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Prosegue la politica di repressione feroce di Erdogan, presidente della Turchia, testa di lancia della NATO versi il Sud del mondo , membro dell'Unione Europea. e inventoredel Migration compact. Dopo i giornalisti, gli universitari, i magistrati, ecco l'a-fondo contro i parlamentari curdi, rei di essere una consistente minoranza.

La Stampa online, 4 novembre 2016

Il leader del partito filo-curdo Hdp, Selahattin Demirtas, è stato arrestato questa mattina insieme con alcuni parlamentari curdi. La polizia turca ha operato una retata durante la notte. Oltre a Demirtas sono finiti in manette anche Figen Yukseldag, co-segretaria dell’Hdp, il Partito curdo, e altri nove deputati della formazione eletta in Parlamento e che rappresenta il terzo partito nel Paese. Gli 11 arresti sono stati già convalidati dal giudice del tribunale di Diyarbakir.
Extremely worried for arrest of @hdpdemirtas & other @HDPgenelmerkezi MPs. In contact w/ authorities Called EU ambassadors meeting in Ankara— Federica Mogherini (@FedericaMog) 4 novembre 2016

PUNTO DI SVOLTA
L’accusa per loro è di fondazione e associazione a organizzazione terrorista e separatista. Demirtas al momento dell’arresto si trovava a Diyarbakir, la città più importante per i curdi in Turchia. Il suo arresto segna un vero e punto di non ritorno nella possibile composizione della frattura fra minoranza curda e Stato turco e soprattutto lancia ormai il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan alla guida assoluta del Paese.

L’ULTIMO TWEET
Demirtas ha raccontato in diretta su Twitter le fasi dell’arresto
Diyarbakırda evimde zorla gözaltına alınma kararı ile emniyet yetkilileri kapımdalar. Selahattin Demirtaş (@hdpdemirtas) 3 novembre 2016

L’ATTENTATO
Era stato proprio il partito curdo nel giugno 2015 a rappresentare un exploit inaspettato alle elezioni politiche. Un risultato che aveva impedito a Erdogan di raggiungere la maggioranza assoluta e che aveva impensierito non poco il capo dello Stato. I primi contraccolpi in Turchia non si fanno attendere. A Diyarbakir la gente è scesa in piazza da già questa notte e nella mattina nella città a maggioranza curda è esplosa un’autobomba alla quale è seguita una sparatoria. Tra le vittime ci sono civili e poliziotti.

STRETTA SULLA RETE

Il gruppo di monitoraggio Turkey Blocks denuncia intanto che l’accesso ai principali social media è stato bloccato nella notte. Facebook, Twitter e Youtube sono rimasti inaccessibili per alcune ore, si legge sul sito del gruppo. Restrizioni sono state imposte anche ai servizi di messaggistica di WhatsApp e Instagram, per la prima volta a livello nazionale negli ultimi anni.
Preoccupato per arresto stanotte di @hdpdemirtas e altri deputati Hdp in Turchia. Italia chiede rispetto diritti opposizione parlamentare. Paolo Gentiloni (@PaoloGentiloni) 4 novembre 2016

Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2016 (p.d.)

ORE 7 E 40, LA SCOSSA

PIU' FORTE FA TREMARE
IL CENTRO ITALIA

È il sisma più potente dal 1980 in Irpinia. Non ci sono morti ma venti feriti. Dopo quello del 24 agosto tocca ancora le aree tra Lazio e Marche.
La magnitudo scatenata dal terremoto di ieri (6.5) è la più forte dal terremoto dell’Irpinia che nel 1980 provocò 2.570 morti e quasi 9 mila feriti. I bilanci questa volta non sono stati altrettanto disastrosi dopo che la terra ha ripreso a tremare alle 7,40 di ieri mattina. L’epicentro è stato a Norcia (Umbria) e dintorni, mentre le onde sismiche si sono propagate per almeno due minuti. Tanto è bastato a rendere ancora più critica la situazione del centro Italia,già in ginocchio dopo il sisma del 24 agosto che ha raso al suolo Amatrice (magnitudo 6.0) e quello di mercoledì scorso con epicentro al confine umbro-marchigiano, tra i comuni di Visso, Ussita e Castelsantangelo sul Nera (magnitudo 5.4).

Proprio perché si tratta di aree già colpite da precedenti terremoti non ci sono state vittime, mentre 20 sono i feriti, uno in condizioni gravi. I centri storici dei paesi che erano già stati in gran parte sgomberati e dichiarati “zona rossa”, hanno però subito un’altra pesante devastazione: soprattutto a Norcia, dove sono crollate anche due chiese. Quella di San Francesco e la Basilica di San Benedetto che, lesionata già con le scosse di agosto, è finita nel dimenticatoio, senza essere messa in sicurezza, fino a ieri. Il risultato della noncuranza è la perdita del patrimonio artistico di Norcia e pure di "parte del suo passato", per dirla con le parole dello storico d’arte Romano Cordella.

Ancora: ieri è stata rasa al suolo la parte alta della frazione di Castelluccio di Norcia, mentre nella già città fantasma di Amatrice è crollata la torre civica.

Se pure non ci sono vittime, i numeri più preoccupanti riguardano gli sfollati. Sono circa 100 mila, anche se non si tratta di una cifra ufficiale: la Protezione civile e il Governo non hanno ancora dati precisi. Tantomeno una soluzione immediata: “Ribadiamo l’esigenza di aderire allo spostamento che è la soluzione migliore, che non significa non tornare” dice il capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio. E gli fa eco il commissario straordinario per la ricostruzione, Vasco Errani: “Non ha senso dormire in macchina. Nessuno vuole deportare le persone. Vogliamo che abbiano la possibilità di vivere una notte tranquilla. Poi insieme a loro e con loro troveremo le soluzioni”. E così mentre si stanno mettendo in piedi le strutture collettive, per ora si consiglia solo di dormire fuori casa.

Conseguenze del terremoto (nel pomeriggio ci sono state altre scosse, una di magnitudo 4.0 poco dopo le 7 di sera) ci sono state anche a Roma. Lesioni nei palazzi, strade bloccate, servizi metro sospesi, oltre un tratto di Tangenziale interrotta. È stata questa la situazione nella Capitale, dove ci sono stati danni alla basilica di San Paolo fuori le mura con crepe e cornicioni caduti, e quella di Sant’Ivo alla Sapienza, chiusa per le verifiche statiche della cupola del Borromini. Lesionata anche la basilica di San Lorenzo fuori le mura, mentre le visite al Quirinale sono state sospese.

Intanto il governo rassicura: “Noi ricostruiremo tutto – ha detto Matteo Renzi – le case, gli esercizi commerciali” e pure “le chiese”. E mentre ci si domanda come si possa ricostruire la ormai sbriciolata Basilica di San Benedetto da Norcia che risale al 1200, si attendono risposte rapide. Le città colpite dal terremoto ad agosto per ora sono ancora un cumulo di macerie e il timore è di una ricostruzione troppo lenta. Come è stato per l’Irpinia. A quasi 36 anni di distanza dal sisma e 50 miliardi di lire impiegati, ancora non è completata la ricostruzione del patrimonio edilizio: in alcuni comuni diverse persone vivono ancora nei container o nei prefabbricati.

MACERIE E SFOLLATI,

UN PROBLEMA PER 100MILA
di Sandra Amurri
«Anche chi non ha case lesionate ora teme. Sfregiato l’ermo colle di Leopardi.»

A Fermo, dove mi trovo, la notte scorsa era trascorsa scandita da scosse di lieve intensità, sufficienti a togliere il sonno. Il sole del primo mattino sembrava aver messo fine a questo stillicidio, quando, alle 7,41 la casa ha iniziato a ballare con violenza inaudita e sembrava non finire più. Il campanile della Chiesa di San Michele Arcangelo che sovrasta la casa, dondolava così forte da lasciar credere che, da lì a qualche istante, sarebbe venuto giù. L’ennesima giornata di convivenza con il terremoto iniziava così. Giusto il tempo di riempire con il necessario una grande borsa e sono scappata. In auto ho fatto un giro della città che mostrava le sue ferite. La sede del Corriere Adriatico, Palazzo dei Priori in Piazza del Popolo dove lo sguardo è caduto sull’orologio, fermo ancora all’ora legale: ore 8,40, l’ora del terremoto. Moltissimi palazzi del centro storico sono lesionati, altri come la Chiesa di San Michele è stata dichiarata pericolante dalla protezione civile del Comune, così come il Duomo che sovrasta la città. Si chiede il sindaco Paolo Calcinaro: resisteranno ad altre eventuali scosse di questa intensità?

Una telefonata dal giornale mi invia alla volta di Tolentino, vivace cittadina alle spalle di Macerata dove ci sono feriti ma non gravi. Incontriamo persone che piangono, altre che raggiungono le auto con in mano borsoni e buste di plastica. Per arrivare alla piazza passiamo fra i calcinacci con lo sguardo rivolto in alto, sono tantissime le case con cornicioni e tetti pericolanti. Si è appena conclusa la Santa Messa all’aperto, qui, come nelle altre località della provincia. Accanto ad un’auto con le portiere aperte, seduta sulla carrozzina c’è una signora anziana. “Sono Laura Governatori” ci dice anticipando la nostra domanda, la nuora aggiunge: “Ha 90 anni” e subito lei precisa: “Meno 3 mesi e con queste botte speriamo di arrivarci”. Ma nei suoi occhi c’è una inspiegabile luce di gioia “Non stavo sola ieri mattina c’era mio figlio con la moglie e mio nipote sono venuti a stare da me da quando c’è stata la prima scossa”, poi sospira “almeno me li godo”. Ecco svelata la gioia che allenta la paura di Laura che da quando è morto il marito vive da sola in una casa popolare. In frazione San Giuseppe e una famiglia indiana si è salvata grazie al padre che ha trattenuto in casa i due bimbi che si stavano precipitando fuori proprio mentre il tetto stava venendo giù davanti al portone.

Il sindaco di Tolentino, Giuseppe Pezzanesi (centro-destra) consiglia ai 21mila concittadini di lasciare le proprie case. Per dove non si sa. I centri che qui verranno allestiti non saranno certamente in grado di accogliere tutti così come le strutture alberghiere lungo la costa, già ampiamente occupate dagli sfollati dei borghi dell’epicentro. Ed è questo il dramma nel dramma. La terra non smette di tremare, e ogni volta trema sempre più forte. Le case che hanno resistito finora potrebbero cedere ma come si fa ad evacuare un territorio così ampio che dalla dorsale appenninica arriva alla costa e comprende tre province delle Marche: Ascoli Piceno, Macerata e Fermo? Oltre centomila le persone coinvolte, dichiara il Presidente della Regione Ceriscioli. Crolli in quaranta comuni del maceratese. A Visso, Muccia, Sarnano dove risultano gravemente lesionate la chiesa di San Cassiano e l’abbazia di Iobbico. Matelica dove il centro storico è stato evacuato come quello di Ripe San Ginesio.

Penna San Giovanni dove è crollata la Chiesa dei Piloti che aveva resistito intatta a tutte le scosse che si sono succedute dal 24 agosto. Camerino. Fra San Severino e Serrapetrona sono state messe in salvo quattro famiglie di uno stabile, che si è sbriciolato. Gualdo. Monte San Martino e molti altri borghi. Sul monte Porche vicino a Santangelo sul Nera è stata rilevata una profonda spaccatura che lascia scendere a valle enormi massi seguiti da una nube nere di polvere. Chi ha perso la casa è disperato. Chi ce l'ha lesionata ma agibile è dilaniato da una paura paralizzante.

Scosse che sembrano infinite tanto da aver lesionato anche l’ermo colle che ispirò, l'Infinito Giacomo Leopardi.

CHIESE STORICHE

ABBANDONATE DA AGOSTO
Valeria Pacelli intervista Tomaso Montanari

«Dopo le scosse di Amatrice nessuno ha puntellato gli edifici antichi»

Da Norcia ad Amatrice, ma anche Rieti e Roma. Le scosse hanno ferito gravemente il patrimonio artistico non solo nelle zone terremotate, ma anche nella Capitale. Uno dei danni più gravi l’ha subito la Basilica di San Benedetto da Norcia: meta turistica in quei luoghi troppo lontani dalle sedi del governo, è crollato prima il campanile, poi si è sbriciolata la copertura. Quel gioiello, (la prima costruzione risale al 1200, ma ha subito diversi ampliamenti negli anni) aveva resistito al sisma del 24 agosto che ha distrutto Amatrice.

Tomaso Montanari (storico d'arte e professore universitario) perchè a distanza di due mesi, non è stato alcun intervento alla Basilica di S. Benedetto come ad altri monumenti?

È questo il punto. Da agosto, cosa è stato fatto? Le risposte del ministro dei beni culturali, Dario Franceschini, sono vaghe e inadeguate. In molti ci chiediamo ad esempio se San Salvatore a Campi, venuta giù il 26 ottobre, sarebbe crollata se fosse stata puntellata.

Noncuranza o mancanza di fondi?

Dovrebbe spiegarcelo Franceschini. Deve dirci quali sono le priorità, se ha chiesto soldi che non sono stati dati. Questo governo ha deliberatamente smantellato le strutture di tutela. Il terremoto rivela drammaticamente che il Mibact è allo sfascio, e l’ex ministro Sandro Bondi si è dimesso per molto meno.

E nel 2010, fu proprio Franceschini, allora capogruppo Pd alla Camera, che ne chiese le dimissioni per i crolli a Pompei. Ma torniamo ad oggi.

Se dopo il terremoto di agosto non è stato fatto nulla, cosa stanno facendo in queste ore? Molti testimoni scrivono dicendo che ci sono cumuli di affreschi che da mercoledì sono rimasti abbandonati a terra. Questi terremoti portano in luce quel tessuto minore dell’Italia di cui nessuno si occupa. Si stanno investendo milioni di euro solo per i grandi “siti da blockbuster”. Sono stati dati 18 milioni per l’Arena del Colosseo. Io non ho mai sentito parlare di fondi per Norcia. Il governo ha pure creato una mail, governo@bellezza.it, dove segnalare pochi siti minori da recuperare. Non è mai stata pubblicata la lista dei predestinati alla salvezza.
Con le scosse di questi giorni, sono proprio quelle zone con i principali danni.
Si tratta di un patrimonio che va dal tardo gotico al primo rinascimento, al barocco. A Roma ci sono stati danni alla Chiesa di S.Ivo alla Sapienza, ora chiusa per lesioni sulla cupola del Borromini. L’opera, che risale al pieno 600, era in restauro. Vorrei capire se è tutto regolare.

Anche nella basilica di San Paolo sempre a Roma si sono formate crepe e sono caduti cornicioni.

È una delle quattro basiliche papali e anche lì ci sono stati danni.

Ma è possibile mettere in sicurezza monumenti così antichi?

I monumenti delle zone più colpite non sono stati neanche puntellati. Non è detto che sia sempre possibile, ma il punto è che qua non ci hanno nemmeno provato.

«». Conoscono gli italiani. La Repubblica 29 ottobre 2016 (c.m.c.)

La strategia della Commissione europea sulla legge di bilancio, che proprio in queste ore si appresta ad arrivare in Parlamento, appare, di primo acchito, sospesa fra l’ottuso e lo spietato. Le critiche mosse da Bruxelles, a cui ha risposto giovedì il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, riguardano un aumento del deficit pubblico pari allo 0,1 per cento del prodotto interno lordo — più o meno quello che il nostro Paese produce ogni nove ore. Secondo i critici, innescare uno scontro politico con l’Italia per appena 1,6 miliardi vuol dire soffiare inutilmente sul fuoco dell’euroscetticismo. Farlo a ridosso di due terremoti, per i quali il governo è pronto a intervenire finanziariamente, trasformerebbe l’Ue in un mostro senza cuore, pronto a sacrificare gli sfollati su una pira di fogli Excel.

Questa interpretazione, molto diffusa in alcuni circoli politici e intellettuali italiani, è però incompleta: Bruxelles non è contraria a tenere fuori dal computo del deficit le spese legate al terremoto. Vuole solo evitare che queste siano gonfiate a dismisura. Lo 0,1% è soltanto l’ultima di una serie di deviazioni dal percorso di consolidamento fiscale compiute in questi anni. La loro somma — una legge di bilancio dopo l’altra — rischia di rendere l’economia italiana sempre più vulnerabile ai capricci dei mercati non appena sarà scomparso lo scudo della Banca centrale europea che tiene a riparo il nostro debito pubblico.

Il modo migliore per riconoscere questo problema è ripartire dalle prime previsioni economiche prodotte dal governo di Matteo Renzi e contenute nel Documento di economia e finanza del 2014, confrontandole con quelle dell’attuale manovra. Due anni e mezzo fa, l’esecutivo ipotizzava che il rapporto fra debito e Pil nel 2017 sarebbe stato del 125,1%, in discesa di sette punti percentuali e mezzo rispetto al 2013. Il documento inviato pochi giorni fa a Bruxelles stima invece per l’anno prossimo un debito al 132,6% del Pil, a fronte di un dato consolidato per il 2013 di 3,6 punti percentuali inferiore. Se si mettono insieme questi numeri, si nota come durante il governo Renzi il piano di riduzione del debito sia uscito fuori strada per oltre 11 punti percentuali di Pil. Si tratta di una cifra pari a più di cento volte lo sforamento che Bruxelles ci contesta quest’anno, per un totale di circa 180 miliardi di euro.

Non tutto questo scartamento è, ovviamente, imputabile alle scelte del governo. Negli ultimi tre anni, la crescita mondiale è stata ben al di sotto delle aspettative. L’inflazione, che aiuta a rendere i debiti pubblici e privati più sostenibili erodendoli, è rimasta ferma a lungo a livelli intorno allo zero, a causa della discesa del prezzo del greggio e di una ripresa stentata. Allo stesso tempo, però, la spesa per interessi sul debito pubblico si è ridotta notevolmente, grazie al quantitative easing della Bce. Insomma, i fattori esterni aiutano a spiegare solo una piccola parte della deviazione dal percorso di probità fiscale che Renzi diceve di voler intraprendere.

Il détour dal risanamento dipende, invece, soprattutto da scelte che sono state fatte dall’esecutivo. La principale riguarda il cosiddetto “avanzo primario”, ovvero la differenza fra le entrate e le uscite, escludendo la spesa per interessi. All’inizio del suo mandato, Matteo Renzi aveva previsto che il suo governo avrebbe accumulato avanzi primari in quattro anni per un totale di quasi 15 punti percentuali di Pil. Oggi ci si avvia ad una cifra di appena 6 punti percentuali. La differenza è pari a oltre 140 dei circa 180 miliardi di mancato risparmio che abbiamo notato. Se a questi dati sommiamo un percorso di privatizzazioni più deludente rispetto a quanto si era previsto a inizio 2014, lo smarrimento della via del consolidamento fiscale viene spiegato quasi nella sua interezza. La posizione dura della Commissione appare così più comprensibile che crudele.

Il governo ribatterà che la migliore strategia per ridurre il debito è rilanciare la crescita. Se in teoria questo è vero, non è affatto chiaro che le manovre relativamente espansive di questi anni abbiano prodotto un’accelerazione degna di questo nome. La legge di bilancio di quest’anno punta giustamente a rilanciare gli investimenti, ma disperde troppe risorse in misure di dubbia utilità a partire dall’estensione della platea di pensionati che riceveranno la quattordicesima. Lo scatto in avanti, insomma, è ancora rimandato.

Né è chiaro che, in assenza dei vincoli dell’Eurozona, l’Italia si sarebbe potuta permettere una politica di bilancio molto più espansiva. Le regole sul deficit e sul debito sono frutto di un compromesso politico, il prezzo da pagare per poter godere di tassi d’interesse bassi e di una valuta stabile. Inoltre, più allegra appare la spesa pubblica italiana, più difficile diventa per il presidente della Bce, Mario Draghi, difendere la politica monetaria ultra-espansiva che concede così tanto spazio di manovra all’Italia.

Infine, è proprio dalla Bce che potrebbe arrivare la peggiore notizia per il nostro governo. L’inflazione europea sta rialzando la testa, grazie alla stabilizzazione del costo del greggio: se questa tendenza aiuterà a ridurre il debito pubblico, l’accelerazione dei prezzi spingerà in su gli interessi dei titoli di Stato, come sta già accadendo in questi giorni, poiché gli investitori vorranno essere compensati. Il quantitative easing, che proseguirà finché i prezzi non accelereranno a ritmi compatibili con l’obbiettivo della Bce, potrebbe avere vita più breve di quanto auspichiamo.

Lo scontro su uno 0,1% è surreale ma porta echi di verità lontane. Dimenticarsi del problema del debito pubblico non basta per farlo scomparire.

il manifesto, 22 ottobre 2016, con postilla

È probabile che quando il Nobel verrà assegnato a chi più ha attivamente usato la paura per far avanzare le sue manovre, il premio andrà al premier israeliano Netanyahu. E se dovesse essere assegnato a chi parla senza sapere di cosa parla, molti israeliani e non pochi italiani si disputeranno il titolo. Lo scandalo Unesco, la decisione tanto criticata su Gerusalemme, è un caso molto strano nel quale la maggioranza degli attori crea ad arte una raccapricciante e tragica gran cortina di fumo, che permette di non parlare delle questioni vere, del costo della guerra e del sangue da versare in una crisi che sta solo precipitando. Netanyahu e la leadership israeliana tutta, con quasi nessuna eccezione, hanno elevato un coro contro la decisione dell’Unesco che negava – secondo loro – ogni vincolo ebreo sui luoghi sacri nella Città vecchia di Gerusalemme. Una negazione che sarebbe stata fatta per pura ignoranza, imbecillità o magari per antisemitismo.

Il problema è che non è questo il contenuto della risoluzione dell’Unesco. Piaccia o no la decisione mette un’altra volta sul tavolo delle discussioni parte del problema, centrato nella Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani, costruito nell’anno 705.

Per gli archeologi, nello stesso luogo sarebbe stato edificato il Secondo Tempio, sacro agli ebrei e distrutto durante la rivolta contro i romani nell’anno 70.

Dal 1967, l’allora ministro della difesa Dayan e una gran parte dell’élite dominante – anche sotto governi di destra – evitò di convertire la vicenda in una questione di sostanza per i credenti, così che importanti rabbini proibirono la visita al Monte su cui si troverebbe il Tempio, oggi luogo sacro per i musulmani.

I rabbini intesero bene i pericoli di stimolare i circoli fondamentalisti che oggi, sul Tempio, animano le campagne dell’estrema destra.

Ora i politici israeliani che reagiscono infuriati vogliono accusare l’Unesco di rivelarsi come un’organizzazione quasi antisemita nel negare che gli ebrei abbiano alcun vincolo con i luoghi sacri. I giornali, in generale, giocano un ruolo assai penoso quando riflettono solo la posizione di Netanyahu e dei suoi compari. Com’è possibile, infatti, una decisione che dica o insinui che gli ebrei non abbiano un vincolo storico con questa terra o con Gerusalemme e i suoi luoghi santi? Una tale decisione sarebbe molto più deplorevole e andrebbe a vantaggio dei demagoghi e razzisti di tutti i colori. Il problema è un po’ più chiaro quando si legge la risoluzione dell’Unesco che afferma, tra le altre cose, l’importanza della città vecchia di Gerusalemme «per le tre religioni monoteiste» e deplora profondamente il rifiuto di Israele di applicare le decisioni precedenti dell’Unesco riguardo a Gerusalemme est.

La decisione critica vari passi adottati da Israele e invita anche a ritornare all’accordo di status quo che avevano firmato i governi di Israele e Giordania nel passato. Documento che permetteva le visite di ebrei e turisti in generale è considerato positivo ancora oggi dai circoli diplomatici israeliani. Anche uno dei partecipanti alle discussioni di allora ha invitato, su Haaretz la settimana scorsa, a rifarsi a questo documento.

Già da un anno i fatti di sangue in Israele e specialmente a Gerusalemme si sono aggravati nel segno della «Terza Intifada». La ragione è semplice: la realtà musulmana ha visto nei passi israeliani adottati nell’ultimo anno e nelle provocazioni senza fine della destra fondamentalista, una minaccia reale alla Moschea di Al Aqsa. Forse ad occhi israeliani o europei questo non è importante, ma il moltiplicarsi di passi che accelerano la presenza di circoli israeliani «pro Tempio» che pure violano la proibizione (stabilita negli accordi precedenti) di pregare nella spianata di Aqsa, sicuramente alimenta ogni posssibile teoria, certa o meno, che il pericolo per l’integrità della Moschea sia imminente.

Il governo israeliano si accontenta di dichiarazioni occasionali in cui dice che non desidera cambiare lo status quo perché teme che questo convertirebbe il conflitto in una guerra infernale con tutto il mondo musulmano. Però allo stesso tempo non frena le aggressioni e le provocazioni dei circoli fondamentalisti. E questi vengono accontentati con decisioni che, al contrario, limitano l’arrivo di credenti musulmani sul luogo.

Sarebbe conveniente che l’Europa e gli Usa (se non fossero presi da calcoli elettorali), si svegliassero: Netanyahu e i suoi compari ci stanno portando a un conflitto religioso. Un conflitto politico si può risolvere, uno religioso no.

Il problema oggi non è l’Unesco e le decisioni europee ma l’apatia internazionale di fronte all’aggravarsi dell’occupazione; il consolidarsi di nuovi insediamenti che sono un ostacolo alla pace.

Quattro milioni di esseri umani sprovvisti dei più elementari diritti non sono ascoltati dai politici irresponsabili che non si preoccupano neanche di leggere le dichiarazioni dell’Unesco e ancor meno capiscono che la lotta per una pace vera è urgente e necessaria.

postilla
L'Unesco rimprovera il governo israeliano di non consentire gli interventi amministrativi, gestionali manutentori e religiosi nella Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani, costruito nell’anno 705. La pretesa di Netanyahu si fonda sul pretesto che sul medesimo sito esisteva, secoli prima,un tempio, sacro agli ebrei , distrutto durante la rivolta contro i romani nell’anno 70. Il lettore che voglia essere un po' più serio di Matteo Renzi legga il testo del documento dell'Unesco, disponibile qui.

«I negoziati sul Ceta sono cominciati nel 2009 e si sono conclusi nell’agosto del 2014. Sono stati condotti quasi in segreto, se si eccettuano quattro incontri con i rappresentanti di alcune aziende a Bruxelles».

Internazionale online, 18 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il 17 ottobre il parlamento della Vallonia ha votato contro l’Accordo economico e commerciale globale (Ceta), il trattato di libero scambio tra l’Unione europea e il Canada. Il Ceta ha sollevato diverse polemiche e viene contestato da molti gruppi ambientalisti, sindacalisti e partiti di sinistra europei.

La posizione del piccolo parlamento belga rischia di complicare l’iter del trattato, ma la Commissione europea ha intenzione di firmarlo. I ministri del commercio dell’Unione europea sono riuniti a Lussemburgo per trovare una soluzione. Ma come si è arrivati al Ceta e perché viene contestato? Ecco un riassunto in otto punti.

La firma del Ceta è prevista per il 27 ottobre 2016, in occasione del vertice tra Bruxelles e i vertici del paese nordamericano. Per l’approvazione definitiva serve la ratifica dei governi e del parlamento europeo. Tutto quello che sappiamo sul trattato è contenuto nel documento pubblicato dall’Unione europea dopo la firma preliminare.

Si tratta di un testo lungo e complesso, di circa 1.600 pagine.
I negoziati sul Ceta sono cominciati nel 2009 e si sono conclusi nell’agosto del 2014. Sono stati condotti quasi in segreto, se si eccettuano quattro incontri con i rappresentanti di alcune aziende a Bruxelles.

L’obiettivo del Ceta, secondo chi l’ha scritto, è eliminare il 99 per cento dei dazi doganali e degli altri ostacoli per le aziende, in modo da far aumentare le esportazioni, ma anche rendere più facile l’accesso agli appalti pubblici da parte delle aziende europee in Canada e viceversa.

Il Ceta, sostengono i suoi promotori, rende più aperto il mercato dei servizi, offre condizioni più vantaggiose agli investitori e previene la circolazione di copie illecite di innovazioni e prodotti tradizionali dell’Unione europea come il parmigiano reggiano, il Cognac, il formaggio Roquefort o le olive toscane o il salame ungherese.

Gli oppositori del Ceta contestano diversi punti del trattato. Secondo loro, l’eliminazione degli “ostacoli” alla produttività delle aziende porterà in realtà a una diminuzione della sicurezza alimentare, dei diritti dei lavoratori e delle tutele ambientali.

Un esempio, secondo il Guardian, è quello delle cosiddette tar sands, o sabbie bituminose. Si tratta di sabbie impregnate di petrolio misto ad acqua e argilla, che si trovano in superficie e il cui processo di estrazione causa grossi danni all’ambiente. La maggior parte della tar sands viene estratta nell’Alberta, in Canada, e , con l’approvazione del Ceta, il loro uso potrebbe diventare frequente anche in Europa.

Al centro delle critiche c’è anche la riforma del sistema degli arbitrati: con il Ceta saranno creati dei nuovi tribunali per la risoluzione delle controversie tra aziende e stati. Secondo gli oppositori, il trattato potrà essere impugnato dalle multinazionali per fare causa a uno stato per tutelare i loro profitti.

La capacità dei governi di controllare le banche e i mercati finanziari inoltre rischia di essere ulteriormente compromessa. Limitare la crescita delle banche che sono diventate “troppo grandi per fallire” potrebbe costringere i governi a doversi difendere in tribunale.

Negli ultimi mesi in diversi paesi europei ci sono state manifestazioni contro il trattato. Il 17 settembre in Germania duecentomila persone hanno protestato contro il Ceta e il Tttip (il trattato di libero scambio tra Ue e Stati Uniti che al momento è più in alto mare). Quattro giorni dopo c’è stato un altro corteo a Bruxelles. Il 15 ottobre migliaia di persone sono scese di nuovo in piazza a Parigi, Varsavia e Madrid.

». il manifesto, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)

Davvero è sempre tutto grasso che cola? Prendiamo in esame la città dove tutto sembra risplendere, il laboratorio dell’innovazione che dovrebbe prendere per mano l’Italia – come dice il presidente del Consiglio. Qui, a Milano, tutti gli indicatori promettono benessere e una certa spensieratezza. I turisti accorrono (7,7 milioni nel 2016, 14esima città del mondo più visitata, un paio di posizioni sopra Roma), la popolazione cresce (172 mila abitanti in più negli ultimi dieci anni), i giovani laureati trovano lavoro e il reddito pro capite continua ad aumentare anche in tempo di crisi (negli altri capoluoghi lombardi è accaduto il contrario). Bene.

Ma non è tutto. Ci sono altri indicatori che raccontano la città, solo che vengono sbandierati con meno insistenza: a Milano, per esempio, 13 mila minorenni non hanno da mangiare e ricevono il cibo da strutture assistenziali. Il dato è stato fornito ieri dal Banco Alimentare che ha dipinto un quadro a dir poco desolante, per l’Italia intera. Secondo l’associazione, gli indigenti lombardi sono 670 mila (100 mila in più rispetto all’anno precedente).

Fra questi, circa 60 mila non hanno ancora compiuto 18 anni. A livello nazionale, i minori che patiscono la fame sono un milione e 131 mila. Dal 2008 ad oggi l’incidenza della povertà assoluta sulle famiglie con più figli a carico è aumentata del 250%: “La loro crescente vulnerabilità è legata alla disoccupazione dei genitori”. In tutta Italia (dati Istat) si contano quasi 4 milioni e 600 mila poveri. In totale, i pasti inseriti nei pacchi viveri sono stati 29 milioni e 5 milioni quelli cucinati dalle associazioni: 93.400 pasti distribuiti ogni giorno (lo spreco di cibo in Italia viene quantificato in 5,1 milioni di tonnellate all’anno).

Tocca all’assessore alle politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, approcciarsi in qualche modo con l’altra Milano che non riesce a raccogliere nemmeno le briciole. “Stiamo per partire con un’iniziativa di sostegno per le famiglie impoverite dalla crisi, con buoni spesa che mettiamo a disposizione delle famiglie più bisognose che possono essere spesi presso alcuni negozi accreditati, perché il rischio è che la povertà si abbatta tra i più fragili, cioè i figli piccoli delle famiglie povere”. Per gli ultimi due mesi dell’anno Palazzo Marino mette a disposizione 750 mila euro. Nel 2017 l’intervento di sostegno dovrebbe essere reiterato.

«i». Il Fatto Quotidiano online\F2 Magazine/ Attualità,12 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il male di vivere mai nascosto, una malinconia spessa e nebbiosa come le strade d’inverno della sua Monterosso, «poesia che molto all’ingrosso si può dire metafisica», l’odore dei limoni. Eugenio Montale lo studi a scuola e poi quasi te ne dimentichi, conservando il vago ricordo di quella che a tredici anni t’era sembrata una cupezza troppo incombente.

Te ne dimentichi, come sembra essersene dimenticata la sua Genova: «Il centoventesimo compleanno di Eugenio Montale, nato a Genova il 12 ottobre del 1896 – scrive Donatella Alfonso su Repubblica – passa praticamente sotto silenzio. In corso Dogali, sul grande palazzo in curva dove il poeta era nato, una targa in marmo sbiadisce tra sole e pioggia».

Autodidatta, Montale pubblica la sua prima raccolta di liriche nel 1925, Ossi di seppia. Alla fine della Seconda Guerra mondiale si iscrive al Partito d’Azione e inizia un’intensa attività giornalistica per il Corriere della Sera. Senatore a vita nel 1967, nel 1975 arriva il Nobel per la Letteratura. Nel suo 120esimo compleanno, alcune poesie e aneddoti, per provare a colorare quei ricordi adolescenti fatti di banchi troppo piccoli e cattedre incombenti.

Ho sceso dandoti il braccio (Composta nel 1967 è dedicata alla moglie Drusilla Tanzi. E’ la poesia n.5 di Xenia II)

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Prima del viaggio (Satura 1962 – 1970)

Prima del viaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le prenotazioni
e le prenotazioni (di camere con bagno
o doccia, a un letto o due o addirittura un flat);
si consultano
le guide Hachette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi;
prima del viaggio s’informa
qualche amico o parente, si controllano
valige e passaporti, si completail corredo,
si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dà un’occhiata al testamento, pura
scaramanzia perché i disastri aerei
in percentuale sono nulla; prima
del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che
il saggio non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto è O.K. e tutto
è per il meglio e inutile.
E ora, che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
ch’è una stoltezza dirselo.

Non c'è necessariamente contraddizione tra oligarchia e demagogia. Quando l'oligarchia è incardinata su un Capo come Renzi, dotato di capacità demagogiche e di strumenti che gli consentono di raggiungere il demos, divenuto "liquido" la sintesi tra i due termini avviene. L'avevamo già visto con Mussolini. La Repubblica, 6 ottobre 2016

DEMAGOGIA, non oligarchia è la forma corrotta della democrazia che rischiamo in questi tempi. Il timore della formazione di una nuova oligarchia paventata da Gustavo Zagrebelsky nel suo dibattito con Matteo Renzi, e commentata con accenti diversi da Eugenio Scalfari e Nadia Urbinati, non è altro che la rappresentazione di una realtà. Ma non sul versante politico. Piccoli gruppi portatori di interessi particolari dominano l’economia, non la politica. In politica, semmai scontiamo un deficit di rappresentatività e rispondenza delle élite, non l’arroccarsi al potere di un ristretta componente in grado di determinare i destini di una nazione. Pensiamo alla campagna “napoleonica” con cui Matteo Renzi ha sbaragliato avversari consolidati, sulla scena da decenni. Grazie alla sua Austerlitz, una nuova generazione è arrivata nella stanza dei bottoni. Lo stesso vale, piacciano o meno i loro messaggi e il loro stile, per i 5 Stelle che hanno immesso in Parlamento un’ampia schiera di matricole. La politica italiana è quindi in una fase di tumultuoso rinnovamento che sta mescolando le carte in maniera frenetica. Chi poteva pensare che nell’arco di due anni un “giovanotto” (detto in termini puramente anagrafici) sconosciuto a tutti come Luigi di Maio fosse un potenziale aspirante al ruolo di presidente del consiglio? Tutto bene allora? Ovviamente no, per una ragione molto semplice: questi due esempi di rinnovamento sono avvenuti tumultuosamente, fuori da binari definiti, in una sorta di processo rivoluzionario, scuotendo dalle fondamenta il ruolo e il prestigio del partito politico in quanto tale. Guardiamo al caso britannico per capire la differenza. Passata la Brexit, il partito conservatore ha attivato il ricambio della leadership al suo interno, in maniera rapida ed efficiente, seguendo regole ben rodate. Questo perché i partiti in Gran Bretagna hanno ancora l’autorevolezza per guidare la politica. Non devono “appellarsi al popolo” per governare. Hanno ricevuto un mandato e lo esercitano. E se falliscono, come nel caso di David Cameron, rassegnano le dismissioni lasciando ad altri il compito di proseguire.

In Italia, la tensione che si respira con l’avvicinarsi del referendum, di cui hanno parlato, con accenti diversi, Guido Crainz e Roberto Esposito, riflette lo smarrimento per la perdita di ancoraggi collettivi, rappresentati un tempo dai partiti. Il loro sgretolamento identitario ed organizzativo — o la loro reinvenzione in forme ancora indefinite come nel caso dei grillini — lascia un vuoto nella società. Privi di un riferimento consolidato i cittadini fluttuano in un ambiente politico liquido e sono per questo più sensibili di un tempo a richiami “essenziali”, anche brutali nella loro schematicità: pensiamo allo slogan leghista “padroni in casa nostra”, a quanto di primordiale — ma di efficace — esso faccia riferimento. Pura, devastante demagogia.

La radicalità del confronto sul referendum, con tutto il disagio che Esposito segnalava, viene dal deterioramento di attori collettivi capaci di metabolizzare e delimitare i conflitti. L’onda anti-partitica viene da lontano nel nostro Paese e continua a montare. Certo, i partiti hanno mille difetti, e sono ai livelli minimi nella considerazione dei cittadini, in Italia come altrove. Ma sono l’unica stanza di compensazione possibile per gestire le diverse posizioni. Senza partiti radicati nella società, impegnati — ancora e di nuovo — a trasmettere le esigenze e le domande dei cittadini, si apre un varco all’irruzione dei demagoghi. Donald Trump non sarebbe mai arrivato alla nomination se il partito repubblicano non fosse stato squassato dal Tea party. L’antidoto ad un imbarbarimento della politica sta in partiti forti ed aperti alla società. Purtroppo è un auspicio più che una realtà.

«Arrestata a fine luglio, sulla base delle sue espressioni artistiche in una provincia a larga maggioranza kurda nonché dell’attività di direttrice di un’agenzia di stampa femminista, Jinha, Zehra Doğan non ha alcuna intenzione di arrendersi alla repressione cieca che divora la Turchia di Erdogan».

Comune.info, 2 ottobre 2016 (c.m.c.)

Alla fine di luglio Helen Stoilas informava sull’arresto di Zehra Doğan, in un articolo su The Art Newspaper, scrivendo: «L’artista e giornalista turca Zehra Doğan è tra gli arrestati questa settimana nel giro di vite del presidente Tayyip Erdogan dopo il colpo di stato militare fallito. Mercoledì 27 luglio, oltre a chiudere tre agenzie di stampa, 16 canali televisivi, 45 giornali, 15 riviste e 29 case editrici, secondo i dati ufficiali del governo, 47 giornalisti sono stati arrestati dalla polizia.

Negli ultimi cinque mesi, Doğan, che è il direttore dell’agenzia di stampa femminista Jinha, ha fatto reportage e ha dipinto dal quartiere Nusaybin della provincia di Mardin, una regione in gran parte kurda in cui è stato recentemente imposto un rigido coprifuoco. Secondo i suoi amici su Facebook, è stata arrestata dalla polizia mentre stava seduta in un caffè.

Giovedi, 21 luglio, Doğan è stata portata in tribunale, sulla base di una testimonianza anonima, che l’ha descritta e identificata come “una signora minuta con un anello al naso” – Doğan è stata accusata di essere un “membro di un’organizzazione illegale”, secondo l’agenzia Jinha.

La sua arte e la scrittura sono state usate contro di lei dalla procura come prova della sua appartenenza al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), un gruppo di sinistra militante che si batte per i diritti dei curdi in Turchia, che il governo ha etichettato come “organizzazione terroristica”. La corte ha stabilito che deve essere tenuta in custodia in attesa del processo, che potrebbe richiedere mesi.

«L’arte e dipinti non possono mai essere utilizzati in tal modo,» l’avvocato di Doğan, Asli Pasinli, ha detto ai media dopo il suo arresto. «Questo è un attacco all’arte e all’espressione artistica.»

(tradotto da http://theartnewspaper.com/news/turkish-painter-and-journalist-zehra-do-an-arrested/)

Ecco alcune parole di Zehra Doğan, per chi non la conosce:

«Ho sempre cercato di esistere attraverso i miei dipinti, le mie notizie, e la mia lotta come donna. Ora, anche se sono intrappolata tra le quattro mura, io continuo a pensare che ho fatto assolutamente il mio dovere in pieno. In questo paese, buio come la notte, dove tutti i nostri diritti sono stati incrociati con sangue rosso, sapevo che stavo per essere imprigionata.Voglio ripetere l’insegnamento di Picasso: pensi davvero che un pittore è semplicemente una persona che usa il suo pennello per dipingere insetti e fiori? Nessun artista volta le spalle alla società; un pittore deve usare il suo pennello come arma contro gli oppressori. Nemmeno i soldati nazisti hanno cercato Picasso a causa dei suoi dipinti, e tuttavia io sono a giudizio a causa dei miei disegni. Terrò disegno. Quando una donna rilascia fiumi di colori, è possibile lasciare la prigione. Ma sono solo pennellate …. Non dimenticate mai, è la mia mano che tiene il pennello!»

Sembrava che di Zehra Doğan si fossero perse le tracce, invece qualche giorno fa è apparso su http://bianet.org un articolo che rassicura, Zehra Doğan, nella prigione di Mardin, non si arrende e continua a fare la giornalista.

Le donne della prigione di Mardin hanno creato un giornale “Özgür Gündem Zindan” (Prigione). L’originale quotidiano Özgür Gündem era stato chiuso il 16 agosto con un’irruzione della polizia nell’edificio dove era ospitato il giornale e la decisione di “chiusura temporanea” della corte è stato riportata dal giornale filogovernativo Yeni Şafak il giorno prima.

Zehra Doğan, uno dei redattori dell’agenzia e altre donne della prigione di Mardin, hanno creato a mano il giornale di 8 pagine il 12 settembre. Le immagini che accompagnano gli articoli disegnate a mano dalle donne stesse.

Il titolo del giornale fatto a mano è stato “I prigionieri politici resistono nelle carceri per Ocalan,” e il sottotitolo recita “vivere a Nusaybin (città curda attaccata dall’esercito turco) è un tradimento secondo lo stato turco!“.

Il giornale di 8 pagine comprende sezioni sulle donne, la politica, la cultura e le arti, l’ecologia e l’attualità, e anche una pagina in lingua curda.

Özgür Gündem Zindan ha pubblicato anche alcune interviste a donne detenute, ha affrontato argomenti come l’oppressione contro le donne, le detenzioni e le violazioni dei diritti nella prigione, così come lezioni di disegno sulla pagina di cultura e delle arti ed i benefici di prezzemolo e aglio nella pagina sull’ecologia (Ct / DG).

(tradotto da http://bianet.org/english/women/178859-women-prisoners-create-handmade-newspaper-ozgur-gundem-zindan)

Questo indecente governo italiano, sostenuto da un indecente Parlamento, continua a incoraggiare gli evasori fiscali( e a rendere sempre più poveri gli italiani). «Stabilità 2016. Si può tornare a commerciare liberamente con le società offshore »

Il Fatto Quotidiano online , 1° ottobre 2016 (p.s.)

È ufficiale: per il fisco italiano i paradisi fiscali non esistono più, si può commerciare liberamente con qualsiasi società offshore e perfino scaricarsi le spese e i pagamenti effettuati dalla dichiarazione dei redditi senza giustificazioni. La rivoluzione copernicana che ha drasticamente cambiato verso ai vecchi e superati metodi per mettere almeno un freno all’evasione, alle frodi e alle fughe di capitali, è contenuta in un comma della legge di Stabilità 2016. Sfuggito all’occhio dei più, una circolare dell’Agenzia delle Entrate gli ha dato in questi giorni piena attuazione.

Dal periodo d’imposta 2016 non sarà più necessario indicare separatamente in dichiarazione i costi considerati fino all’anno scorso in “black list”. Di più: saranno deducibili dall’imponibile secondo le regole ordinarie, come tutti gli altri. Di colpo tutto diventa più vecchio e privo di valore, a cominciare proprio dalla lista dei paesi a fiscalità “privilegiata” contenuta in un decreto ministeriale del 23 gennaio 2002 e costantemente aggiornata fino all’anno scorso in Gazzetta ufficiale. Serviva ad applicare una normativa che dal primo gennaio non è più in vigore.

Si dice che l’idea di far sparire la “black list” dall’ordinamento fiscale sia venuta proprio al premier Mattero Renzi dopo l’imbarazzo provato durante una visita in Oman, la Svizzera d’Arabia. Il Paese arabo è inserito nell’elenco degli Stati considerati dall’Italia paradisi fiscali e pare che nel sultanato, uno dei più grandi paesi investitori del mondo, l’abbiano presa come un affronto personale. Rottamarne solo uno? E gli amici degli Emirati? Allora via tutti.

E così nel cervellone dell’anagrafe tributaria, in grado di incrociare milioni di dichiarazioni di redditi d’impresa, non si illuminerà più un led quando nel campo della sede di una società comparirà “Bahamas” o “Panama” . La residenza nelle Isole Vergini britanniche o nelle Tremiti farà scattare le medesime, remote, probabilità di una procedura di controllo e le operazioni finanziarie per scambiare parcelle e fatture con una società che risiede nelle Cayman finiranno anonimamente nel calderone del bilancio, come il pagamento di un qualsiasi fornitore brianzolo.

Il ministero dell’Economia osserva che l’obiettivo dei provvedimenti è favorire l’attività economica e commerciale transfrontaliera delle nostre imprese. Fino al 2014 tutte le spese erano considerate indeducibili, a meno che il contribuente non dimostrasse che le imprese offshore fornitrici svolgevano una prevalente attività commerciale e che le operazioni effettuate rispondevano a un effettivo interesse economico.

Nell’intenzione del legislatore si sarebbero salvaguardate le imprese che commerciano effettivamente tra loro su grandi piazze di scambio a fiscalità agevolata come Hong Kong, Singapore o gli Emirati arabi. Mentre avrebbe reso difficile – o meno facile – le triangolazioni con società e soggetti “virtuali” domiciliati su uno scoglio oceanico. I vincoli di legge sono stati attenuati già nel 2015, fino a scomparire nella circolare 39/E/2016 dell’Agenzia delle Entrate.

La battuta d’arresto della normativa italiana sul contrasto ai paradisi fiscali arriva proprio quando esplode alle Bahamas il nuovo filone dell’inchiesta giornalistica internazionale che ha già portato allo scoperto i nomi nascosti dietro centinaia di conti correnti e società offshore, gestiti dallo studio Mossack Fonseca di Panama e pubblicati in Italia dal settimanale L’Espresso. Banchieri, industriali, nobili e finanzieri e tanti professionisti, avvocati, commercialisti: sono 417 i file riconducibili agli italiani scoperti nel database di Bahamas Leaks dall’International Consortium of Investigative Journalists, Icij).

Questa seconda, gigantesca fuga di notizie dopo i “Panama papers” riguarda i dossier di 175 mila società archiviate nel Registrar General Department, di Nassau. Il lavoro dei giornalisti ha portato alla luce solo una piccola parte dei capitali e delle imposte sottratte al fisco nelle decine di paradisi fiscali che, nonostante per l’Italia siano precipitati nel limbo, sono utilizzati ancora a pieno ritmo per far sparire o riciclare con facilità patrimoni dalla provenienza inconfessabile. Basta davvero un clic.

Il governo fascista dell'Ungheria ha perso la sua battaglia contro i rifugiati. Il referendum contro quel minimo di tolleranza espresso dall'Unione europea non ha raggiunto il quorum. Ma la lotta perché vincano ragione e carità, insieme a solidarietà e lungimiranza, prosegue. La Repubblica online, 2 ottobre 2016, h20,19

IL REFERENDUM contro la ripartizione Ue dei profughi in Ungheria non ha raggiunto il quorum. Il presidente dell'Ufficio elettorale nazionale ungherese (Nvi), Andras Patyi, ha detto in tv che non è stato raggiunta l'affluenza del 50%. Parlando al telegiornale della sera, Patyi però non ha fornito cifre riservandosi di annunciarle più tardi.

L'istituto demoscopico vicino al governo, Nezopot, ha pubblicato un exit-poll secondo il quale - con 3,2 milioni di preferenze - il 'No' ai migranti ha ottenuto il 95% dei voti validi, mentre i sì sarebbero stati appena 170 mila (5%).
Secondo il deputato Gergely Gulyas, membro del partito Fidesz del premier Viktor Orban, promotore della consultazione per respingere le quote, il dato è del 45%.
Le operazioni di voto sono iniziate alle 6 ora italiana per concludersi alle 19. I primi risultati dovrebbero essere resi noti dopo le 20.
Il premier Viktor Orbàn esce sconfitto da questa consultazione elettorale. Ha presentato il referendum come passaggio cruciale per la difesa dell'identità cristiana dell'Europa minacciata dalle migrazioni di "masse di persone sfortutante invitate" dall'Ue e sperava di ottenere un avallo plebiscitario alla sua politica concretizzatasi nella barriera di filo spinato eretta alla frontiera con la Serbia. Un muro, voluto dal premier, per impedire che l'Ungheria continuasse a essere un corridoio verso la Germania e la Scandinavia.

Il Fatto Quotidiano, 1° ottobre 2016

Lorenza Carlassare, professoressa emerita di Diritto costituzionale all’Università di Padova, è stata la prima donna in Italia ad avere questa cattedra. A guardarla ha la grazia di un personaggio di un romanzo di Agatha Christie, però le cose non le manda a dire, soprattutto quando in ballo c’è la Costituzione.

La cosa che le dà più fastidio di questa retorica?
Dire che con l’approvazione di questa riforma avremo benefici economici. È una cosa semplicemente ridicola.

Lo sostengono anche molti potentati economici.
Avranno paura che cada il governo. Dimenticando che era stato Renzi a legare la sua permanenza a Palazzo Chigi all’esito del referendum.

È anomalo che un governo si intesti una riforma costituzionale?
Assolutamente, il governo non dovrebbe avere niente a che fare con la modifica della Costituzione. Anzi, dovrebbe restarne fuori, essere imparziale. Intestarsela è contro lo spirito della Costituzione.

Perché questa riforma non va bene?
Perché non è vero che porta a una semplificazione del procedimento legislativo né che viene superato il bicameralismo paritario. Così come è previsto dalla riforma avremo un Senato che non è più eletto dai cittadini ma che manterrà molti poteri, anche in campo legislativo: basti dire che parteciperà paritariamente con la Camera a un’eventuale riforma costituzionale.

Qualcuno potrebbe dire, però, che nell’approvazione della stragrande maggioranza delle leggi il nuovo Senato avrà pochi poteri.
Non è vero, se prende il lunghissimo e noiosissimo nuovo articolo 70 c’è scritto che ogni legge approvata dalla Camera deve passare dal Senato, che può proporre modifiche. A questo punto ci sono un’infinità di ipotesi, divise per materia e per modalità, che possono comportare conflitti tra le due Camere. È lo stesso articolo che prevede questa possibilità di conflitti. E aggiunge che saranno risolti dai presidenti delle due Camere in accordo tra loro.

E se non c’è l’accordo tra i due?
Non si sa cosa accadrà. Ma si rende conto che razza di complicazione?

E cosa dice sull’elezione del presidente della Repubblica?
Qui le motivazioni sono addirittura basate sul falso e sull’inganno. I fautori della riforma dicono di avere aumentato le garanzie alzando, dopo le prime votazioni, le percentuali da maggioranza assoluta ai 3/5. Però dimenticano di dire che sono i 3/5 dei votanti anziché dei componenti. Le garanzie le abbassano, altro che alzarle.

Si dice che con l’Italicum si saprà subito dopo chi ha vinto. Ma in una Repubblica parlamentare è una cosa corretta?
Assolutamente no. Spetta al presidente della Repubblica aprire le consultazioni per capire chi potrà ricevere la fiducia delle Camere, dopodiché gli dà l’incarico per chiedere la fiducia. Non si può sapere il giorno dopo le elezioni chi sarà premier. In una Repubblica parlamentare funziona così.

Secondo lei perché il premier ha forzato così tanto su questa riforma?
Lui vuole modificare il sistema per arrivare a una verticalizzazione del potere e concentrarlo attorno alla figura del premier. Così potrà decidere tutto senza essere disturbato.

«L'Espresso online, blog "Piovono rane", 1° ottobre 2016

Di dubbia utilità per chiarire agli italiani su che cosa si voterà tecnicamente il 4 dicembre, il dibattito di ieri tra Renzi e Zagrebelsky è stato invece prezioso per confrontare due approcci cognitivi alla democrazia, ai cittadini, ai media, alla politica, al passato e al futuro. E si tratta di due approcci cognitivi agli antipodi.

A destra sul nostro schermo c'era un signore - Zagrebelsky - per il quale la complessità è un valore. Bastava vedere la quantità di frasi subordinate, bastava vedere lo sforzo (spesso "fisico" e quasi sempre vano) nel tentare di sintetizzare nei tempi televisivi questioni costituzionali sempre in bilico tra il giuridico e il politico, tra la forma e la sostanza, tra il singolo articolo e il quadro complessivo.

C'era, a destra dei nostri schermi, un signore che ha dedicato una vita a spiegare che la democrazia rappresentativa non è il sistema in cui comanda chi ha più consenso in un'istantanea dell'opinione pubblica, bensì è un insieme di regole, comportamenti, soppesamenti, bilanciamenti, garanzie, limiti, collaborazioni e confronti: e questo, secondo lui, è ciò che rende migliore una democrazia diffusa da una plebiscitaria.

A sinistra c'era invece un altro signore - Renzi - che ha come visione e obiettivo la semplicità e/o la semplificazione, il superamento degli ostacoli, la realizzazione rapida di ciò che ha deciso il leader che ha preso più voti.

C'era un signore, a sinistra nel monitor, secondo il quale lo scopo di una riforma costituzionale è il superamento dei (troppi, secondo lui) intralci che la democrazia disegnata dai nostri padri costituenti pone al leader della parte che ha vinto le elezioni, anche se le ha vinte di un solo voto e con una maggioranza solo relativa.

Questa dialettica è stata la cifra - a volte sottintesa - di tutto il confronto, la cui natura mediatica ha ovviamente consentito al secondo di maramaldeggiare: la televisione è infatti per antonomasia il luogo della semplificazione, a iniziare proprio dalla banalizzazione del messaggio, dal tempo ridotto in cui lo si deve comunicare, dal reperimento della frase concisa e sintetica che attira l'attenzione del telespettatore e gli resta dentro.

La televisione è il luogo-medium nel quale la semplicità è regina, anzi è essa stessa semplificazione in sé, per natura: quindi è del tutto contronatura farvi passare una teorizzazione del valore della complessità.

La vittoria mediatica di Renzi è stata pertanto evidente e abbastanza strabordante, direi. Al netto forse di qualche strafottenza di troppo, di qualche paraverbale che per artificiosità e arroganza gli ha creato saltuari effetti boomerang nella ricerca della simpatia, ma si sa che Renzi è fatto così e non lo si cambia.

Se però usciamo dalla logica del ring e del chi "ha vinto", è stato interessante vedere - in controluce, dietro quei due signori, dietro le loro diverse convinzioni e modalità espressive - tutta la crisi della democrazia contemporanea, dagli Stati Uniti all'Europa: un sistema di autogoverno dei cittadini che la cultura occidentale ha elaborato in diversi secoli, con molta fatica e molto sangue, e che adesso attraversa una crisi epocale, svuotata com'è da poteri, meccanismi e dinamiche che nessuno ha eletto.

E l'aspetto interessante stava nelle due diverse risposte a questa crisi: da un lato Renzi, convinto che il problema consista nell'insufficiente perimetro decisionale del leader eletto, quindi nell'eccesso di "intralci"- cioè di distribuzione e bilanciamento dei poteri; dall'altro Zagrebelsky, secondo il quale proprio perché la democrazia decide sempre di meno bisogna renderla più diffusa, più orizzontale, più partecipata, più condivisa, in altre parole più abitata da ciascuno di noi, meno regalata a un "capo".

"Capo" del resto è stata la parola-boa del confronto, a un certo punto.

Con Zagrebelsky che faceva notare come per la prima volta questa parola viene inserita nelle norme fondanti di una democrazia, mentre secondo lui in democrazia non ci deve essere un "capo" come tale, bensì un servizio per la garanzia di tutti; Renzi invece che la difendeva, quella parola, soprattutto dal punto di vista dell'efficacia decisionale, ma anche da quello della legittimità democratica, in quanto capo eletto. In quanto "unto dal Signore", si diceva un ventennio fa, laddove "il Signore" era il popolo, quindi conferiva piena legittimità democratica al comando.

Tutto questo, appunto, pone domande che travalicano i nostri confini, e che hanno a che fare con tutta la crisi delle democrazie rappresentative, con la personalizzazione-concentrazione della politica ma anche con l'utopia-distopia opposta, quella cioè basata sull'assemblea permanente dei cittadini-decisori nell'agorà digitale.

Tutto questo è stato culturalmente prezioso, si diceva: tuttavia mi pare che ieri sera abbia avuto a che fare un po' marginalmente - diciamo, "come sfondo" - con i contenuti della riforma Boschi.

La quale riforma ha soprattutto alcune caratteristiche discutibili che in parte ieri sera sono emerse ma in parte no (almeno se non vogliamo credere che il suo ubi consistam sia nel risparmio di qualche stipendio e nell'abolizione del Cnel).

Ad esempio, l'allontanamento dei cittadini dalla rappresentanza e dai luoghi della decisione. Il Senato - con tutti i poteri che gli sono rimasti, tutt'altro che indifferenti - verrebbe scelto dal ceto politico anziché dagli elettori. E questo è un punto non irrilevante: perché se anche accettassimo l'idea che il "capo" debba avere meno intralci, non pare il massimo considerare tra questi intralci anche i cittadini. Un allontanamento, peraltro, confermato dall'aumento di numero di firme necessarie per una legge di iniziativa popolare.

Altrettanto marginalmente - a parte un passaggio quando davanti alla tivù eravamo rimasti in pochi malati di politica - è emersa la questione del nuovo pezzo di classe dirigente con doppio incarico, amministratori locali e senatori della Repubblica: il che nel migliore dei casi significa che questi svolgeranno male uno dei due incarichi, nel peggiore dei casi vuol dire che tra gli amministratori locali si cercherà di diventare senatori per carriera, per status, per traffico di influenze, per ottenere l'immunità parlamentare.

Ma quello che è emerso in modo ancora meno chiaro è il grande paradosso di questa legge, cioè il maggior livello di complicazione dei meccanismi legislativi, determinato sia dall'articolo 70 sia dal nuovo rapporto Stato-regioni. Riuscire a diminuire la partecipazione dei cittadini aumentando il livello di complicazione legislativa è un record tutto italiano e (altro paradosso) è esattamente frutto di quella cultura da azzeccagarbugli che Renzi ha attaccato per tutta la serata.

Infine, grazie al recente cambiamento di rotta voluto da Renzi, non si è di fatto potuta affrontare la questione del sistema di rappresentanza complessivo che emergerebbe dalla riforma Boschi e dalla futura legge elettorale, insieme. Perché il mix tra Italicum e Senato boschizzato era una cosa da brividi, ma adesso il premier si fa forte del fatto che l'Italicum verrà cambiato, quindi non accetta critiche sul "combinato disposto". Peccato che non si sappia comeverrà cambiato, quindi andremo a votare una riforma costituzionale i cui effetti saranno diversi a seconda della legge ordinaria che verrà fatta dopo, per l'altro ramo del Parlamento.

Andremo a votare, in sostanza, senza avere gli strumenti per sapere quali effetti reali avrà il nostro voto: e anche questa impossibilità di conoscere le conseguenze della nostra scelta dà la misura della sempre maggiore sottrazione di potere ai cittadini, dell'allontanamento tra elettori e decisioni reali.

Non so se tutto questo sarebbe potuto emergere, in televisione, per i motivi di cui sopra.

Probabilmente no.

Il che fa venire il dubbio che il referendum del 4 dicembre sia - culturalmente parlando - anche un referendum su questo: cioè sul valore o disvalore della semplificazione estrema, della "SpotPolitik" (cit. Giovanna Cosenza), della politica post-verità o di messaggi iperpopulisti e distorsivi come questo - peraltro non esclusivi di Renzi, sia chiaro, ma trasversalissimi.

Ecco, forse evitare di precipitare lì - nello "stiam diventando tutti più scemi" cantato da Gaber - è perfino più importante che schivare il pasticcio della Boschi.

12 COMMENTI 8
Eparrei
1 ottobre 2016 alle 11:40

Può essere, ma io lo vedo come un effetto della mancanza di informazione corretta. Siamo in pieno mito della caverna platoniano, insomma. Occorrerebbe rompere le catene....

Piero Filotico
1 ottobre 2016 alle 11:44

Per fortuna siamo in parecchi a pensarla come te.
https://unfilorosso.wordpress.com/2016/10/01/zagrebelsky-una-lezione-di-stile-e-di-saggezza/

Cave Asinus
1 ottobre 2016 alle 12:06

Renzi è disposto a tutto per vincere, anche a passare per ignorante. Ha sentenziato che il bicameralismo paritario statunitense non è come quello italiano perché gli Stati Uniti sono una Repubblica presidenziale.

Il bicameralismo paritario è il sistema che regola l'iter di formazione delle leggi ed è indipendente dalla struttura della Repubblica. Il presidente degli Stati Uniti è titolare solo del potere esecutivo (art. 2 Cost.), il potere legislativo è interamente nelle mani del Congresso (art. 1 Cost.), l'equivalente del Parlamento dei Paesi europei, composto dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato, entrambe elette a suffragio universale.

Negli Stati Uniti come in Italia un testo per diventare legge dev'essere approvato alla stessa maniera sia dalla Camera dei rappresentanti che dal Senato. Lo shutdown che paralizzò il Congresso nel 2013 fu causato dal mancato accordo tra le due Camere sul provvedimento Obamacare. Inoltre la Costituzione degli Stati Uniti è "vecchia" di oltre 200 anni.

Renzi ha detto una sciocchezza ed è passata solo una settimana dall'altra freddura "chi vota No mantiene il finanziamento ai partiti", già aboliti da Letta e non disciplinati in nessuna parte della Costituzione. Ovviamente non poteva mancare l'altra pubblicità ingannevole sui 500 milioni di risparmio che nessuno ha certificato. L'unico risparmio documentato è quello della Ragioneria dello Stato ed è pari - sudditi: udite, udite - a 57,7 milioni. Le Province, altro pilastro dell'apostolato governativo, sono già state "abolite" (leggasi sostituite dalla Città metropolitane).

Un commento a caldo sui un colloquio tra due protagonisti del confronto dulle modifiche alla costituzione e sul nuovo assetto delle istituzioni e del potere che ne discenderebbe.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 1 ottobre 2016

Ho appena ascoltato il Presidente del Consiglio dichiarare che se vince il Sì saranno risparmiati 500 milioni di euro l'anno. Ebbene, è una solennissima menzogna. L'unica stima disponibile, quella della Ragioneria dello Stato , quantifica questo risparmio in 49 milioni di euro l'anno.

Non discuto se sia poco o sia tanto: mi chiedo cosa succede alla democrazia quando il Governo usa la menzogna come arma politica. Ai tempi del liceo (il mio stesso liceo) Matteo Renzi era soprannominato il Bomba, per tutte le balle che diceva. Il 4 dicembre, giorno del Referendum, si festeggia Santa Barbara, patrona degli artificieri. Quale migliore occasione per disinnescarlo?»

Truffetta dopo truffetta, bravissimo il governo Renzi a mescolare qualche spicciolo con l'aria delle promesse e dei rinvii, sollevando così una polvere rosa a fini di propaganda per il SI.

il manifesto, 30 settembre 2016

Malgrado la sua mole, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef) licenziato dal governo martedì notte, non riesce a nascondere le fragilità e le aporie della Renzinomics. Non scalda i cuori né a Bruxelles né a Roma.

Negli ambienti Ue si pensa di rimandare il giudizio definitivo al prossimo maggio in modo da non intralciare il cammino del governo verso il Referendum, fissato a dicembre anche per la legge di stabilità. In questo modo il governo potrebbe tentare di reperire quegli otto miliardi che gli permetterebbero di agire sulle pensioni, sulla “competitività”, sui contratti, sulle misure per la famiglia e per l’Università. Uno spruzzo di qui e uno di là per rinsaldare il fronte referendario del Sì che si sta già sfaldando, come impietosamente hanno evidenziato i fischi dell’assemblea di Firenze della Coldiretti. Naturalmente il taglio dell’Irpef è rimandato al 2018 (si fa per dire) per garantire quello dell’Ires che interessa alle imprese e per scongiurare l’incremento dell’Iva. Il debito italiano torna a crescere, siamo al 132,8% del Pil per colpa della deflazione appena attutita dalla ripresa dei prezzi del petrolio. La Commissione europea aveva già tollerato il rapporto deficit-Pil dall’1,8% al 2%. Ma questo a Renzi non basta. Vuole arrivare al 2,4% per potersi fregiare del titolo di combattente antiausterity.

Ma i conti non tornano. Lo afferma l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), che appone il bollino sulle previsioni tendenziali 2016-2017, ma esprime forti perplessità su quelle programmatiche e revoca in dubbio le stime governative per i due anni successivi. Non crede affatto che la crescita degli investimenti possa raddoppiarsi, sia nel settore delle costruzioni come in quello dei macchinari. Pensa che le stime governative sull’andamento del Pil nominale nel 2018 e nel 2019 siano del tutto gonfiate. «La crescita supposta dal Mef per i consumi delle famiglie appare, soprattutto per il 2018, elevata se si tiene conto dell’andamento complessivamente stagnante della massa retributiva reale», scrive l’Upb, ovvero i salari sono troppo bassi e inibiscono qualunque tipo di crescita. Non solo, l’Ufficio avverte che il commercio internazionale e la domanda mondiale sono in contrazione. Quindi le previsioni governative sono costruite sulla sabbia.

Intanto i dati veri e duri dell’economia si fanno sentire. L’Istat ritorna avverte che la fascia tra 25 e 49 anni ha perso in un mese 39mila occupati e 238mila in un anno. Anche la generazione nata nel 1980 («la più istruita di sempre» secondo Mario Draghi) è perduta e costretta a lavorare fino a 75 anni per uno straccio di pensione. Effetti del Flop Act e di ciò che lo ha preceduto.

La battaglia dei decimali è doppiamente perdente, fondata su stime improbabili e insiste su obiettivi scopertamente fallimentari. Come fare credere che i livelli salariali debbono rincorrere come Achille la tartaruga la produttività aziendale – che peraltro deriva da fattori di sistema che reclamano investimenti pubblici e innovazione -, quando invece proprio l’incremento delle retribuzioni può diventare un fattore potente di sviluppo della produttività del lavoro. E anticipare l’età pensionabile costringendo le persone a indebitarsi con le banche e a vedersi ridotta fino al 25% la propria pensione non elimina le sofferenze e aumenta l’indebitamento privato . Un perseverare tanto più diabolico se lo si confronta con la crisi del pensiero economico mainstream. La recente intervista di De Benedetti apre una voragine in quel mondo dominato dalla «folle scelta dell’austerity» per di più in piena deflazione, anche se poi non offre soluzioni alternative. Non è suo compito. Sarebbe quello di una sinistra da costruire.

Corriere della Sera, 29 settembre 2016

«Il problema è che mentre prima, pacificamente, si rubava per fare carriera all’interno dei partiti politici, adesso si usano altri sistemi. Al momento non è ancora chiaro quali siano, perché i processi relativi alle elezioni primarie non li abbiamo ancora fatti. Quando li faremo, scopriremo come funzionano». Sono parole di Piercamillo Davigo. E non sono parole destinate a passare inosservate; tanto più che le elezioni primarie in Italia le ha fatte il Pd.

Davigo firma con Gherardo Colombo un libro in uscita da Longanesi e che il Corriere ha potuto leggere in bozze: La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo. Pagine che suscitano godimento intellettuale, per il raffronto serrato da cui emergono a ogni capitolo le differenze culturali tra due pm simbolo di Mani Pulite, e nello stesso tempo angoscia sociale, di fronte alla descrizione di un Paese che appare a volte irredimibile. Per intenderci, sul fatto che i politici non abbiano affatto smesso di rubare sono d’accordo entrambi. Scrive infatti Colombo: «A me pare che la corruzione oggi sia diffusa capillarmente come venti e passa anni fa, quando l’abbiamo svelata con le nostre indagini. Mi sembra però cambiata sotto il profilo fenomenologico. Allora quella di alto livello era quasi sempre connessa al finanziamento illecito dei partiti politici, era un sistema che, in quanto tale, rispondeva a regole precise; adesso è diventata più frammentata e anarchica». Non a caso «in Italia chi denuncia comportamenti illeciti nel campo della corruzione è considerato una spia. Vuol dire che la mentalità generale (non di tutti, per fortuna, ma di tanti) sta dalla parte dell’illecito e non del lecito. Finché esisterà questa mentalità, sarà il denunciante, e non colui che dovrebbe essere denunciato, che sta fuori dal sistema».

Tra i due è soprattutto Colombo a parlare di società, prevenzione, recupero, Costituzione. Davigo è più tranchant. «Giansenista» si definisce. E avverte l’amico: «Tu accordi all’uomo un grado di fiducia che, secondo me, assolutamente non merita». Il problema in Italia, sostiene Davigo, non è la repressione; è il fatto che di repressione non ce n’è abbastanza. Quanto alle intercettazioni, «se sono davvero irrilevanti, il nostro codice prevede già il reato di diffamazione a tutela del soggetto coinvolto. Il problema però è che non è quasi mai vero che sono irrilevanti. Possono essere utili ai fini del processo penale, pensiamo al traffico di influenze; oppure se sei una persona pubblica o un pubblico ufficiale e si scopre che gestisci un bordello, o prendi affitti in nero, è ovvio che non sono più affari privati».

Colombo parla dei suoi incontri con gli studenti su legalità e lotta alla mafia, Davigo replica: «La soluzione non può venire dalla mera educazione. Tu sei convinto che i ragazzi vengano ad ascoltarti perché sono interessati a quello che dici. In realtà, e basta tornare con la memoria alla nostra stessa esperienza di studenti, è comunque preferibile andare ad ascoltare qualcuno che viene a parlarti di un certo argomento piuttosto che stare in classe e assistere alla solita lezione, con il rischio di essere interrogati». E ancora: «Tu parti dal presupposto che l’uomo sia buono per natura. Stai vagheggiando il mito del buon selvaggio di Rousseau, rivelatosi del tutto infondato. Il fatto stesso che tu ritenga che gli individui andrebbero educati, significa che se vengono lasciati allo stato brado buoni non lo sono neanche un po’. Per questo è necessario ricorrere a un cosiddetto male necessario, ossia all’uso della forza». E a Colombo che lamenta il trattamento dei carcerati, replica: «Gran parte delle vicende che hai illustrato io le ho vissute quando ho fatto il servizio militare. Arrivi, ti svesti, ti tagliano i capelli, ti danno l’uniforme ossia un vestito uguale per tutti…». «Ma perché, Piercamillo, non possono cucinare, perché non possono tenere foto alle pareti?». «Sulle foto posso essere d’accordo. Sul fatto di cucinare non tanto. Perché possono essere fatte scoppiare le bombolette del gas contro gli agenti. Nelle carceri di altri Paesi nessuno cucina». Su un altro punto c’è intesa. Colombo riconosce che «i colletti bianchi sono quelli che non vanno mai in prigione». «Il problema è che ci dovrebbero andare, in galera — aggiunge Davigo —. In realtà, sono gli unici che utilizzano tutti gli strumenti studiati a beneficio degli altri. Che invece rimangono in carcere».

La disputa si accende anche sulla valutazione dei colleghi. «Da quel che dici sembra che da una parte ci siano i magistrati, bravi, e dall’altra il resto del mondo, cattivo — obietta Colombo —. Credo sia il caso di riconoscere che a volte le mancanze stanno anche dalla parte della magistratura». Risponde Davigo: «Certo che no! E comunque non lo devi dire a me, che deferisco un magistrato al giorno al collegio dei probiviri»
Due punti di vista (di Ferruccio De Bortoli e di Matteo Bortolon) su una persona che fu diversamente decisiva in diverse fasi della storia nazionale: negli anni della resistenza al nazifascismo e in quelli della globalizzazione capitalista.

Corriere della Sera il manifesto, 17 settembre 2016


Corriere Della Sera
L’ORGOGLIO DI SERVIRE IL SUO PAESE
di Ferruccio de Bortoli

«È la migliore intervista che ho fatto». «Quale presidente? Non l’ho letta». «E forse non la leggerà mai». Aveva l’aria quasi divertita Ciampi nel suo ufficio di senatore a vita, pochi mesi dopo aver lasciato il Quirinale. Quella mattina era soddisfatto di aver portato a termine un compito gravoso: rilasciare all’archivio di Stato un resoconto dettagliato, con tutti i documenti e gli appunti personali, dei suoi sette anni al Colle. L’etica repubblicana dell’ex governatore della Banca d’Italia (dal ‘79 al ‘93), diventato politico per necessità (del Paese, non sua), presidente della Repubblica dal ‘99 al 2006, imponeva l’assolvimento scrupoloso di ogni incombenza, anche la più piccola. Con meticolosità calvinista, acribia maniacale. La sindrome della scrivania vuota la sera, pulita, senza cose da evadere.

In banca, una volta, si faceva così. In estrema sintesi: senso del dovere e grande rispetto delle istituzioni. Istituzioni che Ciampi ha servito, sentendosene onorato, e mai occupato con sufficienza o persino con disprezzo come gli capitò di notare negli anni in cui dovette contenere il berlusconismo più rampante e anche un certo pressappochismo della sinistra di governo. Una disciplina quasi militare la sua, esercitata alla scuola della Banca d’Italia. Palazzo Koch era (ed è) una roccaforte del rigore quasi estranea al costume italiano, un’eccellenza nazionale che suscita più invidia e sospetti che ammirazione e gratitudine. Aveva un metodo di lavoro prussiano. «Mi concentro su una cosa alla volta, con calma».

La Banca d’Italia è stata per lui la seconda famiglia, il luogo da amare, la stanza del potere discreto che si esercita con la moral suasion, dove il tratto fermo e gentile è l’arma di governo più efficace. Una prassi che non conosce le durezze espressive del comando. Non c’è bisogno di gridare per farsi obbedire, né di battere i pugni sul tavolo. L’autorevolezza conta più delle amicizie influenti; le prove di serietà sono il migliore biglietto da visita. Non che Ciampi non avesse le sue durezze. Ricordo una sua telefonata particolarmente piccata quando il Corriere scrisse che non sarebbe succeduto come capo del governo a Prodi nel ‘98. Ci sperava e pare avesse già scritto il suo discorso.

In uno dei tanti colloqui che avemmo, mi raccontò che negli anni più difficili per l’economia italiana, nei momenti più bui delle responsabilità a Palazzo Chigi e in via XX Settembre, la sede del ministero dell’Economia, teneva in tasca un biglietto con il grafico della differenza dei tassi italiani rispetto a quelli tedeschi. Quel divario in termini di costo del denaro sarebbe diventato sinistramente famoso con la parola spread. Prima della moneta unica aveva raggiunto anche i seicento punti base, un disastro per il servizio del debito italiano.

Ciampi misurava i successi del governo con la riduzione di quel divario. Teneva costantemente sotto osservazione il grafico come fosse una pagella inappellabile. E non perché fosse ossessionato dal giudizio dei mercati e dal loro potere. Ma perché einaudianamente, da buon padre di famiglia, in questo caso molto allargata, faceva di conto. Oggi lo si fa assai meno. Ed era consapevole che senza una buona reputazione, senza dimostrare serietà di comportamento non si sarebbe andati da nessuna parte. L’Italia si sarebbe piegata sotto il peso dei propri difetti oltre che per il fardello del debito. Il suo governo uscì dalle secche pericolose della speculazione, consolidò il risanamento avviato da Amato dopo la crisi valutaria del ‘92 che coincise anche con l’attacco della mafia allo Stato. Una tempesta valutaria che si scatenò quando, da governatore della Banca d’Italia, ricevette la telefonata più drammatica della sua vita. La Bundesbank lo avvertiva che non avrebbe più sostenuto il cambio della lira, difesa già costata un’emorragia di riserve.

Negli anni in cui fu, nei governi Prodi e D’Alema, alla guida dell’economia vinse il sospetto degli alleati, in particolare i tedeschi, suscitò l’ammirazione di «falchi» come il ministro delle Finanze di Berlino Theo Waigel e, persino, del suo terribile collega olandese Gerrit Zalm. Il suo credito personale è stato tra i fattori di successo della rincorsa italiana per entrare nella moneta unica. E non dimenticheremo mai la sua espressione soddisfatta ed emozionata quando mostrò, fresco di conio, il primo euro uscito dalla Zecca. Era la vittoria di un ideale, nato tra le macerie della guerra e della Resistenza, combattute con onore, e coltivato nel sogno di Ventotene, nelle suggestioni azioniste e nell’entusiasmo repubblicano. L’euro come moneta di pace. Immaginiamo la sofferenza intima che un grande europeista come lui deve avere provato nell’assistere al lento e inesorabile indebolimento dell’Unione Europea, prigioniera degli egoismi nazionali. E il dispiacere nel vedere che i fantasmi del passato e i veleni del totalitarismo combattuti dalla sua generazione ricomparivano un po’ ovunque, specie in quell’Est che deve all’Unione Europea libertà e benessere.

Un italiano per bene, orgoglioso di aver servito il suo Paese, è stato - e lo sarà ancora nel posto che la Storia gli riserverà - il simbolo della serietà e della competenza. Merce rara, diciamolo. Il suo settennato ha avuto come obiettivo, quasi una missione, quello di rianimare il concetto di patria, di restituire agli italiani l’orgoglio dell’appartenenza, la gioia di cantare l’inno. Compito non facile in un Paese in cui durante la Guerra fredda c’era chi di patrie ne aveva due e il tricolore era appannaggio politico solo della destra. Ricordo che in un pranzo al Quirinale, appena insediato nel ‘99, mi disse che avrebbe voluto visitare tutte le province italiane. Impegno che rispettò quasi fosse un fioretto laico. In quell’occasione il suo consigliere Arrigo Levi fece firmare a tutti i presenti il menù e promise che li avrebbe raccolti per i successivi sette anni. «Si rispettano tutti gli impegni, anche i più piccoli». Sorridemmo. La tenacia di Levi venne premiata, come quella del presidente. Tra le sue eredità, l’organizzazione delle celebrazioni nel 2011 del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. L’occasione per celebrare il ritorno del senso di patria che per lui non era morto l’8 settembre del 1943. Un testimone raccolto, splendidamente, dal suo successore Napolitano. Quel marzo del 2011 rimane nella memoria collettiva degli italiani, al pari di Torino 1961, un momento significativo della costruzione identitaria nazionale.

L’economista Ciampi, che era laureato in Lettere, il banchiere centrale più mitteleuropeo che romano, ha sempre avuto per la politica un grande rispetto, pur tenendosi a distanza. Ne temeva le insidie anche se ne sentiva il fascino che a volte per un tecnico può essere irresistibile. Non coltivò però il sogno di improbabili discese in campo, quando dovette preparare con il suo governo le elezioni che nel ‘94 videro il primo trionfo di Berlusconi. Rinunciò al comizio finale che per le regole delle tribune politiche spetta al presidente del Consiglio in carica. Si ritirò in buon ordine in un piccolo ufficio messogli a disposizione dalla Banca d’Italia. Non sperava di tornare al governo e nemmeno di andare al Quirinale. Il Corriere , in un editoriale a firma di chi scrive, lo propose nella primavera del ‘99 come il candidato più autorevole. Ciampi chiamò la mattina seguente. «Grazie direttore, ma non so se mi ha fatto un favore». Poche settimane dopo l’accordo sul suo nome fu trovato con un consenso ampio. E la nomina avvenne al primo scrutinio. In un clima di concordia nazionale del quale oggi abbiamo profonda nostalgia.

il manifesto
DUE COSE SU CIAMPI

di Matteo Bortolon

«Carlo Azeglio Ciampi fu (anche) economista e banchiere. A lui si devono due scelte che l'Italia sta ancora pagando con costi pesantissimi. Il "divorzio" di Bankitalia e Tesoro (deciso con Andreatta) nel sostegno al debito pubblico degli anni '80 e la liberalizzazione totale del mercato finanziario negli anni '90»

Buona parte della stampa traccia oggi un ritratto dell’appena scomparso Carlo Azeglio Ciampi. Grande statista, grande premier, giusto, elegante, sobrio. Se la sobrietà era una delle sue qualità altrettanto non si può dire dei suoi elogiatori attuali.

A destra si sottolinea il patriottismo con le forti connessioni con il Risorgimento. A sinistra l’esser stato partigiano, l’europeismo, «uomo delle istituzioni», l’aver portato l’Italia nell’euro. Per trovare delle critiche bisogna ridursi a cercare nell’area destra radicale – Lega. Ovviamente il bilancio di una eredità politica non potrà che essere più meditato, magari includendo qualche parte un po’ meno «entusiasmante» come il ripristino della parata militare il 2 giugno…

In questo spazio si intendono ricordare due questioni direttamente riconducibili all’azione politica di Ciampi, che presumibilmente non entreranno molto nel dibattito. Le cui pesantissime conseguenze l’Italia sta tutt’ora vivendo.

Carlo Azeglio Ciampi è stato economista e banchiere. Fra il 1979-1993 ha ricoperto la carica di governatore della Banca d’Italia. In questa veste ha promosso un evento che ai più è rimasto completamente inosservato: il cosiddetto divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia. Come spiegherà qualche anno più tardi l’altro comprimario di tale atto, Beniamino Andreatta, nel 1981, lui in qualità di ministro delle Finanze si mise d’accordo con l’allora governatore per sancire il fatto che Bankitalia non avrebbe più sostenuto il debito pubblico italiano acquistando i titoli andati invenduti, e così abbassandone il prezzo.

Si trattò in pratica di una liberalizzazione del settore finanziario interno, per cui solo il mercato avrebbe deciso il costo dell’indebitamento dello stato. L’ex ministro lo dirà esplicitamente in un’intervista anni più tardi: «Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale».

Un anno prima del «divorzio», Ciampi aveva esposto con una sinistra chiarezza il nuovo assetto da costruire: «L’ultimo decennio ha visto crescere ancora la somma delle domande sociali rivolte alle strutture pubbliche. E’ giunto a un punto di tensione il movimento che prese avvio dalla crisi degli anni trenta e che portò in tutti i paesi ad assegnare alla politica economica e sociale un ruolo centrale e permanente».

Tali parole sono del 1980. Si avviava il processo che avrebbe reso indipendente la banca centrale consegnando il famoso potere del mercato sullo stato in materia di titoli pubblici – che anni più tardi si sarebbe reso famoso come il famoso spread. I due protagonisti intendevano così rendere l’Italia adeguata all’Europa in costruzione, liberista e oramai già incardinata nello Sme che il Pci aveva a sua volta contrastato.

L’effetto fu l’indebitamento crescente delle casse pubbliche in virtù di un atto che costruiva, come ribadisce lo stesso Andreatta, il «potere monetario» come quarto potere indipendente dagli altri. Un effetto ulteriore fu però di ingigantire la rendita di chi si poteva permettere di prestare soldi allo stato – a meno che non si abbassasse drammaticamente la spesa sociale – e di aumentare la disoccupazione dirigendo risorse nell’investimento finanziario.

Buona parte del dominio della finanza deriva da tale processo. E sarebbe giunto a compimento quando ai primi anni Novanta si sarebbe proibito con direttiva europea ogni vincolo alla libera circolazione di capitali, e poco dopo approvato una legge che demoliva la distinzione fra banche d’affari e d’investimento, saggiamente stabilita ai tempi di Roosevelt e recepita nella legge italiana nel 1936. E chi la fece la nuova legge? Carlo Azeglio Ciampi. C’è molto di che riflettere sulla sua memoria.

La risposta meritata da un ambasciatore che non sa fare il suo mestiere. A qualcuno viene il dubbio che sia condizionatodai nemici di Re Matteo.

L'Espresso online. blog "Piovono rane", 14 settembre 2016

Gentile ambasciatore Phillips,

personalmente non sono tra quelli che che si scandalizzano per il suo intervento di ieri sul referendum italiano: anzi, qui si apprezza la franchezza nell'ammettere che gli Stati Uniti continuano a condizionare la politica italiana, come hanno sempre fatto da quando ci liberarono dai nazifascisti.

Tra l'altro, cinquant'anni fa a interferire eravate solo voi e il Vaticano: oggi i poteri esterni che limitano la democrazia in Italia (e non solo) sono molto di più - e spesso si tratta di concentrati finanziari indecifrabili, senza volto, senza nome. Al confronto dei quali il suo intervento fa quasi tenerezza, perché ci fa sentire tutti più giovani, ci rimanda a un mondo più semplice.

Semmai quello che mi ha stupito è che nessuno l'abbia avvertita, avvocato Phillips, dell'"effetto boomerang": con tutto il rispetto e l'ammirazione per gli Stati Uniti, l'idea che la maggiore potenza del mondo voglia cambiare la Costituzione italiana forse a qualche italiano non sembra piacevolissima.

Mi chiedo quindi che consiglieri abbia, lì in via Veneto. Da da quali fonti tragga la sua lettura delle cose nostrane.

E qui viene il punto, ambasciatore. Le sue fonti, i suoi informatori. È la questione fondamentale.

Vede, quando sei anni fa WikiLeaks pubblicò una serie di cablogrammi della diplomazia americana, qui ci si è tutti divertiti a scoprire che consideravate Berlusconi "un clown" ma non si è guardato abbastanza al punto più stupefacente che emergeva da tutta la vicenda: cioè, appunto, la qualità delle vostre fonti.

Abbiamo cioè scoperto che l'ambasciata Usa informava Washington sulle cose italiane ritagliando e traducendo articoli di giornali. E con criteri di scelta - diciamo - un po' superficiali. Noi, che forse abbiamo letto troppa letteratura spionistica, pensavamo che per sapere cosa succedeva in Italia gli Usa si avvalessero di chissà quali teste d'uovo, chissà quali infiltrati nei gangli di potere, chissà quali iniziati alle segrete cose. Invece ritagliavate un po' di editoriali, poi li mandavate al Dipartimento di Stato con quattro notarelle di commento. By the way, nel casino dei cablogrammi a un certo punto ho appreso che avevate classificato come "confidential" pure una cosa che avevo scritto io su questo blog, e le confesso che ci ho riso una settimana, con gli amici.

Ecco, tutto questo per dire che forse il suo intervento sul referendum costituzionale è frutto di un increscioso equivoco. Di qualche informazione letta in giro, ma poco approfondita. Chessò, tipo un editoriale di Panebianco, per capirci.

Le spiego: sì, le intenzioni iniziali di Matteo Renzi erano più o meno quelle che dice lei, cioè aumentare la governabilità anche a discapito della rappresentanza, velocizzare l'iter legislativo, accrescere il potere del premier rispetto al Parlamento. Questo obiettivo può piacere o non piacere (a me, ad esempio, non piaceva), ma era sicuramente l'intenzione del nostro attuale premier. E, se il disegno fosse andato in porto così come concepito, avrebbe probabilmente avvicinato l'Italia al sistema americano, anzi forse avrebbe ridotto ancora di più i contrappesi di potere rispetto a quelli di cui godete voi oltreoceano.

Ma, ambasciatore, il punto è che poi non è andata così.

Qui siamo in Italia. Che è un posto complicato. Dove oltre ai partiti ci sono le correnti, le cordate, i transfughi. E soprattutto una subcultura dell'arzigogolo che a Bisanzio in confronto era tutto lineare.

Quindi la legge che aveva in testa Renzi - a forza di mediare con Verdini, di cercare la quadra con Bersani e di accontentare Alfano - si è trasformata in una cosa che non velocizza affatto l'iter legislativo ma anzi lo complica, creando un'infinità di varianti, di de cuius, di possibilità diverse. La vaghezza della norma finale - insieme alla pessima forma in cui è stata scritta - lascia spazio a interpretazioni quasi infinite, quindi a potenziali dispute altrettanto eterne. E se - Dio non volesse - di qui ai prossimi anni dovessimo avere in Camera e Senato maggioranze e presidenti di opposti partiti, il tutto si declinerà in una montagna di conflitti davanti alla Corte Costituzionale. La quale sarà in ogni caso impegnata notte e giorno a dirimere le competenze tra Stato e Regioni in questioni relative a industria, agricoltura, artigianato, per esempio.

Se non ci crede, ambasciatore, si faccia tradurre il testo della Renzi-Boschi. In particolare l'articolo 70. Con tanti auguri ai traduttori, perché già chi è madrelingua italiano fatica a comprenderlo.

Ecco, avvocato Phillips, io temo fortemente che lei sia caduto in un tranello per la cattiva informazione che le hanno riportato.

Così come probabilmente per scarsa capacità di lettura delle cose italiane non le hanno detto che il problema degli investimenti stranieri nel nostro Paese è direttamente collegato non con la Costituzione della Repubblica (che parla d'altro) bensì con gli ostacoli concreti e reali che tutti gli investitori del mondo si trovano davanti al naso quando mettono dei soldi nello Stivale: corruzione diffusa, malavita organizzata e non, burocrazia farraginosa, incertezza delle norme, lungaggini nella loro applicazione, ritardi grotteschi nei pagamenti delle fatture e così via.

Insomma, se qui arrivano pochi investimenti è per via della parte peggiore dell'Italia, avvocato Phillips, non per la Carta del '48: che è invece una delle cose migliori prodotte da questo Paese.

Sono certo che lei, se ben informato, saprà distinguere: così come passeggiando per Roma ha imparato negli anni a distinguere le bellezza dei suoi vicoli e dei suoi monumenti dalla bruttezza della sua monnezza e del suo traffico.

Con la più viva cordialità e i migliori auguri di buon lavoro.

. La Repubblica, 26 settembre 2016 (c.m.c.)

La decisione di Renzi di fissare il rapporto deficit-Pil del prossimo anno al 2,3 (e, se riuscirà ad ottenere da Bruxelles il via libera, al 2,4) rende meno complicata la strada del governo, ma prepariamoci ugualmente a stringere la cinta per circa 7 miliardi: dalla sanità, ai beni e servizi, alle partecipate. Risorse anche da nuove entrate come il rientro dei capitali-bis, la lotta all’evasione dell’Iva, giochi e frequenze.

Il Consiglio dei ministri previsto per oggi si occuperà di referendum: slitta dunque a domani la riunione per l’aggiornamento del Def. Intanto si rifanno i conti: i nuovi margini dovuti alle circostanze eccezionali (terremoto, migranti e minore crescita) ci consentiranno di sterilizzare l’aumento dell’Iva e di scongiurarlo definitivamente (il valore è 0,9 del Pil circa 15 miliardi). A scanso di equivoci il governo non molla la presa su Bruxelles: la flessibilità «ce la siamo guadagnata perché abbiamo fatto riforme e investimenti » ed è «sbagliato» non prolungarla nel tempo, ha detto il ministro per lo Sviluppo Calenda a L’intervista di Sky Tg24.

Sostanzialmente la questione dell’Iva sarà risolta aumentando il deficit e spostando il livello del fatidico rapporto con il Pil al 2,3-2,4 per cento: in questo modo si coprirà completamente la differenza con il vecchio deficit tendenziale dell’aprile scorso (1,4-1,5 per cento: rapporto così basso perché dava per effettuato il pericoloso aumento dell’Iva di 2 punti) e superando di slancio l’1,8 programmatico che aveva già avuto un mezzo via libera da Bruxelles. Insomma per evitare l’aumento dell’Iva non dobbiamo fare tagli ma ci basta aumentare il deficit.

La boccata di respiro c’è, necessaria per rilanciare la nostra economia, ma per arrivare ai 22-24 miliardi di manovra lorda (cioè il mancato aumento dell’Iva per 15 miliardi coperto con la nuova flessibilità più i 7-8 di nuovi interventi sull’economia) restano da trovare ancora nuove risorse. Si tratta infatti di finanziare le misure sulle pensioni, i contratti degli statali, povertà, Industria 4.0 (superammortamento, imposta unica per le società di persone, salario di produttività), ecobonus e interventi sui condomini, bonus scuola-bis, investimenti, terremoto.

Dunque la “nuova flessibilità” o comunque la decisione di portare l’asticella del deficit più in alto non basterà e si dovrà mettere mano alle forbici, operazione che tuttavia potrà essere indicata solo sommariamente nell’imminente “nota“ al Def e che sarà contenuta nella legge di Bilancio che potrà arrivare in Parlamento entro un paio di settimane.

La caccia ai 7-8 miliardi è aperta da tempo, ma stando alle ultime indicazioni il menù si starebbe focalizzando. Non è affatto escluso il taglio, o aumento ridotto, al fondo sanitario nazionale pari ad un miliardo. Il complesso della spending review resta ben saldo anche se la cifra dovrebbe assestarsi intorno ai 2 miliardi tra operazione tradizionale sull’acquisto di beni e servizi e ed altri risparmi cui vanno aggiunti 500 milioni dalla chiusura delle società partecipate. Il resto verrà da maggiori entrate: la prima misura in ballo è la voluntary disclosure [cioè un premio agli evasori fiscali che si pentono un po'- n.d.r.]- bis per la quale si stimano 1,5 miliardi di gettito sulla base di una ipotesi di capitali da recuperare fino a 30 miliardi.

L’altra posta sulla quale conta molto il governo è il cosiddetto split payment, una norma che consente da circa un anno all’amministrazione pubblica di trattenere l’Iva dei fornitori assicurando un versamento sicuro e integrale: il gettito sarebbe maggiore del previsto e potrebbe essere cifrato in 1,5 miliardi. Il resto verrà da interventi fiscali sui giochi e dalle frequenze per circa 500 milioni.

Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2016 (p.d.)

Portare il freddo in Africa per evitare che il cibo prodotto venga buttato prima di arrivare sul tavolo dei consumatori. In un’epoca di tecnologie avanzate, uno spreco davvero paradossale, soprattutto in un continente dove la fame uccide così tanto”: è questa l’ultima scommessa di Madi Sakande, originario di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, in Italia dal 1997, alla guida di una storica azienda di refrigerazione e climatizzazione a Calderara di Reno, nel Bolognese.
Una storia di sfide e successi quella di Sakande, classe 1972, sbarcato dal Burkina Faso con un visto turistico per fare visita a un parente immigrato, un periodo di clandestinità e una sanatoria nel 98. A 25 anni, la voglia di esplorare il mondo e il sogno nel cassetto di diventare calciatore lo portano in Italia. Un sogno infranto per via di un infortunio in pieno allenamento sportivo nel Foggiano, pochi mesi dopo il suo arrivo. Guardandosi indietro, Sakande ricorda: “Al mio arrivo in Italia non capivo niente quando mi parlavano. Conoscevo solo la parola ‘ciao’, quella della mascotte italiana ai mondiali del 90. Al l’inizio la difficoltà maggiore era di non potere comunicare!”. Nel Sud Italia, come molti dei suoi connazionali, ha lavorato nei campi, alla raccolta dei pomodori e “quando sei senza documenti, ti sfruttano come se fossi uno schiavo”.

La svolta è arrivata dopo il trasferimento a Bologna. Grazie ad una formazione scientifica e all’esperienza professionale nel settore dei frigoriferi nel paese di origine, per dodici anni Sakande si è fatto le ossa in un’azienda del settore del freddo e condizionamento per la quale ha curato l’ufficio commerciale, girando per tutta l’Emilia Romagna e l’Italia, diventando responsabile della clientela anche nei paesi dell’Europa dell’Est. “Non mi sono mai perso d’animo di fronte a pregiudizi e ostacoli, facendo affidamento sulla mia determinazione e forza interiore – confida – ispirandomi alla grande figura di Thomas Sankara, ho capito che se vuoi cambiare la tua vita e il mondo che ti circonda la rivoluzione deve cominciare dentro di te. Dalle difficoltà nascono le opportunità più grandi di crescita. E questo è sempre stato un mio cavallo di battaglia”.

Nel 2010, la voglia di realizzare un progetto professionale in proprio per “non dipendere più da nessuno”. Con un gruppo di colleghi la decisione di cominciare una nuova avventura, prendendo il timone della New Cold System srl, (allora Cold System, prima ancora conosciuta come ditta Tovoli Aldo, ndr) azienda con 60 anni di esistenza che stava attraversando un periodo di crisi. “Abbiamo subito capito che dovevamo puntare su formazione e innovazione se volevamo farla crescere. Il settore della refrigerazione e climatizzazione è in piena trasformazione e crescita per via dei cambiamenti climatici e del mutato stile di vita.

Così, giorno dopo giorno, io per primo, con soci e dipendenti abbiamo seguito corsi di formazione continua affinché ogni nostro progetto fosse davvero innovativo” dice con entusiasmo Sakande, che è anche docente del Centro Studi Galileo e consulente dell’Unido (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale) per la formazione e la certificazione dei tecnici e delle aziende a norma CE 303/08.

Un ulteriore riconoscimento è arrivato lo scorso giugno con l’assegnazione del Premio all’Imprenditore Immigrato del 2016, rappresentante di eccellenza di tutte e cinque le categorie (crescita, occupazione, innovazione, imprenditoria giovanile e responsabilità sociale) all’ottava edizione del concorso del Money Gram Award. In passato era già stato premiato come migliore imprenditore all’Africa-Italy Excellence Award.

Con nove dipendenti e un fatturato di circa 2 milioni di euro, la New Cold System srl vende i suoi prodotti esclusivamente alle aziende e trasmette il suo know-how progettando impianti ad hoc innovativi sul mercato italiano, ma sta puntando sempre di più all’internazionalizzazione.

Per ottobre sarà pronto un impianto di refrigerazione alimentato con energia solare che potrà essere utilizzato per conservare carne, pesce, frutta e verdura nelle zone più remote dell’Africa, quelle senza corrente elettrica. Fino ad oggi l’interruzione della catena del freddo costringe a buttare tra il 50 e 70% di quello che si produce. “Il mio impegno professionale va oltre l’aspetto tecnico-commerciale: è doveroso mettere la proprie competenze al servizio della società, specie in quelle zone in difficoltà – conclude Sakande – che conosco bene. Allo stesso modo, nel nostro quotidiano dobbiamo ritrovare umanità e non smettere mai di lavorare in modo costruttivo per le generazioni future, superando paure e pregiudizi”.

Una visione ottimistica della proposta di "modifica ragionevole" della Costituzione. Se son rose fioriranno, e a noi le rose piacciono.

Il manifesto, 4 settembre 2016

La proposta d’Alema sull’oggetto del referendum (e gli effetti sul collegato italicum) colma un vuoto nel confronto tra noi del “No” e i sostenitori del “Sì”. Il vuoto di una proposta riformatrice del testo costituzionale, per una autentica “revisione”. Insisto: revisione, non eversione della forma di governo (e di stato) premeditata e avviata a mezzo dei due combinati mostriciattoli Renzi-Boschi.

A quel che si legge, D’Alema proporrebbe: a) la ridefinizione del rapporto di fiducia al governo in modo che intercorra con la sola camera dei deputati, il superamento quindi del bicameralismo perfetto; b) la riduzione del numero dei membri del parlamento a 400 per la camera e a 200 per il senato, (in totale, trenta in meno del numero attuale dei soli deputati) per contenere l’estensione del ceto parlamentare alle funzioni da svolgere a seguito del riparto delle competenze con l’Ue; c) la soppressione del Cnel e delle province, d) le modifiche al Titolo V segnalate dalla decennale giurisprudenza della corte costituzionale.

Il tutto si tradurrebbe in emendamenti a 5 o 6 soli articoli della Costituzione, come notava, giovedì scorso, su questo giornale, Massimo Villone. Li chiamo “emendamenti” a ragion veduta.

Come tali dovrebbero essere e dimostrare di essere, non solo pertinenti formalmente, ma logicamente coerenti al testo della Costituzione e al suo spirito.

I meriti della proposta vanno sottolineati. Non soltanto e non tanto perché dimostrano l’infondatezza della accusa al “no” di cieco conservatorismo delle … virgole della Costituzione. Ma perché, di fatto e con rilevanza politica assai notevole, trasforma il “no” in un “sì” a una diversa modifica della Costituzione che accoglierebbe le proposte revisioniste oneste rendendole di costituzionalità indubitabile.

La proposta inoltre, offre ai sostenitori del “si” al governo e/o in parlamento, una chance che sarebbe grave rifiutare. Quella di dimostrare, accogliendola, che i loro intenti non sono affatto quelli temuti e da noi motivati e denunziati e che perciò essi sono disposti a raggiungerli anche in modi diversi dai contenuti della Renzi-Boschi che allarmano così tanto vasti settori dell’opinione pubblica. Modi che già hanno il favore delle minoranze parlamentari e che, con quello del Pd, in ambedue i rami del parlamento, costruirebbero un consenso adeguato per una revisione costituzionale degna di questo nome. Rifiutare tale proposta dimostrerebbe tutta la perversità del disegno istituzionale renziano.

Ci si deve però chiedere come e in che senso la proposta D’Alema (da spersonalizzare chiamandola, ad esempio, «dei cinque emendamenti alla Costituzione») possa essere accettata. È difficile immaginarlo ma ci si può provare. Sapendo che il suo presupposto è la vittoria del “no” ed è indefettibile. A tale presupposto dovrebbe corrispondere se non un sì, qualcosa che, senza somigliargli troppo, non gli si opponga. Lo si può ipotizzare come giudizio positivo sulle singole parti della proposta, su ciascuno degli emendamenti alla Costituzione. Sarebbe quindi auspicabile, e non solo da questo punto di vista, la presentazione alla camera e al senato di un progetto di legge costituzionale con tale contenuto.

La proposta intanto ha sortito un successo importante e immediato. Renzi ha riconosciuto che «se vince il “no” non casca il mondo».

Non si deve escludere perciò un ulteriore ripensamento di Renzi. A fronte dell’eccesso dei toni che ha lamentato riconoscendo la sua parte di responsabilità, potrebbe decidere, in nome dell’unità politica della Nazione sulla Legge fondamentale della Repubblica, di uscire dalla mischia, elevandosi al di sopra di essa quale presidente del consiglio e lasciare al corpo elettorale la più ampia e serena autonomia decisionale su tutte e due le alternative in campo. Quella della legge costituzionale sottoposta al referendum respingendola e quella che potrebbe ottenere un più ampio consenso. Di fronte a tale sua decisione non potremmo che riconoscerli il più alto senso di responsabilità istituzionale.

Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2016

E' una fortuna che la Festa del Fatto a Roma si sia tenuta sabato e domenica, perché ieri è uscito un articolo del ragionier Claudio Cerasa, direttore del Foglio e noto scienziato della più moderna sismologia, che inchioda con dovizia di prove l’organizzatore occulto del recente terremoto e di chissà quanti altri passati: Salvatore Settis. Se l’articolo, putacaso, fosse uscito venerdì o sabato, le forze dell’ordine non avrebbero avuto altra scelta che irrompere al Foro Boario, circondare il nostro palco e arrestare il professor Settis lì davanti a tutti. Invece la cattura del putribondo untore sismico avverrà – ne siamo certi – nelle prossime ore, a festa ormai chiusa. Va da sé che, se avessimo appreso per tempo le responsabilità del facinoroso cattedratico, ben ci saremmo guardati dall’invitarlo alla festa. Ma, purtroppo, non si riesce mai a pensar male di certa gente ed è una fortuna che il giornalismo investigativo ci regali ancora pagine di denuncia di così alto valore civile. Già il titolo cerasiano è da Pulitzer: “Il sisma e i danni dell’Agenda Settis”. Ecco cos’era quel quadernetto che sabato gli abbiamo visto estrarre furtivamente, con fare sospetto, dalla borsa: l’Agenda Settis. Prima di sfoderare le prove a suo carico, il rag. Cerasa la prende un po’alla lontana: “Parte dell’opinione pubblica italiana tende a negare che possano esistere delle tragedie naturali, in cui non esiste altro colpevole se non la forza della natura”.

Sante parole: c’è un sacco di gente strana che si fa domande bizzarre, tipo perché in Giappone i terremoti di magnitudo 6 o 7 non fanno cadere un calcinaccio e non ammazzano neppure un moribondo, mentre da noi ogni volta è un disastro e una strage. Complottisti d’accatto, iscritti al “giustiziere collettivo, alla ricerca ossessiva di un capro espiatorio”. Incapaci “di accettare un dolore che non si può imputare a nessuno se non, come direbbe Giacomo Leopardi, alla ‘natura matrigna’” (segue citazione dal trattato di sismologia “A Silvia”). Siccome, “con tutta la tecnologia migliore del mondo, il terremoto non sarà mai a rischio zero”, è inutile cercare di ridurre i pericoli al minimo, costruendo case antisismiche. Anzi, molto meglio continuare a edificare con la sabbia e la cartapesta, anche se l’ideale sarebbe proprio tornare alle palafitte e alle capanne di fango, così si risparmia sui lavori e si mettono da parte i soldi per i funerali, che sono l’unica certezza della vita. Tanto prima o poi bisogna morire: chi può si porti avanti col lavoro, vuoi mettere la soddisfazione di crepare imprecando alla natura matrigna?

Chi poi cercasse altri colpevoli, distolga lo sguardo dai costruttori senza scrupoli e conservi lo sdegno per i veri responsabili: l’“internazionale del benecomunismo” che da decenni “inietta un virus nelle arterie del nostro paese”. Un virus che ci porta a pensare che “la modernità è un problema, il progresso ci ha corrotto e il ritorno al passato, allo stato di natura, quando tutti eravamo felici e non c’erano ogm, non c’era acqua privata, non c’erano treni ad alta velocità, non c’erano palazzi moderni costruiti ovviamente da affaristi e costruttori vicini alle mafie, è l’unica soluzione possibile”. Eccoci a Settis: il quale deve aver sostenuto da qualche parte – non sappiamo dove né quando, ma se lo dice il rag. Cerasa dev’essere vero – che senza ogm, acqua privata e Tav non ci sarebbero terremoti. E che “la colpa è sempre del progresso, mai della natura e mai tantomeno – come ha ricordato sul Foglio Umberto Minopoli – degli ambientalisti che hanno imposto al paese battaglie farlocche”.

Capito che fa, quel diavolo di Settis? Per depistare le indagini e occultare le prove delle sue colpe nei terremoti, non solo ignora gli scritti di Minopoli (il che è già grave), ma dà pure un’intervista al Fatto da cui il rag. Cerasa desume che “i terremoti creano danni perché l’Italia ha perso tempo a inseguire il progresso costruendo treni ad alta velocità”. Mentre è universalmente noto che l’unico antidoto ai danni sismici è fare migliaia di Tav. E poi cementificare e asfaltare tutto, pure i fiumi e possibilmente il mare, così ogni pioggerellina diventa alluvione. E sradicare quelle poche, orrende piante rimaste a frenare la libera iniziativa delle frane. La natura matrigna va privata di ogni laccio e lacciuolo per innescare il meccanismo virtuoso dei terremoti, delle alluvioni e delle frane, dunque delle ricostruzioni. Solo così si aiuta il progresso, la crescita e il Pil, rilanciando l’edilizia e un altro settore in crisi: quello delle casse da morto. Chi pensa che il progresso consista nel costruire o ristrutturare le case con le più moderne tecnologie antisismiche – come hanfatto in Giappone e in California, ma anche a Norcia, luoghi purtroppo contaminati dal più ottuso benecomunismo – si vergogni e arrossisca. Se le case non crollano e non si può più costruire sui greti dei torrenti, alle pendici dei vulcani e sugli orli dei burroni, dove andremo a finire?

A questo punto qualcuno si domanderà dall’alto di quale cattedra il rag. Cerasa insegni a vivere a Settis, noto incompetente che insegna archeologia da una vita, ha diretto la Normale di Pisa e il Getty Center for the History of Art and the Humanities, è membro dei Lincei e di una dozzina di accademie europee e americane, ha guidato il Consiglio Superiore dei Beni Culturali, ha una Cátedra al Prado e presiede il consiglio scientifico del Louvre. Robetta, dinanzi al curriculum del nostro ragioniere che – come scrive di se medesimo – “lavora al Foglio da 10 anni, è interista, ma soprattutto palermitano, va pazzo per i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate”. Ma, soprattutto, “è su Twitter”. Settis gli fa una pippa.

«“Rifondazione.it, 29.agosto 2016 (c.m.c.)

C’è voluta la dichiarazione del vice cancelliere tedesco e ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, per mettere la parola fine ai negoziati sul TTIP, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, di cui si è concluso nel luglio scorso a Bruxelles il 14° round negoziale.

In un’intervista alla rete ZDF Gabriel ha dichiarato che i negoziati sul TTIP sono «di fatto falliti perché noi europei non possiamo accettare supinamente le richiesta americane». Un colpo pesante a quei Paesi membri, Italia in testa, che del Trattato Transatlantico era sostenitori in prima persona.

«Una dichiarazione importante perché fa proprie le preoccupazioni della società civile europea e statunitense» dichiara Monica Di Sisto, portavoce della Campagna Stop TTIP Italia.«Ma c’è comunque da tenere gli occhi aperti: se Sigmar Gabriel sottolinea ciò che da anni hanno sostenuto Stop TTIP Italia e le altre campagne europee, questo non significa che non possa trattarsi di tattica negoziale. Capiremo cosa accade al Consiglio Europeo di Bratislava di settembre dove, tra l’altro, si parlerà anche del preoccupante Accordo con il Canada, il CETA, già approvato ma che grazie alle pressioni dal basso abbiamo ottenuto che venga ratificato anche dai Parlamenti nazionali, senza esautorare i nostri Parlamentari da una decisione così importante per l’economia del nostro Paese. Da Bratislava dovrà uscire un secco stop al TTIP e al CETA, come richiesto dalla maggioranza dei cittadini europei».

«La dichiarazione di Sigmar Gabriel dovrebbe aprire un serio dibattito interno all’Europa e al nostro Governo su come vengano decise le priorità politiche ed economiche» sottolinea Elena Mazzoni, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP Italia. «Ma l’eventuale e auspicato blocco del negoziato TTIP non risolve il problema: l’accordo con il Canada ormai approvato va bloccato in sede parlamentare, facendo mancare la ratifica da parte di alcuni Paesi membri.
Hanno sempre presentato il CETA come precursore del TTIP: una sua approvazione presenterebbe molti dei problemi che il TTIP portava con sé, a cominciare dal dispositivo di tutela degli investimenti, la cui riforma non ci rassicura per nulla sulla tenuta dei diritti sociali e ambientali».

«Una buona notizia, emersa grazie a milioni di persone che si sono opposte e a una pressione dal basso che ha chiesto a gran voce di non derogare sui diritti e sulla qualità» dichiara Marco Bersani, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP Italia. «Ma un risultato così importante per la società civile non deve farci dimenticare che serve un vero e proprio ribaltamento della politica commerciale europea, ad oggi basata troppo sulla spinta verso la liberalizzazione dei mercati e l’austerità, e troppo poco verso un processo realmente rispettoso delle persone e dell’ambiente».

Analogie e grandi misteri della resa dei conti dei potenti di Cina e Turchia. Ricordi personali di un viaggiatore tra grandi folle tranquille e grandi folle arrabbiate, tra cortei democratici e cortei fanatici.

La Repubblica, 23 agosto 2016 (m.p.r.)

Quel che sta succedendo in Turchia mi ricorda un altro paese in preda alle convulsioni. Esattamente cinquant’anni fa, era il 18 agosto 1966, c’era stato a Pechino il primo grande raduno delle guardie rosse. Anziché bandiere rosse con la mezzaluna, in milioni in Piazza Tiananmen agitavano un rossissimo libriccino, fresco di stampa, rilegato con le copertine di plastica rossa fornite dalla nostra Montedison.

Mao si limitò a indossare il bracciale. Accanto a lui c’era Lin Biao, uno dei dieci marescialli, quello che aveva inventato il Libretto rosso. La conta dei dirigenti e generali che mancavano sul podio della Porta della pace celeste servì a capire chi era stato fatto fuori. Lo si seppe molto dopo: era una reazione a quello che, nella sua paranoia, Mao riteneva un fallito colpo di Stato militare ai suoi danni. Le guardie rosse, ragazzine e ragazzini in età scolastica, furono usate in un’operazione di linciaggio di massa degli avversari politici. Manifestavano, torturavano, saccheggiavano, umiliavano, uccidevano con estrema convinzione, con entusiasmo e fanatismo di tipo religioso. E con la benevola approvazione del presidente per antonomasia. In pochi giorni ci furono migliaia di morti nella capitale.

Sarebbe durata dieci anni. I morti negli scontri tra fazioni contrapposte sarebbero divenuti decine di milioni, coloro che ne subirono le conseguenze centinaia di milioni. Fazioni rivali si diedero battaglia con le armi pesanti. Lin Biao, nominato successore designato di Mao, fece intervenire l’esercito a riportare ordine. Poi sarebbe stato abbattuto con un missile mentre tentava di fuggire in Unione sovietica: anche quello un misterioso golpe fallito. Quando anche a Mao sembrò che le guardie rosse esagerassero, un’intera generazione fu deportata a “rieducarsi” in campagna. Tra questi i massimi dirigenti di oggi, Xi Jinping compreso.

Quando ero corrispondente a Pechino, l’allora segretario del Partito comunista cinese Hu Yaobang mi disse che la rivoluzione culturale era uno dei dieci grandi “misteri” della recente storia cinese su cui ancora andava fatta luce. Era appena tornato dalla Corea dei Kim dove era stato accolto con i consueti bagni di folla osannanti. «Noi in Cina abbiamo una certa esperienza di come portare in piazza folle sterminate. Ma loro come fanno a fargli venire anche le lacrime agli occhi?», mi disse con un sorriso ironico.

Sono convinto che questa sua insistenza su chiarimenti storici e l’altra sua affermazione, sulla necessità di una “riforma politica” che accompagnasse quelle economiche, siano tra le ragioni della sua defenestrazione nel 1986. La protesta degli studenti nel 1989 era partita come omaggio a Hu. Curioso, la motivazione con cui Deng Xiaoping diede l’ordine di massacrarli con i tank fu: mai più guardie rosse, caos e anarchia come la rivoluzione culturale. Da allora i misteri restano. Hanno avuto uno sviluppo strepitoso. Ma senza democrazia.

Tra i tanti misteri ce n’è uno che riguarda noi. A decenni di distanza, non riesco a capire come mai quel caos permanente, quella storia d’orrore durata un decennio, quella resa dei conti spietata tra fazioni politiche abbia affascinato tanta parte della mia generazione. Non solo i giovani, ma anche alcuni tra i più prestigiosi intellettuali dell’Occidente. Perché rispondeva a un bisogno di novità, di palingenesi, di rottamazione dell’esistente, di pulizia e onestà, disgusto per il marcio, di voglia di credere nel futuro, di credere in qualcosa? Per il modo in cui veniva propinata la favola? Spero (direi prego se fossi credente) che siamo vaccinati.

In mezzo secolo da giornalista ne ho viste di grandi folle. Ai funerali di Berlinguer c’ero. Alla demolizione del Muro di Berlino no, ma la vidi in diretta, così come la folla che accolse Mandela liberato dal carcere. Sono portato invece a diffidare delle folle arrabbiate: mi ricordano i pogrom di cui sono stati regolarmente vittime i miei antenati ebrei. Non mi fece paura invece l’immenso corteo che si snodò fino all’aeroporto di Teheran per il ritorno dall’esilio di Khomeini il 1 febbraio 1979. C’era tutto il popolo, compresi quelli che di lì a poco sarebbero stati perseguitati dagli integralisti. Al corteo che dieci anni dopo accompagnò Khomeini e quasi rovesciò la bara si respirava invece fanatismo puro.

In Cina ancora non si vota. In Iran sì, e ora c’è al governo un moderato, anche se ha a che fare con resistenze micidiali da parte della vecchia guardia. In Turchia Erdogan è stato votato, anche se non da una maggioranza assoluta. Ora punta a imporre il controllo assoluto con altri mezzi. La mappa degli ultimi risultati elettorali in Turchia somiglia in modo inquietante alla mappa del voto per la Brexit in Gran Bretagna, a quella delle ultime elezioni in Iran, e alle mappe che si potrebbero disegnare se vincesse Trump in America, o la Le Pen in Francia: immense periferie arrabbiate (le campagne avrebbe detto Mao), che assediano le città delle élite.

Un’ultima nota di comparazione: per scaramanzia, se non altro. La Cina della Rivoluzione culturale aveva già l’atomica. Il mondo non sapeva in mano a quale delle fazioni che si scannavano potesse finire. Per anni si è scatenato un bailamme attorno al fatto che l’Iran vuole dotarsi di centrali nucleari. Per il timore che un giorno si facciano anche la bomba. Non ho invece sentito esprimere analoghe preoccupazioni per il fatto che la prossima potenza nucleare potrebbe essere la Turchia.
La prima centrale gliela sta costruendo la Russia. E questa potrebbe essere una delle ragioni del riavvicinamento. Anche se al momento nessuno ipotizza che Ankara voglia farsi la bomba.

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