, in un mondo che rallenta e pieno di incognite, bisogna dimostrare di sapere fare le cose difficili. Il risultato del voto amministrativo, piaccia o no, da Roma a Torino, per non parlare di Napoli, ci consegna questo “dato politico” e non basta a mitigarlo neppure la vittoria di misura a Milano con un’amministrazione uscente che ha ben governato e in un momento d’oro riconosciuto in casa e fuori per la nostra capitale economica.

Questo Paese non si può permettere una nuova stagione di instabilità politica, alla vigilia di un appuntamento di portata storica come è quello del referendum inglese su Brexit, ma non si può neppure permettere una stagione di stabilità politica di governo che non si sporchi le mani con le cose difficili, non faccia atti concludenti per liberare il Paese dai macigni di una pubblica amministrazione opprimente e di una giustizia civile dai tempi eterni e non riesca a restituire un sentiero di certezze dove la stabile e finalmente strutturale riduzione dei prelievi fiscali e contributivi si accompagni a un’azione “politica” incisiva sui terreni della spending review e, in genere, della spesa pubblica allargata, nazionale e territoriale.

Senza fare questo, anche nello scenario migliore che è ovviamente quello che Brexit non passi, il governo italiano brucerebbe il capitale accumulato con la riforma del mercato del lavoro, i primi interventi fiscali e sulla macchina dello Stato, l’impronta meritocratica e il cammino intrapreso sul piano istituzionale (contrappesi e aggiustamenti necessari compresi). Finirebbe delegittimato nell’azione altrettanto ineludibile di un cambiamento in profondità dell’Europa che vada verso un assetto federale, una difesa comune e, soprattutto, una politica finalmente di crescita e solidaristica senza la quale è impossibile ritrovare lo spirito dei Fondatori e restituire al Vecchio Continente il ruolo che merita nell’arena della competizione globale. Mancare questa opportunità per colpa nostra è davvero imperdonabile se si pensa che tutto congiura a favore di un’Italia che recuperi non solo un ruolo di capofila dei Paesi periferici ma anche un suo peso specifico in Europa nel dialogo con la cancelliera Merkel, la Commissione europea e la stessa Bce. Dipende solo da noi: nel senso che solo noi possiamo gettare alle ortiche questa irripetibile occasione.

Non intendiamo qui dilungarci in disquisizioni più strettamente politologiche: la questione interna del Pd e l’esigenza da ambo le parti di recuperare coerenza d’azione, spirito di partito e tratti costitutivi, il peso dei movimenti cosiddetti populisti che nel caso dei cinque stelle alternano competenze inattese e spinte demagogiche ma dentro un ancoraggio civico che non va sottovalutato, gli scenari di Roma e di Milano che mostrano plasticamente in senso opposto come e quanto pesino disagio sociale, inefficienza amministrativa e malaffare rispetto alla tenuta degli schieramenti storici di centrodestra e di centrosinistra. Potremmo proseguire e il giornale offre analisi puntuali richiamate a fianco.

Il punto dirimente, però, è un altro. Il dato politico che emerge da questa consultazione è evidente: la buona governabilità viene prima del referendum costituzionale di ottobre e, se si vuole vincere questa partita, bisogna avere il coraggio di dire la verità, coinvolgere e pretendere da tutti, dentro e fuori il Pd, dalle parti sociali e nelle pieghe della società, una direzione riformistica fatta non di una tantum ma di cose che restano, che si possano toccare e esigere, non quelle semplici, ma quelle difficili con le quali tutti si sono scontrati e che nessuno è riuscito a fare. La fiducia contagiosa e duratura, quella che permette a un Paese di girare pagina per davvero e di tornare a dare lavoro qualificato ai suoi giovani migliori, passa di qui, si misura sul terreno della produttività e sulla ripresa degli investimenti. Non esistono scorciatoie per nessuno. A ben vedere, è questa l’altra grande occasione da cogliere.

«Il Regno Unito paga le scelte sbagliate di Berlino e Bruxelles su immigrazione e moneta Ma l’alternativa produrrebbe un forte impoverimento».

La Repubblica, 20 giugno 2016 (m.p.r.)

Mancano ancora quattro mesi e mezzo alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ma c’è un voto, questa settimana, che potrebbe pesare sul futuro del mondo quanto quello americano: il referendum della Gran Bretagna sul rimanere o meno nell’Unione Europea. Purtroppo, questo voto è una scelta tra il male e il peggio: la domanda è quale sia il peggio. Non lo nascondo: io voterei Remain. Lo farei pienamente consapevole che la Ue funziona malissimo e mostra pochi segni di volersi riformare. Ma l’uscita della Gran Bretagna - la Brexit - probabilmente peggiorerebbe le cose, non solo per i britannici, ma per l’Europa intera.

Da un punto di vista economico, è chiaro: la Brexit renderebbe la Gran Bretagna più povera. Non porterebbe necessariamente a una guerra commerciale, ma peggiorerebbe sicuramente il commercio britannico con il resto d’Europa, con un calo della produttività e dei redditi. Secondo i miei calcoli approssimativi, che sono in linea con altre stime, la Gran Bretagna diventerebbe più povera del due per cento di quanto non sarebbe altrimenti, praticamente per sempre. È un colpo duro. C’è anche il rischio, più difficile da quantificare, che la Brexit colpisca la City che è una grande fonte di esportazioni e di reddito. E questo farebbe sostanzialmente aumentare i costi.
Che cosa dire degli avvertimenti sul fatto che un Leave provocherebbe una crisi finanziaria? Questa è una paura esagerata. La Gran Bretagna non è la Grecia: ha una propria valuta e i suoi prestiti sono in questa valuta, quindi non rischia una pressione che creerebbe un caos monetario. Nelle ultime settimane, le probabilità di un voto favorevole all’uscita sono aumentate in maniera evidente, ma i tassi di interesse britannici sono scesi, non sono saliti, seguendo il calo globale dei rendimenti. Tuttavia, da un punto di vista economico, la Brexit appare una cattiva idea.
È vero, alcuni sostenitori della Brexit dicono che lasciare l’Unione Europea consentirebbe alla Gran Bretagna di fare delle cose meravigliose: di deregolamentare e scatenare la magia dei mercati, portando a una crescita esplosiva. Mi dispiace dire che questo è puro vudù avvolto nell’Union Jack; è la stessa fantasia del libero mercato che si è sempre e comunque dimostrata delirante. No, la situazione economica è buona quanto può esserlo in un momento del genere. Perché, dunque, il mio scarso entusiasmo sul Remain? Una parte della risposta sta nel fatto che l’impatto della Brexit sarebbe disomogeneo: Londra e il sud-est dell’Inghilterra sarebbero duramente colpiti, ma la Brexit vorrebbe probabilmente dire una sterlina più debole e questo potrebbe effettivamente aiutare alcune delle vecchie regioni manifatturiere del nord.
Più importante, tuttavia, è la triste realtà dell’Unione Europea che la Gran Bretagna potrebbe lasciare. Il cosiddetto progetto europeo cominciò più di 60 anni fa, e per molti anni ebbe un’enorme forza positiva. Non solo ha promosso il commercio e aiutato la crescita economica; è stato anche un baluardo per la pace e la democrazia in un continente con una storia terribile. Ma la Ue di oggi è la terra dell’euro, un grave errore aggravato dall’insistenza della Germania a trasformare la crisi provocata dalla moneta unica in un morality play dove si scontano i peccati (commessi dagli altri, ovviamente) con dei rovinosi tagli al bilancio.
La Gran Bretagna ha avuto il buon senso di mantenere la sterlina, ma non è immune dagli altri problemi dello sbilanciamento europeo, in particolare dall’istituzione di un’immigrazione libera senza un governo condiviso. Si può sostenere che i problemi causati, per esempio, dall’uso del servizio sanitario nazionale da parte dei romeni siano esagerati, e che i benefici dell’immigrazione bilanciano ampiamente questi costi, ma questo è un argomento difficile da presentare a un’opinione pubblica frustrata dai tagli ai servizi pubblici. Perché la cosa più frustrante riguardo all’Ue è questa: l’impressione che nessuno riconosca mai gli errori o impari da essi. È difficile trovare, ammesso che ci sia, qualcuno che a Bruxelles o a Berlino si faccia un esame di coscienza sulla terribile performance economica dell’Europa dal 2008. E provo una certa simpatia per i britannici che semplicemente non vogliono essere legati ad un sistema che garantisce così poca responsabilità, anche se uscirne ha un costo economico.
La questione, tuttavia, è se un voto britannico favorevole all’uscita otterrebbe qualcosa di meglio. Ma temo che, in realtà, peggiorerebbe le cose. Per questo io voterei Remain.
Articolo pubblicato sul New York Times News Service. Traduzione di Luis E. Moriones

«». La Repubblica, 18 giugno 2016 (c.m.c.)

Nel dibattito e nella cultura politica del Regno Unito ci sono certe realtà ineludibili su cui faremmo bene a riflettere.

La prima è che, nonostante tutti i meritati elogi per Jo Cox sulla stampa, buona parte dei nostri mezzi di informazione si dedica instancabilmente ad aizzare il pubblico contro i suoi rappresentanti eletti. Editoriali lasciano intendere regolarmente che qualsiasi aumento di stipendio per i parlamentari è uno spreco di denaro pubblico. E che “nessuno” mantiene le promesse fatte.

Se queste opinioni vengono propagate così spesso, possiamo davvero sorprenderci se fanno presa? C’è una sorta di nichilismo nei confronti della politica, un nichilismo che i necrologi di un giorno non basteranno a cancellare. La sensazione trasmessa è che Jo fosse un’eccezione, che è un modo sottile per confermare questa visione dei nostri parlamentari, invece di smentirla. «Jo non era una politica normale», ho sentito dire alla Bbc. Invece lo era. La verità è che la maggior parte delle persone che fanno politica è gente per bene che fa del suo meglio secondo i propri valori.

La seconda verità ineludibile — e sono consapevole che la campagna referendaria è stata sospesa, ma credo che vada detto — è che la campagna in corso ha scatenato nel nostro dibattito politico un odio incontenibile. In questa campagna, alimentata dai pregiudizi e dalle distorsioni dei giornali, dalla rabbia dei social media e dalla sensazione che i politici devono gridare sempre più forte se vogliono farsi ascoltare, hanno assunto un ruolo centrale l’odio e lo svilimento degli avversari e un ruolo troppo marginale la capacità della politica di offrire una visione efficace del futuro e di discutere in modo civile.

La mia speranza, pur nel poco tempo che resta prima del referendum, è che tutto questo possa cambiare. È di sentire i nostri leader politici parlare meno di statistiche e di più di che tipo di Paese stiamo diventando e che tipo di Paese potremmo essere.

Nei nostri partiti, conservatori e laburisti, la parola odio è stata fin troppo preponderante nel dibattito sul nostro futuro dentro o fuori dall’Unione Europea. Persone schierate sulla stessa posizione che non vogliono fare campagna insieme. Amici dello stesso partito che ora si danno a vicenda del bugiardo. Ma soprattutto la deliberata creazione di odio verso chi viene da fuori, con una questione complessa come l’immigrazione trattata non come un problema da affrontare, ma come un tema da sfruttare.

L’ultimissimo tweet di Jo diceva: «L’immigrazione è una preoccupazione legittima. Non è una ragione per abbandonare l’Ue». L’altroieri Nigel Farage ha lanciato un manifesto elettorale. C’è sopra la foto di un’imponente coda di persone con la pelle scura che lasciano la Siria e si dirigono verso la Slovenia.

Il messaggio è chiaro: queste persone stanno venendo qua, è colpa dell’Unione Europea e solo un voto per il “Leave” (uscire dall’Ue) il 23 giugno potrà fermarle. È un manifesto orribile, disgustoso. Se vuole che le condoglianze che ha twittato abbiano un sen- so, Farage dovrebbe rimuovere quel manifesto e chiedere scusa. Ma è un problema che va oltre la frangia minoritaria che Farage rappresentava finora.

L’intera campagna, mi sembra, ha puntato sulla generazione di sentimenti “anti”: anti-élite, anti-“esperti”, anti- politica, anti-realtà, il tutto in favore della rabbia e dell’emozione. Jo Cox si batteva per molte delle cose buone. Si batteva perché il mondo aprisse gli occhi su quello che sta succedendo in Siria e facesse di più per affrontare il problema.

Si batteva perché la Gran Bretagna si impegnasse per un approccio razionale, equo, umano all’immigrazione. Si batteva per la speranza contro l’odio e per la politica democratica come via per cambiare il mondo per il meglio. Se vogliamo che la sua morte abbia qualche valore facciamo in modo che una parte della sua eredità sia un genuino e duraturo apprezzamento della politica e dei politici come forza positiva.

Frederick Forsyth. intervistato da Enrico Franceschini: «Il mondo globalizzato, colpito dall’incertezza economica, ha paura del nuovo e cerca nemici sui quali scaricare il proprio odio Succede ovunque. E potrebbe stravolgere le nostre abitudini democratiche». La Repubblica, 17 giugno 2016

LEEDS- «L’opera di un folle, in tempi di xenofobia dilagante e di una politica che esagera per avere ragione». Così Frederick Forsyth, autore di tanti thriller e lui stesso agente dei servizi segreti britannici, come ha rivelato di recente nella sua autobiografia, “L’outsider, il romanzo della mia vita”, giudica il fatale attacco alla deputata laburista Jo Cox. «Non si può certo scaricare la responsabilità di un simile gesto su chi fa campagna per Brexit, ma un clima politico esagerato e inferocito agita gli animi ovunque, non soltanto nel nostro paese », dice lo scrittore a Repubblica al telefono dalla sua casa di Londra.
Signor Forsyth, cosa pensa di questa brutta storia?
«Sembra l’opera di un folle, un singolo pazzo e il mondo purtroppo ne è pieno. Quali che fossero le sue motivazioni, l’episodio ha la dinamica di un gesto spontaneo, irrazionale, incontrollabile. Nulla di organizzato ».

Sembra che abbia gridato “Britain first”, prima la Gran Bretagna, mentre le sparava,
«Quelle parole non fanno di lui un patriota, questo è sicuro. Dimostrano soltanto che la xenofobia è un male sempre più diffuso. È sempre esistita, ma in tempi di incertezza economica, di paura del nuovo, è aumentata come se fosse una valvola di sfogo. Lo straniero, immigrato o meno, viene visto come il nemico: succede nel nostro paese, ma non solo, è un fenomeno presente in tutta Europa, a livello politico e non solo, basta pensare agli episodi di violenza degli ultimi giorni fra gli hooligans di varie nazioni agli europei di calcio. Viviamo in un mondo globalizzato e multietnico, eppure, o forse proprio per questo, l’odio dei diversi è diventato il male della nostra epoca».

Nessuna responsabilità da parte della campagna per Brexit? Anche da lì sono partite invettive contro immigrati e stranieri.
«A gridare direi che è soltanto Nigel Farage, il leader dell’Ukip, un partito che ha fatto della xenofobia quasi una bandiera. La corrente del partito conservatore che si batte per l’uscita dalla Ue si limita a dire che è impossibile continuare ad accettare un’immigrazione senza controlli. Ci sono state esagerazioni da entrambe le parti, il primo ministro Cameron ha evocato addirittura il rischio della terza guerra mondiale in caso di Brexit. Tutto ciò è disdicevole, dà un’idea di come il dibattito politico sia sceso in basso anche da noi, che pensavamo di essere più seri di altri, ma un conto è spingere l’acceleratore del populismo, un altro è sentirsi responsabili di un tragico fatto come questo».

Pensa che la morte di Jo Cox possa influire sulla campagna per il referendum?
«Spero di no, perché non sarebbe giusto prendere una decisione così importante per il futuro del nostro paese sulla base del gesto di un pazzo omicida. Ma entrambe le parti hanno fatto bene a sospendere la campagna in segno di cordoglio. Siamo tutti scioccati da quanto è accaduto. Auguriamoci che, quando riprenderemo a parlare di politica, lo faremo tutti in tono più pacato».

Il fatto che un uomo politico possa essere attaccato e ucciso in questo modo in pieno giorno deve spingere a maggiori misure di sicurezza?
«Non c’è niente che possa mettere al sicuro i politici o chiunque altro da attacchi di questo genere. Non possiamo rinunciare alla nostra libertà né mettere un poliziotto armato a ogni angolo di strada. Né il terrorismo, né i pazzi isolati, devono farci perdere le nostre abitudini democratiche. E questo vale soprattutto per i politici, che devono stare tra la gente, non isolati nel palazzo del potere. Seguendo l’esempio di Jo Cox, caduta mentre faceva il suo lavoro».

Segni del declino di monarca che vacilla? Sarebbe bello. Ma lo strato di macerie è già tanto alto da soffocarci.

Ilmanifesto, 10 giugno 2016

Dalle trionfali elezioni europee del 40% a queste comunali dell’emorragia nelle grandi città sembra trascorso un secolo, e tira aria di un fuggi fuggi generale. Finiti i tempi dei laudatores in fila alla porta di palazzo Chigi e del partito, quando davanti alla televisione assistevamo alle repentine metamorfosi renziane dei fu bersaniani di ferro, quando i cespugli d’ogni stagione erano pronti a fare da contorno al giglio magico.

Ancora all’inizio della campagna elettorale per le amministrative, i sindaci sicuri di farcela al primo turno sembravano contendersi il corpo del leader, felici di poterlo esibire ai loro aperitivi (le piazze sono passate di moda, solo i 5 stelle hanno osato chiudere la campagna a piazza del Popolo, premiati dalle urne). Poi dopo la batosta del 6 giugno sembra iniziata la corsa a scendere dal carro. Ormai è una gara a tenere il presidente-segretario alla larga dai ballottaggi, e perfino lo stesso Renzi sembra volersi allontanare un po’ da se stesso (il giorno del voto sarà a Mosca da Putin).

Il severo prosciugamento dell’insediamento sociale del Pd, il rischio di perdere al ballottaggio, spingono i candidati sindaci di Torino, Bologna e Milano lontani dal premier. Quel suo ostinarsi a derubricare il voto locale per concentrarsi su quello del referendum costituzionale è stato un errore e per questo non lo vogliono accanto in questi ultimi giorni di campagna elettorale («Io non sono del Pd, sono un manager», così Sala in Tv).

Ieri lo hanno fischiato non i centri sociali, ma i commercianti riuniti nell’assemblea della Confcommercio, la pancia della piccola impresa familiare, una parte del ceto medio colpito dalla morìa delle saracinesche nelle città, fenomeno triste e evidente camminando per le strade di Roma. Ma essere vittime della crisi (e della rendita che piuttosto che affittare a prezzi sostenibili preferisce bastonare il piccolo artigiano) non ha impedito ai commercianti di fischiare il premier sugli 80 euro, cioè di prendersela con chi ha stipendi che non arrivano ai 1500 euro al mese. E mentre l’assemblea rumoreggiava il capo dei commercianti affossava la sbandierata ripresa «senza slancio, senza intensità, senza mordente».

Questo governo non ci è mai piaciuto. Le sue riforme economiche (ieri sono scesi in piazza i metalmeccanici per il contratto nazionale di lavoro) segnano l’abbandono della difesa dei più deboli consegnati alle logiche del liberismo. Quelle costituzionali seguono la stessa filosofia con l’adeguamento del sistema parlamentare alla logica dell’assetto economico. Tuttavia lo spettacolo della fuga generale dal leader che barcolla è solo l’altra faccia, un po’ indecorosa, della medaglia.

«Un’ulteriore espansione del privato rischia di peggiorare ulteriormente la situazione, non di migliorarla. Occorre invece rafforzare la sanità pubblica, certo rendendola più efficiente ed eliminando sprechi e storture» .

La Repubblica 9 giugno 2016 (c.m.c.)

GLI ITALIANI sono stati considerati a lungo consumatori compulsivi di medicine ed esami medici. Ora il quadro sembra rovesciato. Stretti tra lunghe liste d’attesa e crescente riluttanza dei medici di base a prescrivere esami clinici per timore di essere sanzionati, sempre più italiani rinunciano a farsi curare e a mettere in atto misure di prevenzione.

Un rapporto Istat di settembre 2015, “Le dimensioni della salute in Italia”, segnalava che il nove per cento della popolazione aveva rinunciato nell’anno precedente ad almeno una prestazione sanitaria tra visite specialistiche, accertamenti o interventi chirurgici, pur ritenendo di averne bisogno. Il fenomeno riguardava, ovviamente, i meno abbienti e più al Sud e Isole (in particolare la Sardegna), dove vi è una maggiore concentrazione di povertà e una minore efficienza media del servizio sanitario pubblico.

Il servizio sanitario nazionale, uno dei pochi fiori all’occhiello del sistema di welfare italiano, non riesce più a garantire un fondamentale diritto di cittadinanza: se non alla salute, almeno alle cure quando si è malati. L’indagine Censis-Rbm Assicurazione Salute conferma questi dati. La via d’uscita, tuttavia, non può essere il ricorso alle assicurazioni private, implicitamente suggerito dai curatori di questa indagine e ritenuto una possibile opzione, purché ce lo si possa permettere, anche da oltre la metà degli intervistati.

Si tratta di una opinione che sta ottenendo una diffusa popolarità e che sta alla base anche di progetti, insieme di ricerca e di policy, che vanno sotto il nome di “secondo welfare”. L’idea è che la diffusione delle assicurazioni sanitarie non solo renderebbe accessibile la sanità privata anche a chi, pur con un reddito non basso, non se ne potrebbe permettere i costi di mercato. Alleggerirebbe anche la pressione sulla sanità pubblica, riducendo quindi le liste d’attesa a favore di chi non può permettersi di rivolgersi al privato e neppure di pagare una assicurazione.

Un ragionamento accattivante, che lascia tuttavia nell’ombra due importanti questioni. In primo luogo, le assicurazioni private fanno un’opera importante di selezione sia di ciò che coprono sia dei clienti. Per avere un buon livello di copertura bisogna o pagare premi alti, o appartenere ad aziende o associazioni che hanno convenzioni con aziende sanitare di mercato. La seconda selezione riguarda clienti potenzialmente rischiosi: oltre una certa età non è possibile assicurarsi, oppure si è depennati o retrocessi (con copertura inferiore) dall’assicurazione in essere. Lo stesso avviene se si è avuta una malattia grave e che presenta potenziali rischi per il presente e il futuro.

Chi ha di fatto o potenzialmente più bisogno di cure sanitarie adeguate e tempestive è quindi più probabile non possa assicurarsi, anche se ne avesse i mezzi economici. Chi paga una assicurazione sanitaria integrativa, specie se a copertura (quindi a premio assicurativo) elevato, inoltre, alla lunga può chiedersi perché mai dovrebbe finanziare, tramite le tasse, anche la sanità pubblica che non usa.

Già ora si possono dedurre il premio assicurativo e le spese sanitarie dall’imposta sui redditi, riducendo quindi il gettito fiscale. Ma se le persone abbienti fossero spinte ad assicurarsi in massa, potrebbero chiedere sconti ben più sostanziosi, riducendo quindi la disponibilità per il finanziamento della sanità pubblica, lasciata ai ceti economicamente più modesti e con minore potere di pressione rispetto a qualità e adeguatezza.

Con l’istituto dell’attività intra (ed extra)moenia da parte dei medici ospedalieri molto mercato è già entrato nella sanità pubblica, dove chi può riesce ad ottenere sia la garanzia della qualità — professionale e delle attrezzature — del pubblico e il trattamento (in termini di tempi di attesa e di comfort) del privato. Un’ulteriore espansione del privato via assicurazioni rischia di peggiorare ulteriormente la situazione, non di migliorarla.

Occorre invece rafforzare la sanità pubblica, certo rendendola più efficiente ed eliminando sprechi e storture, ma avendo come fine non il contenimento della spesa, bensì il diritto alla salute dei cittadini, a partire da quelli che hanno meno alternative.

Bisognerebbe anche riconsiderare l’utilità di quella che un tempo si chiamava medicina scolastica, con funzione diagnostica e preventiva specie rispetto a dimensioni della salute che chi è più povero tende a ignorare o a prendere in considerazione troppo tardi: lo stato della vista, della dentatura, della postura. Ovviamente, nel caso, occorrerà anche prevedere la fornitura degli interventi (occhiali, apparecchi per i denti, ginnastica curativa, ecc.) diagnosticati come necessari.

Un' analisi del fenomeno più rilevante delle attuali elezioni comunali «I grillini si affermano in forme dirompenti dove non sono ancora radicati».

La Repubblica, 8 giugno 2016 (c.m.c.)

Il leitmotiv di queste elezioni amministrative è indubbiamente il risultato sorprendente del M5S — primo partito a Roma e robustamente secondo a Torino. Ma anche poco appariscente a Napoli o a Milano, tanto per citare due grandi città che si preparano al ballottaggio e dove la contesa è ancora tra sinistra e destra (pur nella differenza che questi schieramenti presentano).

Sia a Napoli che a Milano le amministrazioni uscenti di sinistra sono ancora percepite dagli elettori come soddisfacenti e non identificate in tutto con l’establishment — il sindaco de Magistris ha rappresentato una sinistra populista e il sindaco Pisapia una sinistra civica.

E nessuna delle due città è terra fertile per il M5S. Il quale cresce bene laddove è di recente radicalizzazione istituzionale e soprattutto laddove le insoddisfazioni per il partito di maggioranza uscente (soprattutto il Pd) sono molto forti. Per completare il quadro occorre aggiungere che il M5S non si è presentato ovunque: tanto la sua visibilità, quindi, quanto la sua forza sono a macchia di leopardo. E tuttavia dove il grillini si sono affermati hanno avuto effetti dirompenti.

Roma è certamente un caso macroscopico e forse non generalizzabile. Ma, con i dovuti distinguo, non è il solo. Il caso di Torino non è meno dirompente ed eloquente: qui probabilmente all’origine del 30 per cento di Chiara Appendino vi è non tanto il giudizio sull’operato dell’amministrazione Fassino (che ha ben governato tutto sommato) ma probabilmente la decisione del Pd di tentare di blindare il proprio successo alleandosi con una formazione moderata e ancora di più lo scandalo delle “giunte fantasma” — Appendino ha espugnato una delle roccaforti storiche del centrosinistra, proprio dove la maggioranza uscente a guida Pd è finita al centro di questo scandalo — anzi questa è l’unica circoscrizione nella quale il M5S ha superato la coalizione di Fassino. Quindi anti- establishment e purezza (i due cavalli di battaglia tradizionali del M5S) hanno vinto a Roma e a Torino.

Questo spiega perché i grillini sono forti e trainanti laddove non hanno ancora fatto esperienze di governo o dove la presenza nelle istituzioni non si è stabilizzata. Il caso di Bologna è da questo punto di vista una controprova interessante.

Nel capoluogo emiliano, dove il M5S è radicalizzato dal 2009, riesce perfino a generare astensione. Secondo l’Istituto Cattaneo, a Bologna l’elettorato grillino sta diventando «più fedele e radicato», prova ne sia che non riesce più a riportare al voto gli astenuti: «Si “nutre” ormai di elettori fedeli e, in alcune città, di transfughi del centrosinistra ». Questo ci suggerisce che il M5S si afferma in forme dirompenti dove è ancora elettoralmente giovane. E soprattutto dove il Pd — il suo vero e unico antagonista — sfigura o è identificato con l’establishment o lascia cadere la connotazione ideologica di sinistra. Di questo vuoto si avvantaggiano i pentastellati pur non essendo un movimento di sinistra.

Il non-partito M5S non ha una linea politica nazionale unita ad un grappolo di principi partigiani — è un movimento gentista che si nutre di temi trasversali che segnalano le disfunzioni della democrazia praticata, ovvero dei partiti tradizionali. Onestà e purezza, lotta contro l’élite o la “casta” sono temi generici e generali che unificano i settori più diversi della popolazione. Per esempio, a favore di Virginia Raggi hanno votato giovani, meno giovani e anziani e poi occupati e disoccupati; ma per Giacchetti hanno votato pochi giovani e pochi disoccupati.

A Roma, rispetto ad un Pd che vince ai Parioli, oggi è il M5S che può farsi vanto di essere il partito popolare o dei ceti popolari, il partito che vince dove vinceva la sinistra storica, nelle periferie e nelle borgate. In queste realtà che sono tradizionalmente sensibili ai temi di denuncia populista, i grillini riescono a mobilitare l’elettorato come i partiti dell’establishment non fanno né si sforzano di fare, preferendo concentrarsi sui ceti medi e medio-alti e sull’elettorato moderato (e non disdegnando l’astensionismo). Il M5S scompagina questa normalità.

In una stupefacente intervista su

Repubblica (27 marzo), il filosofo ha dichiarato che avrebbe votato si alla riforma costituzionale di Matteo Renzi. Il costituzionalista gli risponde per le rime. Il Fatto quotidiano, 29 maggio 2016

Cacciari s’inventa, nell’intervista fattagli da Ezio Mauro (Repubblica, 27 maggio) un’immaginaria “responsabilità repubblicana” per giustificare la sua personale, effettiva sottomissione al ricatto plebiscitario. Cacciari parte da un presupposto falso e falsificabile: l’assenza negli ultimi quaranta anni di riforme. Questo presupposto, magnificato e drammatizzato sia dalla propaganda renziana sia dalla ignoranza della grande maggioranza dei commentatori, è smentito da duri fatti: l’elaborazione di due leggi elettorali, Mattarellum e Porcellum, l’approvazione parlamentare di una buona, se non ottima, legge per l’elezione dei sindaci, l’abolizione di quattro ministeri, l’eliminazione del finanziamento statale dei partiti, la stesura di un nuovo titolo V della Costituzione. Non vale l’obiezione, a doppio taglio, che si tratta di brutte riforme poiché a) nient’affatto tutte sono brutte, b) il Titolo V è stato ratificato da un referendum, c) anche le riforme renzianboschiane sono suscettibili della stessa valutazione e d) la riforma del bicameralismo è pasticciata nella composizione del nuovo Senato e confuse nell’attribuzione delle competenze.

Proseguendo attraverso un’autocritica generazionale e facendo leva sulla sua personale visione apocalittica della storia, del mondo e, quindi, dell’Italietta, Cacciari supera le sue stesse critiche alla riforma “concepita male e scritta peggio” e pronuncia il suo fatale, neppure molto sofferto, “sì”. Sposerà la riforma renziana. Poco gli importa che si tratti di una “riforma modesta e maldestra” e che la legge elettorale, che è un cardine della riforma, sia “da rifare”. Ancora meno sembra preoccuparlo che “la partita si gioca su Renzi” che ha personalizzato il referendum. Pudicamente, il filosofo evita l’espressione più precisa e pregnante, quando un leader chiede il voto sulla sua persona e sulla sua carica, di plebiscito si tratta, come tutta la storia del pensiero politico ha sempre affermato.

No, lui, per responsabilità repubblicana, voterà a favore, evidentemente non della riforma modesta e maldestra, ma di Renzi. Più che di responsabilità, forse, sarebbe il caso di parlare di preoccupazione per le presunte temibilissime conseguenze che Renzi e i renziani agitano: crisi di governo e elezioni anticipate. Brillantemente e prescientemente, Cacciari addirittura anticipa una, troppo spesso trascurata, conseguenza della riforma: il presidente del Consiglio sconfitto impone al Presidente della Repubblica lo scioglimento del Parlamento. Invece, no: il presidente della Repubblica ha, in primo luogo, il potere e il dovere, “repubblicano”?, di esplorare se esiste un’altra maggioranza in grado di fiduciare e fare funzionare un nuovo governo. In secondo luogo, può invitare Renzi a restare il tempo necessario per approvare una legge elettorale migliore dell’Italicum (non è affatto difficile), magari facendo rivivere il, a lui ben noto, Mattarellum.

Insomma, l’Apocalisse non è alle porte a meno che sia Renzi sia Mattarella sia, con l’enorme potere che gli è rimasto e che usa platealmente, Napolitano, dimentichino le loro, al plurale, responsabilità repubblicane. Certo, vorremmo saperne di più sulla concezione e sui contenuti della responsabilità repubblicana formulata da Cacciari. No, non intendo affatto esibirmi in una difesa della Costituzione com’è (e non ho mai fatto parte del clan dei riformatori falliti menzionati da Cacciari). Tuttavia, preso atto che, come tutti hanno il dovere di sapere, la Repubblica siamo noi, che è il significato profondo dell’ultimo comma dell’art. 3 della Costituzione che ci chiede di rimuovere gli ostacoli alla effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita politica, mi chiedo se la nostra responsabilità non debba tradursi in una vigorosa battaglia per riforme non “modeste” e non “maldestre”, concepite bene e scritte meglio (ce ne sono, eccome se ce ne sono), per una legge elettorale decente, per un referendum che non sia né un plebiscito né, meno che mai, il giudizio di Dio.

La responsabilità repubblicana esige che le riforme della Costituzione e del sistema elettorale, il decisivo meccanismo che traduce le preferenze (e le volontà) degli elettori nel potere politico di rappresentanti e governanti, siano poste molto al di sopra della vita di un governo, di qualsiasi governo. La responsabilità repubblicana respinge i ricatti dei governanti e non si traduce mai in sottomissione plebiscitaria.

Definire "sinistra perbene" quelli che si presentano oggi come gli eredi della sinistra del XX secolo sottolinea una verità spesso trascurata: prima dei fatti vengono le idee, e la prima idea che uno ha è come vede (e veste) se stesso.

Il manifesto, 29 maggio 2016

L’implosione della sinistra perbene emerge inconfutabile da recenti accadimenti in paesi dell’Unione Europea a guida socialista. Implosione in senso lato: in Austria, per la crisi politica innescata dall’«emergenza» immigrazione; altrove – da noi e in Francia – per le scelte conseguenti alla mutazione genetica che l’ha trasformatai in una forza organica di restaurazione.

La reazione austriaca all’ondata migratoria replica in forme estreme un fenomeno classico. Le tensioni e i conflitti provocati dalla mancata integrazione si concentrano nelle periferie e in quelli che sino a poco tempo prima erano i quartieri rossi delle grandi città, col risultato di trasformarli nelle roccaforti della destra ultranazionalista. Per mesi a Vienna le squadre neonaziste si sono sentite spalleggiate e hanno moltiplicano le aggressioni. D’altra parte il governo ha rincorso la deriva xenofoba, come si è visto al Brennero e col varo di una legge più restrittiva sul diritto d’asilo. Com’è finita, per il momento, lo sappiamo. Al ballottaggio l’erede di Jörg Haider ha perso, per il rotto della cuffia. Ma il vero fallimento è quello del Partito socialdemocratico che, dopo una decina di anni di governo, lascia un paese spaccato, più che mai restio a fare i conti con il proprio passato nero, e una destra razzista votata da un elettore su due.

In Francia Hollande e il suo governo si giocano l’osso del collo pur di imporre una «riforma» del Codice del lavoro tutta giocata contro i diritti dei lavoratori. Per offrire alle imprese lo scalpo del contratto nazionale e la piena libertà sui licenziamenti hanno evitato il voto dell’Assemblea nazionale e scatenato una reazione sindacale che sta paralizzando il paese. Ora vacillano ma non demordono, nonostante il grosso della popolazione stia con chi sciopera.

Come se la ragion d’essere del socialismo europeo risiedesse precisamente nella precarizzazione radicale del lavoro salariato e nella distruzione delle sue tutele.

In Italia, dopo due anni di escalation reazionaria contro il lavoro e i diritti sociali nel segno delle privatizzazioni e degli interessi delle lobbies finanziarie e imprenditoriali; dopo una legge elettorale anticostituzionale come e più della precedente perché negatrice del principio di uguaglianza e del diritto alla rappresentanza politica – ora il governo a guida «democratica» investe tutto su una «riforma» costituzionale incentrata sulla pienezza dei poteri in capo al premier.

Cioè sulla logica contro la quale fu disegnata la Costituzione antifascista. Anche qui è un governo di centrosinistra a dirigere la normalizzazione, guidato per di più dal segretario di una forza nata dalle ceneri del più grande partito comunista d’Occidente.

Ovunque in Europa dagli anni 90 la «sinistra clintoniana» è la testa d’ariete dello scardinamento delle conquiste democratiche in ambito economico e sul terreno (strettamente intrecciato) della partecipazione e dei diritti di cittadinanza. Ovunque i partiti «socialisti», ispiratori di Maastricht e Lisbona, hanno promosso «riforme» antisociali che difficilmente sarebbero riuscite a esecutivi di destra, necessariamente più cauti nel timore di avvantaggiare la controparte politica. Ovunque hanno cavalcato la deriva postdemocratica, avallato la prepotenza delle oligarchie, legittimato la sovranità del profitto. Oggi non è difficile un bilancio a freddo di un quarto di secolo di storia politica del continente che tenga conto, in primo luogo, della controrivoluzione culturale che ha segnato l’intero processo.

Non si è trattato di un fatto episodico né di una trasformazione epidermica. La sinistra operaia a fine Ottocento nacque dalla consapevolezza del rapporto problematico tra capitalismo e democrazia, dall’esperienza del conflitto ineliminabile tra diritti e profitti. La «sinistra» che si afferma in Europa dopo la caduta del Muro di Berlino si fonda su una opposta ideologia, che offre anche il vantaggio di nobilitare l’affarismo. Muove dall’assunto che non vi è democrazia senza capitalismo. Considera i cardini del capitalismo (il mercato e la concorrenza) addirittura capisaldi costitutivi della democrazia, quindi le privatizzazioni passaggi progressivi. Di qui una nuova qualità delle divisioni a sinistra, che non vertono più su divergenze tattiche (come un tempo tra riformisti e massimalisti), ma su questioni di ordine strategico.

In una stagione triste, avara di speranze, la crisi storica del socialismo europeo è la metafora più limpida di una politica ormai priva di ideali. Da questo punto di vista l’odierna bonaccia italiana è la fotografia di una devastazione perfetta. O, se si preferisce, di un suicidio riuscito. Nel giro di vent’anni la sinistra è stata estirpata dal corpo del paese.

Trasformata in una forza restauratrice (il sedicente «riformismo») o confinata ai margini della scena, grazie all’insipienza dei suoi dirigenti. Ora, col referendum di ottobre, siamo forse a un passaggio-chiave. Può darsi che Renzi perda, che ci si liberi finalmente di lui e della sua gente, il che sarebbe una liberazione, chiunque gli succeda. Ma anche in questa eventualità ci si ritroverebbe ai piedi di una montagna da scalare.

TComune.info, 23 maggio 2016L’era Thatcher comincia a declinare? Il consenso di cui godeva l’ideologia neoliberista negli anni Ottanta e Novanta entrò in crisi a Seattle nel 1999. Negli anni successivi al 2008 la fede nel Mercato è rapidamente crollata: oggi solo i lupi della classe finanziaria esaltano l’autoregolazione perfetta del capitalismo assoluto e solo gli imbecilli ci credono. Dopo il gigantesco intervento con cui i governi di tutto il mondo dopo il 2008 hanno gettato nella disperazione e nella miseria milioni di persone per salvare il sistema bancario, la maggioranza della popolazione sa che l’assolutismo finanziario è una trappola mortale anche se non sa come se ne possa uscire.

Poiché talvolta la disperazione sconvolge la ragione, ecco che forse inizia l’epoca Trump. Cerchiamo di descriverne le linee generali: il cervello sociale è stato sequestrato dall’astrazione tecno-finanziaria, e il corpo della società scollegato dal cervello si dibatte come un gigante idiota che mena colpi devastanti contro se stesso. Per analizzare il viluppo di ignoranza cinismo e irragionevolezza che sta emergendo, siamo costretti a usare una parola che fa orrore. Il concetto di «razza» è destituito di ogni fondamento scientifico, ciononostante nell’inconscio contemporaneo esplode con forza mitologica. Negli Stati Uniti d’America l’elezione di un presidente nero ha messo in moto da tempo nell’inconscio collettivo una reazione che oggi prende forma intorno alla figura di Donald Trump. Nei paesi occidentali sono all’opera le dinamiche dalle quali nel ventesimo secolo scaturì il fascismo, ma troppi aspetti del contesto tecnico, mediatico e produttivo sono mutati rispetto al Novecento perché la parola fascismo possa esprimere a pieno quel che sta accadendo. Può la parola «trumpismo» definire la tendenza che va emergendo a livello globale?

Nomen est omen: la parola «trump» in inglese significa diverse cose: briscola, carta vincente, e come verbo significa sconfiggere, travolgere, e anche ingannare. E per finire significa scoreggia, o peto se preferite. Credo che abbiamo trovato il modo per definire il fascismo che viene. Violenza, ossessione identitaria, razzismo e guerra, come il fascismo del secolo passato, moltiplicato però dalla potenza dei media. Ecco la carta vincente che sta travolgendo le difese della civiltà. Sarà una scoreggia che ci seppellirà?

L’era Trump è segnata da un ritorno della corporeità: una corporeità decerebrata. L’impoverimento della classe operaia bianca e l’impotenza della politica, insieme alla frustrazione del maschio bianco cui la birra ha gonfiato lo stomaco e stordito il cervello, hanno risvegliato il razzismo nascosto nel profondo del corpo idiota della popolazione occidentale. Il declino della razza bianca fu percepito da Arthur de Gobineau (autore dell’Essai sur l’inégalité des races humaines, 1855), come tendenza cui si doveva secondo lui reagire proteggendo la razza dei dominatori dall’assedio delle razze sottoposte al dominio del colonialismo.

Sulle tracce di Gobineau, nel secolo ventesimo il Nazionalsocialismo organizzò la paura aggressiva della razza bianca: l’attacco finanziario scatenato dalla Francia e dall’Inghilterra contro la Germania sconfitta aveva impoverito la classe operaia tedesca. Hitler si rivolse agli operai tedeschi immiseriti e disse loro: non appartenete a una classe sociale sfruttata, ma a una razza superiore che le razze inferiori stanno aggredendo. Gli ebrei sono i più pericolosi perché si sono infiltrati tra di noi e stanno erodendo dall’interno la superiore nostra civiltà, si sono impadroniti delle banche e le usano per rovinarci economicamente, poi apriranno la porta ai comunisti e ai negri. Sounds familiar? È quello che oggi sta ripetendo un fronte unito che va dal russo Putin al polacco Kazinski all’ungherese Orban all’italiano Salvini alla francese Le Penall’austriaco Hofer all’americano Donald Trump, discendente del Ku Klux Klan e truffatore miliardario.

Non sappiamo al momento se questo individuo sarà presidente della più grande potenza militare del pianeta, io tendo a pensare che non lo sarà. La persona che rappresenta la dittatura neoliberista è destinata forse a vincere le elezioni di novembre, ma questo non distruggerà la forza del gigante decerebrato. L’era della reazione bianca è cominciata da quando la classe operaia è stata sconfitta insieme all’internazionalismo e alla ragione umana.

Il globalismo liberista e l’anti-globalismo razzista sono i due attori della scena che si delinea all’orizzonte del nostro tempo. Il globalismo liberista ha generato le forze del trumpismo anti-globale, ma ora questi due attori divorziano in modo violento e tra loro si scatena una guerra. L’antiglobalismo trumpista (o nazismo della razza dominatrice) si nutre e si allea obiettivamente con il suo apparente nemico: il fascismo delle razze dominate, il terrorismo islamista, il nazionalismo castale induista, il narco-machismo messicano…

Esiste un terzo attore, capace di rappresentare l’autonomia della società e la forza progressiva dell’intelligenza? E come può manifestarsi, emergere, organizzarsi? Quale strategia possiamo elaborare per sopravvivere all’incombente guerra civile planetaria? Come possiamo prepararci al dopo?

Il terzo attore si è presentato sulla scena delle elezioni nord-americane. La schiacciante maggioranza dei ventenni – la prima generazione connettiva, coloro che hanno imparato più parole da una macchina che dalla mamma – ha votato per un vecchietto che si autodefinisce socialista e predica ai passeri che si fermano ad ascoltarlo prima di svolazzare.

Perché i ventenni staunitensi fanno questo? È chiaro che Sanders non sarà presidente degli Stati Uniti. Il capitalismo americano può tollerare un fascista scoreggione che mobilita gli operai bianchi sconfitti, ma non un socialista colto e gentile. Questo è chiaro. E allora perché i giovani votano per lui? Io credo che la motivazione di milioni di giovani che votano per Bernie sia prima di tutto etica ed estetica. A loro fanno pena, e anche un po’ ribrezzo, quei loro genitori cinquantenni che hanno vissuto la vita piegati dall’arrivismo, dalla competizione e dal cinismo. Non vogliono essere così. Non vinceranno queste elezioni ma nel prossimo decennio, mentre il mondo si fa sempre più scuro, diverranno i quadri della Silicon Valley globale, saranno i cervelli che muovono il mondo. E nel frattempo imparano l’amicizia tra ingegneri e poeti e si preparano a sabotare, smantellare e riprogrammare la macchina globale. Perché questo è il solo modo per liberare il mondo dalla violenza di Thatcher e di Trump.

Ammesso che fra dieci anni il mondo ci sia ancora.

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